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7636  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Nadia URBINATI Dal Partito della Nazione al Partito Destrinista inserito:: Settembre 22, 2015, 06:43:09 pm
Dal Partito della Nazione al Partito Destrinista

Pubblicato: 21/09/2015 17:02 CEST Aggiornato: 3 ore fa

In un'intervista rilasciata a l'Unità il 21 agosto scorso, Giuseppe Vacca, forse il più eminente conoscitore ed estimatore della tradizione comunista italiana e di Palmiro Togliatti come suo più autorevole leader politico, sostiene che il Partito della Nazione è il destino fisiologico di ogni partito che aspiri al governo. "Basterebbero gli inevitabili riferimenti alle cronache politiche quotidiane sulle linee di interdipendenza e interferenza reciproca nel concerto globale delle nazionalità per rendere chiaro che qualunque partito che aspiri a governare un Paese debba essere a suo modo un 'Partito della Nazione', cioè un partito capace di coniugare nei modi più virtuosi possibili i condizionamenti reciproci della vita politica nazionale e di quella internazionale".

In sintesi, sostiene Vacca, ogni partito politico si fa o diventa un Partito della Nazione quando e se si appresta a competere per vincere. Vincere le elezioni non è una questione numerica, ma la trascrizione numerica di una forza egemonica irresistibile. All'interno di questa dottrina del Partito, si potrebbero prospettare "Nazioni" volta a volta ideologicamente diverse: quando vice la Destra, la Nazione di Destra corrisponderà all'immaginario del paese; quando vince la Sinistra, la Nazione di Sinistra corrisponderà a quell'immaginario. La conta dei voti è un epifenomeno rispetto alla strategia per il controllo egemonico dell'opinione e del simbolico.

Ogni partito, dice Vacca, tende a suo modo a essere Partito della Nazione e svilupperà quelle visioni della Nazione che meglio riescono, in una particolare fase storica, a incorporare, rappresentandola, l'opinione nazionale. Il partito così inteso è totalità; un partito in senso lato populista in quanto del Popolo o della Nazione (esemplificativo è a questo riguardo il libro di Ernesto Laclau, On Populist Reason che ha teorizzato in questo stesso modo il Peronismo). È l'incorporamento dello "spirito" del tempo, per usare un'espressione hegeliana che non dovrebbe troppo dispiacere a Vacca. Se un partito non riesce a essere partito totale, per quali che siano le ragioni, esso resterà semplicemente un partito da combattimento, un "partito-parte" che va alla ricerca dei voti, che é un mezzo meccanico per portare gli eletti in parlamento e che, anche qualora dovesse conquistare la maggioranza dei consensi non riesce tuttavia a unificare la società, a domarne il pluralismo, spesso litigioso.

La visione procedurale e aggregativa della democrazia non sembra soddisfacente, anzi non piace a chi sposa la dottrina del Partito totale o della Nazione poiché crudamente quantitativa e liberale. La visione del Partito della Nazione è etica nel senso proprio del termine. Nelle ambizioni del suoi sostenitori ex-comunisti, il Partito democratico sembra essere una nuova manifestazione del "novello Principe" gramsciano, un partito capace di produrre "una sua propria dottrina costituzionale", ciò che il PCI ha cercato di essere senza riuscirvi, bloccato dall'alleanza atlantica. Quel progetto di partito resta un valore ideale permanente, a prescindere dal partito che lo incorpora e dagli interessi sociali che il partito rappresenta. La visione di partito è eterna, anche cambia chi se porta il testimone. Questo Partito democratico sembra capace di riscattare quell'antico fallimento del PCI e portare i suoi più o meno lontani eredi a vincere oltre la maggioranza relativa, oltre la conta dei voti.

Questa visione di partito si contrappone a un'altra, quella del partito come attore collettivo "di parte" che, anche quando aspira alla maggioranza e al governo del paese, resta espressione di una parte, in relazione alla quale sviluppa politiche nazionali e sfida gli avversari. Su questo si fonda l'idea di una democrazia dell'alternanza. All'opposto sta il "partito-totale", che occupa una parte dalla quale aspira a cambiare l'identità o il carattere del paese e in queste senso a essere la rappresentazione di tutta la Nazione. La sua parzialità partigiana si trasforma in una visione complessiva, totale, che ingloba le parti e gli interessi tutta la società facendosi appunto, manifestazione della Nazione.

Nel primo caso, il partito è strumento di selezione dei rappresentanti e di formazione del governo - prevede una opposizione non afona e nemmeno domata; presume altri partiti e una competizione che non finisce con la sua vittoria elettorale; ha certamente una visione del bene comune o del generale ma senza presumere di esserne la completa rappresentazione. Nel secondo caso, il partito si fa sovrano e va ben oltre, nella sostanza e nelle ambizioni, al ruolo che il partito ha in una democrazia elettorale poiché aspira a inglobare la più larga parte dell'elettorato, rendendo l'opposizione quasi afona e poco efficace o impotente; la sua vocazione totalizzante deriva dal fatto che questo partito pensa che la partigiana competizione o il pluralismo partitico sia in conflitto con la totalità dell'interesse nazionale. La parte deve essere quindi capace di diventare totalità per nobilitarsi.

Dunque: partito rigorosamente parte nel primo caso, partito-tutto nel secondo caso; partito interno alla concezione liberaldemocratica il primo, con la democrazia intesa come procedura per competere, vincere e ricompetere. Partito interno a una concezione etica della politica il secondo, con la democrazia come progetto egemonico di unificazione dell'opinione, della società e dello Stato.
Se invece di parlare coi twitter discutessimo di queste visioni, delle concezioni che danno forma alla politica politicata, forse faremmo un miglior servizio alla nostra discussione pubblica. Ma tant'è, non si posso metter braghe alle forme linguistiche dell'opinione. Per chi come me si muove nella tradizione liberale (quella che nel nostro paese é stata degnamente rappresentata, a partire dai liberalsocialisti, da Norberto Bobbio), si sente fortemente a disagio con visioni totalizzanti del partito e progetti di incorporazione nazionale dell'opinione pubblica.

Con due distinguo: il partito-parte non è una fazione che cerca il potere per asservire lo Stato ai suoi interessi; è un'associazione politica che aspira a rappresentare l'interesse della società anche se coscientemente da una prospettiva di parte dello spettro ideologico - di Destra o di Sinistra o vicino alla Destra e alla Sinistra. Ci sono limiti a quel che può proporre o fare, e questo significa rischiare di non avere o di perdere la maggioranza: se è di Sinistra non fa politiche di Destra per vincere anche se deve essere capace di coniugare questioni che sono tradizionalmente nel carniere dalla Destra (per esempio la "patria" o la giustizia, o la sicurezza) secondo i propri principi. Non ha l'ambizione di essere "della Nazione" e le sue proposte riflettono una lettura della Nazione che fa perno su principi e valore che, anche quando conquistassero la maggioranza dell'elettorato, non perderebbero la loro specificità ideale di parte. Ci sono quindi partiti di Destra e partiti di Sinistra, politiche fiscali di Destra e di Sinistra, riforme scolastiche di Destra e di Sinistra.

Il secondo distinguo è che, certamente, ci sono momenti costituenti nella storia politica di un popolo che necessitano di un'unità di intenti perché solo così si possono mettere nero su bianco le regole del gioco, i diritti fondamentali e la Costituzione. Ma una volta che il gioco comincia, la fase costituente lascia il posto alla lotta dei e tra i partiti. Nella lotta politica post-costituente, è altamente possibile (e, aggiungo, sperabile) che ci sia chi resiste alla vocazione totalizzante, anche perché essa mal si concilia con l'esigenza del controllo e della sorveglianza del potere, un lavoro che non può essere lasciato alla giustizia (la quale del resto opera dopo che il danno è stato fatto) ma deve essere esercitato in pieno dalla politica nei luoghi istituzionali ed extra-istituzionali, cioè nel Parlamento e nella società, mediante le procedure e i movimenti politici.

Se il partito largamente maggioritario (premiato da una legge elettorale) é quasi blindato nella sua azione di governo, che spazio ha l'opposizione nella sua azione di controllo e di fermo, quando necessario, della maggioranza? La dottrina del Partito della Nazione é incardinata su una lettura difficilmente liberare della democrazia, e inoltre ha della democrazia una concezione strumentale, non normativa, che fa perno solo sul consenso della maggioranza.

Ha una visione monolitica della Nazione. Mentre l'idea del partito come "parte" si regge su una lettura della democrazia come processo che vive della dialettica tra maggioranza e opposizione, la quale ha tra le altre cose la funzione di tenere il governo della maggioranza sempre sotto controllo. Vediamo qui due visioni in atto: una organica e consensuale e una antagonistica e conflittualistica della democrazia (e della partigianeria). Questo é l'oggetto del contendere nella fase attuale della politica nazionale. Si tratta di una nobile lotta tra due visioni della democrazia della quale solo pochi pare abbiano contezza.

Ma una domanda fondamentale deve a questo punto essere mossa alla dottrina del Partito totale o della Nazione: non è legittimo pensare che questa dottrina sia un anacronismo? Non é legittimo pensare che essa fosse più rispondente a un partito che era organo di una filosofia della società e della storia? Che fine fa il Partito della Nazione quando l'ideologia che lo armava non c'è più? Come in una chiesa senza più fede e fedeli, il partito-totale di oggi assomiglia a un involucro vuoto (del resto anche di inscritti), riempito da un partito che è per davvero solo e soltanto un Partito-Piglia-Tutto, il cui obiettivo è quello di affastellare tutti i voti possibili, da tutte le parti della società.

E' un partito aggregativo a tutti gli effetti. Quale sia del resto la visione della Nazione che intende forgiare non è chiaro, anche perché il chiarirlo comporterebbe rischiare di perdere anziché guadagnare elettori. Partito-Piglia-Tutto non perchè convince le varie parti a identificarsi con un progetto unitario, ma perché attrae con tattiche astute quelle parti, o la maggior parte di esse. Lo scopo é di entrare nella stanza dei bottoni per restarci più a lungo possibile. Questo vuole essere il Pd. Una prova di questa politica aggregativa e maggioristarista (che i reduci del passato leggono ancora con gli occhi di ieri come il segno di un Partito totale o della Nazione) è data dalla promessa di politica fiscale fatta da Matteo Renzi, che ha in questo modo cominciato la campagna elettorale.

La politica fiscale difesa da Renzi si regge come sappiamo sulla proposta di tagliare la tassa sulla casa. Con questa proposta egli è entrato in rotta di collisione con l'Unione Europea, e non solo per contingenti ragioni di rispetto del patto di stabilità. La promessa di abolire la tassa sulla prima casa va contro quanto da tempo sostengono a gran voce tutti i grandi organismi internazionali - l'Fmi, l'Ocse, la Commissione Ue - favorevoli ad un taglio delle imposte, ma quelle sul lavoro, non sul patrimonio.

Ridurre le tasse sul lavoro significa ridurre il cuneo fiscale, cioè la differenza fra quanto un lavoratore costa all'azienda e quanto il lavoratore porta a casa, in netto, nella sua busta paga - questa fu la politica del governo Prodi, interpretando a tutti gli effetti la visione di un partito di centro-sinistra: la politica fiscale di quella stagione di centro-sinistra doveva mirare a favorire i consumi e incentivare gli investimenti delle aziende.

Scriveva Maurizio Ricci su La Repubblica (7 settembre 2015) da cui traggo le mie osservazioni: "Come hanno fatto notare i ricercatori di Nomisma, gli italiani vivono in una casa di proprietà e beneficerebbero dell'abolizione della Tasi, ma si tratta degli italiani più ricchi, con un reddito medio superiore a 35 mila euro l'anno. Al contrario, quel 20 per cento di italiani che vive in affitto e che ha un reddito medio pari alla metà (17 mila euro l'anno), dunque i più poveri e più suscettibili di aumentare i consumi, non godrebbe di nessun taglio. Non solo, ma il taglio ha anche valore regressivo. Ne beneficerebbe proporzionalmente di più chi oggi paga di più, perché ha una casa più grande e più bella e, dunque, presumibilmente è più ricco". A ragione quindi Mario Monti - che di Sinistra certo non era e non é -- introdusse l'Imu dicendo che la tassa sulla casa è l'unica vera imposta patrimoniale esistente in Italia. In che senso? Nel senso che è, spiegava ancora Ricci, "l'unico tentativo di riequilibrare i divari di ricchezza" nella nostra società.

La scelta di favorire la casa invece del lavoro é una scelta ideologica in tre sensi: a) mostra che il Pd intende preoccuparsi di una certa fascia di cittadini (proporzionalmente i più abbienti) contro un'altra (proporzionalmente i meno abbienti); 2) essendo le proprietà più rintracciabile dei redditi, il Pd, rinunciando a tassarla, apre a un'implicita non-belligeranza con l'evasione fiscale; 3) il Pd mostra di non volersi spendere a favore di una fascia sociale che è stata per tradizione il pilastro della sinistra: coloro che hanno meno e che non hanno rendita ma solo forza lavoro.

Questo Partito della Nazione propone una rappresentanza del tutto che è a dir poco sconcertante, perché la sua politica fiscale è a tutti gli effetti una politica che potrebbe essere fatta da un partito di Destra: favorire i più ricchi e dare meno filo da torcere agli evasori. Perché? Perché Renzi mette l'obiettivo della detassazione della casa prima della politica fiscale sul costo del lavoro? Perchè imita il governo Berlusconi invece del governo Prodi? La risposta a queste domanda mostra quanto stravolgente della realtà sia la dottrina del Partito della Nazione.

Il Partito della Nazione vuole, come abbiamo detto, più di una maggioranza relativa e più di un'aggregazione di voti. Dal canto suo, il Pd vuole invece conquistare i voti della più larga maggioranza possibile. E infatti, l'80 per cento degli italiani possiede una casa mentre il 20 per cento non la possiede. La vocazione maggioritaria spiega la politica fiscale del Pd di Renzi, il quale è convinto (con fondate ragioni) di vincere in questo modo le elezioni, tenuto anche conto che alle elezioni ci si andrà con l'Italicum. Se vuol portare a casa il 40 per cento al primo turno ed avere il premio di maggioranza, il Pd di Renzi deve fare la politica fiscale che ha promesso di fare. Il che significa che l'intero sistema politico, così come sgorgherà dal nuovo sistema elettorale, incentiverà politiche che si curano essenzialmente della larga maggioranza, trascurano i piccoli numeri e i gruppi sociali meno rappresentativi e poco remunerativi in termini di voti.

I sostenitori del Partito della Nazione possono essere soddisfatti di questa tattica? E' probabile che motivino l'insoddisfazione verso una politica fiscale di Destra con un ragionamento di questo tipo: la politica del rastrellamento del maggior numero di voti assicura la vittoria, grazie alla quale sarà poi possibile fare la politica "buona", quella di Sinistra. Quindi il Partito della Nazione deve vincere con i voti della Destra per governare come un Partito di Sinistra: forse è questa la torsione tattica che si tenta per nobilitare consensi a questo Partito della Nazione. Renzi vincerà (detassando la casa) cosicché potrà avviare le politiche fiscali sul costo del lavoro. Questa è la speranza o la ragione per volere che vinca.

La strategie dei due tempi e delle due politiche -- una per vincere (di Destra) e una per fare le cose giuste (o di Sinistra) - è il nerbo di una visione gerarchica del partito come casamatta tenuta da un gruppo granitico di dirigenti che manovrano le truppe per un fine che loro assicurano essere quello giusto. Nel nostro presente, spoglio dell'ideologia che poteva in passato valere a giustificare queste manovre di guerra, il partito come un "tutto" (o Partito della Nazione) ha perso ogni imbellimento etico e resta nudo, mostrando lo scheletro che lo sorregge: il realismo cinico, disposto a perseguire l'unica strategia possibile, la mescolanza di Destra e Sinistra. Il Partito della Nazione si trasforma in Partito Destrinista.

La riforma elettorale agevola, anzi promuove, una strategia che rovescia le parti e mescola Destra e Sinistra perché intensamente maggioritarista, capace di far ottenere una vittoria che eccede quella di una maggioranza relativa. Questo è l'esito pratico (e praticistico) della dottrina del Partito della Nazione in un'età nella quale non c'è più posto per il Partito della Nazione come partito totale e organico. Oggi il Partito della Nazione può esistere solo nella forma prosaica e schumpeteriana, spoglio di ambizioni politico-ideali che diano del paese un'immagine altra da quella esistente. Con la proposta di detassare la casa, l'immagine del paese sarà una riconferma della sua peggiore immagine, inegualitaria e iniqua.

Nonostante gli sforzi degli esegeti, questo Partito-Piglia-Tutto non si incanala nel solco della tradizione antica (per esempio, come sembra di intuire da alcune stravaganti letture, la svolta di Salerno all'insegna dell'unità nazionale), la quale proprio perché si situava nella fase costituente aveva un profondo significato e un senso storico. Ma fatte le regole, le parti o i partiti si combattono per ottenere una maggioranza che governi per un lasso di tempo (non a caso il Partito di Togliatti votò contro leggi elettorali che prevedevano premi di maggioranza).

Dare oggi ad un partito un significato di totalità etica è travisare le cose, con l'esito di tingere con una patina di nobiltà un progetto che consiste semplicemente nel rastrellamento di voti. Non é forse meglio accettare questo fatto prosaico o schumpeteriano invece di imbellirlo con il richiamo a un Partito della Nazione che non c'è più (e forse non é desiderabile che ci sia)?. Non é così che dovrebbe essere letto il progetto di riforma fiscale? Ovvero come stratagemma per conquistare il 40 per cento al primo turno?

Per questo, Renzi fa sue le battaglie condotte da Berlusconi: per giungere a una vittoria elettorale al primo turno deve porsi l'obiettivo di sostituirsi alla Destra nel voto di fasce sociali tradizionalmente conservatrici (imprenditori, liberi professionisti, commercianti, redditieri). Un obiettivo tutto politico che porta a confondere Destra e Sinistra, a creare un connubio di Destra e Sinistra, un Destrinismo.

Questo post è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista Left del 19 settembre.

DA - http://www.huffingtonpost.it/nadia-urbinati/dal-partito-della-nazione-al-partito-destrinista_b_8170752.html?utm_hp_ref=italy
7637  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Il labirinto dell'Europa sui migranti e dell'Italia sul Senato inserito:: Settembre 22, 2015, 06:41:44 pm
Il labirinto dell'Europa sui migranti e dell'Italia sul Senato
Per uscire dal dedalo della riforma ci vuole il filo di Arianna ma alla fine i suoi due capi resteranno in mano a Renzi. Sui flussi migratori, si pensi a che cosa sarebbe accaduto se fossero esistiti gli Stati Uniti europei con norme federali

20 settembre 2015
Eugenio Scalfari

I migranti e l'Europa. Lo spettacolo di alcuni Paesi membri dell'Unione europea di fronte alle ondate di decine di migliaia di persone provenienti dall'Africa subequatoriale, dalla Siria, dalla Libia, dal Kurdistan. I valori sui quali è nata l'Unione europea messi sotto i piedi dall'Ungheria, dalla Polonia, dalla Slovacchia, dalla Repubblica Ceca, dalla Croazia. Questo è accaduto e continua non solo ad accadere ma a coinvolgere la simpatia anche di altri membri dell'Unione come i Baltici. È una situazione intollerabile e come tale giudicata da tutti gli altri componenti dell'Unione a cominciare dalla Germania, dall'Italia, dalla Francia. Ma, nonostante questa inaccettabilità più volte affermata vigorosamente, non si è andati oltre, alle parole non sono seguiti i fatti, sia perché si cerca piuttosto un compromesso che uno scontro aspro e duro in una fase di difficoltà economiche notevoli e non ancora superate e sia perché l'Ue è una confederazione di Stati nazionali ognuno dei quali è padrone in casa propria salvo alcune modeste cessioni di sovranità che riguardano più l'economia che la politica.

Questa constatazione mi ha fatto pensare che cosa sarebbe accaduto se esistessero gli Stati Uniti d'Europa e come sono in grado di comportarsi gli Stati Uniti d'America quando hanno dovuto affrontare problemi consimili ai nostri di discriminazioni, xenofobie, immigrazioni. L'immigrazione è regolata da norme federali: se uno straniero è in regola con quelle norme e può varcare i cancelli di ingresso, circola liberamente in tutto il Paese.

La discriminazione fu abolita da Lincoln con la guerra di secessione: la vittoria contro i sudisti ebbe come risultato costituzionale l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Quanto alla xenofobia, tutte le associazioni razziste, a cominciare dal Ku Klux Klan, furono soppresse e la loro ricostituzione vietata. Provvedimenti come quelli di erigere muri e sbarrare i confini da parte di singoli Stati dell'Unione sarebbero immediatamente e concretamente vietati, la polizia locale sostituita da quella federale alla quale ove si dimostrasse necessario si affiancherebbero anche reparti dell'esercito degli Stati Uniti.

Quanto sta accadendo è la vergogna d'Europa, non solo per gli Stati xenofobi e dittatoriali, ma per tutti, che dopo settant'anni dal manifesto di Ventotene non sono ancora riusciti a dar vita ad una Federazione europea. Vergogna.

***

La riforma costituzionale del Senato della Repubblica italiana è un tipico labirinto per uscire dal quale ci vuole il filo di Arianna. Il mito racconta che due personaggi tengono quel filo: Arianna e Teseo. Tutti e due si salvano e si mettono provvisoriamente al sicuro ma, arrivati all'isola di Nasso, Teseo abbandona Arianna; lei viene violentata dal dio Dioniso che poi la trasforma in una costellazione. Il filo resta per terra in quell'isola sperduta senza più nessuno che lo tenga in mano.

I lettori forse si domanderanno che cosa c'entra il mito del labirinto con la riforma del Senato. C'entra, eccome. Nel labirinto dell'articolo 2 della legge di riforma Teseo è Renzi e Arianna è Bersani. Se l'accordo che si profila tra la maggioranza renziana e la minoranza andrà a buon fine, il Pd uscirà dal labirinto ma alla fine Renzi (Teseo) abbandonerà Bersani (Arianna) che finirà in cielo, cioè fuori dalla vera partita politica. Il filo però non sarà abbandonato per terra ma i suoi due capi resteranno in mano a Renzi.

Personalmente la vedo così. Può darsi che sia un bene per il Paese, Renzi resta il capo indiscusso e unico, la minoranza è fuori gioco ma onorata e luccicante come le stelle. Il guaio è che il labirinto resta in piedi. Chi ci sta dentro? Non certo la minoranza che riposa nell'alto dei cieli. Dentro ci sta di nuovo Renzi alle prese con l'Europa e soprattutto con quelli che l'Europa la vorrebbero federata. Il nostro presidente del Consiglio no, vuole mantenere i poteri deliberanti in mano agli Stati nazionali.

Del resto non è il solo: quasi tutti i capi di governi nazionali non vogliono essere declassati. A volere l'Europa federata sono rimasti in pochi: uomini di pensiero, vecchi ma anche molti giovani che detestano frontiere e localizzazioni; Draghi con la sua Banca centrale; molti presidenti delle Camere europee, a cominciare dalla nostra Laura Boldrini; forse Angela Merkel, consapevole che anche la Germania in una società sempre più globale finirebbe col trasformarsi da nave d'alto mare in un barcone sballottato dai flutti.

Tutto è dunque appeso al filo di Arianna perché se è vero che l'Italia è un labirinto, molto più labirintica è l'Europa. Un capo del filo per uscire dal labirinto europeo è in mano alla Germania, l'altro capo dovrebbe essere il popolo europeo a tenerlo, il quale però non dimostra alcun interesse a questa vicenda. Ci vorrebbero all'opera partiti europeisti e questo avrebbe dovuto essere il compito anche del Partito democratico italiano.

Questo scenario è affascinante ma anche assai fantomatico. Storicamente somiglia al Risorgimento italiano: chi avrebbe mai pensato nel 1848, che il Piemonte di Cavour da un lato e Giuseppe Garibaldi dall'altro avrebbero fondato lo Stato unitario italiano? Nessuno l'avrebbe pensato in un Paese diviso in sette o otto staterelli, con un popolo fatto di plebi contadine e d'una borghesia appena nascente e interessata più a progetti economici che sociali e politici? Invece accadde, in tredici anni. Chissà che il miracolo non avvenga anche nell'Europa di domani. Tredici anni sono un lampo anche se sarebbe meglio farlo prima.

***

Ancora qualche parola sulla diatriba riguardante la riforma del Senato. L'archivio storico della Camera dei deputati è molto solerte nello studio dei documenti in sue mani e non rifiuta, se richiesta, di darne notizia al richiedente. Personalmente avevo un vago ricordo di un documento che rimonta ai tempi del governo Dini. Il nostro giornale ne aveva dato notizia a quell'epoca. Comunque adesso ho potuto rileggerlo e merita che i nostri lettori ne conoscano la parte essenziale. Si tratta di una proposta di legge il cui contenuto è rappresentato da queste parole: "La democrazia maggioritaria deve dispiegarsi appieno per quanto riguarda le scelte di governo, ma deve trovare un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali, delle regole democratiche, dei diritti e delle libertà dei cittadini: principi, regole, diritti che non sono e non possono essere rimessi alle discrezionali decisioni della maggioranza 'pro tempore'". La proposta fu firmata da una settantina di parlamentari, tra i quali Napolitano, Mattarella, Leopoldo Elia, Piero Fassino, Walter Veltroni e Rosy Bindi. La data è del 28 febbraio 1995.

Questa proposta non fu trasformata in legge e dopo alcuni mesi Dini si dimise, ma il suo valore resta. E se fosse ripresentata oggi? Chi la firmerebbe? E la riforma del Senato che non si limita a puntare sull'elezione indiretta dei componenti ma ne riduce il numero rendendolo insignificante nei "plenum" dove la Camera conta su 630 rappresentanti e ne riduce soprattutto le attribuzioni legislative ben oltre la questione della fiducia al governo riservata alla sola Camera? Reggerebbe questa riforma di fronte ad una legge come quella proposta nel 1995?

Quanto alla legge elettorale che prevede il premio alla lista che avrà il quaranta per cento dei voti espressi, è la prima volta che questo accade; fu solo la legge (fascista) di Acerbo del 1923 ad accordare il premio di maggioranza ad un partito ben lontano dall'avere ottenuto la maggioranza assoluta. Non è anche questa  - anzi soprattutto questa  -  una stortura istituzionale su un sistema monocamerale con gran parte dei suoi componenti nominati dal governo?

Siamo in presenza d'una politica che sta smantellando il potere legislativo a favore d'un esecutivo dove il gruppo di comando si compone di non più d'una decina di persone. Non è una oligarchia ma un cerchio magico di infausta berlusconiana e bossiana memoria.

Arianna sta tra le stelle e le nuvole del cielo, forse era meglio che non si fosse messa in viaggio e tenesse ancora un capo di quel filo.

© Riproduzione riservata
20 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/20/news/il_labirinto_dell_europa_sui_migranti_e_dell_italia_sul_senato-123262129/?ref=fbpr
7638  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MASSIMO FRANCO Il Papa nelle Americhe, i segreti di un viaggio inserito:: Settembre 22, 2015, 06:40:38 pm
Il Papa nelle Americhe, i segreti di un viaggio
Dai discorsi fatti riscrivere alla rinuncia a entrare negli Stati Uniti dal Messico per non farsi trascinare nella campagna presidenziale

Di Massimo Franco

Quando il Papa ha letto i discorsi che gli erano stati preparati per la visita negli Stati Uniti, ha avuto una reazione di perplessità e poi quasi di disappunto. Tanto che alla fine ha deciso di rimandarli indietro: riteneva che non riflettessero abbastanza fedelmente né il suo pensiero, né il suo stile. Soprattutto, sembra che li abbia considerati troppo generici e poco strutturati. Per questo, ha affidato la soluzione del problema a persone di sua fiducia che ne conoscono lessico e traiettoria mentale. I discorsi sono stati riscritti praticamente da cima a fondo, e approvati. L’aspetto intrigante è che gli spunti per la stesura dei testi erano arrivati dai vescovi d’oltre Atlantico; e a rielaborarli era stata la Segreteria di Stato: elementi che hanno confermato le differenze culturali e di sensibilità tra Jorge Mario Bergoglio e alcuni dei suoi «grandi elettori» statunitensi.

A questo episodio vanno aggiunte le telefonate di protesta arrivate in Vaticano dall’America quando è stata discussa la lista degli invitati alla Casa Bianca per mercoledì prossimo, alla cena in onore del Papa. Ecclesiastici ma anche esponenti del cattolicesimo più solidamente conservatore hanno chiesto se la Santa Sede avesse espresso le sue rimostranze; o se il Pontefice avesse addirittura meditato di non partecipare a quell’incontro. La risposta diplomatica del Vaticano è stata che il Papa era un invitato, e non poteva decidere lui chi far partecipare: tanto più quando si tratta di quindicimila persone. Ma a parte le risposte diplomatiche, il problema che si è posto è stato quello di analizzare le ragioni di una scelta risuonata a Roma come minimo alla stregua di una gaffe. Al peggio, come uno sgarbo o addirittura una provocazione.

Nei riguardi di chi, però, e per quale ragione? Nella cerchia papale è stato ricordato che Obama ha sempre difeso le minoranze e i temi controversi sulle quali hanno costruito le loro battaglie: dai matrimoni omosessuali all’aborto. È stato ricordato l’entusiasmo col quale il presidente degli Stati Uniti salutò a luglio la decisione a maggioranza della Corte suprema di legittimare le nozze gay: un tema sul quale Francesco non ha parlato finora solo per non alimentare polemiche. Ma è difficile pensare che quando il segretario di Stato, il cardinale Piero Parolin, tuonò contro il risultato del referendum irlandese su questo tema, nel maggio scorso, il Papa non fosse d’accordo. La seconda riflessione si è concentrata sul fatto che l’inquilino della Casa Bianca non ha mai avuto un’appartenenza né una visione religiosa definite.

Alla fine, però, è affiorata anche una spiegazione più «politica». La sfida della Casa Bianca, se di sfida si tratta, non è tanto a Francesco ma ad un episcopato americano da sempre in conflitto con le Amministrazioni e il Partito democratico Usa ; e proprio sui cosiddetti «valori non negoziabili». Avere il Papa ad una cena dove sono presenti alcune delle realtà di fatto contro le quali combattono da anni vescovi considerati «guerrieri culturali» sarebbe un tentativo di spiazzarli, e inserire un cuneo potenziale tra Roma e la Conferenza episcopale statunitense. Ma la manovra è tutta da dimostrare: anche perché appare altamente improbabile che potrebbe riuscire, vista la lealtà e la devozione dei vescovi al papato. È vero solo che alcuni di loro vorrebbero parole più nette a difesa della famiglia e sulle questioni etiche dirimenti.

In Francesco, però, c’è la doppia preoccupazione di non schiacciare la Chiesa cattolica sulle posizioni «repubblicane»: aggettivo che oggi, negli Usa, significa un radicalismo anti-immigrazione e anti-Obama ben riflesso dalla rozzezza delle parole d’ordine del miliardario e candidato Donald Trump. Più in generale, Bergoglio non vuole deflettere da una strategia «inclusiva» e «positiva». Si tratta di un’opzione che comporta uno spostamento e un ammorbidimento degli accenti su questi temi: anche perché l’approccio aggressivo del passato non ha portato grandi passi in avanti. Il timore di essere tacciato di antiamericanismo e infilato a forza nella campagna presidenziale è anche quello che ha scoraggiato una tappa di Francesco a Ciudad Juárez, al confine tra Messico e Usa.

La città è il simbolo di una realtà transfrontaliera ed è uno dei punti di passaggio e di sfruttamento dell’emigrazione dall’America Latina. E il governo messicano era tra quelli che si erano candidati ad ospitare il Pontefice, desideroso di arrivare negli Usa dal «Sud», in omaggio alla sua origine argentina. Alla fine, però, l’ipotesi è stata scartata perché troppo «impegnativa» in vista del viaggio a Washington, Filadelfia e New York. Dopo avere escluso altre tappe, Francesco ha optato per Cuba, sorprendendo tuttavia la Casa Bianca e la stessa Segreteria di Stato vaticana. La volontà di abbinare due nazioni così agli antipodi è un omaggio all’America Latina e un modo per ricordare agli Usa quanto sia importante la ripresa del dialogo e la fine delle tensioni tra il regime comunista dei Castro e il Nord America.

E questo nonostante la Santa Sede ammetta che il suo ruolo di mediazione è stato molto simbolico ma poco operativo. «Ci hanno chiesto di firmare una loro bozza di accordo alla nostra presenza. Ma per circa sei mesi hanno trattato da soli, in Canada», si spiega in Vaticano. Sui tempi della transizione verso la democrazia, le previsioni divergono profondamente. Alcuni dei consiglieri di Francesco ritengono che senza la fine della «generazione della rivoluzione» castrista, la situazione cambierà poco. Oltre tutto, Raúl Castro sarebbe un moderato rispetto al nocciolo duro del Partito comunista, che celebrerà il congresso nella primavera del 2016. «In più, Cuba è un’isola, tagliata fuori da tutto per oltre mezzo secolo», si osserva. «Non è la Polonia, o la Cecoslovacchia o la Germania dell’Est, che avevano contatti col mondo esterno. Lì un cambiamento può arrivare solo se nasce dall’interno».

L’idea statunitense dell’«inevitabilità della democrazia» è suggestiva, e probabilmente esatta. Ma poco prevedibile nella sua tempistica. Il regime ha bisogno degli Usa dopo la deriva fallimentare del Venezuela che mandava soldi e petrolio in cambio di medici e infermieri cubani. Per paradosso, tuttavia, continua a dover usare anche l’embargo statunitense per coprire i propri fallimenti economici e politici. Probabilmente, per capire come andrà a finire bisognerebbe sapere meglio che cosa si sono detti gli emissari statunitensi e di Cuba nella loro lunga trattativa segreta. Sempre che la realtà della nomenklatura comunista caraibica sia disposta a conformarsi a quel percorso verso la democrazia.

20 settembre 2015 (modifica il 20 settembre 2015 | 08:26)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_20/papa-americhe-segreti-un-viaggio-fcdf6a8e-5f5c-11e5-9125-903a7d481807.shtml
7639  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Beppe SEVERGNINI. Email: Sei cose da ricordare prima di cliccare il tasto Invia inserito:: Settembre 22, 2015, 06:39:34 pm

Tecnologia
Email: Sei cose da ricordare prima di cliccare il tasto «Invia»
A 20 anni dall’ingresso in società della posta elettronica connessioni veloci e smartphone hanno moltiplicato gli abusi

Di Beppe Severgnini

I molestatori digitali dispongono, ormai, di un arsenale. In qualche caso, bisogna essere pazienti: prima o poi impareranno a usarlo. Facebook è un amplificatore: i cafoni sono diventati cialtroni, i perdigiorno buttano via gli anni. Twitter è la macchina della verità: la sintesi rivela la bontà delle idee o l’assenza delle medesime. Dotare un esibizionista di un account Instagram è come fornire un microfono a Maurizio Landini o una telecamera a Giorgia Meloni: una tentazione irresistibile. Alcuni strumenti, però, hanno ormai una certa età: dovremmo aver imparato ad utilizzarli. Non è così, purtroppo. Come sapete, c’è ancora qualcuno che chiama al cellulare e inizia a parlare senza prima domandare: «Disturbo?». E ci sono molti che saturano le caselle altrui con email non richieste, senza provare il minimo senso di colpa.

La posta elettronica è invasa da forze di occupazione
È incredibile dover parlare di queste cose nel 2015, vent’anni dopo il debutto sociale della posta elettronica. Ma è necessario: la velocità di connessione e l’ubiquità degli smartphone hanno moltiplicato gli abusi. Ricordate gli anni felici in cui, vedendo il numero rosso che segnalava l’arrivo di una mail, eravamo quasi felici? L’animale sociale che è in noi emetteva un impercettibile mugolìo di soddisfazione. La stessa, piacevole sensazione che, dieci anni prima, ci regalava il lampeggio della segretaria telefonica, rientrando a casa: ehi, qualcuno ci ha cercato!
Tutto questo è finito. La posta elettronica - rapida, gratuita, semplice - è invasa da forze di occupazione. Filtri e firewall riescono a bloccare parte della spam automatica; ma nulla possono contro la stagista di un ufficio stampa, convinta che inondare l’umanità di comunicati sia un diritto costituzionalmente garantito. Alcune applicazioni segnalano, attraverso i colori, le mail probabilmente irrilevanti. Ma devono arrendersi davanti al signor Santo Pignoli, che passa le serate offrendo al mondo le sue opinioni. E pretende risposte.

Una persecuzione che rasenta lo stalking.
Ripeto: è imbarazzante dover ripetere certe cose. Ma è necessario: perché qualcuno non le ha ancora capite. Nessuno - a parte le compagnie telefoniche, Vodafone in testa - si sogna di chiamare la gente a casa solo perché esiste il telefono. Moltissimi credono, invece, che l’esistenza della posta elettronica, e la conoscenza di un indirizzo, autorizzi a praticare una persecuzione che, in qualche caso, rasenta lo stalking.
È un peccato: avanti così, e uno strumento utile e gratuito come l’email verrà abbandonato, in favore di nuovi strumenti (WhatsApp, Slack, è stato appena lanciato Symphony per il mondo finanziario). In un ultimo, disperato tentativo di spiegare l’ovvio, ecco un promemoria.

Sei cose da ricordare prima di cliccare il tasto «Invia»:

1) Una casella di posta elettronica non è un luogo intimo, ma è privata. Prima di entrare, chiedetevi: mi hanno invitato? O almeno: sarò gradito?
2) Entrereste in casa d’altri scaricando un baule nell’atrio? Ecco: evitate allegati, se non sono strettamente necessari.
3) L’«oggetto» non è un optional. È un biglietto da visita e un segnalibro: servirà a trovare la pagina.
4) Non è obbligatorio rispondere a ogni mail. Ed è vivamente sconsigliato rispondere d’impulso, se qualcosa vi ha turbato. Quasi certamente, ve ne pentirete.
5) Una risposta si può chiedere o sperare; non pretendere, né sollecitare.
6) Scrivete se avete qualcosa da dire, e ricordate una cosa fondamentale: potete anche non dirlo. Per esempio, volete davvero scrivermi per commentare questo commento? È l’ultima domenica d’estate: staccate le dita dalla tastiera e alzate gli occhi al cielo.

Io l’ho appena fatto, dopo aver visto il numero di mail arrivate tra ieri e oggi.

20 settembre 2015 (modifica il 20 settembre 2015 | 09:43)
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Da - http://www.corriere.it/tecnologia/15_settembre_20/sommersi-email-0e946fac-5f5f-11e5-9125-903a7d481807.shtml
7640  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Andrea Carugati. Ecco come Renzi ha convinto la minoranza. inserito:: Settembre 22, 2015, 06:38:19 pm
Riforma Senato, arriva il lodo Tatarella.
Ecco come Renzi ha convinto la minoranza.
Bersani: "Un'apertura significativa"

Andrea Carugati, L'Huffington Post
Pubblicato: 21/09/2015 20:03 CEST Aggiornato: 52 minuti fa

Di lavoro da fare ce n’è ancora molto, e toccherà ai senatori farlo nei prossimi giorni. Ma dal punto di vista politico, sul delicatissimo tema delle riforme, la direzione sembra aver consolidato l’intesa dentro il Pd. Un’intesa che, ironia della sorte, prende la forma di “lodo Tatarella”, dal nome dell’ex leader di An che inventò, insieme a Leopoldo Elia, la legge regionale del 1995, la prima volta che gli elettori designarono il presidente della Regione. “Designarono” e non “elessero”, e in queste due parole c’è la soluzione. Renzi, infatti, in direzione ha accolto la proposta avanzata domenica dal senatore ribelle Vannino Chiti, che aveva appunto fatto riferimento alla legge Tatarella: una legge in cui il presidente della Regione veniva scelto dagli elettori, ma nominato formalmente dai consigli regionali. È lo stesso destino che, se l’intesa passerà al vaglio dell’Aula del Senato, toccherà a quei consiglieri regionali che saranno scelti come senatori. Nella relazione, il premier ha parlato esplicitamente di “designazione”. Nelle conclusioni, Renzi ha chiarito bene il punto: “Quando mi riferisco a Tatarella, intendo dire che c’è una designazione dei senatori da parte degli elettori, come accadde ai presidenti di Regione nel 1995. In Emilia Romagna i cittadini scelsero Bersani, che poi fu eletto formalmente dal consiglio regionale. Lo stesso in Toscana con Vannino Chiti”.

A stretto giro arriva la risposta di Pier Luigi Bersani, a Modena per partecipare alla festa dell'Unità. "Mi pare che Renzi abbia fatto un'apertura significativa: se si intende che gli elettori scelgono i senatori e i consigli regionali ratificano va bene, perché è la sostanza di quello che abbiamo sempre chiesto. Meglio tardi che mai: vedremo al Senato come verrà tradotta questa indicazione".

Allo stato attuale, non c’è alcuna ipotesi su come questi senatori saranno eletti. Renzi ha chiarito che non c’è alcuna ipotesi sui meccanismi elettorali, e che il riferimento a Tatarella non era ai listini di consiglieri che venivano affiancati al nome del candidato a governatore. La nuova Costituzione affiderà a una legge ordinaria le modalità di elezione dei senatori: una legge quadro, votata da Camera e Senato, che rimanderà per alcuni aspetti alle singole regioni le modalità di scelta.

Per la minoranza dem, che pure ha deciso di non partecipare al voto finale della direzione, si registra un netto passo avanti. Un’intesa praticamente chiusa. “La proposta di Chiti, ha detto in direzione Gianni Cuperlo (anche a nome dei bersaniani), “può rappresentare il punto condiviso, che riconosca l'utilità e l’opportunità di un criterio più diretto di selezione da parte degli elettori, con una rappresentanza legittimata da un voto popolare, mantenendo ai consigli regionali il compito di una formale ratifica. Su questa base possiamo mandare all'esterno un messaggio di unità”. Lo sbocco pare proprio il “lodo Tatarella” enunciato da Renzi. “Non ci sono scalpi da esibire”, ha detto Cuperlo. “Non è in corso un braccio di ferro o una prova muscolare e non ci devono essere diktat. Bisogna trovare uno sbocco da rivendicare come successo comune”. Morbido anche il bersaniano Miguel Gotor: “Se le parole di Renzi significano che i cittadini decidono chi sarà senatori e i consigli regionali ratificano la volontà popolare per noi va bene”, spiega a Huffpost.

L’ipotesi a questo punto è quella di un emendamento di maggioranza, a prima firma Zanda, che dia forma all’intesa tra i dem e la allarghi anche altri partner di governo. Si tratta di una modifica al comma 5 dell’articolo 2 del ddl Boschi: “La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti sulla base della designazione degli elettori”. L’intesa è tutta nelle ultime sei parole in corsivo. Al comma 2, infatti, i senatori sono eletti “dai consigli regionali con metodo proporzionale”. Al comma 5 la volontà popolare rientra dalla finestra. “In fondo”, spiega ad Huffpost Giorgio Tonini, senatore renziano e protagonista della mediazione insieme a Vannino Chiti al sottosegretario Luciano Pizzetti, Zanda e Finocchiaro, “è lo stesso metodo che si usa per eleggere il presidente degli Usa: anche in quel caso l’elezione popolare è mediata dal voto dei grandi elettori”. “Nel caso italiano”, aggiunge Tonini, quella che fanno gli elettori è “una designazione pesante, di cui i consigli regionali sono obbligati a tenere conto”.

Nella minoranza, che non ha partecipato al voto, resta ancora qualche dubbio sulle reali disponibilità del premier. “Se nelle parole di Renzi si intende che decidono i cittadini, cioè che i senatori non sono scelti nel chiuso di una stanza, ma sono decisi dai cittadini e poi c'è una ratifica dei Consigli regionali, siamo secondo me di fronte a un vero e positivo passo avanti”, spiega Roberto Speranza. L’intesa dunque è vicinissima. Resta sullo sfondo molta diffidenza tra le due parti. E del resto il premier nella sua relazione è stato molto duro con la minoranza. E a D’Attorre che l’ha accusato di aver proceduto nelle riforme a colpi di diktat, ha risposto a muso duro: “Dire questo significa fare a pugni con la realtà”.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/09/21/riforma-senato-lodo-tatarella_n_8171962.html?utm_hp_ref=italy
7641  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / "Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia" inserito:: Settembre 22, 2015, 06:36:42 pm
"Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia"
Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l'esplosione: "Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi"

Di RAFFAELLA FANELLI
19 settembre 2015

"SENTII un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un'enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri...". Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L'ex uomo d'onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. "Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato... Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l'aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza del bar Johnnie Walker... Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari... Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera... amuninni a mangiari 'na pizza".
"Così portai l'archivio di Riina a Messina Denaro"

Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell'autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi...
"Degli uomini in mimetica non so niente... Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri".

Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra?
"C'era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri... Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato".

Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi?
"In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l'ho mai riconosciuto... Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate".

Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del '93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso?
"Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara".

Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2.
"So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi... che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità".

La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo?
"Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso... Ma è una mia deduzione".

L'omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere?
"Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C'erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino".


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19 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/09/19/news/_cosi_uccidemmo_il_giudice_falcone_ma_dietro_le_stragi_non_c_e_solo_mafia_-123198075/?ref=fbpr
7642  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Stranieri e diritti Le libertà che l’Europa assicura inserito:: Settembre 22, 2015, 06:34:20 pm
Stranieri e diritti
Le libertà che l’Europa assicura

Di Ernesto Galli della Loggia

Se è vero che il fenomeno della migrazione politico-economica che si sta rovesciando sull’Europa è un fenomeno di gigantesche proporzioni storiche, epocale come si dice, allora è quasi certo che la percezione complessiva che ne abbiamo non corrisponde alla realtà alla quale esso darà luogo quando si sarà definitivamente assestato. Oggi, insomma, esso ci appare una cosa diversa da quella che risulterà nei fatti, diciamo tra mezzo secolo. Per una semplice ragione, anzi due: che i fenomeni sociali evolvono in modo relativamente prevedibile nel breve-medio periodo ma in modo assolutamente imprevedibile su quello medio-lungo; e in secondo luogo perché il nostro sguardo e il nostro cervello sono, diciamo così, tarati per vedere da vicino o relativamente da vicino, non a distanza di decenni. Del futuro ci facciamo il più delle volte un’idea assai imprecisa; spessissimo sbagliata.
Possiamo allora provare a considerare quanto oggi sta accadendo in modi un po’ diversi da quelli che di solito ci viene fatto di adoperare (tra l’altro sempre sotto la pressione di una fortissima polemica ideologico-politica nella quale siamo inevitabilmente coinvolti).

Il primo modo diverso potrebbe essere questo. Lo spostamento di grandi masse perlopiù islamiche verso l’Europa è un riconoscimento inequivocabile delle conquiste realizzate dalla nostra civiltà. È una sorta di grande consultazione popolare realizzata con i piedi invece che con la scheda. C oloro che infatti fuggono dalla Siria, dall’Eritrea, dall’Afghanistan, dall’Iraq, non chiedono di stabilirsi in Turchia, non vogliono diventare ospiti permanenti della Giordania e del Libano che pure li accolgono di buon animo. Né pensano minimamente di cercare rifugio in Arabia Saudita o negli altri Stati del Golfo, tanto straripanti di ricchezza quando ferocemente discriminatori verso chiunque non abbia avuto la ventura di nascere entro i loro confini.

No. Pur essendo perlopiù musulmane quelle grandi masse umane non mostrano alcun desiderio di restare nella «Terra dell’Islam». Esse cercano l’Europa. Vogliono stabilirsi qui, tra i crociati e gli ebrei amici del Grande Satana. Perché? Perché qui sanno di poter trovare un po’ di benessere, almeno un minimo di assistenza sociale, ma soprattutto un quadro di protezione legale, di libertà. Qui, per quante traversie gli capiti di vivere, quelle persone non sono alla mercé del potere arbitrario e spesso crudele che salvo pochissime eccezioni domina nei Paesi islamici. Esistono dei giudici, in Europa.

Faremmo male, io credo, a sottovalutare il significato e le conseguenze di tutto questo, specie per quanto riguarda le seconde generazioni di chi oggi arriva tra noi. Per un giovane uomo che diventa un terrorista, dobbiamo chiederci, quante migliaia invece non lo diventano? E quante giovani donne, che a casa loro sarebbero rimaste delle analfabete sottomesse, decidono invece, dopo essere state nelle nostre scuole e aver visto la nostra televisione, di prendere in mano la propria esistenza e di non sottostare più all’antica autorità dei padri padroni?

Beninteso pur restando gli uni e le altre islamici. E siamo qui al secondo modo diverso in cui forse dovremmo guardare al fenomeno odierno dell’immigrazione, cercando di immaginarne gli effetti sui tempi lunghi.
Nel clima del suo nuovo radicamento in Europa che cosa ne sarà di questo Islam? Non è forse possibile pensare che esso conoscerà per esempio una profonda differenziazione interna, una pronunciata diversità rispetto a quello rimasto nelle sue aree originarie? E non è immaginabile che i contenuti di tale diversità, sviluppatasi sul terreno di un’inevitabile ibridazione con la nostra cultura, possano facilmente andare verso un maggiore orientamento allo spirito di razionalità, alla liberalità e alla tolleranza, verso un’inedita sobrietà di modi cultuali? Nulla è mai la stessa cosa dovunque, o dura immutabile. Così come già nel ‘600 il Cristianesimo di Amsterdam non era quello di Roma, ci fu anche un tempo in cui l’Islam di Cordoba o di Salonicco non era certo quello della Mecca.

Oggi, insomma, gli europei temono che l’arrivo di tanti stranieri possa mutare negativamente il proprio modo di vivere e di sentire. Con molta più ragione, mi pare, dovrebbero essere però questi stranieri, e in prima fila quelli provenienti dall’Islam, a temere circa la possibilità di mantenere inalterato alla lunga il loro patrimonio culturale. E infatti i fanatici del cosiddetto Stato Islamico se ne sono accorti, e hanno già lanciato la scomunica contro chi decide di emigrare.

Ma perché avvenga quanto ho ipotizzato, perché possano innescarsi i mutamenti di cui sopra, sono assolutamente necessarie due condizioni. Innanzi tutto che le società europee non si perdano dietro a un vuoto universalismo multiculturale, e quindi si mostrino ferme nel non abiurare la propria cultura e le proprie tradizioni; anche - per quanto possibile, e per quanto ciò possa apparire intollerabile al mainstream secolarista - la propria tradizione religiosa.

In secondo luogo è necessario che i governi e gli Stati siano egualmente fermi nell’esercitare le loro prerogative in materia di ordine pubblico e di giustizia.
Ciò richiede un oscuro impegno quotidiano, lo sappiamo: ed è difficile, costoso, spesso sgradevole, quasi sempre suscita le proteste indignate dei «buonisti» per partito preso. Ma è assolutamente necessario. Chi fa scempio con la massima indifferenza di un parco pubblico o gira abbigliato in modo improprio, o esprime propositi illegali, o vende merce contraffatta, va sanzionato sempre e senza esitazione. Altrimenti chi giunge tra noi avrà l’impressione di trovarsi non già in una società organizzata, con regole e principi suoi, attenta a tutelarli, non avrà l’impressione di trovarsi perciò a fare i conti con una cultura consistente e coerente con la quale il confronto è ineludibile; bensì crederà di essere capitato in un limbo sociale, in un nulla informe, in un non luogo senza norme e senza autostima. Dove quindi si può fare ed essere ciò che si vuole: naturalmente restando in tutto e per tutto quelli che si era prima.

20 settembre 2015 (modifica il 20 settembre 2015 | 07:25)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_20/liberta-che-l-europa-assicura-4c6140e4-5f50-11e5-9125-903a7d481807.shtml
7643  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Enrico MARRO - Come tagliare le tasse La dura realtà del deficit inserito:: Settembre 22, 2015, 06:33:16 pm
Come tagliare le tasse
La dura realtà del deficit

Di Enrico Marro

Con l’aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza che verrà approvato domani dal Consiglio dei ministri, va dato atto al governo di essere stato, una volta tanto, prudente nelle sue stime dello scorso aprile, tanto da doverle rivedere in meglio anziché in peggio. La crescita del Prodotto interno lordo sarà superiore al previsto, sia quest’anno (0,9% invece di 0,7%) che nei prossimi. E ciò è dovuto non solo a fattori esterni, forse irripetibili nella loro coincidenza, ma anche alle decisioni di politica economica che, alla fine, cominciano a produrre qualche effetto positivo sui consumi e sull’occupazione, sia pure ancora inferiori alle attese. Visti questi primi risultati, fa bene il governo ad insistere sulla linea intrapresa: taglio delle tasse e manovra espansiva. Ma est modus in rebus.

Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, annuncia che con la prossima legge di Stabilità, una manovra da 27 miliardi nel 2016 per evitare che aumentino le tasse (le cosiddette clausole di salvaguardia su Iva e accise che valgono 16 miliardi) e per tagliarne altre (da quelle sulla prima casa agli sgravi sul lavoro e per il Mezzogiorno), l’Italia sfrutterà i margini di flessibilità previsti delle regole europee fino a un punto di Pil, ovvero fino a 17 miliardi di euro, per finanziare gli interventi previsti. Ora, è bene chiarire che la formula «margini di flessibilità» ha un impatto diretto sul deficit. Ovvero: quando un governo chiede alla commissione di utilizzare i margini significa che sta chiedendo il via libera per aumentare il proprio deficit in rapporto al Pil. Per il 2016 l’Italia ha già ottenuto il permesso di far salire il deficit dall’1,4% tendenziale all’1,8%, grazie alle riforme per la crescita messe in campo. Si tratta di 6,4 miliardi di euro, che insieme con 10 miliardi di tagli della spesa pubblica (spending review) andranno a disinnescare le clausole di salvaguardia. In teoria rimarrebbe un altro 0,6% di margine di flessibilità, cioè una decina di miliardi di ulteriore espansione del deficit, che potrebbe essere concesso a fronte non solo delle riforme ma delle altre due condizioni previste dalle regole europee: il cofinanziamento di investimenti infrastrutturali; il dover far fronte a crisi, emergenze e calamità (gli immigrati?).

Renzi ha già detto che non intende utilizzare tutti i margini potenziali, anche perché sa benissimo che la Commissione europea non glielo concederebbe. E il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha precisato ieri alla Camera che il deficit nel 2016 non veleggerà verso il 3% e sarà inferiore al 2,6% previsto per quest’anno. Ma al di là di questo c’è una considerazione che dovrebbe consigliare prudenza al governo. Può un Paese con un debito pubblico di oltre il 130% del Prodotto interno lordo, che ogni anno si presenta sui mercati per chiedere circa 400 miliardi di euro di prestiti collocando titoli di Stato, finanziare quasi due terzi della manovra in deficit? Che fine farebbe la promessa di basare la credibilità della stessa sui tagli strutturali della spesa pubblica?

Il governo sa bene che la lunga stagione dei bassi tassi d’interesse potrebbe finire e che per l’Italia resta una priorità non prestare il fianco alla speculazione. Una maggior credibilità è stata conquistata al prezzo di anni di sacrifici senza precedenti. Ora dobbiamo consolidarla e non esporla al rischio di manovre con il passo più lungo della gamba.

17 settembre 2015 (modifica il 17 settembre 2015 | 07:29)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_settembre_17/dura-realta-deficit-f86c07c6-5cf7-11e5-aee5-7e436a53f873.shtml
7644  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Fiorenza SARZANINI. Funzionari pubblici, tutti gli illeciti ... inserito:: Settembre 22, 2015, 06:31:57 pm
IL DOSSIER L’ERARIO
Funzionari pubblici, tutti gli illeciti
Il caso degli affitti a sette euro
Il rapporto della Guardia di Finanza sui primi sei mesi del 2015: un buco da oltre tre miliardi di euro su sanità, Ferrovie e corsi di formazione

Di Fiorenza Sarzanini

ROMA In appena sei mesi hanno sottratto allo Stato oltre tre miliardi di euro. Sono 4.835 dipendenti pubblici che hanno rubato o sperperato i soldi della collettività. Funzionari, medici, politici, impiegati di primo livello: tutti citati adesso in giudizio dalla Corte dei conti, chiamati a restituire il maltolto. È il rapporto della Guardia di Finanza sui danni erariali contestati tra il 1 gennaio e il 30 giugno 2015 a rivelare quanto profondo sia il «buco» nei conti causato dai lavoratori infedeli. Con un dato che fa impressione: più di un miliardo di euro è stato perso con la cattiva gestione del patrimonio immobiliare. Case concesse in affitto a prezzi stracciati, terreni mai utilizzati, edifici svenduti rappresentano la voce più consistente della relazione.

Corrotti e truffatori
Sono 1.290 le segnalazioni inviate dalla magistratura ordinaria o direttamente dagli stessi finanzieri ai giudici contabili. I numeri dimostrano come nei primi sei mesi di quest’anno ci sia stata una vera e propria impennata con contestazioni pari a un miliardo e 357 milioni di euro, il 13 per cento in più di tutto il 2014. Vuol dire che aumenta il malaffare, ma anche che l’attività di controllo delle Fiamme gialle diventa più incisiva, si concentra in quei settori ritenuti maggiormente a rischio rispetto alla possibilità di un arricchimento personale. Le accuse per i dipendenti pubblici sono corruzione, concussione, truffa, ma anche turbativa d’asta, appropriazione indebita, abuso d’ufficio. Nell’elenco compare anche chi, per inerzia o incapacità ha provocato un disservizio e quindi deve essere sanzionato.

Appartamenti a 7 euro
Sono migliaia gli immobili dai quali lo Stato potrebbe ricavare guadagno e invece si trasformano addirittura in un costo. Un capitolo a parte riguarda le case popolari. Da Lecce ad Aosta i finanzieri sono impegnati in indagini e verifiche per stanare i morosi e tutti i privati che versano canoni irrisori. Perché in questi casi bisogna accertare se si tratti esclusivamente di cattiva gestione o se, come è stato scoperto in Puglia, la concessione dell’immobile sia in realtà una contropartita, ad esempio per ottenere voti alle elezioni. I casi sono diversi, la somma provoca una voragine nei conti. C’è il Comune in provincia di Bolzano che non riscuote l’affitto per l’occupazione di suolo pubblico e perde 350 mila euro, ma c’è anche il direttore dell’Agenzia territoriale di Asti noto per l’accusa di aver sperperato 9 milioni di euro. È ancora in corso la verifica sulle case del Comune di Roma affittate a sette euro al mese, e quella sul patrimonio dell’Inps, ma è già finita l’indagine sul Comune di Nepi, in provincia di Viterbo, dove «reiterati episodi di “mala gestio” tramite una serie di artifizi, raggiri e ammanchi di cassa al patrimonio» avrebbero causato un danno di un milione e 200 milioni di euro».

I manager della sanità
Quello della sanità si conferma un settore dove continuano sprechi e abusi, non a caso in appena sei mesi il danno contestato supera gli 800 milioni di euro. Gli investigatori delle Fiamme gialle hanno aperto 264 pratiche, 2.325 sono le persone denunciate o arrestate. Un accertamento svolto in 18 Regioni dal «Nucleo speciale spesa pubblica» della Finanza ha consentito di individuare 83 dirigenti medici che hanno provocato un danno al servizio sanitario di 6 milioni di euro. Due le contestazioni principali: «Mancato rispetto degli obblighi di esclusività delle prestazioni da parte dei dirigenti medici per aver accettato incarichi extraprofessionali non autorizzati preventivamente dall’ente di appartenenza e impiego presso altre strutture private convenzionate». All’ospedale di Gallarate, in provincia di Varese, è stato raddoppiato il valore di un appalto a una società esterna incaricata della manutenzione passando da 15 milioni e mezzo di euro a ben 36 milioni per poter - questa è l’accusa per i manager dell’azienda sanitaria - ricavare una sostanziosa «cresta».

I corsi di formazione
La creatività nel settore della Pubblica amministrazione evidentemente non ha limiti. E così è diventato un caso da manuale quello del dipendente di un ente di Catanzaro che per sette anni ha percepito stipendio e pensione. Pochi giorni dopo essere stato congedato per limiti d’età e aver cominciato a incassare l’assegno dell’Inps «ha presentato domanda di riammissione in servizio presso la sua azienda confidando che le esigenze di organico gli avrebbero consentito di tornare immediatamente al proprio posto, cosa che è effettivamente accaduta». Il problema è che nessuno tra i dirigenti si è preoccupato di segnalare la nuova assunzione all’Istituto previdenziale e l’uomo ha incassato illecitamente ben 700 mila euro. Quello dei mancati controlli è uno dei problemi che emerge con evidenza nel dossier della Guardia di Finanza perché provoca danni immensi. Basti pensare a quanto accaduto in Sicilia con 47 milioni di euro sprecati tra il 2006 e il 2011 per corsi di formazione finanziati con soldi pubblici e in realtà mai svolti.

La Polonia e i treni
Emblematico è il caso scoperto a Bari dove i manager delle Ferrovie Sudest hanno speso 912 mila euro per l’acquisto di 25 carrozze passeggeri, le hanno rivendute a una società polacca «incaricata di eseguire interventi di ristrutturazione per 7 milioni di euro» e qualche tempo dopo hanno deciso di riacquistarle a 22 milioni e mezzo di euro provocando un danno alla società pubblica che la Corte dei conti ha stimato in oltre 11 milioni di euro.

21 settembre 2015 (modifica il 21 settembre 2015 | 08:32)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_settembre_21/funzionari-pubblici-tutti-illeciti-caso-affitti-sette-euro-8c75708e-601c-11e5-9acb-71d039ed2d70.shtml
7645  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Maurizio Donelli Volkswagen, le scuse non basteranno Così in 7 giorni è crollato inserito:: Settembre 22, 2015, 06:29:44 pm
LO SCANDALO SULLE EMISSIONI «TRUCCATE» VA ben al di là dell’(enorme) danno economico
Volkswagen, le scuse non basteranno
Così in 7 giorni è crollato un marchio
L’ammissione dei trucchetti sul diesel dopo l’annuncio della svolta a Francoforte (più motori ibridi ed elettrici). In una settimana è cambiato tutto. Ecco come è successo

Di Maurizio Donelli

Giusto lunedì scorso, verso sera, alla vigilia dell’apertura del Salone di Francoforte, il Gruppo Volkswagen aveva organizzato il tradizionale grande show annuale di presentazione dei nuovi modelli presenti e futuri di tutti i dodici marchi della galassia di Wolfsburg. Una specie di parata militare, una dimostrazione di forza. Nessuno, nessuno, avrebbe mai pensato che a distanza di sette giorni Volkswagen si sarebbe trovata coinvolta in uno scandalo le cui conseguenze vanno ben al di là dell’enorme danno economico. Mai infatti era stata messa così in crisi la credibilità del marchio tedesco. Le scuse «per aver tradito la fiducia dei nostri consumatori» serviranno a poco. E non parliamo dell’imbarazzo politico in cui si è trovata Angela Merkel, la quale si è sempre fatta vanto dell’industria automobilistica tedesca (che contribuisce per il 9 per cento al Pil del Paese).

Il paradosso sta nel fatto che proprio in occasione di quella serata-spettacolo di Francoforte, la prima dopo la battaglia vittoriosa di Martin Winterkorn su Ferdinand Piech, il Ceo aveva annunciato una grande svolta: più motori ibridi ed elettrici e venti nuovi modelli in arrivo. «Reinventiamo Volkswagen», aveva detto. E invece il gruppo è scivolato sul più tradizionale dei carburanti, quel gasolio che in Europa è amatissimo dagli automobilisti. E chissà che cosa potrebbe succedere se ci si dovesse accorgere che il trucchetto (ammesso) per aggirare i controlli negli Stati Uniti è stato utilizzato anche nel vecchio Continente. Sarebbe davvero un terremoto.

21 settembre 2015 (modifica il 21 settembre 2015 | 16:19)
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Da - http://motori.corriere.it/motori/15_settembre_21/volkswagen-scuse-non-basteranno-gioco-c-credibilita-marchio-f73bdf90-6065-11e5-9acb-71d039ed2d70.shtml
7646  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Danilo Taino Scandalo Volkswagen, la Germania delle regole colpita al cuore inserito:: Settembre 22, 2015, 06:24:50 pm
Le emissioni «truccate»
Scandalo Volkswagen, la Germania delle regole colpita al cuore
Merkel e quel passo indietro da fare
La casa automobilistica tedesca ha ammesso di aver falsificato i test sull’inquinamento

Di Danilo Taino, corrispondente da Berlino

BERLINO - C’è il crollo dei titoli in Borsa. C’è la multa che sarà comminata negli Stati Uniti e potrebbe essere molto, molto alta. Ci saranno le conseguenze sul vertice e forse sugli assetti azionari. Nel caso dei dati truccati sulle emissioni di alcuni modelli in America, c’è però anche la perdita di prestigio per il gruppo Volkswagen. E, a dire il vero, non solo per la casa automobilistica: più in generale per la “Deutschland AG” che della correttezza, dell’affidabilità, del rispetto delle regole ha fatto negli anni non solo una bandiera ma anche uno scudo anticrisi. E che oggi si trova invece esposta in uno scandalo - perché di scandalo si tratta - nato proprio in quel gruppo che era fino a ieri il modello numero uno dell’industria tedesca e del suo modo di operare e conquistare i mercati.

E c’è soprattutto un imbarazzo per la Germania stessa - a sentire molti commenti, a Berlino, compreso quello del ministro dell’Economia e vicecancelliere Sigmar Gabriel: se l’industria dell’auto è un orgoglio nazionale, la Volkswagen ne era l’avanguardia, con la sua collezione di oltre dieci marchi di prestigio e la sua continua espansione globale. Fino a ieri. Oggi è diventata un guaio in un momento delicato per il Paese.

La questione non è formale. O di generico danno d’immagine. Da qualche tempo, soprattutto in occasione delle crisi europee in questo 2015, la Germania sta sviluppando una propria leadership. Magari non l’ha cercata, in buona parte le è stata imposta dagli eventi. Fatto sta che l’ha assunta e, soprattutto, l’ha caratterizzata con un concetto che per i tedeschi è indiscutibile: le regole si rispettano.

Che il maggiore campione dell’industria nazionale, più volte sostenuto e protetto dal governo di Berlino proprio in tema di emissioni e di obblighi europei, abbia imbrogliato sulle regole fa vacillare la credibilità e la non negoziabilità dell’essere in toto e sempre in linea con le norme. L’accusa di essere rigidi con gli altri e furbi quando si viene ai propri comportamenti già sta circolando.

Il gruppo dirigente della Volkswagen, a cominciare dal numero uno Martin Winterkorn, prenderà le sue iniziative. Che dovranno essere radicali, non una semplice inchiesta interna. Ma anche il governo di Berlino farebbe bene a non spendere, sul caso, solo parole. Questa è un’occasione per mettere più distanza tra la politica e il Big Business: quando la vicinanza è troppa, come sicuramente lo è da sempre tra Volkswagen e tutti i governi di Berlino, le aziende si sentono inattaccabili perché protette: onnipotenti e sopra le regole. Dovrebbe essere il resto dell’industria tedesca il primo a pretenderlo: una concentrazione esagerata di potere politico ed economico è sempre un danno per i mercati e per i consumatori. E anche Angela Merkel potrebbe fare una riflessione: questa volta, la vera leadership sta nel fare un passo indietro.

@danilotaino
21 settembre 2015 (modifica il 21 settembre 2015 | 17:10)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_21/germania-regole-colpita-cuore-taino-17a52984-6071-11e5-9acb-71d039ed2d70.shtml
7647  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Marco TRAVAGLIO Quirinale, “così Giorgio Napolitano ha sabotato il governo Prodi inserito:: Settembre 22, 2015, 06:22:06 pm
Quirinale, “così Giorgio Napolitano ha sabotato il governo Prodi”
Ecco l'anticipazione di un capitolo del libro "Viva il Re!" di Marco Travaglio (ed. Chiarelettere).
L'ex ministro dell'Economia Padoa-Schioppa ha scritto in un diario i retroscena della crisi dell'ultimo esecutivo di centrosinistra.
Il Capo dello Stato "detestava il bipolarismo e perseguiva un suo disegno politico": ha contribuito a "logorare" il Professore e ad "accelerarne la caduta"

Di Marco Travaglio | 5 dicembre 2013

La storia del secondo governo Prodi ha un doppiofondo segreto. In quei 722 giorni di calvario, il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa – di gran lunga il miglior elemento della compagine – matura la convinzione che Napolitano abbia fatto di tutto per indebolire, logorare, talora boicottare l’esecutivo dell’Unione. E lo scrive in alcune pagine del suo diario che l’autore di questo libro – in alcuni colloqui avuti con lui nella sua casa romana fra il 2009 e il 2010 fino a poche settimane prima della sua improvvisa scomparsa (il 18 dicembre 2010) – ha avuto il privilegio di poter leggere, discutere e annotare nelle parti più significative e attuali. Ma ha deciso di non riportarle testualmente per rispetto della volontà dei familiari, che decideranno liberamente se e quando rendere pubblici quegli scritti.

Siamo nell’autunno del 2006. Dopo la turbolenta estate dell’indulto, a fine agosto il governo ha inviato truppe italiane in Libano per la missione Unifil, mentre è iniziato il ritiro dei militari dall’Iraq. Il 7 settembre il dipietrista Sergio De Gregorio (corrotto – come confesserà lui stesso nel 2012 – da Berlusconi) è passato al centrodestra, privando l’Unione del suo unico voto di scarto al Senato e rendendo decisivi i senatori a vita (…). In questo clima – annota il ministro – il 18 ottobre Napolitano invita a pranzo Prodi, lo stesso Padoa-Schioppa ed Enrico Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E lì fa il “pompiere incendiario”, lo “stabilizzatore destabilizzante”, come lo definisce il titolare dell’Economia. Paventa il “rischio” che Prodi ponga la fiducia. Si fa portavoce di tutte le critiche al governo. Insomma – ricorda Padoa-Schioppa – “soffia sul fuoco anziché spegnerlo”. L’indomani i giornali, opportunamente sensibilizzati, scrivono che Napolitano ha “bacchettato” Prodi e il suo ministro. Il 20 dicembre, nella cerimonia al Quirinale per gli auguri natalizi alle alte cariche dello Stato, Napolitano parla della legge finanziaria – ricorda Padoa-Schioppa – in chiave quasi esclusivamente critica su due punti: la dimensione “abnorme” del testo della manovra e del maxiemendamento e l’uso della fiducia. Segue il solito monito per “soluzioni condivise con l’opposizione”.

Il Quirinale al lavoro contro il centrosinistra. Il 21 febbraio 2007, dopo meno di un anno di vita, il governo Prodi è già in crisi. La maggioranza, divisa sulle coppie di fatto, sul rifinanziamento della missione militare in Afghanistan, sul raddoppio della base americana di Vicenza, “va sotto” al Senato sulla risoluzione che deve approvare la politica estera del ministro D’Alema: soltanto 158 Sì (su un quorum di 160) contro 136 No e 24 astenuti (decisivi i neocomunisti Fernando Rossi e Franco Turigliatto). Prodi sale subito al Quirinale per rimettere il mandato nelle mani di Napolitano. L’indomani – annota Padoa-Schioppa nel suo diario – Prodi torna al Quirinale e lì Napolitano chiede garanzie preventive sui “numeri al Senato” in vista della fiducia e del voto sull’Afghanistan. Pare che il capo dello Stato non gradisca una maggioranza che si regga sui senatori a vita, come se questi fossero figli di un dio minore. Il ministro dell’Economia è sconcertato: il voto si fa in Parlamento, non al Quirinale, e sarebbe ora di finirla con il malvezzo delle “crisi extraparlamentari” da Prima Repubblica.

Il 24 febbraio, previe consultazioni informali con i partiti, Napolitano respinge le dimissioni di Prodi e lo rinvia alle Camere per il voto di fiducia. Nessuno – a parte chi gli parla in privato – sa che il presidente sta segretamente lavorando con personali “esplorazioni” a un’altra maggioranza, al momento però invano. Quale maggioranza? Il solito inciucio di larghe – o almeno più larghe – intese. Una posizione che Padoa-Schioppa definisce “inquietante”. Così come il comunicato del Colle, che pretende una maggioranza “politica”: un altro cedimento alla tesi del centrodestra, che vorrebbe escludere i senatori a vita dal voto. Il che, ricorda l’ex ministro, induce il povero Ciampi a disertare le sedute del Senato ogni volta che è in gioco la sopravvivenza del governo (invece Rita Levi-Montalcini, spesso volgarmente insultata dai banchi della destra, è quasi sempre presente, e votante).

Il 28 febbraio il governo ottiene la fiducia a Palazzo Madama (162 Sì, 157 No), anche grazie al passaggio di Marco Follini dall’Udc al centrosinistra. Il 3 marzo si replica a Montecitorio (342 Sì, 253 No e 2 astenuti). La crisi è rientrata. Almeno per ora. Qualche mese di relativa calma. Poi il 12 luglio Napolitano torna a polemizzare con Prodi e Padoa-Schioppa a proposito di un emendamento inserito dal governo in un decreto già approvato e in fase di conversione in legge in Parlamento. Il presidente rivendica per sé un diritto di veto sul potere legislativo molto discutibile, almeno per il ministro dell’Economia. Che non riesce a comprendere come possa il capo dello Stato pretendere di sindacare sull’urgenza dei provvedimenti del governo, visto che questa è una valutazione squisitamente “politica”, che spetta al Consiglio dei ministri e al Parlamento, non al capo dello Stato. Il che vale, a maggior ragione, per il giudizio sugli emendamenti, governativi e parlamentari: di che si impiccia Napolitano?

Il braccio di ferro fra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia da una parte e Quirinale dall’altra, pur non trapelando quasi mai sulla stampa, prosegue sotterraneamente su altre questioni di fondo. Padoa-Schioppa continua a pensare che Napolitano si assuma compiti non suoi, debordando dai suoi poteri costituzionali. Come quando considera antidemocratico qualsiasi atto e riforma del governo che non sia stato preventivamente “concordato” con l’opposizione. Cioè con Berlusconi. È una malintesa forma di garanzia presidenziale all’opposizione con l’ossessiva ricerca di una “pacificazione”. Che però – osserva l’ex ministro – “porta il presidente a chiedere molto di più alla maggioranza che all’opposizione”, visto che “le prevaricazioni vengono dall’opposizione, non dalla maggioranza”. Padoa-Schioppa si domanda perché Napolitano faccia così. E si risponde che forse è perché è stato eletto solo dal centrosinistra. O forse perché è divorato da un’ansia di “popolarità”: insomma vorrebbe essere come Pertini, o almeno come Ciampi. Ma Pertini e Ciampi erano popolari fra la gente, mentre l’attuale presidente cerca consensi soprattutto nel Palazzo, tra i partiti, da vero “professionista della politica”. Inoltre, la lunga appartenenza a un partito di opposizione, il Pci, lo porta a pensare che le opposizioni abbiano sempre una sorta di “diritto di veto” sulle scelte della maggioranza.

“Un disegno politico da Prima Repubblica anti-bipolarismo”. Ma soprattutto – ripete spesso Padoa-Schioppa nei nostri colloqui – “Napolitano detesta il bipolarismo e persegue un suo disegno politico”, quello svelato nella breve crisi del febbraio 2007: quello di un governo di larghe intese che eliminerebbe l’alternanza fra destra e sinistra e scipperebbe agli elettori il diritto di scegliere da chi essere governati, per rimetterlo nelle mani delle segreterie dei partiti. Come nella Prima Repubblica, che rimane l’unico orizzonte di Napolitano. Ma anche – osserva malizioso l’ex ministro – “come in Unione Sovietica”: “il governo lo sceglie il partito (o i partiti) e non il popolo”. Peccato che la Costituzione dica tutt’altro. E che ciò metta in pericolo la democrazia italiana, specie se all’opposizione c’è Berlusconi. Che, come spesso è accaduto nella storia della conquista del potere dei partiti comunisti nel XX secolo, punta a entrare in larghe coalizioni da posizioni di minoranza, per poi prendersi la maggioranza.

Il 16 luglio dal ministero dell’Economia parte per il Quirinale una nota critica sulla posizione di Napolitano in materia di decreti urgenti e di emendamenti durante l’iter parlamentare (…) “perché introduce di fatto un filtro più fine di quello fissato dalla Corte costituzionale”, cioè si attribuisce “una valutazione e una responsabilità squisitamente politiche, che invece dovrebbero restare prerogative del governo e del Parlamento”.

Il 7 ottobre Padoa-Schioppa, in un’intervista al Tg1, difende il ricorso alla fiducia da parte del governo Prodi. Due giorni dopo Napolitano gli scrive una lettera “privata” per esprimere un dissenso politico e istituzionale: quasi che l’uso della fiducia vada contro la Costituzione. Il ministro rimane di sasso, anche perché la fiducia è prevista dalla prassi parlamentare e costituzionale, specie quando un governo si regge su una maggioranza così risicata. È l’ennesimo bastone fra le ruote di un governo che, già di suo, barcolla. Ripensando a quei fatti nel 2009-2010, l’ex ministro commenterà con amarezza il fatto che il Quirinale abbia poi concesso a Berlusconi ciò che aveva negato a Prodi: il via libera ai continui ricorsi alla fiducia, nonostante l’amplissima maggioranza di cui nel 2008-2010 gode il centrodestra in entrambi i rami del Parlamento (contrariamente all’Unione nel 2006-2008). L’abuso della fiducia parlamentare, come vedremo, proseguirà nel silenzio-assenso del Quirinale anche sotto i governissimi di Monti e di Letta jr.

Intanto, nell’estate del 2007, è esploso il caso del generale Roberto Speciale, dal 2003 comandante generale della Guardia di finanza, nominato dal governo Berlusconi. Nel luglio del 2006 il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco, gli ordina di avvicendare quattro ufficiali del corpo, praticamente l’intera catena di comando a Milano. Ma lui rifiuta. Il centrodestra lo spalleggia e insinua che Visco voglia trasferire i quattro finanzieri perché stanno indagando anche sullo scandalo Unipol-Bnl. In ogni caso la Guardia di finanza è alle dipendenze del ministero dell’Economia, dunque l’alto ufficiale si rende responsabile di una grave insubordinazione dinanzi all’autorità politica. Siccome Speciale è stato pure coinvolto nello scandalo delle “spigole d’oro” a spese dei contribuenti (se le faceva recapitare con voli militari per le sue vacanze in altura), il governo gli chiede di dimettersi, in cambio della promozione a giudice della Corte dei conti. Ma lui rifiuta.

A quel punto il ministro Padoa-Schioppa, dopo aver illustrato al Parlamento le ragioni che fanno ritenere Speciale un ufficiale infedele, lo destituisce. Il generale però – con tanti saluti al dovere militare dell’obbedienza – si ribella, fa ricorso al Tar, mobilita le truppe del centrodestra, querela Padoa-Schioppa, lancia oscuri messaggi al presunto “nemico”. E, quando il Tar del Lazio il 15 dicembre lo reintegra, scrive una lettera di dimissioni (da un incarico che non ha più), continuando a rivendicare un’assurda autonomia dal governo. Poi ordina – senza averne alcun titolo – al capo di Stato maggiore della Guardia di finanza di diffondere la sua missiva a tutto il corpo delle Fiamme gialle. Insomma si sente al di sopra di tutto e di tutti. Per Padoa-Schioppa, le sue sono mosse da golpista. Ma Napolitano, anziché respingere l’irricevibile lettera al mittente, la accoglie ed elogia addirittura Speciale per il suo presunto “spirito di servizio verso le istituzioni”. Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica, critica duramente il comportamento remissivo del presidente (…).

Un generale molto Speciale e le interferenze del Colle. Tutta l’ambiguità del Quirinale sul caso Speciale si palesa nella riunione del Consiglio dei ministri del 19 dicembre, convocata per varare il decreto che accetta le dimissioni di Speciale e nomina il suo successore, il generale Cosimo D’Arrigo. Una riunione drammatica, condizionata dalle solite ingerenze di Napolitano. Si confrontano due tesi: “Accettare le dimissioni e dunque riconoscere che Speciale è ancora in carica, oppure prendere soltanto atto che vuole andarsene, e quindi negare che sia in carica?”.

Il ministro dell’Economia è per la seconda tesi. Ma il Quirinale, ancora una volta, si intromette e preme per la prima soluzione, per non scontentare Berlusconi. Alla fine, con la minaccia di non firmare il decreto, Napolitano la spunta. E così il provvedimento del governo diventa palesemente contraddittorio, al limite del ridicolo: premette che Speciale rinuncia “a essere reintegrato”, dunque non è più in carica; ma poi aggiunge che può tranquillamente dimettersi, non si sa da quale carica.

Un mese dopo Mastella e tutta l’Udeur annunciano l’uscita dalla maggioranza. Il 23 gennaio 2008 Prodi e Padoa-Schioppa vogliono “parlamentarizzare” la crisi: cioè affrontare subito a viso aperto il voto sulla fiducia in Senato, per verificare nella sede centrale della democrazia parlamentare se la coalizione che meno di due anni prima ha vinto, sia pure di poco, le elezioni abbia ancora i numeri non solo a Montecitorio (dove la fiducia è scontata), ma anche a Palazzo Madama. Napolitano invece vorrebbe una crisi extraparlamentare, senza voto in aula. Forse – si interroga l’ex ministro – per evitare l’imbarazzo di un governo appoggiato dalla Camera e bocciato dal Senato. O forse perché, senza una sfiducia esplicita di Palazzo Madama, Prodi sarebbe ancora “spendibile” in seguito, per un suo rinvio alle Camere o per un reincarico, che consentano al Colle di evitare le elezioni anticipate con la “nuova maggioranza” che ha in mente.

Padoa-Schioppa però è convinto che il Colle preferisca gestire la crisi nelle segrete stanze, come se il governo rispondesse a lui e ai partiti, non al Parlamento. Che ai suoi occhi conta meno delle segreterie dei partiti. Tant’è che, in un faccia a faccia con Prodi al Quirinale, Napolitano insiste perché si dimetta prima del voto in aula. Il ministro dell’Economia si dice convinto che il Quirinale “orienti anche la stampa” nella stessa direzione. Ma il premier, seppure molto preoccupato all’idea di scontentare il capo dello Stato, non si piega: andrà trasparentemente alla conta in Senato. E il ministro dell’Economia è d’accordo con lui. “Ero convinto – dirà due anni dopo – che si dovesse andare al voto in Senato per una questione di chiarezza e nella speranza che un voto esplicito resuscitasse un briciolo di “disciplina di coalizione” tra le forze della maggioranza. Invece evitare il voto era una prova di ambiguità, ma anche un modo per conservarsi in tasca una prossima ‘chance’ che gli italiani non avrebbero né capito né apprezzato”.

Il capo dello Stato vuole la solita crisi extraparlamentare. A Montecitorio Prodi chiede ai deputati un voto esplicito di fiducia, rivendicando quella che Padoa-Schioppa chiama “una linea di piena ‘parlamentarizzazione’ della crisi”. Poi – è il 24 gennaio – sale al Quirinale, anche perché Napolitano, ma non solo lui, preme perché non vada al voto in Senato. Oppure – come vorrebbe Letta jr. – ci resti soltanto per il dibattito, fino alle dichiarazioni di voto. E a quel punto, se apparirà chiaro che la maggioranza non c’è più, chieda una pausa, rinunci al voto e vada a dimettersi al Colle. Ma il Professore tiene duro: quell’escamotage – ricorda Padoa-Schioppa – “gli appare una fuga, un espediente furbesco che gli italiani non capirebbero”.

Lo chiama anche il segretario del Pd Piero Fassino, per sponsorizzare il “lodo Letta”, che ormai è la linea di tutto il Pd dettata da Napolitano. Il premier potrebbe considerare le dimissioni prima del voto in Senato soltanto se il Quirinale gli offrisse un ruolo nel dopo-crisi, con un reincarico o almeno con la permanenza a Palazzo Chigi fino alle elezioni. Ma né il presidente né il Pd gli prospettano nulla di simile. Tutto questo tramestio, per Padoa-Schioppa, è frutto dell’immaturità democratica (lui parla di “cultura distorta della democrazia”) non solo dell’Italia, ma anche delle alte cariche dello Stato. Napolitano, Marini e Bertinotti non hanno mai assimilato le due regole basilari della democrazia dell’alternanza: la maggioranza governa; la minoranza si oppone con tutte le garanzie. O, meglio, conoscono soltanto la seconda.

Il 30 gennaio Napolitano dà un mandato esplorativo e condizionato a Franco Marini, per mettere insieme una maggioranza provvisoria che riformi la legge elettorale e consenta al governo di assumere le decisioni più urgenti. Un’altra clamorosa forzatura costituzionale, osserva Padoa-Schioppa nel suo diario: non è un vero “incarico”, ma una mossa del presidente per un governo che, prima ancora di nascere, dovrebbe già avere il “consenso su un preciso progetto”. È improbabile – riflette l’ex ministro – che questa astruseria sia la soluzione suggerita dai partiti durante le consultazioni. Più verosimile che l’abbia partorita personalmente il presidente. Padoa-Schioppa la fulmina con un aforisma folgorante: “Un cammello è un cavallo disegnato da un comitato”. E spiega: “A me quella soluzione sembra un cammello, poco coerente con la Costituzione e tale da spianare la strada al risultato che Berlusconi cerca, elezioni al più presto”.

Il motivo è semplice: per fare un governo basta il 50% più uno del Parlamento, mentre per cambiare la legge elettorale occorre una maggioranza più ampia, ma soprattutto diversa da quella necessaria per governare. Un conto è l’amministrazione, un altro le regole del voto che investono una “questione di fatto costituzionale” (anche se regolata da una legge ordinaria) e dunque richiedono un accordo tra i due schieramenti contrapposti alle elezioni e in Parlamento. Perché mai Napolitano mette insieme le due cose, legando il governo alla legge elettorale? Evidentemente, per lui, “governare non è importante”. “In molti paesi – ricorda Padoa-Schioppa – governare è considerato talmente importante che si accetta di farlo, anche per lungo tempo, anche con un governo di minoranza”, com’è avvenuto in Danimarca e come presto accadrà in Belgio. In Italia invece molto meno: “Da noi conta la politics, non la policy”. Insomma, le condizioni poste dal Quirinale a Marini sono “quasi impossibili”, ma soprattutto regalano a Berlusconi il diritto di veto e dunque “il controllo del risultato”. E pazienza se – com’è scontato – l’Italia non sarà più governata per un po’. Un’alternativa per salvare la legislatura ci sarebbe, osserva l’ex ministro : tentare ancora di compattare la maggioranza uscita dalle urne del 2006, dunque senza Berlusconi, che vuole una cosa soltanto: le elezioni. Una maggioranza magari striminzita, ma “certamente antiberlusconiana e inadatta a fare – da sola – una nuova legge elettorale”. Ma Napolitano vuole esattamente il contrario: per lui, appunto, “un cammello è un cavallo disegnato da un comitato”. La metafora racchiude, più efficace e micidiale di qualunque saggio o editoriale, la quintessenza della cultura politica togliattiana e giacobina, cioè ben poco democratica nel senso classico del termine, del presidente Giorgio Napolitano.

Visto poi quello che il presidente sarà capace di fare e di dire per puntellare il terzo governo Berlusconi e soprattutto quelli dei “suoi” Monti e Letta, non c’è dubbio che Prodi non è caduto solo per i numeri risicati al Senato, per le campagne acquisti del Caimano e per i logoramenti del nuovo Pd di Veltroni. Ma anche per il mancato appoggio (per non dire di peggio) del Quirinale. Padoa-Schioppa lo scrive nel suo diario già il 14 febbraio 2008, senza neppure il senno di poi: Napolitano ha un “giudizio negativo” su Prodi. E non solo non l’ha mai aiutato. Ma ha spesso contribuito a “logorarlo” e ad “accelerarne la caduta”.

Da Il Fatto Quotidiano del 5 dicembre 2013
Di Marco Travaglio | 5 dicembre 2013

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/05/quirinale-cosi-napolitano-ha-sabotato-il-governo-prodi/801838/
7648  Forum Pubblico / IL FORUMULIVISTA ARLECCHINO C'E' DAL 1995. Ma L'ULIVO OGGI E' SELVATICO OPPURE NON E'. / Jeremy RIFKIN: "La sharing economy è la terza rivoluzione industriale" inserito:: Settembre 19, 2015, 08:51:28 pm
Jeremy Rifkin: "La sharing economy è la terza rivoluzione industriale"
Secondo l'economista americano l'affermazione dell’economia di scambio è un evento di portata storica. E sostituirà i due sistemi nati nel Diciannovesimo secolo, cioè capitalismo e socialismo

Di Antonio Carlucci
17 agosto 2015

La sharing economy è la terza rivoluzione industriale. Parola di Jeremy Rifkin, economista visionario il cui percorso intellettuale è cominciato negli anni Novanta dello scorso secolo con un saggio che teorizzava la fine del lavoro come si era affermato dal Diciannovesimo Secolo, per arrivare oggi a scandire le basi teoriche esposte nel suo ultimo lavoro, “ La società a costo marginale zero ” (Mondadori). Secondo Rifkin la sharing economy è figlia naturale del capitalismo come lo vediamo funzionare ancora oggi tutti i giorni e questo sistema dovrà per forza di cose trovare un modo di coabitare con l’economia dello scambio dove non conta più il possesso dei beni e dei servizi ma la possibilità di scambiarne l’uso e alla fine esisterà un ibrido in cui le due forme saranno costrette a convivere e ad avere relazioni stabili.

In questo colloquio con “l’Espresso”, Rifkin racconta l’affermarsi dell’economia dello scambio in tutto il pianeta e le ragioni che ne stanno alla base. Spiega come e perché i governi mondiali inseguono a fatica questo fenomeno non essendo in grado di condizionarne lo sviluppo. E disegna i possibili scenari del futuro prossimo venturo.

Jeremy Rifkin, La sharing economy è un fenomeno mondiale o il suo sviluppo è ancora limitato all’ occidente?
«È universale, come si può leggere in uno studio condotto dalla Nielsen in oltre 40 nazioni dove sono state fatte ricerche attraverso centinaia di interviste sulla propensione a scambiarsi la casa piuttosto che la macchina rispetto al desiderio di possedere questi beni. Oggi, la sharing economy è un fenomeno affermato negli Stati Uniti e in Europa, ma la grande sorpresa che viene dallo studio Nielsen è l’entusiasmo che si coglie nei paesi dell’Asia e del Pacifico. Al primo posto con il 93 per cento di approccio favorevole verso l’economia dello scambio è la Cina».

Come lo spiega?
«Quello che pensavamo solo poco tempo fa, ovvero che i cinesi fossero più interessati a seguire il modello tradizionale della rivoluzione industriale del Ventesimo secolo che pone al centro delle relazioni umane l’acquisto e la vendita di beni all’interno di un mercato capitalista tradizionale, si è rivelato non del tutto esatto. Non intendono certo abbandonare quel modello ma lo scenario della sharing economy suscita grandissimo interesse. Credo che la ragione sia nel DNA culturale degli asiatici che li vede predisposti, anche per ragioni religiose legate al confucianesimo e al buddhismo, all’economia dello scambio. Loro sono molto meno individualisti degli occidentali e più propensi a legarsi ai valori collettivi che si creano all’interno delle loro comunità».

Che tipo di relazione esiste oggi tra la nascente sharing economy e il sistema capitalistico tradizionale che mette al centro la produzione e il possesso dei beni?
«Il capitalismo è il padre naturale dell’economia dello scambio, la quale è in fase di sviluppo e di crescita, ma è ancora giovane e immatura. Ma è assolutamente chiaro che l’economia dello scambio, oltre ad essere un evento storico di enorme portata, è il primo nuovo sistema economico in crescita in tutto il mondo che viene dopo i due sistemi che abbiamo visto prendere forma nel Diciannovesimo secolo, il capitalismo e il socialismo. Adesso assisteremo all’emergere di un sistema ibrido nel quale dovranno convivere l’economia capitalista fondata sul mercato e la sharing economy e che possiamo considerare la Terza Rivoluzione Industriale. E il capitalismo dovrà consentire alla neonata economia dello scambio di crescere e di trovare la sua identità in questo mondo. Ma come accade in ogni famiglia, in ogni relazione padre-figlio, quest’ultimo riuscirà a cambiare il genitore e questo vuol dire che il capitalismo come lo conosciamo oggi dovrà necessariamente modificarsi per convivere con la sharing economy e non sarà più l’arbitro esclusivo della vita economica di milioni di persone, perché dovrà dividere con il figlio il palcoscenico del mondo. Infine, man mano che le nuove tecnologie, internet, le piattaforme digitali si svilupperanno e consentiranno all’economia di scambio di ridurre quasi a zero i costi marginali, l’economia dello scambio crescerà sempre di più ed avrà un rapporto paritario con il suo padre naturale».

Così è stato sufficiente un sistema che riducesse quasi a zero i costi marginali per dare il via a un cambiamento che rischia di mettere in crisi il capitalismo?
«Esatto. Prenda per esempio Airbnb, la società che mette in contatto milioni di persone per lo scambio di una casa o la ricerca di una stanza. Per loro aggiungere un appartamento o un nuovo utente che vuole condividere la sua casa ha un costo marginale vicino allo zero. Per una grande società alberghiera aggiungere una stanza significa mettere in conto costi di acquisto del terreno, di costruzione di un nuovo albergo, di tasse sulla proprietà, di ulteriori spese di manutenzione. Lo stesso vale per la condivisione di una automobile, di una barca, perfino di un servizio. La rivoluzione sta tutta qui. E se a questo si aggiungono le piattaforme digitali e lo sviluppo che ci sarà, l’accesso all’economia di scambio sarà sempre più facile e alla portata di più persone».

I governi e le leadership di Stati Uniti, Europa ed Asia sono spettatori passivi dell’affermarsi della sharing economy o sono protagonisti di questo cambiamento?
«Il fenomeno si muove e si afferma a una velocità così grande che i governi sono molto indietro nel dibattito sul modo di interagire con l’economia dello scambio. Ci sono questioni che attengono alle regole che devono esserci quando si vuole scambiare una automobile o una casa. Quali debbano essere le linee guida generali di questo nuovo mondo è tutto da discutere e i governi non sono in prima fila, ma inseguono con fatica i cambiamenti. Del resto la prima rivoluzione industriale portò a un grande scontro politico, fece nascere nuove entità come la sovranità nazionale o i mercati nazionali e tutto questo avvenne a piccoli passi. Adesso si sta affermando una nuova categoria che sostituisce i consumatori classici che comprano e vendono beni e servizi. Sono coloro che cedono o usano per un limitato periodo di tempo beni e servizi senza possederli - case, automobili, musica, video, notizie - e così facendo saltano il mercato come lo conosciamo e le sue regole. È ovvio che ce ne vogliono di nuove, ma sarà molto difficile pensarle a tavolino con il rischio di difendere soltanto la status quo, senza considerare come il fenomeno crescerà e si svilupperà».

Se l’affermarsi dell’economia dello scambio porta con sé la riduzione dei costi marginali fin quasi a zero, dovremo affrontare di conseguenza una diminuzione della produzione mondiale e del prodotto interno lordo dei rispettivi Paesi. Non c’è il rischio che il mondo smetta di crescere e si apra una strada che non sappiamo dove ci porterà?
«È chiaro che il Pil mondiale cambierà e ci sarà un drammatico impatto sull’occupazione. Però, quando diciamo che i costi marginali tendono allo zero, questo non significa che saranno uguali a zero, ma che saranno molto molto bassi. Il Pil mondiale è in ogni caso in decrescita e le ragioni sono molte e non legate alla nascita della sharing economy: c’è l’uno per cento del mondo in conflitto con il restante 99 per cento, ci sono modifiche strutturali dell’economia, la produttività è in discesa ovunque, la piattaforma della Seconda Rivoluzione Industriale si sta esaurendo mentre si afferma un nuovo mondo al centro del quale ci sono le piattaforme digitali - e questa la possiamo considerare la Terza Rivoluzione Industriale - dove uomini e donne producono e consumano tra di loro a un costo marginale vicino allo zero, dove non conta il prodotto interno lordo, ma dove aumenta il benessere economico, la qualità della vita, la democratizzazione del sistema economico in generale perché gli sforzi saranno concentrati, e così la nuova occupazione, per rendere accessibili a tutti le piattaforme della sharing economy, l’automazione, le grandi reti del traffico digitale e delle energie alternative».

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17 agosto 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/08/17/news/jeremy-rifkin-finalmente-c-e-una-terza-via-1.225297
7649  Forum Pubblico / IL FORUMULIVISTA ARLECCHINO C'E' DAL 1995. Ma L'ULIVO OGGI E' SELVATICO OPPURE NON E'. / ARLECCHINO C'E'... e non è rassegnato. inserito:: Settembre 19, 2015, 12:48:16 pm
Castigat ridendo mores.

Ridendo corregge i costumi.

Motto dettato dal letterato francese Jean de Santeul per il busto di Arlecchino che ornava il proscenio della Comédie Italienne a Parigi.
La risata, o meglio il riso sorvegliato dall'autoironia, è la migliore medicina per i nostri difetti, per placare le smanie dell'intolleranza, per liberarci dalle ideologie maldigerite.

Detto latino.

ciaoooo
7650  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / Giangiacomo Schiavi. Emilia, quella terra affascinante e fragile che non ... inserito:: Settembre 19, 2015, 11:20:29 am
I luoghi dell’alluvione
Emilia, quella terra affascinante e fragile che non sappiamo difendere

Di Giangiacomo Schiavi

È un mondo sommerso da fango e detriti, un mondo devastato da una pioggia che in due ore diventa una bomba e gonfia i fiumi e i torrenti, un mondo che si volta indietro senza trovare qualcosa di simile e improvviso nella storia recente, quella che si può ancora raccontare. Un mondo che si sente tradito, dal clima ormai impazzito e dalle poche risposte al dissesto incombente, denunciato ogni anno con lettere in fotocopia: scarsa manutenzione, alvei inadeguati e privi di aree golenali e di espansione, ponti malmessi, argini innaturalmente ristretti per far spazio a rischiose costruzioni.

Era facile scrivere di Valnure e Valtrebbia qualche giorno fa, di paesaggi e cucina, di rocche e castelli, di torrenti con le trote e di boschi con i funghi, di coppe, Gutturnio e squisiti anolini, di Hemingway che dopo un’escursione ne fa una leggenda, del poeta Caproni che ci passa gli ultimi anni in una casa fatta di sassi e scrive: «Viviamo di poco/ Al fuoco/ Lasciateci qua. Contenti».

Oggi si piange, si spala, si chiede aiuto, si cerca di uscire da quella che non è più solo emergenza, è un disastro, è il rischio quotidiano che incombe su interi paesi di collina e di pianura a causa della fragilità di un territorio che dovremmo proteggere e tutelare di più. Perché non c’è solo l’imprevedibile ondata torrenziale provocata da una pioggia inaudita, che travolge quel che trova come una gamba infilata in un calzone troppo stretto, dice un geologo locale: c’è la difficoltà, in questo nostro Paese, di creare un servizio di previsione del rischio idrogeologico, con autonomia operativa e certezza di risorse, in grado di rafforzare le difese e la sicurezza di cittadini, famiglie, imprese.

È allagata Bettola, il Nure ha rotto gli argini a Ferriere e Farini d’Olmo, ha mangiato pezzi di strada e si è portato via delle vite: erano in auto di prima mattina, un padre, il figlio, la guardia giurata. Sono stati presi dalla corrente, senza nessuna possibilità di scampo. Il giorno prima c’era una fiera a Bettola, è sempre così da queste parti d’estate: la gente s’inventa con il turismo strategie anticrisi.

E la valle che si incunea verso l’Aveto? Di solito è un percorso d’avventura, strapiombi, speroni di roccia che incantano i motociclisti: adesso è bloccata dalle frane che qui sono un’abitudine, ma con la tanta pioggia caduta si rischia un lungo stop. Correva qui l’antica via del sale che porta a Genova, quasi in parallelo con la Statale 45, percorsa da viandanti e venditori, itinerario di suggestiva intensità per monaci e religiosi. È il versante di Bobbio, Marsaglia, Ottone, i luoghi santi di Colombano, il monaco irlandese che nel 615 si fermò qui a incivilire il territorio con il vangelo di Cristo, lottando secondo una leggenda col diavolo sul ponte del Trebbia, che per questo diventò gobbo: anni fa una piena ha portato via un’arcata, ieri mattina per fortuna ha retto.

È venuto giù invece un altro ponte, quello di Barberino, luogo splendido per i bagni e per la pesca e simbolico per il regista Marco Bellocchio: erano girate qui certe scene dei «Pugni in tasca», il film capolavoro di cinquant’anni fa, con Lou Castel che getta nel Trebbia, un poco più avanti, la madre oppressiva. Da anni il sindaco di Bobbio recapitava lettere su lettere al Genio civile chiedendone la messa in sicurezza: ha risolto tutto la piena, prima di un improbabile intervento.

È un’acqua brutta quella venuta giù domenica notte. Ha allargato il bacino del Trebbia fino a farlo espandere in pianura, nello slargo dove si erano fermati gli elefanti di Annibale, tra Rivalta e Rivergaro, prima di affrontare e sconfiggere le legioni romane di Scipione. E l’idea della devastazione provocata dall’acqua è proprio quella di una guerra, di un assedio improvviso, senza potersi difendere. D’altra parte qui era un’abitudine dar battaglia, tra nobili litigiosi e belligeranti come i Malaspina, gli Scotti, i Nicelli, i Landi, gli Anguissola e i dal Verme: dominavano le vallate dai loro fortilizi, hanno scavato ovunque strade e stradine che attraversano la collina per poter fuggire e potersi difendere.

Sarà difficile fare un bilancio, ma sarà facile fare una previsione: ce la metteranno tutta i cittadini della Valnure, della Valtrebbia e del basso Piacentino per riparare i danni, per tamponare le ferite, per riallacciare luce e gas, riaprire scuole e attività economiche. La spinta solidale di un esercito di giovani e quello della Protezione civile stanno già facendo miracoli. Ma ancora una volta, quel che è accaduto, quel che è successo in queste vallate, impone uno scatto della politica: o si fa di tutto per mettere in sicurezza i territori oppure ricominceremo, la prossima volta, ad elencare quel che si doveva fare e non si è fatto. I divieti pagano, ha detto un giorno il direttore del parco del Ticino: la conservazione del territorio deve impedire di costruire dove non si deve costruire e spingere a pulire dove si deve pulire. I vantaggi della tutela vanno tutti sul Pil. I danni no. E quando ci sono di mezzo anche le vite umane, il prezzo è sempre esagerato.

gschiavi@rcs.it
15 settembre 2015 (modifica il 15 settembre 2015 | 08:16)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_settembre_15/emilia-alluvione-terra-fragile-04eafbb8-5b6f-11e5-8007-cd149b0f5512.shtml
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