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7351  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Antonio POLITO Sicurezza e accordi di Schengen Il valore dei confini inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:38:19 pm
Sicurezza e accordi di Schengen
Il valore dei confini

Di Antonio Polito

Quante volte avete sentito usare nei talk show il seguente interrogativo retorico: «Pensate forse che i terroristi arrivino in Europa sui barconi degli immigrati?». Ebbene sì, ormai sappiamo che qualche terrorista è effettivamente arrivato anche a bordo dei barconi. Vuol dire che dobbiamo rivedere tutti i tabù e tutti i luoghi comuni che anche per nobilissime ragioni (per esempio contrastare il razzismo contro i migranti) abbiamo accettato finora. Non possiamo più dare nulla per scontato, e del resto non sarebbe un atteggiamento liberale negare l’evidenza solo perché questa porta acqua al mulino di chi fomenta le campagne anti Europa.
L’evidenza è che l’attuale sistema Schengen non funziona. È perforabile. Talvolta appare addirittura un colabrodo. Abbiamo detto dei barconi. Ma quello dei clandestini non è il solo problema. Anche più pericoloso è lo scarso controllo di chi entra mostrando i documenti alle nostre frontiere. E quando dico «nostre» intendo quelle comuni dell’Europa, perché le frontiere interne, tra Stato e Stato, come è noto non esistono più.

A vendo eliminato i controlli nell’area Schengen, dovremmo avere infatti un sistema di verifiche a prova di bomba per chi ci arriva dall’esterno. E invece, come ha raccontato sul New York Times Roland K. Noble, che è stato per 14 anni a capo dell’Interpol, alle nostre frontiere, non dico sulle spiagge o nei porticcioli, ma perfino negli aeroporti, non è previsto un controllo sistematico incrociato con il database, in dotazione all’Interpol da dopo l’11 Settembre, di tutti i passaporti rubati, contraffatti o smarriti. Lì dentro ci sono 45 milioni di documenti, e un documento falsificato fa capolino in ogni grande azione terroristica sul suolo europeo, da Madrid a Londra fino a Parigi. La Gran Bretagna, che è fuori dall’area Schengen e che questi controlli li fa, ha fermato in un anno 10 mila persone che tentavano di entrare con documenti fasulli.

L’anno scorso tra le dieci nazioni del mondo con il più alto numero di denunce per passaporti rubati o smarriti otto erano dell’area Schengen. Secondo l’Economist anche i database disponibili su presunti criminali e terroristi contengono troppo pochi dati, e troppo gelosamente custoditi dalle polizie nazionali. Se poi per caso i computer identificano un sospetto, l’unica informazione che restituiscono è il nome e il telefono del funzionario di polizia da contattare. Sembra che la libertà di movimento valga per i ladri ma non per le guardie.

In questo modo, dice Noble, è come se avessimo appeso un cartello di benvenuto per i terroristi ai nostri confini. Senza contare i controlli sui cittadini europei con regolare e valido passaporto europeo. Essi hanno infatti diritto di entrare ed uscire quando vogliono, ma solo ora ci si è accorti che forse sarebbe meglio tenere traccia di quante volte escono e da dove rientrano, visto che tra loro ci sono anche i foreign fighters che fanno la spola tra l’Afghanistan, la Siria e le nostre città, importando il know how del terrore.

Ci sono ottime ragioni per difendere la libertà di movimento nell’area Schengen. Una delle quali è che i nostri Paesi sono così intrecciati, uniti in un tale reticolo di connessioni che districarlo è impossibile: ci sono più di 200 strade che collegano il Belgio alla Francia. Un’altra buona ragione è che questo è uno dei maggiori successi dell’Unione Europea, e forse il più popolare, e tornare indietro su questa strada sarebbe certamente una sconfitta storica. Ma se si vuole salvare l’Europa senza frontiere che i nostri figli hanno conosciuto bisogna garantire loro che l’Europa sa controllare le sue frontiere esterne, che non entra chi vuole e quando vuole. Non c’è posto al mondo dove questo sia consentito. Perfino il sogno più ardito di un’Europa unita ha bisogno, da qualche parte, di una frontiera.

26 novembre 2015 (modifica il 26 novembre 2015 | 09:01)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_26/sicurezza-schengen-editoriale-polito-valore-confini-f9760c72-9404-11e5-be1f-3c6d4fd51d99.shtml
7352  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. La lezione inglese sulla SPESA... inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:36:44 pm
Tagli e ripresa
La lezione inglese sulla spesa

Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Negli ultimi anni abbiamo avuto quattro commissari per la spending review: o si sono ritirati in silenzio, come Enrico Bondi e Piero Giarda, oppure si sono dimessi, come Carlo Cottarelli e Roberto Perotti. Tutto questo lavoro ha prodotto pressoché nulla, non per colpa dei commissari ma per la scarsa collaborazione che essi hanno ottenuto dagli stessi politici che li avevano nominati. Il caso più recente sono i tagli che il ministero per lo Sviluppo economico aveva proposto, superando mille resistenze interne, e che il ministero dell’Economia ha ignorato, escludendoli dalla legge di Stabilità.

In Gran Bretagna il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha presentato una settimana fa la sua spending review, la seconda dopo quella annunciata nel 2010, con i conservatori di nuovo al governo. La lettura del discorso di Osborne in Parlamento consente un confronto illuminante con l’Italia. Prima di tutto, che si sia d’accordo o meno con Osborne, la sua spending review è chiarissima, piena di numeri, sintetica, comprensibile e disegna un piano pluriennale che si estende fino al 2020 cosicché gli inglesi sappiano che cosa aspettarsi nei prossimi anni. Secondo: Osborne non si siede sugli allori di una economia che ha ricominciato a crescere (+2,5% quest’anno, secondo le previsioni dell’Economist Intelligence Unit, più degli stessi Usa), ma propone di «riparare il tetto» della finanza pubblica finché c’è il sole non aspettando quando potrebbe ricominciare a piovere.

Noi invece, non appena la crescita sale di mezzo punto sopra lo zero, cantiamo vittoria e di tagli nessuno più parla (tranne lamentarsi poi per qualche decimale di crescita in meno). Terzo: Osborne riduce il peso dello Stato sull’economia britannica. Il suo piano arresta, anzi inverte la crescita della spesa: nel 2020 quella complessiva, valutata a prezzi costanti, sarà dell’1% più bassa di dieci anni prima. E poiché, grazie ai tagli e alla minore pressione fiscale, nel frattempo l’economia è cresciuta, il peso della spesa pubblica sul Pil scende in un decennio di nove punti (dal 45 al 36 per cento), e anche il rapporto debito/Pil comincia a scendere.
Osborne i suoi «commissari», diversamente da noi, li ha usati bene. Per esempio, per ridurre gli sprechi negli acquisti del ministero della Difesa, Osborne nel 2010 assunse un manager dal settore privato, Bernard Gray. In cinque anni Gray ha rivoluzionato gli approvvigionamenti della Difesa, partendo dalla trasparenza negli appalti. La sua nomina ha fatto infuriare generali e ammiragli perché Gray ha l’abitudine di fare domande che i militari non vogliono sentirsi porre. Ma l’appoggio incondizionato di Osborne li ha zittiti. Il risultato sono stati risparmi di quasi 4 miliardi di sterline in cinque anni.

Alcune misure di Osborne sono state fortemente criticate. Certo che viste dall’Italia risolverebbero molti problemi. Ad esempio i tagli ai tribunali compensati con il trasferimento di una parte del costo del «servizio» sugli imputati. Chissà che questo non sia un modo per ridurre la litigiosità degli italiani e far funzionare meglio la giustizia?

La cura Osborne, meno spesa e meno tasse, funziona aiutata solo in parte dalla svalutazione della sterlina nei due anni precedenti all’arrivo al governo dei conservatori. L’economia cresce e così aumentano anche le entrate dello Stato, a pari aliquote e in qualche caso con aliquote ridotte . Ciò ha consentito di aumentare dal prossimo anno le pensioni (del 3%) e di prevedere un aumento di 10 miliardi di sterline (da qui al 2020) nel bilancio della sanità pubblica. Non della scuola, e questo è il punto più debole di un programma che fa di più per gli anziani (sanità e pensioni appunto) che per i giovani.

La chiarezza e la trasparenza del progetto di Osborne consentirà agli inglesi, fra cinque anni, quando torneranno a votare, di decidere se ha mantenuto le sue promesse. Un altro mondo rispetto all’Italia dove spending review parziali vanno e vengono e sono subito dimenticate, dove tagli minimi alla spesa paiono manovre erculee e sono bollati dalla gran parte dei politici come un attacco allo Stato sociale; dove la burocrazia è spesso un ostacolo insormontabile ai tagli per la semplice ragione che il potere dei burocrati deriva dall’amministrare la spesa pubblica, anche quella inutile; dove i cittadini fanno fatica a capire se fra un anno le aliquote dell’Iva aumenteranno (e quindi converrebbe anticipare alcuni acquisti), o se quell’aumento, oggi previsto dalla legge di Stabilità come clausola di garanzia, verrà rimandato. L’incertezza non facilita i consumi e tantomeno gli investimenti.

2 dicembre 2015 (modifica il 2 dicembre 2015 | 07:12)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_02/lezione-inglese-spesa-349a8106-98bb-11e5-85fc-901829b3a7ed.shtml
7353  Forum Pubblico / L'ITALIA, FATTI e FETENTI dei nostri PANTANI, dei TUGURI e delle CLOACHE / Detenuti lasciati nudi e percossi ... ANCHE PER NOI E' TORTURA. inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:35:00 pm
Asti, detenuti lasciati nudi e percossi: per la Corte Europea è tortura
I fatti risalgono al dicembre 2004: i due reclusi vennero portati in isolamento senza vestiti e senza coperte, col cibo razionato.
Per giorni sono stati insultati e picchiati.  Lo Stato propone un risarcimento di 45mila euro ciascuno


02 dicembre 2015

Carcere di Asti, 10 dicembre 2004: due detenuti vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri nonostante il freddo, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello. Viene loro razionato il cibo e impedito di dormire, sono insultati e sottoposti per giorni a percosse quotidiane con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo giungendo, nel caso di uno dei due, a schiacciargli la testa con i piedi. Ora la Corte europea dei diritti umani rende giustizia a quei detenuti, decidendo di dichiarare ammissibile il loro ricorso per tortura. Lo Stato italiano ha proposto una composizione amichevole di 45.000 euro per ciascuno dei due ricorrenti.

La vicenda giudiziaria, la cui conclusione provvisoria è accolta con soddisfazione da Amnesty International Italia e Antigone, ebbe inizio a seguito di due intercettazioni del 19 febbraio 2005 nei confronti di alcuni operatori di polizia penitenziaria sottoposti a indagine per altri fatti. Si arrivò quindi al rinvio a giudizio degli indagati dopo oltre sei anni dai fatti, il 7 luglio 2011. Il 30 gennaio 2012 si arrivò alla sentenza di primo grado e la Corte di Cassazione chiuse processualmente il caso il 27 luglio dello stesso anno. Per nessuno dei responsabili si arrivò a condanna, in quanto non esistendo il reato di tortura, si procedette per reati di più lieve entità arrivando, nel caso di due, a prescrizione, mentre per altri due indagati l'assoluzione arrivò per motivi procedurali. Il giudice comunque mise nero su bianco che i fatti, pur qualificandosi come tortura ai sensi della Convenzione Onu contro la tortura, non potevano essere perseguiti come tali poichè in Italia non esiste una legge che riconosca il reato di tortura.

Antigone si costituì parte civile nel procedimento collaborando con l'avvocata Simona Filippi, difensore civico dell'associazione, a predisporre i ricorsi alla Corte europea dei diritti umani. Alla stesura e alla presentazione degli stessi collaborò anche Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. "Quella della Corte europea è una decisione di importanza enorme che riguarda la tortura in un carcere italiano", dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Il Governo ammette sostanzialmente le responsabilità e si rende disponibile a risarcire i due detenuti torturati ad Asti. Come aveva scritto a chiare lettere il giudice di Asti nella sentenza del 2012, si era trattato di un caso inequivocabile, e impunito, di tortura". "La decisione dello stato italiano di proporre una transazione è un dato positivo, in quanto rappresenta l'ammissione che nel carcere di Asti vennero commessi atti di tortura", aggiunge l'avvocato Filippi.

"Naturalmente, saranno le vittime a decidere se accettare la composizione amichevole. Da parte nostra, anche alla luce di questi sviluppi, chiediamo ancora una volta all'Italia di introdurre il reato di tortura nel codice penale, definendo la fattispecie in termini compatibili con la Convenzione Onu contro la tortura e la Convenzione europea dei diritti umani", conclude Antonio Marchesi.

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02 dicembre 2015

DA - http://torino.repubblica.it/cronaca/2015/12/02/news/la_corte_europea_riconosce_due_casi_di_tortura_nelle_carceri_italiane-128612759/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_02-12-2015

7354  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / STANNO MONTANDO UN NUOVO "CASUS BELLI" COME NEL 1914? inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:32:51 pm
La Nato si allarga a est: entra il Montenegro
L'annuncio del segretario Stoltenberg: sarebbe il 29esimo Paese membro dell'Alleanza atlantica.
La Russia sospende collaborazione militare e annuncia possibili ritorsioni.
La replica di Gentiloni e Kerry: "Non è una decisione contro qualcuno"

02 dicembre 2015
   
BRUXELLES - I ministri degli Esteri della Nato riuniti a Bruxelles hanno deciso di invitare il Montenegro ad entrare nell'Alleanza come 29mo Paese membro. Lo ha annunciato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, sottolineando come "la decisione storica di avviare colloqui di adesione con il Montenegro" sia stata presa all'unanimità. Un passo di espansione sul fronte est che naturalmente trova la forte opposizione della Russia. La prima reazione è l'annuncio della sospensione di ogni collaborazione militare tra Mosca e Podgorica: nel caso l'ex Paese comunista si unisse alla Nato - ha detto il senatore Viktor Ozerov, capo del Comitato di difesa e sicurezza della Federazione - la Russia terminerà i suoi progetti bilaterali, compresi quelli militari. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha detto che "la continua espansione del Trattato del Nord Atlantico verso est potrebbe portare a misure di ritorsione da parte Russia". Dopo le rassicurazioni di Gentiloni e di Kerry sul fatto che il passaggio del Montenegro nella Nato non è una manovra contro la Russia, il Cremlino ha annunciato di essere disposto a riprendere la collaborazione.

Il premier montenegrino Milo Djukanovic ha parlato oggi di "giornata storica" per il suo Paese. E' il giorno più importante per il Montenegro dopo il referendum del 2006 per l'indipendenza", ha aggiunto il premier. Secondo il capo della commissione Esteri della Camera bassa del Parlamento russo Alexei Pushkov, l'adesione del Montenegro alla Nato non riflette la volontà del popolo montenegrino. "Secondo i sondaggi, il governo non riuscirebbe a guadagnare la maggioranza richiesta nel caso di un referendum" di adesione alla Nato. "Pertanto, non si può parlare della volontà del popolo, a mio avviso", ha detto Pushkov secondo il quale l'adesione all'Alleanza Atlantica non si allineerebbe nemmeno con gli interessi europei ma rappresenterebbe solo "una linea strategica di lunga data degli Stati Uniti e delle élite filo-Nato per ampliare e sottomettere l'Europa al dominio degli Stati Uniti attraverso la Nato".

La replica/1: Gentiloni. La decisione della Nato di allargare l'alleanza al Montenegro non deve essere considerata "una decisione contro qualcuno". Lo ha sottolineato il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. L'obiettivo, ha precisato il titolare della Farnesina, è "rafforzare la sicurezza sia nella zona dei Balcani che in quella dell'Adriatico: quindi - ha aggiunto - interessa direttamente il nostro Paese".

La replica/2: Kerry. L'allargamento della Nato non è diretto contro la Russia: lo ha assicurato il segretario di Stato Usa, John Kerry.
Il capo della diplomazia Usa ha sottolineato che "la Nato è un'alleanza difensiva che esiste da 70 anni" e "non costituisce una minaccia per nessuno. Non è un'organizzazione offensiva e non è focalizzata sulla Russia, né su nessun altro".

L'apertura di Mosca. Dopo le rassicurazioni di Gentiloni e Kerry, Mosca ha annunciato di essere pronta a riprendere i contatti con la Nato nel Consiglio Nato-Russia. Lo ha affermato il ministro degli Esteri, Serghei Lavrov. Niente rappresaglia, dunque. "Se il segretario generale Stoltenberg proporrà questa iniziativa, siamo pronti a vedere e sentire cosa hanno da dirci i nostri colleghi della Nato".

Nel 2009 Croazia e Albania. Dopo la Croazia e l'Albania, entrati nel 2009, il Montenegro sarà il terzo stato dei Balcani Occidentali ad aderire all'Alleanza Atlantica. Sui tempi del processo di adesione del Montenegro alla Nato, il segretario generale ha indicato di attendersi che si possano concludere "all'inizio" del 2017, poi - ha detto - "ci sarà la procedura di ratificazione nei 28 parlamenti" che l'ultima volta ha "richiesto circa un anno". Da subito, compreso il summit dei leader dell'Alleanza in programma l’8-9 luglio prossimo a Varsavia, il Montenegro però "potrà partecipare, senza diritto di voto" a tutti gli incontri istituzionali della Nato.

Ora la Nato, spiega il segretario generale Stoltenberg, si aspetta che il Paese "continui il cammino delle riforme" soprattutto "sull'adeguamento della Difesa, sulle riforme interne, specialmente sullo stato di diritto, e che continui a fare progressi nel dimostrare pubblico sostegno" all'ingresso del Montenegro nell'alleanza. Questo è un "momento storico per il nostro Paese" sottolinea il ministro degli Esteri montenegrino, Igor Lukuic, secondo cui l'invito della Nato è anche "una grande notizia per i Balcani occidentali perché significherà più stabilità per l'intera regione". Quella di oggi, afferma Lukuic è " una decisione molto attesa che è anche la ricompensa per anni di duro lavoro". Lavoro che deve continuare: "l'invito non è la fine del processo ma l'inizio del passo successivo, le riforme continueranno", assicura. Il percorso di adesione prevede anche la ratifica del protocollo di accesso del Montenegro alla Nato da parte dei parlamenti nazionali dei ventotto alleati. "La porta della Nato è aperta", assicura Stoltenberg, anche per Bosnia Erzegovina, Georgia ed ex repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) il cui cammino per l'ingresso rimane per il momento bloccato: "Faremo tutto quello che è possibile per aiutarli a raggiungere questo obiettivo, giudicando ogni paese candidato sui propri meriti e li incoraggiamo a continuare lungo il cammino delle riforme", conclude Stoltenberg.

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02 dicembre 2015

DA - http://www.repubblica.it/esteri/2015/12/02/news/nato_montenegro-128607641/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_02-12-2015
7355  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Zingales: “Far pagare tanti soldi a tutti: amministratori, revisori, sindaci,... inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:28:10 pm
Banche e salvataggi, Zingales: “Far pagare tanti soldi a tutti: amministratori, revisori, sindaci, dirigenti e controllori”

L'economista della University of Chicago Booth School of Business commenta a ilfattoquotidiano.it la versione italiana del nuovo bail-in: "Finché a pagare è il contribuente, non ci sono incentivi per far causa alle attività di vigilanza. Con il nuovo meccanismo ci saranno più incentivi a promuovere delle class action anche nei confronti di Banca d’Italia e Consob"


Di Paolo Fior | 28 novembre 2015

Cresce la preoccupazione in vista dell’introduzione del bail-in anche in virtù del recente salvataggio di Banca delle Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti che ha determinato il completo azzeramento del capitale degli azionisti e dei possessori di obbligazioni subordinate. Oltre 1,2 miliardi di euro andati in fumo e migliaia di correntisti furibondi perché i loro risparmi sono stati cancellati da un giorno con l’altro con un semplice tratto di penna. Con l’introduzione del bail-in ai risparmiatori non verranno date più tutele, anzi: le raccomandazioni sulla trasparenza delle procedure e sulle garanzie di equo trattamento non sono state recepite dall’Italia. Come conseguenza, cresce la sfiducia nei confronti delle banche e aumenta il rischio di una corsa agli sportelli, mentre i costi della raccolta per le banche minori potrebbero salire vertiginosamente. Per capire quali problemi solleva il nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie e quali correttivi sarebbe opportuno introdurre abbiamo interpellato Luigi Zingales, Robert C. McCormack professor of Entrepreneurship and Finance alla University of Chicago Booth School of Business.

Professore, con il bail-in si vuole evitare che a pagare le crisi bancarie siano i contribuenti, ma i problemi che si aprono rischiano di essere ben maggiori…
L’idea di non trasferire sulla collettività i costi dei salvataggi è sacrosanta. Con il bail-in si trasferisce il rischio delle insolvenze agli investitori e ai correntisti e si incentiva dunque il regolatore a essere severo: basta guardare l’attivismo della Banca d’Italia in questi ultimi sei mesi, su spinta anche della Bce. Sotto questo profilo si potrebbe quindi dire che a livello complessivo il rischio non solo si trasferisce, ma tende anche a ridursi grazie alla maggior efficienza del sistema. Tuttavia c’è anche un altro aspetto, ed è l’aumento del rischio sistemico di corse agli sportelli quando i soldi dei depositanti sono a rischio. Negli Stati Uniti dopo la crisi di Lehman Brothers si è verificata una corsa agli sportelli nel settore del mercato monetario, fermata solo da una garanzia statale.

A suo giudizio l’effetto netto che si avrà con l’introduzione del bail-in tenderà a essere più positivo o negativo?
Difficile a dirsi. Il problema sistemico si risolve con l’intervento della banca centrale che in caso di crisi di liquidità deve garantire interventi massicci a sostegno delle banche. E questo dovrebbe essere pacifico in caso di crisi generale. Ma in una crisi su base regionale, localizzata ad esempio in Italia, la Bce interverrebbe in modo deciso? La scorsa estate con la crisi di liquidità in Grecia abbiamo assistito a interventi a singhiozzo. Dunque, questa sicurezza manca.

Una fonte di preoccupazione è che il meccanismo del bail-in possa determinare una spinta al consolidamento del settore bancario, facendo sparire le realtà più vicine al territorio e alle piccole imprese, aggravando in questo modo il problema del finanziamento delle attività produttive…
E’ vero che le banche popolari e cooperative hanno una funzione importante per le piccole imprese e per il territorio, ma è anche vero che si sono spesso creati circoli viziosi che non promuovono innovazione e imprenditorialità. I finanziamenti vanno sempre alle stesse imprese e la difesa del territorio, che in sé sarebbe giusta, viene sempre più spesso utilizzata per proteggere interessi corporativi, politici e talvolta anche per coprire i manigoldi. Un consolidamento del settore sarà probabilmente inevitabile, ma occorre una politica antitrust seria, volta a ridurre i rischi per il credito derivanti da eccessive concentrazioni e molta, molta prudenza nel promuovere le fusioni bancarie. Le fusioni piacciono molto alle banche centrali, ma non sempre sono positive.

Con il bail-in però i risparmiatori si ritrovano in portafoglio titoli che hanno improvvisamente assunto un altro livello di rischio. Non sarebbe stato meglio prevedere un maggiore gradualismo?
Il gradualismo comporta grossi problemi e distorsioni per il mercato. Applicare il bail-in ai soli titoli emessi a partire da gennaio 2016 avrebbe comportato una concentrazione delle emissioni in quest’ultima parte dell’anno, creando non solo distorsioni ma anche problemi di equità tra possessori di identiche categorie di titoli. Un’obbligazione bancaria emessa negli anni scorsi aveva ed ha lo stesso profilo di rischio dell’obbligazione bancaria che rientra nel meccanismo del bail-in, nel senso che non era e non è un’obbligazione garantita. Questi strumenti sono stati invece collocati come “sicuri”, come se avessero una garanzia implicita, e il rischio non è stato prezzato. Il problema qui è quello di chi li ha collocati in quel modo e, soprattutto, di chi glielo ha fatto fare impunemente. Mi riferisco ovviamente alle autorità di vigilanza.

Una crisi bancaria che si trascina per anni fino ad arrivare alle estreme conseguenze è in realtà un fallimento dell’attività di vigilanza. Perché è così difficile chiedere risarcimenti alle autorità di vigilanza quando sbagliano?
L’attività di vigilanza ha dimostrato molte carenze, basti vedere i nodi che sono venuti al pettine quando la vigilanza delle maggiori banche è stata trasferita alla Bce. Finché a pagare è il contribuente, non ci sono incentivi per far causa alle attività di vigilanza. Con il nuovo meccanismo di bail-in ci saranno, molto più che in passato, gli incentivi a promuovere delle class action anche nei confronti della Banca d’Italia e della Consob. E questa possibilità costringerà le autorità a essere più severe e più attente.

Ancora una volta però i risparmiatori si ritrovano a pagare, mentre chi ha violato le regole e commesso reati resta impunito. Non sarebbe il caso di aumentare le sanzioni per i reati finanziari e accorciare anche i tempi della giustizia
Sono d’accordo, soprattutto sul fatto di inasprire sanzioni e risarcimenti più che le pene. Far pagare tanti soldi, soldi veri, a tutti: amministratori, revisori, sindaci, dirigenti, controllori. Solo così si può migliorare il sistema e mantenere la fiducia dei risparmiatori. Sono convinto che se c’è la volontà politica si può fare in tempi brevi.

di Paolo Fior | 28 novembre 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/28/banche-e-salvataggi-zingales-far-pagare-tanti-soldi-a-tutti-amministratori-revisori-sindaci-dirigenti-e-controllori/2260219/
7356  Forum Pubblico / CENTRO PROGRESSISTA e SINISTRA RIFORMISTA, ESSENZIALI ALL'ITALIA DEL FUTURO. / ARLECHIN BATOCIO, IL NOSTRO ARLECCHINO... ERA UN TERRONE “EMIGRATO”: D inserito:: Novembre 30, 2015, 03:28:00 pm
ARLECHIN BATOCIO, IL NOSTRO ARLECCHINO... ERA UN TERRONE “EMIGRATO”: D

 29 AGOSTO 2015 DI MILLO BOZZOLAN

Di Massimiliano Verde

Tutto il mondo conosce la celeberrima maschera bergamasca di Arlecchino, amatissimo dai grandi e dai piccini con i suoi sberleffi, salti, piroette e col suo abito di mille colori carnascialeschi.

Arlecchino Chi direbbe però che l’origine di questa maschera universalmente conosciuta e rappresentativa della Commedia dell’Arte sia molto più a Sud del fu Lombardo-Veneto?

Occorre infatti viaggiare a ritroso nel tempo almeno fino ai tempi delle c.d. fabulae atellanae, genere di farsa con cui le popolazioni osche della cintura di Atella (comprendente il territorio a cavallo tra gli attuali Agro Aversano ed Agro afragolese), in stretto contatto con la cultura greca delle genti dell’Italia meridionale, “peparono” le farse filiace, già molto diffuse nelle colonie doriche, in particolare a Taranto e Siracusa, con rustici contrasti tra “maschere” fisse quali quelle, tra le altre, del padrone avaro e del servo geloso, che si muovevano nel mezzo di piccanti scenette intrise di contorsioni, smorfie, acrobazie, inseguimenti, spettacolari cadute ecc.

Il servo geloso sarà poi lo “zanni” cioè il rozzo servo del Lombardo-Veneto che si evolverà nell’acrobatico Arlecchino nella Commedia dell’Arte: proprio come la Commedia dell’arte, anche l’Atellana, infatti disponeva come si é detto di maschere fisse con attori di professione che improvvisavano in base ad un semplice canovaccio dando vita a storie di beffe e di aggrovigliati inghippi, le cosiddette tricae.

Probabilmente allora, per tornare al tema del nostro Arlecchino, prima ancora che versione veneta del nome Gianni, il termine “zanni”, appunto servo del Lombardo-Veneto deriva da “Samnius”, il rozzo e sciocco Sannio ovvero il buffone ridicolo descritto da Cicerone nel De Oratore e da Vossio nelle Instituzioni Poetiche ma a sua volta forse originario dal nome di tzani, popolo asiatico definito come “rozzo” dai padri greci, cui appunto le atellane si rifacevano mettendo in scena la rozza maschera buffonesca di cui sopra.

La natura mimica e da giocoliere che connota Arlecchino, la bizzarra veste multicolore, la spada di legno ed il capo canuto si ricollega infatti almimus centunculus, cioé al mimo atellano (e poi latino) abbigliato con vestito appunto pluricolorato come ci ricorda lo scrittore e filosofo romano Apuleio (si noti inoltre che i mimi latini che “recitavano” le atellane si annerivano il viso con la fuliggine prima di entrare in scena...)

L’Atellana rappresenta anche il punto di incontro fra le arcaiche figure del proto teatro etrusco e gli archetipi di quello che sarà il teatro comico moderno : diversi studiosi infatti considerano “tracce” della maschera di Arlecchino quelle affrescate dalla mano di un pittore greco-orientale in alcune tombe etrusche, dove si materializza un personaggio dall’abito “arlecchinesco” insieme infernale e farsesco, il Phersu, probabilmente derivato sempre dal mito greco di Persefoneregina degli inferi (curiosamente Phersu significa proprio maschera…)

Infatti la maschera di Arlecchino viene considerata anche “fisicamente” pure nella sua accezione demoniaca, infernale (il ghigno diabolico, la presenza di un corno o di un bozzo, residuo di un corno; Dante ne scrive nella Divina Commedia e lo ritroviamo in questa connotazione pure in tutto il Medioevo francese) una specie di (povero) capo diavolo, traghettatore di quelle che a Napoli chiamiamo ancora oggi anime del Purgatorio  od anime pezzentelle : caratteristiche della maschera quindi, buffonesche/farsesche ed infernali ma anche di rozza primitività o bestialità e quindi satiri…che (la maschera in genere nasce per coprire i defunti ed allontanarne i demoni o per farsi beffe di questi ultimi, ridicolizzandoli od indurli al riso), connotati che contraddistinguevano appunto le maschere atellane  che grande contributo apporteranno alla nascita della Commedia dell’arte all’italiana, con la maschera di Arlecchino e non solo….

Massimiliano Verde

DA - http://venetostoria.com/2015/08/29/arlechin-batocio-il-nostro-arlecchino-era-un-terrone-emigrato-d/
7357  Forum Pubblico / CENTRO PROGRESSISTA e SINISTRA RIFORMISTA, ESSENZIALI ALL'ITALIA DEL FUTURO. / ISemplici-Cittadini ... inserito:: Novembre 30, 2015, 03:25:16 pm
Arlecchino De' ISemplici. -

Vorrei riuscire a "lanciare" un mio secondo modo di fare comunicazione usando un nick diverso da quello mio storico (20 anni circa).

Lo userei per portarvi temi e argomenti meno vicini alla politica perchè più legati alla cultura e alla realtà dei Semplici (ISemplici).

Mi piacerebbe riuscirci.

ciaooooo
7358  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / E. GALLI DELLA LOGGIA La tentazione degli intellettuali: l’Occidente sempre ... inserito:: Novembre 30, 2015, 03:12:48 pm
Polemiche
La tentazione degli intellettuali: l’Occidente sempre colpevole
Contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente una voce in difesa della giustizia offesa


Di Ernesto Galli della Loggia

Anche di fronte al terrorismo islamista una parte dell’intellettualità italiana sembra non poter fare a meno di giudicare la civiltà occidentale sempre come la più colpevole; o perlomeno malvagia e iniqua al pari di ogni altra. Rosetta Loy, per esempio, si domanda sul Fatto di venerdì scorso con quale faccia possiamo mai sentirci autorizzati, proprio noi, abitanti di questa parte del mondo e autori di alcune tra le peggiori nefandezze della storia, a lanciare parole di accusa contro gli autori della strage di Parigi.

Se lo chiede ricordando a mo’ di esempio il terrificante sistema di sfruttamento e sterminio messo in piedi alla fine dell’800 in Congo da quel vero criminale che fu Leopoldo II del Belgio. E naturalmente lo fa in polemica con il profluvio d’inni alla triade Liberté, Egalité, Fraternité ascoltati in questi giorni.

Non tiene conto però, Rosetta Loy, di un particolare decisivo. E cioè che contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente, perlopiù ispirata dai principi cristiani, una voce in difesa della giustizia offesa. Da quella di Las Casas e poi dei Gesuiti delle «Reducciones», denunciatori degli orrori della Conquista ispanica delle Americhe, a quella - che pure lei stessa ricorda - di Mark Twain, Conan Doyle, Joseph Conrad; voce che a proposito del Congo ebbe un’eco vastissima. Talmente vasta che il governo britannico incaricò un suo diplomatico, Roger Casement, di un’indagine in loco che, resa pubblica nel 1904, illustrò apertamente «la riduzione in schiavitù, le mutilazioni e le torture subite dagli indigeni nelle piantagioni della gomma».

Voci di denuncia che tra l’altro sono state spesso proprio di intellettuali, come sono specialmente degli intellettuali ebrei quelle che oggi denunciano in Israele le ingiustizie subite dagli arabi. Accade, è accaduto qualcosa di simile altrove? A me non pare. A Rosetta Loy non so.

29 novembre 2015 (modifica il 29 novembre 2015 | 10:46)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_29/tentazione-intellettuali-l-occidente-sempre-colpevole-ed9a28e6-967c-11e5-bb63-4b762073c21f.shtml
7359  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / PD È tempo che Renzi prenda in mano il partito inserito:: Novembre 30, 2015, 03:10:06 pm
È tempo che Renzi prenda in mano il partito
Pd   
Il problema non è la coincidenza tra segretario e premier, ma la necessità di ridimensionare il potere del ceto politico cristallizzatosi negli ultimi vent’anni

L’articolo 3, comma 1 dello Statuto del Pd definisce con queste parole la carica di segretario: “Il segretario nazionale rappresenta il Partito, ne esprime l’indirizzo politico sulla base della piattaforma approvata al momento della sua elezione ed è proposto dal Partito come candidato all’incarico di presidente del Consiglio dei ministri”. La norma – come del resto l’intero Statuto – fu approvata a grandissima maggioranza il 16 febbraio 2008 nel corso della seconda riunione dell’Assemblea costituente nazionale del Pd. Tutto il gruppo dirigente votò compattamente a favore. L’identità di segretario e (candidato) premier è dunque inscritta nel codice genetico originario del Pd, in linea peraltro con il modello diffuso nella generalità dei Paesi europei, dove il leader del partito è anche, in caso di vittoria elettorale, il capo del governo.

Bisogna partire da quel giorno lontano – Matteo Renzi era il semisconosciuto presidente della provincia di Firenze – se si vuole affrontare con onestà la discussione sul partito che si è aperta, invero un po’ confusamente, in questi giorni. Non c’è nessun “uomo solo al comando” che, con arroganza cesarista, vuole accentrare su di sé due funzioni separate o addirittura incompatibili: c’è invece un leader democraticamente eletto che rispetta le regole scritte e approvate dai suoi predecessori.

Chi dunque chiede a Renzi di lasciare la segreteria del Pd, non importa con quali argomenti o motivazioni, dovrebbe chiedere invece una modifica dello Statuto, così come prevede l’art. 42: il che è naturalmente possibile (sebbene curiosamente avvenga con sette anni di ritardo), ma richiede giustificazioni teoriche e politiche un poco più solide del richiamo alle pratiche oligarchiche del passato o della constatazione che il Pd, in periferia, non gode di ottima salute.

E’ vero tuttavia che il Pd non gode di buona salute: o, per meglio dire, mostra all’opinione pubblica due volti diversi, e spesso contraddittori, a Roma e (quasi ovunque) nel resto d’Italia. Da una parte si è venuta formando una nuova classe dirigente impegnata al governo, in parlamento e al Nazareno; dall’altra sopravvive un ceto politico locale in gran parte protagonista di stagioni ormai passate, “renziano” più a parole che nei fatti, e sostanzialmente impermeabile al mondo degli elettori e dei simpatizzanti, molti dei quali trovano sbarrata la strada della partecipazione e della militanza.

C’è dunque bisogno di una profonda ristrutturazione del modo d’essere e di funzionare del partito, che ridimensioni lo spazio e il potere del ceto politico cristallizzatosi in questi vent’anni e apra porte e finestre ad una nuova generazione di elettori e attivisti, fra i quali selezionare nuovi gruppi dirigenti locali, nuovi sindaci, nuovi governatori. E’ un processo complesso e lungo, che richiede un impegno straordinario e che non può essere più rimandato, né sottovalutato. Le campagne elettorali per le amministrative, il referendum e le politiche hanno bisogno di un partito rinnovato e funzionante.

Nessuno meglio di Renzi può dedicarsi a questo compito. Perché è il segretario del partito, naturalmente. E perché ha le idee, le competenze e l’autorevolezza necessarie all’impresa. E’ tempo che Renzi prenda in mano il Pd, con determinazione e risolutezza, e gli dedichi il tempo e l’energia che servono. Un paio di giorni a settimana lasci dunque palazzo Chigi e si trasferisca al Nazareno, giri le federazioni e i circoli, lavori fianco a fianco con la segreteria (rinnovata o meno), ricostruisca e diriga, convinca chi vuole andarsene e promuova chi vuole entrare. Il Pd ha un segretario robusto e determinato: è tempo di approfittarne.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/e-tempo-che-renzi-prenda-in-mano-il-partito/
7360  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Maurizio Caprara L’INTERVISTA ROMANO PRODI inserito:: Novembre 30, 2015, 03:07:54 pm
L’INTERVISTA ROMANO PRODI
Siria, Prodi: «Vicini alla Francia senza ripetere l’errore della Libia»
L’ex premier commenta la possibilità che l'Italia si impegni maggiormente sul fronte siriano: «Lasciamo a Parigi il compito che si è assunta»

Di Maurizio Caprara

«Da un anno sostengo che senza un grande accordo tra Stati Uniti e Russia non si può uscire dal buco. Sia dal buco siriano sia da quello libico. L’intesa tra Francois Hollande e Vladimir Putin può favorire questo, però va studiata, approfondita in tutti i particolari. È stato un cambiamento improvviso. Certo, se prepara un forte impegno russo e americano contro l’autoproclamato Califfato è l’ideale. È benedetto», dice Romano Prodi. Ma si capisce presto che su questo ha più di un dubbio.
Il cattolico di centrosinistra ex presidente della Commissione europea ed ex presidente del Consiglio italiano ha girato in ruoli non defilati tra Washington, Mosca, Europa e Medio Oriente almeno da quando era ministro dell’Industria nel 1978 e ‘79. Per l’Onu si è occupato delle missioni di pace in Africa. Dopo il viaggio di giovedì del presidente francese Hollande al Cremlino da Putin, Prodi guarda ai movimenti in corso in campo internazionale come se molto si sia messo in movimento potendo dare alla fase successiva alle stragi del 13 novembre a Parigi sbocchi molteplici e diversi tra loro. Tali da suggerire all’Italia di non compiere mosse affrettate, soprattutto militari, pur di essere protagonista. E di tenersi in raccordo con un altro Paese assai prudente sul bombardare direttamente in Siria: la Germania.

Il «cambiamento improvviso» in corso, professore, sarebbe la svolta della Francia da nemica a quasi alleata del presidente siriano Bashar el Assad, insidiato dai guerriglieri integralisti islamici?
«È un mutamento a 180° gradi che rafforza la posizione russa, presente militarmente in Siria, e cambia lo scenario del Medio Oriente. Prima a raccomandare cautela sul cacciare subito Assad eravamo noi».
Comprensibile che l’Italia non si affretti a bombardare l’autoproclamato Califfato se non vede progetti chiari su come poi stabilizzare Iraq e Siria. Ma basterà fornire appoggi ai francesi su altri versanti, compensare i loro trasferimenti di soldati dalla missione internazionale in Libano e fare da tramite con interlocutori difficili per l’Occidente? Uno era la Russia, adesso ci parla Hollande.
«Noi siamo già impegnati con truppe in mantenimenti di pace. Trovo saggio il comportamento tedesco, simile al nostro. Noi abbiamo Tornado nello scacchiere del Califfato e siamo impegnati in altri nei quali i tedeschi non lo sono. Possiamo aiutare i francesi in Libano. Però siamo già lì, in Afghanistan, Iraq, Kosovo. E rispetto a Berlino abbiamo una priorità, scontri in Libia ai quali prestare attenzione».
Quindi?
«Dobbiamo essere vicini alla Francia, ma lasciando alla Francia il compito principale che si è assunta».
Ossia bombardare in Siria e tirare le fila di una coalizione per questo. L’incandescenza della Libia e l’attesa di un accordo tra le fazioni in lotta suggerisce all’Italia di tener pronti altri militari oltre ai seimila già all’estero?
«Per lo meno di tenere massima attenzione verso il fronte più vicino a noi e di favorire un accordo tra tutte le fazioni. Conosciamo quel Paese e la sua complessità meglio di altri».
Non è difficile capire che pensa alla Francia, la prima ad attaccare Tripoli nel 2011.
«La solidarietà alla Francia per le stragi subite va data, però non possiamo negare che c’è stato un suo cambiamento di fronte immediato: Assad, da nemico assoluto, è diventato alleato. Il nostro nemico, l’Isis o Daesh, è comune. Tuttavia su un’entrata in guerra non è che si possa aderire a cambiamenti neppure comunicati prima che avvengano con fatti compiuti. La strategia va meditata».
Pesa tanto la scottatura libica, l’aver scardinato gli assetti dell’era Gheddafi senza prepararne di migliori?
«La scottatura libica pesa tantissimo. Peserebbe forse anche di più se l’Italia non avesse aderito, benché dopo, alla linea francese. Chiaro che l’attuale governo, diverso da quello di allora, non si identifichi con la guerra del 2011».
Sull’intesa Putin-Hollande come si comporteranno Stati Uniti e Turchia, diffidenti in modi diversi verso Mosca?
«C’è chi dice che gli americani temano un’Europa che si mette d’accordo con Turchia e Russia. Perciò adesso c’è movimento. Gli americani saranno favorevoli a costruire la grande alleanza anti Isis tenendo conto anche dell’Ucraina?».
Intende dire se appoggeranno intese con Mosca fino a chiudere un occhio sull’offensiva russa cominciata in Crimea?
«Diciamo fino a essere più flessibili sulle sanzioni a Mosca. È da vedere. La Francia può ricevere gratitudine statunitense perché oggi obbedisce alla dottrina di Barack Obama, secondo la quale i Paesi interessati devono farsi carico dei problemi delle rispettive zone e gli Stati Uniti se ne devono alleggerire. Però l’alleanza di Europa e Russia non è nello schema strategico americano».
C’è da sperare che non siano fatti traumatici a decidere l’orientamento degli eventi.
«Appunto, occorre dialogare con la Turchia per abbassare le tensioni. Anche per evitare l’episodio drammatico».
C’è stato già l’abbattimento turco dell’aereo russo. Ma per l’Unione Europea ha senso tenere aperta la porta alla Turchia mentre Recep Tayyip Erdogan resta così allergico ad appartenenze a famiglie diverse dalla sua?
«Il negoziato con la Turchia è destinato a durare a lungo. Va tenuto aperto. Ma da presidente della Commissione favorevole ad aprirlo dissi ai turchi: “Ci vorranno 30 anni”. Mi chiesero: perché? Io: “Perché quando c’era qualcosa di spaventoso mia nonna diceva: ‘Mamma li turchi’“. Sentimenti cancellabili con la fiducia dovuta solo a lunga vicinanza».

28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 12:21)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_novembre_28/siria-prodi-vicini-francia-senza-ripetere-l-errore-libia-63e529a8-95bd-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml
7361  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Paolo MIELI Aiutare i «moderati» La guerra culturale al terrore inserito:: Novembre 30, 2015, 03:02:05 pm
Aiutare i «moderati»
La guerra culturale al terrore

Di Paolo Mieli

Cosa vuol dire impegnarsi in una guerra culturale contro gli jihadisti? Per cominciare, significa aiutare coloro che, nel mondo islamico, sono impegnati a costruire un campo aperto all’interlocuzione con chi non segue la legge del Corano. Stiamo parlando di quello che convenzionalmente viene definito «Islam moderato», pur nella consapevolezza che di moderato c’è assai poco nelle realtà statuali o politiche a cui ci stiamo riferendo. Del resto abbiamo usato talmente tante volte quello stesso aggettivo per qualificare impropriamente formazioni d’ogni tipo presenti nel nostro Paese, che una in più non può farci male. In particolare se ci intendiamo, quantomeno approssimativamente, sul significato che diamo a quel termine. E allora, riprendendo il discorso iniziale, dobbiamo dirci apertamente che abbiamo fatto male a lasciar cadere le manifestazioni «not in my name» che il 21 novembre hanno portato in piazza a Roma e a Milano qualche centinaio di «islamici moderati». È vero, i partecipanti sono stati pochi, molto pochi. E qualche goccia di pioggia non basta a spiegare l’esito piuttosto deludente di un’iniziativa peraltro assai ambiziosa. Ma è stata la prima volta dopo qualche decennio di invocazioni a idee di quel genere che qualcosa ha poi preso corpo. E merita siano ricordati i nomi delle persone a cui l’accaduto è riconducibile: Khalid Chaouki, Izzedin Elzir, Abdellah Radouane, Mohamed Guerfi, Abdallah Massimo Cozzolino.

E ancora: il presidente di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, il segretario dei radicali Riccardo Magi. Più altri islamici e un gruppo abbastanza nutrito di politici e sindacalisti italiani (Casini, Camusso, Cicchitto, Manconi, Della Vedova, Fassina, Landini) che, proprio a ragione della sua eterogeneità, costituisce un positivo segnale dell’assenza, per una volta, di quelle partigianerie che tutto vorrebbero ricondurre al tran tran italiano.

Fossimo davvero impegnati non dico in una guerra ma almeno in una battaglia culturale contro lo jihadismo, non avremmo reagito a quella scesa in campo con un’alzata di spalle e qualche ironia. Semmai avremmo fatto osservare agli organizzatori che decidere di dare la parola in pubblico soltanto a uomini è stato un gravissimo errore. Un errore in sé e anche per l’evidente motivo che il ruolo subalterno in cui sono tenute le donne nel mondo islamico (compreso, anzi forse soprattutto, quello non radicale) è di ostacolo all’allargamento e all’espansione del campo «moderato».

Ma c’è dell’altro. Molti degli intervenuti hanno lamentato una disparità di trattamento tra musulmani e non. Ai primi sarebbe stata chiesta una dissociazione dal loro mondo, mentre per i cristiani questo non sarebbe accaduto neanche in «circostanze simili». Una ragazza di Roma convertita all’Islam più di vent’anni fa, Amina Salina, ha denunciato (su La Stampa) che «quando c’è stato Breivik che ha fatto tutti quei morti» nessuno ha chiesto ai cristiani di discolparsi. Amina si riferiva al trentaduenne Anders Breivik che nel luglio del 2011 uccise settantasette persone a Oslo e sull’isola di Utoya e l’anno successivo è stato condannato per quell’ecatombe a ventuno anni di prigione (massimo della pena previsto in Norvegia). Riferimento che curiosamente è tornato spesso in questi giorni: lo spirito di Breivik è entrato in più di un’occasione nel dibattito sul dopo Bataclan. Olivier Roy (su questo giornale) ha detto che gli assassini del 13 novembre gli ricordano l’assassino di Utoya in «modo impressionante»: «Uccidevano con sguardo freddo, con calma e metodo, senza neanche manifestare odio». Il «nichilismo, la rivolta radicale e totale, è - secondo Roy - comune a tutti questi episodi e in Europa prende la forma del jihadismo tra alcuni musulmani di origine o convertiti». Jürgen Habermas (su Repubblica) è riandato anche lui con la memoria a Utoya e ha suggerito di comportarci come fecero i norvegesi in quell’estate del 2011: resistettero «al primo riflesso, alla tentazione di ripiegarsi su se stessi di fronte a un’incognita incomprensibile, di dare addosso al nemico interno».

Curiosa comparazione che, pure, può offrire elementi per riflessioni non improprie. Ma alquanto strana dal momento che - tornando a quel che ha detto Amina - Breivik non aveva in alcun modo un rapporto con il mondo cristiano paragonabile a quello che gli attentatori del Bataclan avevano o, quantomeno, dicevano di avere con quello musulmano. È vero che nel suo memoriale di 1.518 pagine Breivik si era definito «salvatore del cristianesimo»; ma è vero altresì che i magistrati norvegesi lo giudicarono «affetto da disturbo narcisistico della personalità» mettendo in evidenza come la sua opera di «salvazione del mondo cristiano» fosse tutta incentrata su un’aperta polemica contro papa Benedetto XVI. Allora in che senso e perché un cattolico avrebbe dovuto prendere le distanze da lui?

E siamo al punto dell’inizio: una battaglia culturale consiste nel far sì che dopo quelle del 21 novembre ci siano altre iniziative simili a quella qui ricordata. Anche e soprattutto quando (come purtroppo sta già accadendo) l’eco dei fatti che hanno insanguinato la Francia tenderà ad affievolirsi e si tornerà a parlare in modi più astratti di Isis, Assad, Erdogan, Putin e Obama. Consiste nell’impegnarsi a far crescere quelle manifestazioni nel numero dei partecipanti. Ogni volta di più. E soprattutto consiste nel far capire ad Amina che ai nostri occhi lei e quelli come lei non devono discolparsi di nulla. Non deve essere questo il senso del loro uscire allo scoperto. In più dobbiamo convincerla che, anche se fosse, non è vero che a lei sia stato chiesto di dissociarsi da una parte del suo mondo con modalità che i cristiani, quando tocca a loro, non sono tenuti ad adottare. È questa la battaglia culturale: un genere di contributo fatto di fatica, pazienza, sforzo di persuasione, studio, riferimento a dati inoppugnabili. Certo, in momenti come l’attuale, è più facile metter mano alla fondina, lanciare proclami di guerra e minacciare sfracelli. Ma la storia degli ultimi quattordici anni insegna che le stentoree declamazioni della prima ora non portano a nulla. Talvolta portano al peggio.

29 novembre 2015 (modifica il 29 novembre 2015 | 08:38)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_29/guerra-culturale-terrore-b64d183a-9668-11e5-bb63-4b762073c21f.shtml
7362  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Lucrezia REICHLIN. - Una proposta concreta Un’Europa più stabile è possibile inserito:: Novembre 30, 2015, 03:00:26 pm
Una proposta concreta
Un’Europa più stabile è possibile

Di Lucrezia Reichlin

La robustezza di un’economia e delle istituzioni che la governano si giudica dalla sua capacità di affrontare in modo adeguato eventi imprevisti. Lo choc della recessione globale del 2008 è stato un test per la zona euro che aveva appena celebrato quasi 10 anni di stabilità. I sette successivi hanno messo in luce fragilità e inadeguatezze e innescato un processo di riforma che molti, me inclusa, pensano sia ancora inadeguato.

Ma mentre stiamo ancora digerendo la storia degli ultimi sette anni, ecco che l’Europa è colta impreparata da nuove emergenze: l’immigrazione e la sicurezza. Si tratta di un tema complesso, ma non c’è dubbio che qualsiasi risposta si voglia dare, sarà necessario mettere i soldi sul piatto. Per il problema dei migranti nuovi stanziamenti sono indispensabili sia per la difesa dei confini comuni che per la loro integrazione. Pochi Paesi saranno in grado di contribuire senza infrangere le regole del patto di Stabilità che li vincolano a un tetto preciso sul deficit e sul debito. La Francia ha già detto esplicitamente che non rispetterà le regole sul deficit e l’Italia sta giocando con il fuoco. Altri seguiranno.

Ci sono due strade alternative che si possono percorrere. La prima è quella di allentare le regole per tutti e lasciare maggiore flessibilità di spesa ai Paesi. Questa a mio avviso è una strada potenzialmente pericolosa. Come ho scritto più volte, regole che sono oggetto di un continuo negoziato perdono credibilità e finiscono per indebolire il sistema invece di rafforzarlo.

Non dimentichiamoci che anche se le regole del deficit fossero rispettate e la crescita del Pil tornasse ad un tasso medio annuo del 2 per cento, il debito ereditato dalla crisi del 2008 non si eliminerà nell’arco dei prossimi 10 anni. In questa situazione, una flessibilità à la carte potrebbe portare i mercati a dubitare di nuovo della solidità dei Paesi piu indebitati e a provare a testare nuovamente il sistema come nel 2011 e 2012. Per queste ragioni penso che sia non solo auspicabile, ma anche inevitabile, percorrere una seconda strada e aumentare la capacità di spesa dell’Unione emettendo debito federale. Quest’ultimo, in quanto garantito dall’insieme dei governi, sarebbe «sicuro» e non ci esporrebbe quindi al rischio di instabilità finanziaria.

Proposte di questo genere sono state bocciate nel passato in quanto implicano, potenzialmente, un trasferimento di risorse dai Paesi creditori a quelli debitori. Ma allora si trattava di «salvare» alcune banche o qualche Paese, non di mettere risorse in comune per affrontare un problema comune. L’incentivo ad agire insieme è, oggi, più forte. Una proposta in questo senso è appena stata formulata da un documento cofirmato di Emmanuel Macron, ministro dell’Economia francese e Sigmar Gabriel, vice cancelliere e ministro dell’Economia e dell’Ambiente in Germania. Spero che l’iniziativa non rimanga inascoltata e che l’Unione Europea la faccia propria. La zona euro in particolare ne beneficerebbe perché questo sarebbe il veicolo per un’espansione fiscale che altrimenti non sarebbe possibile mettere in opera. Un bond per finanziare la sicurezza e l’integrazione dei migranti, emesso da una agenzia apposita e garantito dall’insieme dei Paesi dell’Unione, potrebbe peraltro essere il primo passo per quella federazione fiscale dell’eurozona di cui tanto si parla ma che stenta a nascere.

Come hanno fatto recentemente notare gli economisti Jacob Funk Kirkegaard e Thomas Philippon, gli Stati Uniti hanno speso nel 2015 per la difesa della loro frontiera 32 miliardi di dollari mentre la disponibilità finanziaria dell’agenzia europea Frontex, che garantisce la sicurezza dei nostri confini, è stata, nello stesso anno, di 140 milioni di euro. Non è pensabile costruire un’Europa prospera e sicura rimanendo prigionieri di regole disegnate per proteggerci dall’instabilità ma che nell’insieme limitano la nostra capacita di azione collettiva.

28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 07:26)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_28/europa-piu-stabile-possibile-lucrezia-reichlin-f4636db2-9597-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml
7363  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. L'Europa è in guerra ma l'Italia è neutrale: chi ha torto? inserito:: Novembre 30, 2015, 02:54:28 pm
L'Europa è in guerra ma l'Italia è neutrale: chi ha torto?

Di EUGENIO SCALFARI
29 novembre 2015
   
 NELL'AMBITO d'una società globale dal punto di vista economico e tecnologico permangono tuttavia notevoli differenze per quanto riguarda la politica, la cultura e la distribuzione delle risorse tra i vari livelli delle categorie sociali, quelle che un tempo si chiamavano classi. Nasce da queste profonde diversità del benessere la mobilità dei popoli ed anche l'andamento del tasso demografico delle varie popolazioni.

Politica, cultura, mobilità dei popoli, religioni: sono questi i fattori dinamici che animano il pianeta, ai quali è doveroso aggiungere la necessità di tutelare il clima, visto che dobbiamo fronteggiare un sempre più elevato inquinamento dell'aria che respiriamo, dei venti, delle tempeste e dello scioglimento dei ghiacciai.
In questo quadro deflagrano anche le guerre, una delle quali sta insanguinando l'Occidente e il Medio Oriente con punte anche nel Maghreb, in Arabia, nell'Africa centrale, nelle Filippine, in Bangladesh.

Noi europei siamo al centro di questa guerra che, nonostante le apparenze, non è tra civiltà e neppure tra religioni. È una guerra tra fondamentalisti e liberali, tra classi evolute e periferie, tra benestanti e poveri, tra corrotti e onesti e perfino tra giovani scapestrati e giovani consapevoli. Insomma è la crisi di un'epoca ed è anch'essa una crisi globale perché i suoi fuochi sono sparsi in tutti i continenti e si intrecciano e si alimentano tra loro.
L'Europa è ampiamente sconvolta da questa crisi e dalla guerra che ne deriva, il fondamentalismo e il terrorismo; per combatterlo in nome della libertà anche la libertà è costretta a limiti più restrittivi.

Avveniva anche nell'antica Roma: quando la guerra era più intensa e l'esito incerto, i consoli venivano sostituiti da un dittatore con pieni poteri per combatterla. Non siamo a questo, ma i poteri politici tendono a concentrarsi in poche mani e le alleanze ad essere guidate da chi agisce sul terreno e dove la guerra è più intensa.

In Europa, almeno finora, il teatro tragico si svolge in Francia, nel Medio Oriente in Siria e in Iraq, in Turchia e nel Kurdistan. La coalizione contro il Califfato comprende non soltanto l'Occidente, ma anche la Russia ed è questa la grande novità: Putin ha come principale interlocutore Hollande, almeno in apparenza, ma in realtà è Obama il vero interlocutore e il ruolo del presidente francese è quello di mediare tra i due, in Europa comunque il leader di questa fase è Hollande e l'inno di guerra la Marsigliese.

Questa è la situazione e i fatti le danno forma.

***

L'Italia è il solo Paese che, pur sostenendo la necessità d'una grande coalizione che comprenda anche la Russia rifiuta di scendere sul terreno militare al di là degli impegni già da tempo assunti, che consistono in tre Tornado in missione quasi quotidiana di avvistamento e indicazione di obiettivi da colpire. Tre giorni fa Hollande ha incontrato all'Eliseo Renzi e si sono parlati per venti minuti. La richiesta francese consiste nella sostituzione di cento militari con altrettanti soldati italiani nel contingente di "caschi blu" dell'Onu in Libano. Renzi ha accettato previa l'eventuale approvazione del Parlamento e questo è tutto.

Il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, in una conferenza stampa di venerdì scorso ha ricordato la tradizionale politica italiana degli ultimi quarant'anni: abbiamo sempre sostenuto una politica di amicizia nei confronti del mondo arabo e iraniano a partire dai tempi di Fanfani e di Andreotti e non è nostra intenzione allontanarci da questa tradizione.

Gentiloni ha dimenticato o forse ha preferito non ricordarlo un altro personaggio che in realtà decideva la nostra politica verso quei Paesi: Enrico Mattei, presidente dell'Eni. Era lui che decideva la nostra politica in quei Paesi per assicurarsi l'utilizzazione del petrolio che veniva estratto dai pozzi e faceva a quei Paesi condizioni di facilitazione economica e politica tali da estromettere la potenza fino allora esercitata da quelle che venivano chiamate le "Sette sorelle", multinazionali americane, inglesi, olandesi. Mattei aveva poteri assoluti per quanto riguarda l'Eni. In Italia finanziava la Democrazia cristiana ma non trascurava i socialisti e neppure i comunisti e i fascisti del Msi. Decideva lui chi doveva essere nominato ministro delle Partecipazioni statali e era lui che diceva al ministro che cosa dovesse fare anziché l'inverso. Finanziò perfino il movimento algerino di liberazione nazionale puntando sul fatto che nel momento in cui i francesi se ne fossero andati dall'Algeria, quel nuovo Stato avrebbe concesso all'Eni l'uso del petrolio e del gas e fabbricato i necessari oleodotti per portare la materia prima alle raffinerie italiane dell'Eni. Poi Mattei per un incidente aereo dovuto al maltempo o forse ad altre cause, morì. Nemici ne aveva soltanto due, le "Sette sorelle" e la mafia.

Queste cose Gentiloni non le sa o più probabilmente le sa ma non le dice, ma la nostra politica in Medio Oriente si spiega soltanto così.

Comunque dal punto di vista attuale siamo sostanzialmente irrilevanti in Medio Oriente e non abbiamo un gran peso in Europa. Renzi rivendica un ruolo di mediatore in Libia per mettere d'accordo le varie fazioni che si combattono. Non c'è riuscito Leon dopo molti mesi di lavoro sotto l'egida dell'Onu. Sembra difficile che possa riuscirci Renzi.

Mi permetto ora di aggiungere un mio suggerimento contenuto nell'articolo di domenica scorsa nei confronti del nostro presidente del Consiglio. Credo che dovrebbe aprire, dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni, campi di accoglienza sulla costiera libica, dove i migranti dovrebbero essere trattati con decenza e dignità, mobilitando medici e anche psicologi e avviando rapidi riconoscimenti di identità e di accertamento dello status di ciascuna delle persone ospitate dai campi di accoglienza: quelli che invocano il diritto d'asilo ed hanno solide motivazioni per richiederlo potrebbero essere trasferiti sulle coste meridionali europee su navi italiane o straniere; gli altri dovrebbero essere rimpatriati nei Paesi d'origine dove la nostra diplomazia ne tratterebbe il rientro con tutte le garanzie del caso.

Naturalmente i campi d'accoglienza dovrebbero essere militarmente difesi contro eventuali incursioni di ladri o facinorosi da un contingente militare di due o tremila uomini, ampiamente sufficienti a tutelare la sicurezza.

Ho anche suggerito in quel mio articolo a Renzi di farsi promotore della cessione di sovranità alle autorità europee dei poteri relativi alla difesa comune e alla politica estera, analoghe alle cessioni di sovranità già effettuate in materia economica delle quali opportunamente si avvale la Banca centrale e Mario Draghi che la presiede.

È del tutto improbabile che i membri dell'Unione accettino in questo momento cessioni di sovranità dei singoli Stati ad un'Europa che diventerebbe in tal modo sempre più federata di quanto non sia ora ma è soprattutto improbabile che Renzi condivida questa ipotesi perché - pensa lui - questo declasserebbe gli Stati nazionali, privandoli di una parte molto importante dei loro attuali poteri. Se la pensa così, ed io credo che lo pensi, non vede molto lontano; che l'Europa diventi federale in una società globale dove gli Stati hanno dimensioni continentali, significherebbe che preferisce staterelli privi di peso internazionale dove però ciascuno è padrone in casa propria. Un'Europa così fatta non resisterebbe molto e l'Italia meno ancora degli altri ma chi è "padroncino" in casa propria obbedisce al detto "chi si contenta gode" (ma il Paese no).

***

Concludo con tutt'altro argomento. Ho visto pochi giorni fa in visione privata un film molto bello ed anche commovente, intitolato "Chiamatemi Francesco" diretto da Daniele Luchetti, prodotto da Valsecchi e come primi attori Rodrigo de la Serna e Sergio Hernandez.

Il film, che sarà nelle sale il 3 dicembre, racconta la vita di Jorge Mario Bergoglio nella sua giovinezza e poi nella maturità, da quando era un semplice prete poi promosso capo provinciale della Compagnia di Gesù, successivamente coadiutore del vescovo di Buenos Aires e infine arcivescovo e cardinale di Argentina. Come si scontrò con il regime dittatoriale di Videla, autore di orribili e continui delitti; il suo amore verso i poveri, il suo riserbo verso preti e teologi della teologia della liberazione, ritenuti para-comunisti e poi scomunicati da papa Giovanni Paolo II.

Bergoglio nel film è fondamentalmente schierato con i poveri e sulle vicende drammatiche di questa sua posizione il demonio è Videla dal quale in tutti i modi, anche i più drammatici, Bergoglio cerca di mettere in salvo quelli che Videla minaccia. Non so fino a che punto corrisponda a verità il suo distacco dai preti di sinistra; sta di fatto che poche settimane dopo che Bergoglio divenne Papa beatificò il vescovo Romero che era stato ucciso mentre celebrava la messa nella chiesa cattedrale di San Salvador. Papa Wojtyla aveva espresso questa intenzione ma non l'aveva mai attuata; papa Francesco la fece subito e Romero era certamente un vescovo politicamente di sinistra.

Papa Francesco tornerà domani dal suo viaggio africano, dal Kenya all'Uganda dove è stato accolto da milioni di fedeli. Ha riaffermato ancora una volta la diffusione addirittura capillare della corruzione e la necessità di combatterla anche in Vaticano.

Questo Papa è quello che sostiene e l'ha fatto anche nel corso di questo viaggio l'esistenza di un unico Dio e questo lo porta ad affratellarsi non solo con tutte le varie comunità cristiane ma anche con gli ebrei e soprattutto con i musulmani e a combattere contro i fondamentalismi dovunque affiorino, Chiesa cattolica compresa.

Credo sia inutile sottolineare l'importanza di questo Pontificato e la fratellanza delle religioni per combattere il fondamentalismo e il terrorismo che ne deriva. La Chiesa di Francesco è quella della pace, dell'amore per i poveri, per gli esclusi e per tutte le persone consapevoli e orientate vero il bene del prossimo. È mondiale nel senso profondo del termine e mai come in questi tristissimi tempi d'un uomo di questa tempra e di questa autorevolezza il mondo ha avuto bisogno.

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29 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/29/news/l_europa_e_in_guerra_ma_l_italia_e_neutrale_chi_ha_torto_-128393177/?ref=HRER2-1
7364  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Luisiana GAITA Detenuti loro hanno sofferto in carcere, noi quando usciranno... inserito:: Novembre 30, 2015, 02:52:13 pm
Detenuti in condizioni disumane? Sconto di pena retroattivo.
Anm: “Sentenza Cassazione applicabile a 4mila casi”
Giustizia & Impunità
Alban Koleci ha ottenuto un giorno di riduzione ogni 10 trascorsi nei 5 anni in celle sovraffollate. Camere penali: "Verdetto coerente". Associazione nazionale magistrati: "Applicare retroattività o l’Italia è fuorilegge e paga penali"


Di Luisiana Gaita | 28 novembre 2015

Sarà retroattivo lo sconto di pena per i detenuti che vivono o hanno vissuto in condizioni disumane: 24 ore di cella in meno ogni dieci giorni trascorsi dietro le sbarre o, in alternativa per chi è già libero, 8 euro al giorno a titolo di ‘rimedio risarcitorio’. È destinata a fare giurisprudenza la sentenza con la quale la Cassazione ha accolto il ricorso di Alban Koleci, albanese rinchiuso a Foggia, che aveva chiesto la riduzione della pena pochi giorni dopo essere stato spostato in una cella a norma. “Un verdetto coerente, è giusto risarcire un detenuto che ha vissuto in condizioni incivili, rispetto alle quali 8 euro sono anche una miseria” commenta a ilfattoquotidiano.it Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane. E i costi per lo Stato con migliaia di ricorsi pendenti davanti a magistrati di sorveglianza e giudici civili? “Sono 4mila i ricorsi presentati – spiega Marcello Bortolato, componente della giunta dell’Associazione nazionale magistrati – ma credo che all’Italia convenga attenersi a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo, per non dover poi pagare milioni e milioni di euro per le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

IL CASO DI FOGGIA - Alban Koleci aveva chiesto al magistrato di sorveglianza la riduzione della pena da espiare, tenendo conto della permanenza per cinque anni (dal 14 agosto 2009 al 29 ottobre 2014) in una cella piccola “senza lo spazio di movimento necessario e in condizioni inumane”. Nel novembre 2014 il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile la richiesta. La ragione? L’istanza non era ‘attuale’ al momento della richiesta, perché pochi giorni prima di presentare ricorso Koleci era stato spostato in una cella a norma. Il detenuto è ricorso in Cassazione che, con la sentenza 46966, ha esteso gli effetti della sentenza Torreggiani.

LA CASSAZIONE ESTENDE GLI EFFETTI DELLA SENTENZA CEDU - Si tratta della storica sentenza con la quale l’8 gennaio 2013 la Cedu ha condannato l’Italia a risarcire sette ricorrenti per il trattamento disumano e degradante subito in istituti penitenziari italiani. Si parla di somme comprese tra i 10.600 e i 23.500 euro (quest’ultima cifra per un periodo di detenzione di tre anni e tre mesi). I rimedi dello sconto di pena e del risarcimento di 8 euro sono stati introdotti con norme del 2013 e 2014 proprio dopo la sentenza della Cedu. Secondo la Suprema Corte, nulla autorizza a ritenere che le caratteristiche di “gravità e attualità” del pregiudizio “costituiscano presupposto essenziale per accedere al rimedio risarcitorio compensativo”. Così è stato accolto il ricorso di Koleci ed è stato annullato senza rinvio il decreto che gli negava lo sconto. Ora tutti gli atti tornano al magistrato di sorveglianza di Foggia perché faccia i calcoli dei giorni di carcere da sottrarre alla condanna.

LA POSIZIONE DELL’ANM - Ma quante sono le persone in carcere o gli ex detenuti che ora vedranno accolti i propri ricorsi? “In Italia oggi ci sono 52mila e 400 persone detenuti, le condizioni di sovraffollamento stanno migliorando, ma i casi pendenti sono circa 4mila” spiega Bortolato. Subito dopo le sentenze della Cedu in Italia la magistratura di sorveglianza si era spaccata proprio sull’interpretazione del termine ‘attualità’. “Molti colleghi – continua – respingevano i ricorsi. La posizione dell’Anm è chiara: il rimedio risarcitorio deve essere applicato anche retroattivamente, anche perché altrimenti si rischia di incorrere nelle condanne della Corte Europea”. Un cambio di rotta dovuto evidentemente anche alle diverse condizioni delle carceri sotto il profilo del sovraffollamento: nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, il risarcimento è rappresentato dallo sconto di pena e non dagli 8 euro destinati a chi è già libero. “Che però – ribadisce Bortolato – sono sempre meno dei risarcimenti imposti dall’Europa”.

I NUMERI - Eppure solo poche settimane fa la Corte dei Conti ha diffuso la relazione che certifica un vero flop della politica carceraria degli ultimi governi. Basti pensare che i commissari straordinari che dal 2010 al 2014 hanno gestito il piano carceri hanno speso poco più di 52 milioni a fronte di una dotazione di 462 milioni e 769mila euro. E che gli interventi immobiliari finanziati dallo Stato, hanno realizzato solo 4.415 posti detentivi invece degli 11.934 previsti. Oltre 52mila persone oggi sono rinchiuse in 202 istituti di pena. Anche se i problemi non sono del tutto risolti il periodo buio dell’Italia per quanto riguarda il sovraffollamento delle carceri è stato quello del triennio 2010-2013. “Solo in quegli anni 3mila detenuti si sono rivolti alla Corte europea – spiega Simona Filippi, difensore civico dell’associazione Antigone – che, a sua volta, dopo l’introduzione delle norme italiane, rimandava i casi ai nostri magistrati. E molti di loro hanno rigettato le istanze”. Dunque migliaia di casi partono da lontano. “Dal settembre 2009 e fino al gennaio 2013 (quando fu emessa la sentenza Torreggiani, nda) come associazione Antigone – dice Simona Filippi – abbiamo raccolto circa 2mila e 400 richieste di detenuti”. Chi è già libero, per avere il risarcimento, dovrà rivolgersi al tribunale civile. Solo a Roma, nella seconda sezione, attualmente ci sono circa 300 richieste.

LE REAZIONI - Secondo Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere Penali italiane, questa sentenza ha applicato un principio corretto “sottolineando ancora una volta la necessità di seguire in primis l’articolo 27 della Costituzione, che parla della funzione educativa del carcere”. La corsa alle richieste risarcitorie potrebbe costare molto allo Stato. “Un calcolo impossibile da fare – spiega Migliucci – perché bisogna tenere conto dei giorni di pena per ciascun detenuto, ma anche del fatto che in molti non conoscono i propri diritti e non arrivano al ricorso”. È prudente Felice Casson, ex magistrato e vicepresidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama. “Condivido in casi come questo la riduzione della pena, perché garantisce un diritto fondamentale della persona – dice a ilfattoquotidiano.it – mentre valuterei caso per caso la questione del risarcimento economico per chi non è più in condizioni di disagio”.

Di Luisiana Gaita | 28 novembre 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/28/detenuti-in-condizioni-disumane-sconto-di-pena-retroattivo-anm-sentenza-cassazione-applicabile-a-4mila-casi/2260282/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-11-28
7365  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Paolo FLORES D´ARCAIS in marcia verso il nulla ... inserito:: Novembre 29, 2015, 05:30:50 pm
Da Ingroia a Tsipras fino a Grillo, Flores d’Arcais in marcia verso il nulla
Il Fattone   
L’endorsement del direttore di Micromega mette in difficoltà perfino Di Battista

C’è qualcosa di commovente in Paolo Flores d’Arcais, il direttore di MicroMega, qualcosa che ispira tenerezza in chi lo ascolta: come l’omino Duracell è sempre in marcia, con la risolutezza un po’ cocciuta di chi pensa soltanto a sé nella convinzione che il mondo prima o poi si adeguerà, e ogni volta che cambia direzione – il che gli accade molto spesso – è il mondo che ha cambiato verso, mentre lui, impettito, riprende la sua marcia lineare verso il nulla.

Ieri, ci riferisce il Fatto, ha invitato Stefano Rodotà e Alessandro Di Battista alla presentazione del nuovo numero di MicroMega, e per l’occasione si è solennemente dichiarato grillino: “A sinistra non ci sono più corpi da rianimare. I Cinque stelle sono l’unico movimento votabile, e lo faccio convintamente da anni”. Naturalmente non è affatto vero: alle ultime europee Flores è stato fra i garanti della Lista Tsipras, alle precedenti politiche dichiarò di aver votato la “Rivoluzione civile” di Ingroia – due successi clamorosi, davvero difficili da dimenticare. Ma Flores sbianchetta il proprio passato, forse per ingraziarsi il suo nuovo eroe, Beppe Grillo, e convintamente spiega che “c’è solo una forza che rappresenta le istanze di rappresentanza e legalità, ed è il M5s”.

Neppure il cronista del Fatto riesce a rimanere serio, e nel riportare le parole di Flores osserva: “Troppa grazia, per Di Battista”, descrivendolo “con postura da studente rispettoso” ma anche un pochino preoccupato: “Incassa, ma deve fugare subito sospetti di deriva sinistroide”, e dunque ribadisce che “il Movimento è oltre le ideologie, sinistra e destra sono corpi morti”. Ma Flores-Duracell è già in cammino e non c’è modo di fermarlo: “Il M5s non deve essere autoreferenziale, deve passare all’offensiva”. Come? “Raccogliendo migliaia di firme sul web”. Questa Di Battista deve averla già sentita: ma è un ragazzo educato, e aspetta educatamente che il dibattito finisca.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/da-ingroia-a-tsipras-fino-a-grillo-flores-darcais-in-marcia-verso-il-nulla/
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