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Autore Discussione: GIANNI VATTIMO  (Letto 18630 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Agosto 06, 2009, 03:56:43 pm »

5/8/2009
 
Sessualità pillola e scomunica
 
 
GIANNI VATTIMO
 
Ci si perdoni l’impertinenza: ma il motto «Non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Dio», che forse qualcuno dei più anziani fra noi ha ancora visto ricamato sulle lenzuola della propria nonna conservate nel baule dei ricordi, non era forse il riassunto della morale che la Chiesa cattolica instillava alle giovinette timorate che si preparavano al matrimonio - un scelta di vita comunque sempre meno «perfetta» di chi decideva per la verginità, uomo o donna che fosse? E adesso, per rafforzare la scomunica ipso facto minacciata a chi ricorre alla pillola RU486, anche al medico che la prescriva, i rappresentanti della gerarchia cattolica ci parlano del «significato profondo della sessualità» che proprio la Chiesa avrebbe il compito di insegnare e difendere. E invitano il governo - che temiamo non insensibile a questi richiami - a porre immediato rimedio alla minaccia di un «salto nel buio» che la RU486 rappresenterebbe per l’Italia, che si accinge finalmente ad ammetterla, buona ultima tra i numerosi Paesi europei che evidentemente, avendone ammesso l’uso da anni, si rivoltano nelle tenebre dell’inciviltà.

«Il governo - citiamo sempre monsignor Anfossi, dall’intervista sulla Stampa del 31 luglio - deve bloccare tutto e stanziare fondi per formare i giovani al giusto senso della sessualità», divenendo così finalmente uno Stato etico o decisamente una dépendance del Vaticano, ancor più di quanto non sia ora. E per evitare di dover ricorrere all’aborto, se si esclude il voto di castità prematrimoniale o extramatrimoniale (così poco rispettato del resto da tanti membri del clero), sarà il caso di educare i giovani all’uso del profilattico? Absit! Non sia mai, lo ha insegnato autorevolmente Giovanni Paolo secondo e lo ha confermato il suo successore: chi si azzarda a far sesso deve farlo senza il diabolico ordigno, anche a rischio di infettarsi e infettare di Aids il proprio partner.

Come ricorda una delle giovani intervistate da Monica Perosino sullo stesso numero della Stampa, che dovrebbero sentirsi umiliate e aver sofferto profondi dolori fisici usando la pillola maledetta, «l’interruzione farmacologica della gravidanza è più simile a un aborto spontaneo, aiuta a far sembrare tutto meno violento». Ma proprio questo è ciò che ispira la scomunica dell’aborto chimico, dice un’altra delle giovani intervistate. «Perché non fa soffrire, perché è psicologicamente più facile da sostenere. E come si può espiare la colpa senza la penitenza?».

Non molti anni fa - ma fortunatamente sembrano secoli - un cardinale di Santa Romana Chiesa (e forse non era il solo, andiamo a memoria) diceva che l’Aids è il giusto castigo di Dio per coloro che praticano il vizio «contro natura» dell’omosessualità. Se leggiamo con attenzione i due interventi affiancati - e non solo spazialmente - di monsignor Anfossi e della sottosegretaria Roccella - non riusciamo davvero a convincerci che la RU486 sia una minaccia alla salute, alla dignità della donna o addirittura alla civiltà del nostro Paese. Non difendiamo assolutamente una concezione solo edonistica o consumistica della sessualità, dunque riconosciamo che molto spesso l’etica cattolica ha avuto ragione nello stigmatizzare simili eccessi. Ma se abbiamo ereditato dal passato una cultura machista che ha cercato sempre solo di equilibrare la repressione sessuofobica con il ricorso (riservato! Nisi casti saltem cauti) ai più vari tipi di escort, non sarebbe il caso che anche la Chiesa, che nella nostra tradizione ha avuto sempre un peso così centrale, rivedesse le proprie certezze sul «giusto senso della sessualità»?
 
da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 12, 2009, 03:18:26 pm »

12/8/2009
 
A quando la bandiera rionale?
 
GIANNI VATTIMO
 
Ma fino a quando? Sono cominciate le applicazioni della legge sulla «sicurezza» imposta dalla Lega; Bossi straparla di bandiere regionali - ma perché non comunali, di quartiere, di caseggiato? E intanto è sempre più evidente a tutti che il reato di clandestinità non potrà essere seriamente perseguito se non a prezzo di un insopportabile aggravamento del lavoro di giudici, pubblici ministeri, carcerieri e carceri che già scoppiano.

Non solo la vacuità e inapplicabilità di questa legge; anche un bilancio di ciò che la Lega ha preteso dal governo negli ultimi mesi, o dei provvedimenti a cui come parte attiva del governo ha collaborato, dovrebbe spingere i suoi elettori a riflettere. «Roma ladrona», lo slogan di Bossi che manda in delirio le sue piazze, si è rafforzata enormemente proprio per le complicazioni che il federalismo ha creato. Del resto, già da tempo chi ha praticato Bruxelles e le istituzioni europee sa che molte regioni italiane hanno aperto vere e proprie ambasciate presso l’Unione Europea: con spese di locali, personale, eccetera. E per coordinare la moltiplicazione dei poteri regionali sono nate nuove direzioni generali presso i ministeri romani, nuove e sempre più complesse «authorities». Per non parlare degli stipendi e dei privilegi dei consiglieri regionali, in varie regioni di gran lunga superiori a quelli - già alti - dei parlamentari nazionali. E tutto questo in nome delle autonomie locali: penso alle Province, enti della cui inutilità nessuno più dubita, compresi coloro che si sono candidati a presiederle nelle ultime elezioni (così un moderato realista come Vietti, candidato sconfitto alla Provincia di Torino), si sono moltiplicate. E avranno ovviamente diritto alle loro bandiere, magari alle loro ambasciate, a un apposito ministero che le coordini.

La politica, anche e soprattutto quella ispirata dalla Lega, diventa sempre più un terreno in cui si moltiplicano le spese e le cariche inutili, mentre i problemi reali del Paese restano sullo sfondo remoto. E le leggi, sotto la pressione di forze politiche minuscole ma «determinanti» (chi si ricorda mai che la Lega, con tutti i suoi ministri e il suo potere di ricatto su Berlusconi, vale alle elezioni europee un paio di punti percentuali in più dell’Italia dei Valori?), vengono scritte (non ancora in dialetto lombardo, ma poco ci manca) in maniera frettolosa, raffazzonata, contraddittoria, e hanno bisogno di essere immediatamente corrette da decreti ad hoc che ne complicano ulteriormente l’applicazione e ne rendono spesso problematica la costituzionalità (perché sanatoria per le badanti e non per i muratori e i netturbini?).

Conoscendo i suoi successi come uomo d’affari, abbiamo sempre pensato che almeno sul piano dell’efficienza Berlusconi fosse affidabile. Bossi gli fa perdere anche questa unica virtù, lo sommerge nel mare delle sue chiacchiere demagogiche, lo riduce al livello degli urli di Pontida e del ridicolo culto del dio Po. Ma davvero: fino a quando?

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 07, 2009, 10:44:39 am »

IL CIELO

7/9/2009

Parliamo del cielo con il filosofo Gianni Vattimo
   
PIERO BIANUCCI


Poteva essere qualcosa di rituale, l’Anno Internazionale dell’Astronomia. Bei discorsi, tante cerimonie accademiche. Non è così. Anzi, le iniziative intelligenti si moltiplicano e hanno spesso un successo popolare. I piccoli telescopi didattici da 15 dollari progettati per l’occasione si vendono a decine di migliaia e la produzione non riesce a soddisfare la domanda. Le notti di osservazione in Planetari e Osservatori pubblici attirano legioni di curiosi del cielo. Si susseguono dibattiti e conferenze affollate (il 15 settembre all’Accademia delle Scienze di Torino ci sarà il Nobel Riccardo Giacconi), numerosi i progetti didattici con le scuole e le mostre, anche interdisciplinari (“L’universo dentro” si aprirà a Milano il 15 settembre con 100 opere d’arte – vedi www.universodentro.it – , è curata da Stefano Sandrelli per l’INAF e dall’Accademia di Brera; un’altra è in programma a Venezia dal 23 al 28 settembre settembre). Si pubblicano, inoltre, molti libri concepiti apposta per questa festa delle stelle che dura un anno in tutto il mondo.

Dopo la collana di sei volumetti pubblicata da Gruppo B, l’editore della rivista mensile “Orione”, tra gli ultimi libri apparsi vorrei segnalare l’accattivante “Astronomia perché?” (Editrice Compositori, Bologna) di Cesare Barbieri dell’Università di Padova, “padre” di alcuni telescopi spaziali e del nostro telescopio nazionale “Galileo” in funzione all’isola di La Palma nelle Canarie.

Di grande interesse è la ristampa presso l’editore Muzzio della raccolta di saggi di Stillman Drake intitolata “Galileo Galilei, pioniere della scienza”. Qui Drake, forse il maggiore studioso e biografo dello scienziato pisano, analizza in modo penetrante e originale le leggi del pendolo e della caduta dei gravi, le osservazioni delle eclissi dei satelliti di Giove che diedero a Galileo l’unica prova inconfutabile della correttezza del sistema eliocentrico, le teorie delle comete e delle maree, sulle quali invece Galileo inciampò.

E per i più piccoli c’è “Alla scoperta dello spazio”, pubblicato dalla benemerita Editoriale Scienza di Trieste (ora confluita nel Gruppo Giunti). E’ un autentico libro-laboratorio adatto agli aspiranti astronomi di sei anni, pieno di giochi da fare e costruire, perché si capisce e si impara meglio ciò che si tocca con le proprie mani. Ci sono anche stelle e pianeti fluorescenti da appiccicare alle pareti della cameretta.

Una sfida lanciata dall’Unesco nel promuovere l’Anno dell’Astronomia riguardava il rapporto tra la scienza del cielo e il mondo della cultura umanistica, filosofica, letteraria, artistica. Ha raccolto questa sfida il Planetario di Torino Infini.To, accanto all’Osservatorio astronomico dell’INAF sulla collina di Pino Torinese, dove sta per iniziare un ciclo di incontri e talk show che hanno come titolo generale proprio “Il Cielo nella Cultura”.

Si incomincia venerdì 11 settembre, ore 21, con “Il cielo nella filosofia”, ospite Gianni Vattimo.

Che origine ha l’universo? E’ eterno o è destinato a finire, e magari a ricominciare? Quali sostanze compongono i corpi celesti? Che cosa unifica l’estremamente grande e l’estremamente piccolo?

Sono domande modernissime. Le stesse che si pongono oggi astrofisici di tutto il mondo quando “ascoltano” ciò che rimane del rombo del Big Bang e scoprono che lo spazio è pervaso da materia ed energia oscure insospettabili fino a pochi anni fa.

Ma sono anche le domande che si posero i primi filosofi greci tra il VII e il V secolo avanti Cristo: Talete di Mileto vide nell’acqua il Principio Universale, Democrito ipotizzò l’esistenza degli atomi, Parmenide immaginava l’universo eterno e sempre uguale a sé stesso, Eraclito come un fuoco in continua evoluzione, Pitagora vi intravedeva l’armonia dei numeri.

Passando a tempi più recenti, di Immanuel Kant tutti conoscono la frase ispirata che chiude la “Critica della Ragion Pratica”:

“Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.”

E oggi? Che cosa suggerisce il cielo al filosofo? E in particolare al teorico del “pensiero debole”?

Gli interrogativi sulla natura dell’universo che si posero i filosofi sono stati completamente consegnati agli astronomi e ai fisici o la filosofia ha ancora qualcosa da dire in proposito?

Più in generale: dove possono incontrarsi le scoperte astronomiche e la riflessione filosofica?

Gianni Vattimo si è laureato nel 1959 a Torino alla scuola di Luigi Pareyson, ha completato la sua formazione a Heidelberg con Hans Georg Gadamer, maestro del pensiero ermeneutico, ed è stato dal 1969 al 2009 professore ordinario di filosofia estetica e poi teoretica all’Università di Torino, con frequenti periodi di insegnamento in atenei americani (Yale, Los Angeles, New York University, State University of New York).

Studioso di Heidegger e di Nietzsche, ha elaborato la filosofia del “pensiero debole” in contrapposizione con le diverse forme del “pensiero forte” dell’Otto-Novecento: hegelismo, marxismo, fenomenologia, psicanalisi, strutturalismo. Riconoscendo il tramonto di ogni forma di conoscenza assoluta e totalitaria, il “pensiero debole” è diventato anche la chiave per interpretare la società contemporanea e aiutarla nel cammino democratico conducendola fuori dalla violenza e verso la diffusione del pluralismo e della tolleranza.

Di Vattimo va ricordata con altrettanto rilievo l’attività politica e per la diffusione della cultura attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Negli Anni 50-60 fu alla Rai tra i pionieri della neonata televisione italiana, accanto a Umberto Eco (anche lui allievo di Pareyson) e Furio Colombo. In politica è stato parlamentare europeo con il partito radicale, con i Democratici di sinistra e ora con l’Italia dei Valori.

La sua “opera omnia” (una trentina di saggi) è in via di pubblicazione presso l’editore Meltemi. Tra i titoli più noti e tradotti, “Il soggetto e la maschera” (1974), “Il pensiero debole” (1983), “La fine della modernità” (1985), “Credere di credere” (1996), “Addio alla Verità” (2009). Ha curato la “Garzantina” della filosofia e collabora a giornali italiani e stranieri (La Stampa, El Paìs, Clarìn).

Il secondo appuntamento del ciclo “Il cielo nella cultura” è per venerdì 30 ottobre con “Il cielo nella letteratura”, ospiti lo scrittore Dario Voltolini (direttore didattico della Scuola Holden fodata da Alessandro Baricco) e il critico letterario Giovanni Tesio (Università del Piemonte Orientale).

Sarà poi la volta di Marco Piccolino (ordinario di fisiologia all’Università di Ferrara), protagonista di una serata sul legame tra osservazione astronomica e neuroscienze dal titolo “Il cielo negli occhi di Galileo”, in calendario venerdì 6 novembre.

Seguirà venerdì 27 novembre “Il cielo dei matematici da Galileo a Einstein” con Piergiorgio Odifreddi. Concluderà il ciclo un dibattito sul tema “Le nove Grandi Idee che l’astronomia ha dato alla cultura” (11 dicembre), con la partecipazione di Ernesto Ferrero, scrittore e direttore della Fiera Internazionale del Libro di Torino, Stefano Sandrelli (INAF, Milano, Osservatorio di Brera) e Piero Galeotti (Università di Torino).

Per informazioni e prenotazioni:
www.planetarioditorino.it
info@planetarioditorino.it
Tel. 011- 811.8640

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 26, 2010, 10:31:40 am »

26/7/2010

Il destino dell'antagonista "vincitore"

   
GIANNI VATTIMO

Il fatto che i Ditirambi di Dioniso - l’unica raccolta poetica che Nietzsche abbia progettato di pubblicare come libro a parte, e che uscì poi postuma - siano quasi ignorati o comunque assai poco discussi dalla letteratura filosofica, e invece oggetto di attenzione da parte dei musicisti (a iniziare da Richard Strauss e dal suo Poema sinfonico su Così parlò Zarathustra), è un altro dato emblematico della contraddittoria fortuna del filosofo come «rivoluzionario della cultura».

Il nome di Dioniso collega queste poesie alla prima grande opera nietzschiana, La nascita della tragedia, in cui il poco meno che trentenne professore di filologia classica annunciava il suo progetto di rinnovamento «wagneriano» della decadente civiltà europea ormai dominata dal razionalismo socratico e dalla incipiente organizzazione totale della società industriale.

Quel progetto - ripresa della creatività perduta con il distacco dal mito preclassico che si celebrava nelle feste dionisiache da cui era nata la tragedia greca - accompagna in forme diverse tutta la carriera filosofica di Nietzsche, nonostante la delusione e il distacco da Wagner cominciati proprio con la nascita del Festival di Bayreuth, e culmina nel finale grande attacco al Cristianesimo riassunto nel motto «Dioniso contro il Crocifisso». Un attacco che, emblematicamente, rivive oggi, come a Bayreuth, solo in un festival. Ma il destino dell’antagonista «vincitore» è poi tanto diverso?

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7641&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #19 inserito:: Aprile 16, 2011, 04:33:33 pm »


Blog | di Gianni Vattimo

16 aprile 2011


Piazza, fascismo e par condicio

I custodi della democrazia parlamentare (non parlo ovviamente di Giuliano Ferrara) che si sono scandalizzati dell’articolo di Asor Rosa sul Manifesto del 13 aprile hanno forse letto meno attentamente un articolo di Juergen Habermas uscito su La Repubblica dello stesso giorno. Le considerazioni di Habermas, meno esplicitamente riferite alla situazione italiana, erano però le stesse di Asor Rosa: prendevano atto (citando persino il New York Times) della crisi irreversibile del sistema democratico parlamentare in cui viviamo noi del “mondo libero”, e tematizzava la dissoluzione sempre più marcata di ogni politica degna di questo nome. Secondo Habermas, solo (forse) l’ideale dell’unità europea, praticato seriamente, potrebbe ancora fornire contenuti significativi per i quali impegnarsi come cittadini. In considerazione di questo, l’articolo concludeva con la tesi che “forse per i partiti politici sarebbe ora di rimboccarsi le maniche” (ahi, ha letto Bersani?) e “scendere in piazza per l’unificazione europea”.

Ciò che colpisce, in un pensatore “moderno” e istituzionalista come Habermas, è proprio l’allusione alla piazza. Proprio un razionalista illuminista come lui, da sempre persuaso che si possa fondare una politica democratica sul dialogo e, in definitiva, le istituzioni (parlamenti, Onu, ecc.), chiamare i partiti a scendere in piazza è un segno che la speranza (o la pazienza) sta venendo meno. Non c’è da aspettarsi che la politica ritrovi un contenuto e un volto decente, capace di non defraudare i cittadini dei loro diritti, se si guarda solo ai parlamenti e alle istituzioni. Asor Rosa, nel suo articolo, è più habermasiano di lui: non invoca la piazza (forse per la semplice ragione che, come l’esperienza italiana insegna, la piazza non ce la fa; Berlusconi resiste perché ha “servi di acciaio” che occupano il parlamento), ma chiede l’intervento costituzionale delle forze dell’ordine: Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza.

Il capo delle forze armate è il Presidente della Repubblica, che è anche il custode della Costituzione. Come ha il potere, uditi i presidenti delle Camere e del Consiglio (ma non ci sarebbe un ennesimo conflitto di interessi, nel caso del cavaliere? Lo “oda” pure, ma non gli dia retta!), di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni, così (se leggiamo bene la Costituzione) può decretare lo stato di emergenza e ordinare alle forze dell’ordine di difendere, per l’appunto, l’ordine democratico. Gli esempi che Asor Rosa adduce sono dei più convincenti: sarebbe stato golpe se Vittorio Emanuele III avesse schierato l’esercito contro le milizie fasciste in marcia su Roma, e avesse rifiutato di affidare il governo a Mussolini? Possiamo allora chiedergli di aspettare che il pericolo fascista – anche solo della corruzione dilagante, del trionfo del potere mafioso su cui si regge Berlusconi – diventi più evidente e cioè, ormai, incontrastabile?

Asor Rosa, nell’intervista a La Repubblica (del 14 aprile, ndr), sembra volersi limitare alla messa in luce di una questione di metodo: se la maggioranza parlamentare – di cui sappiamo come è stata reclutata, e persino a che prezzi – calpesta la Costituzione e si rifiuta di essere giudicata dalle autorità competenti, che cosa bisogna fare? Difendere l’ordine democratico con le forze dell’ordine è appunto quel che si deve fare. Se no, di grazia, che cosa? Se Hitler, sia con l’uso dei media di cui illegalmente dispone, sia comprando i voti, o semplicemente perché una maggioranza di cittadini lo preferiscono, vince le elezioni, lo stato democratico non ha mezzi per difendersi? Può una tornata elettorale ordinaria valere come base di legittimità per il cambio della Costituzione? La banda di gangster che oggi occupa il governo dispone, oltre tutto, di una maggioranza estremamente esigua, e con le leggi che approva sta di fatto stravolgendo la Costituzione. Non è ora per il Capo dello Stato di intervenire? Fermi con la forza legale di cui dispone questa inedita marcia (anche nel senso di marciume!) su Roma. Prima che sia troppo tardi. O la sua inerzia significa che, appunto, troppo tardi è già?

Post-scriptum (post-post?)

Forse il mio, ma anche quello di Asor Rosa e Habermas, è solo un problema di salute: s’invecchia, e si diventa insofferenti.
Sta di fatto, però, che poco fa ho rifiutato l’ennesimo invito di una televisione privata in cui ho anche degli amici, che mi chiedeva di partecipare a una trasmissione in cui avrei dovuto misurarmi anche con la Santanché. E, cosa ancora più grave, ieri sera sono scappato, subito dopo l’inizio, da Annozero per vedere un film. La parte della Santanché lì era esercitata da Cota. Non faccio queste confessioni per mettere in piazza i miei stati d’animo o di stomaco, ma per chiedere ai non pochi con cui condivido orientamento politico e esili speranze di futuro se non sia il caso di mettersi in sciopero del “dialogo”, in  una sorta di Aventino civico che consista nel rifiutare di scendere troppo in basso, per rispetto della dignità e della, sia pur limitata, intelligenza di cui ancora ci sembra di disporre. Se per sentire dire da Santoro alcune verità sullo stato del Paese dobbiamo ascoltare anche – democraticamente – le autentiche turpitudini di figure e figuri come la Santanché, Cota, o persino di quel brav’uomo di Paniz, allora meglio il silenzio, svegliateci quando sarà passata la nuttata, oppure quando verranno ad arrestarci per vilipendio della par condicio.

Par condicio con i banditi, i bugiardi, i credenti nella relazione di parentela di Ruby con Mubarak, i venduti a un tanto al chilo (posti di sottosegretario, o anche solo mutui da pagare…)? Preferiamo riconoscere francamente che il fascismo c’è già; non possiamo sparare, per ora (come dicono Castelli e Speroni), ma almeno siamo coscienti che lì, prima o poi, ci porteranno questi affaristi e delinquenti che occupano il governo del paese in violazione di ogni elementare diritto umano. E l’Europa, che pure ha decretato sanzioni contro l’Austria quando in Carinzia aveva vinto le elezioni  il “fascista” Haider, buonanima, tace sullo scempio della democrazia in Italia? Altro che aiuto sull’immigrazione, qui ci sarebbero gli estremi per un intervento armato della Nato… Paradossi, paradossi – come quelli che, secondo la timorata direttrice del Manifesto, sarebbero il vero senso dell’intervento di Asor Rosa, che così risulta solo un’ennesima chiacchiera da “dibattito” in regime di par condicio…  Quando ci accorgeremo che l’Italia è (ri)diventata un paese fascista sarà troppo tardi. Magari ci verranno conservati i dibattiti televisivi con la Santanché, finché i nostri stomaci resisteranno…

da - ilfattoquotidiano.it/2011/04/16/
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 18, 2012, 03:38:47 pm »

Cultura

16/03/2012 -



L’'Ana-teismo di Richard Kearney: così l'esperienza del vuoto ci riapre al problema della trascendenza

GIANNI VATTIMO

Esce oggi da Fazi il saggio di Richard Kearney Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio (pp. 330, e17,50), in cui il filosofo, allievo di Ricœur e professore al Boston College, conduce il lettore in un percorso innovativo alla ricerca del sacro dopo l’ateismo.

Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione di Vattimo.


Il prefisso greco ana-, che a prima vista potrebbe essere inteso in senso negativo (come se si trattasse di negare l’a-teismo, pensate al termine an-alcolico…), significa invece, oltre che «salita», anche «ritorno». Due sensi che Kearney non sottolinea insieme, preferendo il secondo senso, il ritorno; non direi però che il primo senso, la salita, sia del tutto scomparso, giacché il ritorno implica sempre per Kearney un qualche momento di illuminazione piena, diremmo di arrivo alla cima, che coincide bensì, nella mistica, con la notte oscura di cui tanti mistici ci parlano, ma che ha comunque il carattere di un momento decisivo - una sorta di evidenza che Kearney pensa sempre in base all’eredità della fenomenologia assimilata attraverso il suo maestro Ricœur. Il senso del prefisso ana-, dunque, non è solo una questione di filologia, segna anche, pare a me, la differenza - leggera ma non insignificante - attraverso cui io mi introduco nel discorso di Kearney, e perciò la via che, solo, posso indicare ai lettori.

Dunque: la cultura dentro la quale ci capita di vivere è orientata a considerarsi il punto di arrivo di uno svolgimento che, negli schemi filosofici dominanti, di origine hegeliana, ma anche genericamente illuministici e positivistici, si pensa come proveniente da fasi primitive teistiche, caratterizzate da una religiosità non di rado superstiziosa, che poi, attraverso scienza e tecnica, si evolve progressivamente verso quella che Nietzsche chiamerà la «morte di Dio» (il quale per lui si rivela una menzogna non più necessaria all’uomo tecno-scientificamente evoluto), e cioè verso un ateismo teorico-pratico sempre più generalizzato. Questo schema illuministico-storicistico è quello da cui Kearney parte per negarne la validità, alla luce non solo della propria esperienza personale, ma di quella che gli sembra, giustamente, una diffusa ripresa, o sopravvivenza, del problema di Dio al di là di ogni approdo ateistico. Non solo a causa di quelle che si potrebbero chiamare le autocontraddizioni performative del «progresso» (dalla bomba atomica all’Olocausto), ma per l’incertezza e l’esperienza di finitezza che il nostro mondo conosce e che lo richiamano, appunto, a quel senso di vuoto e di sospensione di ogni certezza che l’autore chiama anateismo.

Ancora in armonia con la propria formazione fenomenologica, Kearney pensa a questo stato d’animo come all’epoché husserliana, quella sospensione dell’atteggiamento «naturale» nei confronti delle cose che permette di elevarsi alla visione delle essenze. Si va oltre l’ateismo «naturale» del nostro mondo quando facciamo esperienza di questo vuoto che è anche l’apertura a una epifania, a una illuminazione, che ci riapre all’esperienza di Dio. Qualunque Dio esso sia. Nel vuoto e nell’incertezza che ci apre all’anateismo e a un nuovo possibile incontro con Dio entra anche la consapevolezza moderna e tardo-moderna della pluralità delle religioni, dunque il problema del dialogo interreligioso e delle molteplici vie che in esso si confrontano e spesso si scontrano. L’anateista di Kearney è inoltre un uomo del dialogo con gli dèi stranieri. La religiosità ritrovata nella sospensione degli assoluti sia teistici sia ateistici è anche caratterizzata da una apertura all’altro che è sempre stata preclusa alle fedi non passate attraverso la notte oscura - non solo mistica, ma culturale - di cui noi moderni siamo figli e prodotti.

Kearney, nelle non rare digressioni autobiografiche del libro, ricorda anche di aver a lungo lottato contro l’autoritarismo della sua Chiesa e poi delle Chiese e sette che ha incrociato. Di modo che l’anateismo non è solo, in definitiva, il momento di sospensione e di vuoto destinato a trovare «di nuovo» una fede «piena» più o meno affine alle fedi tradizionali, ma un atteggiamento che deve accompagnare (sembra di parlare dell’«io penso» kantiano!) ogni fede ritrovata. Di ogni fede comunque ritrovata deve far parte la preghiera che domanda di essere aiutati a credere: Signore, credo, aiuta la mia incredulità. Che era anche la preghiera persino di Madre Teresa, come ricorda Kearney. Ma potremmo pensare a Pascal, che consigliava ai non credenti di pregare per ottenere la fede.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/446642/
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 06, 2012, 10:56:18 am »

5/7/2012

Ma non è nella natura che si scopre il divino

GIANNI VATTIMO

Sarà pur vero che l’evento - solo cosi lo si può chiamare - che ha rotto la quiete uniforme del «tutto» prima della nascita delle cose ha avuto un peso decisivo nel prodursi di quella differenziazione di particelle da cui e’ cominciato, per ciò che ne sappiamo, il corso dell’evoluzione di cui, bene o male che sia, noi siamo per ora il punto di arrivo. Ma parlare del bosone di Higgs come se fosse Dio è davvero un po’ troppo. Non perché si tratti di una bestemmia («Dio bosone» è sicuramente un’espressione che fino a oggi non era venuta ancora in mente a nessun ateo blasfemo, per quanto dotto e accanito). Semmai, esprime un atteggiamento mentale che non ha più quasi alcun ascolto presso teologi, filosofi, uomini di fede. Riflette infatti la convinzione che Dio si possa in qualche modo scoprire in questo o quell’ aspetto della natura. Ma da quando Gagarin, spedito nel cosmo con la navicella, ovviamente atea, dell’Urss ha potuto esplorare il cielo senza trovare Dio, questa aspettativa «positivista» ha perso ogni senso, se mai ne ha avuto uno. Le cinque vie classiche di San Tommaso - quelle che «dimostravano» l’esistenza di Dio a partire dal mondo, di cui Dio sarebbe la causa prima o il motore ultimo - erano bensì molto più sofisticate dell’ ingenuo ateismo di Krusciov; ma anche loro hanno resistito poco all’affermarsi progressivo del convenzionalismo scientifico moderno. Ormai attribuiamo solo all’uomo primitivo - quello per il quale il tuono o il fulmine sono opera di un qualche soggetto supremo l’idea che il mondo materiale debba essere stato prodotto da una volontà originaria ritenuta onnipotente. San Tommaso stesso osservava che dal punto di vista di Aristotele sarebbe stato molto più razionale pensare al mondo come eterno. Se no come avrebbe potuto, una volontà perfetta e sottratta al divenire, e cioè immutabile, decidere, a un certo punto, di crearlo? Il racconto della creazione è un contenuto della fede, cui si crede (chi ci crede) come a un mito fondatore della nostra esistenza individuale e sociale che accettiamo perché sentiamo che senza di esso perderebbe ogni senso ciò che pensiamo e facciamo. Ma quanto a parlarne in termini di scienza fisica non ci prova ormai più nessuno.

Se anche dobbiamo pensare che il bosone di Higgs non c’entra niente con Dio, è però vero che scoperte come quella di oggi hanno un potente riflesso sulla nostra vita, sulla visione del mondo, dunque anche sulla nostra religiosità. E’ una specie di effetto che possiamo solo chiamare «neutralizzante» rispetto alla nostra storia vissuta. Come confrontare i pochi millenni della storia della specie umana con gli sterminati orizzonti delle ere geologiche, del formarsi del cosmo fisico e, appunto, con i minuti seguiti al big bang. La scienza moderna, del resto, si è formata anche e soprattutto criticando il racconto della Genesi, anzitutto contestando il geocentrismo biblico (ricordate il Galileo di Brecht, che ispira a molti l’idea che tutto ormai sia permesso). E ciò non solo per la sconsiderata volontà delle autorità religiose di difendere una cosmologia «rivelata» che veniva progressivamente dissolvendosi; ma anche e soprattutto perché, effettivamente, non era e non è facile pensare alla nostra storia umana in termini di storia della salvezza o anche solo, in termini laici, come storia della civilizzazione, e insieme alla nostra posizione nel cosmo, un battito d’ali di farfalla destinato a durare un attimo e a essere inghiottito dal silenzio cosmico. L’ostinazione con cui la Chiesa ha sempre tentato di contrastare la cosmologia moderna e il suo spirito illuministico riflette la preoccupazione, non così irragionevole, di conservare un senso alla storia umana - e dunque all’etica, alla politica, alla società - di contro al senso nichilistico, leopardiano, suscitato dal sentimento dell’infinito cosmico. Non c’è un’uscita consolante e pacificante da questo dilemma. Noi siamo - storicamente - quell’umanità che ha anche scoperto, se cosi è, il bosone di Higgs; ma questa scoperta è un momento della nostra storia. Non è una constatazione risolutiva, ma è con questa condizione duplice, librata tra storia e natura che dobbiamo fare i conti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10296
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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 25, 2013, 03:39:14 pm »

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Ingroia, Di Pietro e la rivoluzione che non può più attendere

di Gianni Vattimo | 24 gennaio 2013


Inutile dire che voterò per la lista Ingroia, soprattutto perché è lì che ritrovo Di Pietro e quel che resta di IdV; giustamente purificata dagli elementi di destra che ci stavano dentro fino ad ora: persone per lo più rispettabili e solo di opinioni più conservatrici delle mie; a parte ovviamente quelli che hanno ceduto alle lusinghe berlusconiane in vari momenti, o quelli che hanno deciso di scappare con la cassa.

Di Pietro ha ragione: dobbiamo usare di questa emorragia di finti o scontenti militanti per rendere IdV più autenticamente quello che deve, voleva, essere: un partito di rinnovamento radicale della politica e della società italiana; non per niente, a parte l’innominabile Lega, è rimasto l’unico gruppo di opposizione al governo eurobancario Bersani-Monti-Napolitano.

Proprio guardando al destino di Di Pietro e di IdV non posso evitare di pensare, come altri “ingroiani” che si sono espressi negli ultimi giorni sul “manifesto” e altrove che è stato un grave errore – forse non a breve scadenza, ma per il dopo-elezioni – non accettare semplicemente
l’offerta di Di Pietro di aprire le liste di IdV a tutta la sinistra usando delle strutture organizzative e anche delle risorse finanziarie del partito.

Non solo avrebbe evitato l’inutile lavoro di raccolta delle firme per la presentazione della lista, ma soprattutto avrebbe garantito una continuità organizzativa per il dopo-elezioni. Temo che De Magistris faccia troppo conto sulla militanza napoletana che certo ha mostrato di funzionare per la sua elezione; ma per il resto d’Italia, salvo casi specifici, io temo per il dopo elezioni una specie di liquefazione.
Di cui sono responsabili gli ingroiani che hanno sacrificato questa possibilità sull’altare, un po’ grillino un po’decisamente tafazziano, della purezza delle candidature: niente politici già in campo, eventualmente meglio la casalinga di Voghera che Di Pietro o Ferrero ecc.

Un simile rinnovamento totale della politica dalle stesse basi è pensabile solo in un momento davvero rivoluzionario, che non è propriamente il nostro. Una politica che non si affidi – come anche potrebbe, se ne avesse la forza – alle canne dei fucili, non può pretendere di cominciare da zero come per un po’ hanno pensato la lista Ingroia e molti dei suoi promotori più prestigiosi. Risultato, ripeto, il rischio – o ben più che il rischio – di disperdersi dopo le elezioni, anche nel caso, per niente probabile, che si abbia una larga affermazione alle urne.

Affermazione che è minacciata anche proprio dall’immagine troppo “liquida” che stiamo dando. Sento anche qualcuno dire che la lista di Rivoluzione civile è solo un primo passo: ma quanto tempo credono di avere? La storia dei partitini di estrema sinistra in Italia è stata sempre quella di ‘primi passi’ (Estremismo malattia infantile?), sono nati così gruppi e gruppetti che polemizzano vanamente tra loro senza avere alcun rilievo politico. Allora il “voto utile” di Bersani? Utile a lui e a Monti e ai banchieri? No,naturalmente. Ma un po’ più di discernimento politico.

E un augurio che Di Pietro non molli il suo lavoro di rinnovamento di IdV, che potrebbe e dovrebbe essere il partito della opposizione di domani – ricordando agli elettori che non ha mai votato i provvedimenti devastanti di Monti , come invece ha fatto il Pd . Con che faccia ora Bersani dice che vuole ridurre le spese per i caccia F35, lui che le ha votate impassibile pochi mesi fa? E che ha votato anche la distruzione dei diritti sindacali promossa dalla Fornero.

Naturalmente Di Pietro può anche proseguire come ha fatto da ultimo: rinunciare al simbolo, al nome,per confluire nella lista arancione.
Io credo che sarebbe più saggio per Di Pietro e per gli stessi obiettivi della lista arancione se tutta la sinistra ingroiana accettasse di confluire nel già esistente partito IdV: purificato, con le recenti defezioni e con il loro aiuto, di ogni scoria conservatrice, garantito da Di Pietro, Zipponi, anche De Magistris (che di lì viene), e sperabilmente Landini, la sua Fiom, il movimento NoTav.

Insomma le forze sane,come si diceva una volta, o almeno non “insane” come certe volte tendono fanaticamente a diventare.
La prossima legislatura, con il governo Bersani-Monti—Casini – Vendola (!?) durerà probabilmente un anno o anche meno. Non avremo il tempo di giocare alla rivoluzione svegliando consultando pensosamente le casalinghe di Voghera, dovremo rispondere rapidamente alle tante di loro che incontreremo nelle piazze e negli scioperi che segneranno il nostro futuro imminente.   

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/24/ingroia-idv-e-la-rivoluzione-che-non-puo-piu-attendere/478886/
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« Risposta #23 inserito:: Giugno 30, 2013, 04:48:51 pm »


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LA FORTUNA DEL PENSIERO DEBOLE

Gianni VATTIMO

L’ANTOLOGIA Trent’anni fa, il dibattito filosofico italiano fu investito dalla svolta ermeneutica e “debolista”. “Verità e metodo” di Gadamer, uscito una prima volta nel 1972, ottenne risonanza con la ristampa dell’83 e Feltrinelli pubblicò in quell’anno l’antologia “Pensiero debole” a cura di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, che fu anche il traduttore di Gadamer.


“Avevo iniziato la traduzione di Gadamer a Heidelberg. Gadamer non è un debolista. Secondo me il suo limite è proprio quello di continuare a credere nelle Scienze della natura. Quanto all’antologia sul “Pensiero debole”, noi partivamo da un’affermazione di Gadamer traducibile come: ‘L’essere, che può essere compreso, è il linguaggio’. Per me e Richard Rorty – ricorda Vattimo – da qui si doveva partire con un pensiero d’indebolimento che emancipasse le riflessioni da ogni modello dato. L’indebolimento da ogni pretesa oggettiva e da ogni valore non negoziabile era e resta la prospettiva necessaria. Noi accediamo ai fatti attraverso paradigmi, che vanno indeboliti”.
L’antologia fu tradotta in varie lingue e sollevò dibattito, inizialmente sulle pagine di “Alfabeta”. L’ermeneutica gadameriana pure andò gradatamente affermandosi nonostante alcune critiche internazionali (Albert, Betti e Hirsch) che ritenevano “Verità e metodo” privo di ogni istanza critica. Come sintetizzato nell’Introduzione a “Domandare con Gadamer”, di Carlo Gentili, Francesco Cattaneo e Stefano Marino (Mimesis, 2011, pp. 238, euro 20), il paradigma gadameriano, “incentrato sul comprendere come determinazione e disposizione fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo” andò sviluppando “ramificazioni nei diversi territori dell’arte e della storia, del linguaggio e della pratica etico-politica, finendo così col configurare una sorta di fenomenologia generale della cultura umanistica”.
30 ANNI DI ERMENEUTICA ITALIANA Con la crisi dello strutturalismo, e il tramonto della militanza legata all’esistenzialismo sartraino, l’ermeneutica si andò in effetti affermando in una molteplicità di discipline. Specie nel campo dell’arte a partire dalla tesi gadameriana secondo la quale l’opera d’arte è il luogo di “un incremento dell’essere”, tesi accolta in diverse riflessioni dell’estetica contemporanea (come in “L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità” a cura di Pietro Montani). Anche variamente declinate, come nella lettura della tragedia come ciò che “rende manifesta la struttura dell’opera d’arte come evento” (Carlo Gentili, Luca Garelli, “Il tragico”, Il Mulino, 2010).
Il pensiero debole ebbe anni di successo, meno filosofico e più politico-mediatico. “Eravamo tutti a sinistra forse per una questione generazionale: c’eravamo formati nella cultura einaudiana”, commenta Vattimo. “Con noi c’era anche Umberto Eco, che scrisse un saggio per l’antologia dietro nostra spinta. Ma il pensiero di Eco è tomista, non si può ritenere debole o antiparadigmatico”. A sinistra erano posizionati anche gli altri. Massimo Cacciari, “ma il suo è un pensiero quasi di destra e si è messo anche con il peggio, Rutelli”, afferma Vattimo; Emanuele Severino, “lui è un parmenideo e il suo pensiero non può essere di sinistra”; la Fenomenologia, “per me l’erede di Enzo Paci è Rovatti”; Carlo Sini, “non ho contrasti, ma i suoi sono solo discorsi accademici”…
Progressivamente gli “indebolimenti della realtà” hanno mostrato debolezze epistemologiche diventando, talvolta, un conformismo alla “anything goes” in stile Paul K. Feyerabend, caro solo ai media, che ha diminuito il senso di responsabilità e favorito un diffuso nichilismo cinico.
Una certa stanchezza era nell’aria quando il miglior allievo di Vattimo, Maurizio Ferraris, nel 2001 pubblicò “Il mondo esterno”, che Bompiani riedita in questi giorni con una nuova postfazione. A dieci anni di distanza, Ferraris fissa la data di quella svolta nell’incombenza della morte di Derrida, il pensatore che più di ogni altro aveva sostenuto che “nulla esiste al di fuori del testo”. “Eravamo al premio Adorno a Francoforte. A un certo punto Derrida estrasse dalla cartella la copia del ‘Mondo esterno’ che gli avevo mandato e mi chiese di fargli una dedica. Mi sembrò il mondo capovolto”.
IL NUOVO REALISMO Infatti si capovolgeva. Fu in Ferraris il segno di svolta dall’ermeneutica all’ontologia che si è temporaneamente affermato con il “Manifesto del Nuovo Realismo” nel2012. Adistanza di così tanti anni Vattimo ancora non si dà pace: “Ferraris sostiene che se non ci fossero i documenti non ci sarebbe interpretazione. Ma io non nego realtà o paradigmi; semplicemente non sono la verità e il fondamento”. Solo che oggi anche il Nuovo realismo sta finendo nel mirino di nuovi oppositori, come la linguista Donatella Di Cesare.
Nel 2010, acinquant’anni dall’uscita di “Verità e Metodo”, si fece un punto più rasserenato dell’ermenutica con un convegno svoltosi a Bologna (a cura di Cattaneo, Gentili, Marino). Il debolismo, invece, è continuato su “Aut Aut” (22 marzo 2013, fascicolo “La diagnosi in psichiatria”) e ripreso in “Della realtà. Fini della filosofia” di Vattimo (Garzanti 2012) proprio in contrasto con il Nuovo Realismo di Ferraris, nuovamente rigettando la possibilità di una “teoria” e ribadendo il principio nietzschiano: “Non ci sono fatti. Solo interpretazioni”.
Ma è chiaro che oggi le letture sociologiche della società (liquide, della decrescita, della globalizzazione e delle nuove forme di comunicazione di massa) e quelle etiche (fine vita, biologismo) stanno monopolizzando la riflessione. “Bauman, Augé e gli altri sono interessanti lettori della realtà, ma l’Ermeneutica resta il tentativo di una nuova koinè; loro non sono radicali”. E sbocciano, anche i critici dei critici. Un libro di Umberto Curi getta uno sguardo severo sul “Nuovo Realismo”.
PROSPETTIVE “Ci vuole un relativismo totale che estremizzi Rorty, esattamente contrario al razionalismo neokantiano di Habermas, che crede in una razionalità universale. La razionalità universale – conclude Vattimo – è un paradigma che ha intenzioni dominanti; fondare su di esso un’etica è pericoloso. Il pensiero debole, invece, sta con i deboli”. Morale: “Ci vorrebbe ancora la lotta di classe”.


da - http://fattoadarte.corriere.it/2013/06/21/la-fortuna-del-pensiero-debole/
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:51:24 pm »

Val di Susa, Vattimo: “Non considero le azioni dei NoTav come terroristiche”

Il filosofo ed europarlamentare Idv Gianni Vattimo non fa marcia indietro rispetto alle polemiche dei giorni scorsi sull’illegalità di certe pratiche messe in atto dagli attivisti che si oppongono ai tunnel in Val di Susa. E si schiera contro la procura di Torino che nelle scorse settimane ha indagato 12 attivisti per eversione e terrorismo. “In Valle c’è un movimento di base – continua l’europarlamentare – che pratica la disobbedienza civile e come ogni disobbedienza qualcosa disturba”. Sono diverse le voci del Pd piemontese che si sono alzate contro
l’europarlamentare colpevole di “denigrare la procura” e “allearsi con i sovversivi”. Vattimo risponde: “Alle volte mi sento un privilegiato, perché posso fare l’estremista. Certo un operaio di Pomigliano se protesta viene licenziato, io approfitto della mia posizione di privilegio sociale per fare casino” 

di Cosimo Caridi
19 agosto 2013

da - http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/08/19/val-di-susa-vattimo-non-considero-azioni-dei-notav-come-terroristiche/242470/
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