7 dicembre 2014
DUE O TRE COSE CHE PENSO DI RENZI. PARLA ARTURO PARISI
Intervista a Mario Lavia, Europa Quotidiano
Professor Parisi, partirei dalla fine, cioè da questi giorni. La domanda è semplice ma difficile al tempo stesso: in questo tornante difficilissimo, fra scandali e crisi economica che non molla, c’è un appannamento dell’immagine di Matteo Renzi? Lo dicono i sondaggi ma anche una percezione diffusa.
Che i picchi di giugno siano ormai un ricordo mi sembra fuori discussione. Sia che si guardi al governo, al Pd o alla persona di Renzi, gli indici di oggi ci dicono che la vetta delle elezioni europee è alle nostre spalle. Andremmo tuttavia fuori strada se concentrandoci sul ridimensionamento del secondo semestre dimenticassimo l’enormità del primo. Solo quel balzo che tradusse in quantità elettorale la qualità politica impressa da Renzi offrì allo stesso tempo ai voti moderati una alternativa a Berlusconi, e interruppe la dirompente ascesa del grillismo aprendo tra le sue file una stagione di ripensamento. Immaginiamo cosa sarebbe successo se si fosse confermato non dico il primato ma anche solo il successo registrato l’anno prima dai pentastellati. Ad un anno dalle primarie dobbiamo ricordarlo senza esitazione. Grazie alle qualità e diciamo pure agli stessi difetti della iniziativa di Renzi la dinamica che si era aperta cambiò il suo verso. Il riconoscibile mandato raccolto nelle primarie fu la leva che consentì a Renzi quello che non era stato possibile a Letta: investire sul cambiamento per ritrovare una continuità, invece di investire sulla continuità nella prospettiva di un cambiamento. In luogo della promessa di riforme “tra 18 mesi… a partire da domani”, l’affermazione di Renzi propose infatti fin dall’inizio un percorso riformatore “a partire da oggi”. Ma...
Ma?
Ma chi avesse approfondito la lettura dei sondaggi e soprattutto cercato dietro le apparenze delle percentuali legali la misura dei voti reali, come peraltro anche i dati sull’astensione ci hanno recentemente ricordato, già a giugno avrebbe dovuto riconoscere che se enorme, reale, e determinante era il balzo che con quel 41% avevamo fatto rispetto alle politiche non inferiore era la distanza che separava ancora la realtà dall’apparenza. Diciamo all’ingrosso che, se in una elezione politica il Pd avrebbe comunque conquistato a maggio non meno di 7 punti percentuali in più rispetto ai 25,5 raggiunti nel 2013, altrettanti ne mancavano per poter dare acquisiti i 41 che nei manifesti del partito descrivono ancora oggi l’eccezionale galoppata di quest’anno.
Guardando dentro quel voto cosa dice oggi, Parisi?
Quel 41 il Pd non lo ha ancora nel sacco. Non è una grande scoperta, ma dal tono delle dichiarazioni che da allora vanno celebrando quel dato sembra invece che sia un fatto del quale si tende a dimenticarsi. Prima se ne prende atto e meglio è. Sia quando si congettura sui prossimi risultati elettorali, sia quando si ragiona sulle soglie della legge elettorale. Nonostante i livelli di consenso restino comunque alti, la comprensione che tra il già detto e il da fare si è ancora in alto mare aiuterebbe a difendersi da possibili depressioni future e da quelle già oggi incipienti. Come lei stesso ha ricordato è infatti difficile negare che la congiuntura psicologica stia cambiando e cambiando in peggio. E’ su questo che conviene concentrarsi.
Lui si è dato la missione di rinnovare la politica ma non è che Renzi sta scontando una ulteriore fase di allontanamento dei cittadini dalla politica?
Certamente. Ma per capire meglio cause ed effetti conviene alleggerirsi dall’accezione che identifica con troppa semplicità l’allontanamento dalla politica con l’allontanamento dai politici. Abituati a identificare le due cose, sono gli stessi politici ad alimentare questa confusione accusandosi l’un l’altro o difendendosi dalla imputazione di questa responsabilità, con l’intenzione e l’illusione di intestarsi, ognuno contro l’altro, la rappresentanza di questo sentimento e comportamento. Io ho invece paura che la natura di questo allontanamento sia più grave e profonda. Se l’allontanamento fosse da un partito, più che dalla politica, potremmo leggerlo come un passaggio intermedio aperto ad un ritorno o che annuncia un avvicinamento successivo ad un altro partito. Descriverebbe una dinamica che resta e si svolge ancora dentro il perimetro della rappresentanza istituzionale. Dobbiamo invece chiederci se esso non rappresenti un vero e proprio allontanamento dalla politica. “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio” diceva Don Milani “sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è politica”. Il suo era un appello morale, non un’analisi sociologica. Ma la premessa è la stessa. Ho infatti idea che l’allontanamento al quale stiamo assistendo stia a significare che i cittadini stanno perdendo fiducia nella azione collettiva.
Sembra che in troppi dicano “Ho capito. È meglio che mi arrangi da solo. A mettermi assieme agli altri ho poco da guadagnarci”. Sia che si decida di emigrare, sia che ci si ritiri nel calcolo individuale. Forse tra gli elettori della sinistra, che un tempo votavano per appartenenza ed ora sempre più solo per abitudine, residua maggiormente un sentimento che propone l’astensione come un altro modo di partecipare un altro modo per dire ai propri politici la protesta e la rabbia. Ma per i più, e soprattutto a destra, allontanarsi è dire: “a mettersi assieme si perde solo tempo e ci si fa il sangue amaro”. Forse è solo alla differenza relativa della diffusione di questo sentimento tra la destra e la sinistra, che si deve la crescita apparente della sinistra in termini percentuali. Al fatto che a sinistra si allontanano in meno. Ma si allontanano lo stesso.
Professore, quindi secondo lei c’è qualcosa di soggettivo più profondo?
Sì. Dire che gli italiani hanno perso fiducia nella politica equivale a dire che hanno perso fiducia in sé stessi come nazione. Ci sono a questo proposito due dati che non riesco a dimenticare. Il primo riguarda una ricerca internazionale del Pew Research Center di qualche mese fa che mette a confronto 44 paesi scelti in modo tale da rappresentare tutti i livelli di sviluppo. Ebbene sa quanti sono tra gli italiani quelli che pensano che le cose non vadano male? Tre su cento. Se non fosse per la solita Grecia dove questi sono due, saremmo ancora una volta gli ultimi. Ma anche se non siamo mai stati ottimisti, non è stato sempre così. Un altro dato è una indagine dello stesso istituto sulla affidabilità dei diversi paesi europei pubblicata dall’Economist, che, forse non casualmente, non ho mai sentito citare. Ebbene ad una domanda su quale fosse il Paese più affidabile, in sette paesi sugli otto analizzati la risposta è stata: la Germania. Compresi noi italiani.
Forse non ci si sorprenderà se alla domanda su quale sia invece il Paese del quale ci si può fidare di meno 3 su 8 hanno risposto: l’Italia. Quello che tuttavia colpisce è che tra i 3 che diffidano di noi compaiono gli stessi italiani. Questa è la fiducia che manca. Non quella nel governo, che è stata sempre poca, ma quella in noi stessi. Questa è la scommessa che sta difronte a Renzi: non tanto l’aumento della delega e della fiducia verso di lui, ma quella degli italiani in sé stessi. Il problema non è quindi quello di tornare ai picchi di giugno relativi al governo, ma almeno alla fiducia che raggiungemmo in passato verso noi stessi come nazione almeno durante l’ultimo famigerato ventennio del quale sento parlare con troppa leggerezza.
Insomma, queste difficoltà non si devono solo al fatto che i risultati sono lontani dalle promesse.
E come potevano essere vicini? Ecco perchè è necessario definire meglio la natura e la misura dei nostri mali. Nella azione di governo la velocità è certo un corollario necessario, e urgente è l’affermazione di una rottura con l’immediato passato. Da questo punto di vista la scarica di energia trasmessa da Renzi è stata a mio parere fondamentale. Ma, se la depressione del Paese è ancora così profonda e diffusa, è difficile sperare che la velocità nella partenza si traduca in velocità nell’arrivo. Anche se sembra banale non c’è, dal punto di vista concettuale e comunicativo, un modo più semplice per parlare di un problema che dire del del tempo che riteniamo necessario a risolverlo. Dire che pensiamo di risolverlo in 10, 100, o 1000 giorni significa infatti dire della sua natura, della sua misura, della sua storia, delle responsabilità che sono alla sua origine, e di noi stessi che promettiamo di risolverlo.
Il premier a un certo punto ha capito che serve darsi tempi più lunghi…
Passare dai 100 ai 1000 giorni è stato da questo punto di vista un cambio di passo comunicativo importantissimo. Ma se l’epicentro del nostro problema è, come io penso, nella società non meno che nel governo, prima si allunga l’orizzonte temporale e meglio è. Quello che conta è partire. E, nel nostro caso, questo spinge a pensare alle riforme istituzionali, come premessa per la partenza, per portare a compimento la transizione infinita e contraddittoria di questi anni. Ma una volta che abbiamo messo la prua sull’orizzonte del mondo, è necessario riconoscere che l’unità di misura del nostro tempo non è il giorno, nè il mese, e neppure l’anno, ma almeno il decennio. Anche e soprattutto in questo sta l’utilità del cambio di generazione, il passaggio di testimone ad un nuovo gruppo dirigente capace non solo di correr veloce, ma di correre a lungo. E’ esattamente quello che proprio a Renzi dissi pubblicamente qualche anno fa a Firenze, ragionando di rottamati e di rottamazione, e conseguentemente di riparatori e di riparazioni.
Non è quindi la “lentezza” nell’azione del governo il problema ma il contrasto con la velocità che impronta i proclami renziani?
Esattamente. Non credo infatti che le difficoltà presenti vengano dalla delusione nei risultati immediati. Se è vero che molti hanno criticato e addirittura deriso le promesse che all’inizio annunciavano una riforma al mese, pochi sono quelli che ci avevano creduto o fatto conto. Già la sensazione di essere ripartiti era infatti apparsa ai più un grande risultato. A fare problema non è la mancanza immediata di fatti conseguenti, ma la promessa di poter sciogliere in poco tempo grovigli percepiti come di lunga durata nella loro passata origine e nella soluzione futura, e le azioni inevitabilmente contradditorie messe in campo per dare come risolubili a breve nodi che a breve non possono essere risolti. E’ questo che alimenta lo scetticismo anche dietro un consenso apparente. E da qui nasce il sospetto che al posto di una attiva delega a fare stia spesso un assenso superficiale e passivo a lasciar fare senza una convinta fiducia che le promesse divengano fatti. Non è il tipo di consenso che può bastare al Paese, perchè possa riprendere fiducia in sè stesso.
Secondo lei, professor Parisi, Renzi può aver sottovalutato la difficoltà di governare, e di riformare? C’è stata una specie di “ingenuità” nel pensare che bastava arrivare nella stanza dei bottoni con un po’ di giovani e “cambiare verso” a un paese complicato come il nostro?
Non credo. Dietro le sue scelte più che l’ingenuità del giovane uomo di governo, sento piuttosto l’esperienza ereditata dal passato di uno che fa e respira politica da più di venti anni. La consapevolezza che in Italia il tempo del governo è per definizione breve e fuggevole. Altro che renziana! L’annuncite è una malattia tutta italiana figlia della instabilità di governo e della necessità di anticipare nelle parole fatti che tardano e quando arrivano non ci troveranno più al governo. La stessa che ci spinge a moltiplicare continuamente leggi e riforme, nonostante ci diciamo oberati come nessun altro Paese da norme e da lacciuoli. Il fatto che in questi mesi dagli atti amministrativi si sia passati alle leggi, dalle leggi alle deleghe, dalle deleghe agli schemi, dagli schemi alle slides, e dalle slides ai tweet è solo un dettaglio, figlio del tempo e della capacità di Renzi di parlare la lingua del nostro tempo.
C’è chi imputa a Renzi di essere “ansiogeno”. Di litigare con mezzo mondo, anche quando non pare strettamente necessario, vedi il rapporto con la Cgil. D’altra parte gli si muove la critica opposta, di essere troppo accomodante, troppo “dentro” le modalità tradizionali della politica: è una critica dei cosiddetti “renziani della prima ora”. Chi ha ragione?
A prima vista direi che in questa fase hanno prevalso le occasioni di tensione su quelle di accomodamento. E tuttavia non mi sembra che nella sostanza, pur portando spesso il confronto al limite, Renzi abbia finora mai superato la misura. Non sarei comunque io il più adatto a invitarlo alla moderazione. Chi avesse seguito lo svolgimento del mio rapporto con lui forse ricorderebbe l’invito col quale alla Leopolda lo incoraggiai tre anni fa (sembra un secolo!) a usare il pronome “Io” quando lui preferiva ancora nascondere la sua discesa in campo dietro il “noi” della sua generazione: la seconda dopo la guerra, venuta alla luce come lui a partire dal ’75, quella affacciatasi alla politica col primo voto maggioritario del ’94.
Dire “è il momento di dire “io” era allora per me l’invito ad aprire nel nostro Paese in politica e nella sinistra una nuova stagione nella quale ad ognuno sia consentito finalmente di alzare la mano (la sua!) per dire la disponibilità ad assumersi personalmente le proprie responsabilità, e sia chiamato alla fine a darne personalmente conto. Era un invito a riiniziare dalle singole persone, aprendosi a nuovi “noi” e a nuovi modi di dire “noi” ancora da scoprire e costruire. Era un invito a superare i vecchi “noi” rappresentati ancora dagli “io” di dirigenti vecchi che di questi “noi” pretendevano ancora la rappresentanza.
Non era certo in me un invito a rottamare nessuno come persona nè ad emarginarlo o escluderlo dalla partecipazione e dalla condivisione politica. Lo stesso auspicio di scioglimento dei vecchi partiti, che a nome de “i Democratici” avevo proposto a Veltroni nel Congresso Ds del 2000 a Torino, per poter finalmente fondare il Pd come partito unico del centrosinistra. E allo stesso tempo l’apertura di una stagione nuova nella quale tutti si potessero dare del tu chiamandosi per nome senza alcun altro aggettivo. Il mio “scioglimento” era certo un nome più gentile e adeguato di rottamazione. Ma pur riferito ai collettivi e non alle persone suonò allora e perciò rifiutato come se fosse la stessa identica cosa. Scioglimento o rottamazione che fosse, dare i vecchi “noi” come dissolti – lo riconosco – non poteva infatti non apparire per troppi che una minaccia, la contestazione del titolo in nome del quale si sta sulla scena e si pretende di continuare a parlare a nome di altri. Scioglimento o rottamazione che fosse invitare a parlarsi direttamente, senza più bisogno di intermediari, è appunto quello che, riferendosi a Renzi, molti chiamano oggi disintermediazione.
Eppure non è la negazione che possano esistere in futuro nuovi “noi”, ma l’affermazione che i vecchi “noi” sono diaframmi che vanno superati. Non sarò quindi io a contestare l’azione “destruens” attribuita a Renzi quando questa riguarda organizzazioni e dirigenze che è meglio superare. Questo è naturalmente un criterio e una linea di condotta che vale in generale, ma che va verificata in concreto volta per volta. Altra cosa sarebbe infatti se la rottura con ruoli, funzioni, e strutture di intermediazione producesse la perdita di contatto con settori della società per il partito importanti se non addirittura irrinunciabili. Una cosa sono i sindacati, un’altra i lavoratori come cittadini. Se è vero che vocazione maggioritaria impone di rivolgere a tutti la propria proposta senza preclusioni preconcette, è altrettanto vero che un partito piglia-tutti può rivendicare la rappresentanza di quella metà del campo che finora abbiamo chiamato sinistra solo se si fa carico dei bisogni dei più deboli non essendo ammissibile che questi restino senza rappresentanza. Dire vocazione maggioritaria, significa parlare a tutti e competere per la raccolta del consenso della maggioranza degli italiani senza delegare pregiudizialmente ad altri la rappresentanza di nessuno, a cominciare da quelli più prossimi.
Se lei dovesse dire qual è stato il principale errore di Renzi in questo anni cosa direbbe?
Il tono. E non è una cosa da poco. Qualche volta sembra che Renzi dimentichi che il tono è tutto, che è il tono a dare il senso ai contenuti. E non penso al tono col quale si rivolge ai forti ed ai potenti, ma ai deboli e ai perdenti. Io credo come lui che in questo passaggio della storia il nostro compito sia portare attraverso l’Europa l’Italia nel Mondo ed accettare quindi la sfida della globalizzazione. Non possiamo tuttavia dimenticare che il processo di globalizzazione va dividendo come una lama vincenti da perdenti alimentando un nuovo scontro di classe non immediatamente riconducibile a quello tradizionale tra capitale e lavoro. Soprattutto dopo la conquista del governo vedo invece affollarsi attorno a Renzi troppi vincenti, interpreti impazienti di una mobilità ascendente che scambiano la necessaria valorizzazione delle loro oggettive competenze con il riconoscimento dei loro meriti soggettivi in nome di una rinnovata ideologia meritocratica. È vero che a sinistra, sulla scia di uno slogan passato, i vincenti dichiarano il dovere di mettere i loro meriti al servizio dei bisogni degli altri. Ma nel discorso di Renzi l’eco di questa prospettiva suona talvolta con un tono troppo lontano. Una cosa è, ad esempio, parlare di fine del posto fisso a chi sente questa come una remora per la propria crescita. Un’altra parlarne facendosi carico dell’ansia di chi sente questa prospettiva come l’annuncio di una vita segnata stabilmente dalla precarietà.
Dopo 365 giorni da segretario del partito, quanto è cambiato il Pd?
Di certo più di ogni altra cosa. Anticipata nelle primarie dell’anno scorso si è prodotta una rivoluzione. Il risultato può non piacere perché ancora troppo imperfetto, ma il partito troppo a lungo prospettato nella stagione dell’Ulivo e annunciato nel momento della fondazione del Pd, come “partito unico” del centrosinistra in un sistema tendenzialmente bipartitico, come “partito nuovo” non semplice continuazione o somma di partiti passati, come “partito unito” attorno ad un progetto di governo, come “partito contendibile” anche se oggi solo dal punto di vita potenziale, come “partito strumento” degli elettori per determinare la politica nazionale, sembra ora vicino come mai lo è stato in passato. Certo fino a quando tutto il processo non è compiuto nulla è stabilmente acquisito. Certo troppe sono le cose che mancano ancora all’appello e non son cose da poco. Dal varo di una riforma elettorale e istituzionale che riconosca ai cittadini il diritto di scegliere il governo e di eleggere i propri rappresentanti, allo sviluppo nel campo di centrodestra di un partito egualmente capace di competere per il governo e di animare così la nostra democrazia. Certo dentro lo stesso Pd anche le acquisizioni che hanno prodotto il cambiamento – penso innanzitutto alle primarie – sono ancora lontane dall’essere stabilmente acquisite ed anzi, perfino da parte di Renzi, sembrano di nuovo messe in dubbio. Ma in poche altre annate come nell’anno che ora si conclude si è assistito in modo così intenso alla accelerazione del processo che ha attraversato l’ultimo ventennio.
Ripeto: può non piacere. E anche a me per molti versi non piace. Sento in particolare l’assenza di una vera dialettica interna che, superando definitivamente l’unanimismo e il trasformismo ereditati dal passato, metta alla prova la sintesi finora proposta da Renzi, attraverso un confronto aperto ad una competizione per la leadership compiutamene politica. Una vera dialettica politica e culturale, che si lasci alle spalle i caminetti oscuri figli e nel contempo padri di un partito pensato come una confederazione di tribù personali più che di correnti politiche. Ma non è a Renzi, e comunque non a lui solo che si può far colpa di questa assenza e di questo ritardo. Chi non concorda con la sua linea alzi la mano – la sua – e nel confronto con Renzi ci aiuti nel caso a cercare un altro futuro dentro il solco del cammino che con tanta fatica abbiamo intrapreso.
Da -
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