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6181  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / PANEBIANCO. Democrazia e popolo La cattiva coscienza della nostra politica inserito:: Novembre 01, 2016, 05:28:42 pm
Democrazia e popolo
La cattiva coscienza della nostra politica
I tentativi di rintuzzare la sfida dell’antipolitica culturalmente subalterni al nemico.
Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si presenta come una delle virtù principali la riduzione del numero dei parlamentari

Di Angelo Panebianco

I tentativi della politica di rintuzzare la sfida dell’antipolitica sono fiacchi, controproducenti, spesso corrivi, culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si liscia il pelo al gatto dell’antipolitica presentando come una delle virtù principali della riforma la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, un aspetto secondario rispetto a quelli che davvero contano: fine del bicameralismo paritario, indebolimento dei (oggi fortissimi) poteri di veto, maggiore stabilità e maggiore capacità decisionale dei governi.

Ci sono due tipi di antipolitica, una vera e una finta. L’antipolitica vera non è oggi di moda (lo è stata ai tempi di Reagan e Thatcher). È quella che non vuole una politica impicciona, che ha per ideale — da perseguire benché non possa mai essere compiutamente realizzato — lo «Stato minimo», uno Stato che si occupi di fronteggiare emergenze e sfide alla sicurezza e di produrre pochi beni pubblici essenziali, lasciando il resto al mercato e al libero associazionismo volontario. Ma non è questa l’antipolitica oggi di moda. È di moda l’antipolitica finta, la quale convoglia il disprezzo dei cittadini sulla politica ma pretende altresì che la politica resti l’impicciona di sempre (non si propongono privatizzazioni e liberalizzazioni ma protezionismo e dosi ancor più massicce di statalismo). L’antipolitica oggi di moda è un ossimoro: è un’antipolitica statalista.

Cosa risponde la politica a questa antipolitica, cosa risponde quando l’antipolitica ripropone il mito del cittadino comune (o dell’Uomo qualunque) che sarebbe in grado di governare la cosa pubblica meglio — con più efficacia e con meno costi — dei politici di professione? La politica non sa cosa rispondere, balbetta frasi sconnesse. Non è capace per lo più di rintuzzare la sfida con argomenti seri in difesa di se stessa e delle proprie virtù.

Certamente l’antipolitica non nasce sotto un cavolo né senza ragioni. La ragione principale del suo successo è che, sfiancati da una lunga crisi economica, i cittadini non possono più tollerare le cattive abitudini, lo spreco di denaro pubblico, molti chiedono (e hanno ragione) una politica più sobria, meno disinvolta nell’impiego dei soldi dei contribuenti. Ma il lecito slitta nell’illecito quando, estremizzando, si abbracciano i peggiori argomenti affioranti dal passato, da un’antica tradizione antidemocratica e antiparlamentare. Si passa all’illecito quando si sostengono tre tesi, diverse ma collegate. La prima dice che i politici sono «cittadini come tutti gli altri». La seconda afferma che qualunque cittadino (come la «cuoca» di Lenin) è in grado di amministrare la cosa pubblica. La terza (ma qui gioca, oltre all’ideologia antidemocratica anche quella antiscientifica) sostiene che non solo una «competenza politica» specifica ma anche le altre competenze (si tratti di competenze amministrative o di saperi tecnico-scientifici), quelle che, in principio, servono a coadiuvare l’azione dei politici, non hanno valore: conta solo il volere del popolo, e il volere è potere, non esistono vincoli od ostacoli (finanziari, tecnici) che rendano indispensabile il ricorso alle competenze. Basta volerlo e, ad esempio, si può dare il salario minimo a tutti riducendo contemporaneamente le tasse o distribuire benessere e fare a meno della libera circolazione delle merci.

Quanto alla prima tesi, chi-unque affermi che i politici, anche quelli eletti, siano «cittadini come tutti gli altri» ha urgente bisogno di qualche lezione di educazione civica. I politici eletti non lo sono affatto. I cittadini comuni rappresentano solo se stessi. Quei politici rappresentano i loro elettori. C’è in gioco il delicatissimo rapporto di rappresentanza (l’essenza della democrazia moderna) il quale rende il politico eletto diverso dal cittadino comune. La tesi «il politico è un cittadino come tutti gli altri» nega valore alla democrazia rappresentativa. Deve essere rintuzzata da chiunque la apprezzi pensando che essa, pur con i suoi limiti, sia l’unica possibile democrazia. È il rapporto di rappresentanza che rende necessarie quelle guarentigie (inaccettabili «privilegi» per gli esponenti dell’antipolitica), che vanno dall’immunità parlamentare (del tempo che fu) alla disponibilità di risorse economiche necessarie a svolgere i compiti di rappresentanza.

Anche la seconda tesi non sta in piedi. Non è vero che chiunque possa improvvisarsi politico e magari amministrare la cosa pubblica ai massimi livelli. Fatta eccezione per pochissimi particolarmente dotati, ai più alti livelli conviene arrivare dopo una lunga gavetta politica. In Italia, un tempo erano i partiti ad addestrare le persone. Oggi non più. Ma partiti come quelli di allora non sono indispensabili. Negli Stati Uniti, ad esempio, partiti di tipo italiano non ce ne sono mai stati ma sono comunque sempre esistiti percorsi alternativi in cui i politici tuttora si formano e acquistano competenze. I Trump non sono la regola.

Le assemblee rappresentative, locali e nazionali, sono tipicamente le migliori palestre per la formazione di politici competenti, in grado poi di governare. Governare significa organizzare il consenso, formare coalizioni fra interessi anche divergenti e mantenerle unite mentre si affrontano i vari problemi pubblici. Chi crede che ciò sia alla portata di chiunque prende fischi per fiaschi. Se l’antiparlamentarismo e l’ostilità per la democrazia rappresentativa sono alla base delle suddette tesi, si deve soprattutto al pregiudizio antiscientifico (le scie chimiche, la polemica sulle vaccinazioni) la svalorizzazione delle competenze altre, di quelle competenze non politiche che tuttavia servono alla politica per affrontare i vari temi dell’agenda pubblica.

Nonostante la loro inconsistenza, le tesi antipolitiche hanno successo, si diffondono e si radicano. Possono farlo impunemente perché la politica non sa ribattere colpo su colpo, non sa contrapporre argomenti seri, forti e duri in difesa di se stessa, della propria indispensabilità, delle proprie virtù. Non è stata fin qui capace di farlo a causa della cattiva coscienza, della consapevolezza degli errori accumulati. Emendarsene è necessario. Ma abbracciare i cattivi argomenti dell’antipolitica, non difendere con fierezza le virtù della democrazia rappresentativa, significa lasciare il campo senza combattere, significa suicidarsi.

31 ottobre 2016 (modifica il 31 ottobre 2016 | 21:07)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_novembre_01/cattiva-coscienza-nostra-politica-9549107c-9fa3-11e6-9daf-5530d930d472.shtml
6182  Forum Pubblico / I.C.R. Immaginare Conoscere Realizzare. "Le TERRE DI RANGO" e "Le TERRE DI FANGO". / Andrea M. Jarach I cittadini che rifiutano lo Stato non sono sopra la legge inserito:: Ottobre 31, 2016, 07:16:24 pm
I cittadini che rifiutano lo Stato non sono sopra la legge

Andrea M. Jarach
20 ottobre 2016

I Reichsbürger, in italiano cittadini del Reich, si presentano anche come Germaniten o Staatenlosen (traducibili rispettivamente come germani od apolidi). La sigla apparsa prepotentemente alla cronaca attuale è in realtà già nota da almeno 5 anni. Sono un gruppo eterogeno di malcontenti raccolti in mini organizzazioni, od addirittura di singoli, con un nocciolo duro ancorato nella destra estrema che si richiama specificamente al terzo Reich. Non riconoscono l’autorità dell’attuale Stato nazionale tedesco in alcuna forma e si richiamano ai suoi predecessori nei confini del 1937 o del 1871. Costituiscono un cocente problema per l’amministrazione tedesca ed anche per l’ordine pubblico.

Quattro tesi per negare la legittimità della BRD
Le tesi per giustificare l’inesistenza legale della BRD sono ancorate in argomenti tipici dell’estrema destra.

Il Reich tedesco esiste ancora
Il primo è che la BRD non sarebbe erede del Reich tedesco che esisterebbe ancora, ma impossibilitato di esercitare la sua autorità. Idea propagata negli anni settanta, tra gli altri, dall’estremista di destra Manfred Roeder. La fonte è un’interpretazione faziosa di una sentenza della corte costituzionale tedesca del 1973 che indicò che la BRD non è il successore in diritto del Reich tedesco aggiungendo però che è uno Stato identico a quello.

Con l’unificazione la BRD è morta
Un altro argomento è che la BRD sarebbe venuta meno con la riunificazione per effetto della cancellazione dell’articolo 23 della costituzione che indicava l’alveo della sovranità nazionale. L’articolo fu cancellato perché la Germania non intendeva più far valere diritti territoriali su Polonia e Cecoslovacchia, ma la validità della sovranità statale della nazione unificata è indicata sia nel trattato di riunificazione tedesca che nel preambolo della carta costituzionale.

Le Nazioni Unite ammettono l’autodeterminazione
Un’altra argomentazione cui ricorrono i Reichsbürger è che sia mancato un trattato di pace con gli alleati e che quindi la BRD è sempre una colonia, non volendo ammettere che il contratto sulle regole conclusive relative alla Germania sostituiva il trattato di pace. Essi richiamano ancora i diritti sulla autodeterminazione previsti dalle Nazioni Unite con la risoluzione A/RES/56/83, mancando di rilevare che per costituire un nuovo Stato dovrebbero poter vantare un potere di ordine sul territorio.

La Germania è una azienda non uno Stato
Infine c’è chi tra loro sostiene convinto che la Germania è una ditta: la BRD GmbH. La curiosa tesi si basa sull’effettiva esistenza di una Agenzia federale, la Bundesrepublik Deutschland Finanzagentur GmbH, che si occupa delle aperture di credito e debito della nazione.

Chi sono in realtà i Reichsbürger
Nella più parte i Reichsbürger sono solo persone indebitate che rifiutano il pagamento di imposte o di alimenti divorzili, rendendo i documenti di identità per sostituirli con altri privi di valore legale, acquisiti via internet, vuoi di un supposto redivivo Deutsches Reich o di uno Stato Libero Prussiano, od ancora dello Stato Federale Bavarese e Prussiano, od altre sigle più o meno fantasiose. Altri sono profittatori che vendono questi pezzi di carta. Altri ancora dichiarati revisionisti e neonazisti tout court. Già solo in Brandenburgo si contano siano circa 300 persone, almeno 80 nella Sassonia-Anhalt e poi diverse altre sparse negli altri Länder. Il fenomeno è apparentemente più diffuso all’Est dove ancora oggi strati di popolazione, perduto l’assistenzialismo della ex DDR, si ritengono perdenti dall’unificazione tedesca.

Danni all’amministrazione
I Reichsbürger hanno per lo più al loro attivo resistenze e male parole ad ufficiali giudiziari postandone i filmati su You Tube, costituendo grattacapi per le amministrazioni pubbliche. Ufficiali giudiziari, poliziotti ed amministratori di giustizia da tempo devono affrontare corsi specifici su come affrontare i nuovi protestatari. Persino all’Ufficio Tedesco per Brevetti e Marchi pare siano arrivate missive di piantagrane.

Riprese dei processi
Il fenomeno a fronte delle crescenti paure verso gli stranieri è diventato tuttavia progressivamente dilagante e si sono registrati episodi più o meno gravi. A gennaio di quest’anno un’udienza per guida senza patente nel tribunale di Kaufbeuren, in Baviera, è stata interrotta da una ventina di persone tumultuose che ha sequestrato i fascicoli processuali filmando l’azione. È una prassi ripetuta dagli adepti di filmare giudici, udienze e metterli alla berlina su internet.

La truffa maltese
Jochen Eichner per l’emittente radiofonica Bayerischer Rundfunk ha ricordato che ad Augsburg appena il mese scorso un uomo ha dovuto rispondere di tentata estorsione ai danni di un ufficiale giudiziario per avergli richiesto 2 milioni di euro a titolo di danni insussistenti. Lo schema è noto già da almeno un anno come truffa di Malta. I Reichsbürger si iscrivono on line nel registro delle imprese UCC di Washington d.C., quindi annotano dei falsi crediti nei confronti dei funzionari pubblici che vengono girati ad una ditta di esazione di Malta e da essa azionati per via giudiziaria. Se il malcapitato non si difende di fronte ai giudici maltesi, la sentenza vale come titolo eseguibile in Germania. L’emissione Kontrast della MDR ha rivelato che anche la Cancelliera ed il Presidente della Repubblica tedesco sono stati attaccati con la truffa maltese; nel loro caso però i procedimenti annullati sul nascere su richiesta del Governo. USA. Germania e Malta sono già intervenuti per ostacolare questo meccanismo.

E poi le armi
Le armi hanno preso piede nelle frange più di estrema destra. Il caso più eclatante fu registrato nel 2012 a Bärwalde in Sassonia quando un gruppo autonominatisi Deutsche Polizei Hilfswerk ammanettò e sequestrò un ufficiale giudiziario poi liberato dalla vera polizia. A febbraio in Brandenburgo un ufficiale giudiziario ed un collaboratore di un fornitore di energia elettrica sono stati minacciati all’arma bianca da un padre di famiglia che non si riconosceva più cittadino della BRD. In Nord Reno Westfalia -ha riportato la ARD- un uomo ha dovuto rispondere in Tribunale per avere cercato di acquistare un AK-47 in Lussemburgo con un porto d’armi del fasullo Stato Libero Prussiano. In agosto a Reuden, nella Sassonia-Anhalt, una coppia che non riconosceva il potere della polizia di condurre un’espropriazione forzata ha provocato uno scambio di colpi d’arma da fuoco con gli agenti.

Georgensgmünd: il primo morto
Il caso di mercoledì del 49enne a Georgensgmünd, al quale dopo un giudizio di pericolosità dovevano essere ritirate oltre 30 armi- che peraltro aveva acquistato legalmente- ed ha sparato alle forze di polizia non dovrebbe purtroppo stupire più che tanto. L’uomo ha esploso i primi colpi già attraverso la porta di casa ancora chiusa. Riducendo un poliziotto in fin di vita che nonostante un’operazione d’urgenza è morto nella mattinata di giovedì, ferendone gravemente un altro ed altri due più leggermente con schegge di vetro, prima di essere ferito a sua volta ed arrestato.

Risposte improcrastinabili per la politica e la società civile
La risposta al fenomeno non può essere cavalcare il consenso degli insicuri come la deputata della CDU di Lipsia Bettina Kudla che in un tweet alla fine di settembre aveva criticato la politica della Cancelliera favorevole all’integrazione degli immigrati, dicendo “la ripopolazione della Germania è già iniziata” usando il termine di sapore vetero nazista Umvolkung.
Sono necessarie una sorveglianza più rigida dell’estrema destra e dei Reichsbürger; campagne avverso i pregiudizi contro gli stranieri; prevenzione ed inibizione della diffusione di filmati che minano la legittimazione degli agenti dello Stato. Ma soprattutto politiche di sviluppo economico stemperando le ansie dei ceti medio bassi. E questo deve avvenire sia a livello nazionale che europeo.
Tra un anno le elezioni del Bundestag potrebbero altrimenti sugellare l’avanzata dei populisti con danni incalcolabili.

Da - http://www.glistatigenerali.com/terrorismo/i-cittadini-che-rifiutano-lo-stato-non-sono-sopra-la-legge/
6183  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ADRIANO SOFRI - Le peripezie di una fotografia curda inserito:: Ottobre 31, 2016, 07:04:22 pm
Le peripezie di una fotografia curda
Reportage   

Stavo per scoraggiarmi ed ero tentato di inventare una storia per la mia fotografia che tanto mi piaceva. Ma la realtà ha superato la fantasia

Un pomeriggio del 2015 mi ero innamorato di una fotografia. L’avevo trovata esposta al museo dei tessuti, nella Cittadella, il qalat, di Erbil.
La didascalia diceva: «21 marzo 1970. Foto scattata da un maestro di scuola nel giorno di Newroz /il Capodanno curdo/. Mamosta Jalal, Erbil».

Desiderai rintracciare la storia di quella fotografia. La didascalia era laconica e quasi misteriosa. Il luogo non sembra Erbil, sia pure la Erbil del 1970, ma piuttosto uno dei suggestivi villaggi curdi dalle case sovrapposte. Interrogai qualcuno, inutilmente. Provai con la rete. Mamosta significa maestro, Maestro Jalal, può significare un generico attributo rispettoso. Trovai un libro di memorie di Jalal Barzanji, Man in Blue Pyiamas, pubblicato in Canada nel 2001, racconta gli anni in cui l’autore, poeta e giornalista, era stato incarcerato e torturato dagli scherani di Saddam, dal 1986 al 1988. Gli altri prigionieri gli si rivolgono con l’appellativo Mamosta Jalal – mi sarebbe piaciuto che fosse l’autore della foto, ma non era possibile: è nato nel 1953, e nel 1970 aveva solo 17 anni. Stavo per scoraggiarmi ed ero tentato di inventare una storia mia alla fotografia. Se l’avessi fatto, come fra poco vedremo, mi sarei reso piuttosto ridicolo.

La fotografia è bellissima a prima vista. Guardata in un’epoca di selfie induce a una invincibile nostalgia. L’idea è che tutti i vivi vi siano compresi, donne e uomini, piccoli e grandi, vecchi e giovani. I bordi, soprattutto a sinistra, mostrano che molte altre persone sono rimaste fuori dall’obiettivo. Sembra un giudizio universale tenuto in un giorno di festa e senza dannati. Un popolo che si mette così in posa testimonia di una comunità unita e solidale formidabile: l’incarnazione dell’idea mitica che ci facciamo della nazione curda. Un popolo che si mette così in posa per lasciare un ricordo di sé nel giorno del nuovo anno è difficile da piegare per qualunque nemico. Non voglio vantarmi di avere scoperto il dettaglio più singolare, che mi è stato invece segnalato dal giovane cassiere del piccolo museo. Tutti i personaggi della fotografia indossano i costumi tradizionali curdi, ad eccezione di uno: il giovane all’estrema destra di chi guarda, vestito in giacca e pantaloni.

Un pomeriggio di ottobre del 2016 sono tornato al Museo del tessuto con la mia cara fotografa, Neige. Volevo avere una copia migliore della fotografia, che nella mia aveva il riflesso del vetro sotto cui è incorniciata. Ho trovato una sorpresa, la didascalia è cambiata e questa volta è molto più dettagliata. Dice: «Questa fotografia fu scattata il 21 marzo (Newroz) 1970 da un maestro di scuola, Mamosta Jalal, di Erbil. Essa mostra il villaggio di Roste, che si trova a nord est di Soran. È uno dei più remoti villaggi della regione di Balakyati, situata in fondo a una valle profonda, vicino al confine iraniano. È una precoce fotografia a colori e costituisce un’unica testimonianza del villaggio e del suo popolo, e racconta molte storie, non solo del villaggio ma dell’intero popolo curdo. Sebbene Roste esista ancora, non ha più questo aspetto. Durante la campagna di distruzione condotta da Saddam contro i curdi, Roste fu uno dei primi villaggi a venire spianato dai bulldozer nel 1977. Altri 120 villaggi nella regione di Balakyati e altri 4 mila nel Kurdistan subirono lo stesso destino. La loro gente venne dispersa allora dopo centinaia di anni in cui vi aveva dimorato. Noterete che tutte le persone nella foto indossano il costume curdo».

La nuova didascalia era ancora laconica sull’autore della foto, ma faceva fare un gran passo avanti alla mia curiosità e sembrava confermare la prima impressione, che la posa di quella gente così raccolta offrisse un ritratto in miniatura dell’unità dell’intero popolo curdo. Il vice-direttore del museo fu molto gentile, staccò la foto dal muro per posarla sul pavimento e permettere a Neige di rifotografarla senza il riflesso, e soprattutto mi disse che lui no, ma suo fratello, che avrei potuto incontrare la mattina dopo, aveva notizie sul fotografo.

Diventai allegro come quando si apre uno spiraglio su una cosa misteriosa e fa pensare che fra poco se ne verrà a capo: domani mattina, addirittura. Intanto scendemmo dalla Cittadella e andammo alla famosa Casa del Tè Machko, che è scavata proprio dentro le sue mura ed è il più illustre punto di ritrovo degli artisti, gli intellettuali, i politici scontenti, i turisti, le spie e gli sfaccendati di Erbil. Era ancora il primo pomeriggio e Machko non era così affollato, ma c’era il mio amico curdo-italiano-francese Ali Hadi, che è un pittore di fama. La conoscenza con Ali è una delle tante coincidenze di cui il Kurdistan è prodigo, perché lui era stato studente all’Accademia di Belle Arti di Firenze negli anni in cui io vi insegnavo, e ora lui insegna all’Accademia di Erbil.

Insomma ci siamo abbracciati, abbiamo chiesto il nostro tè, gli ho presentato Neige e gli ho subito raccontato che venivamo dalla visita al museo e che ero contento perché avevo trovato una traccia a proposito di una fotografia eccetera eccetera. Stette ad ascoltarmi cortesemente, infatti è un uomo molto cortese, ma a un certo punto si fece più attento e interessato, finché mi interruppe calorosamente: «Ma è suo padre!», e indicò un giovane seduto di fronte a noi con altri, tutti suoi allievi. «Il fotografo, Jalal, è suo padre!». Ho appena detto delle coincidenze curde: questa però! Stava scherzando? Macché.

Quel giovanotto dalla bella faccia si chiama Dara Jalal, è il figlio del «mamosta» Jalal, si è appena diplomato all’Accade – mia, fa il pittore e il fotografo – e insomma ho combinato sui due piedi un incontro con suo padre. Il quale frequenta tutti i giorni la piazza della Cittadella, ma in un’altra casa da tè riservata ai pensionati, sotto il minareto antico sovrastato dal gran nido della cicogna protettrice di Erbil. Avevo trovato il mio fotografo. Neige purtroppo partiva. Avrei preferito che fotografasse lei il fotografo ritrovato: pazienza. Dunque ci siamo incontrati, e sono stato ammesso alla casa da tè dei pensionati, a pieno titolo del resto.

Il fotografo ha 73 anni, uno meno di me, è alto e ha una bella faccia scavata e dei baffetti, si chiama Jalal Majeed Amin. È nato in un villaggio vicino a Erbil-Hawler e si è trasferito in città a dieci anni. È diventato maestro nel 1965 e «sono stato maestro per tutta la vita». Dopo un anno di insegnamento impiegò tutto quello che aveva messo da parte per comprare una Kodak Retina 1B. Fotografava in positivo, le diapositive doveva procurarsele da Bagdad. Fotografava senza altro fine che il proprio piacere. È stata la sua passione principale, l’altra gli scacchi, in cui è maestro. Fu mandato a insegnare prima a Pendro, sulle montagne di Shirwan-Mazin, per 5 anni, poi alla scuola elementare di Roste, e ci rimase tre anni, dal 1970 al 1973. Gli racconto perché la sua fotografia mi è piaciuta tanto. Anche i dettagli: il giovanotto, unico vestito all’occidentale… «Davvero?», dice incredulo. Saranno state 500 famiglie, dice. Gli chiedo come ha fatto a radunare tanta gente per la fotografia, come li ha persuasi… Qui c’è il colpo di scena: alla lettera. «Ma no, non erano affatto in posa. Vedi l’angolino bianco in basso a sinistra? Era un pezzo di palcoscenico. Si stava recitando, era il teatro, per la festa di Newroz, la gente era lì per guardare lo spettacolo». «Aspetta», dice, e tira fuori un’altra diapositiva, che riprende la scena dal punto di vista degli spettatori. Questa.

Infatti, aggiunge Jalal, ho rifatto ogni anno la fotografia nello stesso luogo. Questo basta a far crollare la mia immaginazione su quel popolo così unito e disciplinato e sul maestro fotografo che l’aveva persuaso a radunarsi per la fotografia collettiva. I tetti digradanti non erano che la galleria del villaggio mutato per un giorno all’anno in teatro all’aperto. Jalal mi mostra un’altra panoramica della stessa folla, ripresa da un punto di vista obliquo. Questa

È quasi altrettanto bella, ma non si lascia scambiare per una posa collettiva in memoria del popolo curdo unito. In compenso ha qualche mucca, le uniche disinteressate a guardare verso il palcoscenico. Insomma, gli dico, la mia ammirazione per l’assemblea popolare sui tetti era solo un equivoco. «Ma no, la vita del villaggio era davvero solidale. D’inverno si portava la legna per tutti. Tutti insieme costruivano le case. E si difendevano quando ce n’era bisogno». Ma la sua fotografia com’è finita al museo? «L’hanno comprata al bazar, dove avevano fatto dei poster, senza sapere chi fosse l’autore. Non c’è scritto niente». E come mai? «Nel 1996 avevo venduto il permesso di farne copie a un commerciante, Rahman, che ora è morto. Avevamo fame. Mi diede 3.000 dinari, più o meno 35 dollari. Lui la mandò a riprodurre in Turchia, e lì si rifiutarono di stampare anche una sola parola, perché era in curdo, così scomparve anche il mio nome e il poster diventò anonimo». Che storia: la tua fotografia se n’è andata per il mondo da una parte e tu dall’altra. «Anche la mia Kodak l’avevo venduta, nel 1990: per 5 kg di farina. E una serie di 25 diapo per altri 3.000 dinari. Nel 1977 mi ero sposato e avevamo cinque figli, 2 maschi e tre femmine». Nel 1978 Jalal smise di fotografare, e non ha più ricominciato.

Un autoscatto di Jalal, al centro, sul Helgourd, 3.607 m., nei monti Zagros,1972. Sotto, il maestro Jalal fotografato per me da suo figlio Dara. Le sue fotografie le ha proiettate qualche volta qui a Erbil al Circolo degli insegnanti. Solo nel 2007 ha avuto una mostra modesta a Suleimania, alla Zamwagallery. La fotografia di cui mi sono innamorato io è in copertina, sulla controcopertina c’è una folla formidabile di bambine ragazze e donne coloratissime: è un’adunanza del Partito Comunista iracheno, più di quarant’anni fa. Oggi non si vedrebbe più.

Le coincidenze hanno un’appendice. Mamosta Jalal mi regala il sobrio catalogo della mostra. C’è una pagina scritta, e Lokman, il mio amico curdo-italiano, me la traduce. È di Rostam Aghale, un artista di Suleimania: mi ha preceduto per filo e per segno. Aveva visto a casa sua nel Newroz del 1980 la fotografia su una rivista, «Autonomy», e ne era stato colpito. Non c’era il nome del fotografo. Nel settembre 2006 viene a Erbil e al museo ritrova la foto, senza nome. Ma qui è il direttore, il signor Lolan, a dirglielo: Jalal Majid Amin. «Nel mondo degli artisti, mai sentito nominare». In un secondo viaggio Aghale incontra Jalal. Come faceva, scrive, a fare foto così belle di paesaggi e villaggi con una Kodak senza zoom? È arrivata così la prima mostra di Jalal, «Il fotografo del villaggio di Roste».

Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-peripezie-di-una-fotografia-curda/
6184  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Manuela Consonni. Natalia Ginzburg, lessico gerosolimitano inserito:: Ottobre 31, 2016, 07:00:38 pm
Natalia Ginzburg, lessico gerosolimitano
La scrittrice torinese è tra le più amate e studiate in Israele dove domani si terrà un convegno nel centenario della nascita
Natalia Ginzburg (14 luglio 1916 - 7 ottobre 1991) in un ritratto di Paolo Galetto

30/10/2016
Manuela Consonni
Gerusalemme

Le ragioni che spiegano la fortuna per la quale, ancora oggi a 25 anni dalla morte, Natalia Ginzburg rimane una delle scrittrici più amate, lette e studiate in Israele sono molteplici. Intanto la sua fama letteraria, legata a tematiche letterarie e storiche che l’hanno resa una delle voci più interessanti e importanti del Novecento, e non solo in Italia. 

Una fama internazionale, che però non basta da sola a spiegare il successo goduto, da trent’anni, in un paese come Israele dove si legge molto, molta letteratura in traduzione e in originale, e dove vengono operate scelte editoriali che si rivolgono al meglio della diaspora ebraica. Un’appropriazione e un recupero propriamente culturale, di una memoria individuale ebraica, che diventa tassello di tante altre memorie che non si vuole che vadano perdute. Alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme sono conservate tutte le opere scritte da ebree e ebrei, tutti gli originali e tutte le traduzioni, in tutte le lingue. E la Ginzburg è li, assieme agli altri: Giorgio Bassani, Elsa Morante, Primo Levi, Ida Finzi, Carlo Levi, Alberto Moravia, Umberto Saba, Cesare Lombroso, Arnaldo Momigliano, Vittorio Foa, Luciana Nissim, solo per nominarne alcuni. 

Qualcosa di famigliare
Nello specifico, credo che il successo sia stato determinato dalla qualità letteraria della sua scrittura sospesa tra l’autobiografia e la testimonianza, due generi molto amati in Israele, che ne ha reso facilmente accessibile la lettura per giovani e meno giovani, per gli addetti ai lavori e per i semplici amanti della buona letteratura. I suoi libri sono caratterizzati quasi sempre dalla voce di un io narrante al plurale, in cui il vissuto personale è il segno di un dolore collettivo più vasto, nazionale, che ha marcato indelebilmente il ritmo narrativo. Nella sua scrittura il mondo israeliano ha ritrovato qualcosa di distintamente riconoscibile, un Heimlich freudiano, una familiarità nota, residuo esso stesso di un mondo scomparso, discriminato, perseguitato, torturato prima nelle prigioni, e poi sterminato nei campi di concentramento.

 

Lexicon Mishpahti (Lessico famigliare) fu il primo dei suoi libri a essere tradotto in ebraico, nel 1988, da Miriam Schusterma per Am Oved, una storica casa editrice del paese. Fu un successo di pubblico immediato. In Israele si colse il valore, il fascino di questa storia familiare, che raccontava pagina dopo pagina, con toni pacati, arguti e auto-ironici, della Torino tra gli anni Trenta e gli inizi degli anni Cinquanta, in cui l’autrice imponeva la sua scrittura intesa come il luogo per eccellenza per esprimere sé stessi.

Adatta alla lingua ebraica
Un libro affollato di personaggi, denso come una foto di famiglia, che richiedeva ai lettori israeliani un esercizio di memoria e di studio, un’attenzione per i legami che vi si svelavano, che invitava a guardare dentro a questo mondo ebraico poco conosciuto, di cui si intuiva però lo spessore quasi aristocratico.

E poi la sobrietà della scrittura, l’essenzialità del linguaggio, la nitidezza delle parole sono stati altri elementi fondamentali per la trasmissione in ebraico di Natalia Ginzburg. Una scrittura, la sua, che si è adattata subito alle esigenze stilistiche e sintattiche dell’ebraico, lingua essenziale e concisa, priva di orpelli stilistici, ostile alla pesantezza linguistica, quasi povera, a un occhio distratto. Nella collana «Nuova Biblioteca» di Kibbutz Hameuhad apparvero in ordine cronologico e con ritmo serrato per mano di traduttori sapienti: Kol Etmolenu, 1990 (Tutti i nostri ieri); Qolot haErev, 1994 (Le voci della sera); Michele Sheli, 1995 (Caro Michele); Ha’ir veHaBait, 1998 (La città e la casa) ; Valentino (2001); Caha ze Karà, 2005 (È stato così). La casa editrice Carmel nel 2005 ha pubblicato la traduzione di È difficile parlare di sé (Qashe leAdam ledaber al Atzmo), la raccolta di interviste radiofoniche raccolte da Marino Sinibaldi nel 1990 nel programma Antologia su Rai3, e uscite per Einaudi a cura di Lisa Ginzburg e Cesare Garboli nel 1999. Nel 2012 Kibbutz HaMeuhad ha deciso di svecchiare la traduzione di Lessico famigliare che è stato ripubblicato con un’altro nome: Amirot Mishpaha, letteralmente «detti, frasi famigliari».

Oltre le distanze politiche
I saggi Le piccole virtù, Mai devi domandarmi, Vita immaginaria non sono stati invece tradotti. Questo rafforza l’idea che dietro alle traduzioni dei libri di Natalia Ginzburg esista una scelta editoriale ben precisa, una scelta di gusto più indirizzata verso il romanzo, verso il racconto, verso la scrittura di invenzione. Hirschfeld, uno dei più importanti studiosi di letteratura ebraica in Israele, docente a Gerusalemme, critico letterario e scrittore egli stesso, ha affermato che in Israele la lettura critica della scrittrice torinese è scientificamente solida e impegnata, strettamente legata alla letteratura e meno alla saggistica, determinata, a suo avviso, «dalla straordinaria e profonda analisi, attraverso l’arte del dialogo, dei rapporti umani nel contesto di un modernismo letterario particolare, che è narrativo e poetico al tempo stesso». 

 

Il successo di Natalia Ginzburg è infine semplicemente dovuto all’amore e al grande rispetto che gli israeliani provano per l’Italia, per la sua cultura e per la sua storia. Le sono profondamente legati da sempre. Basti pensare che negli anni Trenta Leah Goldberg, la poetessa dell’Yishuv ebraico, e raffinata traduttrice, pubblicò in ebraico Petrarca e Pirandello. Anche la Goldberg peraltro è legata per uno strano caso del destino a Torino, dove al dipartimento di Orientalistica dell’Università sono conservate le sue lettere a Paul Kahle, insigne orientalista tedesco che era stato suo maestro a Bonn. 

Le posizioni critiche di Natalia Ginzburg verso la politica dello Stato di Israele negli anni Ottanta, dopo il massacro di Sabra e Chatila, e le sue scelte religiose - personali e non discutibili - hanno sempre interessato poco Israele e la sua cultura, popolare e scientifica, che continua a onorarla come parte integrante del proprio codice genetico e del proprio patrimonio culturale. 

Direttrice del Programma di Studi Italiani, Università ebraica di Gerusalemme

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/30/cultura/natalia-ginzburg-lessico-gerosolimitano-yUabHOEBEQxGIOFsPLRv5O/pagina.html
6185  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Italicum o Senatellum? Il dilemma del Pd da sciogliere in pochi giorni. inserito:: Ottobre 31, 2016, 06:59:14 pm
Italicum o Senatellum? Il dilemma del Pd da sciogliere in pochi giorni
Legge elettorale   
Ora si attende la scelta di Matteo Renzi

La commissione del Pd che deve trovare una quadra sulla legge elettorale ieri ha fatti un piccolo passo avanti, e il tempo delle decisioni è ravvicinatissimo: “Entro mercoledì, giovedì”, dice Gianni Cuperlo, l’esponente della minoranza più disponibile al dialogo (Bersani e Speranza sono su una posizione molto più scettica), l’uomo che – “mai lo avrei creduto” – oggi si trova nella delicata posizione del mediatore in una partita forse storica: in gioco è addirittura l’unità del Pd.

Si dovrebbe dunque arrivare ad un documento che entri di più nel merito pur senza chiudere tutti i giochi, anche perché sulla legge elettorale fino al 4 dicembre non si muoverà nulla, tanto meno in Parlamento: alleati del Pd e soprattutto l’opposizione lo hanno detto a chiare lettere.

In teoria è anche possibile che alla fine renziani e Cuperlo trovino una mediazione che lasci scontenti Bersani e i suoi, a quel punto fortemente tentati di uscire dal Pd. Ma è troppo presto per questo tipo di ragionamenti.

“Noi siamo disponibili a discutere di tutto – si limita a dire Lorenzo Guerini, il vicesegretario che coordina la commissione – poi ognuno ha le sue ricette. Bisogna vedere quale sarà il punto di caduta”.

A quanto si riesce a intravedere oltre la cortina dello stretto riserbo cui la Commissione si sta attenendo, sembra di poter riassumere così lo stato dell’arte.

La maggioranza renziana è disposta a mettere mano all’Italicum. Quello che non ancora non si capisce è fino a che punto sia disposta a mediare. E’ disposto, Renzi, a mollare il ballottaggio, finora dipinto come la migliore soluzione per garantire un governo “la sera stessa del voto” ma respinta dalla minoranza Pd, dagli alleati centristi, da personalità come Giorgio Napolitano?

Cuperlo infatti chiede un sistema elettorale simile a quello che dal ’48 e per molti anni è stato il sistema per eleggere i senatori: un meccanismo proporzionale in collegi uninominali. Con la differenza (suggerita dai Giovani Turchi) che verrebbe comunque previsto un premio di maggioranza. E se nemmeno col premio il primo partito raggiungesse la maggioranza assoluta, allora quel partito andrebbe a cercarsi gli alleati in Parlamento.

E’ chiaro che si tratta di un modello molto molto diverso dall’Italicum. Il “Senatellum” rimetterebbe in pista il gioco delle alleanze da giocare in Parlamento dopo il voto. Con tanti saluti al sogno di conoscere il vincitore delle elezioni “la sera stessa del voto”.

Se restasse in pedi il ballottaggio si potrebbe invece introdurre l’apparentamento: un modo per accogliere le istanze della minoranza. Ma sarebbe sufficiente?

Parlando con Cuperlo – che non ha ancora ufficialmente sciolto il dilemma sulla sua partecipazione alla manifestazione di domani a piazza del Popolo (che verrà disertata dai bersaniani) ma che secondo alcuni alla fine ci sarà – si comprende che egli è al tempo stesso molto preoccupato per le conseguenze negative che avrebbe una rottura sulla legge elettorale ma anche fiducioso sulla possibilità di chiudere positivamente la pratica entro la settimana prossima. Svelenendo il confronto interno sul referendum.

In altre parole, una volta accontentata sulla legge elettorale, la minoranza – lo ha detto più volte lo stesso Bersani, pur in un quadro di scetticismo di fondo – voterebbe Sì al referendum. Contando che questa partita sembra giocarsi su pochi punti percentuali la sinistra pensa di avere fra le mani uno strumento “pesante”.

Cambiando modello elettorale, la questione tanto discussa dei capilista bloccati (o meno) verrebbe a cadere, giacché il sistema sarebbe fondato sui collegi.

In questa situazione di incertezza è chiaro che si attende la scelta di Matteo Renzi. Sta soprattutto al premier-segretario decidere se difendere l’impianto sostanziale di quell’Italicum per il quale tanto si è speso o se, per il bene dell’unità interna – con uno, anzi, due occhi al 4 dicembre – convenga cambiare impianto, aderendo ad un proporzionale a turno unico che rinvia quasi sicuramente il problema della formazione di una maggioranza di governo alla ricerca di accordi parlamentari successivi al voto.

Da - http://www.unita.tv/focus/italicum-o-senatellum-il-dilemma-del-pd-da-sciogliere-in-pochi-giorni/
6186  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / ELENA DUSI Ecco perché la terra continua a tremare inserito:: Ottobre 31, 2016, 06:58:10 pm
Ecco perché la terra continua a tremare
La "faglia del terrore" affiancata da altre più piccole che si susseguono a distanza di pochi chilometri. Che cosa fa temere agli esperti l'effetto contagio

Di ELENA DUSI
31 ottobre 2016

ROMA - Più che una faglia sismica, ormai sembra una trincea di guerra. I trenta chilometri di paura che partono da Visso a nord fino ad Accumoli a sud continuano a sfornare terremoti. E invece di scemare in energia, le scosse diventano sempre più forti. Il sisma che ieri alle 7:40 ha raggiunto la magnitudo 6.5 "è il più forte in Italia dal terremoto dell'Irpinia del 1980" spiega Gianluca Valensise dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). E in un giorno solo è stato seguito da una raffica di altre trecento scosse, di cui una quindicina di magnitudo superiore a 4.

Questo andamento in crescendo, in realtà, viene considerato un colpo di fortuna. "Se l'energia che è stata rilasciata da tre grandi scosse e da uno sciame durato due mesi si fosse sprigionata in un colpo solo, avremmo probabilmente raggiunto una magnitudo 7" spiega Paolo Messina, direttore dell'Istituto di Geologia ambientale del Cnr. La scossa, cioè, sarebbe stata quasi 6 volte più forte del terremoto di ieri e quasi 30 volte più potente del sisma del 26 ottobre.

Quando l'escalation si fermerà - che è la domanda che una popolazione stremata oggi non smette di farsi - nessuno però è in grado di dirlo. "A un certo punto perderà energia e incontrerà una faglia che non è più disposta a farsi attivare" spiega Valensise. "Ma per bene che vada, ci aspetta comunque un periodo di sciame". Per fare previsioni occorrerebbe sapere esattamente come sono disposte le fratture del terreno nel sottosuolo. E conoscere quanto la rotazione degli Appennini in senso anti-orario stia stirando - caricandoli di energia - i vari pezzi del domino di faglie sotterranee in cui è spezzettata questa zona dell'Italia centrale. "Le tensioni si accumulano lungo le faglie con il tempo. Poi all'improvviso, nel momento del sisma, vengono rilasciate. Quanto sia carico ciascun punto di una faglia è però impossibile da misurare " spiega Daniela Pantosti, direttrice della Struttura terremoti dell'Ingv. "Prevedere il momento della rottura - aggiunge Valensise - sarebbe come conoscere in anticipo quale goccia farà traboccare un vaso".

C'è però un aspetto, nel terremoto di ieri mattina, che i ricercatori non riescono bene a spiegare. Le scosse che hanno innescato questa sequenza, all'alba del 24 agosto, raggiungendo la magnitudo 6.0, sono migrate inizialmente verso nord durante la fase di assestamento. Dopo uno sciame durato due mesi e 18mila scosse, hanno poi colpito il 26 ottobre a Visso, con una magnitudo 5,9 che rientrava tutto sommato nelle previsioni. Ma poi, ieri mattina, il terremoto è sorprendentemente tornato verso sud, ancora a Norcia. "Personalmente, sono rimasto sorpreso" spiega Alessandro Amato dell'Ingv. "Le attivazioni di nuove faglie in genere avvengono alle estremità di quelle già colpite. Non verso il centro". "È stata - conferma Valensise - una scossa un po' anomala. Non capiamo ancora bene come si inserisca nel puzzle. Temevamo che la sequenza proseguisse verso nord-ovest o verso sud-est. Invece l'epicentro di ieri è tornato indietro".

Nel sottosuolo di Norcia, dunque, la Terra si è spezzata due volte. E la seconda volta in maniera ancora più violenta della prima. La montagna, a furia di prendere martellate, si è letteralmente spaccata, tanto che lungo la faglia incriminata - che si allunga fra il Monte Vettore e il Monte Bove - in alcuni punti è perfettamente visibile uno scalino alto un metro. È lì che un pezzo della crosta terrestre è crollato verso il basso. "La parte a ovest, verso il Tirreno, è scivolata giù. Quella verso l'Adriatico si è sollevata. Questo è avvenuto tre volte, in corrispondenza delle tre scosse principali" spiega Pantosti.

La "faglia del terrore" che ormai stiamo imparando a conoscere taglia gli Appennini da nord-ovest a sud-est, è lunga poco più di venti chilometri e inclinata verso il Mar Tirreno di circa 45 gradi. È anche affiancata da una serie di altre faglie, che si susseguono l'una parallela all'altra, o quasi, ogni 5-10 chilometri. Il fatto che queste spaccature della crosta siano piuttosto corte farebbe sperare che la faglia esaurisca presto la sua energia per tornare in uno stato di quiete. Ma il fatto che le fratture sotterranee siano così ravvicinate fa temere anche che il "contagio" possa avvenire più facilmente.

Il sisma di grado 7 che abbiamo evitato fino a oggi, d'altra parte, qui non stupirebbe nessuno. "In questa zona il rischio sismico è massimo. Ad Avezzano nel 1915 raggiungemmo questa magnitudo " ricorda Pantosti. Né i terremoti "a puntate" sono sconosciuti al nostro paese. "Anche nel '97 in Umbria il sisma avvenne in tre fasi a distanza di due mesi " spiega Valensise. "La grande scossa dell'Irpinia, abbiamo scoperto solo dopo, era in realtà composta da tre sotto-scosse molto ravvicinate. La seconda ha seguito la prima di 20 secondi. E la terza è arrivata dopo 40 secondi. In Calabria, nel 1783, si sono susseguiti ben cinque terremoti di magnitudo 6.5 e oltre".

L'Appennino centrale, con le sue faglie piccole, frastagliate e infide resta dunque un puzzle. Ed è impossibile sapere quando tutti i pezzi avranno raggiunto la loro posizione di quiete. "In questa sequenza è stata coinvolta forse una faglia, o forse due contigue, accanto ad altre faglie antitetiche che anziché essere orientate verso il Tirreno lo sono verso l'Adriatico" spiega Amato. "Abbiamo di fronte un sistema attivo e molto, molto complesso".
 
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31 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/scienze/2016/10/31/news/ecco_perche_la_terra_continua_a_tremare-150987447/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_31-10-2016
6187  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Vito LOPS. Titoli di Stato mondiali sotto pressione inserito:: Ottobre 31, 2016, 06:55:10 pm
Titoli di Stato mondiali sotto pressione
    –di Vito Lops Giovedì 27 Ottobre 2016

Un terreno minato. Pur protetto dalla Banca centrale europea (attraverso il piano di acquisti mensili noto come quantitative easing) il mercato dei bond mostra giorno dopo giorno (e questo accade ormai da oltre un mese) segnali di crescente nervosismo. Lo si è visto chiaramente nell’ultima seduta quando, mentre le Borse viaggiavano poco mosse (Piazza Affari ha chiuso a +0,29% nonostante il -8,6% di Banca Mps e Francoforte a -0,44%) i bond sovrani europei facevano le bizze. Con vendite diffuse.

I rendimenti (che si muovono in direzione opposta ai prezzi e quindi salgono quando sui titoli prevalgono le vendite) sono aumentati dappertutto. Il tasso del Bund tedesco (considerato il titolo più affidabile dell’area euro) a 10 anni è risalito di 5 punti base allo 0,08%. Un po’ più marcato il rialzo del rendimento del decennale italiano (dall’1,45% all’1,54%) cosicché lo spread tra i due titoli si è ampliato a quota 145 punti, come non accadeva da fine luglio. Le vendite, in ogni caso, non hanno fatto distinzioni. All’interno dell’area euro si è difeso solo il Portogallo con i titoli governativi che hanno visto aumentare il rendimento di appena due punti base (al 3,21%): ma per Lisbona la storia è diversa. Continua a beneficiare della decisione annunciata venerdì scorso dall’agenzia di rating canadese Dbrs che ha mantenuto il giudizio sul debito lusitano appena sopra la soglia “investment grade”, quella che consente al Portogallo di beneficiare (a differenza della Grecia) degli acquisti della Bce sul mercato secondario.

Una protezione, quella della Bce, che tuttavia sta solo arginando ma non impedendo, l’attuale trend ribassista sui titoli governativi. Questo perché c’è più di un motivo che sta spingendo i gestori ad alleggerire la propria esposizione nel settore. A partire dall’ipotesi di un tapering, ovvero della riduzione del piano di acquisti e quindi di stimoli monetari da parte della Bce. «Al momento il mercato si attende che la Bce prolunghi la scadenza del Qe da marzo a dicembre 2017 - spiega Massimo Saitta, direttore investimenti di Intermonte advisory -. Ma è un mercato divenuto ipersensibile e volatile dopo le ipotesi, per quanto smentite, delle scorse settimane di un possibile tapering anticipato. Inoltre sono stati interessati livelli significativi, la cui rottura potrebbe innescare ulteriori vendite. Negli ultimi due giorni infatti sono state toccate due soglie tecniche critiche: 141 punti per i future sul BTp a 10 anni e 163 per i future sul Bund a 10 anni».

Non ci sono solo i timori del tapering a mettere pressione su un mercato che obiettivamente negli ultimi mesi è stato gonfiato dallo scudo della Bce che ha dato manica larga agli investitori per portarlo allo stremo anche in ottica di trading speculativo. L’altro punto chiave riguarda le prospettive di crescita dell’inflazione. Il grafico che sintetizza le aspettative dei mercati su come si muoverà fra cinque anni (e per i prossimi cinque) l’inflazione nell’area euro è salito a quota 1,45%, un livello molto più alto rispetto a inizio settembre quando era all’1,29%. «Come per il colesterolo anche per l’inflazione c’è una componente buona e una cattiva - continua Saitta-. Diciamo che in questo momento il mercato dei bond sta scontando un aumento dell’inflazione cattiva, ovvero quella derivante dalla crescita del prezzo del petrolio (che ieri ha chiuso in calo a 50 dollari ma quasi il doppio rispetto ai minimi annui toccati a febbraio, ndr), piuttosto che quella buona, determinata dall’aumento dei salari». Che sia buona o cattiva, si tratta in ogni caso di un altro ingrediente che innervosisce il mercato dei bond. E che impatta anche sui titoli della zona extra-euro dove l’inflazione sta risalendo più velocemente. Come ad esempio si può evincere dai Gilt britannici il cui rendimento decennale è passato dallo 0,7% di inizio ottobre all’1,15% di ieri. In rialzo anche i tassi negli Usa (decennale all’1,78%). E qui c’è un altro ingrediente. I mercati scontano un rialzo dei tassi negli States a dicembre (che si specchia anche nel recente rafforzamento del dollaro con l’euro che viaggia a quota 1,09) e questo a ruota, pur con un impatto al rallentatore, influenza anche i rendimenti in Europa.

C’è poi un quarto motivo. Una parte degli investitori si sta convincendo che nei prossimi mesi politiche fiscali più espansive potranno fare da staffetta alle politiche monetarie. «Siamo alla fine dei tassi a zero. E non perché le banche centrali si stiano preparando ad aumentare i tassi: Fed a parte, le altre non ne hanno intenzione. E nemmeno perché i mercati obbligazionari siano convinti che i governi possano generare crescita e inflazione - commenta Brad Tank, chief investment officer fixed income di Neuberger Berman -. Semplicemente perché i mercati avvertono lo spostamento verso un intreccio tra politiche monetarie e fiscali e sanno che questo implica un elevato premio per il rischio politico che va oltre quello indicato dalla curva dei rendimenti».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-10-27/titoli-stato-mondiali-sotto-pressione-063819.shtml?uuid=ADD7VGkB
6188  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Gianni RIOTTA - “Mandate la Clinton in galera”. inserito:: Ottobre 31, 2016, 06:53:34 pm
 “Mandate la Clinton in galera”. Trump trova la spinta giusta e azzera il distacco nei sondaggi
È a meno 2 dalla rivale. L’effetto “mailgate” ancora deve farsi sentire

30/10/2016
Gianni Riotta
New York

Che week end di Halloween 2016! Donald Trump, candidato repubblicano, salta nei sondaggi al 45%, due soli punti dietro la democratica Hillary Clinton. E i numeri non calcolano ancora la reazione di un elettorato stanco, frustrato, malmostoso al caos scatenato da James Comey, repubblicano capo dell’Fbi nominato da Obama, con la irrituale lettera al Congresso su nuovi, possibili, accertamenti a proposito di e-mail della Clinton.

Trick or Treat, scherzetto o dolcetto, l’America si maschera anche in politica, due tribù l’una contro l’altra armate. In New Hampshire, dove Hillary è avanti di un punto, e in Iowa, Trump avanti di un punto, il magnate di New York accoglie il dolcetto Fbi incitando le folle a «sbattere in galera Hillary», l’accento rotondo di Queens, suo quartiere natale, rilanciato rauco dai microfoni. La colonna sonora è adesso i Rolling Stones, «You can’t always get what you want», i versi dei vecchi rockettari colgono l’humor nero trumpista. Siamo andati giù alla dimostrazione, a prenderci la vostra buona dose di insulti, cantando «Noi vogliamo urlare la nostra frustrazione, altrimenti facciamo esplodere pure le valvole da 50-amp!».

Trump rioccupa il terreno prediletto, il trash, il sospetto, al confine tra Vero, Falso, Verosimile, dove i militanti si caricano di energie anti Hillary, «bitch», la cagna delle t-shirt più vendute. Come osservano nel saggio appena pubblicato da Franco Angeli, «Misinformation, Guida all’età dell’informazione e della credulità» gli studiosi Quattrociocchi e Vicini, gli elettori colgono online solo i fatti che aderiscono alle loro opinioni, magma fazioso in cui Trump sguazza a suo agio. L’Fbi non ha rimesso Hillary sotto inchiesta – almeno per ora -, e Comey ha disubbidito alle indicazioni dirette del ministro della Giustizia Lynch, temendo probabilmente di essere accusato dal suo partito di parzialità filo democratici. Trump ha però buon gioco a infierire sugli errori, stupefacenti, della rivale: permettere alla fida consigliera Huma Abedin, moglie separata del disgraziato ex deputato Wiener, sorpreso a ripetizione con sms porno pare anche a minorenni, di condividere con l’assatanato coniuge il telefonino. E da questo scaricare, e stampare, mail dell’allora segretaria di Stato perché Hillary, ahinoi analfabeta digitale, non legge se non su carta e non distingue un server web privato da uno pubblico.

 

La volata della campagna più pazza a memoria d’uomo, e stavolta sembra non entrarci Putin con gli gnomi hacker pronti a rubacchiare mail democratiche e girarle a Wikileaks, rioffre a Trump l’occasione per vincere sul filo di lana, o almeno perder bene. Lo stato maggiore del partito repubblicano, umiliato nelle primarie in primavera, costretto al silenzio dalla populista Convenzione di Cleveland in estate, aveva trovato nella débâcle delle molestie sessuali di Trump in autunno occasione per rialzare la testa, con i due ex candidati, McCain 2008 e Romney 2012 a guidare lo sdegno contro «il barbaro» Trump. Ora è in gioco anche il Senato, dove il partito ha la maggioranza 54 a 46, ma teme il pareggio 50-50 (maggioranza andrebbe ai democratici, con il vicepresidente Kaine a rompere l’impasse). Dire no a Trump e perdere la Camera Alta rischia di facilitare a Hillary la nomina di giudici costituzionali progressisti.

Con Obama che si sgola a far comizi, Florida, North Carolina e Ohio stati in altalena tra i partiti, i leader repubblicani devono trangugiare l’amara realtà. Vinca o perda a novembre, Donald Trump è il loro Clown Killer, il mostro fantastico che i bambini temono divertiti questo Ognissanti. La sua presenza nella destra è e resterà forte, se davvero lanciasse un canale di talk show, ogni candidato dovrà genuflettersi, se partecipasse a future campagne sarà ostico ignorarne i seguaci scatenati.

A 192 ore dal voto il pasticciaccio Comey-Fbi conferma la debolezza di Hillary come candidata (nei sondaggi parecchi repubblicani la battono facilmente), corroborata solo dall’impopolarità di Trump. Se l’aria infelice che pesa sulla democratica e il richiamo della foresta del machismo di Trump strappassero all’astensionismo gli arrabbiati elettori maschi bianchi che lo adorano, per la Clinton sarà una lunga notte, l’8 di novembre. Per questo dal presidente, alla popolarissima First Lady Michelle, alla esausta Hillary, al bonario vicepresidente Biden il grido comune è «Votate!», per questo Trump rialza a palla il volume dei Rolling Stones «Facciamo esplodere tutte le valvole!».

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6189  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. Usa, Clinton e le mail segrete: inquietante che ... inserito:: Ottobre 31, 2016, 06:49:50 pm
Usa, Clinton e le mail segrete: inquietante che Fbi riapra indagini a poca distanza dal votoUsa, Clinton e le mail segrete: inquietante che Fbi riapra indagini a poca distanza dal voto
Lettere riguardano Anthony Weiner, ex marito dell'assistente di Hillary che ha il vizietto di mandare selfie erotici a signore e ragazzine. Ma come i guai della coppia possano danneggiare la candidata non è chiaro. Ora Trump gongola: notizia-shock è nuovo elemento di suspense proprio in dirittura d'arrivo di campagna elettorale

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
28 ottobre 2016

NEW YORK - Ci aspettavamo sorprese da WikiLeaks, ma lo shock arriva dall'Fbi. Che non prende ordini da Vladimir Putin. Un brivido di paura è percepibile nel campo democratico. A 11 giorni dal voto, improvvisamente il capo della polizia federale James Comey in una lettera al Congresso annuncia di avere riaperto il caso delle email segrete di Hillary Clinton. Trapelano pochi elementi, per adesso.

Si sa che le email in questione non sono state mandate dalla Clinton, riguardano invece Anthony Weiner. Chi è costui? E' un politico democratico di New York, ex-marito dell'assistente di Hillary (Huma Abedin), che ha il vizietto di mandare selfie erotici a signore e ragazzine. Ma come i guai di Anthony e Huma Abedin possano danneggiare Hillary, non è affatto chiaro.

Di certo è irrituale, inatteso, inquietante che l'Fbi prenda una decisione così grave a poca distanza dal voto. A luglio la stessa Fbi aveva chiuso la sua istruttoria decidendo che non c'erano estremi di reato. Quella decisione fu criticata da Donald Trump e da tanti altri repubblicani. Ora, come si vede, almeno una critica era ingiusta: l'Fbi non si comporta come un docile strumento dell'Amministrazione Obama, la sua funzione di polizia giudiziaria prevede ampi spazi di autonomia dall'esecutivo, anche se in ultima istanza dipende dal Dipartimento di Giustizia. Ora Trump gongola: vedete, posso ancora vincere le elezioni. Ha ragione. Anzitutto perché questa notizia-shock dall'Fbi arriva in una fase in cui già Trump stava rimontando nei sondaggi. Non una rimonta formidabile, ma sufficiente a ridurre un po' il margine di vantaggio di Hillary, reintroducendo un elemento di suspense e di incertezza proprio in dirittura d'arrivo in questa campagna elettorale.

Trump appena è uscita la notizia ha interrotto un comizio per dire: "Applaudo la decisione dell'Fbi, che torna ad occuparsi delle azioni criminali di Hillary". L'esultanza in campo repubblicano è comprensibile. La tempistica dell'annuncio di Comey è sconcertante: per riaprire un caso chiuso tre mesi fa, e farlo a 11 giorni dall'elezione presidenziale, l'Fbi deve avere dei motivi solidi. Se lo scandalo è grosso, quanto voti può ancora spostare? A questo punto del calendario la percentuale di elettori indecisi è piuttosto ridotta, ma una rivelazione che inchiodi la Clinton a responsabilità gravi può influire sul morale della base democratica e ridurre l'affluenza alle urne.

Vale la pena di ricordare qual è il nucleo della questione. Hillary commise un'imprudenza ed anche una grave scorrettezza - ma non un reato, almeno secondo quanto detto dall'Fbi fino a ieri - usando un indirizzo privato di email anziché quello governativo. WikiLeaks, diffondendo alcune di quelle email segrete, ha messo a fuoco un conflitto d'interessi reale: quando era segretario di Stato, Hillary alternava e confondeva spesso le sue funzioni governative con le attività della Fondazione filantropica di famiglia. Certo le donazioni alla Fondazione servivano ad opere benefiche, e tuttavia chi staccava grossi assegni per la Fondazione aveva anche un accesso preferenziale al Dipartimento di Stato.
 
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Da - http://www.repubblica.it/speciali/esteri/presidenziali-usa2016/2016/10/28/news/email_segrete_di_clinton_inquietante_che_fbi_riapra_indagini_a_poca_distanza_dal_voto-150816080/?ref=HREA-1
6190  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Adriana Cerretelli - Alibi inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:49:36 pm
Alibi
Di Adriana Cerretelli 25 ottobre 2016
Forse il Ceta non è morto ma ormai si aggira come uno zombie tra le macerie della politica commerciale europea.

Il gran rifiuto della Vallonia impedisce al Belgio di ratificare l’accordo di libero scambio tra Unione e Canada, quindi di raggiungere la necessaria approvazione unanime a 28. Quindi di tenere il previsto summit bilaterale che dopodomani a Bruxelles avrebbe dovuto apporre il sigillo conclusivo a 7 anni di negoziati difficili ma alla fine soddisfacenti per tutti.

Se non scaturisse dalle libere dinamiche delle regole europee e democratiche, sarebbe raccapricciante la fronda di un mini-parlamento regionale, rappresenta 3,5 milioni di persone, che impedisce a oltre mezzo miliardo di europei e a 35 milioni di canadesi di beneficiare dell’aumento del libero scambio.

Potrebbe perfino apparire una vicenda marginale, da non drammatizzare troppo perché prima o poi troverà una soluzione, magari entro l’anno, se non rischiasse di affondare, con la credibilità negoziale dell’Unione, un’intesa che ne accoglie quasi tutte le rivendicazioni e promette di potenziare del 20% l’interscambio e la crescita dell’economia di 12 miliardi di euro all’anno, 9 miliardi di dollari per il Canada. Numeri magici in questi tempi grami.

Potrebbe, se non fosse che è l’ultima espressione della “politica dei no” che sta sfiancando l’Unione senza pietà. La bocciatura della Vallonia arriva infatti dopo il no della Danimarca a una maggiore integrazione nella politica Ue degli Interni e della Giustizia. Dopo il no dell’Olanda, per referendum consultivo (votanti, 30% del totale), alla ratifica dell’accordo di associazione Ue-Ucraina già provvisoriamente in vigore. Dopo il no all’Unione degli inglesi, il più devastante.

«È in atto una rivoluzione democratica trainata da Internet che cambia la società, come a suo tempo la stampa. La politica deve cambiare, soprattutto quella europea, la più antiquata con le sue soluzioni anni ’70 per problemi anni ’50», commenta brutale un osservatore olandese.

Nella nuova metafisica del no, all'assalto di ogni ordine costituito, nazionale, europeo, globale, c'è dentro di tutto: insicurezze crescenti dei cittadini, paure del nuovo, del diverso, del più forte, del più competitivo, del futuro. C'è furore emotivo e trionfo dell'irrazionalità, spesso frutto di scarsa conoscenza o di abili manipolazioni esterne. In democrazia il consenso è ineludibile, non importa se spesso le società o loro agguerrite minoranze non sanno quel che si fanno quando votano contro il libero commercio e l'Europa, grandi motori di sviluppo e lavoro. O per i muri e l'arroccamento nazional-identitario.

«È un testo-marmellata, 300 pagine di Trattato, 3000 di annessi, 2 dichiarazioni interpretative e varie bilaterali» taglia corto il portavoce del parlamento vallone. Del Ceta non piace soprattutto l'ISDS, la clausola che crea un tribunale arbitrale permanente per risolvere le vertenze tra multinazionali e governi. L'ISDS oggi compare in 1.400 accordi commerciali bilaterali sottoscritti dai paesi Ue e in circa 3.000 nel mondo. In questo modo salterebbero gli standard sociali e ambientali europei, denuncia Paul Magnette, presidente della Vallonia e nuovo eroe anti-sistema che sogna, pare, di diventare premier del Belgio. In realtà il Ceta, si dice, ha la colpa di essere il fratello minore del Ttip, l'accordo con gli Usa in stand-by. Accusa pretestuosa. Il Ceta accetta tutto quello che il Ttip rifiuta: dazi industriali quasi tutti azzerati, mercato aperto per servizi e appalti pubblici a tutti i livelli di Governo, mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali, forte protezione per investimenti e ben 143 indicazioni geografiche Ue. Tutela dei diritti del lavoro e dell'ambiente. Evidentemente nelle democrazie europee in transizione più degli interessi concreti oggi conta il governo delle emozioni no global, che esprimono il disagio di società spesso abbandonate a se stesse o alle risposte sempliciste dei populismi di varia matrice. Magnette l'ha capito, cavalca l'onda perché sa di esprimere gli stessi malumori che agitano le società tedesche, francesi, austriache, italiane, etc. Se non riuscirà a tranquillizzare gli elettori risolvendo presto il trinomio impazzito democrazia-commercio-politiche comuni, difficilmente l'Europa potrà resistere al popolo dei suoi sempre più numerosi Signor No.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-25/il-no-belga-all-intesa-ceta-e-democrazia-come-alibi-075245.shtml?uuid=ADSWHUiB
6191  Forum Pubblico / AUTORI - Firme scelte da Admin. / Michele FUSCO. È ora di legalizzare le marchette nei giornali ... inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:48:06 pm
È ora di legalizzare le marchette nei giornali (per il bene dei lettori)

Michele Fusco
25 ottobre 2016

Quante marchette passano quotidianamente da un giornale? Quante – soprattutto – sono percepite come tali dai lettori, perché questo è il problema. Qualche giorno fa, come un Pokemon che si aggirava tra le pagine, ne ho beccata una, plastica, fresca come acqua di fonte e risalendo il corso ancora un’altra e sempre dello stesso autorevole giornalista. Che poi è uno famoso, letto, sentito. Quando gli ho scritto via twitter, come fossi un suo lettore qualunque (e poi io sono davvero un lettore qualunque) mi ha detto trattarsi di “spiacevole equivoco”. Gli avevano messo la firma sotto un pezzo pubblicitario, i cattivoni, e quella firma non doveva comparire, ma il pezzo comunque era suo. Spiacevolissimo equivoco, come no. Ma non è sempre così evidente la faccenda. O meglio, spesso è evidente la marchetta, ma non il contesto quando è fraudolentemente giornalistico. L’interessato si protegge con la confezione del prodotto, con la sua qualità complessiva e all’interno di un contesto “credibile” ci piazza l’erba cattiva. Il che, ovviamente, gli vale sempre qualcosa in cambio. Per non essere ingannato, il lettore dovrebbe trasformarsi in un investigatore che passa lunghe ore della sua giornata a verificare, decrittare, mettere a confronto. Un lavoro. E poi perchè. Sono gli editori che dovrebbero garantire il pubblico decoro. E che spesso, invece, sono conniventi. Quanto ai nostri ordini professionali, sulla carta è tutto chiaro. Chi fa marchette è fuori. Nella pratica non succede nulla, a meno di fatti più che eclatanti.

Qui lancerei una modesta proposta. La via professional-moralistica è fallita. Nessuno è in grado di fare le pulci a nessuno, nessuno lava più bianco, il mondo dei giornali vive nella diffidenza reciproca da lustri e lustri. Chi si permette di muovere un appunto, cadrà sotto i suoi stessi rilievi prima o poi. La questione deontologica, fa tristezza doverlo ammettere, è completamente neutralizzata dalla disinvoltura. Gli ordini professionali, che si rifanno appunto alla deontologia, non hanno più alcun senso né alcuna funzione. Tra l’altro in questo modo, con una deontologia puramente di facciata, il giornalista ha sempre buon gioco a proteggersi con le regole del gioco, con le connivenze interne, quando non sono proprio i suoi superiori a indirizzare (o imporre) le sue marchette.

È il momento di legalizzare la nostra disonestà professionale. Di depenalizzarla, o meglio di de-moralizzarla. Di consentire a tutti noi di rivelarsi, di mettere in “chiaro” debolezze, connivenze, interessi, di fare emergere il sommerso dei non detti, dei non rivelati. E disvelarli, finalmente. Senza ipocrisie, ma con una formula chiara che nel cinema è diventata prassi corrente quando in una scena si piazza una marchetta, una bottiglia d’acqua minerale, un pacchetto di sigaretta, una certa marca di automobili e via così. Nei titoli che scorrono sullo schermo troverete questa espressione: «Product placement», praticamente pubblicità occulta che si ha il buon gusto, sancito per legge, di dichiarare preventivamente. È il momento che anche i giornali si dotino di questa formulazione, che naturalmente andrà espressa in prima pagina: «Questo giornale può contenere marchette» o se volete, un più elegante «articoli pubblicitari». Il lettore, così avvertito, potrà naturalmente scegliere la strada più vicina ai suoi sentimenti: pagare più serenamente il suo euro e cinquanta perchè finalmente coinvolto nella depravazione regolamentata, oppure abbandonare la lettura come anima bella in cerca idealmente di una vita migliore (ma inesistente).

In questo modo, forse, metteremo anche un filo di imbarazzo in più nei nostri cari amici di marchetta. I quali si troveranno nella infelice condizione di sentirsi finalmente più liberi di agire ai danni dei lettori, ma con la responsabilità di non potersi più riparare sotto l’ombrello editoriale di un prodotto deontologicamente protetto, di un’organizzazione sociale la cui “mission” è il miglioramento culturale dei suoi lettori. No. Si dirà sin dalla testata che le marchette sono contemplate e che gli ombrelli son finiti. Così pioverà merda, finalmente.

Da - http://www.glistatigenerali.com/media/e-ora-di-legalizzare-le-marchette-nei-giornali-per-il-bene-dei-lettori/
6192  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / L’esempio di Gorino di Valeria DALCORE inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:46:26 pm
Quando rabbia e ignoranza mettono le radici in paese: l’esempio di Gorino

Valeria Dalcore
25 ottobre 2016

Se pensate che Goro e Gorino siano l’eccezione, vi sbagliate di grosso. Goro e Gorino, che se non fosse per la vergognosa pubblicità potrebbe essere un duo comico o il nome di due personaggi di un cartoon, sono l’Italia tutta intera, quella che quando decide di parlare non parla, urla la propria arretratezza mentale, civile e culturale. E lo fa senza vergogna, senza sforzo, sforzo che invece fanno in silenzio gli italiani che aiutano e che sembrano sempre troppo pochi. E’ nel delta del Po, nel ferrarese, che la sera del 24 ottobre 2016 300 cittadini sui 600 della frazione Gorino, hanno costruito barricate di legno e pallet per impedire a 11 donne e 8 bambini provenienti dall’Africa di trovare temporaneamente accoglienza in un Ostello del paese.

Conosciamola, Goro.
3828 abitanti, Wikipedia ci dice che al 31 dicembre 2007 risultavano residenti 48 cittadini stranieri. Un ostello, un bed & breakfast, tre ristoranti. Tre settimane di festa all’anno, d’estate, quando le vongole e il fritto misto piacciono particolarmente. Ha un porto, Goro: appena al di là del confine con il Veneto, già Emilia Romagna, è un po’ fiume e un po’ mare, in una zona con Parco Regionale, scorci suggestivi, un consorzio di bonifica e un’unione di comuni che lavorano insieme per promuovere una zona geografica e qualche specialità locale.

Immaginate di viverci, a Goro. Un luogo che ha una stagionalità marcata e che vivendo di pesca ma senza essere luogo di villeggiatura marittima è probabilmente anche un paese piuttosto spento, silenzioso, come lo sono migliaia e migliaia di paesi in Italia, lontani dalle grandi città, tranquilli per chi ama la tranquillità e in quella ama vivere e frustranti per chi tenta, invece, di sopravviverci. Senza addentrarci in analisi discutibili sul carattere e sul DNA di chi abita questi luoghi, io mi limito a guardare le loro facce nelle foto che i giornali stanno diffondendo. Sembrano in posa come i protagonisti di una fiction, nei loro sguardi la determinazione di chi sta difendendo il territorio come i lupi che digrignano. Me li immagino mentre si accordano sul materiale da portare, la strada da chiudere, il gazebo per le bevande calde per prepararsi all’invasione. No, non li immagino, devo sforzarmi per farlo perchè io, sinceramente, quella cosa che scatta dentro a chi lotta per ostacolare il benessere o la salvezza altrui, non la conosco.

Ho sentito dire che si sono mobilitati perchè non hanno saputo prima del loro arrivo, perché l’ostello andava lasciato ai turisti (di ottobre), perchè il bar a fianco è un punto di aggregazione importante per il paese. E loro, alla socialità, ci tengono: è l’unico modo per tenersi in contatto con il loro mondo geograficamente limitato, conoscersi e riconoscersi, mantenere saldi i loro punti di riferimento. In sostanza, la forzatura di una decisione ha fatto scattare in loro una rabbia organizzata – molto, organizzata – tipica di chi resta, di chi non ha coraggio di andare oltre, di chi preferisce chiudersi e non sapere, piuttosto che aprirsi e capire. Qualcuno ha detto che donne e bambini avrebbero cambiato gli equilibri di Goro e Gorino: la socialità, anche quella costruita dal DNA, dalla famigliarità, dagli amici d’infanzia al bar, avrebbe vacillato. In un posto così qualunque cosa è un’invasione. Nella pagina sui cenni storici del Comune di Goro, si legge:

“La storia di Goro è caratterizzata dalla continua lotta dell’uomo contro le acque del mare e del fiume. Ne sono testimonianza gli antichi manufatti di regimazione idraulica – Torre Palù, Torre Abate, Balanzetta e la chiavica dell’Agrifoglio – e le “luci dei naviganti”: Lanterna Vecchia e nuovo faro di Goro, che dimostrano l’incessante modificarsi del territorio. L’area è inoltre una delle più importanti e suggestive d’Europa dal punto di vista naturalistico, con uccelli rari che qui vivono e nidificano, valli da pesca e fauna ittica tipica di questa zona salmastra. Alle testimonianze di un passato ricco di storia e tradizioni si aggiungono i pittoreschi borghi di Goro e Gorino, antichi nella loro semplicità ma allo stesso tempo importanti centri pescherecci dell’alto Adriatico, proiettati nel futuro con il porto turistico, il modernissimo mercato ittico, la mitilicoltura e le innovazioni tecnologiche al servizio del mare e del turismo. Il vivace mercato del pesce è simbolo del connubio tra tradizione e modernità”.

In un paese silenzioso, che vive di speranze, turismo stagionale e feste estive dedicate alle vongole, in un paese senza prospettive e garanzie, oggi più di ieri, la paura del domani si mescola all’ignoranza tipica di chi ignora da generazioni, di chi resta piccolo perchè è più conveniente, di chi non ha il coraggio di andarsene, di chi viaggia a testa bassa con lo sguardo saldo sulle radici e sulle facce conosciute del bar vicino a casa e non alza mai gli occhi al mondo che viaggia attorno. Un mondo che costringe a viaggiare chi non ha nulla e una vongola non sa neanche che forma ha. Un mondo empatico quando pubblica foto di bambini sotto le bombe, che forse ha commosso anche uno solo di loro, commozione facile con la sicurezza della lontananza fisica. Una condizione così profondamente radicata non può e non potrà mai essere accoglienza e conforto dello sconosciuto, a meno che non sia un cliente in viaggio per acquistare una cassetta di pesce o un appassionato qualificato di bird watching. L’accoglienza presuppone curiosità sana, energia fisica e mentale di molto superiore – per dignità umana – a quella che serve per ammassare pallet e assi di legno. Per questo, osservando Goro e Gorino, pensiamo a quanti paesi così esistano in Italia e a che grande cuore abbiano tutti coloro che vengono dallo stesso silenzio e non si accontentano di ciò che già sanno, finendo grazie al cielo per fare anche solo un gesto in grado di cambiare anche solo una giornata di qualcuno che non ha niente e non avrà mai un paese in cui riconoscersi.


Da - http://www.glistatigenerali.com/immigrazione_integrazione/quando-rabbia-e-ignoranza-mettono-le-radici-in-paese-lesempio-di-gorino/
6193  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Gabriella Chiaramonte Lettera agli abitanti di Gorino, con mia profonda vergogna inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:44:18 pm
Lettera agli abitanti di Gorino, con mia profonda vergogna
Cronaca
Di Sostenitore | 26 ottobre 2016

Di Gabriella Chiaramonte

Poco cari abitanti di Goro e Gorino, come tanti cittadini italiani ed europei ho assistito alle vostre barricate ancora incredula e umiliata dalla vergogna che questo sia accaduto nel mio paese. Che ben noti tribuni della politica italiana esultino e plaudano all’impresa, al grido di “resistenza”, aggrava se è possibile la piaga. “Resistere” è una parola che ha ben altra connotazione, non solo storica ma proprio semantica, rispetto a quello cui abbiamo assistito da parte vostra nei giorni scorsi. Opporsi all’arrivo di 12 donne con bambini, stremati, impauriti… è catalogabile come resistenza?

Insulti, violenze verbali e non, addirittura le barricate per resistere “all’attacco” di uno sparuto gruppo di persone in fuga dall’orrore. La sproporzione sconcertante di una reazione così scomposta e inutilmente aggressiva non sarebbe giustificabile neanche se quelle 12 persone fossero state uomini o più numerosi. Chiederei ai tribuni che vi spalleggiano, così spesso impegnati in dotte disquisizioni e sottili distinguo filologici tra “migranti economici” e “fuggitivi dalle guerre”, in quale sottocategoria collocano ad esempio Boko Haram, alla stregua di una guerra o di un qualche male di natura economica? Perché è anche da quel mostro che le donne nigeriane scappavano.

E ancora, ai professionisti nostrani del commento mi piacerebbe chiedere, visto che cianciano di una presunta “preparazione” che sarebbe dovuta ai cittadini chiamati ad accogliere altri esseri umani, per caso qualcuno si è mai preso la briga di “preparare” all’accoglienza i cittadini di Lampedusa, Pozzallo, Reggio Calabria, Catania, Messina, Augusta, Siracusa… e di ogni altro approdo di carrette del mare? C’è qualcuno che ha organizzato un corso ad hoc per loro? Prima di farli sbarcare dalle navi, ai migranti è mai stato chiesto di raccontare in via preventiva le loro storie di disperazione, per poter muovere così a compassione e quindi elemosinare accoglienza?

Qualcuno ha sostenuto anche questo: “Bisognava far raccontare le loro storie così forse la rabbia si sarebbe placata”. La solidarietà non si fa domande, non attende la compassione, né pretende corsi di formazione. Un essere umano in difficoltà che chiede aiuto non ci dà il tempo di pensare, ponderare, di chiederci se siamo preparati, se abbiamo le carte in regola. Non c’è il tempo di farsi domande se un uomo sta per annegare. E’ un fatto istintivo, è ciò che distingue la civiltà dalla barbarie.

Il problema dell’accoglienza esiste da anni, non è certo un fatto di cronaca recente, nessuno può dirsi impreparato. Le dimensioni del fenomeno oggi richiedono la collaborazione e la responsabilità di tutti, anche la vostra. Finora tutto il peso è stato sostenuto solo da alcune regioni, da alcuni comuni, ha fatto comodo a molti. “I migranti danneggeranno il turismo nella zona”, qualcuno ha sbraitato. Ebbene, io non ho mai saputo dell’esistenza di Goro e Gorino, ma da oggi ho una certezza: saranno le mie colonne d’Ercole, un limite invalicabile. Non ci metterò mai un piede perché per me è il luogo della vergogna e nessun sofisma, nessun ricamo di raffinati commentatori riuscirà a ridurre i termini di quanto accaduto.

Nascosta da qualche parte, forse, potreste anche avere una qualche motivazione plausibile, impossibile da condividere per me. E’ la dimensione e la violenza di quel rifiuto, tuttavia, che non si può accettare, né giustificare. “Il modo ancor m’offende”, scriverebbe il Sommo poeta. Siete entrati a forza sotto i riflettori della cronaca ma la motivazione non vi fa onore, non potete esserne orgogliosi e forse lo sapete già.

Mi auguro che possiate riparare all’onta di cui vi siete fatti artefici.

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6194  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Elena Loewenthal. Una colonna sonora contro il silenzio del tumore inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:31:43 pm
Una colonna sonora contro il silenzio del tumore
In un libro il racconto del giornalista Paolo Colonnello. Dalla malattia alla guarigione, un percorso contro la paura

26/10/2016
Elena Loewenthal

La prima cosa che arriva è la paura. Una paura cieca e scura, tutta nuova, una paura che non è ferma ma ti gira intorno veloce, come un giovane pianeta intorno a una stella nera e pesantissima. È la paura il primo, invadente inquilino della tua vita quando il cancro ti entra in casa. È una paura che prima non esisteva e non capisci se è per te o per gli altri, se ti isola dal resto del mondo o al contrario travolge tutto quello che trova intorno a te, insieme a te.

Quando arriva il cancro, subito dopo la nuova paura comincia una vita, tutta nuova anch’essa. La vita con il cancro è tutta diversa da quella di prima. Non è fatta solo di paura, ovviamente. E nemmeno solo di disperazione o di attesa. È una vita tutta diversa innanzitutto perché tutto comincia a ruotare intorno al cancro, ai suoi confini, ai suoi tempi, ai suoi ritmi. La prima cosa che il cancro ti dice, quando entra in casa, è che lui sta in centro. Nel nuovo silenzio che scende a volte, negli orari delle terapie, nel pensiero sul futuro quello lontano ma anche e forse soprattutto quello vicino, del primo domani che viene.

Paolo Colonnello queste cose le sa bene perché un giorno una cosa che sembrava essere una stupida cisti nella pancia si rivela invece un sarcoma di quelli «rari e stravaganti», come li chiama lui, e così inizia per lui un anno di corpo a corpo con il cancro, la chemioterapia, la chirurgia «distruttiva», le Tac di controllo. E insieme alla vita, comincia il racconto: «Il senso del tumore per la vita» (Centauria editore, pp. 224, € 16,90). Non è un diario, non è nemmeno un reportage. È proprio un racconto, perché in fondo la malattia è prima di tutto narrazione, perché per scendere a patti con il cancro bisogna trovare le parole per dirlo, per ascoltare quello che ti succede, scriverlo dentro il libro della tua vita. E così ha fatto lui, che è un giornalista e sa come trovare le parole, in più è anche un musicista e così questo racconto ha anche la melodia giusta - la sua e del suo sassofono - che scandisce le giornate e i mesi, trova la nota per raccontare le interminabili ore di chemioterapia, l’ansia abissale che prende prima di entrare in sala operatoria, il sapore acido dell’attesa prima che arrivino gli esiti degli esami. 

(In libreria dal 6 ottobre, «Il senso del tumore per la vita», edizioni Centauria) 

 

«Non c’è nulla di permanente», scrive Colonnello. Insomma, la malattia ti insegna prima di tutto quella destabilizzazione, quella provvisorietà che è cifra autentica della vita - per i malati così come per i sani. Non è una trita questione morale, è una cosa che tocchi con mano quando arriva la malattia e ti trovi subito a fare i conti con il tempo - non soltanto come un confine che sul momento sembra venirti incontro a passi da gigante, chiudersi tutto intorno a te. Anche con il tempo più banale: i programmi per l’estate, la serata con gli amici, l’impegno di lavoro. Tutto viene catapultato subito dentro il tempo della malattia, e così capisci che la vita è fatta anche, forse soprattutto di imprevisti, di momenti che vanno e vengono. In questo e in tanti altri sensi la malattia è un’esperienza cognitiva come poche altre. Impari subito parole nuove, e parole vecchie assumono nuove accezioni. I referti degli esami, ad esempio, hanno un lessico e una sintassi tutta loro.

La malattia, e forse il cancro più di ogni altra, perché il cancro non è una malattia soltanto, non è soltanto un iter terapeutico bensì un universo intero di malattie, terapie, prospettive, la malattia è un insieme di esperienze, parole, emozioni di cui prima non immaginavi l’esistenza. Colonnello racconta tutto questo con forza e delicatezza, sempre al ritmo della sua amata musica che parte dalla pancia e arriva un giorno sino al tetto dell’ospedale. Ci parla delle sue paure e di quelle dei suoi affetti, della musica che salva.

Ma questo è soprattutto, come dice anche il titolo, un libro sulla vita. Perché la malattia è vita, anche se a volte sembra e a volte diventa il suo contrario. Senza falsi ottimismi, senza cedimenti alla retorica, senza mai perdere il ritmo del racconto, quando parla della sua malattia Colonnello parla della vita, di quella di prima, di quella che attraversa durante l’anno di malattia e di quella che viene dopo, quando «dopo la risonanza anche la Tac era perfetta. Ci siamo, sei a posto. Adesso dovrai tornare qua solo per i controlli!».

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6195  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / GALULLO. Io corrompo, tu rubi, egli «escort»: ecco come cambia la corruzione. inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:30:03 pm
Non solo favori e mazzette
Io corrompo, tu rubi, egli «escort»: ecco come cambia la corruzione

    –di Roberto Galullo 28 ottobre 2016

Deve essere perché la carne è debole e il portafoglio è gonfio se il sostantivo corruzione ha un sinonimo che, da neppure 10 anni, ha fatto irruzione nella vita sociale e politica. Già, perché se ancora vanno alla grande mazzette e bustarelle, viaggi e regali, assunzioni e promozioni, non c'è niente che vada più di moda di una bella escort – in lingua inglese, letteralmente, accompagnatrice, in italiano qualcosa di più – per piegare politici, dirigenti e funzionari pubblici o privati e persino giudici di gara a fini diversi da quelli per i quali, in teoria, dovrebbero prodigarsi.

Bene pubblico, trasparenza, imparzialità e terzietà vanno a farsi benedire quando c'è di mezzo una bella figliola pronta a concedere le proprie grazie. Il conto, tanto, in un modo o nell'altro lo pagano i cittadini, mica i beneficiari.
L'ultimo esempio arriva dall'indagine Arka di Noè della Procura di Genova sulla presunta corruzione nella realizzazione di alcune opere del cosiddetto Terzo Valico ferroviario che ha portato all'arresto anche di Giandomenico Monorchio, imprenditore 46enne figlio dell'ex Ragioniere di Stato Andrea e all'indagine su Giuseppe Lunardi, figlio dell'ex ministro dei Trasporti e delle infrastrutture Pietro. Tutti innocenti fino a eventuale sentenza di colpevolezza passata in giudicato.

Sembra che le serate con le escort – come merce di scambio per la corruzione – per alcuni degli indagati andassero più forte del panettone a Natale. Talvolta gli incontri riuscivano, talaltra fallivano per impossibilità di trovare una figliola all'altezza della prestazione. Tanto – è il caso di dire – paga la ditta. Interessata, in questo caso, a ottenere i lavori corrompendo, secondo l'accusa, alcuni funzionari di un Consorzio e trovando anche il tempo di disquisire sul colore della pelle: «Senti io conosco due amiche mie brasiliane nere, ti piacciono brasiliane nere?». La risposta negativa – «Mi fanno schifo» – darà il tempo necessario per cambiare carnagione.

Da Genova a Milano il viaggio è breve. Con o senza l'alta velocità ferroviaria. E così, nell'indagine Underground del 3 ottobre della Procura meneghina – costata il carcere a 11 persone e i domiciliari ad altri tre, accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di corruzione diretta all'acquisizione di subappalti di opere pubbliche realizzate in Lombardia, reati di natura fiscale, per presunta utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e indebite compensazioni e ancora truffa ai danni dello Stato, bancarotta fraudolenta, intestazione fittizia di beni e complessi societari e illecita concorrenza realizzata attraverso minaccia e violenza – si scopre che c'è chi, per accumulare appalti e lavori, è pronto a pagare in escort. La tariffa non sarebbe neppure così cara: 500 euro. Non è dato sapere, però, se all'ora o “a cottimo”.
Se l'ultimo mese ha dato il peggio di se è forse perché il fenomeno è in continua evoluzione e rapida crescita. Senza tener conto delle indagini di alcuni anni fa a Roma e Milano sulle vere o presunte escort che giravano intorno a Servitori dello Stato, dirigenti pubblici, imprenditori e capi di governo, la svolta era già apparsa chiara nelle indagini tra il 2013 e il 2015 nel corso delle quali, tra le altre, le Procure di Palermo, Torino e ancora Genova e Milano (forse per una particolare predisposizione ai piaceri della vita che si respira in Liguria e Lombardia) hanno avuto il loro bel daffare per rincorrere la scia di profumo rilasciato dalle accompagnatrici nelle stanze di politici più o meno noti e burocrati più o meno grigi.

In questo scenario ha le sue ragioni da spendere il criminologo e neuropsichiatria Francesco Bruno, docente di Criminologia e di psicopatologia forense all'università di Roma La Sapienza. Di fronte all'ormai massiccia regalia di prostitute di alto bordo a uomini d'affari e politici, già nel 2009 dichiarava che nel tempo «non c'è stato più bisogno della semplice meretrice come era ad esempio all'epoca delle case chiuse, ma si è iniziata ad avvertire l'esigenza di una donna che accompagnasse l'uomo d'affari nei viaggi. E dall'altro lato uomini molto timidi o al contrario assai spregiudicati, le hanno utilizzate per i loro interessi». Insomma, la società dell'immagine rinnova la sua immagine. Meglio se spregiudicata e di bella presenza.

Certo che, se questo è vero, appare difficile mandar giù anche – come come dire – le devianze. L'indagine Rent della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, questa settimana ha infatti portato alla luce un episodio che – se non fosse stato messo nero su bianco nel decreto di sequestro d'urgenza firmato dai pm della Dda Antonio De Bernardo e Luca Miceli – sarebbe degno di uno sceneggiatore cinematografico. Per carità, poca cosa rispetto a un'operazione che svela associazione di tipo mafioso, riciclaggio, estorsione, detenzione illecita di armi da fuoco, con l'aggravante del metodo mafioso e – ancora una volta – l'ombra della ‘ndrangheta sulle grandi opere e le grandi infrastrutture del nord. A partire da Expo.

Uno degli indagati in Rent è appassionato di cani tanto da avere nel Bergamasco un allevamento di esemplari addestrati per la difesa e l'attacco. Secondo l'accusa avrebbe reclutato, per farla prostituire, una donna da lui stesso stipendiata grazie ad un rapporto di lavoro simulato con la società di cui era proprietario occulto. L'indagato, nel giugno 2015, l'avrebbe indotta a concedersi ad un giudice della gara canina “World Dog” tenuta a Milano 2015, così agevolando, favorendo e sfruttando il meretricio in cambio del vantaggio (anche economico) della vittoria di un proprio cane nella classifica finale della gara. Con l'aggravante di aver commesso il fatto per agevolare l'attività della cosca Coluccio di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria).
Ah, come erano lontani i tempi della Prima Repubblica quando bastava solo scendere in pista e dimenarsi sulle note della disco music per richiamare a frotte ragazze “affamate di fama”.

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