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Autore Discussione: Daniela MINERVA  (Letto 3364 volte)
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« inserito:: Novembre 28, 2012, 11:49:12 pm »

Inchiesta

Chi uccide la salute

di Daniela Minerva


Secondo Monti, il Servizio Sanitario Nazionale potrebbe "non essere più garantito" per mancanza di fondi.

Uno spettro che si aggiunge al dramma dei farmaci salvavita mancanti. Per colpa della burocrazia. E non solo

(27 novembre 2012)

«Il nostro Sistema sanitario nazionale, di cui andiamo fieri, potrebbe non essere garantito se non si individuano nuove modalità di finanziamento»: Lo ha detto il presidente del Consiglio Mario Monti, intervenendo per telefono a un convegno che si teneva a Palermo. Parole che sono subito rimbalzate sui telegiornali e in Internet, con reazioni di preoccupazione e di rabbia.

Quella di Monti  sicuramente non era una minaccia, ma l'effetto è stato comunque deflagrante. E lo spettro di medici di base o di ospedali pubblici che non garantiscono più appieno il loro servizio gratuito va ad aggiungersi alle polemiche sorte attorno a un problema molto concreto che riguarda proprio la salute in Italia.

Ad esempio, che differenza c'è tra un tedesco colpito nell'estate del 2011 da melanoma in stato avanzato, e che quindi ha pochi mesi di vita, e un italiano nelle stesse condizioni? Innanzitutto che il tedesco potrebbe essere ancora vivo, ma l'italiano è sicuramente morto. Ancora: che differenza c'è tra un inglese malato di epatite C nell'agosto del 2011 e un italiano nelle stesse condizioni? Che l'inglese ha avuto subito una terapia efficace e salvafegato e che l'italiano potrebbe essere in lista per un trapianto. Non basta? E poi, che differenza c'è tra un danese malato di tumore della prostata che si accorge nell'autunno del 2011 di come i farmaci per lui non funzionino più e un italiano nelle stesse condizioni: che il danese ha ottime probabilità di essere ancora vivo e che l'italiano è già morto.

Potremmo continuare. Ma questi casi ci bastano a dipingere una tragedia tipica del nostro Paese: il ritardo spaventoso col quale un numero importante di medicine innovative salvavita sono rese disponibili ai malati rispetto a quanto accade negli altri Paesi europei. Vediamo perché.

Cominciamo col dire che ogni nuovo farmaco che supera tre livelli di sperimentazione clinica nei quali mostra la sua innocuità e la sua efficacia (e già questo richiede dai 10 ai 13 anni di lavoro scientifico) viene proposto dalle aziende per la registrazione. In genere Big Pharma comincia con la Food and Drug Administration americana per il nobile motivo che il mercato Usa è più appetibile. Ma, in ogni caso, per sbarcare in Europa, alle nuove medicine serve l'approvazione dell'Ema, un'agenzia con sede a Londra che è la porta d'ingresso. Superata la quale, in molti Paesi i farmaci entrano quasi d'ufficio; giusto il tempo di vedere di che si tratta e di concordare un prezzo (visto che ogni Paese europeo ha diverse normative in materia). In Italia, invece, no. Perché da noi c'è un'agenzia (l'Aifa) che ha tempi elefantiaci e i nuovi farmaci superano il suo vaglio in media oltre un anno dopo l'approvazione europea. Prima di affrontare le diverse commissioni regionali. E prima, com'è ovvio, che l'Aifa stessa inizi a trattare con le aziende sul prezzo che il Servizio sanitario nazionale è disposto a pagare.

Un intrigo di pareri ed esperti che guardano e riguardano ogni volta i fascicoli, chiedono nuovi documenti, traccheggiano e siedono felici in una commissione, cosa che tanto piace ai professori italiani.

Viene da chiedersi se non sia del tutto inutile questa duplicazione di iter registrativo: se una medicina va bene all'Europa non può andare bene d'ufficio a tutti gli Stati Ue? E gli addetti ai lavori su questo si dividono. In molti sbuffano che in caso di farmaci salvavita e realmente innovativi (e poi ritorneremo su questo "realmente") l'Aifa dovrebbe semplicemente accettare il responso dell'autorità europea e che ogni traccheggiamento è inutile e crudele per i malati. Altri, invece, non obiettano al fatto che la nostra agenzia voglia vederci chiaro. Tra questi Roberto Labianca, presidente del Cipomo (collegio dei primari oncologi) e ricercatore di rango: «Penso che serva un passaggio a un tavolo di esperti che, basandosi sulla sapienza clinica, diano un parere sull'importanza del farmaco e quindi diano indicazioni a chi deve stabilire il prezzo. Perché è il clinico che deve dire quanto vale un farmaco. Ma deve essere un passaggio veloce: mentre l'Aifa e gli oncologi stanno lì a chiacchierare, ci sono pazienti che sanno che esiste un farmaco che potrebbe servirgli, ma che non possono averlo».

E questo è ancora più doloroso per quei malati che non hanno più alcuna arma a cui appellarsi. Come quelli di melanoma, appunto. Per questo Paolo Ascierto, primario di Oncologia Medica e Terapie Innovative dell'Istituto dei Tumori di Napoli afferma: «Siamo di fronte a un sistema che, a causa dei tempi di latenza, rischia di creare discrepanze tra i nostri pazienti e quelli degli altri Paesi europei». Ascierto si riferisce all'ipilimumab (prodotto da Bms), un farmaco estremamente innovativo, il primo vaccino di provata efficacia, che ha cambiato la storia delle terapie dei tumori. A oggi è approvato per il melanoma, e sperimentazioni sono in corso anche su altri cancri, come quello della prostata.

E a chi voglia obiettare che, in fondo, il melanoma metastatico colpisce non più di 1.500 italiani l'anno, non resta che guardare a una malattia che, invece, si è abbattuta su 700 mila persone nel nostro Paese. E alle grottesche vicissitudini di due farmaci (prodotti rispettivamente da Msd e Janssen) contro il virus dell'epatite C. Anche in questo caso si tratta di due molecole rivoluzionarie perché, per la prima volta, colpiscono al cuore il virus e, in un significativo numero di malati, riescono a spazzarlo via; sono disponibili in Europa da un anno e mezzo. Nel frattempo i malati italiani hanno continuato a fare la terapia standard: con effetti collaterali devastanti e con un minor tasso di efficacia.

Insomma, a mettere alle corde la nostra agenzia è la reale efficacia di alcuni farmaci. Per l'abiraterone della Janssen, attivo contro il cancro della prostata resistente alla terapia ormonale, alla quale vengono sottoposti tutti i pazienti che hanno recidive dopo l'intervento, la Fda americana ha chiesto addirittura l'iter abbreviato: i malati sono milioni e per loro non c'è nulla.
Ripartiamo allora da questo fatto. Ci sono milioni di malati nel mondo per i quali non esistono terapie. E i farmaci che offrono loro una speranza, accertata da sperimentazioni cliniche rigorose, si possono a tutti gli effetti definire "innovativi". Per i clinici è questo lo spartiacque: aiutano davvero le persone più o meglio dei farmaci disponibili? Se così è, bisogna fare presto.

Invece, il prontuario è pieno di medicine che innovative non sono per nulla, ma che vengono burocraticamente definite tali giacché apportano minimi benefici, magari a classi di pazienti che hanno già decine di prodotti a disposizione. Nessuno dice che non debbano essere registrati, ma certo non è su questi che si addensa l'indignazione per i ritardi. Anche se sono questi che affollano con voluminosi fascicoli i tavoli dell'Aifa. Ma se non riesce a fare un discrimine tra un'inutile copia e un salvavita, e quindi ad avviare iter differenziati, un'agenzia tecnica come l'Aifa, chi deve farlo?

Per conto suo il ministro Renato Balduzzi un piccolo passo l'ha fatto. E nel suo decreto appena approvato ha stabilito che, una volta ricevuto il vaglio dell'Ema e dell'Aifa, i farmaci devono essere resi immediatamente disponibili. Insomma, ha decretato che almeno la melina delle commissioni regionali bisogna saltarla. D'altra parte, uno studio pubblicato sugli "Annals of Oncology" nel marzo del 2010 a firma dello stesso Guido Rasi, al tempo direttore generale dell'Aifa, ha studiato l'iter di venti farmaci anticancro registrati in Europa e in Italia, scoprendo che sono stati disponibili ai malati italiani con un ritardo di 402 giorni, in media, dovuto circa in egual misura alle lungaggini dell'Aifa e a quelle delle regioni.

Balduzzi ha ritenuto di poter tagliare almeno i mesi di stand by regionale. Ottimo, commenta Stefano Cascinu, presidente dell'Aiom, l'associazione degli oncologi medici: «Ora dobbiamo monitorare l'applicazione del decreto in tutte le regioni. E definire il budget annuale dell'oncologia nel nostro Paese. Dove i farmaci anticancro rappresentano il 25 per cento della spesa ospedaliera per i medicinali».

E così Cascinu colpisce al cuore il problema. Abbiamo un bel dileggiare l'Aifa per i suoi ritardi e chiedere che facciano presto. L'impressione di tutti è che questi ritardi siano ben congeniali a un problema di fatto irrisolvibile: i nuovi farmaci costano moltissimo e la sanità subisce continui tagli. Come conciliare? Cascinu chiede innanzitutto di «agire sulle zone grigie dell'inappropiatezza». Che tradotto vuol dire fare in modo che non si somministrino medicine a chi è in fin di vita (vedi box qui accanto) e che non si usino farmaci inutili a chi chiaramente non può trarne beneficio. Perché, sottolineano i clinici, con l'ovvio appello etico a non far mancare i farmaci, spesso si scelgono terapie che costano di più ma non sono più efficaci.

Come ha dimostrato Marina Chiara Garassino, dell'Istituto dei Tumori di Milano, in uno studio presentato in sessione plenaria all'Asco, la maggior assise mondiale dell'oncologia, onore riservato a pochi. Garassino ha spiegato che l'erlotinib della Roche, utilizzato per trattare il tumore al polmone al ragguardevole prezzo di 2.900 euro per due settimane, di fatto funziona solo in quel 10 per cento di pazienti che hanno una certa mutazione genetica mentre viene utilizzato in un gran numero di malati. Laddove per il 90 per cento di loro è molto più efficace il vecchio ed economico docetaxel (870 euro). Gli onori americani indicano chiaramente che è di questo tipo di ricerche che c'è bisogno per risparmiare e liberare soldi per i veri innovativi. E forse è a storie come questa che Cascinu pensa quando parla di "zone grigie".

Non solo: c'è un altro modo per liberare risorse. Ed è quello di incentivare i generici: se usassimo i generici come li usano nella maggior parte dei Paesi europei, il Ssn risparmierebbe 300 milioni l'anno. E ancora altri ne metterebbe da parte se, come predica da anni il farmacologo Silvio Garattini, si smettesse di mandare in farmacia una pletore di molecole simili a quelle vecchie che, con semplici e inessenziali variazioni chimiche, si definiscono nuove e scalzano i generici grazie al marketing delle industrie. Non passa anno che non se ne registrino decine: i medici finiscono col credere che sono effettivamente innovative, convincono i pazienti che le preferiscono ai generici e il Ssn paga di più oggetti di fatto identici.

Resta comunque il fatto che non si possono far aspettare i pazienti gravi facendo melina per ritardare l'immissione in mercato coi conseguenti costi. Perché, conclude Roberto Labianca: «E' una melina tragica: ci sono pazienti che muoiono perché non hanno il farmaco. I ritardi non sono più tollerabili, proprio per una questione etica nei loro confronti».

 
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« Ultima modifica: Aprile 04, 2015, 11:37:23 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 02, 2015, 12:02:04 pm »

Epatite C: il farmaco c'è. Ma costa troppo
Fondi speciali, malati in allarme. C'è una nuova terapia straordinaria.
Per la quale servono però 37mila euro a ciclo.
Un’altra cura che nessuno può pagare scuote la sanità.
E i conti del servizio sanitario pubblico rischiano di saltare

Di Daniela Minerva
02 marzo 2015

Gli ingredienti ci sono tutti. Un farmaco costosissimo e molto efficace. Migliaia di pazienti in attesa di una terapia. Un giudice in agguato. Un ministro che si barcamena tra tavoli di lavoro ed erogazione di fondi straordinari. Le regioni riottose e quelle inefficienti. L’affaire Sovaldi è un incendio che cova sotto la cenere. Ancor più pericoloso perché questa wonder drug capace di guarire l’epatite C al costo stimato di circa 37 mila euro, è la prima di una serie nutrita di prodotti sempre più efficaci che, usati in combinazione, promettono di cancellare la malattia dai libri di medicina, ma anche di sbancare il Servizio sanitario nazionale.

Per capire cosa sta succedendo bisogna partire da tre fatti. Da un lato la condizione delle tante persone colpite da una patologia mortale trattabile al prezzo di effetti collaterali così pesanti da non essere sopportabili per la maggior parte dei malati. Dall’altro una famiglia di farmaci rivoluzionari che fanno esclamare Antonio Gasbarrini, epatologo dell’Università Cattolica di Roma: «Stiamo assistendo alla scomparsa di una malattia. Quanti sono i medici che hanno visto una cosa del genere? Forse è successo col vaiolo, con la peste o la polio. Ma è davvero un evento straordinario». Straordinario e costosissimo, e questo è il terzo fatto: c’è voluto più di un anno perché l’Aifa, la nostra agenzia del farmaco, negoziasse un prezzo accettabile, e anche così c’è stato bisogno di un fondo speciale di un miliardo di euro finanziato dalla legge di stabilità per gli anni 2015-2016.

La spesa per i farmaci. I brevetti che scadranno, liberando risorse. E i costi contrattati dai diversi paesi del mondo per la distribuzione del sofosbuvir, nuovo farmaco contro l'Epatite C

Ma cominciamo dai malati. In Italia, le stime parlano di un milione e mezzo di persone infette, anche se quelle già diagnosticate sono poco più di 300 mila. Che vivono diversi stadi della malattia, ai quali corrispondono diversi stadi di degenerazione del fegato: dall’epatite in fase iniziale, alla cirrosi, al tumore. Per loro la terapia era composta da diversi farmaci, tra i quali l’interferone, una vera bestia nera impossibile da tollerare se il fegato è malridotto. Risultato, a sperare in una cura erano solo i malati in fase iniziale o intermedia. Per gli altri, quando possibile, c’era il ricorso al trapianto, con tutto quello che ne consegue. Ma molti, circa 10 mila l’anno, muoiono.

Una diagnosi di epatite C era (e comunque ancora è) il cielo che ti casca in testa. Ti cambia la vita, ti obbliga a una terapia sfibrante, ti fa vivere in un’incertezza sfibrante. Si può ben capire l’entusiamo quando, nel dicembre del 2013, la Fda americana ha dato il via libera (seguita rapidamente da quello dell’autorità europea, l’Ema) a un farmaco capace di spezzare la catena di replicazione del virus responsabile dell’epatite C e di guarire (per lo più sempre in associazione con l’interferone) il 90 per cento dei malati. Si chiama sofosbuvir, troppo complicato; il tam tam mondiale fa volare il suo nome commerciale, Sovaldi, e il prezzo esorbitante stabilito dalla Gilead, che ne detiene il brevetto: oltre 80 mila dollari a trattamento.

IL COLPACCIO DI GILEAD
I numeri mettono in allarme le agenzie regolatorie di mezzo mondo. Prendiamo l’Italia: curare tutti i 300 mila malati significa spendere 24 miliardi, ovvero 4 di più di quanto il Ssn non spenda ogni anno per tutti i farmaci di tutte le malattie. Ovviamente non è sostenibile. E l’obiettivo delle autorità sanitarie è stato quello di convincere Gilead a calare, e di mettere dei paletti per indicare bene chi e come può curarsi a così caro prezzo. L’India, per suo conto, ha fatto un gesto radicale: ha negato all’azienda la registrazione del brevetto e ha dato il benvenuto a tutti quelli che vorranno copiarlo e venderlo nel subcontinente a 100 dollari a trattamento.

La tabella indica il risultato delle negoziazioni nei diversi paesi. Si va dagli 84 mila dollari negli Usa ai 900 in Egitto. Perché tanta differenza? La farmaceutica americana risponde che ci sono paesi nei quali l’EpaC è una piaga endemica e che non possono permettersi cifre di mercato, quindi gli va dato il farmaco superscontato. Il fatto è che i malati nel sud del mondo sono talmente tanti che il profitto è comunque assicurato. Principio che ha ispirato anche i negoziatori italiani.

I termini dell’accordo tra la nostra Aifa e Gilead sono segreti (bizzarro), si dice sia così per non turbare le trattative negli altri paesi. Ma tutti sanno (anche se l’Aifa nega) che il Ssn paga il farmaco circa 37 mila euro a ciclo con l’accordo di legare il prezzo al consumo, in considerazione del fatto che nel nostro paese ci sono molti più malati che non in Inghilterra o in Francia. (Il costo per i privati che vogliano comprarselo resta di 80 mila dollari).

L’Aifa ha fatto un gran lavoro, recitano in coro gli addetti ai lavori. Ma rimane che 37 mila moltiplicato per 300 mila pazienti porta alla ragguardevole cifra di 11 miliardi, se non si vuole poi ipotizzare di curare il milione e mezzo di malati che si stima girino per l’Italia finendo col mettere a bilancio 60 miliardi secchi. Il ministro Beatrice Lorenzin, non sapendo a che santo votarsi, nel dicembre scorso, ha consegnato alle agenzie la sua letterina di Natale in cui chiedeva a Santa Claus di farle trovare sotto l’albero la cura per tutti i malati italiani.

Più prosaicamente l’Aifa ha stabilito che siano solo i pazienti più gravi ad avere la terapia (perché gli altri possono farcela col vecchio cocktail) e che devono essere dei centri specializzati a prescriverla. Ma sono in molti oggi a chiedersi: non sarà che comunque questo Sovaldi ha un prezzo ingiustificato? Questione non di lana caprina se la Commissione Finanze del Senato americano ha chiesto a Gilead di spiegare come sono arrivati a quella cifra monstre.

Abolire il federalismo sui farmaci e la sanità. Controllare a chi vengono prescritte le terapie. Sostenere i generici. Le proposte del direttore generale dell'Agenzia Italiana del Farmaco, Luca Pani, per il sistema pubblico

Stando alle obiezioni sollevate dai senatori, l’azienda che ha sviluppato Sovaldi tra il 2009 e il 2011, la Pharmassett, aveva previsto di venderlo negli Usa al prezzo di 36 mila dollari (a fronte degli 84 mila chiesti da Gilead) che sembravano sufficienti a ripagare i 62,4 milioni spesi per scoprirlo. Poi Gilead ha acquisito Pharmassett e il prezzo del farmaco è lievitato.

In una sua nota la nostra Aifa chiede di conoscere «i costi di marketing e pubblicità. E soprattutto i potenziali conflitti d’interessi con le Società Scientifiche che raccomandano il farmaco». Uno studio della Oregon Health and Science University, infatti, ha scoperto che 18 dei 27 membri della commissione che ha redatto le linee guida per l’utilizzo del medicinale - per conto dell’ American Association for the Study of Liver Disease e della Disease Society of America - hanno una relazione finanziaria con Gilead.

Questo è certamente un vulnus. Ma non scalfisce la realtà clinica: il farmaco funziona e i malati lo vogliono. Senza riuscirci. A due mesi dalla registrazione del farmaco è il ministero a lanciare l’allarme: sono solo 30 i pazienti trattati in tutta Italia, e la maggior parte delle regioni non ha individuato i centri dove è possibile farsi curare. Ce n’è abbastanza perché il ministro apra un’indagine e invii i Nas in giro per l’Italia a vedere cosa accade. Poi apre un tavolo permanente con le associazioni dei malati. Un gran lavorio, ma tutti sentiamo un acre odore di fumo. Perché c’è poco da traccheggiare, la verità è che le regioni non ce la fanno: i 500 milioni straordinari previsti per il 2015 dalla legge di stabilità non sono ancora stati erogati, e i governatori dovrebbero anticipare soldi che non hanno.

Ma potrebbero essere costretti a trovarli dai giudici: i malati di Roma, Parma e Milano stanno raccogliendo le adesioni per una class action determinati a chiedere ai Tribunali un provvedimento che obblighi ministero della Salute e Gilead a erogare immediatamente il farmaco.

NON È CHE L’INIZIO
Il terremoto scatenato da Sovaldi, però, è solo la punta dell’iceberg. Perché dietro l’angolo ci sono altri prodotti della stessa classe che promettono miracoli.

Come vengono decisi i prezzi delle cure? Perché sempre più le terapie innovative risultano spesso insostenibili per molti servizi pubblici? E cosa giustifica i ritardi nel rispondere ai malati, una volta che le speranze esistono? Parla Pieluigi Antonelli

Il primo, registrato qualche giorno fa, è il sineprevir di Janssen che costerà circa 17 mila euro a trattamento. E, spiega Gasbarrini: «Se somministrato in combinazione con Sovaldi ci permette di evitare l’interferone, ed è estremamente efficace per i pazienti col tipo più diffuso del virus (il genotipo 1)». Insomma, si tratterà di trovare la ragguardevole cifra di circa 55 mila euro a paziente, ma questa gente guarisce, senza interferone. Quindi c’è una speranza anche per i più gravi, i cirrotici all’ultimo stadio, quelli che aspettano un trapianto e quelli destinati a morire.

«Possiamo finalmente guarire i pazienti», chiosa l’epatologo romano: «Potenzialmente quasi tutti. Noi parliamo di eradicazione di una malattia mortale. Loro di soldi. E poi i conti devono essere fatti bene». E con ciò chiama in causa le simulazioni dei farmaco economisti che calcolano quanto si potrebbe risparmiare se l’epatite C scomparisse dal paese. Si comincia con 407 milioni di costi diretti e 645 di costi indiretti. Ma si punta l’obiettivo su quanti trapianti potrebbero essere evitati: 5-600 da subito, col doppio risultato di non spendere quei 100 mila euro circa necessari per l’intervento (cui si sommano i 30 mila per i farmaci antirigetto) e di preservare organi che possono essere destinati a salvare altre vite.

IL BLUFF DI BIG PHARMA
Il ragionamento fila, ma i medicinali anti EpaC in arrivo incalzano. Sineprevir è stato registrato rapidamente: l’azienda che lo produce, Janssen, per oliare le trattative, ha messo sul piatto uno stabilimento a Latina dove produrrà il farmaco per tutto il mercato europeo. Dunque: investimenti e posti di lavoro. E sembra un equilibrio ragionevole. Un modo per assicurare il farmaco ai malati e spingere l’azienda a restituire un po’ del molto che il Ssn le versa.

Ma il direttore generale dell’Aifa non crede a questi baratti perché non si devono finanziare le imprese col Ssn, dice. E attende l’arrivo di daclatasvir prodotto da Bms; di levipasvir, sempre di Gilead. Che genererà un altro tsunami: se associato a Sovandi spazza via il virus senza interferone su tutti i tipi di epatite C. E questo significa che tutti, proprio tutti, potranno guarire. A costi stratosferici perché sarà Gilead ad avere la doppietta carica.

«Non sarà sempre così», prevede Gasbarrini: «In vista ci sono altri due prodotti efficacissimi che ci daranno i medesimi risultati della doppietta Gilead, ma sono di due aziende diverse (Msd e Abbvie). Quando arriveranno la concorrenza sarà spietata. E i prezzi potrebbero crollare fino a 5-6000 euro a trattamento». Ma non sarà prima di un anno almeno.

Il governo cerca di risparmiare sulla spesa sanitaria, così nove prodotti arrivano sul mercato, ma non vengono coperti dal Ssn. E solo chi è ricco può permetterseli

La saga dei farmaci contro l’EpaC, Sovandi in testa, riporta in primo piano un tema che “l’Espresso” ha affrontato più volte. Il costo esagerato dei farmaci innovativi . Siano essi gli anticorpi monoclonali contro le artriti reumatoidi che quelli contro il cancro. Stiamo parlando di terapie che spazzano via miliardi di euro l’anno. Ma che sono efficaci. E devono essere disponibili ai malati.

È un’intera nuova medicina che impone di riorganizzare l’assistenza (individuare i centri che possono erogare i farmaci, ora si deve fare con le epatiti anni or sono si è fatto con le malattie reumatiche), di essere straordinariamente selettivi per ammettere solo le terapie che funzionano davvero. Ma soprattutto impone di liberare risorse.

Una via ci sarebbe: da qui a pochi anni scadranno i brevetti di farmaci biologici costosissimi. Potranno essere messi sul mercato a basso prezzo, come già accaduto coi farmaci generici. Ma, proprio come già accaduto coi farmaci generici, è partito il fuoco di fila delle Big Pharma che investono miliardi per dimostrare che brand e no-brand non hanno la stessa efficacia. La potenza di convincimento dei colossi del farmaco ha già rallentato negli anni scorsi la diffusione dei generici nel nostro paese, col risultato che abbiamo buttato via miliardi finiti nelle tasche degli industriali invece che a rifinanziare il Ssn.

La scena si ripete, e man mano che ci avviciniamo alla scadenza di brevetti importanti, le aziende ci bombardano per dimostrare che il no-brand non ci cura. Sta a noi non credergli. E sta al ministero della Salute registrare rapidamente i no-brand e spingere perché i medici li scelgano più di quanto le aziende spingano perché non lo facciano.

© Riproduzione riservata 02 marzo 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/visioni/scienze/2015/02/27/news/quel-farmaco-costa-troppo-1.201536?ref=HRBZ-1
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 04, 2015, 11:34:29 am »

Dibattito
Chi ha paura della scienza in Italia?
Una legge che vieta le sperimentazioni. Pregiudizi su vaccini e Ogm. Poi i santoni che tengono banco. Nel paese trionfano ignoranti e retrogradi. Anche per colpa della politica

Di Daniela Minerva
31 marzo 2015

La perfezione del cervello da cui nasce il pensiero umano? Un reticolo di molecole assemblate a caso dall’evoluzione. La bellezza di uno sguardo capace di rapire il nostro cuore per sempre? Anche. La gioia di un recupero repentino che illumina mesi di malattia nostra o di un nostro caro? Episodico, inessenziale al vero decorso del male. Giorni di pioggia che ci obbligano a un agosto col maglioncino? Irrilevanti per capire se la Terra si scalda o no.

Potremmo continuare per pagine, a elencare tutte le volte che la scienza ci sbatte la porta delle nostre emozioni in faccia, in una corsa senza fine a ridurre le nostre esperienze a “episodi”, e a contraddire quel che ci sembra ovvio. Eppure non possiamo che fidarci. Dobbiamo far tacere la personalissima percezione del mondo che nasce dalla realtà della nostra vita. La scienza è la scienza, un’impresa quasi perfetta capace di generare conoscenze condivise; autocorreggersi e restituirci la cosa più vicina possibile alla verità. Sappiamo che i risultati di quest’impresa ci sono utili (farmaci, energia, iPhone e aeroplani), e fin qui ci possiamo dire tutti scientisti. Ma se si tratta di accettarne le conclusioni anche quando contraddicono le nostre credenze e le nostre esperienze, allora cominciano i mal di pancia. E nascono i movimenti: contro gli Ogm, contro i vaccini, contro la sperimentazione animale; a favore di Stamina...

DA VANNONI AL MORBILLO
Attorno a questo bisticcio si gioca la capacità del nostro paese di entrare nella modernità, di seppellire una volta per tutte Don Benedetto Croce e la sua sciagurata convinzione che le conoscenze scientifiche altro non siano che robe astratte capaci solo di «mutilare la vivente realtà del mondo».

Basti pensare a quanto «vivente» sia stata la speranza dei genitori della piccola Celeste che hanno affidato la loro bambina agli intrugli di quel Vannoni arrivando persino a illudersi che le facessero bene. Noi lo chiamiamo “caso Stamina”, ma per decine di persone è stata una viventissima illusione. Che, come sempre accade quando un santone buca il video, ha contagiato per mesi l’opinione pubblica, comprensibilmente eccitata all’idea che si potesse fare qualcosa per quei bambini, ma del tutto indifferente alla notizia, arrivata nei giorni scorsi della prima terapia a base di cellule staminali scientificamente dimostrata e registrata dalle autorità europee, scoperta dagli scienziati dell’università di Modena.

Fiumi di inchiostro e ore di talk show per la baggianata di Stamina, qualche trafiletto per la scoperta dei modenesi. Colpevoli, forse, di avere messo sotto i nostri occhi dati solidi e dimostrazioni inoppugnabili della capacità di cura della loro terapia, e non malati disperati, la «vivente realtà» cara a Don Benedetto.
L’affaire Stamina è una faccenda recente. L’ultima a ricordarci l’opposizione apparentemente insanabile tra la comunità scientifica con le sue verità e noi con le nostre esperienze. Che si saldano con sistemi di valori collettivi fino a creare dei veri e propri movimenti. E così l’Oms aveva un bel puntare a sconfiggere il morbillo entro il 2015, e noi avevamo un bel pensare alla malattia come a una piaga dei paesi poveri; il 7 marzo proprio a Roma una bambina di 4 anni, Giulia, è morta per le complicanze di questa malattia. Non era stata vaccinata. Perché? Perché, insomma, molte delle conoscenze scientifiche diventano oggetto di opposizione sociale, anche violenta?

EPPUR CI PIACE
Cominciamo col dire che non accade solo in Italia. Ma in tutte le democrazie occidentali. Se persino una buona fetta degli americani - coi loro quasi 200 premi Nobel, i più potenti centri di ricerca del mondo, i milioni di dollari investiti e i migliori scienziati del pianeta - è convinta che a metterci su questa Terra è stato un signore con la barba bianca qualche migliaio di anni fa e non un processo durato milioni di anni di evoluzione della vita.

Centinaia di genitori inglesi si oppongono ai vaccini ben più violentemente dei nostri, forti di un antico principio che lo Stato non può interferire con le decisioni di una famiglia britannica. I tedeschi sono i maggiori consumatori di medicine “oliatiche” nel mondo. E i casi di terapie anticancro miracolose che infiammano l’opinione pubblica sono ovunque all’ordine del giorno. Quindi, sbagliano quelli che tacciano gli italiani di oscurantismo, e ignoranza scientifica. Siamo oscurantisti e ignoranti tanto quanto gli altri. Quel che fa la differenza è che altrove l’opposizione sociale alle conoscenze scientifiche non trova una sponda politica così forte come quella che trova a Roma, che non detta le leggi e i provvedimenti come invece fa nel nostro Parlamento.

Lo dimostrano i dati raccolti dall’“Annuario Scienza Tecnologia Società” (edito da Il Mulino). Stando a quanto riportato nell’edizione 2015 appena pubblicata, ad esempio: «il livello di alfabetismo scientifico dei cittadini ha raggiunto un picco mai toccato». E, aggiunge Massimiano Bucchi, professore di Sociologia della scienza all’Università di Trento: «Lo stereotipo dell’italiano ottuso è largamente infondato. Ce lo dimostrano i dati raccolti in questi anni. Che, anzi, esplicitano quanto interesse ci sia per le questioni scientifiche nel nostro paese. Pensiamo solo al fatto che in nessun’altra parte del mondo i Festival della scienza sono così frequentati come i nostri; e che nessuna trasmissione televisiva, del settore, al mondo fa gli ascolti di Superquark».

LAUREATI E PRESUNTUOSI
Già, però, poi abbiamo la peggiore legge sulla sperimentazione animale possibile, un’opposizione agli Ogm che manipola tutti i ministri dell’Agricoltura da dieci anni, e una regione come il Veneto che, nel 2007, scrive un’apposita legge per dire che non è obbligatorio vaccinare i bambini. Salvo poi scoprire, come ha fatto una ricerca della Asl di Verona, che cinque anni dopo i tassi di vaccinazione sono rimasti gli stessi. E scoprire che lo zoccolo duro dei nemici dell’immunizzazione salvavita è composto essenzialmente da laureati, informati e impegnati politicamente. Proprio come i genitori della piccola Giulia morta a Roma per le complicanze del morbillo, due medici.

Fatti questi che diventano regola nel panorama italiano narrati dall’Annuario. E che Bucchi riassume: «L’opposizione ai vaccini, come agli Ogm, come la predilezione per l’omeopatia sono più diffuse tra le persone scolarizzate. Che si sentono istruite e quindi competenti a scegliere».

Le ricerche dei sociologi indicano che siamo nel pieno di quella che Bucchi chiama «crisi dei mediatori». La gente non si informa più sui giornali, dall’amico scienziato, dal medico di famiglia. Va su Internet. Ma, attenzione, non a cercare vaghezze sui social network, i più vanno direttamente alla fonte: leggono i lavori scientifici, surfano i siti delle grandi università, seguono i blog dei ricercatori. Così entrano in contatto con una marea indistinta di informazioni (tutte attendibilissime), ma troppe perché un cittadino comune possa orientarsi, e men che meno fare una sintesi. E allora, di fronte a questo oceano, per farsi un’idea usano il loro personalissimo sentimento.

FEDE CONTRO FEDE
Il professore della Yale University Dan Kahan si è chiesto in che modo i cittadini decidano di avere o meno paura degli Ogm, del riscaldamento globale, delle biotecnologie, o, magari, di fidarsi di Vannoni. E ha scoperto che lo fanno sulla base di «valori profondi», selezionando con cura sia le informazioni che sono conformi a questi valori sia riconoscendo autorevolezza agli esperti che li confermano tenendo, invece, in poco conto quelli che sostengono posizioni contrarie. E così persone con culture diverse si formano opinioni diverse sul medesimo fatto, senza tener conto della verità scientifica.

Questo accade, aggiunge Bucchi, perché «i temi su cui l’opinione pubblica si trova in conflitto con le acquisizioni scientifiche hanno una natura ibrida. Sono questioni tecniche, ma il pubblico le percepisce come politiche». E così a formare il giudizio concorrono atteggiamenti che non hanno niente a che fare con la verità fattuale: la critica alle multinazionali dei semi o dei farmaci, percepite come invasive e luciferine; il rapporto col cibo; la sfiducia nelle istituzioni che si allarga a quelle scientifiche; l’adesione a dogmi religiosi. Atteggiamenti che coagulano gruppi molto coesi, attorno a una credenza che sembra quasi una fede.

E un gruppo molto coeso attorno a una fede sono anche gli scienziati che oppongono apoditticamente la loro verità mentre sarebbe di gran lunga meglio, aggiunge Bucchi: «far crescere un atteggiamento critico, aperto ed equilibrato. Laico». Ovvero spingere l’acceleratore più sulla validità del metodo scientifico, sul valore del dubbio che muove ogni ricerca scientifica, sui suoi limiti e le sue potenzialità. Mentre, suggerisce Bucchi: «I paladini della scienza fanno troppo spesso dichiarazioni di principio». Altezzosi, spesso odiosi perché chiusi nelle loro torri d’avorio.

POLITICI DA RIFORMARE
Ma nello scontro tra fedi, c’è un convitato di pietra. Che finisce il più delle volte col prendere le decisioni sbagliate. È la politica che asseconda gli umori dei movimenti. Sono gli uomini e le donne del Parlamento che si dimostrano i veri oscurantisti e, chiosa Bucchi: «si comportano pensando di assecondare i desideri del pubblico. Ma spesso non hanno una rappresentazione corretta di quello che vogliono davvero i cittadini».

© Riproduzione riservata 31 marzo 2015

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