È decisivo che gli uomini di buon senso e capaci ancora di amare prendano posizione netta, precisa, dura, contro quegli uomini deboli che afferrano l’ascia per punire chi si oppone al loro dominio
Uomini fragili che diventano carnefici per un’arcaica cultura del possesso
di Dacia Maraini
Sono le cronache a dirci qualcosa che forse non vogliamo ascoltare. La voce del Papa è venuta a rivelare, con terribile senso profetico, che stiamo entrando nella terza guerra mondiale, anche se si tratta di una guerra frammentata, molto diversa da quelle tradizionali condotte da eserciti ben definiti, su confini ben definiti. Allo stesso modo dovremmo ammettere che si sta cercando di innescare la miccia di una guerra fra i sessi. Cosa gravissima che scardina il concetto d’amore, di fiducia, di solidarietà. Ed è la famiglia a pagare più duramente.
Ogni anno ci auguriamo che il numero dei fatti di violenza possa scendere, ogni anno finiamo per verificare che non avviene. Cosa sta succedendo? E perché quasi non ci stupiamo più di questo massacro di genere? Se ne parla spesso sui media, ma in forma scandalistica, morbosa, per accendere e sollecitare il voyeurismo dei lettori o degli spettatori. Ben poco si fa per analizzare e comprendere i meccanismi psicologici che spingono ad una azione così feroce da parte di uomini considerati «tranquilli padri di famiglia», nei riguardi delle loro mogli, amanti, fidanzate e figlie femmine.
Non volendo né indagare né capire le ragioni, è chiaro che non si possono nemmeno trovare i rimedi.
Solo pochi giorni fa un padre ha accoltellato le due figlie bambine di pochi anni. A un giorno di distanza un altro padre, in tutt’altra parte del Paese, ha ucciso la sua unica figlia. Per descrivere la brutalità estrema di questi gesti, si è saputo trovare solo una parola: raptus. Quasi fosse un istinto incontrollato e incontrollabile che anima improvvisamente una persona, trasformandola diabolicamente in un boia, mentre prima era un brav’uomo tutto casa e ufficio. La parola raptus, che viene usata con estrema facilità sia da giornalisti della carta sia del video, presuppone un momentaneo impazzimento di un cervello sano di fronte a qualcosa di più grande di lui.
Ma giustamente lo psichiatra Mencacci ha detto su queste pagine che raptus è una parola stupida che non significa niente e giustifica tutto. Parliamo piuttosto di un male che cova negli animi di uomini fragili e impauriti, uomini che si appigliano a una arcaica cultura del possesso per giustificare la loro terribile paura di perdere i privilegi che considerano dovuti per legge divina: comandare, controllare, possedere.
Il male, tutto culturale e psicologico, non avviene mai per caso. Dà segnali precisi di aggravamento e si esprime al suo colmo con un omicidio (o femminicidio che è più appropriato). Lo sanno bene le donne che sono state oggetto di molestie continuate, ossessive, che sfociano spesso nella precisa volontà di distruggere l’altro. Se non puoi o non vuoi essere mia, ovvero se non puoi e non vuoi essere controllata, dominata, posseduta da me, ti uccido. La tua libertà mette in discussione il mio stare al mondo e piuttosto che vedere frantumata la mia identità di maschio, faccio una carneficina.
Importante ricordare che questa violenza non ha niente a che vedere con la natura dell’uomo: l’aggressività e la violenza appartengono ad ambo i sessi e alla natura umana. Sono l’educazione, la cultura, le tradizioni create dalla storia a insegnare la tolleranza, il rispetto, i principi di eguaglianza basati sul rispetto dell’altro. Le donne, per ragioni storiche, hanno imparato meglio a sublimare i loro istinti aggressivi. Certamente vi sono state costrette, ma è importante che sia avvenuto. Si tratta di un atto di civiltà. Gli uomini, forse troppo abituati ai vantaggi del comando, hanno spesso trascurato la sublimazione e oggi, di fronte a una richiesta universale di democrazia fra i generi, entrano in crisi.
Non tutti intendiamoci, solo alcuni, i più fragili e malfermi dal punto di vista psicologico. Proprio per questo è importantissimo che siano proprio gli uomini più maturi e intelligenti a indignarsi di fronte a queste manifestazioni di sopraffazione isterica, che siano i primi a condannarle con determinazione, che si stringano alle donne che stimano e amano per denunciare l’orrore. La guerra fra i sessi è una costruzione culturale, una tattica di dominio che va combattuta insieme, con convinzione e determinazione, cercando nuovi modi di convivenza nel rispetto l’uno dell’altra.
La globalizzazione ci insegna che nonostante le grandi conquiste dell’emancipazione femminile e forse proprio in seguito ad esse, la paura, in certi uomini immaturi e terrorizzati, si trasforma facilmente in aggressività e spirito vendicativo.
Nei Paesi di totalitarismo religioso, naturalmente ci si nasconde dietro a un dio crudele e tirannico che pretende di impedire alle ragazzine di andare a scuola, alle donne di guidare un’automobile, alle ragazze di scegliersi il marito. Come non vedere in quelle povere ragazzine stuprate in India e poi appese come si appendono gli agnelli scannati, bene in vista, una strategia di guerra? Resteranno appese e verranno fotografate mille volte, perché siano di esempio a chi non riga dritto. In altri Paesi vengono bruciate vive se c’è un sospetto di tradimento, oppure si uccidono appena nate perché «sono bocche inutili da sfamare». In altri Paesi vengono private del clitoride (e sono ancora quasi due milioni ogni anno) perché non provino piacere sessuale.
Ne parliamo sempre come fossero fenomeni lontani, che non toccano il nostro emancipato e pacifico Paese. Ma non è così.
I venti di guerra non conoscono confini.
Il bisogno di dare lezioni di genere si moltiplicano da un Paese all’altro e sono contagiosi. Di due giorni fa la notizia di una donna straniera, bella, sola, che fa provvisoriamente la colf in una casa di ricchi italiani, e viene aggredita, e poi decapitata da un ospite trentaquattrenne, di cui la sorella dice «era un ragazzo d’oro». Ma pure amava i coltelli, ne aveva di tutte le forme e lunghezze, passava il tempo a lucidarli e affilarli.
Non si può fare a meno, di fronte a questo caso, di pensare che ci sia una qualche smania imitatrice. Troppe foto sui giornali sono apparse da ultimo che mostravano uomini neri incappucciati, con un coltellaccio da macellaio in mano. Uomini vincenti per l’occhio ingenuo, che tengono sotto scacco il nemico, pronti a torturare, straziare, violentare e uccidere, in nome di un dio tirannico e insofferente.
Forse è così che si comporta un vero uomo, si dicono alcuni fragilissimi giovanotti che credono di farsi forti umiliando il diverso da sé.
Ad analizzare i casi di cronaca infatti si scopre che, all’origine di queste violenze, c’è sempre una donna che decide di andarsene, di troncare un amore malato che si è fatto sempre più ossessivo e prepotente. «Quello è il momento più pericoloso», dice Lucia Annibali, che è stata sfregiata con l’acido e che per un miracolo non ha perso la vista e l’uso delle mani e della bocca. Una équipe di medici intelligenti e solidali le ha ridato la possibilità di vedere e muoversi, ma a quali condizioni! Decine di operazioni dolorose, entrando e uscendo dagli ospedali, riempiendosi di medicine che le hanno minato la salute. Eppure la piccola Lucia, coraggiosamente, ha affrontato tutto, pur di tornare libera e dedicarsi al suo lavoro di avvocato. Lui, il mandante, che ha pagato due pregiudicati per farla sfregiare, continua dalla prigione a dichiararsi innocente nonostante le prove contrarie. «Nemmeno una parola di dispiacere, di pentimento», commenta Lucia. E ancora una volta dobbiamo parlare di un’atmosfera di una guerra, perché in guerra il soldato che colpisce si sente legittimato a farlo e non pensa di agire male perché la mano che colpisce compie solo un dovere. In questo caso un dovere di genere: colpire e punire chi ha osato ribellarsi al suo stato «naturale!» di sottomissione e obbedienza.
Potremmo chiamarlo terrorismo di genere? Ci sono delle affinità col terrorismo politico. Si parte dal presupposto che esista un nemico mortale: l’altro. L’altro che confida in un dio chiamato con un nome diverso, che si affida a una fede leggermente differente, o crede in una ideologia dissimile, o pratica una politica diversa dalla sua o semplicemente ha un corpo fatto in modo diverso dal suo. E merita, in nome di quella ideologia, di quella fede, di essere distrutto. Dio o l’ideologia gliene faranno merito.
L’altro deve essere castigato, mortificato, meglio se pubblicamente, perché non si tratta di una azione da nascondere ma da mostrare al mondo come esempio, come deterrente ricattatorio nei riguardi dei tanti miscredenti, o pericolosi nemici di quella religione e quella ideologia. Si pulisce il mondo dalle immondizie dell’immoralità e lo si restituisce all’ordine e alla pulizia etnica, sessuale, politica, sociale.
Di questi sentimenti sembrano posseduti ossessivamente questi uomini che si fanno massacratori delle proprie donne, dei propri figli, in nome dell’amore familiare e paterno e maritale. E così come è importantissimo che i musulmani intelligenti, che credono nel rispetto dell’altro e nella non violenza, prendano posizione decisa contro le deviazioni ideologiche e religiose dei fanatici intolleranti, è decisivo che gli uomini di buon senso e capaci ancora di amare prendano posizione netta, precisa, dura, contro quegli uomini deboli che afferrano l’ascia per punire chi si oppone al loro dominio.
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