Addio a Garcia Marquez, lo scrittore del tempo e degli attimi di vita
Di Franco Avicolli
17 aprile 2014
Il tempo nella sua inesorabile cadenza di secondi, di attimi di vita è una categoria molto ricorrente e forse dominante nell'opera di Garcia Marquez. Si tratta di un'entità che ha qualche nesso con la maschera: nasconde per rivelare. E forse si tratta della paura per quel nulla a cui si assimilano la solitudine e la morte, temi di grande rilevanza nello scrittore latinoamericano.
A Macondo, città mitica e sicuramente latinoamericana, piovve «quattro anni, undici mesi e due giorni», si legge in Cent'anni di solitudine e non si può non sentire la pioggia che scivola addosso goccia a goccia, lunga come il tempo che la rende reale. In L'amore ai tempi del colera, Florentino Ariza aspetta Fermina Daza per «cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni» e nessuno può dubitare perciò che si tratti di amore vero al quale il personaggio pensa «come a uno stato di grazia che non era un mezzo per nulla, bensì un'origine e un fine di per se stesso».
Cosicché, pare che le cose e il tempo per lo scrittore colombiano, possano funzionare in modo separato, avere una loro autonoma valenza, e che la scansione di questo tempo voglia offrire un indizio che conduce appunto ad un suo valore speciale, ad una sua capacità intrinseca di dare non tanto un senso alla vita, quanto un segno del suo essere, nell'elementare consistenza della durata. La quale ha la particolare capacità di rivelare quello che non c'è, ma anche quello che c'è, che per Florentino è il vuoto e con esso l'amore che ha una ragione in sé, come anche il tempo che può esistere in sé e come durata. E' questo il tempo della solitudine, lo stato relativo all'assenza di valore che Garcia Marquez soffre come condizione assegnata all'America Latina da un'Europa che in gran parte ne segna le origini storiche e quasi per intero quelle linguistico-letterarie. Fermina, forse potrebbe farne e coinvolgere in esso Florentino che l'ama; egli attende che accada e perciò può comportarsi «come se il tempo non passasse per lui ma solo per gli altri», il che però non può eliminare la sua durata, che in fondo è un'esistenza, anche se vuota.
C'è poi la morte, l'entità che ha a che vedere con il tempo in modo assoluto. Essa ricorre in quasi tutti gli incipit delle opere di Garcia Marquez: si presenta ad Aureliano Buendìa con il plotone di esecuzione che apre la scena di Cent'anni di solitudine e si respira nell'aria che sa di mandorle amare che annunciano “l’autorità della morte», come si legge nella prima pagina di L'amore ai tempi del colera. «Il giorno che l'avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino...» è la prima frase di Cronaca di una morte annunciata. Pare che alla morte che incombe sul tempo, Garcia Marquez voglia assegnare una qualche condizione di partenza: della vita, della storia, dell'amore o di tutto ciò che è capace di annullarla. Può essere un appuntamento, ma anche l'inizio della narrazione.
Come la morte che porta con sé il colera in agguato e costringe il battello su cui vivono i loro giorni d'amore Fermina e Florentino, ad una navigazione senza meta e senza tempo. Il capitano guarda il non più giovane innamorato, resta colpito dalla sua fermezza e poi turbato dal «sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti».
Gli chiede allora lumi per sapere fino a quando sarebbe durato «questo andirivieni del cazzo». La domanda non trova impreparato Florentino Ariza che «aveva la risposta pronta da cinquantatré anni sette mesi e undici giorni, notti comprese. «Nessun dubbio lo attraversa perché il tempo e la vita seguono percorsi autonomi; può quindi concedersi all'amore e dire con ardore e senza possibilità di sbagliarsi: "Per tutta la vita"».
In una recente trasmissione radiofonica messicana, il conduttore Jacobo Zabludowsky, nel dare la notizia del ricovero, ha affermato: «un raffreddore di Garcia Marquez fa tremare il mondo», un bel modo di riferire sulla salute dello scrittore latinoamericano spostando la questione su un altro piano e raccontandola alla sua maniera.
Mi pare l'eco dell'insolita introduzione a Dell’amore e di altri demoni, con cui García Marquez ricorda le origini del romanzo che fissa nel 1949 quando, essendo cronista, venne mandato dal capo redattore del giornale ad assistere allo svuotamento delle tombe del convento di Santa Clara. «Fatti un giro» gli disse «chissà che non ti venga in mente qualcosa». E qualcosa accadde di fronte ai ventidue metri della capigliatura di tale Sierva Maria de Todos Los Angeles che vennero fuori dalla sua tomba per diventare poi narrazione.
La trasfigurazione del mondo deve avvenire appunto per non morire nella solitudine dell'esistenza in sé. La narrazione ha dato il suo fondamentale contributo e ad essa il grande scrittore colombiano ha assegnato il senso della propria vita e del proprio tempo.
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