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7591  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / CLAUDIO TITO. Renzi: "Voglio un Pd unito. Nel 2017 possibile tagliare l'Ires" inserito:: Ottobre 05, 2015, 06:15:02 pm

Renzi: "Voglio un Pd unito. Nel 2017 possibile tagliare l'Ires"
Dalla Siria alla manovra il premier traccia la sua road map e boccia Prodi: "Non basta aiutare Assad per sconfiggere l'Is"

di CLAUDIO TITO

03 ottobre 2015

ROMA -  E' giusto che sulle riforme ci sia una maggioranza più ampia di quella di governo. E Denis Verdini "non è il mostro Lochness". "Io voglio il Pd unito" ma tra i dem "c'è ancora qualcuno che non ha elaborato il lutto della sconfitta al congresso". Matteo Renzi fa un primo bilancio di questo autunno. E annuncia nuove misure nella legge di Stabilità.

Romano Prodi su Repubblica ha chiesto di aiutare l'esercito del leader siriano Assad per sconfiggere lo stato islamico. E' d'accordo?
"Dubito delle ricette scodellate in modo semplicistico: non sarà semplicemente aiutando Assad che bloccheremo Is. Né considerandolo l'unico problema come fanno in modo altrettanto banale altri".

Si sta votando al Senato la riforma costituzionale. L'iter si è velocizzato dopo l'accordo con la minoranza del suo partito. Perché ha perso così tanto tempo?
"A dire il vero è il contrario. Abbiamo assistito a un prolungato confronto, ma quando siamo entrati nel merito della discussione non ci sono stati problemi: per noi era importante mantenere il principio che non si toccava la doppia conforme ricominciando daccapo".

Il Pd unito però ha dimostrato il driver della politica italiana.
"Io voglio il PD unito, sempre. E lavoro per questo".

Veramente è sembrato soprattutto che ci fosse una gara a non legittimarsi reciprocamente.
"Nel PD c'è ancora qualcuno che forse non ha ancora elaborato a pieno il lutto del congresso. Siamo quasi a metà della mia segreteria: tra breve chiunque potrà metterla in discussione e vincere il congresso".

Ma ha mai temuto che volessero fare cadere il suo governo?
"Mai. Non condivido alcune loro idee ma non dubito della loro lealtà".

Proprio per questo non è un problema avere i voti di Verdini?
"Verdini ormai è diventato il paravento per qualsiasi paura. Tutti lo evocano anche vedendolo dove non c'è: ormai è raffigurato come una sorta di mostro di Lochness nostrano".

Il mostro di Lochness, però, lo è almeno chi nell'aula del Senato insulta gli avversari con gesti volgarissimi.
"Ogni gesto volgare, in modo particolare verso le donne, va censurato senza se e senza ma".

E' vero che esiste un'intesa per cambiare l'Italicum?
"Mi sembra assurdo e fuori tempo aprire un dibattito quattro mesi dopo l'approvazione".

Ripeterebbe i giudizi dati sui talk?
"Altolà. Per me parlano i fatti. Non ho mai messo il naso, mai, nelle vicende interne della Rai".

Non sarebbe meglio stare lontano dai giudizi sui prodotti giornalistici?
"Ho detto e lo ripeto oggi domani e dopo domani che i talk show rischiano di diventare un pollaio senz'anima. È una critica che faccio innanzitutto alla politica, un'autocritica. Non è peraltro neanche un mio problema, forse di chi sul vostro giornale dice che io ho sguinzagliato i cani, insultando i parlamentari. Aggiungo: Siamo talmente ostili verso la Rai che martedì Andrea Guerra ha fatto un'intervista a Massimo Giannini, io sono stato intervistato da Bianca Berlinguer e domani andrò in diretta dalla Annunziata".

Tra pochi giorni il governo presenterà la Legge di Stabilità. Lei pensa davvero che l'Italia sia uscita dalla recessione? I segnali sono contrastanti.
"Questo lo dice lei. I segnali sono univoci. L'Italia è ripartita. Ma non lo dico io, lo dicono i numeri dell'Istat, del Fmi, dell'Inps. Tutto questo è frutto delle riforme".

Nel suo partito c'è chi contesta l'abolizione della Tasi per tutti.
"Toglierla sulla prima casa per tutti e per sempre è un fatto di giustizia sociale in un Paese in cui il 75% dei possessori di prima casa è un lavoratore dipendente".

Taglierete anche l'Ires?
"Nel 2017 senz'altro. Nel 2016 qualche altra sorpresa ci sarà e sarà positiva".

Però taglierete la Sanità.
"Falso. Sulla sanità l'aumento di fondi è costante".

Riuscirete

ad approvare entro il 2015 le Unioni civili?
"Dipende da quando finiremo queste riforme. Ma non molliamo. E' un impegno di civiltà".

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA E REPUBBLICA+
 

da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/03/news/matteo_renzi_dalla_siria_alla_manovra_il_premier_traccia_la_sua_road_map_e_boccia_prodi_si_pensa_solo_all_effetto_mediatic-124202215/?ref=HRER3-1
7592  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Paolo Valentino. inserito:: Settembre 30, 2015, 05:08:02 pm
Il vertice di New York
La «transizione gestita» avvicina Putin e Obama
Sull’Isis il leader russo ha proposto una «coalizione simile a quella contro Hitler». Sul siriano Assad si è mostrato rigidamente fedele al vecchio alleato. Eppure da due parole del presidente Usa potrebbe ripartire un dialogo vero

Di Paolo Valentino

Dalla tribuna del Palazzo di Vetro, senza pronunciare neanche una sola volta il nome degli Stati Uniti o del suo presidente Barack Obama, Vladimir Putin ha tenuto fede alla mistica del personaggio. Il leader del Cremlino ha espresso l’insoddisfazione della Russia per l’attuale stato del mondo.

Ha criticato «coloro che pensano di essere così forti e di sapere meglio di chiunque altro cosa fare, da non aver bisogno di prestare alcuna attenzione alle Nazioni Unite». E ha perfino suggerito, con una sorta di maliziosa autocritica, che Washington stia ripetendo gli stessi errori commessi dall’Unione Sovietica, cercando di imporre il proprio modello di sviluppo ad altri Paesi, senza tener conto delle loro specificità e tradizioni. Putin ha in sostanza attribuito la principale responsabilità per la nascita dell’Isis agli Usa, descritti come una nefasta combinazione tra burattinai e apprendisti stregoni.

Fin qui nulla di nuovo, inclusa l’ennesima riproposizione della narrativa putiniana sulla crisi in Ucraina, vista come «un colpo di Stato imposto dall’esterno, che ha condotto alla guerra civile», con buona pace dell’annessione manu militari della Crimea e dell’intervento mascherato russo nei territori del Donbass.

Eppure, tenuto conto degli standard ai quali Putin ci aveva abituati dal celebre discorso di Monaco nel 2007 in poi, quello di ieri alle Nazioni Unite è stato un intervento moderato. Dove, confermando le attese, il messaggio principale lanciato dal presidente russo è stato sulla Siria e sulla lotta al terrorismo islamico.

Contro l’Isis, Putin ha invocato una «coalizione internazionale simile a quella contro Hitler».

Sulla Siria, il suo tono si è fatto duro, in apparenza per nulla incline al compromesso.

Ma su questo ha probabilmente pesato sia l’essere intervenuto dopo Barack Obama, sia la preoccupazione di non voler apparire disposto a concessioni, poco prima di incontrare ieri nel tardo pomeriggio il presidente americano: nessun accenno infatti a un’eventuale transizione a Damasco, anzi l’ammonimento che sarebbe un «grave errore» rifiutarsi di cooperare con Assad, le cui forze «sono le uniche insieme alle milizie curde a combattere valorosamente l’Isis».

Putin ha certo avuto gioco facile, quando ha rimproverato l’Occidente di aver armato i cosiddetti ribelli moderati in Siria, solo per vederli poi consegnarsi armi e bagagli ai terroristi del Califfato. Il punto è ora di vedere se dietro la retorica per quanto controllata di Vladimir Vladimirovich ci sia spazio per trovare un terreno comune con Washington. E questo ha caricato di attese il vertice con Obama.

Il presidente americano nel suo discorso ha detto chiaramente che una «transizione gestita» in Siria può darsi soltanto con l’uscita di scena di Assad, rifiutando la logica secondo cui bisogna appoggiare i tiranni, poiché l’alternativa è sicuramente peggiore. Putin ha detto l’opposto: Bashar non è il problema, ma la soluzione.

Nelle parole «transizione gestita» sta forse la soluzione dell’arcano: la frase di Obama è l’ultimo segnale che, ferma restando l’ostilità di fondo verso Assad, Washington potrebbe essere disposta ad accettare che rimanga al suo posto ancora per qualche tempo. Almeno fin quando l’azione concertata della costruenda coalizione internazionale avrà rovesciato la situazione sul campo a sfavore dell’Isis. È un’ipotesi che Putin può prendere in considerazione. Per il leader del Cremlino è tanto una questione psicologica quanto politica: c’è il senso di lealtà verso un alleato storico.

Ma c’è soprattutto la paura del vuoto di potere, l’orrore del caos, lo scenario libico che un’uscita affrettata di Assad rischierebbe di precipitare. Una instabilità totale, che Vladimir Putin teme di ritrovarsi all’improvviso dentro i confini della sua Santa Russia.

29 settembre 2015 (modifica il 29 settembre 2015 | 08:52)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_29/transizione-gestita-avvicina-putin-obama-496d2204-6671-11e5-ba5a-ab3e662cdc07.shtml
7593  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / Grasso: Irricevibili 72 milioni di emendamenti. (Si voleva bloccare l'Italia)... inserito:: Settembre 30, 2015, 04:54:18 pm
Riforme, Grasso: “Irricevibili 72 milioni di emendamenti”.
Opposizioni: “Regime”. E rinunciano alla discussione: si va al voto
Il presidente del Senato ha annunciato che le richieste di modifica presentate in Aula al ddl Boschi saranno tagliate perché servirebbe "un tempo incalcolabile" per valutarle.
Ne restano 383mila e 500.
Seduta fiume si trasforma in seduta lampo dopo la rinuncia dei senatori di illustrare le singole proposte.
Calderoli: "E' il regolamento del Marchese del Grillo"

Di F. Q. | 29 settembre 2015

Avrebbe dovuto essere una seduta fiume di 10 ore con le barricate per impedire di arrivare al voto sul ddl Boschi, si è trasformata in una seduta lampo durata a malapena mezza giornata. A cambiare il copione di Palazzo Madama è stata la decisione del presidente Pietro Grasso: “Dichiaro irricevibili 72 milioni di emendamenti per il numero abnorme: dovrei passare 17 anni solo a leggere i testi”. Da lì la protesta delle opposizioni (in fila M5S: “Precedente”; Lega: “Si vergogni”, Fi: “Regime”) e la decisione di rinunciare all’illustrazione delle richieste di modifica. Morale: fine della discussione e tutto riaggiornato a mercoledì 30 settembre quando si partirà con il voto. Lo scontro è solo rimandato: restano infatti 383mila e 500 emendamenti e prima di analizzare ogni articolo Grasso annuncerà quali sono ammissibili e quali no. Il nodo più delicato è sull’articolo 2 e sulla composizione del futuro Palazzo Madama: le opposizioni chiedono che si voti per prevedere l’elettività, mentre il governo da giorni dice che sarebbe una “scelta inedita”.

Intanto la prima decisione di Grasso è stata quella di non accettare i 72 milioni di emendamenti presentati in Aula e quindi di bloccare il tentativo pià consistente di ostruzionismo: “Considero”, ha spiegato, “non inammissibili (l’inammissibilità è infatti riferita al merito) ma irricevibili gli stessi emendamenti fermi restando invece quelli già ricevuti dalla presidenza della commissione Affari costituzionali e ripresentati in assemblea, al netto di quelli ritirati. La decisione si è resa necessaria per rispettare i tempi stabiliti dal calendario dei lavori. La presidenza è oggettivamente impossibilitata a vagliarli, se non al prezzo di un precedente capace di bloccare i lavori per un tempo incalcolabile”. A rispondere è stato l’autore della gran parte delle proposte di modifica Roberto Calderoli: “Da quest’oggi è vigente il regolamento del Marchese del Grillo: ‘Io sono io e voi non siete un c…'”. Anche per il segretario del Carroccio Matteo Salvini “Grasso si dovrebbe vergognare”, anche se ha precisato che non avrebbe fatto come Calderoli.

Dopo l’annuncio ha preso la parola Vito Crimi che si è dichiarato “allarmato” per la decisione, che creerebbe un “precedente”. Secondo il senatore pentastellato in futuro, su altre leggi, potrebbero essere fissati tempi di voto molto più brevi, e dichiarare irricevibili “anche solo 100 emendamenti”. “Vi invito a riflettere”, ha risposto Grasso. “Io ho parlato dell’abnormità del numero degli emendamenti. M5S ne ha presentati 117. Tra 117 e 85 milioni di emendamenti c’è quel ‘range’ che costituisce l’abnormità. E’ stato calcolato che ci vorrebbero 17 anni per esaminarli. L’abnormità non è soggettiva ma oggettiva”. Polemiche anche dai banchi di Forza Italia: “Sbaglia chi teme un futuro regime, il regime c’è già: con il governo che asfalta le regole e che con una risata seppellisce gli emendamenti”, ha detto il senatore di Fi Lucio Malan. Soddisfatto invece il capogruppo Pd a Palazzo Madama Luigi Zanda: “Condivido la decisione. La presentazione di tanti emendamenti è un attentato al funzionamento del Senato, esiste un principio di economia e ragionevolezza dei lavori di Aula”.

I documentaristi di Palazzo Madama hanno dovuto fare un vero e proprio tour de force per catalogare l’”abnorme” numero di emendamenti. “Informo”, ha detto Grasso, “che alla stessa stregua con la quale i 500mila emendamenti presentati in formato elettronico in commissione Affari costituzionali sono stati numerati e ordinati, gli uffici hanno completato il lavoro istruttorio riferito anche ai 72 milioni di emendamenti presentati in assemblea, al netto di quelli ritirati dai presentatori all’articolo 1 e 2″.

Di F. Q. | 29 settembre 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/29/riforma-senato-grasso-irricevibili-abnorme-numero-emendamenti/2078351/
7594  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Dieselgate, perché Volkswagen potrebbe aver escogitato il «trucco» inserito:: Settembre 30, 2015, 04:50:22 pm
29 settembre 2015

Dieselgate, perché Volkswagen potrebbe aver escogitato il «trucco»
Il NOx, ossido diazoto è un inquinante difficile da trattare, perché richiede tecnologia costosa e porta a un peggioramento dei consumi e il gruppo tedesco ha scelto una via scorretta per le sue Euro 5


Di Adriano Tosi e Mario Cianflone

Dieselgate: fra titoli dei giornali, battute al bar e vignette ironiche sui social network, si legge, ascolta e vede ormai di tutto. Se durante i mondiali di calcio diventiamo tutti c.t., da settimana scorsa siamo tutti esperti di inquinamento automobilistico. Ma cosa potrebbe aver portato la Volkswagen a “truccare” le centraline del suo 2.0 TDI EA 189 Euro 5 (l'unico motore diesel coinvolto, fino a prova contraria)? Qual era la difficoltà insormontabile - nel passaggio da Euro 4 a Euro 5, con il conseguente abbassamento della soglia di NOx, ossido di azoto, tollerata - che ha “costretto” un'eccellenza tecnologica come il gruppo Volkswagen al trucco del software?

Il più grosso scoglio, leggendo i numeri, sembrerebbe essere la riduzione del particolato (PM), che da Euro 4 a Euro 5 deve scendere da 0,025 a 0,005: un limite 5 volte inferiore, rispettato però in modo relativamente semplice grazie all'installazione dei filtri anti particolato. Quanto al NOx - sostanza peraltro molto meno pericolosa per l'uomo rispetto al PM - il limite si abbassa da 0,25 a 0,18: in percentuale, si tratta di una riduzione ben minore. In realtà, i NOx sono inquinanti difficili da trattare, particolarmente sui diesel: fino all'Euro 4 bastava il ricircolo dei gas di scarico tramite sistema EGR, ma il passaggio all'Euro 5 ha complicato le cose e, oltre a un EGR perfettamente calibrato e alla massima efficienza, per soddisfare tale standard ci vogliono sofisticati e costosi sistemi di post trattamento dei gas di scarico. Di che genere? Esistono tre tipi di sistemi per abbattere i NOx: sulle auto più leggere è sufficiente il cosiddetto deNOx, ovvero una sorta di spugna che intrappola l'agente inquinante, ma che va ripulita iniettando una quantità superiore di gasolio a valle del deNOx stesso (aumentando i consumi). Sulle vetture più prestazionali e pesanti è invece necessario ricorrere a due sistemi, alternativi fra loro: SCR (Selective Catalytic Reduction) con aggiunta di urea (denominata AdBlue), oppure LNT (Lean NOx trap), la trappola di ossidi di azoto che però va anch'essa ripulita aumentando l'iniezione di carburante, peggiorando, ancora una volta, il consumo.

Volkswagen non ha specificato per quale ragione ha escogitato il trucco della centralina, che conteneva il valore di NOx solo ed esclusivamente durante i cicli di rilevazione dei consumi e delle emissioni. Si può però supporre - ma siamo nel campo delle ipotesi - che per offrire un prodotto più efficiente e prestazionale ai propri clienti abbia deliberatamente deciso di “aggirare” il processo di purificazione dei gas di scarico, trovando la classica scorciatoia in un software che permetteva peraltro di risparmiare sui costi - molto alti - della tecnologia di purificazione. Paradossalmente, l'entrata in vigore della normativa Euro 6 (dal 1° settembre 2014 per le nuove omologazioni e dal 1° settembre 2015 per le nuove immatricolazioni), che è molto più severa sui NOx per i diesel (da 0,18 dell'Euro 5 a 0,08), ha costretto tutte le Case a prendere provvedimenti radicali: ecco perché, fino a prova contraria, le Euro 6 by Volkswagen sono perfettamente a norma.



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Da - http://www.motori24.ilsole24ore.com/Industria-Protagonisti/2015/09/Dieselgate-analisi.php
7595  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MASSIMO FRANCO La sciatica profetica di Bergoglio Il Papa che l’Impero non ... inserito:: Settembre 28, 2015, 07:56:07 pm
IL RETROSCENA - I GIORNI DEL CONCLAVE

La sciatica profetica di Bergoglio Il Papa che l’Impero non voleva
Un estratto di «Imperi paralleli. Vaticano e Stati Uniti: due secoli di alleanza e conflitto», il libro di Massimo Franco in edicola da venerdì 25 settembre con Il Corriere della Sera

Di Massimo Franco

Mentre si apriva il Conclave del 2013, riaffiorò un rumore di fondo dal passato: «Washington non vuole un Papa sudamericano». Thomas Reese, californiano, nel 2005 direttore del settimanale dei gesuiti Usa, «America», l’aveva detto nei giorni che avevano preceduto l’elezione di Benedetto XVI. Ma ora quella diffidenza verso un pontefice potenzialmente anticapitalista, quasi «no global» e «terzomondista», e con una presunta vena antiyankee, riemergeva: anche se alla Casa Bianca c’era il democratico Obama, non più il repubblicano Bush. I leader degli Stati Uniti non potevano sapere che appena due anni dopo l’ascesa di Joseph Ratzinger, la candidatura di Jorge Mario Bergoglio, spuntata e accantonata appunto nel 2005, stava prendendo forma casualmente attraverso una singolare profezia. Era successo nell’autunno del 2007. Il professor Valter Santilli, fisiatra dell’università La Sapienza di Roma, un’autorità nel campo della riabilitazione, fu chiamato a visitare un cardinale argentino sofferente di lombo-sciatalgia: proprio Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, a Roma per un Sinodo in Vaticano.

«Durante la visita, che mise in luce i tratti di cordialità e simpatia, nonché di semplicità del cardinale, mi venne in mente non so come», ricorda Santilli, «di esprimermi nella seguente maniera: “Eminenza, lo sa che la sciatica è una malattia profetica?”. “Perché?” rispose il cardinale. E io: “Perché nel Libro della Genesi dell’Antico Testamento al capitolo 32, dove si racconta l’episodio della lotta di Giacobbe con l’Angelo, quest’ultimo lo toccò sul nervo sciatico e sull’articolazione dell’anca”. E Bergoglio: “E allora?”. “Eminenza”, replicai, “in quella notte dopo la sciatica il Signore cambiò il nome a Giacobbe in Israele. Vedrà, dopo la sua sciatica il Signore cambierà il nome anche a Lei», scolpì col suo marcato accento romanesco e un sorriso malandrino. Bergoglio lo guardò perplesso, abbozzando un sorriso ma senza aggiungere nulla. Poi si misero a parlare di un convegno su «Scienza, Arte e Spiritualità» che il fisiatra avrebbe voluto organizzare alla Sapienza. Bergoglio gli propose subito di farlo alla Universidad Catolica Argentina di Buenos Aires. E così fu, nel settembre del 2008.

Il cardinale continuò a farsi curare da Santilli tra la fine del 2007 e l’inizio dell’anno successivo. Poi si persero di vista. Fino al 31 maggio del 2013. Quel giorno, ricorda il fisiatra con la voce ancora emozionata, «squilla il mio cellulare e l’interlocutore così si presenta: “Pronto è il professor Santilli?”. “Sì, chi è?” “Una volta il mio nome era Jorge Mario Bergoglio, poi il Signore mi ha cambiato il nome, ora mi chiamano papa Francesco…”». Si sono visti ancora, dopo. Hanno anche un amico in comune: un ragazzino romano, Leonardo Scarano, che regala al Papa disegni e incoraggiamenti, e considera Santilli «un grande». Condividono anche la conoscenza di Alessandro Spiezia, l’ottico romano con negozio in via del Babuino dove Francesco è apparso a sorpresa il 4 settembre del 2015 per farsi cambiare la montatura degli occhiali. Miracoli dello Spirito Santo e della sciatica profetica, che in realtà di tanto in tanto continua a perseguitare il pontefice: anche perché Francesco è ingrassato di quasi quattordici chili in due anni e mezzo di «dieta» di Casa Santa Marta (solo negli ultimi mesi è riuscito a calare un po’).

Non c’era, tuttavia, solo quello strano episodio come indizio del suo futuro papale. In una delle ultime visite pastorali a una parrocchia di Buenos Aires, Bergoglio era stato avvicinato da una signora che gli aveva detto: «Eminenza, lei adesso va a Roma per il Conclave. Si porti dietro un cane. E gli faccia assaggiare tutto quello che le danno da mangiare prima di toccare lei la comida, il cibo». In più, il 25 febbraio uscì sull’agenzia del Consiglio episcopale latinoamericano, Noticelam, l’articolo di una giornalista argentina, Virginia Bonard, che raccontava il finale di un’intervista a Guzmán Carriquiry, allora segretario della Pontificia commissione per l’America Latina. «Mentre entravano nella sua stanza le telecamere di Rome Reports», scriveva la giornalista, «Carriquiry mi disse senza un’ombra di dubbio: “Non si dimentichi, Virginia: il prossimo Papa sarà Bergoglio”». Non solo. Se qualcuno fosse capitato in piazza Navona, a Roma, la domenica prima dell’inizio del Conclave, avrebbe colto un altro piccolo segno del destino.

Quel 10 marzo 2013, il sacerdote canadese Thomas Rosica si imbatté in un Bergoglio meditabondo, che passeggiava in quella bomboniera rinascimentale, da solo, tra i turisti. In quei giorni abitava lì vicino, in un pensionato di via della Scrofa: ci andava sempre quando si trovava nella capitale. I due si conoscevano: Rosica è il presidente di Salt and Light, la più importante emittente cattolica canadese, e durante il Conclave avrebbe «coperto» tutti i media di lingua inglese per la sala stampa vaticana. Cominciarono a camminare insieme, chiacchierando. Il sacerdote notò una punta di nervosismo e di preoccupazione nel modo di fare dell’arcivescovo di Buenos Aires. Gli chiese che cosa avesse, come mai fosse così teso. La risposta fu: «Perché non so che cosa mi stanno preparando i miei fratelli in Conclave». Col senno di poi, viene da pensare che il futuro Papa sentisse di essere un candidato al soglio di Pietro. Di certo, faceva balenare l’idea di grandi manovre in atto intorno al suo nome.

Quell’olor de Conclave, odore di Conclave, che gli amici argentini dicevano che avesse avvertito alcuni mesi prima, nella sua megalopoli di Buenos Aires, ora lo investiva da vicino, promettendo un cambio epocale dentro il Vaticano; e un nuovo paradigma nei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti. […] Oscuramente, le sue origini ponevano una sfida anche sul piano geopolitico. Gli Usa passavano da un Papa tedesco e filo-americano a ventiquattro carati, a un pontefice che, non riconoscendo il proprio impero, implicitamente tendeva a non riconoscerne nessuno; che non condivideva i confini ormai anacronistici della Guerra fredda, né la divisione tra Est e Ovest che aveva dominato per mezzo secolo i rapporti tra Occidente e Unione Sovietica. Un esponente del Sud del mondo, di un «estremo Occidente» che in realtà era altro: una sorta di «Occidente alternativo» a quello conosciuto, «sudista», australe, e poco tenero con quel «Nord» tutto capitalismo, competizione e culto della ricchezza. […] Erano queste le novità con le quali Washington, che si percepiva come l’ultimo e forse unico impero occidentale sopravvissuto, doveva fare i conti.

25 settembre 2015 (modifica il 25 settembre 2015 | 12:50)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da – corriere.it
7596  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MASSIMO FRANCO La visita negli Stati Uniti inserito:: Settembre 28, 2015, 07:54:21 pm
La visita negli Stati Uniti
Il discorso del Papa al Congresso Usa e il senso di quegli applausi per un protagonista «politico»
Tono inclusivo, ma franco, il Pontefice è riuscito ha dato all’evento un carattere non formale.
Ha parlato di migranti e pena di morte, ma anche di famiglie e difesa della vita

Di Massimo Franco

Ha parlato da americano, più che da latinoamericano. Da «figlio di questo grande continente», proprio come gli statunitensi. Anche se Francesco sapeva di rivolgersi ad un Congresso Usa che riflette una storia, una cultura e, almeno nel passato, una religione diversa da quella dell’America australe: cattolica questa, protestante l’altra. Ma additando una radice geografica comune ha potuto esprimersi in modo inclusivo, avvolgente: garbato e insieme severo. Ha potuto chiedere un impegno comune per riequilibrare i cambiamenti climatici. Ha potuto parlare di «fondamentalismi» adombrando una verità non manichea e scomoda, alle orecchie occidentali: e cioè che certi estremismi non sono solo islamici, e che si può sbagliare tracciando linee troppo semplicistiche tra «buoni» e «cattivi».

Il pontefice argentino è riuscito ad accennare criticamente perfino al modo in cui si combatte il terrorismo. Col suo inglese letto con qualche fatica ma studiato con cura, è riuscito a dire tutto quello che voleva, dando all’appuntamento storico col Congresso degli Stati uniti un carattere non formale. Ma riscuotendo applausi e comunque rispetto.

Non ha taciuto sugli istinti che portano a rifiutare gli immigrati proprio in una nazione costruita e resa grande dall’immigrazione. Né, seppure coi suoi toni non aggressivi, ha tralasciato un accenno alle famiglie e ai matrimoni come «relazioni fondamentali» che rischiano di essere «messe in discussione»; al tema della vita «da proteggere e difendere in ogni momento», con un chiaro riferimento ad aborto ed eutanasia. In un Paese segnato dal terrorismo e dalle guerre, immerso per anni in un panorama di conflitti crescenti, Francesco ha ricordato ad un’America fondata sulla democrazia che nemmeno in nome della lotta all’eversione bisogna deflettere da quei principi.

A questo sembrava alludere quando ha fatto presente «l’equilibrio delicato» da mantenere contro «l’estremismo religioso»; e quando ha avvertito che «imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate».

Gli applausi e l’ovazione finale di un Congresso a schiacciante maggioranza repubblicana non vanno letti come approvazione di tutto il suo discorso. Ci sono state, e ci saranno critiche contro Francesco per le sue parole contro il commercio delle armi, o nella sua esortazione a non aggravare i cambiamenti climatici o negli attacchi al capitalismo finanziario che alimenta la povertà. Ma in quei battimani si è colto il riconoscimento di un momento storico. Ed è emersa la consapevolezza di avere di fronte un nuovo attore geopolitico col quale anche gli Stati Uniti dovranno fare i conti: in America latina ma anche in Ucraina e in Siria. Un segno di rispetto, prima e più che di consenso.

25 settembre 2015 (modifica il 25 settembre 2015 | 12:49)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_25/papa-francesco-parla-congresso-usa-applausi-massimo-franco-ff5d3858-634f-11e5-9954-7c169e7f3b05.shtml
7597  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Il segnale che manca sui conti inserito:: Settembre 28, 2015, 07:53:17 pm
Un piano pluriennale
Il segnale che manca sui conti
Legge di Stabilità, serve un piano pluriennale di riduzione della pressione fiscale accompagnato da un programma di tagli alla spesa che riporti al pareggio di bilancio

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Abbiamo studiato (in alcuni lavori scritti con il nostro collega Carlo Favero) le leggi di bilancio dei maggiori Paesi industriali negli ultimi trent’anni. L’Italia salta all’occhio per la scarsa persistenza delle correzioni attuate ai nostri conti pubblici. Ovvero, le misure avviate con una legge di Stabilità vengono spesso abbandonate, se non addirittura capovolte da quelle successive. Non è così in altri Paesi. All’estremo opposto troviamo il Canada, un Paese in cui le correzioni ai conti pubblici si protraggono a lungo nel tempo. All’inizio degli anni 90, ad esempio, il Canada avviò un percorso di riduzione della spesa pubblica durato ininterrottamente per sette anni, sotto due diversi governi: i conservatori prima - che dopo aver annunciato il programma di tagli, facendone il perno della loro piattaforma elettorale, vinsero le elezioni - e in seguito i liberali che continuarono con le medesime politiche. In quegli anni, nonostante i tagli alla spesa, l’economia continuò a crescere e il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo (Pil) scese dal 70 a meno del 50 per cento.

Lo «stile» delle leggi di Stabilità italiane è molto diverso. E ciò non solo per effetto dei numerosi condoni, che sono per loro natura correzioni temporanee dei conti pubblici. Lo stesso è accaduto nella prima parte del decennio scorso, dopo lo sforzo per soddisfare i parametri di Maastricht ed entrare nell’Unione monetaria. Nel 2000 avevamo, al netto degli interessi, un avanzo (entrate meno uscite senza tenere conto degli interessi sul debito) pari al 5,5% del Pil. Nel 2006 quell’avanzo primario era sostanzialmente scomparso (si era ridotto allo 0,3%) soprattutto per effetto dell’aumento della spesa pubblica. Queste politiche di stop and go creano confusione e incertezza, il contrario di ciò che serve per indurre le imprese a investire e le famiglie a consumare (si pensi all’effetto dei successivi cambiamenti di direzione nella tassazione delle case). Non solo. Senza un piano articolato su un orizzonte pluriennale, credibile e poi realizzato puntualmente, si finisce per decidere all’ultimo momento, spesso incalzati da un’elezione alle porte o dall’emergenza economica. Così si prendono le decisioni più facili: si aumentano le tasse invece che tagliare la spesa. Accadde al governo Monti nell’affanno dell’emergenza. Poi, non appena la crisi finisce, si ritorna subito alla normalità, fatta di spesa rilassata e misure populiste, come l’abolizione della tassa sulla prima casa, dettate più da giochi di strategia politica che da sane regole di finanza pubblica.

La legge di Stabilità che il governo si appresta a varare deve dare un segno profondamente diverso. Serve un piano pluriennale di riduzione della pressione fiscale accompagnato da un programma pluriennale e dettagliato di tagli alla spesa che riporti al pareggio di bilancio. Nulla di male se nel frattempo il deficit un po’ cresce, purché la maggior flessibilità venga usata per ridurre le tasse sul lavoro, e quindi aiutare crescita e occupazione, non per abolire le tasse sulla casa i cui effetti su crescita e occupazione sono tutti da dimostrare.

Vi sono due modi per ridurre le imposte alla maggioranza dei cittadini. Il primo, consiste nel tagliare le spese. L’alternativa è l’eliminazione delle agevolazioni fiscali e la loro sostituzione con aliquote più basse per tutti.

Le agevolazioni fiscali sono sgravi di imposte per questo o quel settore, questa o quell’azienda, questa o quella comunità. Si tratta di misure, quasi sempre dovute più a favori politici che a necessità economiche e che favoriscono alcuni a scapito di altri. Ad esempio: il regime privilegiato delle cooperative ci costa, in termini di mancato gettito, 300 milioni l’anno (dati della Ragioneria generale dello Stato); l’accisa ridotta sul gasolio impiegato per l’autotrasporto di merci e passeggeri (inclusi i taxi) un miliardo e mezzo; altrettanto la speciale accisa sul carburante degli aerei; 640 milioni quella sulla navigazione nelle acque interne, e così via. Ma affinché l’eliminazione di queste e tante altre agevolazioni (quattro anni fa il gruppo di lavoro presieduto da Vieri Ceriani ne individuò 720) non si traduca in un aumento della pressione fiscale, un simile provvedimento deve essere accompagnato da un’equivalente taglio alle aliquote per tutti i cittadini. Il governo sembrava avviato su questa strada, ma ancora una volta pare prevalga il rinvio.

26 settembre 2015 (modifica il 26 settembre 2015 | 07:05)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_26/governo-legge-stabilita-segnale-manca-conti-piano-pluriennale-3df74480-640b-11e5-a4ea-e1b331475bf0.shtml
7598  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Antonello CAPORALE. Immigrazione, ci stiamo comprando l’Africa (migranti inclusi inserito:: Settembre 28, 2015, 07:52:08 pm
Mondo
Immigrazione, ci stiamo comprando l’Africa (migranti inclusi)

Di Antonello Caporale | 25 settembre 2015

Antonello Caporale Giornalista

Roberto Rosso, l’uomo che dai jeans ha ricavato un mondo che ora vale milioni di euro, qualche giorno fa si domandava: “Come mai spendiamo 34 euro al giorno per ospitare un migrante se con sei dollari al dì potremmo renderlo felice e sazio a casa sua?”. Già, come mai? E perchè non li aiutiamo a casa loro? Casa loro? Andiamoci piano con le parole. Perché la loro casa è in vendita e sta divenendo la nostra. Per dire: il Madagascar ha ceduto alla Corea del Sud la metà dei suoi terreni coltivabili, circa un milione e trecentomila ettari. La Cina ha preso in leasing tre milioni di ettari dall’Ucraina: gli serve il suo grano. In Tanzania acquistati da un emiro 400mila ettari per diritti esclusivi di caccia. L’emiro li ha fatti recintare e poi ha spedito i militari per impedire che le tribù Masai sconfinassero in cerca di pascoli per i loro animali. La loro vita.

E gli etiopi che arrivano a Lampedusa, quelli che Salvini considera disgraziati di serie B, non accreditabili come rifugiati, giungono dalla bassa valle dell’Omo, l’area oggetto di un piano di sfruttamento intensivo da parte di capitali stranieri che ha determinato l’evacuazione di circa duecentomila indigeni. E tra i capitali stranieri molta moneta, circa duecento milioni di euro, è di Roma. Il governo autoritario etiope, che rastrella e deporta, è l’interlocutore privilegiato della nostra diplomazia che sostiene e finanzia piani pluriennali di sviluppo. Anche qui la domanda: sviluppo per chi?

L’Italia intera conta 31 milioni di ettari. La Banca mondiale ha stimato, ma il dato è fermo al 2009, che nel mondo sono stati acquistati o affittati per un periodo che va dai venti ai 99 anni 46 milioni di ettari, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana. In Africa i titoli di proprietà non esistono (la percentuale degli atti certi rogitati varia dal 2 al 10 per cento). Si vende a corpo e si vende con tutto dentro. Vende anche chi non è proprietario. Meglio: vende il governo a nome di tutti. Case, villaggi, pascoli, acqua se c’è. Il costo? Dai due ai dieci dollari ad ettaro, quanto due chili d’uva e uno di melanzane al mercato del Trionfale a Roma. Sono state esaminate 464 acquisizioni, ma sono state ritenute certe le estensioni dei terreni solo in 203 casi. Chi acquista è il “grabbatore”, chi vende è il “grabbato”. La definizione deriva dal fenomeno, che negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni note e purtroppo gigantesche e negli ultimi cinque una progressione pari al mille per cento secondo Oxfam, il network internazionale indipendente che combatte la povertà e l’ingiustizia. Il fenomeno si chiama land grabbing e significa appunto accaparramento della terra.

I Paesi ricchi chiedono cibo e biocombustibili ai paesi poveri. In cambio di una mancia comprano ogni cosa. Montagne e colline, pianure, laghi e città. Sono circa cinquanta i Paesi venditori, una dozzina i Paesi compratori, un migliaio i capitali privati (fondi di investimento, di pensione, di rischio) che fanno affari. E’ più facile trasportare una tonnellata di cereali dal Sudan che le mille tonnellate d’acqua necessarie per coltivarle. E allora la domanda: aiutiamoli a casa loro? Siamo proprio sicuri che abbiano ancora una casa? Le cronache sono zeppe di indicazioni su cosa stia divenendo questo neocolonialismo che foraggia guerre e governi dittatoriali pur di sviluppare il suo business. In Uganda 22mila persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per far posto alle attività di una società che commercia legname, l’inglese New Forest Company. Aveva comprato tutto: terreni e villaggi. I residenti sono divenuti ospiti ed è giunto l’avviso di sfratto…Dove non arriva il capitale pulito si presenta quello sporco. La cosiddetta agromafia. Sempre laggiù, nascosti dai nostri occhi e dai nostri cuori, si sversano i rifiuti tossici che l’Occidente non può smaltire. La puzza a chi puzza…

Chi ha fame vende. Anzi regala. L’Etiopia ha il 46 per cento della popolazione a rischio fame. E’ la prima a negoziare cessioni ai prezzi ridicoli che conosciamo. Seguono la Tanzania (il 44 per cento degli abitanti sono a rischio) e il Mali (il 30 per cento è in condizioni di “insicurezza alimentare”). Comprano i ricchi. Il Qatar, l’Arabia Saudita, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, anche l’India. E nelle transazioni, la piccola parte visibile e registrata della opaca frontiera coloniale, sono considerate terre inutilizzate quelle coltivate a pascolo.

Il presidente del Kenya, volendo un porto sul suo mare, ha ceduto al Qatar, che si è offerto di costruirglielo, 40mila ettari di terreno con tutto dentro. Nel pacco confezionato c’erano circa 150 mila pastori e pescatori. Che si arrangiassero pure!

L’Africa ha bisogno di acqua, di grano, di pascoli anzitutto. Noi paesi ricchi invece abbiamo bisogno di biocombustibile. Olio di palma, oppure jatropha, la pianta che – lavorata – permette di sfamare la sete dei grandi mezzi meccanici. E l’Africa è una riserva meravigliosa. In Africa parecchie società italiane si sono date da fare: il gruppo Tozzi possiede 50mila ettari, altrettanti la Nuova Iniziativa Industriale. 26mila ettari sono della Senathonol, una joint-venture italosenegalese controllata al 51 per cento da un gruppo italiano. Le rose sulle nostre tavole, e quelle che distribuiscono i migranti a mazzetti, vengono dall’Etiopia e si riversano nel mondo intero. Belle e profumate, rosse o bianche. Recise a braccia. Lavoratori diligenti, disponibili a infilarsi nelle serre anche con quaranta gradi. E pure fortunati perchè hanno un lavoro.

Il loro salario? Sessanta centesimi al giorno.

Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2015
Di Antonello Caporale | 25 settembre 2015



Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/25/immigrazione-ci-stiamo-comprando-lafrica-migranti-inclusi/2068178/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-09-26
7599  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Dario DI VICO - Il fisco leggero è solo un passo, serve dignità per il ... inserito:: Settembre 28, 2015, 07:50:16 pm
Il corsivo del giorno
Il fisco leggero è solo un passo, serve dignità per il lavoro autonomo
Si attende dal governo la conferma alle intenzioni di rendere più favorevole la tassazione delle nuove partite Iva venendo incontro ai giovani professionisti


Di Dario DI Vico

La buona notizia è che il governo conferma per bocca del vice ministro Casero e del sottosegretario Zanetti le intenzioni di rendere più favorevole la tassazione delle nuove partite Iva venendo incontro ai giovani professionisti e a quanti di fronte al dramma della disoccupazione tentano la strada dell’auto-impiego aprendo ristoranti, centri benessere, botteghe artigiane, studi di consulenza informatica, fablab con le stampanti 3D o tornando a credere nell’agricoltura.

Varrà la pena ricordare come il sistema della partita Iva assomigli in Italia a una porta girevole, ogni mese se ne aprono di nuove all’incirca 50 mila e se ne chiudono - di vecchie - nella proporzione di 3/5. Uno dei motivi di questo turn over frenetico sta anche nel regime fiscale che per come è stato strutturato rende assai difficile la partenza di una nuova attività e il suo consolidamento. Portare l’Irpef al 5% nei primi anni per chi non supera i 30 mila euro di ricavi equivale quindi a favorire la nascita di nuove piccole imprese e l’auto-collocamento di quanti in età matura vengono espulsi dal processo produttivo.

La buona novella però finisce qui, è evidente che incalza la presentazione della legge di Stabilità e il governo debba approntare provvedimenti immediati ma non vorremmo che passata la festa si dimentichi il santo. Ovvero che l’intervento per i giovani professionisti e le partite Iva si limiti a rimodulare il regime dei minimi.

C’è da bloccare - da subito - l’incremento dell’aliquota di contribuzione alla gestione separata dell’Inps (che è al 27,72%), c’è da ragionare sul pagamento dell’Iva per cassa e non per competenza. E via di questo passo. La scelta più opportuna che il governo, una volta approvata la Stabilità, potrebbe fare è quella di mettere in cantiere un provvedimento ad hoc che dia dignità al lavoro autonomo e ne regoli Fisco e welfare. Esistono già depositati in Parlamento dei buoni disegni di legge, si tratta di esaminarli e nel caso migliorarli.

26 settembre 2015 (modifica il 26 settembre 2015 | 08:34)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_26/fisco-leggero-solo-passo-serve-dignita-il-lavoro-autonomo-90d00c48-6413-11e5-a4ea-e1b331475bf0.shtml
7600  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Enzo Moavero Milanesi Le ricadute europee di una Germania che si scopre debole inserito:: Settembre 28, 2015, 07:48:47 pm
Le ricadute europee di una Germania che si scopre debole
Il Paese si interroga sulla capacità di essere ancora la locomotiva dell’Unione. A queste paure si aggiunge un’altra questione: per essere leader bisogna sapere per primi rispettare le regole

Di Enzo Moavero Milanesi

In Europa, quanto sta accadendo alla Volkswagen non può non far riflettere. La reazione istintiva di molti, probabilmente, è beffarda: ecco, anche i primi della classe provano a barare. Pensiamo subito a quante volte, nelle vicende dell’Unione Europea, specie durante la tempesta della crisi economica, esponenti del mondo politico e industriale tedesco hanno richiamato l’importanza del rispetto delle regole. Tutti i Paesi europei hanno sentito e sentono il vincolo del rigore normativo del quale, così spesso, la Germania si erge a tutrice. Un vincolo reale, concreto e psicologico, in forza del quale le regole Ue sono state potenziate e hanno imposto duri sacrifici. Ora, apprendiamo un fatto gravissimo: il più grande gruppo automobilistico del mondo, con astuti accorgimenti, avrebbe raggirato disposizioni di legge fra le più sensibili per i cittadini, come quelle a tutela dell’ambiente e della salute. Le responsabilità dovranno essere stabilite, ma colpisce che il secondo azionista della Volkswagen sia un ente pubblico, uno dei Länder della federazione tedesca. Addirittura, c’è chi solleva interrogativi e dubbi su eventuali connivenze politiche.

Dunque, gli ingredienti per una sorta di rivalsa morale ci sono ed è pressoché inevitabile che si diffonda quel sentimento descritto proprio da una parola tedesca: Schadenfreude, la gioia per i guai altrui. Ma siamo sicuri che siano soltanto guai altrui? L’economia europea, fiaccata dalla crisi, si sta riprendendo molto meno velocemente di quanto auspicato. Il mercato dell’automobile è fra quelli che andavano meglio: il colpo subito da uno dei suoi protagonisti può rallentarlo. Un fattore essenziale per l’Ue sono le esportazioni: l’accusa di frode negli Stati Uniti colpisce un’azienda simbolo e potrebbe avere effetti dannosi su altre imprese europee. Il titolo del gruppo coinvolto ha subito perdite notevoli in Borsa, trascinando al ribasso altre Borse, ovunque, a pesante discapito di tanti investitori e risparmiatori.

La vicenda Volkswagen ha una clamorosa risonanza in Germania: c’è un rischio di ripercussioni negative sulla sua capacità di essere quella locomotiva del continente che traina anche gli altri Paesi. Se guardiamo oltre le questioni più schiettamente economiche e per esempio, pensiamo all’epocale movimento migratorio verso l’Europa, non dobbiamo dimenticare che il maggior numero di migranti è, da sempre, assorbito dalla Germania: cosa accadrebbe se, indebolita, non fosse più in grado di accoglierli? Sappiamo bene, del resto, che per gli accordi sulle quote fra i diversi Stati è stato determinante l’impulso tedesco, così come lo è per quasi tutte le decisioni rilevanti che si prendono a livello dell’Unione.



Penso che il centro focale della riflessione sia proprio questo: la leadership tedesca in Europa. Non da un punto di vista astratto, di filosofia politica, né alla luce delle colpe passate, nelle tragiche guerre. Piuttosto dovremmo concentrarci sulla realtà degli equilibri europei. Senza l’Unione e di fronte a un mondo globalizzato e agitato, è arduo immaginare un avvenire con pace e prosperità analoghe agli ultimi 60 anni. Tuttavia, non possiamo nasconderci che, in Europa, alcuni Paesi contano nettamente più degli altri e fra questi primeggia la Germania. Non dipende solo dalla potenza economica. Si tratta della capacità, via via cresciuta negli ultimi 25 anni, di costruire stabili alleanze, di proporre iniziative, di convincere i partner, di interagire con i meccanismi Ue, anche attraverso propri connazionali intelligentemente collocati in posti politici e amministrativi chiave. Per analoghe ragioni, in precedenza, si erano distinte Francia e Gran Bretagna.

Dunque, non è inusuale per l’Europa avere uno Stato leader, ma ne discendono due domande: quali sono i contrappesi e quali sono le scelte concrete del leader. Con riferimento al primo aspetto, gli assetti istituzionali Ue ne offrono in abbondanza (ricordiamoci l’esigenza di unanimità che persiste per le scelte cruciali), ma spesso sono utilizzati in maniera approssimativa, privilegiando il generico approccio politico a una meticolosa azione da sviluppare nei numerosi tavoli di lavoro. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il discorso ritorna alle opzioni politiche e alle regole che le accompagnano. La Germania influisce su iniziative e normative dell’Unione e sa coniugare l’interesse nazionale con le esigenze europee. È basilare che sia la prima a osservare una severa disciplina, a non trascurare la vera sostanza di una prescrizione. Gli esempi nodali non includono tanto l’odierno caso Volkswagen, bensì: la questione dello squilibrio determinato dal surplus commerciale tedesco, illecito per le regole Ue se inflessibilmente applicate; e l’opportunità di incentivare la domanda in Germania, trainante anche per le produzioni di altri Paesi Ue e, quindi, conforme al principio europeo di solidarietà. Infine, è auspicabile trarre un ulteriore insegnamento dalla vicenda Volkswagen: i rilievi delle autorità statunitensi dimostrano che le norme di garanzia ci sono e se fatte valere funzionano; non occorre adottarne sempre di nuove, prima usiamo quelle esistenti con diligenza e senza eccessi di sovra regolamentazione.

25 settembre 2015 (modifica il 25 settembre 2015 | 09:11)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_25/ricadute-europee-una-germania-che-si-scopre-debole-2345be16-6350-11e5-9954-7c169e7f3b05.shtml
7601  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Il Papa e Obama parlano al mondo, ascoltiamoli inserito:: Settembre 28, 2015, 07:44:46 pm
Il Papa e Obama parlano al mondo, ascoltiamoli

Di EUGENIO SCALFARI
27 settembre 2015

LA POVERTA', la discriminazione, la corruzione: questi sono i mali del mondo e tutto il male restante è da questi che deriva. Così pensa e dice papa Francesco e questa è la sua predicazione che cominciò in Argentina quarant'anni fa ed è continuata con ben altra ampiezza di ascolto da quando siede sulla sedia di Pietro.

Non era però accaduto che questo tema, che con una sola parola onnicomprensiva si può definire disuguaglianza, fosse affrontato dinanzi al Congresso degli Stati Uniti d'America e poi all'Assemblea delle Nazioni Unite. La disuguaglianza è la causa e il suo più vistoso effetto è quello della migrazione, che riguarda centinaia di milioni di persone e interi popoli che si spostano da un Paese all'altro, da un continente all'altro, rivendicando i loro diritti di persone umane e la loro libertà.

Eguaglianza, libertà, fraternità: sono questi i tre valori che tre secoli fa l'Europa rivendicò ed è su di essi che si sta realizzando l'incontro tra la Chiesa di Francesco e la modernità laica. Un Papa dal linguaggio profetico e rivoluzionario come Lui non s'era mai visto prima: gesuita fino in fondo, francescano fino in fondo, che ha saputo unificare la parte migliore di questi due Ordini della Chiesa, in apparenza molto lontani tra loro. La loro storia è diversa, ma la loro ispirazione ha le medesime finalità della Chiesa missionaria di Francesco: ama il prossimo tuo come e più di te stesso.

Più volte mi sono posto la domanda del rapporto tra questo Papa e la politica. Lui esclude che questo rapporto vi sia ed infatti combatte il potere temporale della Chiesa cattolica.

 Proprio perché una Chiesa missionaria come Lui la concepisce non ha e non deve esser deturpata dal temporalismo, cioè dall'amore verso il potere. Gli effetti di questa lotta tuttavia si riverberano con inevitabile intensità sulla politica. Corruzione, discriminazione, povertà, sono alcuni dei connotati che caratterizzano il potere e deturpano la politica. Non a caso Francesco è stato accusato di simpatie "comuniste". È una accusa volutamente e ingiustamente aggressiva, alla quale Francesco ha risposto cristallinamente: "Io predico il Vangelo; se i comunisti dicono le stesse cose, sono loro che adottano il Vangelo".

Qualche amico mi ha chiesto chi sono a mio parere gli uomini più importanti e che maggiormente influenzano la situazione del mondo d'oggi. La mia risposta è: Francesco e Barack Obama. Operano in settori diversi ma le finalità sono affini. Purtroppo non avranno molto tempo a loro disposizione ed è assai improbabile che i loro successori siano alla stessa loro altezza. È addirittura possibile che abbiano finalità diverse dalle loro. La storia del resto non è coerente nel suo procedere, affidata più al caso che al destino; variano le passioni, le emozioni, gli interessi e quindi i valori e gli ideali. Ma i momenti culminanti e chi li rappresenta sia nel bene sia nel male rimangono nella memoria storica e aiutano le anime vigili e responsabili a tener conto del prossimo e della "polis", due parole che indicano la stessa realtà vista da due diverse angolazioni: il prossimo si configura in una convivenza tra liberi ed eguali. Così vorremmo che fosse.

***
Sarebbe altrettanto interessante capire chi sono le personalità più rimarchevoli in Europa e in Italia, luoghi geopolitici, sociali, economici e culturali che ci riguardano molto da vicino. Nel nostro continente Angela Merkel, Mario Draghi e anche Putin: la Russia è bi-continentale ma la sua parte politicamente essenziale è quella ad Ovest degli Urali o addirittura ad Ovest del Volga. Quindi Europa.

La Merkel nelle ultime settimane ha perso improvvisamente peso, anzitutto con quanto è accaduto e sta tuttora accadendo con le ondate di migranti e la reazione che hanno provocato nei Paesi dell'Est europeo e nella stessa Germania. Poi, ancor più recentemente, con lo scandalo Volkswagen che ha messo in crisi non soltanto una delle principali case automobilistiche del mondo intero, ma l'industria tedesca nel suo complesso, con possibili chiamate di correo perfino politiche.

La Germania è sulla difensiva su tutti i fronti: quello delle immigrazioni, quello dell'economia industriale, quello della dominanza europea. Questa crisi indebolisce l'Europa perché con una Germania incerta anche l'Europa diventa più incerta. Il futuro del nostro continente è strettamente legato alla costituzione degli Stati Uniti d'Europa. L'ultimo e più autorevole appello perché quest'evento si compia è stato di Giorgio Napolitano che al convegno sulla giustizia promosso a Piacenza ha avuto in proposito parole nettissime. Se quest'evento sfumasse verso un tempo indeterminato -  ha detto Napolitano -  l'Europa e tutti gli Stati nazionali che la compongono diventerebbero insignificanti nel panorama mondiale con effetti negativi di carattere economico sociale e di conseguenza politico. Una chiarezza di giudizio encomiabile, ma purtroppo Napolitano non dispone più di strumenti concreti per dare seguito a ciò che pensa e dice su questo tema. Per fortuna Mattarella la pensa allo stesso modo e lui qualche strumento di concreta pressione lo ha.

In questo panorama di incertezza e indebolimento dell'Unione europea, chi dispone di strumenti importanti e concreti è Mario Draghi e li sta usando sempre più drasticamente: ha aumentato nel tempo e nella misura il "quantitative easing"; ha penalizzato la liquidità delle banche quando se ne servono per interessi propri anziché della clientela; sta estendendo le garanzie ai depositanti e alle banche e l'acquisto di titoli pubblici. Nella sua ultima dichiarazione pubblica ha chiesto alla Commissione di Bruxelles e al Parlamento di istituire un ministro del Tesoro europeo che sia il solo interlocutore politico della Banca centrale, responsabile d'un bilancio europeo molto più ampio di quello attuale, un debito pubblico sovrano con relativa emissione di titoli e una propria politica di investimenti. Il tutto con le necessarie cessioni di sovranità. Ha sollecitato infine l'Italia a varare leggi del lavoro e sgravi fiscali che abbiamo come obiettivo quello di incentivare gli investimenti e creare nuovi posti di lavoro. Quanto all'aumento dei tassi di interesse Usa, ormai deciso dalla Fed americana, produrrà un rafforzamento del tasso di cambio del dollaro con ulteriore deprezzamento dell'euro che favorirà ancor più le esportazioni di merci europee (e italiane) verso l'area del dollaro.

***
In Italia la personalità politica più importante è Matteo Renzi, per suo merito e per la debolezza degli altri. Personalità politicamente e moralmente più rilevanti della sua ce n'è più d'una ma sono persone, non forze politiche. Per di più una parte rilevante del popolo italiano lo segue con rassegnato entusiasmo, come fece in altri tempi con Berlusconi.

Quanto agli oppositori, il consenso che raccolgono è nettamente minore del suo: Il Movimento 5Stelle è l'inseguitore più prossimo ma il distacco è ampio e non pare destinato a diminuire. Quanto all'opposizione interna, alla resa dei conti ha mostrato la sua fragilità, maggiore di quanto si pensasse, negoziando e accordandosi con lui su dettagli e abbandonando l'obiettivo numero uno che loro stessi definivano il recupero di quei valori, ideali e concreti, d'una moderna sinistra. La realtà ha dimostrato che quei valori si sono persi per strada e assai difficilmente saranno recuperati.

Il problema dell'elezione diretta dei senatori -  che comunque è stato anch'esso di fatto abbandonato -  era uno strumento per recuperare quei valori. La battaglia sul Senato rappresenta un grimaldello per ottenere che il regime monocamerale non fosse subordinato al governo come di fatto sarà in una Camera di "nominati". Questo era l'obiettivo, smarrito per strada da senatori democratici che l'avevano indicato molte volte e poi l'hanno mandato in soffitta.

Può darsi che un Renzi che governa da solo in un Paese come il nostro sia una soluzione ottimale.
Va notato tuttavia che le leggi fin qui prodotte sono di modestissima qualità, le abbiamo su questo giornale esaminate con attenzione e ne abbiamo individuato pregi e difetti. Debbo dire che i difetti sono molto più numerosi dei pregi e lo dimostra un esperto come Gianluigi Pellegrino e perfino un "renziano" come D'Alimonte, sul Sole 24 Ore di venerdì. Civati sta raccogliendo firme per un referendum abrogativo. Vedremo domani se avrà ottenuto il numero previsto dalla legge ma se quel referendum si facesse la decisione passerebbe al popolo e forse sarebbe un fatto positivo.

Ma il modo più idoneo a recuperare valori costituzionali in gioco potrebbe essere la ripresentazione di quella proposta di legge che non ebbe la possibilità di essere votata, presentata nel 1995 con una settantina di firme tra le quali quelle di Mattarella, Napolitano, Walter Veltroni, Piero Fassino, Leopoldo Elia, Rosy Bindi. Il nucleo essenziale suonava così: "La democrazia parlamentare deve dispiegarsi appieno per quanto riguarda le scelte del governo, ma deve trovare un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali, delle regole democratiche, dei diritti e della libertà dei cittadini; principi, regole, diritti che non possono essere rimessi alle decisioni della maggioranza pro-tempore".

Ho ricordato questa proposta nel mio articolo di domenica scorsa. Oggi ne propongo la ripresentazione perché è il solo modo di rafforzare la fragile democrazia esistente senza con ciò impedire a Renzi di dare il meglio di sé evitandone il peggio.

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27 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/27/news/il_papa_e_obama_parlano_al_mondo_ascoltiamoli-123762207/?ref=fbpr
7602  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Partiti e leader L’ambigua ricerca delle élite inserito:: Settembre 28, 2015, 07:43:45 pm
Partiti e leader
L’ambigua ricerca delle élite
Cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare.
Ma con quale obiettivo?

Di Ernesto Galli della Loggia

La corsa dei parlamentari di destra e di centro ad abbandonare i loro schieramenti per andare a sinistra riproduce più o meno quanto sta avvenendo nella società italiana. È ormai da qualche tempo, infatti, che salvo rare eccezioni i vertici che contano, gli organismi significativi, tutte le voci influenti, vanno orientandosi in una sola direzione: quella di Matteo Renzi, o, se si può dir così, del renzismo. Non già verso il Pd, tanto meno verso la sinistra: verso il presidente del Consiglio. Si tratta di una rilevante differenza rispetto al passato più recente; anche se in qualche modo essa segna il ritorno a un modello antico della nostra storia nazionale. Dagli anni Ottanta in poi, un generico orientamento verso il centrosinistra, infatti, è stato sempre più largamente maggioritario nell’élite italiana. Il fenomeno era già evidentissimo nell’ultima fase della Prima Repubblica, sicché, divenuto il Pd l’erede di fatto di tutto quel sistema ideologico-partitico, nulla di più logico che fosse poi esso ad attrarre le maggiori simpatie. Simpatie che tuttavia si sono trovate a dover fare regolarmente i conti con le incertezze ideologiche e le nebulosità programmatiche di una base — esemplarmente rappresentata da un leader come Massimo D’Alema — immobilizzata tra nostalgie della «Ditta» e velleità di un mai meglio precisato «aggiornamento». Dall’altro canto, specie dopo la comparsa di Berlusconi, l’affiliazione al centrodestra dell’élite italiana non è stata certo insignificante.

Ma dal punto di vista dell’élite, alquanto circoscritta, direi: in pratica limitata agli ambienti economici e degli affari coinvolti nella sfera degli appalti e dei contratti pubblici, alle pur vaste cerchie interessate alle migliaia di nomine istituzionali, nonché a un certo mondo alto-burocratico. Per il resto sporadici fenomeni sostanzialmente di opportunismo, ma nulla di più. Renzi ha rotto questo schema. Mandato in soffitta il vecchio Pd e alzando l’insegna «Le cose da fare in questo Paese non sono né di destra né di sinistra, sono da fare e basta», egli sta rapidamente riunendo intorno alla propria persona tutta l’Italia del potere, tutta l’Italia che conta, proveniente dall’una o dall’altra precedente affiliazione. È il ritorno all’antico di cui dicevo sopra. La grande stabilizzazione politica italiana ha sempre funzionato in questo modo, infatti: intorno a un uomo, non intorno a un partito. E in primo luogo agglutinando intorno a quella persona la grande maggioranza dell’élite. Fu così fin dall’inizio con Cavour, poi con Crispi e Giolitti. E come il potere italiano fu assai più che fascista mussoliniano, così in seguito non fu certo democristiano bensì degasperiano, per concedere poi la propria fiducia ai due soli veri leader che la Dc ebbe dopo di lui, Fanfani e Andreotti. Ci provò a suo tempo anche Craxi, riuscendovi solo pochissimo e per brevissimo tempo. Berlusconi non c’ha neppure provato. È un fatto, mi pare, che nella nostra storia la classe dirigente, pur intrattenendo per antica tradizione un fortissimo rapporto con la politica, si è mostrata nel complesso quasi per nulla interessata, invece, a un qualsiasi rapporto con i partiti. Pronta ad appoggiarne i capi, ma anche a rapidamente abbandonarli.

Forse neppure la «Repubblica dei partiti» è mai stata realmente la Repubblica delle élite italiane: le quali infatti l’hanno lasciata colare a picco senza muovere un dito. Tutto sta a indicare, insomma, che specialmente per le classi dirigenti di questo Paese è stato sempre più facile trovare un raccordo stabile e fisiologico con la politica rappresentata da una persona piuttosto che da un partito. «Ma che male c’è?», si obietta; «Se le cose da fare non sono né di destra né di sinistra, non basta che ci sia una persona che le voglia e le sappia fare?». Questa obiezione esprime uno stato d’animo diffuso, dovuto all’immobilismo che da anni soffoca l’Italia, alla sensazione che in questo Paese da anni nulla si muova, e che tutto ciò ci stia uccidendo. È lo stato d’animo che gioca a favore dell’attivismo del nostro giovane presidente del Consiglio, giustificando il consenso personale che egli raccoglie.

Ma le cose non sono così semplici come possono apparire. Innanzi tutto, perché anche ammesso che le cose da fare non abbiano alcun colore partitico particolare, è difficile immaginare, però, che un tal colore non ce l’abbia neppure il modo di farle. Che per esempio vi sia un solo e unico modo di mettere o non mettere una tassa sulla casa o di decidere un piano di investimenti pubblici, che una riforma scolastica o una politica circa l’immigrazione concepite dalla destra siano eguali a quelle concepite dalla sinistra. Le idee, insomma, fanno pur sempre la differenza. E quando si dice idee, si dice contenuti concreti, scale di valori, priorità, obiettivi: tutte cose che fino a prova contraria non solo in politica ma nella vita di una collettività contano. E che dividono, che giustamente, fisiologicamente, dividono. Si chiama democrazia: nella quale, per l’appunto, contano sì gli uomini, conta sì la capacità di comando e di realizzazione di un leader, ma dovrebbero necessariamente contare anche le idee.

Nel formarsi di un vasto seguito personale intorno a un capo non c’è nulla di male. Proprio la democrazia ha bisogno di leadership forti, e ne ha bisogno in modo particolare oggi l’Italia. È piuttosto la rapidità e l’unanimismo con cui un tal seguito si sta formando intorno a Renzi nelle aule del Parlamento e fuori, che suscita qualche perplessità. Se nel primo caso si tratta palesemente della non molto nobile speranza di salire sul carro del vincitore, e al momento giusto di trovare un posticino nelle liste elettorali, nel secondo sono soprattutto le élite del potere italiano che cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare. Ma con quale obiettivo, per quale fine? E vogliono davvero tutte la medesima cosa e nel medesimo modo? Nell’assenza di qualunque risposta, resta l’impressione di una sostanziale indifferenza rispetto ai contenuti: sulla quale l’evanescenza di ogni visione generale in cui ormai vive l’intero Paese, a cominciare proprio dalla politica, non manca di gettare una luce inevitabilmente ambigua.

27 settembre 2015 (modifica il 27 settembre 2015 | 07:10)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_27/partiti-leadership-ambigua-ricerca-elite-04eee334-64d1-11e5-b742-179fcf242c96.shtml
7603  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Franco VENTURINI Siria, il momento delle scelte inserito:: Settembre 28, 2015, 07:42:30 pm
Siria, il momento delle scelte

Di Franco Venturini

Per la Siria è arrivato il momento delle scelte. È arrivato scandalosamente tardi, quando la guerra civile è entrata nel suo quinto anno, quando una strage spaventosa si è ormai compiuta, quando i profughi, soltanto le avanguardie dei profughi, bussano alla nostra porta europea e ne sottolineano la fragilità culturale e politica.

Fallire ancora sarebbe un suicidio, per tutti. Perché la guerra civile siriana, innescata nel 2011 dalla ferocia repressiva di Bashar al-Assad, accanto a molti altri orrori ha prodotto l’Isis. Ha prodotto i jihadisti ultraradicali che hanno ucciso, torturato, violentato in nome del Corano, che hanno contribuito a riempire di fuggiaschi il Libano, la Turchia e la Giordania, che hanno abolito il confine con l’Iraq e compiuto attacchi terroristici in Europa e in Africa. N on è sorprendente che i tagliagole dell’Isis vengano considerati da gran parte del mondo il nemico numero uno. M a per batterlo, questo nemico, come formare una coalizione militare capace di superare sospetti, rivalità e interessi strategici diversi? Come evitare nuove esplosioni in Medio Oriente e in Nord Africa, come prevenire l’arrivo in Europa di milioni, perché questa volta sarebbero milioni, di profughi che scappano dalla Siria o dai campi turchi e libanesi?

In una Assemblea Generale dell’Onu già tanto ricca di presenze significative, la posta politica più alta è nelle possibili risposte a questi interrogativi, ed è racchiusa nell’incontro tra Obama e Putin che avrà luogo oggi al Palazzo di Vetro. Sarebbe vano, per noi occidentali, non riconoscere che il capo del Cremlino arriva all’appuntamento dopo aver mosso per primo sulla scacchiera che l’indecisionismo siriano di Obama ha da tempo paralizzato. Tenendo conto degli interessi russi, beninteso. Putin ha creato una testa di ponte militare in Siria e ha moltiplicato le forniture militari a Damasco per sostenere il traballante Assad, suo alleato storico, e mettere in sicurezza l’asse Damasco-Homs-Latakia che potrebbe in futuro rappresentare l’ultima trincea del presidente assediato. Ha assicurato a Mosca un ruolo di primo piano (e il porto di Tartus sul Mediterraneo) in un eventuale negoziato. Ha creato le condizioni per inseguire in Siria i guerriglieri provenienti dal Caucaso del Nord. E soprattutto Putin tenta un grande ritorno sulla scena mediorientale e mondiale proponendo all’America, dopo tanti dissidi e tante sanzioni, di agire insieme contro il nemico comune rappresentato dall’Isis.

Colta in contropiede, la Casa Bianca ha impiegato qualche giorno prima di superare il suo impossibile progetto di battere l’Isis adoperandosi nel contempo per far cadere Assad. Oggi la posizione americana è diventata più realista, e ha preso corpo una strategia che anche al Cremlino potrebbe non dispiacere: la collaborazione russo-americana contro l’Isis sarebbe fattibile nei tempi brevi se Mosca accettasse l’allontanamento di Assad in una seconda fase. Questo piano di massima, che non prevede interventi terrestri bensì una netta intensificazione degli attacchi aerei contro i jihadisti, ha ricevuto consensi dall’Iraq alla Turchia, dall’Australia alla Gran Bretagna. E soprattutto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che stretta tra la crisi dei migranti e quella della Volkswagen ha trovato il tempo e il coraggio di affermare che per uscire dall’angolo siriano si deve parlare anche con Assad. Posizione simile a quella italiana e per ora frontalmente contraria a quella della Francia, che ha cominciato ieri a bombardare l’Isis ma auspica una ipotetica transizione «dopo» la caduta di Assad.

La scelta decisiva, prevedibilmente senza clamore come è prassi nei corridoi dell’Onu, sarà Obama a compierla. L’Occidente ha la coscienza pesante sulla Siria per non essere intervenuto quando gli oppositori di Assad erano suoi alleati. L’America ha mal digerito il fiasco dell’estate 2013, quando le navi mandate a punire il dittatore per aver fatto uso di armi chimiche batterono in ritirata senza aver sparato un colpo. Più di recente c’è stato il clamoroso fallimento del programma Usa per l’addestramento di oppositori «buoni», che appena pronti si sono dileguati o hanno passato i loro armamenti a formazioni qaediste. Insomma, di amici sul terreno in Siria non ne abbiamo più, e abbiamo invece un nemico mortale e globale come l’Isis.

Obama non potrà non tener conto di questa realtà, ma è improbabile che voglia fare a Putin tutti i regali che il capo del Cremlino si aspetta. In particolare sul negoziato parallelo che dovrà un giorno allontanare Assad, Mosca dovrà impegnarsi più di quanto abbia fatto sin qui. Le relazioni tra Mosca e Washington potranno migliorare, ma uno «scambio» strategico che coinvolga l’Ucraina è poco credibile. Non vedremo nascere all’Onu una improvvisa cordialità russo-americana, come confermano le critiche rivolte da Putin a Obama poche ore prima del loro incontro. Basterà un consenso pragmatico sulla emergenza politica e umanitaria che si pone in Siria, e sulla comune priorità militare di combattere l’Isis. In attesa che lo faccia, almeno in Iraq, anche l’Italia.

fventurini500@gmail.com
28 settembre 2015 (modifica il 28 settembre 2015 | 07:24)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_28/siria-momento-scelte-b21dc790-659f-11e5-aa41-8b5c2a9868c3.shtml
7604  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / DANIELE MANCA La (dura) lezione americana su Volkswagen inserito:: Settembre 28, 2015, 07:40:59 pm
Le Regole
La (dura) lezione americana su Volkswagen
Le norme possono essere strumento di politica industriale

Di Daniele Manca

Dalla vicenda Volkswagen si possono trarre molte lezioni. Soprattutto sul rapporto tra Usa e Unione Europea. Ne emerge almeno una che deve farci riflettere. Soprattutto dopo gli ultimi dati che mostrano un’America in costante e forte ripresa. Riguarda il capitalismo e le regole. Negli Stati Uniti competizione e concorrenza sono alle basi del funzionamento economico. Le regole che fanno da cornice sono il più possibile chiare e vengono applicate in modo a volte persino spietato. Soprattutto in presenza di scandali. La durezza nei confronti di Kenneth Lay, fondatore di Enron, o di Bernie Madoff sono solo due degli esempi più evidenti.

Questo non significa che i comportamenti degli Stati Uniti a volte non si rivelino più che protezionisti nei confronti dei propri campioni e mercati. Stando però sempre attenti a non impedire la crescita, la capacità innovativa e soprattutto la competizione. Quello che accade nell’Europa dei governi è che si privilegino gli interessi di singole aziende o Paesi, come accaduto nel caso tedesco. Rendendo così il mercato più stagnante e poco aperto a quella concorrenza che rende le aziende competitive. Una prova la si è avuta in un altro campo settimana scorsa, quando l’avvocato della Corte di giustizia europea, Yves Bot, ha dichiarato illegale il patto («Safe Harbour Agreement») in base al quale i dati collezionati in Europa da 4 mila aziende tecnologiche (tra queste Google, Facebook, Amazon, Twitter) possono essere trasferiti in America. Una chiamata in causa dettata da motivi di privacy. Ma che possono favorire quella balcanizzazione di Internet che già in alcuni regimi come Russia e Cina funziona: a ogni Stato il suo web. Di sicuro non è questo l’intento. Ma se l’Europa ritiene quelle regole non attuali, dovrebbe mostrarsi unita e trattare direttamente con gli Stati Uniti norme che abbiano come obiettivo la crescita e la concorrenza. Altrimenti sarà ancora una volta chiaro che, imbrigliando il sistema, una Facebook o un’Amazon europea difficilmente nasceranno.

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@daniele_manca
28 settembre 2015 (modifica il 28 settembre 2015 | 10:43)


Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_28/dura-lezione-americana-volkswagen-7a8ced0c-65b7-11e5-aa41-8b5c2a9868c3.shtml
7605  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Francesco Battistini Barcellona, la piazza esulta dopo il voto: Barça-Madrid 72 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:39:40 pm
Barcellona, la piazza esulta dopo il voto: «Barça-Madrid 72-0!»
Festa per il risultato nelle elezioni regionali: «Cancellate i nomi borbonici dalle vie!»

Di Francesco Battistini, inviato a Barcellona

Gridano «Barça batte Madrid 72 a zero!». Si strappano di mano le bandiere estreladas dell’indipendenza, i cellulari per gli storici selfie, le birre per il brindisi atteso da una vita. Sventolano stelle catalane e stelline europee. Quando gli exit poll diventano dati certi, compare in piazza anche il vincitore assoluto, l’uomo più intervistato di Catalogna dopo Messi. Battezza la vittoria e fa la prima dichiarazione politica, «abbiamo un mandato democratico e non falliremo, faremo onore al mandato», poi partono le canzoni, i balli, i fuochi d’artificio: «Chi negava che questo voto fosse un plebiscito, che cosa dirà davanti al 76 per cento degli elettori?». Qualcuno gli urla già la prima proposta: «Artur, cancella dai monumenti tutti i nomi dei Borbone!». «Aspettavo questa serata da quand’ero piccolo», piange una signora: «Ho chiamato mia nonna, lei si ricorda quando qui non si poteva nemmeno pensare in catalano!...».

Obiettivo marzo 2017, Rajos scende agli inferi
Catalunya decideix. Più che un voto amministrativo, è stato il referendum che volevano. Alla maggioranza assoluta dei seggi, sicura fin dall’inizio, deve corrispondere una maggioranza assoluta dei voti: il 50 per cento richiesto dal sistema proporzionale, per proclamare l’indipendenza unilaterale, non c’è. Ma il dato politico è già nella festa della notte: la piattaforma indipendentista ha ricevuto il mandato e se i suoi leader si confermeranno d’accordo, se l’estrema sinistra secessionista del Cpu ci starà, da qui al marzo 2017 si partirà per l’indipendenza. La stravittoria di Mas (e la probabile discesa agl’inferi del premier spagnolo Mariano Rajoy, che s’è giocato tutto nello scontro frontale e a destra ha preso la metà dei suoi avversari di Ciudadanos, tre mesi prima delle elezioni politiche) è il primo passo: i sogni del leader nazionalista prevedono l’istituzione d’un ministero del Tesoro, la nomina d’ambasciatori, la Dichiarazione solenne; la realtà parla d’un necessario negoziato, probabile e assai duro, con chi da fine dicembre governerà a Madrid. «Ha vinto il sì all’indipendenza – dice Mas -, andiamo avanti». Fin dove, si vedrà.

27 settembre 2015 (modifica il 28 settembre 2015 | 09:39)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_27/piazza-barca-madrid-72-0-preoccupazioni-italiani-9d719c2c-655e-11e5-b742-179fcf242c96.shtml
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