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6136  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Massimo D’Alema. Il professionista della politica rimasto senza apparato inserito:: Novembre 08, 2016, 11:09:49 pm
Un’altra strana coppia del No: Massimo D’Alema e Paolo Flores d’Arcais
Il professionista della politica rimasto senza apparato e il precursore dell’antipolitica che ha trovato un partito.

Massimo D’Alema. Il professionista della politica rimasto senza apparato

A guardarlo adesso, mentre mena fendenti a destra e a sinistra contro avversari che lo accerchiano da ogni lato, costretto a difendersi dall’assalto dei nemici non meno che dalle frecciate degli ultimi compagni di strada, viene da chiedersi chi glielo abbia fatto fare, a Massimo D’Alema. Perché diavolo non se ne sia rimasto seduto sulla riva del fiume, a godersi la sfilata dei commentatori che lo avevano accusato di avere pugnalato alla schiena il leader del centrosinistra, essere andato a Palazzo Chigi senza passare dal voto, avere voluto cambiare la Costituzione con Silvio Berlusconi. Quindici anni di rivincite avrebbe potuto prendersi, restandosene buono buono a osservare tanti feroci detrattori riabilitare una per una tutte le scelte per cui lo avevano crocifisso. Ma forse la verità è che questo è l’unico ruolo che D’Alema, per sé, non ha mai voluto, la sola parte che non ha mai saputo recitare: quella del buono. Nel corso degli anni, non per niente, gli hanno attribuito le fattezze di tutti i supercattivi della storia della letteratura, del cinema e del fumetto: da Ming il Terribile a Saruman il Bianco. Ma sono frecce che mancano il bersaglio, perché D’Alema non ha nulla del freddo calcolatore che trama nell’ombra. E se fosse un personaggio del Signore degli Anelli, non sarebbe Saruman, il mago che tradisce i buoni per vendersi all’oscuro Sire, ma semmai Boromir: il guerriero impavido e arrogante, pronto a tutto pur di riportare il suo popolo – e la sua dinastia con esso – all’antico splendore, e che per questo risulta subito antipatico a lettori e spettatori di tutte le età. Ma nel momento decisivo, quando lo vedranno ergersi, da solo, contro la marea montante dei nemici, non emetteranno un fiato. Anche il pubblico più ostile lo seguirà con il cuore in gola mentre si lancia alla carica contro avversari troppo superiori per numero, il corpo interamente ricoperto dalle loro frecce, ferito a morte ma deciso a portare con sé più nemici di quanti ne abbia mai fatti a pezzi lama d’acciaio o dichiarazione d’agenzia. Il primato della politica, questa è stata sempre la sua bandiera. I partiti come architrave della democrazia, ecco il suo grido di battaglia. La politica come professione e vocazione, di più, come «ramo specialistico delle professioni intellettuali». Pensando a quel parlamento da cui D’Alema è uscito nei giorni in cui vi entrava Alessandro Di Battista, e in cui dopo vent’anni di berlusconismo e leghismo è esploso il fenomeno grillino, non può stupire che il campione di una simile concezione della politica sia stato sopraffatto. Stupisce, semmai, che non sia stato sopraffatto prima. Arrivato alla guida del Pds nell’estate del 1994, con la sinistra al minimo storico, Forza Italia primo partito, il governo Berlusconi appena insediato e la prospettiva di una esclusione dell’Italia dall’unione monetaria considerata quasi scontata, D’Alema rovescia il tavolo in sei mesi. È il famoso «ribaltone». Il segretario del Pds, giocando di sponda con Umberto Bossi, innesca la crisi del governo, appoggia con centristi e Lega un esecutivo guidato da Lamberto Dini che fa la riforma delle pensioni e dopo un anno, nel 1996, porta l’Italia alle elezioni. La Lega corre da sola e contro la destra si presenta la nuova coalizione di centrosinistra, l’Ulivo, guidata da Romano Prodi. È la campagna elettorale che Nanni Moretti racconterà in Aprile, con il regista che davanti al dibattito tra D’Alema e Berlusconi urla al televisore: «D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!». In compenso, per la prima volta, la sinistra che viene dal Pci quelle elezioni le vince. Ma la somma dei voti presi da Lega da un lato e centrodestra dall’altro è persino superiore al ’94, come D’Alema non manca di sottolineare subito, con la consueta amabilità. La sua tesi è che la vittoria del centrosinistra non si debba a u n’ondata di adesione popolare, che non c’è stata, ma a una superiore capacità di manovra politica (cioè a lui). Sul piano dei numeri la ricostruzione è inconfutabile. Sul piano della politica, che non si fa con i numeri ma con le persone, il discorso non risulta particolarmente accattivante. Figuriamoci per chi allora, in nome dell’Ulivo, si trova al governo. La guerra non scoppia subito perché l’esecutivo è impegnato a portare l’Italia nell’euro e D’Alema è impegnato a cercare di riformare la Costituzione con Berlusconi. Ma quando nel ’98 l’obiettivo dell’euro è centrato e la Bicamerale fallita, il conflitto deflagra, anche perché nel frattempo Fausto Bertinotti ha tolto la fiducia al governo. Convinto che l’eletto – rato di centrosinistra lo punirà, Prodi vuole tornare al voto. Convinto che l’elettorato di centrosinistra sia una minoranza, e figurarsi senza Rifondazione, D’Alema non vuole saperne. E c’è la guerra del Kosovo alle porte. Il risultato è che alle elezioni non si va e a formare il nuovo governo è D’Alema, che lascia la guida del partito a Walter Veltroni, cioè al più ulivista dei diessini (nel frattempo, infatti, D’Alema ha anche rifondato il postcomunismo, con un’ambiziosa operazione che si può riassumere nel fatto che il Pds perde la P e resta Ds). Tutto il resto, a leggere le ricostruzioni dei protagonisti, è un’infinita serie di complotti e tradimenti che seguono sempre lo stesso schema. In sintesi: 1998, complotto di D’Alema per far cadere Prodi; 2000, complotto di Veltroni e Prodi per far cadere D’Alema; 2007, complotto di Veltroni per far cadere Prodi e D’Alema; 2013, complotto di Renzi e D’Alema per non fare arrivare Bersani a Palazzo Chigi e Prodi al Quirinale. Sintesi che non rende giustizia a nessuno dei protagonisti, finendo per oscurare il merito e i risultati di tante loro battaglie. Fatto sta che la vicenda del centrosinistra è stata raccontata da loro stessi, con raro autolesionismo, proprio così: come un’eterna guerra dei Roses. Non stupisce che dopo quindici anni lo slogan della rottamazione abbia avuto tanto successo. Curioso è semmai che a prendersi la maggior parte delle accuse di intelligenza con il nemico per le sue battaglie contro il radicalismo giustizialista, il complottismo antiberlusconiano, l’antipolitica movimentista, sia stato quello stesso D’Alema che è stato anche la prima vittima dell’ascesa renziana, segnata proprio dall’abbandono dell’antiberlusconismo giustizialista. Mentre l’antico campione del primato della politica, schierandosi con il no al referendum, ha finito per scivolare progressivamente sulle posizioni dei suoi vecchi contestatori. Che lo hanno accolto con l’amicizia e la considerazione di sempre.

Paolo Flores d’Arcais. Il precursore dell’antipolitica che ha trovato un partito

Nella politica italiana, si sa, non mancano dirigenti e intellettuali sempre pronti a cambiare casacca, idea e ideali, al primo cambio di vento: talmente numerosi che non servono esempi. Ma ci sono anche, all’estremo opposto, quelli che non cambiano mai. Quelli come Paolo Flores d’Arcais, il cui primo appello per la formazione di una lista della società civile contro i vecchi apparati della sinistra risale al 1987, e l’ultimo, tale e quale, alle europee del 2014. «Il difficile comincia ora», spiega ad esempio sul Fatto quotidiano del 15 febbraio 2011, all’indomani della grande manifestazione femminista dei comitati «Se non ora quando?», invitando le organizzatrici a non fare «l’errore compiuto dai girotondi, e poi dai viola, e dal movimento degli studenti, e da tutti i movimenti di lotta che hanno mantenuto civile e vivo questo paese nel “quasi ventennio” cupo che abbiamo vissuto». L’errore cioè di delegare «ai soli partiti il momento elettorale». E pensare che a ciascuno dei movimenti citati, nessuno escluso, era arrivato di volta in volta l’argomentato appello di Flores, come l’anno dopo sarebbe arrivato alla Fiom (e certamente arriverà a qualsiasi cosa si muova a sinistra, al di fuori dei partiti di sinistra, finché Flores avrà carta e penna a disposizione). Ma il frutto più maturo della sua visione – che si riassume in una politica non professionale, figlia di una sorta di spontaneismo sociale che si autorganizza e al tempo stesso si autodissolve – arriva qualche mese dopo, quando il filosofo torna a rivolgersi alle incolpevoli organizzatrici di «Se non ora quando?», esortandole a procedere alla svelta, e naturalmente sotto la sua attenta guida, verso la formazione di «liste di cittadini senza partito, che giurino di fare i parlamentari per una sola legislatura». Liste, sia chiaro, che «in più punti saranno in dissonanza tra loro e soprattutto con il Pd e gli altri partiti, di modo che il programma di governo nascerà dai risultati concorrenziali che usciranno dalle urne». Ma questa è forse solo la versione più estrema di un’elaborazione instancabile, frutto di una vita di appelli, piattaforme, infatuazioni improvvise e non meno rapide delusioni. Un passato nel ’68 romano e nell’area della sinistra extraparlamentare, direttore del Centro culturale Mondoperaio nel Psi craxiano (che però, alle sue prime critiche, gli toglierà i fondi), Flores, incredibile a dirsi, aveva cominciato nella Fgci. Da cui però era stato presto espulso per attività frazionista –e questo è meno incredibile, ancorché non bello –a causa della sua militanza trotzkista. Emarginato anche nel Psi, fonda con Giorgio Ruffolo la rivista politico-culturale MicroMega, da allora in poi sua unica collocazione stabile. Illuminante, per studiare l’evoluzione del suo pensiero politico, l’incipit dell’articolo «Per ritrovare le città», uscito su Repubblica il 3 gennaio 1987. A dimostrazione di come in lui categorie, lessico e obiettivi dei successivi venticinque anni fossero già pienamente definiti. «In mano ai professionisti della politica, ai padroni dei partiti, nuova oligarchia dominante e inamovibile –esordiva –la vita quotidiana delle nostre città (quelle grandi, soprattutto) diventa ogni giorno più insostenibile». Dopo «quasi dieci anni di governo delle sinistre» il responso degli elettori era stato una «pressoché generalizzata bocciatura elettorale». Facile indovinare, a partire da questa cruda analisi, la soluzione escogitata da Flores nel 1987: «Il rimedio che qui si intende suggerire… è una rivolta del cittadino che assuma la forma pacifica, ma inequivoca di un uso diretto e autonomo dello strumento elettorale nelle elezioni amministrative, attraverso la costituzione di liste di impegno civile». Il punto di partenza è sempre lo stesso: «Oggi è diffuso un disagio… che riguarda soprattutto uomini e donne tradizionalmente orientati a sinistra…che negli schieramenti della sinistra organizzata, e nella prassi quotidiana dei rispettivi partiti, trovano ormai difficoltà insormontabili a riconoscersi. Chiamiamoli, questi uomini e queste donne, sinistra sommersa». Degli zombie, insomma, si può scommettere che avrebbe chiosato, fosse stato lì in quel momento, Massimo D’Alema. Vale a dire l’uomo politico che più di ogni altro ha rappresentato l’incarnazione di tutto ciò contro cui Flores si è sempre battuto. Persino più di Silvio Berlusconi, di cui pure Flores è stato uno degli oppositori più radicali. Anzi, lo stesso carattere dell’opposizione a Berlusconi è stato forse il discrimine fondamentale, nella stagione dei girotondi,tra radicali e riformisti, fan di Nanni Moretti e sostenitori del primato della politica, floresiani e dalemiani. Non può stupire, pertanto, che dopo una breve stagione da garante della Lista Tsipras –del resto non più breve della durata della lista stessa –Flores abbia finito per ritrovarsi al fianco del Movimento 5 Stelle, forse la cosa più vicina alla sua idea di non-partito della società civile che sia mai stata concretamente realizzata. Con la differenza, in verità, che quando parlava di società civile Flores pensava a candidature del calibro di Umberto Eco e Gianni Vattimo, non ad Alessandro Di Battista. Ma neppure questa è una differenza insuperabile. «A sinistra non ci sono più corpi da rianimare, ha ragione Di Battista», ha scandito in un convegno del 2015, pur intitolato «Europa in debito di sinistra». Un debito che evidentemente Flores ritiene preferibile estinguere, nel senso biologico del termine, se alle ultime amministrative, di fronte alla sfida tra Piero Fassino e Chiara Appendino, non ha esitato a rivolgersi ai torinesi con queste parole: «Fassino costituisce la quintessenza… della degenerazione costante, progressiva, e infine galoppante del Pci… da partito dei lavoratori, degli oppressi, degli emarginati, a coacervo dei più vieti e non sempre confessabili interessi di establishment ». Dire che oggi abbia aderito al fronte del No alla riforma costituzionale sarebbe dunque improprio. Semmai, è il fronte del No ad avere aderito a lui, che contro ogni possibile riforma della Costituzione e accordo con Berlusconi tuona da svariati decenni. Quanto al fatto che al fronte contrario alla riforma voluta da Berlusconi abbia ormai aderito lo stesso Berlusconi, è una contraddizione che un filosofo come Flores non avrà difficoltà a superare dialetticamente. Per quanto riguarda D’Alema, invece, a chi ha provato a stuzzicarlo in proposito, Flores ha risposto con la fermezza di sempre: «Imbarazzato? No, D’Alema si è accodato». Di tutte le accuse che gli ha rivolto in questi anni, per lui, senza dubbio la più infamante.

>>> Guarda le puntate precedenti <<<

Da - http://www.unita.tv/focus/unaltra-strana-coppia-del-no-massimo-dalema-e-paolo-flores-darcais/
6137  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Avvertite il professor Pace che il Parlamento è perfettamente legittimo inserito:: Novembre 08, 2016, 11:08:09 pm
Avvertite il professor Pace che il Parlamento è perfettamente legittimo
Il Noista   
Lo ha sancito chiaramente la Corte Costituzionale, di cui egli fu presidente

E’ davvero sorprendente che un giurista raffinato come Alessandro Pace, presidente del Comitato per il No al referendum costituzionale, si sforzi si avvalorare con la sua dottrina una tesi non soltanto giuridicamente sbagliata, ma anche eversiva sul piano politico e istituzionale.

Secondo Pace, prima ancora del merito della riforma, ne va contestata in radice la legittimità costituzionale, perché approvata da un “Parlamento illegittimo”.

Non è vero, e sostenere il falso in modo così plateale e autorevole significa soltanto rovesciare barili di benzina sul fuoco della demagogia, del qualunquismo, dell’antipolitica, dell’eversione.

Secondo Pace, all’indomani della sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionali alcune parti qualificanti del cosiddetto Porcellum “in forza degli ovvii fondamentali principi delle democrazia parlamentari, avrebbe dovuto disporsi l’immediato scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubblica e la convocazione dei comizi elettorali per un nuovo Parlamento”. Nulla di più falso, nulla di più fuorviante.

Il Parlamento eletto nel 2013 è infatti perfettamente legittimo, come spiega senza ombra di dubbio alcuni la stessa Corte costituzionale a conclusione della sentenza n. 1/2014: “È evidente, infine, che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere.”

“Essa, pertanto – prosegue la sentenza –, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. […] Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali. [La Consulta] rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.”

“E’ pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio”: più chiaramente di così sarebbe stato difficile esprimersi.

Del resto, se Pace avesse ragione, sarebbe illegittimo anche il Presidente della Repubblica, perché eletto da un Parlamento illegittimo, nonché il suo predecessore (ricordiamo che il Porcellum è in vigore dal 2008), nonché i due terzi della stessa Corte costituzionale, che sono stati indicati o da un Parlamento illegittimo o da un Capo dello Stato eletto da un Parlamento illegittimo.

E’ davvero un peccato che, per condurre una campagna politica di parte, si scelga di minare intenzionalmente i capisaldi dello stato di diritto e i pilastri del nostro ordinamento istituzionale. E il peccato diventa scandalo se a farlo è un professore emerito di Diritto costituzionale.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/avvertite-il-professor-pace-che-il-parlamento-e-perfettamente-legittimo/
6138  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / E’ semplice, per Bersani Renzi è un imbroglione. Fine della discussione inserito:: Novembre 08, 2016, 11:07:05 pm
E’ semplice, per Bersani Renzi è un imbroglione. Fine della discussione
Il Noista   
Ripercorriamo tutta la storia fino all’accordo strappato da Cuperlo

“Arroganza e sudditanza”, insulta Pier Luigi Bersani: l’intervento di Matteo Renzi alla Leopolda non gli è molto piaciuto, ma non sa bene spiegarne il perché. Abituato ormai da un paio d’anni a cannoneggiare il segretario del suo partito e il governo espressione del suo partito, contestandone ogni scelta e ogni respiro e ogni provvedimento, Bersani ora s’atteggia a povera vittima, evoca come un Pigi Battista qualsiasi lo spettro dello stalinismo, rivendica il suo amore per la “Ditta” (difficile immaginare un’espressione più spettrale).

E allora, molto semplicemente e con molta pazienza, proviamo a ripercorrere la vicenda, e cerchiamo di capire non chi abbia ragione – non ce n’è bisogno – ma quanto alta sia ormai la percentuale di malafede in coloro che, dopo aver perso le elezioni, il Quirinale, palazzo Chigi e la segreteria del Pd, ora vorrebbero che Renzi li imitasse.

Che cosa è successo in queste ultime settimane? La minoranza guidata da Bersani, sebbene abbia votato sei volte la riforma costituzionale in Parlamento, ad un certo punto ha annunciato che avrebbe votato No al referendum se non fossero intervenute modifiche sensibili all’Italicum. Italicum che, com’è noto, non fa parte della riforma e non è oggetto del referendum; e che, com’è altrettanto noto, era già in vigore quando Bersani e Gotor votarono felicemente Sì alla riforma Boschi.

Anziché scoppiare a ridere di fronte al testacoda di Bersani, Renzi pazientemente ha convocato una riunione della Direzione del partito, si è detto disponibile a modificare profondamente la legge elettorale, ha promosso una commissione che mettesse le modifiche nero su bianco.

Bersani e Speranza si sono rifiutati di entrare nel gruppo di lavoro, Cuperlo invece ha accettato.

Sabato i lavori della commissione si sono conclusi con un accordo che accoglie tutte – TUTTE – le modifiche proposte dalla minoranza: premio “di governabilità” ridotto, niente ballottaggio, collegi uninominali, coalizioni anziché liste di partito, elezione diretta dei senatori.

Cuperlo, colpevole di credere al significato delle parole, si è detto soddisfatto. Bersani e i suoi amici sono invece insorti: “Dichiarazione di intenti estremamente fumosa e ambigua”, ha sentenziato l’acuto Gotor. E il brillante Speranza: “Se si vuole fare sul serio si fanno provvedimenti, non documenti”. “Quel foglietto – ha concluso sprezzante Bersani – per me vuol dire che Renzi vuole mantenere le mani libere. Su quel foglio c’è scritto ‘stai sereno’. Io non sto sereno e voto No.”

Finalmente una frase sincera: Bersani di Renzi non si fida. Lo considera un imbroglione.

Qualsiasi cosa dica, per lui non vale. I documenti sottoscritti dal vicesegretario del partito, dai due capigruppo e dal presidente sono carta straccia perché è Renzi il segretario. Ogni impegno assunto non ha alcun significato, se ad assumerlo è Renzi o qualcuno che lo frequenta.

La prima frase sincera di Bersani in molti anni è preziosa e va dunque ricordata: il No al referendum al fianco di grillini e leghisti, l’attacco sistematico al governo del Paese, la critica violenta al partito non sono una scelta politica, ma il frutto di un’alterazione umorale, di uno slittamento psicologico, di un disagio da andropausa: Renzi è un imbroglione e la sua parola non vale nulla. Fine della discussione.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/torniamo-a-spiegare-per-bersani-renzi-e-un-imbroglione-fine-della-discussione/
6139  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Andrea Carugati. Verdini: “Il Pd ormai è finito, si aprono praterie. Renzi si... inserito:: Novembre 08, 2016, 11:02:33 pm
Verdini: “Il Pd ormai è finito, si aprono praterie. Renzi si allei con me”
Il leader Ala: Bersani farà la fine di Fassina, sulla legge elettorale Matteo tratti con noi

Pubblicato il 08/11/2016
Ultima modifica il 08/11/2016 alle ore 07:07
Andrea Carugati
Roma

«Avete visto cos’è successo alla Leopolda? Il Pd ormai è finito, tra Renzi e la minoranza le strade si dividono. E per il centro che vogliamo costruire si aprono praterie in una coalizione con il Pd». Domenica sera, palazzo Ferrajoli, enormi finestre affacciate su palazzo Chigi. Denis Verdini è uno degli ospiti d’onore della serata di beneficenza per Amatrice organizzata dal deputato piemontese di Scelta civica-Ala Mariano Rabino, con la collaborazione dell’Ente Fiera del tartufo bianco di Alba e dello chef stellato Massimo Camia. Verdini siede al tavolo d’onore con la figlia Francesca accanto al viceministro Enrico Zanetti, al deputato di Forza Italia Antonio Angelucci, suo vecchio amico, e al sottosegretario alla Difesa di Ncd Gioacchino Alfano. Dopo un antipasto di carne cruda ricoperta di tartufo, il leader di Ala s’infila in un terrazzino per l’immancabile sigaretta. 

Il suo pronostico per il referendum? 
«Sono convinto che il Sì alla fine vincerà. Gli italiani capiranno la portata di questa riforma».

In quel caso l’Italicum cambierebbe ugualmente? 
«Certamente, le modifiche della legge elettorale sono praticamente già cosa fatta: via il ballottaggio e premio alla coalizione che supera una certa soglia».

Crede che l’accordo nel Pd, con la bozza sulle modifiche, avrà un esito positivo? 
«Quella bozza non conta niente. Il Pd da solo non ha i numeri al Senato per cambiare l’Italicum e dunque Renzi deve trattare con noi e con Alfano». 

Cambiate l’Italicum per paura che il M5S vinca al ballottaggio e si prenda palazzo Chigi? 
(Verdini aspira un’ampia boccata di fumo). «Cambia perché sta cambiando lo scenario politico. Il Pd si sta spaccando. E per Renzi è necessario mettere in piedi una coalizione con una forza di centro. Noi lavoriamo per questo. Ci sono praterie per una forza moderata alleata col Pd».

 
Se vince il Sì lei prevede che la legislatura arrivi alla fine? 
«Bersani, se potesse, il governo l’avrebbe già fatto cadere. Ma al dunque non ha i numeri: può contare sui soliti Gotor, Fornaro, Migliavacca, Casson. Ma arriva sì e no a 12 senatori e non gli bastano. Molti senatori della minoranza al dunque non voterebbero contro il governo».

Cosa vede nel futuro della minoranza Pd? 
«In ogni caso, anche se vincesse il No, non me li immagino correre alle prossime elezioni insieme a Renzi. Finiranno come Fassina, D’Attorre e Civati, ai margini della vita politica. Perché la gente che ce l’ha con Renzi vota i grillini, mica loro. Per Bersani non ci sono spazi da riempire».

 Civati era stato notato anche da Berlusconi per la sua capacità di stare in tv… 
«Silvio nota tutti, basta che siano bravi nei talk show. Ma fare politica è un’altra cosa». 

Anche lei era a Firenze nel fine settimana. Ha pensato di fare un salto alla Leopolda? 
«Assolutamente no… io ero ad una iniziativa per il Sì con Marcello Pera».

Finita la sigaretta, Verdini torna al tavolo, corteggiatissimo dai numerosi ospiti della serata di beneficenza. A fine cena un piatto di tartufi viene messo all’asta e il primo a farsi avanti è proprio lui, che si aggiudica le preziose trifole per 2400 euro, in cordata con altri due facoltosi ospiti. Ed è anche il primo a saldare il conto, tirando fuori 800 cash dalle tasche. «Allora, li volete ’sti soldi?», domanda sornione agli organizzatori. 

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/11/08/italia/politica/verdini-il-pd-ormai-finito-si-aprono-praterie-renzi-si-allei-con-me-gkarhHkQLTI5V0zSjGGPWM/pagina.html
6140  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ADRIANO SOFRI - Ecco i nemici del Califfo inserito:: Novembre 08, 2016, 11:00:56 pm
Ecco i nemici del Califfo

Reportage   
Mosul   

Con l’Unicef nel campo profughi a Dibaga.
Era un villaggio fra Erbil e Makhmour, poi accolse un piccolo campo di emergenza, ora accoglie oltre 5mila famiglie

Ieri siamo andati con l’Unicef a Dibaga. Era un villaggio fra Erbil e Makhmour, poi accolse un piccolo campo di emergenza, poi è diventato una città di qualche decina di migliaia di abitanti –ieri ne aveva 32.040, per 5142 famiglie. Di questi, 16.200 hanno meno di 18 anni. La maggioranza ha molto meno di 18 anni. Sapete com’è andare per un campo di profughi, e in questi giorni per di più si pensa ai numeri degli sfollati in Italia.

Una guerra è diversa dal terremoto. Il terremoto non ha nemici, benché possa essere crudelissimo. Una guerra li ha e si gonfia di odio. Dapprincipio, in un campo, si è confusi e spaesati perché non ci sono persone, ma mucchi di persone, bambini che fanno ressa, che spingono per arrivare a toccarti. Dura poco, perché prendono l’iniziativa e si fanno riconoscere una per una, uno per uno, con una specie di discrezione invadente: ti si aggrappano, e poi si staccano per passare la mano ai prossimi. Si prende e si dà una confidenza piena nel giro di qualche minuto. Poche ore prima che venissimo qua il Califfo, quell’al-Baghdadi, aveva fatto diffondere –o chi per lui – un messaggio roboante. Resistere e morire, attaccare a morte sauditi e turchi, colpire dovunque e preferire la Libia, come meta personale.

Il Califfo probabilmente pensa di voler bene ai bambini. Fa loro l’onore di renderli guerrieri e tagliagole fin da piccoli, di toglierli da casa e da scuola e forgiarli come uomini (e donne, molto meno, naturalmente) nuovi. Ha stampato dei manuali scolastici adatti ai suoi programmi: una sola materia. Gli altri, i bambini destinati a essere bambini, sono i suoi nemici.

Sono questi che ci sciamano addosso per darci la mano, per dire tenkiù, per guardare la fotografia –per farla, anche: oggi pubblichiamo le nostre ma solo perché non ci eravamo preparati a raccogliere le loro, che sarebbero un impareggiabile reportage sul campo. Il campo –i campi, perché si sono moltiplicati- ha fame di spazio per le tende, e l’Unicef e le altre buone volontà devono sgomitare per guadagnare uno spazio alle scuole. C’è il sole di nuovo caldo oggi, una fila di bambini con un tesserino d’identità in mano, passano davanti a un tavolino dove un grosso signore burbero prende i loro dati e dà un foglietto, col quale, lì accanto, ritirano lo “school bag”, lo zainetto celestenazioniunite che intanto gli addetti stanno riempiendo di: quaderni, matite e, meraviglia, un temperamatite.

Quando l’orario della distribuzione finisce, e anche i bags, i bambini restati senza sono tanti, e tristi come se avessero perduto un patrimonio. Ci chiedono di aiutarli a ricevere quello che gli spetta, spieghiamo di no, vaglielo a spiegare. Chiedo di tradurre che domani, glieli daranno domani. Domani no, corregge il traduttore, è venerdì, è festa. Ve li daranno dopodomani. Facciamo il giro delle classi. Che cosa vorrebbero diventare, domande così. Dentista, uno. E imparare l’inglese, dicono in coro le bambine. Se sai l’inglese parli con tutti. Inshallah –come si dice in inglese? «Godwilling», ma il concetto è un altro.

C’è una zona di «transito» riservata agli uomini che la polizia controlla prima di accettarli, può durare un’ora, o settimane. Gli uomini sono molto meno numerosi delle donne: alcuni perché sono andati con l’Isis. Qui arrivano meno dalla zona di Mosul, più da quelle di Hawijia, Qayyara. Stanno seduti, i mariti da un lato della rete le mogli dall’altro, a parlarsi, o a starsene zitti. Specialmente i nuovi venuti hanno paura di essere riconosciuti, delle rappresaglie sui parenti. Hanno racconti terribili, naturalmente. Da Mosul sono usciti ancora in meno di 40 mila, e soprattutto dal circondario. Però a Mosul il disastro deve ancora arrivare. I nuovi venuti aspettano l’inverno che si annuncia. Sara, 7 anni, che viene da Jara La, Makhmour, dalla fotografa non si stacca più invece. Non le manca la sua casa, le dice. E come mai? Perché mi sono liberata dal gatto di mio fratello, non lo potevo soffrire. Ha 4 fratelli e 4 sorelle, hanno pagato uno spallone 100 euro l’uno, in 11, per scappare.

In tv le piacciono i film di paura e i fantasmi, questi perché volano. Vuole fare il dottore, perché il camice è bello e può ascoltare il cuore degli altri con lo stetoscopio. Maria, che è un’italiana dell’Unicef, ha trovato dei bambini che saltano alla corda con dei fili elettrici, tranne uno bravissimo che invece ha una vera corda, con le maniglie e tutto. E’ la sola cosa che si è portato via scappando da casa. Una sorella di Sara si chiama Athra, ha 19 anni, era in casa di uno zio. Aprì la porta e si trovò davanti i ceffi dei Daesh. Ebbe una tale paura che per un mese e mezzo non uscì più dalla casa. Quando è venuta via si è coperta di nero dalla testa ai piedi, anche le mani, ma a un posto di blocco dei Daesh hanno fatto una scenata a suo padre perché lei aveva gli occhi scoperti


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Le tre guerre di Erdogan
Medio Oriente   
Erdogan, un avventurista, che gioca d’azzardo su tre fronti

Adriano Sofri   · 5 novembre 2016
Si era detto: quante guerre si dirameranno dal tronco della guerra all’Isis e alla sua roccaforte principale, Mosul. Si era calcolato: 10, forse 12. Forse bisogna dare un colpo di freno e uno di acceleratore.

Di freno: perché si è presentata, e ancora si continua, una prima tappa della battaglia per Mosul come se Mosul fosse già presa, e invece si è presa e solo in parte solo la sponda orientale di Mosul, e vi si combatterà ancora a lungo, e ieri la resistenza è stata più forte che mai, e al di là del fiume aspettano le migliaia di miliziani dell’Isis, suicidi e soprattutto omicidi, e il milione e oltre di persone chiuse come in un recinto di mattatoio.

E un colpo di acceleratore, perché le tensioni pronte a esplodere dopo Mosul hanno fretta di divampare mentre ancora bisogna combattere e vincere quella guerra dichiarata ipocritamente comune. In questo rincaro c’è un giocatore che vuole surclassare gli altri con le sue puntate d’azzardo: Recep Tayyp Erdogan.

Fate un conto. Erdogan è uscito trionfante da un colpo militare (serio, non di facciata, e non privo di ragioni) e ha liquidato, sotto il nome di cospirazione gulenista, una vasta parte della società civile turca: scuole, tribunali, polizia, esercito, giornali e tv e radio… Ai curdi, che sono per lui prima che un problema politico una intima ossessione, aveva già mosso guerra per terra e per cielo, trovando nella loro organizzazione militare, il PKK, il Partito dei Lavoratori Curdo, un nemico altrettanto risoluto.

Ieri, con l’arresto dei due copresidenti dello HDP, il Partito Democratico dei Popoli curdo, e di una decina di parlamentari, dopo che il parlamento aveva votato a maggio una svergognata esclusione dello HDP dall’immunità, il regime turco ha fatto terra bruciata della distinzione fra una via democratica curda e una della lotta armata, e ha compiuto un passo decisivo nella trasformazione del confronto militare fra il proprio esercito e quello partigiano del PKK in una vera guerra civile. E i curdi in Turchia sono fra i 20 e i 25 milioni, e hanno un loro antico e fiero territorio.

Ieri un membro influente dello storico partito kemalista, CHP, il Partito Popolare Repubblicano, il secondo partito turco (lo HDP è il terzo) che era stato prodigo di riconoscimenti a Erdogan all’indomani del colpo militare, ha dichiarato che la repressione dei leader e dei parlamentari dello HDP equivaleva a un secondo bombardamento del parlamento.

Sempre ieri, il PKK ha detto che il tempo delle parole è finito: era finito già per il PKK, e nella sua determinazione combattente c’era stata anche la volontà di recuperare la propria egemonia rispetto alla via parlamentare del partito di Demirtas, quello che confidava nelle “p a ro l e”. Del resto che ieri sia finita la democrazia in Turchia, come hanno decretato in molti, è vero, e la sola obiezione che può avanzarsi riguarda la convinzione che fosse già finita l’altroieri.

Noto qui la nettezza del giudizio del presidente del consiglio italiano, che sulla Turchia di Erdogan non aveva avuto indulgenze e ipocrisie, ed è una buona cosa. Questa interna è la prima e per il momento principale delle guerre guerreggiate di Erdogan, che ne ha almeno altre due. La seconda si svolge oltre il confine siriano, dove le forze armate turche intervengono per terra e per cielo contro l’Isis –cui avevano elargito a lungo un sostegno attivo o passivo- e soprattutto contro i curdi siriani di Rojava, il Kurdistan d’occidente, che resistendo all’Isis e tenendo a distanza le truppe di Assad hanno guadagnato un proprio territorio minacciosamente allungato lungo la frontiera con la Turchia.

Questo secondo fronte delle guerre di Erdogan è minato da ogni lato: la Turchia era riuscita a iscrivere il PKK nella lista nera del terrorismo riconosciuta da Unione Europea e Stati Uniti, ma non ha ottenuto lo stesso risultato col PYD curdosiriano, il Partito dell’Unione Democratica, che è però tutt’uno col PKK, e ha costituito finora il principale alleato sul terreno degli americani e alleati, e continuerà a costituirlo, salvo uno scandaloso voltafaccia, fino alla presa di Raqqa, capitale siriana dell’Isis.

Erdogan non è mai stato in così malandati rapporti con gli Stati Uniti e la Nato, né con la Germania, nonostante la compravendita di fuggiaschi siriani, e finalmente il rinfocolato amore con la Russia non è così caloroso da risarcirlo: Putin resta il capo di u n’internazionale sciita.

C’è una terza guerra, in Iraq, e ora ha il nome di battaglia di Mosul. Anche qui Erdogan ha giocato da avventurista. Aveva piazzato suoi militari, uomini e armi, vicino a Bashiqa, tenuta dall’Isis ma già terra di yazidi e cristiani. E gli yazidi sono, dopo il massacro e la fuga sul monte Sinjar, devoti del PKK e dei curdi siriani che li difesero valorosamente nella rotta iniziale dei peshmerga di Barzani. Militari e armi turche in territorio iracheno erano fino a poco fa un episodio minore, minimizzato dagli stessi turchi come un addestramento di truppe locali su invito del governo di Erbil, né confermato né smentito.

Improvvisamente, iniziata l’offensiva per Mosul, Erdogan ha alzato la posta del suo intervento iracheno oltre l’immaginazione: Mosul è turca, ha ammonito, ed è turca Kirkuk e tutto il vilayet ottomano di Mosul e Ninive. Turco dunque tutto il Kurdistan iracheno, quello che si è già conquistato dal 2003 un’indipendenza di fatto e conta i giorni per prenderselo di diritto, e turco tutto quello smisurato petrolio e gas. Proclami reciprocamente bellicosi si sono scambiati fra governo turco e governo iracheno, alternati da propositi più concilianti, ma le mine sono molte e pronte a scoppiare. Prima fra tutte l’avanzata delle milizie iracheno-sciite verso, almeno così pretendono (“siamo a 15 km.”), il centro strategico di Tell Afar, oggi dell’Isis e già turcmeno, che la Turchia ha fissato come linea rossa al proprio intervento militare, benché sia Iraq.

E del resto le milizie sciite vogliono dire Iran, e l’eventuale guerra per Tell Afar sarebbe un’enne sima guerra interposta, qui fra Turchia e Iran. Cerca guai, Erdogan. Si dirà che è così sicuro di sé, così al riparo grazie al consenso che si è procurato nell’esaltato sentimento nazionale e nell’epurazione di massa dei dissenzienti o anche solo degli infidi, da poter giocare la sua doppia e tripla partita al rialzo. Vedremo.

Ma è una pazzia cronicizzare una guerra civile in casa contro un nemico strenuo come il popolo curdo, dopo che suoi esponenti lucidi e brillanti come il Demirtas ieri arrestato avevano fatto intravedere una possibilità di conciliazione e convivenza civile e laica. L’aveva suggerita anche il vecchio Abdullah “Apo” Ocalan che nel suo ergastolo isolato ha maturato una conversione politica e umana sorprendente, benché esposta ancora in un impianto ortodosso, verso femminismo, ecologia, rifiuto dell’aspirazione statale e perfino non violenza. E Ocalan è più che mai un mito vivente per i curdi militanti in Turchia e in Siria (e in Iran e in buona parte in Iraq).

In uno scontro armato con truppe irachene, irregolari o no, attorno alla battaglia per Mosul i turchi comprometterebbero del tutto i propri rapporti con gli americani senza vedersene compensati dai russi. Intanto, l’aggressione indiscriminata all’intera leadership curda di Turchia ha già messo l’alleato stretto di Erdogan in Kurdistan, il presidente Barzani, in un imbarazzo micidiale. Il PKK è la bestia nera del PDK di Barzani, che mal ne sopporta l’esilio armato dentro i propri confini, sui monti Qandil, alla frontiera con l’Iran, e ancora peggio il radicamento all’a l t ro capo del suo Kurdistan, sul monte Sinjar. Il partito rivale del PDK di Barzani, il PUK di Suleimania e Kirkuk, ha buoni rapporti col PKK, e la sua base lo ammira.

Il programma turco di distruggerne le basi nel KRG col consenso anche solo tacito di Barzani, all’indomani della battaglia di Mosul, è reso oggi più irreale e molto più temerario –meno male, si potrebbe d i re. E torniamo a Mosul. Tutto vale a distoglierne l’attenzione. A Mosul le vite di più di un milione di persone sono minacciate. Quanto importano, e a chi? Ho accennato alle tre guerre che Erdogan ha mosso, ubriaco del proprio potere. Ce n’è una quarta che si è tirato addosso, enunciata nel discorso del farabutto che volle farsi Califfo, e incita a far scorrere fiumi di sangue in Turchia (e in Arabia Saudita). A mordere la mano che ieri gli fu tesa

Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-tre-guerre-di-erdogan/
6141  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Federica Fantozzi Niente ballottaggio, collegi e premio di maggioranza. inserito:: Novembre 08, 2016, 10:58:44 pm
Legge elettorale: intesa vicina, ma i bersaniani insistono sul No al referendum
Referendum   
Niente ballottaggio, collegi e premio di maggioranza.
Cuperlo ha chiesto il voto di una direzione prima del 4 dicembre

Federica Fantozzi   @federicafan
· 5 novembre 2016

La trattativa è ambiziosa e quasi fuori tempo massimo, ma i pontieri non demordono e l’accordo sembra infine vicino. Ieri secondo round di incontri, colloqui, telefonate all’interno della commissione Dem che dovrebbe (più realisticamente, potrebbe) raggiungere la quadra su come modificare la legge elettorale. «Clima positivo» per uno dei protagonisti, e a fine giornata si attende il via libera di Matteo Renzi su un’intesa che coinvolga buona parte dell’opposizione interna. Elemento clou: la tempistica.

L’obiettivo è concordare un percorso e il paletto minimo, da parte della minoranza, è approvare attraverso una nuova direzione che sia convocata prima del referendum costituzionale la bozza di documento elaborata dai cinque “saggi”. Sono tre i punti chiave, gli stessi elencati da Matteo Renzi nell’ultima direzione del partito: addio al ballottaggio, premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista, abbandono dei capilista bloccati a favore dei collegi uninominali o delle preferenze.

Un programma ampio, di cui la bozza di documento a cui stanno lavorando i cinque commissari – i capigruppo parlamentari Luigi Zanda ed Ettore Rosato, il presidente Pd Matteo Orfini, il vicesegretario Lorenzo Guerini e Gianni Cuperlo, in qualità di ambasciatore delle minoranze – rappresenta solo il primo passo. Ancora in queste ore Cuperlo sta sottoponendo la bozza alla sinistra interna, a partire da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. Per cercare di concordare una strada condivisa, che conduca al rientro delle divergenze sul referendum. Inevitabilmente in più tappe: nel caso in cui arrivasse l’adesione di tutte le componenti, il documento andrebbe poi votato in una prossima direzione e, a quel punto, trasmesso ai gruppi parlamentari.

Soltanto raggiunta quella fase il testo potrebbe essere incardinato in commissione Affari Costituzionali, come chiedono dall’inizio i bersaniani, e cominciare l’iter per tra sformarsi in legge. Partita complicata per tanti motivi. Prima di tutto, come si diceva, i tempi. Manca un mese al referendum e la macchina politica –tanto del Sì quanto del No – è già lanciata. La minoranza, allora, quali «impegni concreti» richiederebbe per cambiare opinione?

È già chiaro che non si accontenterebbe della bozza preceduta dall’avallo a monte del segretario, come base di discussione, già liquidata come semplice «contributo culturale» privo di valenza politica. Quanti di loro accetterebbero il “lodo Cuperlo”? Da ieri mattina, l’ex presidente Pd insiste affinché il cammino sia almeno avviato con una direzione prima del 4 dicembre, a cui segua rapidamente il deposito della proposta di legge. Più altre limature, come un riferimento più stringente alla forma di elezione diretta dei senatori in concomitanza con la scelta dei consigli regionali. Argomenti che i renziani stanno valutando «positivamente».

Nella maggioranza Dem si lavora per chiudere –se ci saranno le condizioni – già oggi o comunque in concomitanza con la Leopolda, e poter annunciare l’intesa dal palco della kermesse simbolo del renzismo. L’altro punto da capire è quanti nelle minoranze si sentirebbero vincolati da un’eventuale accordo. Ieri pomeriggio il senatore Federico Fornaro ha già bocciato la bozza: «Nonostante la generosità di Cuperlo, la commissione Pd ha prodotto un documento fantasma, tanto generico quanto inefficace. Così non si va da nessuna parte, anzi si rafforzano i dubbi, le riserve e le evidenti criticità».

A sua volta, Miguel Gotor ha divulgato il proprio «manifesto del No»: «Ho deciso di votare contro la riforma dei gattopardi». Bersani, che da giorni è in giro per l’Italia, ha confermato la presenza a tre iniziative per il No in Sicilia: a Ragusa, Siracusa e Palermo lunedì 7 novembre. Già l’altroieri l’ex segretario si era detto «non ottimista» sull’esito della trattativa. E ieri sera Roberto Speranza, partecipando a un evento a Foggia a cui ha partecipato anche il presidente della Puglia Michele Emiliano (tra i governatori contrari alla riforma), ha detto: «Riforma costituzionale e legge elettorale sono due pezzi della stessa riforma.

E’ sempre più chiaro, giorno dopo giorno, che l’unico modo per cambiare veramente la legge elettorale è votare No al referendum di dicembre». Ha commentato Orfini: «Siamo impegnati per cercare di evitare una spaccatura del Pd, ma molti la cercano e sembra non attendano altro». L’impressione è che, per alcuni, il tempo delle possibili intese sia già scaduto

Da - http://www.unita.tv/focus/legge-elettorale-intesa-vicina-ma-i-bersaniani-insistono-sul-no-al-referendum/
6142  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / UGO MAGRI Deluso dal premier, Berlusconi ha un piano per batterlo nelle urne inserito:: Novembre 08, 2016, 10:56:15 pm
Deluso dal premier, Berlusconi ha un piano per batterlo nelle urne
“Propaganda per categorie, decisivo superare il 60% di affluenza”
Silvio Berlusconi ha deciso di scatenare l’offensiva a favore del No

05/11/2016
Ugo Magri
Roma

Renzi non gli dà alternative. Lo snobba, pretende di fare senza di lui, si comporta come se tutto fosse dovuto e gratis. Berlusconi ha atteso per mesi un gesto del premier, senza troppe illusioni ha perfino sperato che l’ipotesi di rinviare il voto fosse un’occasione per guardare insieme al futuro. Invece niente: ancora una volta «è stato come parlare al muro», confidano personaggi della sua cerchia. Per cui al Cav non resta che battersi. Controvoglia, tra dubbi e rimpianti, però con la rabbia di chi si sente stretto alle corde. Pare che in queste ore stia preparando seriamente la riscossa. Lucido e perciò politicamente pericoloso. «I sondaggi dicono che la mia discesa in campo può spostare dai 5 punti percentuali in su», si fa forza Silvio a Villa Gernetto davanti ai giovani della Missione Italia (gireranno la Penisola con una carovana di Cinquecento riconoscibili dal simbolo di Forza Italia). La vera notizia è che l’ex premier sta facendo sul serio, vuole vincere a tutti i costi, sebbene la prova definitiva si avrà soltanto (fa notare scettico Calderoli) il giorno in cui darà ordine a Mediaset di sostenere il NO, smettendola con il «fair play» tenuto finora per ordine del saggio Confalonieri.

Strategia mirata 
Come tutti i condottieri prima della battaglia, Berlusconi studia le mosse del nemico. Si è accorto, ad esempio, che Renzi da qualche tempo adotta una comunicazione astuta, gli esperti la definirebbero «mirata» o «per target», cioè rivolta a settori precisi anziché a tutti senza distinzione. Si rivolge alle categorie con temi molto concreti, cerca di soddisfarle una per una in quanto il premier ha capito che sarà la somma a fare il totale. Berlusconi farà lo stesso: anche lui «segmenterà» il messaggio, si sforzerà di modularlo diversamente rivolgendosi un giorno agli anziani, il giorno dopo alle casalinghe e via promettendo. «Basta copia e incolla, mai più due video-messaggi uguali tra loro», garantiscono gli strateghi del Cav, «ciascuno avrà sempre un destinatario diverso e chiaro». Per incominciare, l’anziano leader rispolvera l’argomento tasse, cioè il suo cavallo di sempre, che lancerà al galoppo negli ultimi dieci giorni della campagna referendaria, con qualche colpo a sorpresa.

L’affluenza sarà decisiva 
Berlusconi non si illude di vincere facile, tantomeno si fida dei sondaggi che premiano il NO. «Molti intervistati raccontano bugie», spegne gli entusiasmi di Brunetta. L’unico conto che si può fare adesso, secondo il Cav, è quello dei voti necessari per la vittoria. Grosso modo ne servono 15 milioni, in quanto Renzi potrebbe andarci molto vicino con l’apporto degli italiani all’estero, passati in massa dalla sua parte dopo la tournée americana della «star» Maria Elena Boschi . L’affluenza sarà dunque decisiva per il trionfo finale. Sopra il 60 per cento degli aventi diritto (che corrispondono a 30 milioni di elettori), il No vincerà facile. Se si resterà sotto la soglia, invece, potrà farcela il SI. Questo ha calcolato l’ex premier, che di campagne elettorali ha una certa esperienza. Per cui decisivo sarà portare tutti alle urne. «Chi non andrà a votare farà solo un favore a Renzi»: il tormentone berlusconiano è già incominciato.

Da - http://www.lastampa.it/2016/11/05/italia/politica/deluso-dal-premier-berlusconi-ha-un-piano-per-batterlo-nelle-urne-zqQTiX9L0K9jRDisLTo3LK/pagina.html


6143  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ADRIANO SOFRI - Viaggiare prendendola larga: il mio viaggio a Ninive inserito:: Novembre 08, 2016, 10:54:43 pm
Viaggiare prendendola larga: il mio viaggio a Ninive

Reportage   
Sofri   

Passerà il Califfato coi suoi panni neri e i video ripugnanti, e passerà tutto, anche i nostri anni di viltà.

Ieri gli scontri sono continuati nel sobborgo di Gobjali, più rarefatti, e la «Brigata d’Oro » irachena si è dedicata soprattutto alla ripulitura degli spazi conquistati.

L’ingresso delle truppe irachene è avvenuto nella parte orientale di Mosul, sulla «riva sinistra» del Tigri. Si leggono i nomi dei villaggi e dei sobborghi in cui infuria la battaglia: Bazwaiya, Tehrawa, Gogjali, alKarama, Jdeidet al-Mufti…In trasparenza, dietro questi nomi a noi nuovi, se ne legge uno carico di gloria e cenere: Ninive.

Le rovine di Ninive stanno a un passo dal sito della battaglia. È lei quella metà orientale di Mosul. Pochi nomi sono capaci dell’evocazione suscitata da Ninive, dalla sua dea Ishtar dell’amore e della guerra, dal palazzo impareggiabile di Sennacherib e dalla biblioteca di Assurbanipal e dalla condanna del Dio biblico. La Ninive splendore e terrore dei fasti di Assurnasirpal: «Scorticai tutti i capi della rivolta, e con la loro pelle rivestii la colonna; alcuni murai all’interno, altri infilzai su pali… Molti prigionieri arsi nel fuoco… Ad alcuni tagliai le mani e le dita, e ad altri il naso, gli orecchi e le dita, a molti cavai gli occhi. Feci una colonna coi viventi e un’altra con le teste, e legai le loro teste a pali tutt’attorno alla città. Bruciai nel fuoco i loro giovani e le loro ragazze…».

La spietatezza non è un’ultima notizia. Si potrebbe annotare che quelli cavavano occhi e innalzavano palazzi e templi e statue; questi cavano occhi e demoliscono i resti di templi e statue.

Da noi il nome di Mosul è associato alla diga, che ne dista, a monte, fra una trentina e una cinquantina di km. I progetti erano iniziati fin dalla metà del Novecento, impegnando una quantità di imprese internazionali. Che la fondazione fosse di un gesso solubile era noto dall’inizio, e che bisognasse riempirla di cemento e malta prima di costruirci sopra. Ma una volta avviati i lavori, nel 1981, l’impresa italo-tedesca che aveva ricevuto l’appalto fu sollecitata a sbrigarsi, e ripiegò su un espediente tecnico che andrebbe intitolato a Sisifo: si scavò una galleria attraverso la quale sarebbe stato iniettato in permanenza il materiale di riempimento, così da compensare la fondazione gessosa che si squagliava. Saddam Hussein volle intitolarsi la diga, e del resto si intitolava più o meno tutto l’Iraq.

La costruzione fu completata nel 1984 e nella primavera del 1985 l’acqua trattenuta del Tigri inondò il vasto invaso sommergendo una miriade di siti archeologici. Questa sì è una gran storia.

L’Iraq e l’Iran erano in guerra, per otto anni, 1981-1988, e più di un milione di morti. L’archeologia era un lusso superfluo se non molesto. Gli archeologi disperati riuscirono a strappare la concessione di scavare quanto potevano, fino allo scadere del tempo –alla rottura delle acque, per così dire.

Arrivarono missioni archeologiche da molti paesi, anche dall’Italia, naturalmente. Il territorio apparteneva, allora come oggi, al governatorato della curda Dohuk. Ho ripescato un resoconto finale patrocinato dalle autorità irachene: una lettura troppo tecnica per le mie competenze, ma a grattarci dentro affiorava l’angoscia per un mondo riperduto.

C’era una introduzione ufficiale, conteneva naturalmente un paragone coi «barbari iraniani, che non sanno che cosa sia cultura e civiltà» –riferito al regime khomeinista non è inappropriato- e una dedica a Saddam, «vessillo di cultura e di pace». Sperticata, come quelle di Assurnasirpal. Vediamo. C’è una missione polacca, si occupa dei siti paleolitici di Nemrik, Tell Rijim e Tell Raffaan.

«I risultati preliminari dell’ispezione compiuta nella microregione di Raffaan mostra che il primo insediamento umano nella valle del Tigri a nord di Mosul rappresenta il più antico stadio nello sviluppo della cultura umana». Che non è poco, ma subito dopo avverte che è solo perché hanno scavato qui: anche altrove, tutt’attorno, dev’essere così. I polacchi fanno la loro terza e ultima campagna di scavo nel 1985. Hanno per così dire l’acqua alla gola: «Il livello del Lago Saddam continua a salire».

Si concentrano sui resti del vasellame di Ninive 5 e sull’esplorazione degli strati di ceramica di Khabur (1900-1400 a.C.). Trovano sepolture, vasi, manufatti in bronzo, sculture. Crateri e vasetti dipinti, a motivi geometrici e animali stilizzati, calici, sigilli assiri in stile line are. Ci sono i giapponesi, lavorano ai tell (collinette) di Jigan, Fisna, Musharifa, Der Hall. «Almeno 150 siti archeologici saranno sommersi dall’acqua», scrivono. Il più vasto è Tell Jigan, al momento c’è un villaggio yazida –sarà sommerso anche lui. «Attualmente gli abitanti dei villaggi risiedono attorno al tell, impegnati nell’agricoltura o nella raccolta di ciottoli lungo il Tigri per società di costruzione». I ritrovamenti coinvolgono 6 diversi livelli, dal periodo Hassuna (5600-5000 a.C.) al primo tempo islamico.

Gli inglesi del British Museum scavano a loro volta a Khirbet Khatuniyeh, 30 km a nordovest di Mosul. Continuano freneticamente dal 13 febbraio al 3 aprile, giorno in cui l’acqua li sommerge. Madame du Barry sul patibolo implorò: «Un istante ancora, signor boia».
È una leggenda, ma sarebbe verosimile che l’avessero detto davvero quei bravi archeologi giapponesi e i loro colleghi mentre l’acqua montava. E però proprio l’ultimo giorno estraggono il pezzo più prezioso: un rhyton per libagione in terracotta -una coppa per bere- che termina in una testa di ariete dipinta a strisce rosse. Simile al rhyton trovato in una tomba di Nimrud, che però è privo della decorazione a pittura.

Spostandosi dal basso in alto man mano che l’acqua sale gli inglesi riescono ancora a condurre una campagna di scavo fin nel 1986, nell’area di Tell Abu Dhahir. Attraversano otto strati: parto-ellenistico, tardo assiro, Khabur, Taya o accadico, Ninive 5 dipinto, Uruk, Ubaid, e Hassuna, l’ultimo, che poggia sul suolo vergine. La missione francese del 1983-84 opera a Khirbet Derak e Kutan, trova soprattutto documenti importanti delle culture Halaf e Ninive 5, sigilli impressi su bitume ecc. Gli Halafiti (6°- 5° millennio a.C.?) allevavano anche maiali, dunque erano sedentari –i suini non sono capaci di transumanza.

C’è nel 1984 anche una spedizione italo-tedesca: Frederick Mario Sales da Venezia, Sebastiano Tusa da Roma, Gernot Wilhelm da Amburgo e Carlo Zaccagnini da Bologna. Lavorano a Tell Jikan, Tell Karrana, Tell Khirbet Salih. Una campagna tedesca si svolge ancora nel 1985 a Hirbet Aqar Babira. Sempre nel 1985, da marzo a maggio, avviene una spedizione sovietica al Tell Sheikh Homsy, a pochi km dalla cittadina petrolifera yazida di Zummar.

Anche Zummar verrà sommersa, Saddam ne fa costruire un doppione più in là, e poi sommerge anche quello con la sua campagna di arabizzazione forzata. Quando il livello dell’acqua è particolarmente basso, ne riemergono cupole e cime di minareti della vecchia Zummar. Come da noi in Lucchesia, quando il lago di Vagli si svuota e riaffiorano le case e i campanili di Careggine, con quell’aria di spettri pieni di rimp rove ro. L’ultima volta che ho visitato la diga era maggio. Era deserta, c’era uno che ci pescava dentro con una lenza arrangiata, è piena di grasse carpe.

Il peshmerga che mi accompagnava si lavò le mani i piedi e la faccia nell’acqua e fece le sue preghiere. Il livello dell’invaso era decisamente basso. Era vietato fare fotografie. Era vietato ai lavoratori parlare con gli estranei. Stupidaggini. È ancora tutto vietato. I giornalisti ci vanno, fanno fotografie e video, riprendono i bersaglieri incolpevoli e tornano a casa col loro pescato. I bersaglieri si annoiano, essenzialmente. Stanno in un recinto dentro un altro recinto. La mensa è ottima, pare.

A maggio i tecnici della Trevi erano appena venuti. Non li vidi, ma ne incontrai un gruppo all’aeroporto di Erbil. Una decina, piuttosto giovani ed energici, qualcuno scrive sul portatile, qualcuno guarda fotografie, altri aspettano e basta. Gli guardo le scarpe, guardo le mie, e riconosco la stessa polvere spessa. Venite dalla diga, dico. Infatti, sono consulenti di rientro dall’ispezione. Uno scrive un diario, lo faccio sempre quando vado in giro per il mondo, a caldo, dice, una volta a casa non è più la stessa cosa.
I vostri erano preoccupati di sapere che venivate alla diga di Mosul? Non gliel’abbiamo detto, rispondono. Io ho detto che andavo a Doha, dice uno, e un altro: io a Istanbul. Chiedo come hanno trovato gli impianti. Si vede che sono senza manutenzione da trent’anni, dicono, ma all’origine sono ottimi, impianti e macchinari. Poi uno si alza e va a sussurrare agli altri che è meglio stare zitti, ha letto in rete una mia cronaca dalla diga. Mi viene da sorridere. Non vi preoccupate, dico, me ne fotto degli scoop.

Me ne fotto tuttora degli scoop. Ora Mosul è vicina, e anche le canaglie Daesh e la miscela di liberatori, e soprattutto un milione e più di persone minacciate. E ancora la vicinanza di quella antica Ninive a farsi sentire. Anche lei ricavò la propria grandezza dalla ferocia, ma il tempo che è scorso mette una specie di anestesia morale sui suoi strati archeologici. I morti ammazzati furono anche allora troppi per uscire dalla contabilità e meritarsi una commemorazione: restano Ishtar dai seni rotondi e dal ventre materno e dalla vendetta crudele e il mirabile leone scolpito trafitto e morente ma messo in salvo al British Museum. Bisogna fare dei giri larghi, nel Kurdistan di oggi.

Il Kurdistan stesso gira attorno a Ninive e a Mosul come per accerchiarla, dopo esserne stato accerchiato: il monte Sinjar, Zakho, Duhok, Erbil, Makhmour, Kirkuk…Sono passato da Akre, dove la città vecchia è tutta arrampicata, ho visitato il caravanserraglio, che dentro è in rovina ma ha ancora un maestoso portale.

È venuto a interpellarmi bruscamente un anziano male in arnese ma aitante, mi ha chiesto se fossi ungherese. No, gli ho detto, mi dispiace. Ma parli ungherese, ha insistito, un po’minaccioso. Nemmeno, ho detto, mi dispiace. Mi hanno tradotto la sua storia: era in galera sotto Saddam, è stato in cella con un ungherese e ha imparato i rudimenti della lingua e non trova mai nessuno con cui praticarli. Mi dispiace, gli ho detto: però sono stato in galera. Sono arrivato fino ad Amedi –Amadyah , vicina a tutti i confini, favolosa in cima a un monte capitozzato, assira e curda ed ebraica e cristiana: la città dei re magi.

Turismo non ce n’è, naturalmente, tutto va in pezzi. Sceso da Amedi ho preso un tè nel piccolo centro lungo la strada, in una pizzeria gestita dal signor Taha Amide, formidabile faccia di caratterista che mi rivolge la parola in olandese, poi in tedesco, poi in italiano. Gli chiedo quante lingue conosca, dunque, dice, vediamo: olandese, tedesco, italiano poco, arabo, curdo naturalmente, tutte le lingue curde, e poi spagnolo e turco, e inglese, ma poco.

Di notte passiamo da una strada interna minore per tornare a Erbil, avevamo voglia di vedere Barzan, il villaggio natale di Mustafa Barzani, che vi è sepolto, e il Memoriale a lui dedicato. Ma abbiamo fatto tardi ed è una notte di buio pesto. La strada è sorprendentemente dissestata per un luogo così storico, che è ancora la dimora dei Barzani. Forse vogliono tenerla al riparo dalla folla. Il presidente Massud, figlio di Mustafa, ha popolato la zona di animali selvatici vietando la caccia in qualunque periodo dell’anno. In questa zona avrebbe dovuto essere costruita una diga sul Grande Zab, che raddoppiasse quella di Mosul e ne dimezzasse la portata, per ridurne il pericolo. Ma i Barzani, si dice, non hanno intenzione di sacrificare il loro terreno ancestrale.

Ninive passò, passerà il Califfato coi suoi panni neri e i video ripugnanti, e passerà tutto, anche i nostri anni di viltà e l’im presa di iniezioni di cemento e le coalizioni e gli imperi di Erdogan e degli ayatollah sciiti e di Riyadh wahhabita. Al museo di Erbil incontro quattro giovani italiani, di Milano, Roma, Genova, che in un cortiletto sgangherato spolverano e catalogano i sassi che hanno scavato a Makhmour, sotto un cielo nero di petrolio incendiato. Toccherà a loro.

Da - http://www.unita.tv/focus/viaggiare-prendendola-larga-attorno-a-ninive/
6144  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / FRANCESCA SCHIANCHI. Renzi: “La minoranza spera nella spallata. inserito:: Novembre 08, 2016, 10:53:26 pm
Renzi: “La minoranza spera nella spallata. Così ricorda Bertinotti”
Il premier: che devo fare, fustigare chi ha urlato”fuori”?

Pubblicato il 08/11/2016
Francesca Schianchi
Inviata a Frosinone

La minoranza è alla ricerca di argomenti per litigare, non rendendosi conto che il rischio è di trasformarsi agli occhi della nostra gente come Bertinotti e D’Alema nel ’98». Il primo comizio della settimana è appena terminato. Cinquecento militanti e fan si sono pigiati in un cinema di periferia al grido di «Basta un sì» per ascoltare, toccare, fotografare il segretario-premier. Ha fatto appena in tempo a iniziare il suo discorso, volando alto tra Stati Uniti, Mosul e Bruxelles, che arriva il primo urlo: «Manda a casa D’Alema». Manco dieci minuti, e di nuovo una voce: «Cacciali tutti». Qui, Renzi, maniche di camicia e cravatta bordeaux, alza lo sguardo verso il signore che ha strillato: «Buoni, buoni, noi non cacciamo nessuno». Parole significative, nel giorno in cui il segretario del Pd è sotto attacco per quel coro «Fuori-fuori» che si è alzato domenica dalla Leopolda.

A Firenze ha dato il via al coro un contestatore isolato, seguito da pochissimi, sono certi dall’entourage di Renzi, portando come prova un tweet di Claudio Velardi con un video che riproduce il momento «incriminato». E lui, Renzi, dal palco ha reagito come fa spesso Obama: «Don’t boo: vote», nella versione italiana «Non urlate e fate i comitati per il sì». Nessuno scandalo, insomma, considera il segretario-premier, nessuna volontà di cacciare nessuno, solo un errore di valutazione nel racconto della giornata: «Ho attaccato duro sul tema degli scontri e a questo è stato riservato meno spazio rispetto a uno che ha urlato…». Il punto vero, secondo lui, però, è un altro: che la base del partito, la «nostra gente» - sia la Leopolda o l’affollato cinema di Frosinone - è arrabbiata con i vari Bersani, D’Alema, Speranza. Non li capisce, non li segue, li critica, ragiona con i suoi. Come dimostrerebbero i sondaggi riservati in mano al Pd, secondo cui il numero degli elettori grillini che voteranno sì al referendum è più alto di quello dei democratici che voteranno no, cioè delle truppe della minoranza.

Dalle agenzie, il segretario del Pd legge le accuse che gli vengono rivolte - l’arroganza, la sudditanza. Il fantasma della scissione torna ad aleggiare su un partito inquieto, ma lui parlando con alcuni suoi collaboratori, in auto mentre fila verso un altro comizio, declina ogni responsabilità: «Per tenerli dentro abbiamo fatto tutto il possibile: abbiamo cambiato la riforma costituzionale, abbiamo accettato di cambiare la legge elettorale, ora per non votare lo stesso la buttano sull’arroganza di Renzi… Che dobbiamo fare, fustigare uno che alla Leopolda ha urlato “Fuori”?». 

Il problema vero, ragiona lui prima di infilarsi in un cinema di Latina per motivare altri elettori al voto del 4 dicembre, è che la minoranza del Pd sta infliggendo una «ferita profonda al centrosinistra»: li paragona a Bertinotti e D’Alema, alludendo alla responsabilità di aver messo fine al sogno del primo governo dell’Ulivo. «E’ paradossale, nel momento in cui nel mondo siamo un punto di riferimento della sinistra, e lo è ancora di più dopo l’accordo sulla legge elettorale». Non ci crede alla buona fede, non ci crede che il punto vero sia cambiare la riforma o l’Italicum: «I leader del fronte del no usano l’appuntamento del 4 dicembre per tentare la spallata al governo». È gente che «non sopporta l’idea che qualcuno riesca dove loro hanno fallito». E qualcuno di loro, si dice certo, lo fa per ragioni personali: «D’Alema venne da me e mi chiese il posto della Mogherini», racconta nel libro di Vespa anticipato ieri. «Io non avrei avuto niente in contrario, ma ho dovuto constatare che nel Pse non lo voleva nessuno». 

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6145  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. Campagna Usa, il momento della nausea inserito:: Novembre 08, 2016, 10:51:21 pm

4 nov 2016
Campagna Usa, il momento della nausea

Di Federico RAMPINI

"L'elezione del disgusto". Lo sospettavamo da tempo ma ora ce lo conferma l'ultimo sondaggio del New York Times: gli elettori sono proprio schifati da questa campagna. Ma la nausea è equamente ripartita? Non proprio, a quanto parte nelle rilevazioni sul livello di "entusiasmo" se la cavano meglio i repubblicani dei democratici. A conferma che alcune constituency cruciali per Hillary - neri, Millennial - rischiano di avere una bassa affluenza alle urne. In controtendenza positiva: gli ispanici stanno votando più che in passato.

Poiché nello sforzo finale bisogna soprattutto combattere l'assenteismo tra i propri ranghi, può essere utile ricordare i grandi numeri di questa elezione: nel 2012 votarono circa 127 milioni di elettori cioè un modesto 55% degli aventi diritto. E qui è utile introdurre delle distinzioni rispetto ai sistemi elettorali che prevalgono in Europa. Gli "aventi diritto" teoricamente sarebbero tutti i cittadini americani maggiorenni. Però, però. Anzitutto, chi ha subito una condanna penale spesso viene anche punito con la privazione del diritto di voto. E nel paese che ha il record di popolazione carceraria, sono numeri grossi. Poi, a differenza che in Italia e altri paesi europei, qui oltre ad essere cittadino, maggiorenne, bisogna iscriversi al registro elettorale, in certi Stati precisando la propria appartenenza (democratico, repubblicano, indipendente: peraltro questa affiliazione non impedisce di votare per chi si vuole). E' un piccolo passaggio burocratico, ma non tutti lo fanno anche perché significa spesso recarsi in un ufficio pubblico, tipicamente lo stesso che rilascia patenti di guida, fare file, perdere ore di lavoro ecc. ecc.

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6146  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Italicum, accordo Pd per le modifiche dopo il voto: Cuperlo dice Sì. inserito:: Novembre 08, 2016, 10:50:18 pm
Italicum, accordo Pd per le modifiche dopo il voto: Cuperlo dice Sì.
I renziani ringraziano, la minoranza si spacca
Il documento sarà sottoposto ai vari organi del partito e alle altre forze politiche dopo il referendum. A favore l'ex presidente dem che sembra sempre più intenzionato a schierarsi in favore della legge Boschi: "E' un passo avanti". Serracchiani dal palco della Leopolda: "Grazie Gianni per il rispetto". Ma Speranza: "Fumoso, non basta". E Nico Stumpo: "Presa in giro". Il ministro Martina: "Ora tutti uniti per la riforma della Costituzione"

Di F. Q. | 5 novembre 2016

Il documento Pd per archiviare l’Italicum c’è, le modifiche tanto richieste pure, ma ancora una volta è un impegno per il futuro: se ne riparla dopo il referendum, ovvero quando la galassia politica comunque vadano le cose non sarà più la stessa e tutto sarà di nuovo possibile. La notizia dell’accordo è arrivata in un pomeriggio di Leopolda, giusto in tempo per permettere ai renziani di cantare vittoria dal palco della loro manifestazione e alla minoranza Pd di spaccarsi per l’ennesima volta. In calce al documento infatti, c’è anche la firma di Gianni Cuperlo, da sempre una delle voci più critiche: “E’ un passo avanti, ora il governo sia leale”, ha detto. Dopo il selfie nella piazza del Sì con la ministra Maria Elena Boschi, l’ex presidente Pd ha strappato anche una citazione nel discorso di chiusura della prima giornata di Leopolda di Debora Serracchiani: “Un grazie a Gianni: ha dimostrato rispetto. L’accordo è un gesto importante per il Pd e per il Paese”. I renziani gongolano: a meno di un mese dal referendum ottengono l’appoggio di una parte della sinistra del partito e la vittoria mediatica di poter sbandierare d’ora in poi il compromesso riuscito. Poco importa che la bozza sia ancora un “vedremo” e un “si farà”, quello che conta è avere spaccato la minoranza. Il Sì di Cuperlo infatti, che secondo molti ora pensa pure a schierarsi in favore della riforma della Costituzione, non è bastato a trascinare gli altri dissidenti. Niente da fare per Roberto Speranza: “Non guarisce la ferita aperta. L’Italicum, approvato con la forzatura della fiducia, resta vigente. Serve una nuova legge, non una traccia di intenti generica e ambigua che non cambia le cose. Su un tema così importante il Pd non può cavarsela con una paginetta fumosa”. Secco anche Nico Stumpo: “E’ una presa in giro”. Il ministro Maurizio Martina, da sempre vicino all’ala bersaniana, ha provato a rilanciare: “Ora tutti uniti per il Sì”. Ma per una fetta consistente dei critici è davvero troppo tardi. Basta pensare a uno fra tutti, e il più rappresentativo: l’ex segretario Pierluigi Bersani ha deciso nei giorni scorsi che farà campagna elettorale per il No e non ha intenzione di fare passi indietro. “Siamo fuori tempo massimo”, ha detto sulla stessa linea il senatore Federico Fornaro.

I punti centrali del documento prevedono che l’Italicum, entrato in vigore nei mesi scorsi, sia ritoccato in due nodi fondamentali: i collegi e il ballottaggio. A stilare la bozza sono stati, oltre a Cuperlo in veste di delegato della minoranza, anche il vicepresidente Pd Lorenzo Guerini, i due capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda e il presidente dem Matteo Orfini. Il testo sarà sottoposto nei vari organi del partito e dopo il referendum, come richiesto dalle altre forze di opposizione, sarà discusso con gli altri parlamentari. L’idea di creare un gruppo di lavoro per sondare la disponibilità del Parlamento sulle modifiche era stata dello stesso presidente del Consiglio, quando lo spettro di una scissione interna aveva spinto i renziani a dare un segnale: l’annuncio era arrivato nel corso dell’ultima direzione Pd con lo slogan del “via gli alibi” per il Sì alla nuova Costituzione.

Cuperlo si porta così sulle spalle la responsabilità di essere andato al tavolo con il nemico e aver accettato una mediazione. “La bozza contiene un passo in avanti”, si è giustificato poco dopo”. E ha poi aggiunto: “E’ chiaro che da ora in avanti la prova di coerenza e lealtà rispetto a questo impianto spetta a tutti, a partire da chi è alla guida del governo. Mi sono assunto una responsabilità attraversato dai dubbi e dalle domande che chiunque si sarebbe posto”. Stumpo non sente ragioni, condannando l’iniziativa in toto: “Non solo non ci convince”, ha detto, “ma è un evidente passo indietro. Si tratta di un’approvazione postuma della relazione di Renzi in direzione e si capisce solo che si dà mandato a una verifica con Verdini e Alfano. Noi avevamo posto un tema politico serio sul rischio di un vulnus sugli effetti della riforma istituzionale uniti all’Italicum, vediamo un documento in cui non c’è traccia delle modifiche da fare e si arriva a dopo il 4 dicembre. E’ un’abbondante presa in giro, noi restiamo convinti delle nostre posizioni e a chi ha fatto un’altra scelta facciamo un caloroso in bocca al lupo”.

Il comitato apre a una verifica dopo il referendum del 4 dicembre su 2 punti: “La preferenza per i collegi”, si legge, “come il sistema più adatto a ricostruire un rapporto fiducia tra eletti ed elettori; la definizione di un premio di governabilità (di lista o di coalizione) che consenta l’indicazione su chi avrà la responsabilità di garantire il governo attraverso il superamento del meccanismo di ballottaggio”. Una delle premesse fatte è che la maggioranza dei gruppi interpellati e soprattutto “la totalità delle opposizioni che si sono espresse anche con dichiarazioni pubbliche in tal senso” hanno detto di essere pronte a dialogare sul punto, ma di essere indisponibili a una verifica parlamentare prima del referendum. “La commissione”, si legge nel documento, “ha impostato il lavoro sulla base delle indicazioni contenute nella relazione del segretario Matteo Renzi e delle valutazioni emerse dalla discussione. In particolare con una verifica su tre aspetti: premio di lista/premio di coalizione; ballottaggio/turno unico; modalità di espressione della volontà degli elettori nella scelta degli eletti”. E invece in merito alla “futura elezione dei senatori è confermata l’indicazione espressa dal segretario per assumere la proposta di legge a firma Fornaro-Chiti quale riferimento del Pd per il varo della disciplina ordinaria in materia”. Si tratta della proposta di legge che prevede l’elezione diretta dei futuri senatori.

Il gruppo si è riunito tre volte e ha avviato una prima ricognizione con le altre forze e gruppi parlamentari “sia in merito ai contenuti che ai tempi di eventuali modifiche della legge attuale”. In conclusione si annuncia che il documento sarà sottoposto all’Assemblea nazionale, alla direzione e ai gruppi parlamentari del Partito democratico di Camera e Senato “per le relative valutazioni e conseguentemente tradurne l’impianto nei testi di legge (elezione dei senatori secondo il ddl Fornaro-Chiti e legge elettorale) da portare al confronto con le altre forze politiche e gruppi parlamentari”.

Di F. Q. | 5 novembre 2016

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/11/05/italicum-accordo-pd-per-le-modifiche-dopo-il-voto-cuperlo-dice-si-renziani-ringraziano-la-minoranza-si-spacca/3170605/
6147  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Too close to call inserito:: Novembre 08, 2016, 10:49:03 pm

8 nov 2016
Too close to call

Prepariamoci a vedere, ascoltare e leggere queste quattro parole, "troppo ravvicinato per proclamare “il vincitore, questa notte nelle dirette delle network tv americane quando affluiranno i primi voti.  Mentre blog e Social spareranno predizioni in cascate di tweet e di post basati sulle indiscrezioni del "cugino al Ministero" (sì, ci sono anche negli Usa) e lanciati per tentare di influenzare gli ultimi manipoli di indecisi a seggi ancora aperti in Stati nei fusi orari diversi, le grandi catene tv, sia quelle via etere che via cavo, saranno prudentissime nelle loro proiezioni e proclamazioni.

Il ricordo del disastro 2000 con gli annunci per Gore e per Bush lanciati e poi ritirati è ancora ben presente nella memoria di producers e giornalisti. Il motto adottato allora, "better be right than first", meglio dirla giusta che dirla per primi non è soltanto pia retorica. La reputazione dei grandi media è già abbastanza vacillante perchè possano affrontare altre toppate sensazionale.

Ma in questo 2016 c'`è una motivazione in più che indurrà le grandi organizzazioni giornalistiche professionali, i "Mainstream Media" alla cautela. Su di loro saranno puntati gli occhi degli elettori di Trump, convinti che le elezioni siano truccate e che i giornalisti siano parte del grande complotto internazionale per negare al loro idolo la Casa Bianca. Qualsiasi errore di valutazione, qualsiasi falsa partenza sarebbe vista come la prova della "infamità" e darebbe nutrimento, in caso di sconfitta, al rifiuto di riconoscere la legittimità del risultato. Meglio andare coi piedi di piombo che rischiare, nella paranoia creata e sfruttata da Trump, il piombo.

Da - http://lalungastradabianca.blogautore.repubblica.it/
6148  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Gianfranco Polillo. La trovata di Renzi su Equitalia nasconde una stangata... inserito:: Novembre 08, 2016, 10:46:59 pm
La trovata di Renzi su Equitalia nasconde una stangata fiscale.
Ecco come e perché

 Gianfranco Polillo SPREAD

La trovata di Renzi su Equitalia nasconde una stangata fiscale. Ecco come e perché
L'articolo di Gianfranco Polillo, già sottosegretario all'Economia
Potenza della comunicazione.  Ecco la slide con cui Matteo Renzi immortalava la soppressione di Equitalia: risparmi pari a 4 miliardi. Un sollievo per le tasche di un contribuente massacrato dal fisco e dalle sue angherie. Immediati i riflessi positivi: con i sondaggi a favore del Sì, per l’imminente referendum, che prendono quota. Una piccola schiarita sul grande oceano della dissidenza.

Sono passate poche ore da quel momento. Il ministero dell’Economia – ma a proposito, si parla con Palazzo Chigi? – ha iniziato il suo lavoro da certosino. Che è quello ingrato di far quadrare i conti. Di colmare la distanza tra il sogno e la dura realtà. Ed è allora che quella slide si é trasformata in un monumento inutile alla retorica ed alla pura propaganda.

Il testo del decreto legge, “bollinato” dalla Ragioneria dello Stato, è anni luce distante da quelle promesse. Non solo ma il verso – altra immagine retorica – è completamente cambiato, fino ad assumere la forma e la sostanza di una nuova stangata fiscale che si abbatterà sull’ignaro contribuente. Altro che bonus di 4 mila euro. Piuttosto un malus di ben più elevate proporzioni.

Cominciamo dalla cifra. Non saranno più 4 miliardi di risparmi, grazie alla rottamazione delle cartelle, ma solo 2,7. Di cui 2 nel 2017 e gli altri 700 milioni spalmati nei due anni successivi. Non si è trattato di una svista. Ma di una modifica sostanziale delle disposizioni di legge. Lo sconto, ad esempio per le multe, in alcuni casi, è diminuito. Ma soprattutto è cambiata la rateizzazione. Non più 72 mesi, come avviene oggi. Bensì solo 4 rate. Il grosso, pari al 60 per cento da pagare entro il 15 dicembre, il rimanente 40 per cento entro il 15 marzo dell’anno successivo. Resta da vedere se sarà più conveniente pagare meno, rispetto al debito contratto, ma con rate decisamente più pesanti. In un momento in cui la crisi di liquidità per le imprese toglie loro ossigeno, vista la situazione delle banche italiane. Lo stesso ministero dell’Economia è stato costretto a considerare quest’eventualità e dimezzare la possibile adesione, rispetto agli standard del passato.

Ma non è nemmeno questo il piatto forte. Sono le norme di accompagno che rendono del tutto indigesta la minestra. Nel prossimo triennio l’erario prevede di incassare oltre 13 miliardi. Una minima parte – 2,7 miliardi – derivano da anticipi di somme non riscosse negli anni precedenti: la rottamazione appunto. Ma i restanti 10 sono frutto di un giro di vite sugli adempimenti fiscali. Anche giustificati con l’esigenza di contenere le forme di evasione, soprattutto per l’IVA, ma destinati comunque a pesare su tutti: persone oneste ed evasori incalliti.
Quei 10 miliardi rappresentano solo le maggiori possibili entrate. Non tengono conto cioè dei maggiori oneri amministrativi che ciascun soggetto sarà costretto a sostenere per venire incontro alle nuove richieste fiscali. Ma lasciamo perdere le minuzie ed occupiamoci del grosso. Dalla stretta sull’IVA e sull’Irpef a seguito delle comunicazioni non più annuali, ma trimestrali, deriveranno maggiori entrate, nel triennio, per 10,4 miliardi. Cui sommare i 2,7 miliardi della sanatoria, per un totale di circa 13 miliardi. Il contribuente risparmierà, rispetto al dovuto, circa il 30 per cento, grazie alla rottamazione. Quindi poco più di 1,1 miliardi. In compenso l’esborso complessivo per cassa sarà di 13,081 miliardi.

Prepariamoci quindi al salasso. Ma, per favore, non raccontateci altre favole.

Da - http://formiche.net/2016/10/26/la-trovata-di-renzi-su-equitalia-nasconde-una-stangata-fiscale-ecco-come-e-perche/
6149  Forum Pubblico / PERSONE che ci hanno lasciato VALORI POSITIVI / Stimatissima signora Curie, ... cordialmente, A. Einstein. inserito:: Novembre 08, 2016, 10:44:32 pm
Stimatissima signora Curie,

non rida di me se Le scrivo senza avere nulla di ragionevole da dire. Ma sono talmente in collera per le maniere indecenti con cui il pubblico si sta ultimamente interessando a Lei, da sentire di dovere assolutamente dare sfogo a questo mio sentimento.

Ad ogni modo, sono convinto che Lei coerentemente disprezzi questa gentaglia, sia che questa elargisca ossequiosamente stima nei suoi confronti sia che tenti di soddisfare il proprio appetito per il sensazionalismo!

Albert Einstein contro la stampa scandalistica in una lettera a Marie Curie

Mi sento spinto a dirle quanto io sia arrivato ad ammirare il suo ingegno, la sua energia e la sua onestà, e che mi sento fortunato ad aver avuto la possibilità di conoscerla di persona a Bruxelles.

Chiunque non appartenga a questa schiera di rettili è certamente felice, ora e anche prima, del fatto che abbiamo tra noi persone come Lei, e anche come Langevin, persone reali rispetto alle quali si prova il privilegio di essere in contatto.

Se la gentaglia dovesse continuare a occuparsi di lei, non legga quelle fesserie ma piuttosto le lasci ai rettili per cui sono state prodotte.

Con i miei più amichevoli ossequi a lei, Langevin e Perrin,

cordialmente,

A.   Einstein.

Da - http://www.sulromanzo.it/blog/albert-einstein-contro-la-stampa-scandalistica-in-una-lettera-a-marie-curie
6150  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / GIOVANNA CASADIO. Cuperlo: "Abbiamo ottenuto quel che volevamo, ora voterò sì" inserito:: Novembre 08, 2016, 11:24:01 am
Pd, Cuperlo: "Abbiamo ottenuto quel che volevamo, ora voterò sì"
Il colloquio.
L’esponente della sinistra dem: "Incoerente è chi parla di tradimento. Però non chiamatemi renziano"

Di GIOVANNA CASADIO
06 novembre 2016

Pd, Cuperlo: "Abbiamo ottenuto quel che volevamo, ora voterò sì “ROMA. "Ho riscritto io la bozza perché la prima, quella di giovedì dopo la riunione al Nazareno, non andava bene...". Poi sono stati dilemmi e contatti: "Ho sentito Roberto Speranza, mentre Bersani l'ho cercato ma non l'ho trovato". La reazione di Cuperlo pochi minuti dopo la firma al documento di accordo sull'Italicum bis, è di "sollievo", come di chi ha superato il guado.

Gianni, il triestino, il leader del Pd che ha imparato a fare politica nella Fgci, seguace della realpolitik di D'Alema per alcuni anni - ma con un certo distacco fino all'allontanamento definitivo - lo sfidante di Renzi alle primarie, quindi ha deciso: "Sono un uomo di dubbi, però poi mi assumo la responsabilità". Sa bene che la frattura e il rischio scissione nel Pd restano, che Bersani e i bersaniani accusano ora lui di incoerenza, di avere semplicemente spaccato la sinistra, e già fanno campagna per il No al referendum. Gianni si difende e contrattacca: "Non sono io l'incoerente. Evidente che non si può essere completamente soddisfatti, ma abbiamo ottenuto quello che come minoranza abbiamo chiesto per mesi. Quindi da parte mia firmare un documento su queste modifiche all'Italicum - i collegi per eleggere i deputati, il no al ballottaggio, il premio di governabilità, oltre all'elezione diretta dei nuovi senatori - è stato un atto di coerenza". Coerentemente come voterà al referendum costituzionale? "Voterò Sì".

Bersani ha detto che non si risolvono le cose con un foglietto di carta che vale un impegno generico. Anzi, peggio: equivale a quell'"Enrico stai sereno", diventato ormai il promemoria dell'inaffidabilità di Renzi. Enrico era Letta e, dopo le rassicurazioni il segretario Renzi lo sfiduciò sostituendolo a Palazzo Chigi. Non può funzionare allo stesso modo anche per il documento Italicum? Cuperlo non ci sta: "Il documento è firmato dai capigruppo Rosato e Zanda, dal presidente del partito Orfini e vidimato dallo stesso Renzi. Se decidiamo che questo non vale nulla, per carità... ma allora diventa difficile pensarsi nella comunità del Pd".

Il convitato di pietra della scissione è sempre più presente. Anche se Cuperlo parla di "unità", di "lealtà, la cui prova spetta a Renzi", e di "dispiacere" per la frattura a sinistra. Questi i sentimenti che lo accompagnano in queste ore. Fedele al ruolo di mediatore, non vorrebbe polemizzare con i bersaniani. Ma alla fine lancia l'affondo: "Se stiamo sul piano della coerenza, allora potrei ricordare le battaglie che abbiamo fatto in commissione e in aula per migliorare la riforma...".
La riforma costituzionale è stata votata da tutto il Pd, minoranza inclusa. L'Italicum invece ha provocato la vera grande rottura: Speranza si dimise da capogruppo, la minoranza dem non votò la fiducia messa dal governo sulla legge elettorale. Cuperlo non teme ora di essere accusato di renzismo: "La mia storia parla per me...". Ritiene di avere condotto in porto la mission e di avere gettato le basi perché il centrosinistra rinasca, che è la scommessa politica. Da presidente del Pd si dimise per coerenza in conflitto con Renzi. Ma che non avrebbe accettato lo strappo del No al referendum si era capito sabato scorso quando, a sorpresa, si presentò alla manifestazione del Sì a piazza del Popolo. E si fece un selfie con la Boschi.

© Riproduzione riservata 06 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/06/news/_abbiamo_ottenuto_quel_che_volevamo_incoerente_e_chi_parla_di_tradimento_-151420376/?ref=nrct-13

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