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Autore Discussione: Bush e Aznar si vedono per decidere la guerra a Saddam (e Berlusconi a seguire).  (Letto 5468 volte)
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« inserito:: Agosto 07, 2007, 04:42:32 pm »

La sindrome americana
Luigi Bonanate


L’Unità di ieri ha riferito con prontezza e freddezza descrittiva notizie davvero preoccupanti sulle nuove misure anti-terrorismo adottate negli Usa, non soltanto nel loro oggettivo oscurantismo, ma anche nella loro pratica inattuabilità.

I punti disciplinati da questa nuova legge sono sostanzialmente due, e riguardano le comunicazioni che da tutto il mondo si rivolgono verso gli Stati Uniti (non sto scherzando: è proprio così, una cosa da nulla!), e persone e merci che giungono negli aeroporti. E specificamente, per gli esseri umani, si tratta di obbligarli a notificare le loro intenzioni di volo con 48 ore di anticipo; per le merci poi si dovrà realizzare un sistema di controllo elettronico assoluto. Attenzione dunque a chi parlerete, dove andrete, che cosa porterete con voi. Ma non preoccupatevi: le autorità statunitensi si affettano ad avvertirvi che i traffici saranno non soltanto più sicuri (bontà loro), ma anche più facili perché ciascuno di noi sarà sempre sotto controllo e in qualsiasi momento potremmo essere fermati prima di compiere chissà quale terribile azione contro la sicurezza americana!

La scorsa estate, a mio nipote che si recava con i genitori negli Usa, è stato chiesto di presentarsi al Consolato statunitense di Milano per depositare le sue impronte digitali: nulla di eccessivamente grave, se non fosse che aveva 4 anni! A partire dall’11 settembre 2001 la società americana, il suo sistema politico, la vita culturale, i mass-media si sono avvoltolati in una sindrome ossessiva che li spinge a vedere il terrorista dovunque, il pericolo dietro ogni porta, l’esplosivo in ogni pacchetto. Dopo essere stati il simbolo della libertà e della trasparenza gli Stati Uniti lo sono ora del «panopticon» (il delirante sistema di sorveglianza universale immaginato ingenuamente da J. Bentham nel Settecento) e della neo-lingua, generata nell’allucinato mondo del «1984» immaginato da Orwell e nel quale il controllo fin anche sui pensieri della popolazione aveva geneticamente mutato i codici del linguaggio.

Nei 7 anni dacché il mondo sembra aver mutato regole di gestione nella lotta politica e nel sistema delle garanzie della sicurezza personale non sembra che le cose siano andate molto meglio. Il terrorismo internazionale, per dichiarazione del Pentagono, è aumentato e non diminuito; la guerra in Afghanistan non è finita; quella in Iraq produce con una costanza degna di ben altri record una mortalità violenta di circa 50 persone al giorno; la crisi israelo-palestinese continua a lasciare sul terreno la sua striscia di sangue - ciò significa che dobbiamo ben fermarci un momento a riflettere sul significato di tutto ciò. La lotta al terrorismo si è trasformata nello spauracchio del terrorismo assunto a forma di governo: chi di noi oserebbe continuare a difendere le libertà individuali, la privacy, le libertà costituzionali, e quella di movimento (le grandi conquiste della mia generazione) se ci dicessero che, ridimensionandole un pochettino, potremmo evitare terribili tragedie umane?

Ma il fatto è che le cose non stanno così: non è mai stata la repressione (e tanto meno la persecuzione) a prevenire i reati, le violenze, la criminalità di ogni genere: è inutile che condanniamo (giustamente, del resto) la violazione dei diritti umani in Cina o in Iran e poi li violiamo anche noi. Il fatto è piuttosto che oggi si stanno confrontando non meramente diverse formule poliziesche, ma due vere e proprie concezioni del mondo - altro che scontro di civiltà, che è un’invenzione propagandistica e provocatoria di certa parte della cultura accademica occidentale. Qui si contrappongono il modello liberale (quello vero, ideale e sano in cui tutti gli esseri umani nascono uguali e nel quale la vera grande preoccupazione è che non riusciamo a distribuire il benessere egualitariamente) e il modello autoritario (quello che cerca il consenso sociale non con la persuasione, il dialogo e il convincimento, ma attraverso la paura e la repressione). Quale dei due è riuscito meglio finora, chi riuscirà in futuro, sulla base dei risultati già raggiunti, a sconfiggere il terrorismo? Siamo sicuri che la correlazione repressione/prevenzione del terrorismo discenda dalle restrizioni delle libertà civili e non piuttosto da una nostra comune, collettiva, civile opposizione? Nessuna delle nostre società si è lasciata istericamente attirare nel gorgo della violenza, verso il quale invece l’attuale governo americano, incapace di formulare qualsivoglia programma politico (che cosa hanno prodotto 7 anni di governo Bush se non terrorismo e guerre?), cerca di attirarci, come fa al suo interno con gli incrementi di spesa militare che rappresentano più che un maggior consumo di armi (per fortuna) un incremento negli utili dell’economia militare - un ottimo viatico per il successo popolare.

Oggi i soli Stati Uniti spendono in armamenti più della metà di ciò che spende tutto il resto il mondo! A che cosa servono loro tutte queste armi, se pensano che i terroristi siano dappertutto? Serviranno le nuove leggi a trovare quel bin Laden tanto fantomatico che le sue apparizioni orchestrate dal Pentagono (come quella di poche settimane fa che, dopo essere stata divulgata con grande spettacolarizzazione, è stata retrodatata, vanificandone quindi ogni contenuto) continuano a farne una sorta di primula rossa? Ma davvero Bush nelle sue notti insonni è perseguitato dall’incubo che la cittadinanza americana possa essere stata involontariamente concessa a dei futuri terroristi e che tra coloro che già dispongono di un visto per gli Stati Uniti si annidino altre cellule terroristiche? Il sito del Dipartimento di stato descrive dettagliatamente gli adempimenti necessari per recarsi negli States: abbiamo constatato mille volte che una smagliatura nella rete della repressione è sempre possibile. Perché allora non affidarsi a regole infrangibili, come quella della democrazia?

Pubblicato il: 07.08.07
Modificato il: 07.08.07 alle ore 10.12   
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 04, 2007, 04:23:28 pm »

Un coccodrillo alla Casa Bianca

Luigi Bonanate


Bush ha il cuore gonfio di preoccupazioni; è triste e piange. Per distrarsi, ha pensato bene di concedersi un viaggio-premio in Iraq, per constatare quanto abbia fatto per quel paese e di quale democrazia esso stia morendo. Dell’umore di Bush ci parla un libro che non ho ancora letto e probabilmente non leggerò — il libro-intervista che l’attuale Presidente degli Stati Uniti, è si fatto scrivere da R. Draper — non solo perché l’argomento è poco accattivante in sé (il tempo delle analisi vere e proprie su una delle presidente più sconcertanti della storia americana non è ancora venuto), ma perché la notizia che Bush pianga è comica.

Ma non mi ritengo un sadico per questo giudizio, credo più semplicemente che le ragioni per cui la presidenza Bush «fa piangere» siano talmente tante e tanto ben conosciute da tutto il mondo, che la notizia che se ne è accorto anche lui appare straordinariamente ridicola. Draper ci parla di un Presidente che ha soltanto più Dio vicino a lui: ma ne è proprio sicuro? Non lo sa che un certo «Dio è con me» ha un suono spaventosamente sinistro? Tant’è vero che molti dei suoi collaboratori, come da una nave che sta affondando, hanno incominciato ad andarsene, e lo abbandonano.

Dunque, se piange perché si sente solo, per un verso ha ragione perché ciò è vero, ma per un altro deve ammettere che era il minimo che gli potesse capitare. È difficile riuscire ad approvare e applaudire tutti gli errori politici e le frittate cadute per terra di questi ultimi 8 anni, a partire da quella «prima notte» del 7 novembre 2000 nella quale soltanto un pugno di schede manipolate (forse dal fratello) gli fece cadere in mano la Presidenza del paese più importante della terra. Faceva davvero piangere (noi) allora l’idea che un uomo così poco attrezzato al compito potesse trovarsi ad affrontare questioni di vita e di morte per l’umanità. Ma ci dicemmo, tutti quanti, che la democrazia è più forte delle persone, che l’esercizio del potere lo avrebbe irrobustito e arricchito, e che avrebbe saputo circondarsi di collaboratori e consiglieri dai quali si sarebbe saggiamente lasciato guidare.

Non è andata così: è stato lui a cercare di imporsi sui collaboratori e non il contrario. Ve lo ricordate, quando costrinse, in pratica, Powell, allora Segretario di Stato, ad andare al Consiglio di sicurezza dell’Onu a raccontare tutte le bugie che disse sulle armi di distruzione di massa iraquene? Ne era tanto consapevole, Powell, che subito dopo si ritirò a vita privata. E nelle settimane scorse il ministro della giustizia, il portavoce, e chi altri se ne sono andati (per non riaprire i capitoli Rumsfeld, Wolfowitz, eccetera). Del resto, manca poco all’inizio della campagna elettorale per la candidatura alla presidenza, e non c’è repubblicano oggi che non sia intenzionato a smarcarsi da Bush. Lo stesso Rudolph Giuliani, che sta scaldando i motori, non si associa ad alcuna delle iniziative di Bush, pur usando toni politicamente altrettanto aggressivi. Chi gli è rimasto vicino, come la Rice, qualche mese fa ipotizzabile candidata, è restata visibilmente scottata e il bacio mortale del presidente ne ha tarpato le ali.

Insomma, se tutti quelli che hanno qualche cosa da rinfacciargli si presentassero alla Casa Bianca e bussassero alla porta, uno dopo l’altro, la fila sarebbe interminabile. Perchè poi, dopo, le personalità che, chi più chi meno l’hanno assecondato, non si ritroveranno sul lastrico (qualche cosa gliela faranno pur fare, il lavavetri, magari), mentre la fila sarà ingrossata da tutti coloro che da Bush hanno avuto la vita rovinata: mi fermo molto prima dell’Iraq e osservo soltanto che l’economia statunitense negli ultimi anni non è stata minimamente governata, se non dalla speculazione e dall’affarismo avventuristico che fiorivano in assenza di una politica economica sensata: il bilancio militare Usa è tale da far felici i grandi imprenditori e i loro azionisti, ma è da tempo che la spesa militare non è più il modo migliore per far funzionare l’economia mondiale. Chi nei giorni prossimi resterà senza la casa per pagare il mutuo della quale si era svenato saprà a chi dire grazie. E chi piangerà davvero, Bush o il senza-casa?

Potremmo cavarcela, od offrigli una scappatoia, eccependo che è stato sfortunato e i tempi in cui si è trovato a governare sono stati terribilmente difficili e tali da far saltare anche i nervi più saldi? Vorrei poterlo dire: in fondo gestire l’11 settembre è una sfida immensa e non sappiamo se qualcuno avrebbe saputo fare meglio. Ma chi ci toglierà mai dalla memoria quello sguardo vacuo, intorbidito ma né sconvolto né agitato né combattivo con cui, seduto tra i bambini, assorbì la prima notizia? Dovremo anche aggiungere che in fondo era al potere da pochi mesi e quindi non si era ancora sufficientemente calato nel personaggio? Forse è giusto, e lo è allora anche che egli pianga, ma per un motivo diverso dal suo: dev’essere duro, arrivati a 62 anni scoprire di aver sbagliato mestiere!

Potremmo fare un elenco lunghissimo degli errori, o dei fiaschi della politica estera di Bush (ne volete un solo esempio? Quelli che ha bollato come stati criminali hanno smesso di esserlo senza o prima che lui li castigasse, come la Corea del Nord che senza tanto clamore sta rinunciando alla politica nucleare che Bush tanto temeva), ma questo non ci aiuterebbe ad asciugargli le lacrime per la semplice ragione che purtroppo egli non capirebbe neppure le nostre critiche. Risulta infatti, da quel che Draper ci racconta, che Bush piange non sui suoi errori, ma sulla nostra ingratitudine, sul fatto che non abbiamo compreso la sua grandezza, che non ci rendiamo conto del bene che ci ha fatto. Effettivamente c’è di che disperarsi... Ma non preoccupiamoci, ha promesso che, una volta in pensione, fonderà un istituto di ricerca sulla democrazia e la libertà: forse così impareremo che la democrazia non si impone a suon di bombe, che la menzogna come prassi politica non piace neppure a quel Dio con il quale pure ha ancora qualche buon rapporto tanto che quest’ultimo gli permette persino di appoggiarsi a piangere sulla Sua spalla. Ma non saran lacrime di coccodrillo?

Pubblicato il: 04.09.07
Modificato il: 04.09.07 alle ore 12.13   
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 16, 2007, 07:33:06 pm »

16/9/2007 (8:6)

In 5 mila contro la guerra di Bush


Scontri polizia-manifestanti a pochi passi dal Campidoglio: duecento persone arrestate

WASHINGTON


Sono almeno 200 le persone arrestate dalla polizia di Washington durante la manifestazione di protesta contro la guerra in Iraq, che ha richiamato migliaia di persone. Alcuni dimostranti sono stati arrestati senza opporre resistenza dopo aver cercato di superare una barriera nei pressi del Campidoglio, mentre altri si sono scontrati con gli agenti dopo essere stati respinti con larghi scudi neri e spray chimici.

I manifestanti hanno risposto lanciando i cartelli esposti durante il corteo e urlando «vergogna». Partiti dalla Casa Bianca, i dimostranti sono arrivati alla sede del congresso americano al grido «Cosa vogliamo? Il ritiro delle truppe. Quando? Ora». La marcia si è svolta tra i contro-manifestanti disposti ai lati della Pennsylvania Avenue, con accesi scambi di battute tra le due parti. La dimostrazione contro il conflitto è stata organizzata da "Answer Coalition" e altri gruppi e ha visto la partecipazione di famiglie, studenti, veterani di guerra e genitori dei soldati uccisi. «Stiamo occupando un popolo che non ci vuole lì - ha detto all’Associated press un militare rientrato dall’Iraq, Justin Cliburn, 25 anni - siamo qui per dimostrare che non è un gruppo di vecchi hippies degli anni sessanta ad essere contro la guerra». «Sono stato un anno e mezzo ad Abu Ghraib e a Fallujah, fino al luglio 2006 - gli ha fatto eco Phil Aliff, 21 anni - mi era stato detto che la nostra missione era quella di aiutare a stabilizzare il paese. Ma sul posto non si ricostruiva nulla e la popolazione ce l’aveva con noi».

Diana Santoriello ha perso il figlio Niel in Iraq, il 13 agosto 2004: «Sono qua per chiedere al congresso di smetterla di finanziare questo conflitto. Sono terrorizzata all’idea che possa iniziare un’altra guerra contro l’Iran». La donna mostra con forza la fotografia del figlio: «Me l’hanno ucciso. Aveva 25 anni». I manifestanti non hanno risparmiato critiche ai democratici, oggi maggioranza al congresso, accusandoli di «inerzia» di fronte alla guerra. «I democratici ci hanno deluso - ha dichiarato Richard Gold, 62 anni, arrivato dallo Stato della Pennsylvania per la manifestazione - non hanno fatto abbastanza per fermare i finanziamenti alconflitto». Poi aggiunge: «Sono abbastanza vecchio per ricordarmi la guerra del Vietnam e il fatto che le truppe non furono ritirate in tempo. Occorre trarre lezioni dal passato».

Altre 1.000 persone erano disposte ai lati della Pennsylvania Avenue a sostegno della guerra, sventolando la bandiere americane. Un colonnello in pensione, Robert «Buzz» Patterson, ha preso la parola per mandare tre messaggi: «Al congresso, smettila di giocare con le nostre truppe; ai terroristi, vi troveremo e vi uccideremo; e alle nostre truppe, siamo con voi, vi sosteniamo».

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 27, 2007, 09:53:21 am »

ESTERI

Crawford, Texas: a un mese dal conflitto Bush e Aznar si vedono per decidere la strategia

Iraq, come si prepara una guerra

I verbali segreti dell'attacco

Ecco le carte segrete che raccontano tutto ciò che si dissero in quel giorno decisivo


Il 22 febbraio 2003, quattro settimane prima dell'invasione dell'Iraq, il presidente George Bush incontra nel suo ranch di Crawford, in Texas, l'allora premier spagnolo José Maria Aznar e lo informa che è giunto il momento di attaccare l'Iraq. Ecco il testo integrale della loro conversazione pubblicato su El País.

Bush: "Siamo favorevoli a ottenere una seconda risoluzione del Consiglio di sicurezza, e vorremmo farlo in fretta. Vorremmo annunciarla lunedì o martedì (24 o 25 febbraio del 2003, n. d. r.)".
Aznar: "Meglio martedì, dopo la riunione del Consiglio affari generali dell'Unione Europea. È importante mantenere il momentum [lo slancio] che abbiamo ottenuto per la risoluzione dal vertice dell'Unione Europea (a Bruxelles, lunedì 17 febbraio, n. d. r.)".
Bush: "Potrebbe essere lunedì sera. Comunque, la prossima settimana. Consideriamo la risoluzione scritta in modo che non contenga elementi vincolanti, che non menzioni l'uso della forza e che constati che Saddam Hussein non è stato in grado di rispettare i suoi obblighi. Una risoluzione di questo tipo la possono votare in molti".
Aznar:"Sarebbe presentata di fronte al Consiglio di sicurezza prima e indipendentemente da una dichiarazione parallela?"
Rice: "In effetti, non ci sarebbero dichiarazioni parallele. Stiamo pensando a una risoluzione il più semplice possibile, senza tanti dettagli di adempimento, che potrebbero servire a Saddam Hussein per utilizzarli come tappe e poi non rispettarle. Stiamo parlando con Blix (il capo degli ispettori dell'Onu, n. d. r.) e altri del suo team per ottenere delle idee utili per introdurre la risoluzione".

SBARAZZARSI DI LUI
Bush: "Saddam Hussein non cambierà, continuerà a giocare. È arrivato il momento di sbarazzarsi di lui. È così. Da parte mia, cercherò di usare una retorica il più sottile possibile, fintanto che cerchiamo di far approvare la risoluzione. Se qualcuno metterà il veto (Russia, Cina e Francia, con Stati Uniti e Regno Unito, hanno il diritto di veto al Consiglio di sicurezza, n. d. r.), noi andremo avanti. Saddam Hussein non si sta disarmando. Dobbiamo beccarlo adesso. Finora abbiamo mostrato una pazienza incredibile. Restano due settimane. In due settimane saremo pronti, dal punto di vista militare. Credo che ce la faremo con la seconda risoluzione. In Consiglio di sicurezza abbiamo i tre africani (Camerun, Angola e Guinea, n. d. r.), i cileni, i messicani. Parlerò con loro, e anche con Putin, naturalmente. Saremo a Bagdad a fine marzo. Ci sono un 15 per cento di possibilità che per quella data Saddam Hussein sia morto o fuggito. Ma queste possibilità non esistono finché non avremo mostrato la nostra risoluzione. Gli egiziani stanno parlando con Saddam Hussein. Sembra che abbia fatto sapere che è disposto ad andare in esilio se gli permetteranno di portare con sé un miliardo di dollari e tutte le informazioni che desidera sulle armi di distruzione di massa. Gheddafi ha detto a Berlusconi che Saddam se ne vuole andare. Mubarak ci dice che in queste circostanze ci sono forti probabilità che venga assassinato.

"Ci piacerebbe agire su mandato delle Nazioni Unite. Se agiremo militarmente lo faremo con grande precisione, e focalizzando i nostri obbiettivi. Decimeremo le truppe fedeli a Saddam, e l'esercito regolare capirà in fretta che sta succedendo. Abbiamo fatto arrivare un messaggio chiaro ai generali di Saddam Hussein: li tratteremo come criminali di guerra. Sappiamo che hanno accumulato enormi quantità di dinamite per far esplodere le infrastrutture e i pozzi petroliferi. Abbiamo previsto di occupare questi pozzi rapidamente. Anche i sauditi ci aiuterebbero, mettendo sul mercato il petrolio che sarà necessario. Stiamo elaborando un ingente pacchetto di aiuti umanitari. Possiamo vincere senza distruzioni. Stiamo progettando già l'Iraq del dopo Saddam, e credo che ci siano buone basi per un futuro migliore. L'Iraq dispone di una buona struttura burocratica e di una società civile relativamente forte. Potrebbe organizzarsi in una federazione. Nel frattempo, stiamo facendo tutto il possibile per soddisfare le esigenze politiche dei nostri amici e alleati".
Aznar: "È importante poter contare su una risoluzione. Agire senza una risoluzione non è la stessa cosa. Il contenuto della risoluzione dovrebbe constatare che Saddam ha perso la sua occasione".
Bush: "Sì, naturalmente. Sarebbe meglio così che fare riferimento ai "mezzi necessari"(si riferisce alla risoluzione tipo dell'Onu che autorizza a usare "tutti i mezzi necessari", n. d. r.)".
Aznar: "Saddam Hussein non ha cooperato, non si è disarmato, dovremmo fare un riassunto delle sue inadempienze e lanciare un messaggio più elaborato".
Bush: "La risoluzione sarà fatta in modo da poterti dare una mano. Del contenuto, a me importa poco".
Aznar: "Ti faremo arrivare alcuni testi".
Bush: "Noi abbiamo solo un criterio: che Saddam Hussein si disarmi. Non possiamo permettere che la tiri fino all'estate. In fin dei conti, ha già avuto quattro mesi".

IL MOMENTO DI AGIRE
Aznar: "Mercoledì prossimo (16 febbraio, n. d. r.) vedrò Chirac. La risoluzione avrà già cominciato a circolare".
Bush: "Mi sembra ottimo. Chirac conosce perfettamente la realtà. I servizi segreti gliel'hanno spiegata. Gli arabi stanno trasmettendo a Chirac un messaggio chiarissimo: Saddam Hussein se ne deve andare. Il problema è che Chirac crede di essere "Mister Arab", e in realtà sta rendendo loro la vita impossibile. Ma io non voglio avere nessuna rivalità con Chirac. Abbiamo punti di vista differenti, ma vorrei che ci si limitasse a questo. Porgigli i miei più cari saluti. Sinceramente! Meno rivalità sentirà tra noi e meglio sarà per tutti".
Aznar: "Come si combinerà la risoluzione con il rapporto degli ispettori?"
Rice: "Non ci sarà nessun rapporto il 28 febbraio, ma gli ispettori presenteranno un rapporto scritto il primo marzo, e comparirà di fronte al Consiglio di sicurezza non prima del 6 o 7 marzo 2003. Non ci aspettiamo grandi cose da questo rapporto. Ho l'impressione che Blix sarà più critico di prima rispetto alla buona volontà degli iracheni. Una settimana dopo che gli ispettori saranno comparsi davanti al Consiglio, dovremo prevedere il voto sulla risoluzione. Nel frattempo gli iracheni cercheranno di spiegare che stanno adempiendo ai loro obblighi. Il che non è vero e non sarà sufficiente, anche se annunceranno la distruzione di qualche missile".
Bush: "È come la tortura della goccia cinese. Dobbiamo mettere fine a questa storia".
Aznar: "Sono d'accordo, però sarebbe meglio contare su più gente possibile. Abbi un po' di pazienza".
Bush: "La mia pazienza è esaurita. Penso di non andare più in là di metà marzo".
Aznar: "Non ti chiedo di avere una pazienza infinita. Ti chiedo semplicemente di fare il possibile perché tutto quadri".
Bush: "Paesi come Messico, Cile, Angola e Camerun devono sapere che c'è in gioco la sicurezza degli Stati Uniti e agire con un sentimento di amicizia nei nostri confronti. Il presidente Lagos deve sapere che l'Accordo di libero scambio con il Cile è in attesa di conferma da parte del Senato, e che un atteggiamento negativo potrebbe metterne in pericolo la ratifica. L'Angola sta ricevendo fondi del Millennium Account, e anche questi potrebbero essere compromessi se non si mostreranno positivi. E Putin deve sapere che col suo atteggiamento sta mettendo in pericolo le relazioni tra Russia e Stati Uniti".
Aznar: "Tony vorrebbe arrivare fino al 14 marzo".
Bush: "Io preferisco il 10. È come il gioco del poliziotto cattivo e del poliziotto buono. Non mi importa di essere il poliziotto cattivo e che Blair sia quello buono".

UN CRIMINALE DI GUERRA
Aznar: "È vero che esistono possibilità che Saddam Hussein vada in esilio?"
Bush: "Sì, esiste questa possibilità. C'è anche la possibilità che venga assassinato".
Aznar: "Esilio con qualche garanzia?"
Bush: "Nessuna garanzia. È un ladro, un terrorista, un criminale di guerra. A confronto di Saddam, Milosevic sarebbe una Madre Teresa. Quando entreremo, scopriremo molti altri crimini e lo porteremo di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Saddam Hussein crede già di averla scampata. Crede che Francia e Germania abbiano fermato il processo alle sue responsabilità. Crede anche che le manifestazioni della settimana scorsa (sabato 15 febbraio, n. d. r) lo proteggano. E crede che io sia molto indebolito. Ma la gente che gli sta intorno sa che le cose stanno in un altro modo. Sanno che il suo futuro è in esilio o in una cassa da morto. Per questo è importantissimo mantenere la pressione su di lui. Gheddafi ci dice indirettamente che questo è l'unico modo per farla finita con lui. L'unica strategia di Saddam Hussein è ritardare, ritardare, ritardare".
Aznar: "In realtà, il successo maggiore sarebbe vincere la partita senza sparare un solo colpo ed entrando a Bagdad".
Bush: "Per me sarebbe la soluzione perfetta. Io non voglio la guerra. Lo so che cosa sono le guerre. Conosco la distruzione e la morte che si portano dietro. Io sono quello che deve consolare le madri e le vedove dei morti. È naturale che per noi questa sarebbe la soluzione migliore. Inoltre, ci farebbe risparmiare 50 miliardi di dollari".
Aznar: "Abbiamo bisogno che ci diate una mano con la nostra opinione pubblica".
Bush: "Faremo tutto quello che possiamo. Mercoledì prossimo parlerò della situazione in Medio Oriente, proponendo un nuovo piano di pace, che conosci, e parlerò delle armi di distruzione di massa, dei benefici di una società libera e collocherò la storia dell'Iraq in un contesto più ampio. Forse vi servirà".
Aznar: "Stiamo attuando un cambiamento profondo per la Spagna e per gli spagnoli. Stiamo cambiando la politica che il Paese ha seguito negli ultimi 200 anni".

IL GIUDIZIO DELLA STORIA
Bush: "Io sono guidato da un senso di responsabilità storico, come te. Quando tra alcuni anni la Storia ci giudicherà non voglio che la gente si domandi perché Bush, o Aznar, o Blair non fecero fronte alle proprie responsabilità. In definitiva, quello che la gente vuole è godere di libertà.... Ho preso io la decisione di andare in Consiglio di sicurezza. Nonostante le divergenze nella mia amministrazione, ho detto ai miei che dovevamo lavorare insieme ai nostri amici. Sarebbe fantastico contare su una seconda risoluzione".
Aznar: "L'unica cosa che mi preoccupa di te è il tuo ottimismo".
Bush: "Sono ottimista perché credo di essere nel giusto. Sono in pace con me stesso. Ci è toccato affrontare una grave minaccia contro la pace. Mi irrita tantissimo vedere l'insensibilità degli europei riguardo alle sofferenze che Saddam Hussein infligge agli iracheni. Forse perché è scuro, lontano e musulmano, molti europei pensano che tutto vada bene con lui. Non mi dimenticherò quello che mi disse una volta Solana: perché noi americani pensiamo che gli europei siano antisemiti e incapaci di far fronte alle loro responsabilità? Questo atteggiamento difensivo è terribile. Devo riconoscere che con Kofi Annan ho degli ottimi rapporti".
Aznar: "Condivide le tue preoccupazioni etiche".
Bush: "Tanto più mi attaccano gli europei, tanto più sono forte qui negli Stati Uniti".
Aznar: "Dovremmo rendere compatibile questa tua forza con l'apprezzamento degli europei".

Copyright El País-La Repubblica
Traduzione di Fabio Galimberti

(27 settembre 2007)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Settembre 27, 2007, 10:02:46 am da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 01, 2007, 04:56:54 pm »

Invece della guerra
Furio Colombo


Ora è chiaro e documentato, dunque storicamente vero: Saddam Hussein stava per andarsene. Aveva accettato di lasciare il potere e di scomparire in esilio. Voleva una buona uscita esosa (un miliardo di dollari). Ma non c’erano bombe, non c’erano morti iracheni (decine, forse centinaia di migliaia), non c’erano morti americani (al momento quasi quattromila) non c’erano trentaduemila giovani americani feriti, molti dei quali non torneranno più alla vita di tutti. Non c’era il costo immenso di una guerra che non finisce.

Per capire di cosa sto parlando (giornali e Tv sfiorano appena l’argomento) occorre tornare ai giorni di incubo e tensione che hanno preceduto la guerra in Iraq. Da un lato il vento furioso della Casa Bianca di Bush, del febbrile interventismo di Tony Blair, che, letteralmente «hanno fatto carte false» (hanno mentito su tutto) pur di fare la guerra.

Dall’altra due pacifismi avvinghiati, uno di passione, constatazione, buon senso (ormai hanno capito in tanti che la guerra non è più una risposta possibile, troppo costo, troppo sangue e - da quando esistono solo armate professionali - troppe poche persone disposte a morire); l’altro ideologico, contrario a tutte le guerre ma specialmente a una guerra americana.

All’improvviso (siamo nel 2003, a poche settimane dall’inferno iracheno che ancora non c’era, che veniva descritto come una guerra rapida e leggera e che ancora continua a bruciare) entra in scena un incompetente che non sa niente di guerra perché predica la non violenza, uno poco amato dalla sinistra perché si dichiara “americano” e dice agli uni e agli altri «Fermi tutti. Possiamo rimuovere Saddam senza combattere». Sto parlando di Marco Pannella. «È la tipica presunzione del leader radicale che sa sempre, da solo, come salvare il mondo», si è detto e scritto con irritazione da una parte e dall’altra, a quel tempo. Noi, qui, all’Unità gli abbiamo creduto. E abbiamo subito spiegato perché. Perché la pace non arriva come risposta a una invocazione ma come frutto di un lavoro. Perché la proposta di Pannella ricordava a qualcuno di noi l’impegno costante, a momenti disperato ma mai rinunciatario, contro la pena di morte negli Stati Uniti: un caso per volta, ogni percorso di salvezza continuamente tentato, finché ne salvi uno, finché ne salvi quasi la metà, finché riesci a mettere in discussione un tipo di esecuzione (l’iniezione letale) di fronte alla Corte Suprema (benché quella Corte sia di destra e favorevole alla pena di morte); finché riesci a ottenere la moratoria, già proclamata in alcuni Stati americani e che adesso sta per essere approvata all’Onu, per tutto il mondo. Una proposta italiana che onora il nostro Paese e che è nata da una di quelle campagne ossessive e, all’inizio, solitarie e col tormentone del digiuno, di Marco Pannella.Ricorderete che molti deputati e molti senatori italiani avevano detto sì al progetto di rimuovere un dittatore senza mettere a ferro e fuoco un Paese. Ricorderete che ha vinto uno scetticismo venato anche un po’ di irrisione e ridicolo: figuriamoci se un dittatore va via senza la guerra.

Ora sappiamo tre cose che sarà bene non dimenticare. Sappiamo che la “proposta Pannella” era realistica proprio come noi, con lui, avevamo detto allora, irritando anche un po’ alcuni a sinistra nonostante il netto schieramento di pace (col segno arcobaleno nella testata) di questo giornale. Ora sappiamo che l’audace, avventurosa, “impossibile” trama diplomatica era andata a buon fine, fino al punto finale: pagare e liberarsi del tiranno. Lo sappiamo dal diario di Aznar. E sappiamo che i Berlusconi e gli Aznar che hanno detto di sì a quella guerra lo hanno fatto per compiacere l’amico potente pur sapendo che quella carneficina si poteva evitare. Una bella responsabilità nella Storia.

Pannella ricorda nel suo comunicato che tra tutti i giornali, solo l’Unità ci ha creduto. Noi ne siamo orgogliosi e lo ringraziamo. Non della citazione ma dell’impegno, quasi riuscito, di non fare la guerra.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 01.10.07
Modificato il: 01.10.07 alle ore 8.33   
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 09, 2007, 11:36:07 pm »

Oppio afghano Bush vuole una «guerra» chimica

Gli Usa spingono su Karzai per avere via libera all’uso di diserbanti.

Londra: è un tragico errore

Roberto Rezzo


Un’offensiva diplomatica in grande stile è partita da Washington per convincere gli afghani a lasciar utilizzare i diserbanti contro le coltivazioni di papavero da oppio. L’amministrazione Bush - incurante del parere dei maggiori esperti internazionali - vuole lanciare una sorta di guerra chimica sul modello fallimentare già sperimentato con le piantagioni di coca in Colombia. Domenica scorsa è arrivata a Kabul una delegazione del dipartimento di Stato per illustrare i vantaggi dell’eradicazione con i glifosfati. Un’ipotesi osteggiata persino dai vertici del Pentagono e della Cia, nonostante ammettano che il problema del narcotraffico nella regione è ormai fuori controllo. Il problema è che gli erbicidi non sono selettivi e distruggono anche le coltivazioni alimentari che normalmente i contadini affiancano a quelle di papavero. Senza contare le ripercussioni politiche: un attacco contro l’unica fonte di sopravvivenza per gran parte della popolazione sarebbe il miglior regalo alla propaganda anti occupazione dei talebani. E da Londra il primo ministro Gordon Brown ha bollato l’iniziatica come «un tragico errore».

Le stime delle Nazioni Unite indicano che durante l’occupazione americana l’Afghanistan è arrivato a produrre il 93% delle sostanze oppiacee a livello mondiale. Soltanto nell’ultimo anno la coltivazione di papavero è aumentata del 17% in termini di superficie e addirittura del 34% per quanto riguarda il raccolto, pari a un’estrazione di oppio grezzo di quasi 9mila tonnellate metriche. Questo significa che la produttività per ogni ettaro coltivato - grazie anche a un’eccezionale stagione delle piogge - ha sfondato la soglia dei 100 chili. È interessante notare che l’incremento della produzione marcia di pari passo sia nelle regioni del Nord che in quelle del Sud, controllate dai talebani. Un’abbondanza che ha fatto scendere le quotazioni del tariak, come viene chiamato l’oppio grezzo, tra gli 80 e i 90 dollari al chilo, contro gli oltre 100 dollari degli anni passati. Si tratta di una cifra comunque infinitamente superiore rispetto alle quotazioni di riso, grano e mais, ancora fortemente deprezzate a causa dell’imbattibile concorrenza delle forniture gratuite del World Food Programme che hanno invaso il mercato. Per i contadini l’oppio resta l’unica possibile fonte di sussistenza, e di fronte all’alternativa della morte per fame, sono pronti a difendere i campi anche con le armi.

Da almeno due anni gli americani hanno provato a convincere le autorità di Kabul a usare gli erbicidi per distruggere le coltivazioni. L’argomento è stato affrontato con il presidente Hamid Karzai da George W. Bush in persona; poi dal segretario di Stato Condoleezza Rice, dal consigliere per la Sicurezza nazionale Stephen Hadley e dallo zar del programma antidroga John Walters. Tanto impegno sembrava aver avuto successo quando lo scorso anno gli afghani parevano orientati ad accettare un programma sperimentale per l’utilizzo di erbicidi in un numero limitato di province. A rovinare i piani fu un vice ministro della Sanità, educato negli Stati Uniti, che nel corso di una riunione di governo sollevò profonde riserve sulla presunta innocuità dei glifosfati per la salute umana. E da allora Karzai della sperimentazione non ha più voluto sentir parlare. Inutile anche la teatrale proposta di William Wood, da aprile nuovo ambasciatore americano a Kabul dopo quattro anni in Colombia, che stoicamente si è offerto di farsi spruzzare addosso del diserbante per dimostrare che è meno tossico del sale da cucina, dell’aspirina e della vitamina A. La replica di Farooq Wardak, il ministro per i rapporti col Parlamento, è stata categorica: «Non importa quanto questo prodotto sia sicuro. I danni collaterali di un’operazione del genere sarebbero incalcolabili. Qui è in gioco la stabilità di tutto il governo».

Pubblicato il: 09.10.07
Modificato il: 09.10.07 alle ore 8.26   
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