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7651  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MICHELE AINIS. Ddl Boschi, quelle sette bugie e la verità sulla riforma inserito:: Settembre 19, 2015, 11:18:25 am

L’analisi
Ddl Boschi, quelle sette bugie e la verità sulla riforma
Che cos’è una bugia? È solo la verità in maschera, diceva lord Byron. Difatti al Carnevale delle riforme la verità si maschera, s’occulta, si traveste. La verità genera falsi d’autore e quei falsi diventano poi luoghi comuni, accettati da entrambi i contendenti. L’ultima balla è anche l’unica credibile: se v’impuntate sull’elettività dei senatori potremmo sbarazzarci del Senato, dichiara la ministra Boschi. Perché no? Dopotutto il monocameralismo funziona in 39 Stati al mondo. E dopotutto meglio nessun Senato che un Senato figlio di nessuno. Ma per ragionare a mente fredda dovremmo intanto liberarci dalle bugie che ci raccontano. Ne girano almeno sette, come i peccati capitali.

di Michele Ainis

Revisioni costituzionali
Primo: in Italia si tentano riforme costituzionali da trent’anni, senza cavare mai un ragno dal buco. Questa è l’ultima spiaggia. Falso: dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Se il sistema, nonostante le medicine, non guarisce, significa che la cura era sbagliata. Dunque le cattive riforme procurano più danni del vuoto di riforme.

Il ruolo delle Camere
Secondo: Vade retro gubernatio. La Costituzione è materia parlamentare, non governativa. Sicché l’esecutivo deve togliersi di mezzo, abbandonando la pretesa di dirigere l’orchestra. È l’argomento sollevato dalle opposizioni, così come l’argomento precedente risuona in bocca alla maggioranza. Ma è falso pure questo. O meglio: sarà esatto nel paradiso dei principi, non nell’inferno della storia. Nel 2001 la riforma del Titolo V venne accudita dal governo Amato. Nel 2005 la Devolution era stata scritta di suo pugno dal ministro Bossi. Nel 2012 l’obbligo del pareggio di bilancio fu imposto dal governo Monti. Ma già nel 1988 il gabinetto De Mita si era presentato agli italiani come «governo costituente».

Terzo: la riforma è indispensabile per accelerare l’iter legis. Giacché in Italia il processo legislativo ha tempi biblici, che dipendono dal ping pong fra Camera e Senato. I dati, tuttavia, dimostrano il contrario. Il tempo medio d’approvazione dei disegni di legge governativi era 271 giorni nella XIII legislatura (1999-2001); in questa legislatura è sceso a 109 giorni. Mentre nel quinquennio precedente (2008-2013) il Parlamento ha licenziato la bellezza di 391 leggi. No, non è una legge in più che può salvarci l’anima. Semmai una legge in meno, e anche una fiducia in meno. È la doppia fiducia, non il doppio voto sulle leggi, che ha reso traballanti i nostri esecutivi.




L'elezione diretta
Quarto: l’elettività dei senatori. Serve per assicurare un contrappeso al sovrappeso della Camera, dice la minoranza del Pd. Falso. Come ha osservato Cesare Pinelli, l’elezione diretta determina l’una o l’altra conseguenza: un’assemblea con gli stessi equilibri politici della Camera, ovvero con equilibri opposti. Nel primo caso il Senato è inutile; nel secondo è dannoso. Del resto l’elezione popolare non c’è in Francia, né in Germania, né in varie altre contrade. Non c’è nemmeno in Inghilterra, tanto che il governo (nel 2012) aveva pensato d’introdurla. Ma i Lord inglesi si sono ribellati all’elettività, come i senatori italiani si ribellano alla non elettività.

Quinto: dipenderà da Grasso, il signore degli emendamenti. Se apre il vaso di Pandora dell’articolo 2, se rimette in discussione i criteri di composizione del Senato, la riforma s’impantana. Ma non può farlo, perché in Commissione la Finocchiaro li ha già dichiarati inammissibili. Giusto? No, sbagliato. In primo luogo c’è almeno un precedente: nel marzo 2005 quattro emendamenti (firmati da Bassanini, Zanda e altri) vennero recuperati in Aula dal presidente Pera. In secondo luogo non è Grasso che vota, lui mette ai voti. E la maggioranza o c’è o non c’è: se manca sull’articolo 2, mancherà pure sugli altri articoli in esame. In terzo luogo la pallina dovrà comunque rimbalzare sulla Camera, dato che il governo stesso punta a correggere diversi aspetti del testo fin qui confezionato. C’è ancora tempo per il giudizio universale.

I costi
Sesto: con la riforma otterremo un Senato a costo zero, perché i senatori-consiglieri regionali non intascheranno alcuna indennità. Davvero? Mica verranno a Roma in bicicletta: treni e alberghi ci toccherà comunque rimborsarli. Ma dopotutto basta un’occhiata al bilancio del Senato. Nel 2014 Palazzo Madama ha speso oltre mezzo miliardo, di cui 79 milioni per i senatori, quasi il doppio (145 milioni) per il personale. L’unico Senato gratis abita nei Paesi dove non c’è il Senato.

Settimo: o la riforma o il voto. È l’arma nucleare minacciata dal governo per spegnere il sacro furore dei dissidenti, però trascura un elemento di non poco conto. Voteremmo, infatti, con il Consultellum, un proporzionale puro; e il primo a rimetterci sarebbe proprio Renzi. È vero casomai l’opposto: dopo la riforma, voto anticipato. Come detta la logica delle istituzioni, perché non si può tenere in moto un’automobile cambiandone il motore. E come suggerisce, guardacaso, una doppia coincidenza: l’Italicum, la nuova legge elettorale, entrerà in vigore nel luglio 2016; e un paio di mesi dopo il governo intende celebrare il referendum sulla riforma costituzionale. Sarà per questo che in Parlamento vogliono tirarla per le lunghe. Il tempo porta consiglio, ma il tempo dei parlamentari porta pensione.

18 settembre 2015 | 07:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/cards/ddl-boschi-quelle-sette-bugie-verita-riforma/urne-anticipate.shtml
7652  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / MONICA GUERZONI. - L’INTERVISTA MARIA ELENA BOSCHI inserito:: Settembre 19, 2015, 11:17:09 am
L’INTERVISTA MARIA ELENA BOSCHI
«Avanti perché non abbiamo paura Grasso? Aspettiamo la sua scelta»
Le riforme costituzionali in Aula a Palazzo Madama.
La ministra per le Riforme non «è preoccupata per i numeri».
E aggiunge: «La doppia lettura conforme non si ridiscute»

Di Monica Guerzoni

«Io non sono per nulla in ansia, non sono preoccupata per i numeri».
Avete giocato d’azzardo, ministro Boschi. Ha vinto Renzi o il governo rischia?
«Oggi ha vinto l’Italia e non c’è nessun rischio. Se avessimo avuto paura avremmo cercato di fare melina, invece di chiedere una accelerazione sui tempi per andare direttamente in aula. Il gioco d’azzardo non ci piace, mantenere l’impegno con i cittadini sì».
Per le opposizioni fermare i lavori in commissione è una forzatura inaccettabile.
«Si era creata in commissione una fase di impasse. Calderoli, con i suoi 500 mila emendamenti, ha fatto spendere un sacco di soldi al Senato e poi, dieci minuti prima della capigruppo, li ha ritirati, tanto per dare il senso di quanto fossero importanti. E comunque ne restavano 3.150».
Perché tanta fretta di andare in aula senza un accordo?
«Abbiamo l’esigenza di rispettare la data del 15 ottobre, perché poi dobbiamo presentare la legge di Stabilità. L’Europa ci riconosce spazi finanziari di flessibilità se in cambio facciamo le riforme. La sola clausola delle riforme vale qualcosa come otto miliardi da spendere. E poi quale fretta? Sono 70 anni che stiamo aspettando la fine del bicameralismo paritario».
Siete corsi in aula perché il commissione la maggioranza non aveva i numeri?
«Ma certo che c’erano. Il piano andava spostato all’Aula perché il confronto politico era bloccato. Tutte le volte ci dite che non abbiamo i numeri, però alla fine le riforme passano sempre».
La vostra accelerazione fa diminuire o aumentare i dissidenti? Per Calderoli non avete i numeri.
«Il voto sul calendario vede uno scarto di oltre 70 senatori. Calderoli è un fantasista, ma la realtà è più forte di lui».
Se Grasso riterrà ammissibili gli emendamenti all’articolo 2 e la riforma ne uscirà stravolta, ritirerete il ddl o manderete tutti a casa?
«Vedremo cosa deciderà Grasso nella sua autonomia, la Finocchiaro ci ha già dato l’interpretazione secondo la quale non si può rimettere in discussione la doppia lettura conforme. Ma la riforma non sarà stravolta».
Vuole dire che la seconda carica dello Stato non potrà che seguire le orme della presidente della commissione?
«Voglio dire che se Camera e Senato hanno già votato un testo, nessuno può rimetterlo in discussione. È la tesi della Finocchiaro, dei costituzionalisti, delle consuetudini. È un principio che vale da sempre. Se lo superi vale per tutti gli altri articoli e vorrebbe dire riaprire tutto il provvedimento».
Per questo avete forzato, fino allo scontro istituzionale con il presidente del Senato?
«Ma quale scontro? Stiamo solo dicendo che in Aula si voti, dopo anni di immobilismo si fanno le cose e i risultati si vedono. Noi abbiamo chiesto e ottenuto che i senatori potessero esprimersi, cioè fare il loro dovere: votare. Nessuno, tantomeno il governo, ha messo in discussione che il presidente convochi la capigruppo. Come sempre la maggioranza l’ha chiesto e lui l’ha convocata».
Dopo una nota in cui rivendicava le sue prerogative.
«Il governo non le ha mai messe in discussione».
Il presidente ha fatto filtrare un certo fastidio per le pressioni del governo.
«Se il presidente del Senato ha qualcosa da dire lo dice. Non lo fa filtrare. Questa è la Costituzione, non una fiction».
Il cerino è nelle mani di Grasso. La vita del governo dipende dal presidente?
«Macché. La vita del governo dipende dal Parlamento, ogni giorno. Grasso in mano non ha nessun cerino, ma solo la Costituzione e il regolamento del Senato. Ha detto che ci farà sapere solo in Aula. Bene, adesso siamo in Aula, lo aspettiamo».
Se apre le danze sull’elettività sconfessando la Finocchiaro, lei dovrà dimettersi?
«La Finocchiaro dimettersi? Ma sta scherzando? Si fa fatica a trovare un senatore stimato quanto Anna. Per favore, sono normali dialettiche parlamentari, non è una sfida all’ultimo sangue».
La riforma è blindata?
«Si lavora per trovare un accordo. Senza chiusure. Andare in Aula non vuol dire che si interrompono confronti e incontri, ci sono tutti i margini. Anche se avessimo finito i lavori in commissione d’amore e d’accordo, Calderoli aveva annunciato sei milioni e mezzo di emendamenti per l’aula... Meglio affrontarlo subito».
È vero che, se la situazione precipita, avete pronto un nuovo ddl che abolisce il Senato con un solo articolo?
«No. Ma se si apre il principio della doppia conforme è chiaro che tutto può essere messo in discussione, compreso quello. Ma non vivo l’ansia, la drammatizzazione la fanno gli altri. Cerco di dare una mano per trovare l’intesa. Come sempre in passato, la maggioranza c’è, si è visto sul calendario. Mi piacerebbe che ci fosse anche il Pd tutto unito e spero in una soluzione che tenga tutti assieme, magari con un pezzo delle opposizioni».
Tutti i voti sono buoni, anche quelli di Verdini, Tosi e Berlusconi?
«Sì. Se chi le ha votate le rivotasse, la riforma avrebbe più valore. La nostra prima esigenza è rispettare i tempi. Vogliamo chiudere prima possibile per lasciare l’ultima parola ai cittadini con il referendum».
Perché non provate a portarla a casa con la vostra sinistra, invece che con i voti sparsi della destra?
«Come lei sa, la sinistra da sola in Senato non basta. Cercheremo di coinvolgere la minoranza pd, ma è molto importante coinvolgere soprattutto la maggioranza degli italiani. E a loro io dico che non molliamo perché, se non fossimo stati determinati su mercato del lavoro, pubblica amministrazione, scuola, oggi non avremmo tanti posti di lavoro in più, il Pil che cresce e i consumi che aumentano. L’Italia ha svoltato grazie alle riforme, non ci fermeremo adesso».
Eppure, Bersani capirebbe chi votasse no.
«È legittimo. Rispetto al testo iniziale del governo abbiamo apportato 134 modifiche, tutto si può dire tranne che non siamo stati disponibili. Noi ci siamo confrontati tanto anche dentro al Pd, lunedì in direzione affronteremo anche il tema delle riforme. Dall’inizio del mandato di Renzi abbiamo fatto 25 direzioni contro le 9 della segreteria Bersani. Però a un certo punto bisogna decidere, non può esserci sempre un rilancio».
I dissidenti la voteranno o il loro no sarà l’anticamera della scissione?
«Qualcuno la voterà, spero tutti. Ma sono certa che non ci sarà scissione».
Qualcuno pensa che l’elettività si possa introdurre nel comma 5. E lei?
«Questa soluzione risolverebbe il tema della doppia conforme. Perché no? Ma sono tecnicalità. Il problema non è il comma 5, ma cosa fa il Senato. Alla Camera abbiamo dovuto modificare in parte le funzioni del Senato perché chiesto da una parte della minoranza e lo abbiamo fatto perché rientrava nella mediazione. Ora la stessa parte del Pd ci chiede di cambiare le funzioni... L’importante è che si mettano d’accordo tra minoranza della Camera e minoranza del Senato. Questo ping pong non è serio per i cittadini, non possiamo tenerli inchiodati altri 18 mesi perché i parlamentari della minoranza non si fanno una telefonata».
Ministro, si è scritto che tra i suoi sogni ci sia anche quello di fare il premier...
«Faccio sogni molto più belli, mi creda. Il premier è Renzi. Sicuramente fino al 2018, io spero anche fino al 2023. Se vuole ne riparliamo allora, ma chissà dove saremo».

17 settembre 2015 (modifica il 17 settembre 2015 | 13:11)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_17/avanti-perche-non-abbiamo-paura-grasso-aspettiamo-sua-scelta-1d9f575c-5d19-11e5-aee5-7e436a53f873.shtml
7653  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Guido Olimpio. Isis, alla Casa Bianca fornite informazioni «manipolate» inserito:: Settembre 19, 2015, 11:05:28 am
Stati Uniti
Isis, alla Casa Bianca fornite informazioni «manipolate»
Militari sotto accusa. Secondo il New York Times alcuni relazioni destinate a Washington sarebbero state cambiate per fornire un quadro più positivo

Di Guido Olimpio

WASHINGTON - Come va la guerra contro lo Stato Islamico? Dipende da chi redige i rapporti. Il New York Times ha confermato che alcune delle relazioni trasmesse dal Comando centrale alla Casa Bianca e al Congresso sarebbero stati cambiate per fornire un quadro positivo delle operazioni in corso. Una vicenda che era emersa qualche settimana fa e che ora ha trovato prime conferme nell’indagine svolta dal Pentagono.

I dubbi sulla missione
Diversi funzionari dell’intelligence avrebbero fornito agli inquirenti le prove delle presunte «manipolazioni»: documenti che dimostrano come alcuni alti ufficiali del Centcom - che dirige le operazioni dall’Iraq all’Afghanistan - abbiano enfatizzato i risultati della missione contro i jihadisti. In particolare alcuni report sui raid e sulle condizioni dell’esercito iracheno, presentato con valutazioni positive. L’inchiesta è comunque ancora alla fase iniziale, dunque sono possibili altre sorprese con code polemiche. Molti osservatori, in questi mesi, hanno sollevato dubbi sull’efficacia del contenimento deciso dal presidente Obama, sollecitando un maggior impegno con lo schieramento di unità terrestri e una cadenza maggiore delle incursioni aeree.

La rivolta delle «spie»
Il 9 settembre sul sito Daily Beast è comparso un articolo che raccontava come 50 agenti abbiano accusato, con dichiarazioni scritte, il Centcom di aver alterato le analisi sulle attività in Iraq e in Siria allo scopo di dimostrare che tutto andava bene. Un messaggio recepito e rilanciato dalla Casa Bianca che ha più volte sottolineato i successi nella lotta al Califfo. Evidenti le conseguenze: se l’attuale strategia affidata alle incursioni aeree funziona non c’è bisogno di altro. Di tutto questo si parlerà oggi al Senato dove è atteso per un’audizione il responsabile del Centcom, il generale Lloyd Austin. I congressisti avranno non poche domande da fare.

16 settembre 2015 (modifica il 16 settembre 2015 | 09:28)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_16/isis-casa-bianca-fornite-informazioni-manipolate-a9625df6-5c20-11e5-83f0-40cbe9ec401d.shtml
7654  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Jeremy Rifkin: "La sharing economy è la terza rivoluzione industriale" inserito:: Settembre 19, 2015, 11:02:35 am
Jeremy Rifkin: "La sharing economy è la terza rivoluzione industriale"
Secondo l'economista americano l'affermazione dell’economia di scambio è un evento di portata storica.
E sostituirà i due sistemi nati nel Diciannovesimo secolo, cioè capitalismo e socialismo

Di Antonio Carlucci
17 agosto 2015

La sharing economy è la terza rivoluzione industriale. Parola di Jeremy Rifkin, economista visionario il cui percorso intellettuale è cominciato negli anni Novanta dello scorso secolo con un saggio che teorizzava la fine del lavoro come si era affermato dal Diciannovesimo Secolo, per arrivare oggi a scandire le basi teoriche esposte nel suo ultimo lavoro, “ La società a costo marginale zero ” (Mondadori). Secondo Rifkin la sharing economy è figlia naturale del capitalismo come lo vediamo funzionare ancora oggi tutti i giorni e questo sistema dovrà per forza di cose trovare un modo di coabitare con l’economia dello scambio dove non conta più il possesso dei beni e dei servizi ma la possibilità di scambiarne l’uso e alla fine esisterà un ibrido in cui le due forme saranno costrette a convivere e ad avere relazioni stabili.

In questo colloquio con “l’Espresso”, Rifkin racconta l’affermarsi dell’economia dello scambio in tutto il pianeta e le ragioni che ne stanno alla base. Spiega come e perché i governi mondiali inseguono a fatica questo fenomeno non essendo in grado di condizionarne lo sviluppo. E disegna i possibili scenari del futuro prossimo venturo.

Jeremy Rifkin, La sharing economy è un fenomeno mondiale o il suo sviluppo è ancora limitato all’ occidente?
«È universale, come si può leggere in uno studio condotto dalla Nielsen in oltre 40 nazioni dove sono state fatte ricerche attraverso centinaia di interviste sulla propensione a scambiarsi la casa piuttosto che la macchina rispetto al desiderio di possedere questi beni. Oggi, la sharing economy è un fenomeno affermato negli Stati Uniti e in Europa, ma la grande sorpresa che viene dallo studio Nielsen è l’entusiasmo che si coglie nei paesi dell’Asia e del Pacifico. Al primo posto con il 93 per cento di approccio favorevole verso l’economia dello scambio è la Cina».

Come lo spiega?
«Quello che pensavamo solo poco tempo fa, ovvero che i cinesi fossero più interessati a seguire il modello tradizionale della rivoluzione industriale del Ventesimo secolo che pone al centro delle relazioni umane l’acquisto e la vendita di beni all’interno di un mercato capitalista tradizionale, si è rivelato non del tutto esatto. Non intendono certo abbandonare quel modello ma lo scenario della sharing economy suscita grandissimo interesse. Credo che la ragione sia nel DNA culturale degli asiatici che li vede predisposti, anche per ragioni religiose legate al confucianesimo e al buddhismo, all’economia dello scambio. Loro sono molto meno individualisti degli occidentali e più propensi a legarsi ai valori collettivi che si creano all’interno delle loro comunità».

Che tipo di relazione esiste oggi tra la nascente sharing economy e il sistema capitalistico tradizionale che mette al centro la produzione e il possesso dei beni?
«Il capitalismo è il padre naturale dell’economia dello scambio, la quale è in fase di sviluppo e di crescita, ma è ancora giovane e immatura. Ma è assolutamente chiaro che l’economia dello scambio, oltre ad essere un evento storico di enorme portata, è il primo nuovo sistema economico in crescita in tutto il mondo che viene dopo i due sistemi che abbiamo visto prendere forma nel Diciannovesimo secolo, il capitalismo e il socialismo. Adesso assisteremo all’emergere di un sistema ibrido nel quale dovranno convivere l’economia capitalista fondata sul mercato e la sharing economy e che possiamo considerare la Terza Rivoluzione Industriale. E il capitalismo dovrà consentire alla neonata economia dello scambio di crescere e di trovare la sua identità in questo mondo. Ma come accade in ogni famiglia, in ogni relazione padre-figlio, quest’ultimo riuscirà a cambiare il genitore e questo vuol dire che il capitalismo come lo conosciamo oggi dovrà necessariamente modificarsi per convivere con la sharing economy e non sarà più l’arbitro esclusivo della vita economica di milioni di persone, perché dovrà dividere con il figlio il palcoscenico del mondo. Infine, man mano che le nuove tecnologie, internet, le piattaforme digitali si svilupperanno e consentiranno all’economia di scambio di ridurre quasi a zero i costi marginali, l’economia dello scambio crescerà sempre di più ed avrà un rapporto paritario con il suo padre naturale».

Così è stato sufficiente un sistema che riducesse quasi a zero i costi marginali per dare il via a un cambiamento che rischia di mettere in crisi il capitalismo?
«Esatto. Prenda per esempio Airbnb, la società che mette in contatto milioni di persone per lo scambio di una casa o la ricerca di una stanza. Per loro aggiungere un appartamento o un nuovo utente che vuole condividere la sua casa ha un costo marginale vicino allo zero. Per una grande società alberghiera aggiungere una stanza significa mettere in conto costi di acquisto del terreno, di costruzione di un nuovo albergo, di tasse sulla proprietà, di ulteriori spese di manutenzione. Lo stesso vale per la condivisione di una automobile, di una barca, perfino di un servizio. La rivoluzione sta tutta qui. E se a questo si aggiungono le piattaforme digitali e lo sviluppo che ci sarà, l’accesso all’economia di scambio sarà sempre più facile e alla portata di più persone».

I governi e le leadership di Stati Uniti, Europa ed Asia sono spettatori passivi dell’affermarsi della sharing economy o sono protagonisti di questo cambiamento?
«Il fenomeno si muove e si afferma a una velocità così grande che i governi sono molto indietro nel dibattito sul modo di interagire con l’economia dello scambio. Ci sono questioni che attengono alle regole che devono esserci quando si vuole scambiare una automobile o una casa. Quali debbano essere le linee guida generali di questo nuovo mondo è tutto da discutere e i governi non sono in prima fila, ma inseguono con fatica i cambiamenti. Del resto la prima rivoluzione industriale portò a un grande scontro politico, fece nascere nuove entità come la sovranità nazionale o i mercati nazionali e tutto questo avvenne a piccoli passi. Adesso si sta affermando una nuova categoria che sostituisce i consumatori classici che comprano e vendono beni e servizi. Sono coloro che cedono o usano per un limitato periodo di tempo beni e servizi senza possederli - case, automobili, musica, video, notizie - e così facendo saltano il mercato come lo conosciamo e le sue regole. È ovvio che ce ne vogliono di nuove, ma sarà molto difficile pensarle a tavolino con il rischio di difendere soltanto la status quo, senza considerare come il fenomeno crescerà e si svilupperà».

Se l’affermarsi dell’economia dello scambio porta con sé la riduzione dei costi marginali fin quasi a zero, dovremo affrontare di conseguenza una diminuzione della produzione mondiale e del prodotto interno lordo dei rispettivi Paesi. Non c’è il rischio che il mondo smetta di crescere e si apra una strada che non sappiamo dove ci porterà?
«È chiaro che il Pil mondiale cambierà e ci sarà un drammatico impatto sull’occupazione. Però, quando diciamo che i costi marginali tendono allo zero, questo non significa che saranno uguali a zero, ma che saranno molto molto bassi. Il Pil mondiale è in ogni caso in decrescita e le ragioni sono molte e non legate alla nascita della sharing economy: c’è l’uno per cento del mondo in conflitto con il restante 99 per cento, ci sono modifiche strutturali dell’economia, la produttività è in discesa ovunque, la piattaforma della Seconda Rivoluzione Industriale si sta esaurendo mentre si afferma un nuovo mondo al centro del quale ci sono le piattaforme digitali - e questa la possiamo considerare la Terza Rivoluzione Industriale - dove uomini e donne producono e consumano tra di loro a un costo marginale vicino allo zero, dove non conta il prodotto interno lordo, ma dove aumenta il benessere economico, la qualità della vita, la democratizzazione del sistema economico in generale perché gli sforzi saranno concentrati, e così la nuova occupazione, per rendere accessibili a tutti le piattaforme della sharing economy, l’automazione, le grandi reti del traffico digitale e delle energie alternative».

© Riproduzione riservata
17 agosto 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/08/17/news/jeremy-rifkin-finalmente-c-e-una-terza-via-1.225297
7655  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / Colosseo e i monumenti chiusi per assemblea sindacale. (ignoranti e antitaliani) inserito:: Settembre 19, 2015, 11:01:01 am
Roma, il Colosseo e i monumenti chiusi per assemblea sindacale.
L’ira di Franceschini: “La misura è colma”
Turisti smarriti davanti ai principali siti archeologici della capitale chiusi dalle 11 e 30 per la protesta dei lavoratori: non sono stati informate né le guide turistiche né le forze dell'ordine.
E il cartello in inglese è sbagliato: "From 8.30 am to 11 pm", ovvero le 23.
Il ministro dei Beni Culturali: "Oggi in Consiglio dei ministri proposta Musei come servizi pubblici essenziali".
Il soprintendente: "ieri abbiamo comunicato alla stampa che ci sarebbe stato lo stop all'apertura"


Di F. Q. | 18 settembre 2015

Un’assemblea sindacale interna, i cancelli che rimangono chiusi, e l’ira che arriva direttamente dal ministro. A Roma l’ultima protesta dei lavoratori ha scatenato enormi polemiche. Perché a rimanere chiuso fino alle 11 e 30 per assemblea sindacale non è stato uno qualunque degli uffici comunali. I cancelli sbarrati sono, invece, quelli del Colosseo, del Foro Romano e Palatino, delle Terme di Diocleziano e di Ostia Antica: in pratica i gioielli della capitale, visitati ogni giorno da migliaia di turisti, inaccessibili stamattina fino alle 11 e 30. Ed è per questo motivo che il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini scatena la sua ira su twitter: “Assemblea al Colosseo e turisti fuori in fila. La misura è colma: oggi in Consiglio ministri proposta Musei come servizi pubblici essenziali “. Al ministro però replica Claudio Meloni, coordinatore nazionale per la Cgil del Mibact. “Non è possibile che il ministro Franceschini non fosse a conoscenza del fatto che questa mattina le assemblee avrebbero potuto comportare il rischio di aperture ritardate. A Roma l’assemblea è stata chiesta regolarmente l’11 di settembre e regolarmente autorizzata dal soprintendente con largo anticipo. Vorrei inoltre ricordare al ministro che i beni culturali già stanno nella legge che regolamenta i servizi pubblici essenziali”.

L’assemblea si è conclusa come previsto alle ore 11 e i siti archeologici hanno riaperto mezz’ora dopo. Lo sciopero era stato annunciato in una nota della soprintendenza, ma turisti e guide si sono lamentati della mancata comunicazione. C’era un cartello all’ingresso del Colosseo, ma nessuno era stato informato della chiusura. “Ah, è chiuso? Ma non c’è nessun avviso se non dentro, praticamente”, si lamentava una signora all’entrata. Un gruppo di turisti inglesi, invece, ha comprato ieri il biglietto su internet per saltare la fila: “Potevano scriverlo almeno lì, ci saremmo organizzati”. Non sapevano niente le guide turistiche, e nemmeno le forze dell’ordine, dicono. E perfino il cartello in inglese sulla chiusura è sbagliato: “From 8.30 am to 11 pm”, cioè le 23.

Soprintendenza: “Abbiamo comunicato ieri dello sciopero”
“Purtroppo non esiste una rete per informare i turisti, ma ieri abbiamo comunicato alla stampa che ci sarebbe stata l’assemblea e la notizia è riportata dai principali quotidiani di oggi. Inoltre gli avvisi sono stati messi sui monumenti e ne abbiamo dato anche uno vocale multilingue al Colosseo spiegando che resterà chiuso fino alle 11,30″, si difende Francesco Prosperetti, il soprintendente al Colosseo, al Museo Nazionale Romano e all’Area Archeologica di Roma. “Non si è trattato di chiusure ma di aperture ritardate “, precisano sempre dalla Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area archeologica.

Assemblee anche a Palazzo Pitti a Firenze
“Le assemblee sindacali di questa mattina non si sono svolte solo a Roma, ma in diverse parti di Italia, a Firenze per esempio hanno ritardato l’apertura tutti i musei di Palazzo Pitti. I problemi sono di livello nazionale”, spiega il coordinatore nazionale della Uil beni culturali Enzo Feliciani. Nel capoluogo toscano anche 5 musei e il Giardino di Boboli di Palazzo Pitti hanno ritardato l’apertura, ma da quanto appreso da fonti della Soprintendenza non si sono verificati particolari disagi per i visitatori. L’apertura è stata “ritardata” di circa un’ora e mezzo per Galleria Palatina e Museo degli Argenti, regolarmente aperte le Gallerie di Arte moderna e quella del Costume, oltre a Boboli e Museo delle Porcellane. Nel pomeriggio è prevista un’altra assemblea per il personale del turno pomeridiano, dalle 17.30 alle 19, che potrebbe causare una chiusura anticipata rispetto a quella consueta delle 18.50.

A Roma, invece, le rappresentanze sindacali unitarie della Ss-Col avevano annunciato in una nota la protesta per “discutere della gravissima situazione in cui si trovano i lavoratori di questo ministero”. In particolare, tra le denunce, il “mancato pagamento delle indennità di turnazione e delle prestazioni per le aperture straordinarie”, come il primo maggio, dei luoghi della cultura. “Si tratta di attività già svolte dai lavoratori, attività che hanno dato la possibilità al nostro ministro, negli ultimi 11 mesi, di rivendicare i successi delle iniziative su tutti gli organi di stampa – si legge nel comunicato – Restituiamo voce e dignità a quei lavoratori pubblici che quotidianamente curano, tutelano e custodiscono un patrimonio tra i più grandi al mondo permettendone la pubblica fruizione”.

Sacconi: “Approvare legge sullo sciopero”
L’intenzione di Franceschini, che ha annunciato di puntare ad una legge speciale per i musei, è condivisa anche dagli assessori capitolini.  “E’ arrivato il momento per tutti, cittadini, operatori del settore e sindacati di capire che è finito il tempo dei dispetti e che Roma per essere una grande capitale ha bisogno di un impegno comune, non di azioni strumentali che danneggiano la città e i fruitori dei nostri beni culturali e di altri servizi pubblici. Se non matura questa consapevolezza, sarà necessaria una legislazione ad hoc sui siti di interesse culturale che, ribadisco, sono un servizio pubblico”, dice il senatore del Pd Stefano Esposito, assessore ai Trasporti del Comune di Roma. “Ora fare legge su sciopero e diritti sindacali per proteggere utenti beni pubblici”, scrive invece scrive su twitter Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro del Senato. Proposta condivisa dal ministro dell’Interno Angelino Alfano: “Approviamo subito legge Sacconi su regolazione #sciopero a tutela utenti beni pubblici. Ieri è iniziato iter al Senato”.

 Confcommercio: “Roma non è città per turisti”
“Dopo i cancelli di Pompei chiusi quest’estate, stavolta tocca a Roma: i turisti trovano gli accessi al Colosseo, al Foro Romano e ad altri siti archeologici simbolo della Capitale sbarrati causa assemblea sindacale. L’ennesima prova di autolesionismo, l’ennesimo esempio di sindacalismo spinto all’eccesso e un danno di immagine di cui non si sentiva proprio il bisogno, tanto più con il Giubileo alle porte”, ha detto la deputata di Forza Italia Annagrazia Calabria.

Il riferimento è per i fatti del 24 luglio scorso, quando un’assemblea sindacale aveva fatto chiudere gli scavi di Pompei. Solo che, anche in quell’occasione, tour operator e agenzie non erano state avvisate: turisti e visitatori sono dunque rimasti fuori dagli scavi. “È un danno incalcolabile che rischia di vanificare quei risultati straordinari raggiunti nell’ultimo anno che hanno rilanciato l’immagine di Pompei nel mondo”, era stato in quell’occasione lo sfogo di Franceschini.

La chiusura dei principali siti archeologici di Roma, però, ha scatenato polemica a catena. A cominciare proprio dagli operatori che lavorano nel settore. “Qui la situazione è tragica sempre”, dice una guida turistica che segue un gruppo di visitatori al Colosseo. “I turisti sono rassegnati ma scandalizzati – prosegue – ci dicono che è scandaloso, che non funziona così in nessun luogo del mondo, che non capiscono, che noi li abbiamo presi in giro facendogli acquistare un biglietto prima. Non esiste al mondo che devi fare più fila quando hai già un biglietto che hai già pagato e prenotato”. “Non è la prima volta che, per motivi sindacali, nei siti archeologici di maggior richiamo del nostro paese come Colosseo e Fori, si fanno trovare le porte chiuse senza preavviso a code di visitatori provenienti da tutto il mondo per conoscere l’Italia. Ci vuole un codice che rispetti di più i nostri turisti”, commenta il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca. Dello stesso tenore il commento di Rosario Cerra, presidente di Confcommercio Lazio. “La cosa che più mi preoccupa è che continuiamo a dare un’immagine di Roma sempre più negativa, non si può più andare avanti in questo modo: è l’ennesima dimostrazione che questa non è una città amichevole per i turisti e cioè non è una città a misura di turisti “.

di F. Q. | 18 settembre 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/18/roma-monumenti-chiusi-per-assemblea-sindacale-nessuno-sapeva-niente/2046071/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-09-18
7656  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Andrea Nicastro. Crisi Grecia Varoufakis: Tsipras? Ha firmato la capitolazione.. inserito:: Settembre 19, 2015, 10:57:45 am
L’intervista
Crisi Grecia, Varoufakis: «Tsipras? Ha firmato la capitolazione Io sono libero, ho perso i falsi amici»
L’ex ministro greco delle Finanze: «Presto ci sarà il lancio ufficiale e una sinistra pan europea capace di offrire una politica alternativa all’austerità»

Di Andrea Nicastro

I colleghi ministri lo evitavano anche al tavolo delle tartine, figurarsi oggi, come potenziale rivale del fronte del no. Yanis Varoufakis, economista ed ex ministro greco, annuncia al Corriere che «presto, molto presto ci sarà il lancio ufficiale e una sinistra pan europea capace di offrire una politica alternativa all’austerità vedrà la luce». Varoufakis non ha niente del silurato o dell’ex. Anzi è sempre più convinto d’avere ragione. Gira il continente come una trottola, raccoglie adesioni, scatena applausi. È pronto a salvare l’Europa da chi, secondo lui, la sta guidando al baratro economico, sociale e politico. La sua T-shirt da modello è apparsa in Francia allo sbocciare della sinistra alla sinistra di Hollande. Con l’ex Pd Stefano Fassina e lo spagnolo Pablo Iglesias ha gioito al trionfo rosso del britannico Corbyn.

Professor Varoufakis, come sta?
«Un fiore. Anche se la situazione in Grecia dopo la resa del 13 luglio è triste e non preconizza niente di buono per l’Europa. Il merito è del calore della gente che mi accoglie in Grecia, Italia, Francia, persino Germania. E anche della libertà che ho per seguire la mia agenda politica fuori dalle strutture di governo».

L’incubo Grexit, tutti gli occhi puntati addosso... nessuno strascico?
«Il vero amore e la vera amicizia sono sopravvissuti. I falsi evaporati. Fare il ministro è stato un dovere da sopportare fino a che eravamo guidati da un principio. Piuttosto mi spiace per i miei successori che devono gestire l’orribile sconfitta».

Dica la verità, com’è scoprirsi sex symbol?
«Ho detestato lo star system tutta la mia vita. Sarebbe il colmo dell’ipocrisia godere di quel circo quando, per ragioni a me ignote, sono stato elevato su un ridicolo piedistallo».

Sta finendo un libro?
«È almeno dal 1989, che ogni anno sto per finire un libro. Questo era quasi pronto prima delle elezioni di gennaio. L’ho dovuto aggiornare. Si intitolerà “Il debole soffre il giusto?”. È, niente meno, che una storia dell’Euro».

Quindi addio alla politica?
«Tutto il contrario. Presto ci sarà un annuncio ufficiale. Il partito Syriza che ho servito non esiste più. Si è smembrato per la nostra capitolazione. Non volendo unirmi a ciò che è emerso dalla frattura, ho guardato là dove anche il problema greco può trovare una soluzione: l’Europa».

Spieghi meglio.
«La Grecia è affondata, ma è l’intera democrazia europea ad essere ferita a morte. A meno che gli europei non capiscano che la loro economia è diretta da pseudo tecnocrati non eletti e non punibili, gente che sta commettendo un errore dopo l’altro, la democrazia continentale rimarrà l’ombra di quello che pensiamo che sia».

Eppure lei ha sempre creduto nell’euro e nell’Europa.
«Sto lottando con me stesso per continuare a farlo. Aristotele definiva la democrazia come il sistema nel quale governano i poveri, che sono sempre la maggioranza. In questo senso, la sinistra è la custode della democrazia quando non si piega ai pochi potenti che controllano le risorse materiali. Una semplice dose di democrazia liberale nell’Eurogruppo mi sembrerebbe un buon inizio per italiani, greci, spagnoli e tedeschi».

La sconfitta della sua posizione all’Eurogruppo non le è proprio andata giù.
«Alexis Tsipras ed io siamo stati in disaccordo perché lui pensava che il nuovo Memorandum fosse l’unica alternativa al piano Schäuble di cacciare la Grecia dall’Eurozona. Tsipras venne minacciato di un’espulsione così violenta che la parte debole della popolazione avrebbe sofferto in modo indicibile. Quindi capisco come e perché Tsipras è arrivato a scegliere il Memorandum. Ma non sono d’accordo».

Preferiva fallire con onore?
«Il referendum ci ha dato il 62% di appoggio per cercare un accordo onesto, senza cedere. Così avevo letto io il voto. Tsipras l’ha capito diversamente».

Colpa di quello che lei definì «terrorismo europeo»?
«I giornalisti dovrebbero almeno imparare a riferire le cose correttamente. Ciò che io dissi è che nelle settimane precedenti il referendum, i greci sono stati bombardati di immagini di banche chiuse e dall’idea che non avrebbero mai più riaperto. Terrorismo è usare la paura per un fine politico. E i greci ne sono stati soggetti».

L’alternativa era il suo Piano B?
«Ogni Piano B che vuole evitare l’uscita dall’euro ha in sé il problema che appena diventa noto scatena il panico, la fuga dai depositi, la chiusura delle filiali e un’uscita di fatto dalla moneta unica».

Quindi era sbagliato?
«Difficile dirlo. Avrebbe avuto un costo altissimo, questo sì. Ma nel lungo periodo magari non più alto della costante sottomissione alla troika».

Come sta ora la Grecia?
«Nessun Paese alle prese con una Grande Recessione può riformarsi fino a che il debito non viene ristrutturato, la spirale debito-deflazione alimenta la crisi».

E le privatizzazioni? La Germania sta comprando.
«Mi piacerebbe pensare che questo non fosse l’obiettivo delle istituzioni tedesche. Detto ciò, avrei preferito che Berlino chiedesse alle sue imprese di stare lontane dai saldi greci».

Tornerà l’incubo Grexit?
«Tsipras è convinto che il Memorandum eviti il piano Schäuble. Io credo che ci porterà comunque fuori dall’euro. Sperabilmente, quando la Grexit spaventerà di nuovo tutti, l’Europa si sarà rimessa in piedi, il piano tedesco archiviato e al suo posto ci sarà un programma pan continentale di sviluppo, un New Deal europeo».

16 settembre 2015 (modifica il 16 settembre 2015 | 07:54)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_16/crisi-grecia-varoufakis-tsipras-ha-firmato-capitolazione-io-sono-libero-ho-perso-falsi-amici-9dc45dec-5c33-11e5-83f0-40cbe9ec401d.shtml
7657  Forum Pubblico / IL FORUMULIVISTA ARLECCHINO C'E' DAL 1995. Ma L'ULIVO OGGI E' SELVATICO OPPURE NON E'. / Renzi se la ride ... dei nemici furbetti ma con il mal di pancia. inserito:: Settembre 19, 2015, 10:55:13 am
Lega, 5Stelle, Sinistra-sinistra, vogliono decapitare Renzi "fottendosene" del benessere degli italiani, occorre pugno di ferro in guanto di velluto è vero ma se seguitano a mettere i bastoni tra le ruote per giocare all'anti-Renzi, possiamo toglierlo ... il guanto.

Però bisogna spiegarlo alla gente e cercarne il consenso per non farsi fregare da populisti del cavolo passando sulle teste dell'opinione pubblica.

ciaoooo
7658  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Stefano Feltri Gb: meglio il rosso di Corbyn che quello di Tsipras inserito:: Settembre 19, 2015, 10:40:10 am
Economia & Lobby
Gb: meglio il rosso di Corbyn che quello di Tsipras

Di Stefano Feltri | 14 settembre 2015

“Pagare le tasse non è un fardello, è il canone che paghiamo per vivere in una società civilizzata”. La Gran Bretagna non è la Grecia e Jeremy Corbyn non è Alexis Tsipras, anche se l’ostilità intorno al nuovo leader dei laburisti inglesi è simile a quella che ha circondato l’ex premier greco negli otto mesi in cui è stato in carica. Corbyn vuole più welfare State, più salari e più tasse per finanziare la spesa pubblica, ma le sue richieste riguardano un Paese che è fuori dall’euro, che nel 2014 è cresciuto del 2,8 per cento e che ha un deficit sotto controllo, che deve passare dal 4,5 al 3,1 per cento del Pil. Non esattamente le stesse condizioni in cui Tsipras è arrivato al potere in gennaio, quando aveva promesse più generose di quelle di Corbyn ma da applicare in un Paese in default strutturale, privo di accesso ai mercati finanziari e dipendente dagli aiuti internazionali.

Corbyn si è fatto la fama di avere un programma molto vago, in economia. Ma non è così. C’è un documento, “The Economy in 2020”, che risale a luglio ed è abbastanza preciso almeno nel delineare le idee di fondo. In sintesi: Corbyn non appartiene ai teorici della decrescita, non è rassegnato a una Gran Bretagna in declino in cui l’unico compito della sinistra è distribuire equamente i sacrifici (modello Tsipras). “La creazione di ricchezza è una cosa buona: tutti noi vogliamo una maggiore prosperità”, è la prima frase, che evoca quell’ “arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping alle radici del boom cinese di questi decenni.

Il punto è la ricetta. Corbyn non si fida del mercato, sostiene però che la ricetta dei conservatori è sbagliata: non si produce crescita tagliano le tasse ai ricchi e alle imprese affidandosi all’idea che, con i giusti incentivi, il mercato genera innovazione e prosperità. Le sue proposte sono da socialdemocratico, più che da rivoluzionario: contesta al governo Cameron di aver ridotto la tassa di successione per i patrimoni elevati, un intervento da 2,5 miliardi di sterline che va a beneficio solo del 4 per cento della popolazione. Idem per la scelta sulla tassa sul reddito d’impresa: è stata ridotta al 20 per cento, la più bassa del G7, “perfino più bassa del 25 per cento in Cina e la metà del 40 per cento negli Stati Uniti”. Anche qui 2,5 miliardi di gettito in meno.

Corbyn sostiene, e ha i suoi argomenti, che dietro l’ossessione dei conservatori per l’austerità non ci sono conti pubblici insostenibili, ma la vecchia ideologia thatcheriana che più piccolo è lo Stato, meglio funziona l’economia. Se proprio si vuole ridurre il deficit, dice Corbyn, facciamolo alzando le tasse: lo spazio di manovra c’è eccome. Addirittura il leader Labour scrive di condividere l’obiettivo del cancelliere dello Scacchiere Osborne di azzerare il deficit nel 2020. Ma in modo diverso, stimolando con investimenti una crescita equa e diffusa invece che con tagli al welfare. Sul Financial Times il capo dei commentatori economici Martin Wolf ha scritto che “non si può avanzare nessun argomento forte per tagliare la quota della spesa pubblica sul Pil ai suoi libelli più bassi in 70 anni entro il 2019-2010, per mantenere un avanzo di bilancio in tempi normali o per abbassare contemporaneamente i benefici per i lavoratori poveri e la tassa di successione. E’ il lavoro della sinistra sfidare queste scelte”.

Un gruppo di economisti, non tutti sostenitori di Corbyn, hanno firmato sul Guardian un appello chiedendo di smetterla di raccontare fandonie sul suo conto: “La sua opposizione all’austerità non è altro che l’economia mainstream, sostenuta perfino dal conservatore Fondo monetario interazionale. Lui vuole spingere la crescita e la prosperità e ha votato contro il vergognoso disegno di legge di 12 miliardi di tagli al welfare”. Tra i firmatari Mariana Mazzucato, economista italiana che insegna in Sussex ed è la principale voce a favore degli investimenti pubblici. La promessa di nuovi investimenti, per la verità, è la parte più scivolosa del programma di Corbyn perché si regge sull’idea di un “quantitative easing per il popolo” invece che per le banche. Secondo quanto si è capito, l’idea del deputato laburista è che la Banca d’Inghilterra usi la sua liquidità e l’espansione del suo bilancio per finanziare investimenti pubblici invece che per comprare titoli sul mercato e dalle banche così da abbassare i costi di finanziamento. Una agenzia degli investimenti emetterebbe bond da usare per finanziare poi opere pubbliche e quel debito sarebbe comprato dalla Bank of England, privata, si suppone, di ogni indipendenza (come? È giuridicamente possibile? Boh). Non è detto che funzioni e che sia politicamente percorribile. Ma non è neppure detto che sia peggio della linea seguita dal governo Cameron: le ultime previsioni economiche della Commissione europea sottolineano – con una velata preoccupazione – la linea di sviluppo scelta dai conservatori. Cioè incentivare gli inglesi a risparmiare per comprarsi una casa. Che in un Paese reduce da una bolla immobiliare non è forse la scelta più saggia.

Discorso diverso sulla parte fiscale, quella che spaventa i giornali conservatori sensibili alle esigenze dei grandi gruppi finanziari. Nella parte sulla “giustizia fiscale”, Corbyn spiega di voler aumentare il prelievo fiscale di 120 miliardi di sterline all’anno. Soprattutto combattendo evasione e elusione fiscale, oltre che migliorando la capacità di riscossione del fisco. Primo passo: aumentare lo staff delle agenzie incaricate di raccogliere le imposte. Poi, certo, vuole anche far pagare più tasse. Ma il grosso delle entrate della Corbynomics derivano dalla scelta di impegnarsi di più a ottenere quanto già dovuto. I ricchi, comunque, dovranno pagare di più: “Il punto principale con cui si deve confrontare la politica britannica è se l’aliquota fiscale più alta (in realtà tax rate, cioè il peso del fisco, ndr) deve essere del 25 o del 50 per cento o invece del 18 o del 20 per cento”. Parole che, è comprensibile, hanno suscitato un certo panico in un Paese che è di fatto un paradiso fiscale al centro dell’Europa.

Le soluzioni di Corbyn sono, insomma, radicali ma di buon senso. Non certo meno radicali di quelle dei conservatori di David Cameron, che stanno smantellando il welfare mentre aiutano le imprese per ragioni ideologiche, non economiche. Sempre Martin Wolf del Financial Times evoca un parallelo tra Corbyn e il primo Tony Blair, a inizio degli anni Novanta: una sinistra che fa una diagnosi del mondo e delle sfide che ha di fronte e propone soluzioni drastiche, invece che limitarsi a piccoli aggiustamenti al margine.

Tutt’altra storia rispetto a Tsipras che ha vinto le elezioni senza avere alcuna possibilità di mantenere le demagogiche promesse della campagna elettorale. E che, con un misto di ingenuità, idealismo e furbizia tattica mista a ottusità strategica, ha congelato i rapporti tra Unione europea e Atene per mesi e mesi.

Tsipras è un leader che non poteva perdere ma che neppure poteva governare. Corbyn, almeno per ora, sembra un leader che non può vincere ma che avrebbe idee molto interessanti da vedere applicate. Troppo presto per immaginare come finirà. Ma il rosso del nuovo capo dei laburisti è decisamente più carico e convinto di quello di Syriza in Grecia. E la scommessa della sinistra inglese molto più interessante.

Di Stefano Feltri | 14 settembre 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/14/gb-meglio-il-rosso-di-corbyn-che-quello-di-tsipras/2035073/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-09-15
7659  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / La mossa della Fed difficile ma inevitabile. I tre nodi della Yellen inserito:: Settembre 19, 2015, 10:29:03 am
Il commento

La mossa della Fed difficile ma inevitabile. I tre nodi della Yellen
La Banca Centrale americana ha scelto di non alzare i tassi, fermi a quota zero dal 2008

Di Massimo Gaggi

«Ma cosa vuol dire? Che adesso siamo schiavi dell’economia cinese?» si chiede, sconsolato, un trader. Aveva scommesso che la Federal Reserve sarebbe tornata, nel «conclave» di ieri, ad aumentare per la prima volta i tassi congelati a quota zero fin dalla crisi finanziaria dell’autunno 2008. La stessa Banca centrale aveva creato aspettative in questo senso all’inizio dell’estate, ma le turbolenze di agosto, la crisi cinese, i crolli asiatici e il nervosismo planetario dei mercati, hanno rapidamente modificato lo scenario. Eppure l’economia Usa rimane solida e, nonostante il rafforzamento del dollaro che incide negativamente sulle esportazioni, l’America è relativamente isolata dalle turbolenze internazionali, grazie al suo dinamismo interno. Per questo molti pensavano che, nonostante le nuove difficoltà, Janet Yellen avrebbe tenuto ferma la barra sulle decisioni strategiche prese nei mesi scorsi.

Tre elementi preoccupanti
Non è stato così: in un incontro con la stampa la presidente della Fed ha cercato di minimizzare il significato di questo ulteriore rinvio del primo passo verso il ritorno alla normalità nei mercati finanziari dopo sette anni di gestione emergenziale delle economie. Ed è ancora possibile che in una delle due prossime riunioni (ottobre e dicembre) del Fomc, il comitato esecutivo della Banca centrale, venga dato il piccolo segnale di un aumento dei tassi dello 0,25 per cento. Ma dalle decisioni prese ieri dalla maggiore istituzione monetaria mondiale emergono almeno tre elementi preoccupanti: 1) L’economia internazionale rimane in condizioni di estrema fragilità. La crisi cinese è gestibile, ma non abbiamo ancora visto il peggio, mentre vi saranno conseguenze negative di lungo periodo anche per il rallentamento delle economie emergenti come quella brasiliana. Il dinamismo interno dell’America può compensare questo impatto negativo ma non completamente (mentre l’Europa è più vulnerabile degli Usa). 2) L’allarme vero adesso si sposta sull’inflazione. Se nell’analisi della Fed i guai estivi sono destinati a rallentare la crescita, col Pil americano che anche nei prossimi due anni non crescerà più del 2,2-2,3%, il vero problema viene dalla dinamica dei prezzi. Rispetto all’obiettivo Fed (+2%) stiamo sfiorando la linea della deflazione. Per quest’anno (segnato anche dall’effetto del forte calo del petrolio), la previsione di un’inflazione allo 0,7% è stata ora rivista e portata allo 0,4. I banchieri centrali ritengono che non torneremo in vista del traguardo del 2% prima del 2018 (1,7 l’anno prossimo e 1,9 quello successivo). Da qui la decisione di muoversi con ancora più prudenza. 3) In questo cambio di traiettoria la Fed si è divisa. L’unanimità che la Yellen era riuscita a recuperare nella prima parte dell’anno, è saltata. Si era capito già ad agosto quando, davanti alla crisi cinese, il capo della Fed di New York aveva caldeggiato il rinvio dell’intervento sul costo del denaro, mentre il vice della Yellen, Stanley Fischer, aveva giudicato dannoso uno slittamento. Ieri quattro dei 17 governatori della Fed hanno detto che i tassi non devono salire prima del 2016-17, mentre 12 hanno continuato a considerare opportuno un piccolo intervento alla fine di quest’anno e uno ha votato per un aumento immediato.

I motivi della scelta
In passato la Yellen ha invitato più volte i mercati e i «media» a non sovrastimare il momento in cui i tassi verranno alzati per la prima volta, e a guardare di più ai processi di lungo periodo. Qualcuno sostiene che ieri ci sarebbero state le condizioni per un ritocco del costo del denaro: la Fed avrebbe rinunciato per il timore che, in una situazione di grande nervosismo dei mercati con voci ricorrenti di bolle speculative pronte a scoppiare qua e là, anche un intervento minimo potesse diventare il detonatore di crolli delle Borse.
Passando dalle ipotesi ai fatti: fino a ieri la prospettiva era quella di aumenti graduali dei tassi con la Fed che, non potendo fermarsi al primo gradino dello 0,25%, sarebbe arrivata, mese dopo mese, ad aumentare il costo del denaro di un punto o un punto e mezzo percentuale da qui alla metà del prossimo anno. Il nuovo quadro di bassissima inflazione è corredato da uno scenario tracciato dai banchieri centrali che prevede una crescita molto più lenta del costo del denaro anche nel medio-lungo periodo: non più del 2,6% a fine 2017 (l’ipotesi precedente era del 2,9), mentre ora l’attesa è che anche i tassi a lungo termine non vadano oltre il 3,5%.
Denaro quasi gratis ancora per molto tempo: è tutto quello che le Banche centrali possono fare per cercare di aiutare una ripresa dell’attività produttiva che, però, sembra dipendere sempre meno dalla disponibilità di credito a buon mercato. Mentre la vera ombra che spaventa (per i salari troppo bassi e anche la mini-inflazione) è l’eccesso di capacità produttiva inutilizzata, ovunque in giro per il mondo.

18 settembre 2015 (modifica il 18 settembre 2015 | 08:01)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_18/mossa-fed-difficile-ma-inevitabile-tre-nodi-yellen-17bfe6ac-5dc4-11e5-9dfc-2c0d272590d9.shtml
7660  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Gian Antonio STELLA - Patrimonio indifeso (Esiste un Sud parassitario) ... inserito:: Settembre 19, 2015, 10:26:34 am
Patrimonio indifeso
La cultura e le verità non dette

Di Gian Antonio Stella

Se volevano farsi dei nemici, i dipendenti che ieri mattina, per una assemblea sindacale, hanno chiuso per tre ore il Colosseo e i Fori Imperiali, ci sono riusciti. C’è modo e modo di dare battaglia e rivendicare questo o quel diritto. Fosse pure sacrosanto. Ed è non solo scontato ma legittimo il coro di esasperazione dei turisti, obbligati a code chilometriche (con addirittura il dubbio che il cuore archeologico di Roma fosse chiuso fino alle undici di sera a causa del maldestro cartello in inglese: «from 8.30 am to 11 pm») ma anche di operatori, ristoratori, albergatori, cittadini. Non è mancata l’indignazione di Ignazio Marino, colto ancora di sorpresa da questa «sua» città che non finisce di dare scandalo: «Il fatto che il Colosseo sia chiuso a chi magari è arrivato da Sydney o New York e aveva solo oggi per poter vedere il monumento millenario, è uno sfregio».

«Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia. Oggi decreto legge #colosseo #lavoltabuona », ha twittato Matteo Renzi. «Ora basta. La misura è colma», è sbottato Dario Franceschini. Detto fatto, il Consiglio dei ministri ha confermato il minacciato inserimento da parte dei musei e dei siti culturali tra i «servizi pubblici essenziali». Con tutti i risvolti e i limiti automatici in caso di sciopero e di prove di forza. Annuncio accolto all’istante da un fuoco di sbarramento dei sindacati. In prima fila Susanna Camusso. Toccare questi diritti, tuona, tocca la democrazia: «È uno strano Paese quello in cui un’assemblea sindacale non si può fare». E i diritti dei turisti italiani e stranieri che venivano magari per la prima volta in vita loro a Roma e sono stati bloccati ai cancelli? Restano lì, marginali, sullo sfondo...

Scaricare le responsabilità dell’ennesima figuraccia agli occhi del mondo sui soliti custodi, i soliti sindacati, i soliti agitatori, però, è troppo comodo. Ferma restando l’insofferenza crescente per l’indifferenza di un certo sindacalismo verso i disagi causati agli utenti, l’assemblea di ieri mattina era annunciata da una settimana. La legge e la prassi avrebbero consentito, riconosce un leader sindacale storico dei Beni culturali, Gianfranco Cerasoli, di pattuire tempi e modi diversi: «Dalle 8 alle 10, per dire, già i disagi sarebbero stati minori. Il guaio è che qui c’è una incapacità storica di gestire le “relazioni industriali”».

Sono insopportabili i silenzi, le omissioni, le complicità che hanno coperto per decenni situazioni che altrove sarebbero state risolte con la dovuta fermezza e invece sono state abbandonate a se stesse, per motivi spesso di pura clientela, fino al degrado. I dieci custodi del sito di Ravanusa con un solo visitatore pagante (che poi non pagò) l’anno. Il custode di Pompei colto in flagrante con una ragazzina che aveva adescato in una domus chiusa e punito col solo trasferimento. I custodi dell’«archeologico» Antonino Salinas di Palermo che, mentre il loro museo veniva ristrutturato, hanno rifiutato per anni di lavorare provvisoriamente altrove... Storie incredibili. Inaccettabili.

Detto questo, un Paese che a parole batte e ribatte sulla cultura e la ricchezza dei beni archeologici, dei musei, delle chiese, delle contrade di stupefacente bellezza, deve anche essere coerente. E investire sul serio, su queste cose. Invece siamo sempre inchiodati lì, a un investimento dello 0,19% del Pil: meno di un quarto di quanto spendeva l’Italia nel 1955, mentre stava ancora scrollandosi di dosso le macerie della guerra.

I custodi qua e là sono troppi? Certamente. I lettori ricorderanno il caso, per fare un solo esempio, dei diciotto addetti che fanno la guardia a Mazara del Vallo (e dicono che non ce la fanno...) al bellissimo Satiro Danzante ospitato in un solo grande salone dotato per di più di sei telecamere (sei!) per la videosorveglianza. Altrove, però, ce ne sono troppo pochi. E lo conferma l’ultima pianta organica ministeriale, la quale mostra sproporzioni molto ma molto vistose. Possibile che la Campania abbia 1.525 custodi e cioè quanti il Veneto (408) la Lombardia (465), il Piemonte (348), il Friuli-Venezia Giulia (157) e la Liguria (171)?

In tutta Italia, dice il ministero, sono previsti complessivamente (la Sicilia, poi, va contata a parte perché ha una quota supplementare di dipendenti propri) 7.735 custodi. In realtà quelli in servizio attualmente sono 7.461: quasi trecento di meno. Si possono distribuire meglio? Sicuro. Ma anche a pieno organico saremmo comunque molto sotto i 9.886 previsti vent’anni fa e sotto gli 8.917 di cui parlava Il Giornale dell’Arte nel 2010. Per non dire di uno studio dello stesso ministero che nel 2009 considerava necessaria una dotazione, per la sorveglianza e l’assistenza ai visitatori, di 12.000 persone.

Ben vengano dunque nuove regole che, in nome anche del peso strategico del turismo, puntino a mettere dei paletti più precisi così da evitare al nostro Paese brutte figure come quella di ieri. Brutta figura arrivata nella scia di altri episodi che ci hanno fatto arrossire e che spinsero l’Unesco a darci più di una bacchettata. Ma chi pensa questi problemi si possano risolvere solo facendo la voce grossa rischia, alla lunga, di prendere una cantonata...

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19 settembre 2015 (modifica il 19 settembre 2015 | 07:06)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_19/cultura-verita-non-dette-colosseo-sindacati-assemblea-caos-governo-1f917d3e-5e8a-11e5-8999-34d551e70893.shtml
7661  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Federico FUBINI. Emergenza profughi Il dramma dei migranti E ora corridoi ... inserito:: Settembre 15, 2015, 06:05:51 pm
Emergenza profughi
Il dramma dei migranti
E ora corridoi umanitari?
L’Unione Europea potrebbe farsi carico di istituire un sistema legale per aiutare i profughi: andarli a prendere là dove ne hanno più bisogno

Di Federico Fubini

Questa è un’epoca in cui una sola foto può cambiare le scelte degli Stati più ricchi e civili. L’immagine di Aylan Al-Kurdi, il bambino siriano di tre anni annegato davanti alla spiaggia turca di Bodrum mentre cercava di arrivare con la famiglia fino all’isola greca di Kos, non ha solo commosso centinaia di milioni di europei: li ha messi di fronte alle loro contraddizioni. Era così potente soprattutto perché le ha fatte esplodere. Quell’immagine ha fatto capire che non è più possibile ispirare la convivenza in Europa alla difesa dei diritti umani, e allo stesso tempo sbarrare le porte a chi fugge da una guerra. L’accoglienza della Germania di Angela Merkel a decine di migliaia di profughi siriani deve qualcosa anche a Aylan Al-Kurdi. Purtroppo però le sue foto non saranno le ultime di quel genere. È passata poco più di una settimana, e domenica un’altra imbarcazione di fortuna è affondata davanti alle isole greche dell’Asia Minore. Altri 34 profughi a bordo sono morti, metà dei quali bambini piccoli o piccolissimi.

Quando si verificano eventi simili è difficile resistere alla commozione, ma ormai le risposte emotive non bastano più e rischiano di diventare un alibi per non dover vedere il resto. Nel Mediterraneo, gli incidenti si stanno ripetendo così spesso e da così tanto tempo da poterne misurare la logica perversa. Eccola: secondo l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, dall’inizio dell’anno sono sbarcati 121 mila migranti e rifugiati in Italia e 309 mila in Grecia. Alle stime più prudenti, i trafficanti di persone hanno venduto ciascun posto su una pericolosa imbarcazione di fortuna in media per 1.200 dollari dalla Grecia alla Turchia e per 2.500 dalla Libia all’Italia. Questo significa che solo nel 2015 le organizzazioni dei trafficanti hanno lucrato almeno 370 milioni di dollari dai disperati che cercano di raggiungere le isole greche, tre quarti dei quali in fuga dalla guerra civile in Siria o dal Califfato. Quanto alla rotta verso Lampedusa, i ricavi delle bande criminali per quest’anno sono già sicuramente superiori ai 300 milioni di dollari. Probabilmente molto di più.

C’è di peggio. Fra la Libia e la Sicilia da gennaio fino a ieri sono morte 2.620 persone, una ogni 49 che hanno tentato la traversata. Fra la Turchia e la Grecia hanno perso la vita in circa 140, più o meno una ogni duemila. Numeri inaccettabili, che stanno portando molti a chiedersi cosa si possa fare per evitare che crescano ancora settimana dopo settimana.

Nel caso dei rifugiati che cercano il passaggio dalla Turchia sul braccio di mare di pochi chilometri fino a Lesbo, Samos, Kos o Rodi, una risposta probabilmente esiste: andarli a prendere. Se l’Europa riconosce il diritto all’asilo di chi fugge da una guerra, oggi potrebbe chiedersi se esso debba includere anche il diritto a un passaggio sicuro fino alle proprie frontiere. I corridoi umanitari non sono un fenomeno nuovo. Alla fine della Grande guerra l’esercito italiano favorì l’evacuazione dell’esercito serbo. Alla fine della Seconda guerra mondiale le popolazioni di lingua tedesca migrarono dalla Russia e dall’Europa dell’Est fino alla Germania. E il conflitto nell’ex Jugoslavia vide molte fughe di popolazione civile sotto tutela internazionale.

Quella sui profughi siriani non sarebbe una missione impossibile, sicuramente meno complessa dell’attuale sorveglianza marittima e dei continui interventi di salvataggio davanti alla costa turca. L’Unione Europea potrebbe gestire una propria base in Turchia, da cui chi a un primo esame risulta in condizioni di chiedere asilo possa viaggiare su un’imbarcazione sicura (e legale) fino alla Grecia. L’Europa può chiedersi se ha senso permettere ai trafficanti di decidere per lei chi arriva ai propri confini, a quali costi e con quali pericoli. Ed è probabile che lo stesso governo dell’Ankara accetterebbe, anche per bloccare l’attività dei criminali.

Il rischio evidente è che le domande d’ingresso crescano. Certo il diritto al passaggio sicuro non potrà mai valere per tutti, solo per chi ha titolo a chiedere asilo politico. Di recente le organizzazioni umanitarie iniziano a proporlo per le persone in partenza dalla Turchia, ma non dalla Libia: oggi non sarebbe gestibile in un Paese nel caos. Ma questa sembra un’ipotesi destinata a confronto sempre più serrato in Europa. Secondo alcuni l’alternativa, al prossimo naufragio, sarebbe perdere anche il diritto alla commozione.

15 settembre 2015 (modifica il 15 settembre 2015 | 07:48)
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7662  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Walter VELTRONI. - Il rischio dell’estremo inserito:: Settembre 15, 2015, 06:03:14 pm
Il rischio dell’estremo
Dal giornale   
Walter VELTRONI
Viviamo una stagione in cui prevalgono le posizioni “contro” e l’opinione pubblica spaventata ha bisogno di trovare un nemico contro cui scagliarsi

Donald Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci è ormai noto: l’essere un imprenditore che si è fatto da solo, il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione, l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo, dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale delle proposte, e da una buona dose di antipolitica.

In nome del rifiuto dell’ormai usurato “politically correct” si fa strada un frasario della politica barbaro e violento, che parla alla pancia dell’elettorato e sollecita intolleranza e estremismo. In effetti candidati simili si sono già visti, nella storia del dopoguerra americano: Barry Goldwater per i repubblicani e George Wallace per i democratici. Quest’ultimo, partito da posizioni ultra liberal, approdò, per ottenere voti, a una linea di sostegno alle posizioni segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei neri. La motivazione che fornì per questo radicale cambiamento, cinica e spregiudicata, è riassunta in queste parole, terribilmente attuali, «Sa, ho cercato di parlare di buone letture e di buone scuole e di queste cose che sono state parte della mia carriera, e nessuno ascoltava. Poi ho cominciato a parlare di negri, e si sono messi a battere i piedi sul pavimento». Tutti e due questi candidati non ebbero successo e tutto fa dire agli osservatori che lo stesso sarebbe se davvero Trump ottenesse la nomination repubblicana. E che Hillary Clinton sarebbe la più felice se davvero si candidasse il miliardario americano perché, con le sue posizioni così estreme, libererebbe uno spazio politico enorme, come spesso è stato nelle elezioni americane. Può essere sia così. Così è stato, si pensi al trionfo di Nixon contro George Mc Govern. I prossimi mesi ci daranno il responso. Io però non ne sarei più tanto sicuro. Infatti si vanno affermando, in tutto l’Occidente, pulsioni del tutto nuove, fenomeni carsici che spingono fasce di elettorato all’impegno o al disimpegno a seconda del grado di mobilitazione che l’estremizzazione delle posizioni determina.

I n un sondaggio svolto in North Carolina, gli elettori hanno risposto che preferirebbero Trump, con il 40% dei voti, alla Clinton con il 38%. Ma la cosa più strana e interessante è che il 9% si pronuncia per un candidato, Deez Nuts, che in realtà non esiste. È infatti lo pseudonimo, preso da una canzone di un gruppo che ama, di un ragazzino di quindici anni che, per gioco, si è iscritto alla competizione e che, lavorando su Facebook, ha raggiunto un consenso singolare. Lo cito solo per dire quanto sia grande la confusione e per questo sia sbagliato guardare l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica solo con le lenti tradizionali della politica tradizionale.

E, d’altra parte, il partito Laburista inglese non sta per eleggere un suo leader che ha posizioni, sui temi sociali e politici, molto lontane dalla più recente tradizione laburista, quella di Kinnock, Blair, Brown e dello stesso Miliband? In Spagna e in altri paesi non si vanno affermando posizioni simili? Persino in Grecia non si sono sollecitate elettoralmente spinte estreme, fino al referendum, salvo poi virare su soluzioni meditate e su accordi che un tempo venivano bollati con il marchio dell’infamia? Prendere voti è un conto, governare un altro.

Ma come mai, nel tempo più complesso della storia, si vanno affermando posizioni così semplificate? Si potrebbe dire che viviamo una stagione in cui prevalgono, persino nelle primarie dei partiti, le posizioni “contro”, in cui un’opinione pubblica spaventata e preoccupata ha bisogno di trovare sempre un nemico contro cui scagliarsi. In cui la paura ha preso il posto della speranza e l’odio quello della ragione. È già successo, nella storia. A questo contribuiscono certamente più fattori. Il primo è l’estenuante prolungarsi della più lunga crisi economica dal dopoguerra che, a dispetto di annunci ottimistici, si estende in tutto il mondo e, lo vediamo in questi giorni, colpisce anche economie forti e paesi emergenti. La recessione si sposa poi con l’altrettanto infinita catena di attacchi e minacce terroristiche e con l’esplodere, anche in conseguenza delle decine di conflitti che devastano il mondo, di un fenomeno di migrazione di proporzioni enormi di cui vediamo non solo a Lampedusa ma in Macedonia, in Grecia, a Calais le dimensioni umanamente incalcolabili.

La politica si dibatte, ovunque, in una crisi devastante di autorevolezza e di prestigio, legata certamente ai due fattori strutturali prima richiamati. Una crisi che ha effetto persino sul significato della parola democrazia. Chiunque, agendo su questa debolezza, si sente autorizzato a dileggiare la politica, come in televisione ho ascoltato fare persino da partecipanti al funerale di Casamonica, un evento che ha ferito la città e il paese in modo molto profondo. Ma la perdita di stima e di consenso dipende anche dalla trasformazione dei partiti e dei luoghi istituzionali. L’ho richiamata varie volte e non ci torno, se non per dire che senza la riapertura di un grande dibattito politico, culturale, di valori tra le persone che militano in un partito, non importa quale, i criteri di selezione del personale politico saranno sempre più confusi: estremismo verbale (e disponibilità a compromessi deleteri), capacità di portare voti (spesso non importa in quale modo), fedeltà assoluta al leader di turno (in attesa di pugnalarlo alla prima difficoltà).

La politica, quella vera, o rinascerà o sarà travolta da questo impasto di populismo e furbizia di potere che costituisce per me, la miscela più pericolosa in questo tempo del tutto originale che siamo chiamati a vivere. Credo infatti che ci sia una pericolosa sottovalutazione degli effetti, persino antropologici, della rivoluzione tecnologica che ha cambiato il mondo con ancora maggiore velocità di quella industriale. Pochi si fermano a ragionare sugli effetti di lungo periodo, positivi e negativi, che si stanno determinando nel profondo della società. Cose importanti, che cambiano il nostro rapporto con gli altri, con le relazioni umane, con il sapere, con il formarsi del senso, con il mutare degli orientamenti dell’opinione pubblica. D’altra parte non fu così con la televisione? Non fu lo stesso Sessantotto, sul piano culturale, il prodotto dell’ingresso, nelle case dei cittadini di tutto il mondo di una scatola che mostrava universi, linguaggi, esperienze sconosciute e, nel momento stesso in cui lo faceva, le rendeva universali? La televisione e la cultura di massa hanno creato fenomeni collettivi, hanno modificato linguaggi pubblici. E hanno cambiato la stessa politica. È ormai straconosciuta l’analisi della barba lunga di Nixon e dell’aspetto fresco e giovanile di John Kennedy nel dibattito televisivo del 1960. E nel grande successo del Pci, in Italia, contò la semplicità di linguaggio e il carisma personale di Enrico Berlinguer veicolate, dalla tv, anche nelle case di chi era più lontano dalle sue idee.

Oggi la nuova rivoluzione culturale produce un effetto molto diverso. Intanto proprio per la velocità e la pervasività delle informazioni che in tempo reale giungono, a noi. Nicole Aubert ha scritto che «le strutture temporali della “ tarda modernità” sono oggetto di una triplice accelerazione: l’accelerazione tecnica, che rinvia al ritmo crescente dell’innovazione nel campo dei trasporti, della comunicazione, e della produzione; l’accelerazione del cambiamento sociale, che riguarda i mutamenti nelle istituzioni sociali, in particolare la famiglia e il lavoro, la cui stabilità appare sempre più minacciata; infine l’accelerazione del ritmo della vita, di cui risente l’esperienza quotidiana degli individui contemporanei che sentono in modo sempre più acuto che manca loro il tempo o che il loro tempo è contato». Di qui, dice il sociologo americano Richard Sennett, il fatto che «l’angoscia del tempo spinge le persone a sfiorare le cose, più che ad attardarsi su di esse» o, anche, che i new media determinano una condizione che si potrebbe definire di “soli, insieme” e cioè la sensazione di essere integrati in un sistema di relazioni esclusivamente virtuali, rapporti che vengono sperimentati dalla propria stanza, isolati dal mondo ma convinti di esserne il centro. D’altra parte solo chi ha un lavoro fisso, una famiglia solida, può forse permettersi il lusso di progettare lentamente. Chi vive in una dimensione di permanente precarietà che investe i rapporti personali e la sfera occupazionale ha come imperativo quello di sopravvivere e cerca nell’oggi, qui e subito, soluzioni. Tutta la società cambia così velocità. E la stessa politica viene investita da tsunami emotivi sotto i quali delibera in fretta e furia. Pronta però a decidere una cosa e/o il suo contrario se, ad esempio, un fatto di cronaca scuote l’opinione pubblica o attiva interessi di gruppi sociali specifici. A questa altezza di problemi la nuova politica è chiamata. Invece continua come ha sempre fatto, con i suoi riti, magari riverniciati, con le sue guerre di potere, con le sue parole che rischiano di sembrare vuote. Se non si vuole che questo diventi definitivamente il tempo dell’estremo, con i rischi che Papa Francesco e il Presidente Mattarella hanno correttamente indicato, spetta alla forza della ragione, alla sua capacità di suscitare emozioni e passioni di indicare una soluzione possibile. Gli esempi di bellezza, anche terribile, della propria missione civile e umana, non mancano. L’ ultimo, per me struggente, è quello di un intellettuale di ottantadue anni, Khaled Asaad, che ė stato torturato e poi decapitato per non aver voluto rivelare dove aveva nascosto, per salvarli, alcuni dei reperti archeologici più preziosi di Palmira, testimonianza essenziale di storia e di civiltà. Asaad ha difeso con la sua vita qualcosa che apparteneva non a lui, ma alla umanità intera. Qualcosa che i massacratori dell’Isis vogliono distruggere, come facevano i nazisti con i libri. Noi siamo, con tutti i nostri difetti, i difensori di quel bene supremo che è la libertà del pensiero. Non dimentichiamolo mai, in questo tempo complesso e confuso.

DA - http://www.unita.tv/opinioni/il-rischio-dellestremo/
7663  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Federica Fantozzi D’Alema e Cuperlo, stoccate su partito, Imu e riforme inserito:: Settembre 15, 2015, 06:01:48 pm
Federica Fantozzi   
@federicafan
· 13 settembre 2015

D’Alema e Cuperlo, stoccate su partito, Imu e riforme
Dibattito alla Festa dell’Unità di Firenze. L’ex premier: “Il Pd è abbandonato, sta deperendo”.
L’ex presidente Dem: “Restare? Non un destino ma una scelta quotidiana”

Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo sono appena saliti sul palco della Festa dell’Unità di Firenze che Bianca Berlinguer rompe il ghiaccio: «Staino mi ha mandato un sms dicendomi che per moderare questo dibattito devo avere alle spalle studi di psicanalisi sui rapporti padre figlio. Ho risposto: sono la persona più adatta». Ma loro due hanno un rapporto padre figlio, chiede la direttrice del Tg3? Non per Cuperlo (ribattezzato «Gary Cooperlo» da un fan): «C’è un rapporto di stima e, se non si offende, amicizia. Ma opinioni a volte diverse. Con Staino c’è stato un confronto aspro, ma va bene. Caricaturale l’idea di una sinistra interna che sabota. L’importante è come ci si rispetta in un partito». Massimo D’Alema aggiunge: «C’era un errore, l’immagine di Cuperlo eterodiretto che prima di decidere telefona a me o Bersani è offensiva e sbagliata. Lo conosco, è spigoloso, fa di testa sua. Io gli consiglio più tolleranza…». Poi l’affondo: «Ci stiamo dimenticando molti valori della sinistra, ma torneremo al compagno Pjatakov che se il partito dice che il bianco e nero lui concorda. Prima avevamo lui, ora abbiamo Lotti». Anche sulle riforme, piena sinergia. «Nessuno vuole azzerare il percorso – osserva Cuperlo – vogliamo tagliare il traguardo e farlo bene». Ricucire, però, per D’Alema spetta a Renzi: «Tocca lui trovare una soluzione nel partito attraverso una discussione vera». Invece il Pd «con premier e segretario stessa persona è abbandonato a se stesso e sta deperendo». Molti applausi dall’affollata platea, ma una voce dal fondo: «40%» (cifra che ricorda a distanza anche Dario Parrini, dicendo «non sta affatto deperendo, sta cambiando l’Italia»). L’ex premier puntualizza: «Io non sono maggioranza né minoranza, sono un cittadino. Ma sulle tasse c’è stato un annuncio del premier, nemmeno di Padoan, scopriamo le cose dai giornali e poi ci si dice che è una decisione della maggioranza? Non possiamo far finta di avere un partito con maggioranza e minoranza, perché non-c ’è-più», scandisce. E Cuperlo: «La disciplina di partito passa attraverso la costruzione del consenso. L’obbedienza si impone». L’ex presidente Dem rievoca la riunione in cui, quando era in carica, criticò l’Italicum: «Un minuto dopo sono state chieste le mie dimissioni via agenzia. Renzi al microfono mi diede del nominato. Il giorno dopo mi sono dimesso. Non era polemica, ma rivendicare rispetto». Berlinguer scherza sul feeling: «Devo fare io la controparte».

L’opinione di Cuperlo è netta anche sul passato, sull’antiberlusconismo che il premier al Meeting di Rimini ha paragonato al berlusconismo: «Non sono nostalgico, rispetto il passato. Non si può azzerare il cronometro». Prima di Renzi nel Pd non si discuteva? «Si capiva che non dirigi il partito con la bacchetta magica ma con l’ascolto delle sue componenti». Se la parola chiave della serata è «rispetto», il tema sono le tasse. Su cui l’opposizione alla linea renziana di abolizione dell’Imu è totale in nome del principio di progressività, dell’equità e della priorità a impresa e lavoro. D’Alema: «Non si può risolvere un problema dopo 7 anni dicendo: ha ragione Berlusconi. Non è giusto. Io pago una tassa significativa sulla casa e, con 9 milioni di poveri la priorità non può essere toglierla a me». Boato del pubblico. Ma l’ex ministro degli Esteri non ha finito: «Nessun ragazzo di buon senso dovrebbe permettersi di polemizzare con Padoa Schioppa (il ministro, oggi scomparso, disse che «pagare le tasse è bello», ndr) perché è stato un grande italiano e pagando le imposte si fa il proprio dovere». Cuperlo dice se voterà l’addio all’Imu nella Legge di Stabilità ma avvisa: «Non perdiamo un pezzo di identità per conquistare il consenso di qualcun altro, dirò la mia e voterò secondo coscienza». Altra stoccata: «Il premier di evasione non ha parlato, lo considero un lapsus, ma discutiamo». Del Pd attuale, insomma, si salva poco. Su Enrico Rossi, potenziale sfidante di Renzi al futuro congresso, D’Alema non si pronuncia «per non danneggiarlo», ma annota malizioso: «Ai tempi della vituperata ditta come governatore prese un milione di voti, adesso 600mila… C’è un crollo della partecipazione nelle regioni rosse. Non è che il Pd si sta affrancando dai postcomunisti, sono loro che si affrancano dal Pd. Le aspettative suscitate da Renzi in parte sono andate deluse». Il resto dell’analisi è altrettanto impietoso: «Illusorio sfondare al centro, imbarchiamo ceto politico e i voti vanno alla Lega, se arriva Verdini e vanno via gli elettori…». Ce n’è persino per Tony Blair, che Renzi apprezza: «Ho capito che Corbyn avrebbe vinto quando ho sentito il discorso di Blair. In Gran Bretagna gli elettori provano avversione per lui, noi lo abbiamo scelto come modello…».

Sulle riforme, D’Alema spara a zero: «In pratica agli elettori diciamo: state a casa, non venite a votare. Con la grande riforma chi vince per un pugno di voti, anche Grillo, prende tutto. Nessuna democrazia al mondo funziona così». Cuperlo condivide i timori di D’Alema, dice che «restare in questo partito non è un destino, è una scelta che devo rinnovare ogni giorno», e avverte: «Bisogna garantire un equilibrio complessivo dei poteri o la democrazia viene meno. Un grande partito non si impicca all’art. 2, deve avere una visione d’insieme». E strappa l’ovazione del pubblico con: «Se si fa a meno di un pezzo di Pd per altri voti, saremmo di fronte al venir meno delle ragioni fondative di questo progetto. Se il Pd cambiasse radicalmente natura, profilo, offerta di sinistra, potrebbe non essere più la casa per me e tanti di noi. Quando vedo uscire Cofferati e altri, una domanda me la pongo». E D’Alema: «Non vivo nella condizione umanamente difficile in cui vivono Cuperlo e Speranza. Non ho né l’età né desiderio di fondare partiti. Ma sia che decidano di dare battaglia nel Pd sia che in un momento che nessuno si augura possano pensare di ricostruire altrove una sinistra italiana io darò una mano».

Da - http://www.unita.tv/focus/dalema-e-cuperlo-stoccate-su-partito-imu-e-riforme/
7664  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MASSIMO CACCIARI Siria Io tifo per la Russia sarà sempre meglio Assad che l'Isis inserito:: Settembre 15, 2015, 05:59:15 pm
Siria, Cacciari: “Io tifo per la Russia, sarà sempre meglio Assad che l’Isis”
Il filosofo: "Si esclude un intervento militare? Non vedo altra mossa risolutiva.
Abbiamo fatto la guerra a chi non ce l'aveva dichiarata e ora porgiamo l'altra guancia"

Di F. Q. | 12 settembre 2015

“Io francamente faccio il tifo per la Russia, a questo punto sarà sempre meglio Assad che l’Isis o no?”. A dirlo è Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia, in un’intervista rilasciata al sito Intelligonews. “La politica occidentale è diventata il campo della pura irragionevolezza, ed è priva di una leadership. Siamo sempre stati incollati all’idea imperiale americana che, fra l’altro, è recentemente passata per la sciagurata esperienza della famiglia Bush”, ha detto il filosofo.

Cacciari ha parlato anche della questione immigrazione: “Assistiamo al tramonto definitivo dell’Occidente, è veramente un situazione tragica. Perché ormai hai queste ondate migratorie, che al di là della fame, derivano dalla conquista di interi territori da parte di una potenza esplicitamente nemica e questo minaccia la pace globale. Occorrerebbe una legislazione europea veramente unitaria sul diritto di asilo. Le posizioni di Juncker sono un passo in avanti, ma quasi di ridicola modestia rispetto all’emergenza. Finché non si stabilizza il Medio Oriente – ha aggiunto – il flusso avrà cifre sempre più imponenti. Ci vorrebbe un intervento anche sull’altra sponda del Mediterraneo, ma non si capisce chi e come potrebbe farlo. Si esclude quello militare? Ma allora non vedo proprio quale potrebbe essere una mossa risolutiva!”

“Noi siamo quelli che hanno fatto le guerre – e che guerre! – a chi non ci aveva mai dichiarato nulla contro, ora che il sedicente Stato Islamico ci ha dichiarato guerra e avanza con bombe e milizie e noi stiamo a guardare. Ma le sembra che ci sia della razionalità in tutto questo? Insomma – ha concluso Cacciari – abbiamo fatto guerra a chi non ce l’aveva dichiarata e porgiamo l’altra guancia a chi ce la dichiara. Me nemmeno Papa Francesco farebbe così, dal momento che ha detto che darebbe un pugno a chi gli offende la mamma”.

di F. Q. | 12 settembre 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/12/siria-cacciari-io-tifo-per-la-russia-sara-sempre-meglio-assad-che-lisis/2029328/
7665  Forum Pubblico / IL FORUMULIVISTA ARLECCHINO C'E' DAL 1995. Ma L'ULIVO OGGI E' SELVATICO OPPURE NON E'. / GIRA & RIGIRA non è che ci troviamo tassato il "lato B" e Renzi se la ride... inserito:: Settembre 15, 2015, 05:17:42 pm
Tasse, la controproposta: “Via la Tasi solo per i redditi bassi, patrimoniale sui più ricchi”
Uno studio dell'associazione Nens di Vincenzo Visco e Pierluigi Bersani rileva che togliere Imu e Tasi sulla prima casa equivale a favorire i più abbienti.
Ecco l'alternativa: revisione delle aliquote, valori di mercato al posto delle rendite catastali, detrazioni per far salve le abitazioni di minor pregio, stop al prelievo sugli affitti.
In cambio, imposta sulle ricchezze e tassa di successione


Di F. Q. | 13 settembre 2015

“La detassazione della prima casa costituisce una forzatura: le prime case non sono tutte uguali, c’è la casa popolare e la grande villa“. In più, “la condizione economica degli affittuari è (spesso) peggiore di quella di chi è proprietario della casa di abitazione” e “i giovani hanno meno prime casa in proprietà rispetto agli anziani”. Di conseguenza cancellare con un colpo di spugna Tasi e Imu sull’abitazione principale, come ha promesso il premier Matteo Renzi, significa favorire i contribuenti più ricchi. E’ da queste premesse che prende le mosse la proposta alternativa del centro studi Nens, creatura dell’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e dell’ex premier e segretario del Pd Pierluigi Bersani, per una revisione dell’imposizione immobiliare mirata a una maggiore efficienza, equità e progressività.

Un piano dettagliato che punta anch’esso a una riduzione della pressione fiscale, ma si contrappone direttamente agli annunci di Renzi, già finiti nel mirino di Bruxelles. L’obiettivo della riforma delineata dal think tank riformista è infatti la redistribuzione del carico fiscale dai più abbienti al ceto medio-basso. Come arrivarci? Esentando dalle tasse solo le case di minor pregio, circa un terzo del totale. Ma eliminando, in più, anche le imposte sui canoni di affitto. E tagliando le imposte di registro, quella ipotecaria e quella catastale. Le coperture? Dalla rimodulazione dell‘imposta di successione e da una patrimoniale sulle ricchezze superiori ai 500mila euro. Resterebbero poi da trovare 7,5 miliardi di euro, che secondo il Nens si possono però recuperare attraverso una seria lotta all’evasione.

Valori di mercato al posto di quelli (iniqui) del catasto – La proposta delineata dall’associazione di Visco e Bersani parte dall’analisi di come è cambiata l’imposizione immobiliare dopo gli stop and go dei governi Berlusconi, Monti e Letta: oggi il gettito Tasi sulla prima casa è a quota 3,4 miliardi, il 15% in meno rispetto ai 4 miliardi di Imu del 2012. Ma il calo ha avvantaggiato “soprattutto le abitazioni di maggior valore catastale, per effetto del passaggio dell’aliquota standard dal 4 per mille (Imu 2012) all’1 per mille (Tasi 2014), salvo le variazioni delle aliquote deliberate dai Comuni”. Comuni che, alle strette per la riduzione dei trasferimenti dal governo centrale, si sono rifatti aumentando l’imposizione sugli immobili non residenziali e sulle seconde case e, in molti casi, non applicando le detrazioni Tasi. Per aumentare l’equità sarebbe cruciale la riforma del catasto, che era prevista nella delega fiscale data dal Parlamento al governo Renzi nel marzo 2014. Ma a giugno l’esecutivo ha preferito congelare tutto, perché dalle simulazioni sugli effetti dell’algoritmo che avrebbe dovuto rivedere i valori catastali era emerso le rendite sarebbero esplose. Poco male: secondo il Nens lo stesso obiettivo si può raggiungere usando come parametri i valori di mercato rilevati dall’Osservatorio sul mercato immobiliare curato dall’Agenzia delle Entrate. “Scontati” del 10%, per prudenza. Una novità del genere, da sola, sarebbe sufficiente a spostare la pressione fiscale dalle case più recenti ma situate in zone periferiche agli immobili più vecchi ma centrali, che oggi sono ingiustamente favoriti dal catasto.

Nuove aliquote per spostare la pressione fiscale sui più abbienti - L’associazione di Visco e Bersani propone poi che su quei valori sia applicata, per le abitazioni, un’aliquota standard dello 0,25% aumentabile al massimo fino allo 0,5%. Contro le attuali aliquote dello 0,1% per la Tasi e 0,76% per l’Imu. In compenso sarebbe introdotta una detrazione dello 0,13%, fino a un massimo di 240 euro. Stando ai calcoli del Nens, il risultato sarebbe che un terzo dei proprietari non pagherebbe nulla. Di conseguenza il gettito che entra nelle casse degli enti locali si ridurrebbe di 5 miliardi.

Effetti
La patrimoniale al posto del prelievo sugli affitti: aliquota dell’1% sopra i 5 milioni – Il piano del Nens riguarda anche gli affitti. Visto che il proprietario è già colpito dalla tassa legata alla proprietà dell’immobile, il canone ricevuto dall’inquilino verrebbe escluso dal reddito imponibile Irpef. E verrebbe cancellata la “cedolare secca” che oggi il contribuente può scegliere come alternativa. La riduzione di gettito prevista è di 5,5 miliardi di euro. Il taglio dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale costerebbe poi altri 2 miliardi. Mancati introiti che per Visco & C potrebbero essere compensati per 3 miliardi con l’introduzione di un’imposta patrimoniale basata sulla ricchezza immobiliare della cosiddetta “famiglia fiscale” (coppie sposate o di fatto, nuclei con eventuali persone a carico). Le famiglie con base imponibile fino a 500mila euro non pagherebbero nulla mentre quelle con ricchezze da 500mila euro a 3 milioni si vedrebbero applicare un’aliquota dello 0,25%, che salirebbe allo 0,5% dai 3 ai 5 milioni e arriverebbe all’1 per cento sopra i 5 milioni. In base ai calcoli del rapporto, il 90% delle famiglie sarebbe esente mentre a pagare sarebbe il 10% che detiene il 41% della ricchezza nazionale. Infine, lo Stato potrebbe “pescare” altri 2 miliardi con una rimodulazione dell’imposta di successione, che oggi produce un gettito di soli 600 milioni. Il Nens propone di mantenere la franchigia attuale a un milione di euro, ma prendendo in considerazione anche in questo caso i valori di mercato e non quelli catastali.

Le coperture mancanti? Dalla lotta all’evasione Iva – A questo punto resterebbero da trovare coperture per 7,5 miliardi. Più del costo dell’abolizione di Imu e Tasi annunciata da Renzi. L’asso nella manica che, secondo Visco e Bersani, il governo dovrebbe giocarsi è la lotta all’evasione. Basata sulla riforma del sistema fiscale descritta in un rapporto diffuso dal Nens lo scorso anno. Quel documento dava conto di come sia possibile recuperare, a regime, 58 miliardi di euro modificando radicalmente il regime Iva attraverso l’introduzione di un’aliquota unica, il pagamento con carta elettronica di tutte le prestazioni professionali, lo scontrino telematico, e la “inversione contabile” per cui a pagare l’imposta allo Stato è l’acquirente e non il venditore. Una rivoluzione che consentirebbe alla Penisola di perdere il poco ambito scettro di campione europeo dell’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, con un ammanco pari a oltre un terzo del gettito previsto.

Di F. Q. | 13 settembre 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/13/tasse-la-controproposta-via-la-tasi-solo-per-i-redditi-bassi-patrimoniale-sui-piu-ricchi/2029811/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-09-13
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