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6106  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. Trump sulle orme di Berlusconi lancia il "Contratto con gli... inserito:: Novembre 12, 2016, 12:22:58 pm
Trump sulle orme di Berlusconi lancia il "Contratto con gli americani"
Sul suo sito, include il programma dei primi cento giorni.
Ma già alle prime letture si scoprono evidenti effetti-annuncio.
E già in una intervista al WSJ il neoeletto presidente frena sulla modifica solo di parte dell'Obamacare

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
11 novembre 2016

NEW YORK - Le analogie con Silvio Berlusconi continuano ad aumentare. Donald Trump lancia il suo “Contratto con l’elettore americano”, che include il suo piano per i 100 giorni. Ben visibile sul suo sito, il Contratto elenca provvedimenti che il neo-presidente intende varare non appena s’insedierà alla Casa Bianca (l’Inauguration Day è il 20 gennaio). Molti di questi erano già stati anticipati sull’edizione cartacea di Repubblica ieri e oggi.

Cancellate le restrizioni all’estrazione di petrolio, gas naturale. Ritiro o ri-negoziazione dal trattato Nafta che un quarto secolo fa creò il mercato unico con Canada e Messico. Denuncia formale della Cina per manipolazione della valuta (preludio a sanzioni commerciali). Avvio delle procedure di espulsione per due milioni di “immigrati criminali”. Congelamento di tutte le assunzioni nel pubblico impiego (federale ovviamente, gli Stati fanno quello che vogliono). Stop a qualsiasi versamento all’Onu per la lotta al cambiamento climatico.

Segue una seconda parte, spalmata sui 100 giorni, e fatta per lo più di iniziative che Trump intende lanciare ma che poi andranno approvate dal Congresso. E’ in questa parte che si trova l’abrogazione di Obamacare, la riforma sanitaria del suo predecessore. Così come i 1.000 miliardi di dollari di investimenti per l’ammodernamento delle infrastrutture. Ovvero la riforma fiscale che dovrebbe ridurre il prelievo su tutti, persone fisiche e imprese.

Una lettura attenta rivela che ci sono molti effetti-annuncio. Per esempio: la ri-negoziazione del Nafta è un processo lungo nel quale intervengono i tre paesi firmatari, non basta la volontà del presidente americano; poi qualsiasi nuova formulazione di quel trattato andrà sottoposta a ratifica del Congresso, dove una parte dei repubblicani legati alle lobby industriali restano liberoscambisti. Ancora: per abrogare Obamacare bisogna prevedere un sistema sanitario alternativo; l’esperienza insegna che disegnare la sanità americana è un cantiere su cui i parlamentari si cimentano su tempi lunghi (anche lì intervengono le lobby: assicurazioni, Big Pharma, ospedali privati, medici). A riprova: in un’intervista appena uscita sul Wall Street Journal, Trump sta già facendo una parziale marcia indietro su Obamacare, invece dell’abrogazione totale accenna alla possibilità di modificare solo parte di quella riforma sanitaria.

In quanto al piano delle infrastrutture, per aggirare la resistenza dei repubblicani ortodossi che non amano la spesa pubblica, Trump proporrà che i 1.000 miliardi ce li mettano i privati. Ma con sgravi fiscali che di fatto li finanzierebbero fino all’82%. Il compito più facile per Trump sarà abrogare quelle riforme che Obama aveva varato attraverso atti esecutivi: ricadono in questa categoria diverse normative ambientaliste dell’Environmental Protection Agency.

© Riproduzione riservata
11 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/11/news/trump_sulle_orme_di_berlusconi_lancia_il_contratto_con_gli_americani_-151832771/?ref=HREA-1
6107  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Gianni RIOTTA - Tra i minatori del Kentucky: “Saremo anche ignoranti ma ... inserito:: Novembre 12, 2016, 12:21:12 pm
Tra i minatori del Kentucky: “Saremo anche ignoranti ma abbiamo fatto la storia”
Nella contea del carbone che ha spinto il magnate alla Casa Bianca dove il dibattito sul clima conta meno dei posti di lavoro persi
L’Università di Stato del Kentucky è un’università pubblica, con sede a Lexington. È stata fondata nel 1865

Pubblicato il 12/11/2016
Ultima modifica il 12/11/2016 alle ore 07:30
Gianni Riotta
Frankfort (Kentucky)

«Fare il minatore, nel Kentucky orientale, non è un lavoro, è un modo di vivere. È la tua esistenza, la tua cultura. Una fratellanza umana, che sfama e manda i figli al college, grazie a chi invece scende sottoterra senza poter studiare. La miniera è lavoro onesto, duro, manuale, ingrato, crudele, spoglio e pericolosissimo. I minatori hanno costruito l’America. Sono gente fiera, non ignoranti subumani. Sono fieri, l’avete capito?».

Rifletto su questa commossa difesa dei minatori del Kentucky, dai viali assolati della cittadina di Frankfort. Nel 1780 gli indiani uccisero sulla riva del fiume Kentucky un pioniere di nome Frank, e i compagni gli dedicarono il villaggio. Gli eredi del povero Frank hanno ora portato alla vittoria Donald Trump, umiliando la Clinton, i minatori odiano gli accordi di Parigi firmati da Obama, perché chiudono la loro storia pur di ridurre l’anidride carbonica. Quando Trump promette, «Straccio il patto contro i gas serra!» applaudono, battendo i piedi con gli scarponi Timberland gialli. Sono ormai rimasti in pochi in vallata, 6900, meno che nel 1898, gli ultimi licenziamenti di febbraio, 1500 senza lavoro. Gli altri a vivere arrangiandosi, poco nobile per chi «ha costruito l’America ed è fiero», «Negli anni Venti ogni anno la popolazione raddoppiava».

Gli ambulatori a Frankfort curano «black lungs», polmoni neri, le malattie professionali dei minatori, ma la disoccupazione è la malattia peggiore. Chi è «fiero» di avere «costruito il Paese» soffre poi di alcolismo, eroina, solitudine, depressione, divorzi, suicidi. La vita media degli operai non cresce, torna ai tempi del pioniere Frank.

Sul viale centrale di Frankfort, Broadway, si apre la libreria «Poor Richard», che da 40 anni è amministrata da Lizz Taylor, «visita la soffitta, ci sono migliaia di libri antichi», e quando salgo le scale cigolanti entro davvero nella Caverna di Ali Babà, con i volumi che Signori e Signore leggevano quando i minatori scavavano. Su una copia del Faust degli Harvard Classics, la collana che «ogni uomo colto deve leggere per 15 minuti al giorno», un nome scritto col pennino, «Margaret Swift» e la data «1911». «Il carbone permetteva agli aristocratici di studiare Goethe e ai poveri di non morire di fame come sui monti Appalachi era la regola. Io ho votato Hillary, ma capisco chi vota Trump. Sanders era troppo di sinistra, Hillary troppo moderata. In mezzo s’è infilato Trump» conclude saggia Lizz.

Attraversato un vicolo, vedete la vetrina brillante di Kentucky Knows. La porta la apre il proprietario, Tony Davis, orgoglioso di esporre su un manichino la divisa da marine, «Ho servito nel corpo per 4 anni, qui molte famiglie sono militari, alcune hanno combattuto con Washington». Tony compra centinaia di botti usate del bourbon, il whiskey locale che ha reso lo Stato, con il derby dei cavalli e il cocktail alla menta «Mint Julep», famoso. Poi le smonta, doga per doga, e ne ricava mobili d’arte fantastici, legno ricco, grasso, stagionato. Tony, e il suo amico John, invitato a bere un caffè al bourbon, sono cauti, «il popolo ha parlato, siamo ex militari, il presidente è Capo delle Forze Armate», poi si sciolgono, «non era una scelta felice ok? Ma Hillary ci veniva addosso, qui la gente ha paura. Sa cosa fanno per eliminare la povertà dalle vallate più misere? Danno sussidi alle famiglie, perché traslochino dove possono sperare in un lavoro. Vai a vedere i traslochi, si spezza il cuore, qui tengono in soffitta le medaglie del trisnonno alla Guerra Civile, le pallottole Miniè, che si trovano nei boschi», rozze munizioni che aprivano ferite curabili solo con amputazioni e sega da falegname.

«Siamo americani, dobbiamo unirci» dice Tony. Ieri era Veteran’s Day, il giorno dei veterani militari e nel patriottico Sud garriva ovunque Old Glory, la bandiera a stelle e strisce. Nel cimitero di Versailles, una dolce collina alla Spoon River, una bandierina su ogni lapide di ex soldato. E davanti al ristorante Cattleman, specialità costolette di porco fritte con le cipolle, passeggia John Howard, il cappello con le decorazioni e la scritta «Reduce di Corea e Vietnam» calcato in testa. Nel 1957 il presidente, ed ex generale, Eisenhower teneva, prudente, in Vietnam solo 693 militari americani, sceltissimi uomini di intelligence e controguerriglia. Howard era uno di loro, già reduce del gelo coreano, poi Francia, Italia, Germania: «La scelta politica era mediocre, il Paese è spaccato. Tu da dove vieni?» intima con tono da ufficiale. New York Sir. «Ah un maledetto yankee, un nordista eh, li detestiamo qui quelli come voi» e ride con occhi felici. Poi si fa serissimo «Nulla per noi ex militari è doloroso come l’America che si odia, tra fratelli. Dobbiamo andare avanti. Trump è presidente? Spero faccia del bene all’esercito».

Nelle grandi città, militanti di sinistra, che spesso non hanno neppure votato Clinton, marciano in strada, pochi ma con al seguito telecamere e web. Trump, abile, ne approfitta e denuncia gli intolleranti. Qui, nel Trumpland profondo, non trovate invece neppure una voce rauca. Ogni elettore democratico, Lizz, o la sua commessa Kathy, soavi capelli grigi, «lo so, a Hollywood mi darebbero la parte della bibliotecaria in un giallo!», difende i minatori che votano repubblicano. Fascisti! gridano a Broadway, New York. Brava gente che vuol vivere, spiegano a Broadway, Frankfort.

Rimugino le parole così forti, «Fieri, hanno costruito l’America i minatori», ascolto vicende come quella di Gary Hall, caposquadra per 33 anni sottoterra, ultimo lavoro a Pike County, disoccupato dal marzo 2015, «niente mutua e purtroppo noi ci ammaliamo spesso. Dopo una vita in miniera mi ci vedi a fare la guida turistica?».

Con i prati di bluegrass, i vigneti, i cavalli a guardare dagli steccati, Eastern Kentucky è meraviglioso, ma pochi turisti sono attratti dalle distillerie pregiate del Bourbon, «abbiamo inquinato, scappano» lamenta Lizz Taylor. Per questo qui il livore dei cortei non arriva. Le parole di nostalgia per i minatori che votano Trump, orfani del loro piccolo mondo antico, sono di Ivy Brashear, gay, femminista, blogger Huffington Post, militante di Hillary, «ma con la famiglia qui da 10 generazioni». «Io temo la presidenza Trump come donna, come queer, come progressista - spiega Ivy - Ma non odio né incolpo i minatori e chi lo ha votato qui, perché non siamo né diversi, né nemici, siamo la stessa cosa, gente del Kentucky. Lo so, la pensiamo in modo opposto, ma non siamo quella robaccia cui questa elezioni ci vogliono ridurre. Siamo cresciuti insieme nelle valli, famiglie numerose e unite, la luce fino a tardi in estate, i cani che si chiamano di collina in collina e Nonna che prepara cena per un esercito. Non abbiamo vicini di casa, abbiamo amici e dobbiamo trovare subito insieme un porticato con le dondolo e ragionare, uniti contro i Politici che non ci capiscono, divorando pomodori in insalata».

Lascio Frankfort con nello zainetto il caffè aromatizzato al bourbon regalo di Tony, un libro di poesie del ’32 della Lizz e la certezza che se Hillary avesse avuto Ivy Breashar come consulente, anziché i parrucconi dell’immagine laccata, ‘ste elezioni non le perdeva.

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Da- http://www.lastampa.it/2016/11/12/esteri/speciali/presidenziali-usa-2016/tra-i-minatori-del-kentucky-saremo-anche-ignoranti-ma-abbiamo-fatto-la-storia-6T05y0CAMaoyMptgqHjNDL/pagina.html

6108  Forum Pubblico / I.C.R. Immaginare Conoscere Realizzare. "Le TERRE DI RANGO" e "Le TERRE DI FANGO". / Riccardo Staglianò - Tom Wolfe, un magnifico attaccabrighe di 85 anni inserito:: Novembre 11, 2016, 06:28:51 pm
Parla Tom Wolfe, un magnifico attaccabrighe di 85 anni
Ha raccontato la generazione Lsd e gli astronauti, inventato l’espressione "radical chic" per dissacrare quel tipo di sinistra e malmenato l’architettura moderna.
Ora a chi tocca? A Chomsky e addirittura a Darwin

Dal nostro inviato Riccardo Staglianò
10 novembre 2016

NEW YORK. Parafrasando quel che si diceva del celebre cowboy cinematografico, Tom Wolfe è uno scrittore dotato di due espressioni: con macchina da scrivere e senza. In quest’ultima configurazione coincide perfettamente con la sua iconografia, comprensiva di completo bianco d’ordinanza, ghette bicolori e altri vezzi da dandy. Nel corpo a corpo solitario con la pagina, invece, si trasforma in un attaccabrighe sempre pronto a menare le mani. «Odio dirlo ma David McDaniel ha l’aspetto e il comportamento più diabolici che abbia mai visto. Assomiglia al tipico giappo dei fumetti» scrive ai genitori, circa un compagno di classe, alla feroce età di dodici anni. A ventisei il preside di Yale rifiuta la prima versione della sua tesi di dottorato sulle «influenze comuniste sugli scrittori americani dal 1928 al 1942» perché, oltre a prendersi delle libertà sui fatti, «tende costantemente alla denigrazione». A trentanove anni vara e affonda, in un colpo solo, la categoria dei radical chic.

Oggi quest’uomo apparentemente mitissimo, inchiodato sul divano del salotto Art déco da un’artrosi spietata, con uno Steinway a coda sovrastato da quattro finestre spettacolari su Central Park, ha riservato il suo trattamento scarnificante a Noam Chomsky, forse il più grande linguista di tutti i tempi («Ha traslocato la materia dagli studi sul campo all’Olimpo dell’accademia. Come se non bastasse ha dato ai suoi colleghi il permesso di lavorare al fresco dell’aria condizionata»). Già che c’era, sul ring con il quasi coetaneo (172 anni in due), ha trascinato anche Charles Darwin: «La selezione naturale convince quando parliamo di animali ma, per gli uomini, non supera i cinque criteri standard del metodo scientifico». Questa coppietta di avversari da niente avrebbe sulla coscienza soprattutto il non essere riuscita a spiegare l’origine del linguaggio, la facoltà chiave che ci distingue dalle altre specie. Così, dopo sedici anni, il principe del new journalism è tornato alla saggistica con Il regno della parola (Giunti) per dimostrare che il papà della grammatica generativa e quello dell’evoluzionismo sono, nel migliore dei casi, dei sopravvalutati.

Perché, tra tutti i temi possibili, ha deciso di occuparsi proprio di questo?
«Avevo sempre pensato che l’evoluzione fosse un argomento piuttosto noioso, sin quando non ho riletto La bestia umana di Zola, il cui realismo resta uno dei più grandi contributi alla letteratura. Dalle spiegazioni darwiniane restava fuori proprio il linguaggio, a mio modo di vedere la facoltà più decisiva che ci differenzia dagli animali. Più leggevo più mi convincevo che l’idea che si tratti di un nostro tratto naturale e congenito fosse un mito come tanti, però propagandato da scienziati»...

Continua sul Venerdì dell'11 novembre

© Riproduzione riservata
10 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2016/11/10/news/intervista_a_un_magnifico_attaccabrighe_chiamatotom_wolfe-151726555/?ref=HRER2-1
6109  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Il Ku Klux Klan: "Per Trump una parata della vittoria". Vota con la pancia e... inserito:: Novembre 11, 2016, 06:25:58 pm
Il Ku Klux Klan: "Per Trump una parata della vittoria"
Sul sito dell'organizzazione razzista l'annuncio di una manifestazione il 3 dicembre "in North Carolina", senza specificare il luogo esatto

11 novembre 2016

MENTRE migliaia di americani delusi e sconcertati scendono in piazza per contestare il futuro presidente Donald Trump, al fianco del tycoon scende in campo il Ku Klux Klan: l'organizzazione razzista e suprematista bianca ha annunciato sul proprio sito che il 3 dicembre organizzerà una "parata per la vittoria" in North Carolina, senza precisare la città in cui si svolgerà la manifestazione.

"La corsa di Trump ha unito la mia gente", è scritto con un sinistro gioco di parole nella didascalia sopra il ritratto di Trump: la parola "race", in inglese, vuol dire sia "corsa" che "razza".

Subito dopo la vittoria del candidato repubblicano un ex leader del Ku Klux Klan, David Duke, aveva rivendicato con un tweet il contributo del gruppo nella sua elezione: "La nostra gente ha svolto un ruolo enorme!".

Fin dal giorno dopo l'elezione del candidato repubblicano sui social erano circolate foto e messaggi di denuncia di violenze a sfondo razziale, in particolare contro giovani donne musulmane.

© Riproduzione riservata
11 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/11/news/il_ku_klux_klan_annuncia_una_parata_della_vittoria_per_trump-151786149/?ref=HREC1-2
6110  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Non solo Trump, dai referendum suicidio assistito, marijuana e pena di morte inserito:: Novembre 11, 2016, 06:21:39 pm
Usa2016
Non solo Trump, dai referendum suicidio assistito, marijuana e pena di morte
Di Redazione
09 novembre 2016

Nell'election day per le presidenziali in nove Stati degli Usa si è votato anche per i referendum: per la legalizzazione della marijuana ad uso medico o ricreativo e in Colorado per la legge sul suicidio assistito, in Nebraska per il ripristino della pena di morte

Nell'election day per le presidenziali in nove Stati degli Usa si è votato anche per la legalizzazione della marijuana ad uso medico o ricreativo e in Colorado per la legge sul suicidio assistito, per il ripristino della pena di morte in Nebraska.

Marijuana. I primi risultati sono arrivati da Florida ed Arkansas, che hanno deciso di legalizzare l'utilizzo della cannabis a scopo medico. Luce verde all'utilizzo per il trattamento di determinate malattie, tra cui il cancro, l'Aids, l'epilessia e l'epatite C. La California, Massachusetts e Nevada hanno dato il via libera alla legalizzazione della marijuana per uso ricreativo. Questi Stati si aggiungono ad Alaska, Colorado, Oregon, Stato di Washington e Washington D.C.

L'uso della la marijuana sarà comunque limitato come quello dell'alcool: vietato ai minori di 21 anni, proibito in gran parte degli spazi pubblici e tassato. I maggiorenni potranno possedere fino a 28,5 grammi di cannabis (8 grammi se concentrata), e crescere fino a sei piante per uso privato. Lo Stato poi concederà licenze per la vendita della droga leggera, applicando un'accisa del 15%.

Suicidio assistito. L'Oregon ha approvato il “quesito 106”, ovvero il referendum sul suicidio assistito. Le norme - ispirate da quelle dell'Oregon in vigore da 20 anni e presenti anche in altri Stati - permetteranno ai malati con 6 mesi o meno di aspettativa di vita di porre fine alla vita.

Pena di morte. La pena di morte torna in Nebraska. Gli elettori hanno votato a favore del ripristino della pena capitale nello Stato, dove il boia non colpisce dal 1997, respingendo la decisione dello scorso anno di sospenderla. Anche la California ha votato a favore della pena di morte.

Da - http://www.vita.it/it/article/2016/11/09/non-solo-trump-dai-referendum-suicidio-assistito-marijuana-e-pena-di-m/141531/
6111  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Giuseppe Frangi - Quel dato che spiega perché Trump ha vinto inserito:: Novembre 11, 2016, 06:18:25 pm
Quel dato che spiega perché Trump ha vinto

Di Giuseppe Frangi
09 novembre 2016

Le 23 maggiori società websoft in questi sette anni hanno più che triplicato i fatturati e sono cresciute a dismisura in borsa. Ma creano occupazione in dimensioni infinitamente minori. In sostanza è un modello economico che premia pochi e funzionale a Wall Street

Un dato può aiutare a capire una delle ragioni per cui Donald Trump ha vinto: lo ha reso noto ieri il Centro Ricerche di Mediobanca, presentando un rapporto sulle 23 maggiori società websoft del mondo.

Il dato è presentato nell’ultima slide sotto un titolo che dopo tante slide dal tono positivo per non dire trionfale, butta là un dubbio: «Meno intensità di forza lavoro?» si chiedono gli analisti di Mediobanca. E il dubbio è ben motivato dal grafico: nelle multinazionali “industriali” il numero medio di dipendenti per ogni milione di totale attivo è di tre. Nelle websoft che in questi anni hanno scalato la borsa e avuto aumenti iperbolici di capitalizzazione, quel rapporto si dimezza: per generare un milione di totale attivo basta un dipendente e mezzo. Una nota poi spiega che il dato più recente sarebbe ancora più basso: 1,2 dipendenti. In sostanza nei sette anni della grande crisi il fatturato delle 23 websoft prese in esame è più che triplicato, mentre la forza lavoro è cresciuta di meno della metà: i dipendenti sono aumentai di 1,4 volte nello stesso arco di tempo. Non solo la tendenza è sempre progressivamente a diminuire. Mentre si allarga sempre di più la forbice tra fatturati e forza lavoro impegnata.

L’aggregato delle 23 websoft ha senato nel 2015 vendite per 466,8 miliardi di dollari, con utili di 66,3 miliardi. Questo è stato reso possibile anche grazie ai regimi fiscali di cui godono: il loro tax rate medio è pari al 23% mentre quello delle grandi multinazionali è del 30%. Oltre a tutti questi numeri vanno anche registrate le crescite dei titoli in borsa, che hanno aumentato a dismisura il valore di capitalizzazioni di queste società: solo nel 2015 la crescita media è stata del 35%, con punte record per Google (che oggi vale 483 miliardi di dollari) e per Amazon (353 miliardi).

In sostanza, spiegano gli analisti, le websoft non riescono ad assorbire che in piccola parte la forza lavoro espulsa dall’industria. In compenso premiano gli azionisti e danno grandi soddisfazioni a Wall Street.

Per quanto gli elettori americani non avessero in mano questi dati, la sensazione di questo fenomeno doveva essere loro stata ben chiara. E chi ha memoria può ricollegare questo trend alla decisione di politica economica presa da Bill Clinton nel 1992 quando si insediò per il primo mandato alla Casa Bianca. Come ha ricordato Robert Pollin, Political Economy Research Institute, University of Massachusetts, le priorità di Clinton subirono un drastico riordino nei due mesi di “interregno” fra le elezione di novembre e l’insediamento nel gennaio 1993. Scrive Pollin: «Un resoconto preciso e dettagliato di questa involuzione è stato fatto da Bob Woodward, cronista del Washington Post, nel suo libro The Agenda (1994). Come Woodward riporta, solo poche settimane dopo la vittoria alle elezioni, Clinton dichiarava: “Noi incarniamo lo spirito dei repubblicani negli anni di Eisenhower… Siamo favorevoli alla riduzione dei deficit, al libero commercio, al mercato dei titoli. Un programma grandioso”».

Come aveva potuto Bill Clinton cambiare direzione così rapidamente? La risposta è diretta e chiara, ed è stata candidamente fornita da Robert Rubin, copresidente della banca Goldman Sachs prima di diventare ministro del Tesoro di Clinton. Addirittura prima dell’insediamento del nuovo governo, Rubin spiegava ai membri più progressisti della nuova amministrazione che «i ricchi sono il motore dell’economia e prendono le decisioni che la riguardano».

Fu così che si arrivò alla decisione di smantellare il sistema del Glass-Steagall Act, che regolava le attività finanziarie dai tempi del New Deal e che separava banche commerciali e banche d’affari. Quel muro venne abbattuto, lasciando briglie sciolte alla speculazione. Le grandi crisi che ne sono seguite sono il frutto di quella scelta. Del resto lo stesso Clinton ammise più tardi che con il suo nuovo obbiettivo di politica economica, «abbiamo aiutato il mercato borsistico, e deluso le persone che ci hanno votato». Delusi al punto che quando sua moglie si è presentata per la corsa alla Casa Bianca, le cose sono andate come abbiamo visto...

Da - http://www.vita.it/it/article/2016/11/09/quel-dato-che-spiega-perche-trump-ha-vinto/141530/
6112  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Marco Dotti - Capire Trump o perderci per sempre inserito:: Novembre 11, 2016, 06:16:30 pm
Usa2016
Capire Trump o perderci per sempre

Di Marco Dotti
07 novembre 2016

Quasi 1/3 degli elettori americani (41 milioni) ha già votato e, in attesa del verdetto elettorale che arriverà mercoledì, ancora non abbiamo capito chi è, ma soprattutto cosa e chi rappresenta Donald J. Trump. Intervista a Marco Luigi Bassani

Si fa presto a dire Trump. Si fa ancor prima a storcere il naso. Ma poi, i conti non tornano e i guai restano. E sono grossi, grossissimi guai per tutti. Soprattutto se non si mette in gioco quel po' di franchezza, rigore e conoscenza a medio raggio senza la quale anche navigare a vista diventa difficile. La conta dei voti avverrà martedì alle 7 di sera - l'una del mattino in Italia - e i sondaggi, finora, non hanno certo dato una mano. Ma comunque vadano le cose, Donald J. Trump ha già cambiato, forse inesorabilmente, il mondo della politica e la nostra percezione di quel mondo.

Di certo, questo oggetto misterioso catapultato da un altrove che ancora stentiamo a definire, è destinato a interrogarci a lungo. Abbiamo chiesto al professor Marco Luigi Bassani di aiutarci a capire. Nato a Hinsdale, in Illinois, studente a Berkeley, Pavia, Pisa, allievo di Gianfranco Miglio, profondo conoscitore del sistema federale statunitense, della vita e delle opere di Thomas Jefferson - al quale ha dedicato due corpose monografie - e di quei risvolti storia americana che spesso sfuggono alla vulgata, Marco Luigi Bassani oggi insegna Storia delle dottrine politiche all'Università Statale di Milano.

Che cosa non abbiamo capito di quanto sta accadendo negli Stati Uniti?
Da un lato l’errore è stato quello di guardare gli Stati Uniti facendoceli raccontare dai quattro “americanisti” ufficiali che abbiamo in Italia, dai Rampini ai Severgnini. Dall’altro, ed è l’errore fondamentale, c’è il fatto di aver cercato di leggere queste elezioni americane guardando la storia americana. In questo caso, invece, per comprendere quello che sta accadendo negli Stati Uniti bisogna guardare ciò che è accaduto in Europa. Nel 2015 è infatti successo qualcosa, dal punto di vista politico, che ha ribaltato i rapporti tra Europa e Stati Uniti.

A che cosa si riferisce?
Mi riferisco a ciò che è successo con l’immigrazione nell’estate del 2015, unito al fatto che la Merkel abbia aperto completamente le frontiere ha portato a una “europeizzazione” della politica americana, cioè a una paura dell’invasione. L’appoggio – comunque vadano a finire le elezioni – da parte di metà degli Stati Uniti a un personaggio come Donald Trump deriva da questo: dal timore della scomparsa di quell’America come noi la conosciamo.

Fino a ieri, potevamo leggere una disputa elettorale basandoci sul “giusto ruolo” del governo nell’economia, ovvero Stato e quanto mercato dovevano esserci. Oggi?
Oggi siamo davanti a due gruppi statalisti. Sia la coalizione della Clinton sia quella di Donald Trump sono statalisti. Divergono sul fatto che la coalizione della Clinton è per lo statalismo open borders, mentre l’altro è uno statalismo classico di destra: salvataggio del welfare state attraverso la chiusura delle frontiere.

Chi vota per Trump?
Se votassero solo i bianchi poveri, Trump avrebbe l'85% dei voti. I bianchi poveri, soprattutto maschi, votano per lui. Lo votano per tantissimi motivi: perché odiano la Clinton, perché si sentono maggiormente tutelati, perché, nella globalizzazione, pensano di essere la parte perdente.

Non c'è dubbio, dunque, che Trump sia stato raccontato male...
Soprattutto senza problemattizzare in alcun modo ciò che rappresenta. È stato raccontato esattamente secondo lo schema della Brexit: «sono brutti, sporchi, ignoranti e cattivi e agiscono di conseguenza».

Che cosa c'entra la Brexit?
Il racconto della Brexit si sovrappone completamente al racconto totale su Trump. Oltretutto, in Italia hanno solo copiato quello che raccontavano i giornali americani. Tra l'altro, sui primi 100 giornali americani nessuno ha fatto l'endorsement per Trump. Questo significa che è stato trattato come un appestato e un razzista.

Trump non è razzista?
Non lo so, dico che non c'è una frase di un suo discorso che possa essere qualificata come autenticamente razzista. La questione della chiusura dei confini, tra l'altro, una tematica globale. Nessuno, tranne che in Italia, vuole vivere open borders. Sicuramente è protezionista, il libero mercato gli interessa molto poco - cose che lo differenziano dal conservatorismo classico - ma non ha nulla, proprio nulla di quanto le élites progressiste vanno dicendo.

Ammetterà che è politicamente scorretto?
Ecco, questo è un punto. Comunque vada il politically correct con Trump finisce. C'è stato un periodo, negli Stati Uniti, in cui non si poteva nemmeno dire "fried chicken", pollo fritto, perché era il cibo preferito dai neri e, di conseguenza, finivi all'interno di una categoria sospetta. Questa polizia del pensiero finisce con Trump, che vinca o meno.

Sui media è stato tracciato un profilo psicopatologico esplicito di Trump: megalomane, mitomane, psicopatico… Non è un po’ troppo per affidargli le chiavi della politica estera della principale potenza globale?
Al contrario, se c’è qualcosa che spaventa poco è proprio la sua politica estera. L’interventismo della Clinton potrebbe portarci invece alla catastrofe. Non possiamo dimenticare quanto è successo in questi 8 anni di presidenza Obama-Clinton. Pensiamo che 8 anni fa, la Russia era una potenza regionale, oggi i due ci hanno consegnato un mondo che assomiglia sempre più a quello di una seconda guerra fredda, con la Russia diventata attore globale. Per la pace mondiale, io sarei più tranquillo con Trump che con la Clinton… Lei è la vera guerrafondaia, che andava dalla Bosnia a ogni luogo dove c’erano bombe da lanciare… La Clinton è una emanazione di certi circoli progressisti e guerrafondai del nord est...

La parabola progressista iniziata con Clinton marito giunge forse alla sua fine o, quanto meno, al suo disvelamento?
Molti dicono che ciò che conta è la battaglia culturale. Negli Usa è in corso una battaglia a tutto campo delle élites progressiste per distruggere le radici cristiane diffuse nel Paese. Da qui la storia dei matrimoni gay e via dicendo. Pensiamo che il 65% degli americani va a una funzione religiosa ogni domenica. Per le élites culturali del nord est conta distruggere questo legame. Se dovesse vincere Trump, a mio avviso, sarebbe anche una reazione a questo tentativo di distruggere le radici culturali del Paese. Queste élites sono rappresentate dal nord est, dalla California e da Hollywood: se uno guarda i film di Hollywood pensa che l’America sia un Paese anticristiano.

Non è così?
No. Tra l’altro, pensiamo che mai i numeri delle primarie erano stati così alti. Sono andati tutti a votare in massa e ci sono segnali strani, tipo gli amish che sono andati a registrarsi per la prima volta al voto...Se gli amish vanno davvero a votare per salvare la libertà religiosa, Trump potrebbe vincere anche in Pennsylvania. E gli evangelici si potrebbero muovere anche per Trump che, nonostante tutto sembra loro il meno peggio.

Non lo fecero con Romney, il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d'America del 2012
Ma lui era mormone.


L’era Obama è tramontata, dunque…
È stata la peggiore presidenza degli Stati Uniti. Ha preso l’America con il nemico fondamentalista e ce la riconsegna con un Califfato. Il debito pubblico è aumentato del 40% in 8 anni. L’unico vantaggio che aveva era di essere nero. Ma anche qui, il disastro. Doveva mettere per sempre alle proprie spalle il conflitto razziale che datava da due secoli. Invece… Oltretutto ha reinventato la Russia, che ha un Pil di poco superiore a quello italiano, ma con la sciagurata politica anti Assad sua e della Clinton. Nei dibattiti del 2012, Mitt Romney affermava che «il nostro peggior nemico è la Russia». Obama allora rideva, ma stava già scavando la fossa al mondo.

Da - http://www.vita.it/it/article/2016/11/07/capire-trump-o-perderci-per-sempre/141479/
6113  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Daniele Biella. L'elezione di Trump? Colpa del flop di Obama sul welfare inserito:: Novembre 11, 2016, 06:14:38 pm
L'elezione di Trump? Colpa del flop di Obama sul welfare

Di Daniele Biella
21 ore fa

Intervista a Michael Gecan, uno dei community organizer più influenti degli Stati Uniti d'America. "I democratici erano sicuri della vittoria ma nel frattempo stavano perdendo il proprio bacino elettorale, la classe operaia", spiega, "ora mettiamo alla prova il tycoon, perché politiche pragmatiche anche se conservatrici possono portare benefici al welfare locale"

Elezioni Usa 2016, ha vinto Trump. "Ma stamattina risvegliamoci senza strapparci le vesti: non c’è stato un considerevole progresso nelle politiche sociali dell’ultima amministrazione Obama, può darsi che un conservatore come Donald Trump possa sorprendere in quanto a miglioramento delle condizioni di vita delle specifiche comunità locali”. Queste non sono parole di un portavoce del nuovo presidente degli Stati Uniti – eletto con lo sfavore del pronostico ma di fatto con una vittoria netta alle urne nella maggior parte degli States – ma di esperto community organizer come Michael Gecan, vicedirettore della Fondazione Industrial Areas di Milwakee e supervisore da decenni di organizzazioni di varie città statunitensi.

“Si tratta di pragmatismo: se Trump mette in atto quello che ha detto, ovvero azioni dirette per risollevare la classe operaia e impoverita, se come ha ricordato al momento dell’elezioni inizierà costruendo infrastrutture laddove mancano, se riformerà la giustizia come da anni si chiede a gran voce, può essere un elemento positivo. Stiamo quindi all’erta e valutiamolo sulla base dei fatti”, sottolinea Gecan, che raggiungiamo di prima mattina, nella sua prima intervista post elezioni (tra le varie collaborazioni, vanta una rubrica fissa sul prestigioso New York Daily News e altre testate statunitensi).

“La sensazione di shock c’è, ma attenzione: più che di voto per il Gop – il Partito Repubblicano – si tratta di un voto di rifiuto verso i democratici”, indica il vicepresidente di Industrial Areas Foundation. “Nell’ultimo periodo loro erano sicuri di vincere, nonostante erano stati messi all’erta da molti”, compreso lo stesso Gecan, che meno di un mese fa aveva dedicato un articolo al tema (consultabile a questo link, in inglese). “Barack Obama, Hillary Clinton e in generale il Partito Democratico ha perso consensi laddove da 30 anni aveva la propria base elettorale, ovvero quella working class che non ha visto benefici dall’amministrazione uscente, anzi si è sentita via via marginalizzata”, continua il community organizer statunitense.

Michael Gecan
Anche sui temi legati ai conflitti sociali, Gecan traccia un quadro piuttosto chiaro: “in queste ore si fa molta leva su come potrebbe cambiare, in peggio, la coesione comunitaria, la relazione tra bambini di origine o fede diversa. Ma io mi chiedo: fino a oggi com’è stato? I minori vengono uccisi a mano armata per le strade, sono esposti alle violenze degli adulti, in quest’ultima amministrazione democratica come nelle altre, senza alcuna rottura rispetto al passato. È già un problema, è fuorviante evocare scenari peggiori con l’avvento di Trump”. Da dove ripartire? “Da un esame di coscienza collettivo e dalla possibilità, ribadisco, che quello che avverrà d’ora in poi non sarà per forza negativo”. Nemmeno sul tema politiche migratorie e minoranze etniche? “Sarà una fase delicata, se penso alle persone di fede musulmana, ai Latinos come ad altri. Ma sarà anche una fase che potrebbe fare nascere qualcosa di diverso, più che qualcosa di preoccupante”.

Da - http://www.vita.it/it/article/2016/11/09/lelezione-di-trump-colpa-anche-del-flop-di-obama-sullo-stato-sociale/141542/
6114  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Gianni RIOTTA - Donne bianche e tute blu: le chiavi del successo di Trump inserito:: Novembre 11, 2016, 06:12:04 pm
Donne bianche e tute blu: le chiavi del successo di Trump
Lavoratori e le classi meno istruite hanno spinto Donald. Il repubblicano abile a parlare dei temi ignorando i sondaggi

Pubblicato il 10/11/2016
Gianni Riotta
New York

«L’elezione di Donald Trump è una tragedia per la repubblica americana, una tragedia per la Costituzione e un trionfo per le forze… del nazionalismo, autoritarismo, misoginia e razzismo… un evento nauseante per la storia degli Stati Uniti e la democrazia liberale… che provoca ribrezzo e ansia»: se l’editoriale di David Remnick, direttore del settimanale «The New Yorker», vi sembra eccessivo, confrontatelo con quello di un repubblicano di destra come Max Boot, del Council on Foreign Relations.

«Trump ha trasformato il partito nel Circolo degli Stupidi… è fiero della sua ignoranza e ha letto meno libri di quanti Teddy Roosevelt ne abbia scritto, promuovendo posizioni nazionalistiche, isolazioniste e protezioniste che preoccupano… ».

Se, da sinistra e destra, questo è il voto a Trump, come mai l’America l’ha eletto martedì a sorpresa, sconvolgendo i sondaggi che assegnavano la Casa Bianca a Hillary Clinton? Per capire come la crociata del «Circolo degli Stupidi» abbia conquistato l’ultima superpotenza al mondo dovete riguardare la strategia che, ormai dal 2008, il presidente Barack Obama ha assegnato al suo partito. 

I Big Data, le rilevazioni statistiche derivate dai social media, i trend, i sondaggi, le mail degli elettori, vengono combinate da algoritmi in «files», elenchi, di persone e posizioni, cui si assegnano dei voti, Molto vicino a votarci, oppure, Mai ci voterà. 

Hillary Clinton ha usato questa tecnica, decidendo giorno per giorno che dichiarazioni fare, dove parlare e dove no, quali temi sollevare. Il risultato, assente la carismatica personalità di Barack Obama, è stata una campagna noiosa, senz’anima che non ha riscaldato la base democratica, né mobilitato i neri, gli ispanici, i giovani del socialista Sanders e Clinton è mancata, negli stati cruciali, la spinta decisiva per vincere.

Trump ha fatto l’opposto. Senza chiedere un parere ai suoi consiglieri ha seguito l’istinto – anatema per gli esperti di dati come Nate Silver, che prediligono i numeri, diffidando dal «naso» di politici e giornalisti- e ha dimostrato di saper intuire da che parte gli americani vanno. È il paradosso del 2016. Un figlio del privilegio di Queens a New York, che ha studiato in scuole private, è cresciuto nel lusso ed è stato avviato al lavoro dal padre con un milione di dollari, ha casa e ufficio nel grattacielo più di lusso, magari un po’ kitsch, della Fifth Avenue, diventa il campione dell’America povera, rurale, che non vive in città, non viaggia, non ha avuto tre mogli ma vive con la ragazza sposata al liceo e guadagna in un anno quanto Trump brucia in un week end.

Trump ha vinto perché i bianchi senza titolo di studio lo hanno seguito con entusiasmo, spaventati dalla crisi economica, delusi dalla disattenzione di Obama, spaventati dal crimine, preda di una epidemia di stupefacenti che ha fatto strage, per esempio, in New Hampshire. Dopo essersi allungata per secoli, l’età media dei maschi bianchi americani ora si accorcia, la crisi ha indotto suicidi, abuso di psicofarmaci e alcolismo. C’era prima un gradino nella vita media tra bianchi e neri, adesso è tra ricchi e poveri, delusione e paura hanno seminato rabbia.

Nelle città, nelle aree della ricerca e della nuova economia i democratici hanno continuato a crescere, Clinton ha vinto il voto popolare infatti, ma nelle aree rurali, dalla Florida all’Alaska, Trump ha dominato. Con numeri che non lasciano dubbi: Lackawanna County, Pennsylvania, Obama ha vinto con +27 punti, Clinton ne ha persi 24; tra i neri Obama toccò il 93%, Hillary è scesa all’88; e tra gli ispanici, malgrado avesse definito i messicani «stupratori», Trump ha avuto il 29%, facendo meglio di Romney del 2012, che si fermò a quota 27%. 

Dove la campagna di Trump fa terra bruciata è tra i maschi bianchi senza laurea. Un bollettino di guerra per i democratici, New Hampshire +18, Colorado +21, Arizona +22, Wisconsin +24, Michigan + 31, Georgia + 64, North Carolina +40, Florida +34... 

Davanti a questa offensiva bianca, ogni resistenza che Hillary ha frapposto con la sua coalizione di laureati (in partenza 50% dell’elettorato), donne e minoranze, s’è sbriciolata. Malgrado le accuse di molestie sessuali e i modi molto maschilisti Trump ha umiliato le speranze della prima donna Presidente anche nell’elettorato femminile bianco, vincendo 52 a 48.

Si è così realizzata, 12 anni dopo, la previsione del professore Samuel Huntington: «Le forze che stanno scuotendo il centro della cultura americana e del suo credo potrebbero generare un movimento bianco per rilanciare l’identità etnica e razziale, temi che sembravano obsoleti. Si creerebbe così un’America, che potrebbe escludere, espellere o reprimere altri gruppi razziali, etnici e culturali. L’esperienza storica contemporanea – concludeva il conservatore Huntington - suggerisce che è molto probabile che quando un gruppo etnico-razziale, già dominante si sente minacciato dall’ascesa di altri gruppi reagisca, generando un paese intollerante, con alti livelli di scontro fra le comunità».

La profezia di Huntington sembra avverarsi quando i ragazzi scendono in strada per le prime manifestazioni, Oregon, California, Washington, poca roba, falò, ma che gli eccessi di Trump potrebbero indurre a peggiori propositi.

Eppure questa miscela e la capacità comunicativa di Trump, a poche ore dal voto, erano indietro. Cosa abbiamo mancato noi che seguiamo i sondaggi? Studiare Cambridge Analytica, società diretta da Matt Oczkowski che ha sì analizzato i Big Data, ma partendo non dai numeri ma dal significato dei messaggi, la semantica, una tecnica innovativa che ha permesso a Trump di essere se stesso, non più legato al canovaccio del testo scritto che l’aveva mandato indietro in settembre. Naturalmente, online, Cambridge Analytica è già considerata «una misteriosa compagnia» dai complottisti: perché questa è l’America divisa, odio, rancore, misteri, una miscela in cui Donald Trump nuota come un pesce, anzi un presidente.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/10/esteri/speciali/presidenziali-usa-2016/donne-bianche-e-tute-blu-le-chiavi-del-successo-di-trump-w0nU5MLqYQdxaG0On7VWYL/pagina.html
6115  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MASSIMO CACCIARI Trump, Cacciari: “Per i tecnocrati la partecipazione è un... inserito:: Novembre 11, 2016, 06:10:36 pm
Trump, Cacciari: “Per i tecnocrati la partecipazione è un optional. Così trionfa il voto anti establishment”
Il filosofo ed ex sindaco di Venezia analizza le ragioni politiche e sociali dell'elezione del repubblicano alla Casa Bianca: "È in atto un movimento contro le tradizionali forme di rappresentanza, non solo di centrosinistra. Dall’immigrazione al lavoro, "la politica diventa populista solo in campagna elettorale.
E senza più la sinistra, contro la 'destra cattiva' in Italia non resta che Grillo"


Di Fabrizio d’Esposito | 10 novembre 2016

Il Sistema, con la maiuscola, ormai esplode ovunque, non solo in Europa. Il professore Massimo Cacciari, filosofo nonché ex sindaco di Venezia, per lustri ha tentato invano di dare contenuti a un riformismo vero per il centrosinistra italiano.

La sconfitta di Hillary Clinton rade al suolo un’epoca. Un quarto di secolo a discettare di Terza Via, ulivismo mondiale, sinistra liberal e altre amenità.
È in atto un movimento contro le tradizionali forme di rappresentanza, non solo di sinistra o centrosinistra. Lo stesso Trump ha vinto nonostante il Partito Repubblicano. Una riflessione analoga si può fare per la Brexit. Io uso questo termine: secessio plebis.

Secessione della plebe. Il popolo. La sinistra, appunto, com’era una volta.
Ovviamente l’effetto del tracollo è più eclatante per le forze democratiche e socialdemocratiche perché sono state soprattutto loro a non comprendere i fenomeni che ci hanno condotto a tutto questo.

L’elenco è lunghissimo.
La moltiplicazione delle ingiustizie e delle diseguaglianze; il crollo del ceto medio; lo smottamento della tradizionale base operaia; l’incapacità di superare lo schema di welfare basato sulla pressione fiscale. Oggi l’unico sindacato che conta è quello dei pensionati e a mano a mano che si pensionavano i genitori sono emersi i figli precari, i figli pagati con il voucher, i figli ancora a carico della famiglia.

La classe dirigente, a destra come a sinistra, ha pensato solo a diventare establishment.
Non è solo questo perché non era semplice prevedere cambiamenti colossali e un Churchill o un Roosevelt non nascono in ogni epoca. Anzi.

Quasi trent’anni fa ormai, in Italia furono pochissimi, tra cui lei, a capire movimenti come la Lega.
Avevi voglia a dire che a Vicenza gli operai votavano Lega oppure che la sinistra a Milano la sceglievano solo contesse e contessine di via Montenapoleone.

Adesso Bersani, per quel che vale, dice: “Basta con la retorica blairiana”.
La sinistra è stata a rimorchio delle liberalizzazioni e dei poteri forti. Ma l’immagine di una donna liberal di sinistra a Wall Street è una contraddizione in termini.

L’ex comunista Napolitano, oggi presidente emerito della Repubblica, se la prende pure con il suffragio universale.
Ecco, appunto. È la conferma che le élite liberal si sono adeguate al trend burocratico e centralistico.

La tecnocrazia al posto delle elezioni.
La partecipazione è diventata un optional.

Di qui la secessio plebis. O il populismo, se vuole.
A me non interessa come definire il fenomeno, a me preme capirlo. Tutti sono populisti in campagna elettorale. Francamente il punto non è questo. Io voglio comprendere questi fenomeni sociali, poi chi li rappresenta può avere un tono o l’altro.

Ora tocca all’Europa.
Dove gli effetti dell’immigrazione sono devastanti. Ma è necessario fare una premessa: l’Europa non sono gli Stati Uniti.

Cioè?
Dove c’è un impero la politica la fa l’impero.

Non Trump, quindi.
Esatto. In fondo basta sentire le sue prime dichiarazioni concilianti.

In Europa, invece?
La storia è matematica, non sbaglia mai. E in assenza di politiche efficienti e credibili, non banali promesse, ci sono tre tappe nel nostro continente. La prima è quella del malcontento o della secessio plebis di cui ho già parlato.

Poi?
Sparare contro i Palazzi, infine l’affermazione di una destra cattiva anti-immigrazione. Penso a Le Pen, Farage, Orban, Salvini e Meloni.

Grillo no?
No, Grillo non fa parte di questa destra cattiva. Ho scritto un articolo su chi saranno i Trump d’Europa e concludo proprio così: in Italia non resteranno che i Cinquestelle.

Un argine contro la peggiore destra.
Renzi si è fatto establishment. Per questo i suoi tentativi populistici puzzano parecchio.

Quale sarà l’effetto Trump sul referendum del 4 dicembre, se ci sarà?
Vedo due tendenze. Da un lato può galvanizzare le forze che vogliono mandare Renzi a casa.

Dall’altro?
In questo clima, gli italiani potrebbero scegliere l’opzione ritenuta più tranquilla e meno traumatica, cioè il Sì.

Di Fabrizio d’Esposito | 10 novembre 2016

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6116  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / MONICA RUBINO Effetto Trump sul referendum, i sondaggisti: "Renzi perde se... inserito:: Novembre 11, 2016, 06:07:40 pm
Effetto Trump sul referendum, i sondaggisti: "Renzi perde se non incarna il cambiamento"
"Il rischio è che venga identificato con l'establishment, come la Clinton", sostiene Alessandra Ghisleri.
Mentre per Antonio Noto e Nicola Piepoli il No è già in vantaggio

Di MONICA RUBINO
10 novembre 2016

ROMA - Il voto Usa avrà ricadute sulla campagna referendaria italiana? I sondaggi a stelle e strisce hanno davvero male interpretato il sentimento popolare degli americani? Per i sondaggisti di casa nostra, scientificamente parlando, non c’è stato alcun errore statistico negli Stati Uniti. “Non si può parlare di un flop – chiarisce Antonio Noto, direttore dell’istituto Ipr Marketing – i sondaggi americani hanno interpretato il voto popolare che ha dato ragione a Hillary Clinton e hanno sbagliato di pochissimo nel prevedere un vantaggio della candidata democratica, rimanendo entro il margine dell’errore statistico che consente uno sbaglio fino al 3,3%. Negli Usa la differenza l’hanno fatta i grandi elettori”. E in Italia? “In base ai nostri calcoli per il momento il No al referendum è leggermente in vantaggio – afferma il sondaggista -  Ma può succedere qualunque cosa all’ultimo momento. E bisogna tener presente che il 5% dei votanti italiani cambia opinione in cabina elettorale”. Insomma, nessuna paura di sbagliare: “Noi studiamo la probabilità, non abbiamo la sfera di cristallo: l’errore è considerare i sondaggi un’anticipazione della realtà. Quanto alla paura di sbagliare...beh, quella è uno stimolo positivo, è il sale del nostro lavoro”, conclude Noto.

Trump presidente: i sondaggisti falliscono, ma due studentesse avevano indovinato i risultati
Per Alessandra Ghisleri di Euromedia Research l’effetto Trump nel nostro Paese è ancora tutto da valutare: “È troppo presto per capirlo. Bisogna chiedersi invece se l’identificazione di Clinton nell’establishment non abbia piuttosto costituito per l’elettorato un fattore di allontanamento. La candidata democratica non rappresentava il vero cambiamento, ma i poteri dello Stato. Questo non è piaciuto all’America rurale, quella del Nord, il cosiddetto “vento dei laghi”, che l’ha respinta. E mi sono chiesta se a correre lo stesso rischio non sia anche il premier Matteo Renzi. Il messaggio di Trump non era politicamente corretto ma è arrivato alla gente”.

Nicola Piepoli, direttore dell’omonimo istituto di ricerche, è invece convinto che la vittoria di Trump in Usa avrà in Italia ricadute per il No: “Noi italiani ed europei dimentichiamo a volte dove viviamo: l’impero a cui apparteniamo è quello americano. E il nuovo imperatore – perché Trump non ha di se stesso il concetto di un capo democratico come Barack Obama - tutto vuole fuorché cambiamenti della nostra Costituzione. Trump non è aggregante, ma divisivo. Gli italiani non sono affatto spaventati dalla sua vittoria, ma piuttosto meravigliati: da un nostro sondaggio risulta che per il 75% hanno accolto la sua affermazione con stupore”.


© Riproduzione riservata
10 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/10/news/referendum_effett_trump_sondaggisti-151738822/?ref=HREC1-7
6117  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Il Papa a Repubblica: "Trump? Non giudico. Mi interessa ... inserito:: Novembre 11, 2016, 06:05:40 pm
Il Papa a Repubblica: "Trump? Non giudico. Mi interessa soltanto se fa soffrire i poveri"
Nell'incontro con Eugenio Scalfari il pontefice esorta i cattolici a un nuovo impegno in politica: "Non per il potere ma per abbattere muri e diseguaglianze"

Di EUGENIO SCALFARI
11 novembre 2016

SCRIVO questo articolo il giorno successivo all'imprevista vittoria elettorale di Donald Trump su Hillary Clinton. E' un grande evento avvenuto in un grande Paese democratico con procedure democratiche, il che significa che la maggioranza degli elettori ha scelto un nuovo Presidente come successore di Barack Obama. Non si poteva fare una scelta politica così diversa. Tanto più che Obama per un mese si è prodigato in tutte le principali zone degli Stati Uniti in favore del Partito democratico da lui rilanciato fin dalla sua prima campagna elettorale che lo condusse alla Casa Bianca. Trump non ha alcun carisma e alcuna competenza politica. La leadership gliel'hanno data gli elettori, mentre Obama fu lui a convincere gli americani e l'intero mondo occidentale. La differenza è dunque totale.

Quanto a noi europei e italiani la vittoria di Trump è catastrofica. Trump è l'angelo bianco, discute contro gli establishment di tutti gli Stati americani, contro tutti gli immigrati e le loro famiglie e rafforza tutti i movimenti in Europa che si oppongono ai Vip e alle classi dirigenti dei loro paesi, rafforza Grillo, rafforza la Le Pen, la Lega di Salvini e i partiti che hanno determinato il Brexit e i movimenti che da destra e da sinistra insidiano la Cancelliera Angela Merkel. In Italia dovrebbe favorire il No al referendum voluto da Renzi poiché una crisi italiana giova alla posizione internazionale che Trump sostiene. Più confusione c'è altrove e meglio è per lui che deve imporre al mondo intero una nuova strategia di conflitti e di alleanze.

In Italia questo rischio potrebbe perfino aumentare i Sì ma al tempo stesso rafforza i No che metterebbero il nostro governo in crisi con ulteriori difficoltà a risolverla. Una crisi italiana metterebbe in difficoltà anche la moneta comune poiché il nostro movimentismo a cominciare da Grillo è decisamente favorevole a tornare a una moneta locale mettendo l'Eurozona sotto attacco anche da parte dei Paesi che non vi sono mai entrati come Polonia e gli altri dell'Est della Ue.

Questa mia breve premessa era necessaria. Il nostro giornale ha già raccontato e analizzato tutti i nuovi aspetti della situazione che si è creata con la vittoria di Trump e mi pareva opportuno farne anch'io un esame ma molto breve. Il vero tema di questo articolo infatti non riguarda la vicenda americana ma un invito da me da tempo desiderato per un incontro con papa Francesco. Avevo avuto con Lui la settimana scorsa una lunga telefonata perché Sua Santità voleva discutere con me la visita che avrebbe fatto tre giorni dopo in Svezia con i rappresentanti mondiali della religione luterana e della riforma dalla quale è nata mezzo millennio fa.
Ho già riferito di questa conversazione solo per dire che ho l'onore di ricevere frequenti telefonate da papa Francesco ma non ci vediamo di persona da oltre un anno e quindi il suo invito mi ha fatto felice. Ci siamo incontrati lunedì 7 e siamo stati insieme oltre un'ora. Due giorni prima e cioè sabato 5 il Papa aveva incontrato i rappresentanti del Movimento popolare. Si tratta di un movimento che conta centinaia di migliaia di aderenti nei principali Paesi dove la presenza cristiana è molto diffusa. Il discorso di papa Francesco a questi volontari della fede occupa sei pagine dell'Osservatore Romano. Naturalmente quando due giorni dopo ha incontrato me avevo già letto il testo integrale di quel discorso. Più volte ho scritto che Francesco è un rivoluzionario ma questa volta altroché rivoluzione...

Ed ora vediamo come e perché.

***

Ci siamo abbracciati dopo tanto tempo. "La vedo bene" mi ha detto.

Anche Lei sta benissimo nonostante i continui strapazzi della sua vita.
"E' il Signore che decide".

E "sora nostra morte corporale".
"Sì, corporale".

Era la conversazione che cominciava per entrare subito nel profondo.

Santità - gli ho chiesto - cosa pensa di Donald Trump?
"Io non do giudizi sulle persone e sugli uomini politici, voglio solo capire quali sono le sofferenze che il loro modo di procedere causa ai poveri e agli esclusi".

Qual è allora in questo momento tanto agitato la sua preoccupazione principale?
"Quella dei profughi e degli immigrati. In piccola parte cristiani ma questo non cambia la situazione per quanto ci riguarda, la loro sofferenza e il loro disagio; le cause sono molte e noi facciamo il possibile per farle rimuovere. Purtroppo molte volte sono soltanto provvedimenti avversati dalle popolazioni che temono di vedersi sottrarre il lavoro e ridurre i salari. Il denaro è contro i poveri oltreché contro gli immigrati e i rifugiati, ma ci sono anche i poveri dei Paesi ricchi i quali temono l'accoglienza dei loro simili provenienti da Paesi poveri.
E' un circolo perverso e deve essere interrotto. Dobbiamo abbattere i muri che dividono: tentare di accrescere il benessere e renderlo più diffuso, ma per raggiungere questo risultato dobbiamo abbattere quei muri e costruire ponti che consentono di far diminuire le diseguaglianze e accrescono la libertà e i diritti. Maggiori diritti e maggiore libertà".

Ho chiesto a papa Francesco se le ragioni che costringono la gente ad emigrare si esauriranno prima o poi. E' difficile capire perché l'uomo, una famiglia, e intere comunità e popoli vogliono abbandonare la propria terra, i luoghi dove sono nati, il loro linguaggio.

Lei, Santità, attraverso quei ponti da costruire favorirà il riaggregarsi di quei disperati ma le diseguaglianze sono nate in Paesi ricchi. Ci sono leggi che tendono a diminuirne la portata ma non hanno molto effetto. Non avrà mai fine questo fenomeno?
"Lei ha parlato e scritto più volte su questo problema. Uno dei fenomeni che le diseguaglianze incoraggiano è il movimento di molti popoli da un paese ad un altro, da un continente ad un altro. Dopo due, tre, quattro generazioni, quei popoli si integrano e la loro diversità tende a scomparire del tutto".

Io lo chiamo un meticciato universale nel senso positivo del termine.
"Bravo, è la parola giusta. Non so se sarà universale ma sarà comunque più diffuso di oggi. Quello che noi vogliamo è la lotta contro le diseguaglianze, questo è il male maggiore che esiste nel mondo. E' il danaro che le crea ed è contro quei provvedimenti che tendono a livellare il benessere e favorire quindi l'eguaglianza".

Lei mi disse qualche tempo fa che il precetto "Ama il prossimo tuo come te stesso" doveva cambiare, dati i tempi bui che stiamo attraversando, e diventare "più di te stesso". Lei dunque vagheggia una società dominata dall'eguaglianza. Questo, come Lei sa, è il programma del socialismo marxiano e poi del comunismo. Lei pensa dunque una società del tipo marxiano?
"Più volte è stato detto e la mia risposta è sempre stata che, semmai, sono i comunisti che la pensano come i cristiani. Cristo ha parlato di una società dove i poveri, i deboli, gli esclusi, siano loro a decidere. Non i demagoghi, non i barabba, ma il popolo, i poveri, che abbiano fede nel Dio trascendente oppure no, sono loro che dobbiamo aiutare per ottenere l'eguaglianza e la libertà".

Santità. io ho sempre pensato e scritto che Lei è un rivoluzionario ed anche un profeta. Ma mi sembra di capire oggi che Lei auspica che il Movimento dei popolari e soprattutto il popolo dei poveri entrino direttamente nella politica vera e propria.
"Sì, è così. Non nel cosiddetto politichese, le beghe per il potere, l'egoismo, la demagogia, il danaro, ma la politica alta, creativa, le grandi visioni. Quello che nell'opera sua scrisse Aristotele".
Ho visto che nel suo discorso ai "movimenti popolari" di sabato scorso Lei ha citato il Ku Klux Klan come un movimento vergognoso e così pure quello di segno opposto ma analogo delle Pantere nere. Ma ha citato come ammirevole Martin Luther King. E' un profeta anche lui, che fa senso per quel che diceva nella libera America?
"Sì, l'ho citato perché lo ammiro".

Ho letto quella citazione; penso che sia opportuno ricordarlo anche a chi legge questo nostro incontro.
"Quando ti elevi a livello dell'amore, della sua grande bellezza e potere, l'unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate in quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema: odio per odio intensifica solo l'esistenza dell'odio e del male nell'universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci e io restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all'infinito. Da qualche parte qualcuno deve avere un po' di buonsenso e quella è la persona forte, capace di spezzare la catena dell'odio, la catena del male".

Ed ora torniamo alla politica e al suo desiderio che siano i poveri e gli esclusi a trasformare quella politica in una democratica volontà di realizzare gli ideali e la volontà dei movimenti popolari. Lei ha caldeggiato quell'interesse per la politica perché è Cristo che la vuole. "I ricchi dovranno passare per la cruna dell'ago". Cristo la vuole non perché è anche figlio di Dio ma soprattutto perché è figlio dell'uomo. Ma uno scontro comunque ci sarà, è in gioco il potere e il potere, Lei stesso lo ha detto, comporta guerra. Dunque i movimenti popolari dovranno sostenere una guerra, sia pure politica, senza armi e senza spargimento di sangue?
"Non ho mai pensato a guerra ed armi. Il sangue sì, può essere sparso, ma saranno eventualmente i cristiani ad essere martirizzati come sta avvenendo in quasi tutto il mondo ad opera dei fondamentalisti e terroristi dell'Isis i carnefici. Quelli sono orribili e i cristiani ne sono le vittime".

Ma lei, Santo Padre, sa bene che molti Paesi reagiscono anche con le armi per sconfiggere l'Isis. Del resto le armi le usarono anche gli ebrei contro gli arabi ma perfino tra di loro.
"Ebbene, non è questo tipo di conflitti che i movimenti popolari cristiani portano avanti. Noi cristiani siamo sempre stati martiri, eppure la nostra fede nel corso dei secoli ha conquistato gran parte del mondo. Certo ci sono state guerre sostenute dalla Chiesa contro altre religioni e ci sono state perfino guerre dentro la nostra religione. La più crudele fu la strage di San Bartolomeo e purtroppo molte altre analoghe. Ma avvenivano quando le varie religioni e la nostra, come e a volte più delle altre, anteponevano il potere temporale alla fede e alla misericordia".

Lei però, Santità, incita adesso i movimenti popolari ad entrare in politica. Chi entra in politica si scontra inevitabilmente con gli avversari. Guerra pacifica, ma comunque di conflitto si tratta e la storia ci dice che nei conflitti è in gioco la conquista del potere. Senza il potere non si vince.
"Ora lei dimentica che esiste anche l'amore. Spesso l'amore convince e quindi vince anche quanti siamo ora. I cattolici sono un miliardo e mezzo, i protestanti delle varie confessioni ottocento milioni; gli ortodossi sono trecentomila, poi ci sono le altre confessioni come anglicani, valdesi, coopti. Tutti loro compresi, i cristiani raggiungono i due miliardi e mezzo di credenti e forse più. Ci sono volute armi e guerre? No. Martiri? Sì, e molti".

E così avete conquistato il potere.
"Abbiamo diffuso la fede prendendo esempio da Gesù Cristo. Lui fu il martire dei martiri e gettò all'umanità il seme della fede. Ma io mi guardo bene dal chiedere il martirio a chi si cimenterà ad una politica orientata verso i poveri, per l'eguaglianza e la libertà. Questa politica è cosa diversa dalla fede e sono molti i poveri che non hanno fede. Hanno però bisogni urgenti e vitali e noi dobbiamo sostenerli come sosterremo tutti gli altri. Come potremo e come sapremo".

Mentre l'ascolto, sempre più mi confermo di ciò che provo per Lei: di un pontificato come il suo ce ne sono stati pochi. Del resto Lei ha parecchi avversari dentro la sua Chiesa.
"Avversari non direi. La fede ci unifica tutti. Naturalmente ciascuno di noi individui vede le stesse cose in modo diverso; il quadro oggettivamente è il medesimo ma soggettivamente è diverso. Ce lo siamo detto più volte, lei ed io".

Santità l'ho trattenuta forse troppo tempo ed ora la lascio. A quel punto ci siamo salutati con un abbraccio pieno d'affetto. Io gli ho detto di riposarsi ogni tanto e lui mi ha risposto: anche lei deve riposarsi perché un non credente come lei deve essere più lontano possibile da "morte corporale". Era il 7 novembre.

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11 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/vaticano/2016/11/11/news/intervista_del_papa_a_repubblica_abbattere_i_muri_che_dividono_bisogna_costruire_ponti_-151774646/?ref=HREA-1
6118  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / PIERA MATTEUCCI. Cinque cose da fare, la lista di Moore per frenare Trump inserito:: Novembre 11, 2016, 06:02:48 pm
Cinque cose da fare, la lista di Moore per frenare Trump
Su Facebook il regista enumera le iniziative da mettere in pratica subito per limitare i danni: basta vittimismi e sconcerto.
Bisogna restituire il Partito democratico alle persone e tornare a combattere


Di PIERA MATTEUCCI
10 novembre 2016

CINQUE COSE da fare. Non nei prossimi mesi, ma entro mezzogiorno. Michael Moore, il giorno dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa, fa una lista sulla sua pagina Facebook, iniziando dalla riorganizzazione del Partito democratico per proseguire con azioni contro quelli che avevano sbagliato totalmente le previsioni per le elezioni del presidente americano.

Il regista, che già nei mesi scorsi aveva elencato i motivi per i quali il candidato repubblicano avrebbe vinto, anche non essendo degno di sedere nello Studio ovale ("questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente", aveva scritto prima dell'estate), e che ad ottobre aveva lanciato un ultimo appello agli elettori con Michael Moore in Trumpland, ora invita i democratici a smetterla di dirsi sconvolti e annientati dall'esito delle urne e a iniziare a combattere per limitare i danni che Trump può fare. Infine ricorda che la maggior parte degli americani ha scelto Hillary: la mancata elezione è legata al sistema elettorale che non rispecchia la volontà popolare.

Cinque cose da fare, la lista di Moore per frenare Trump
Punto uno: Partito democratico al popolo. C’è bisogno di un cambiamento dopo il pesantissimo fallimento ed è necessario restituire il Partito Democratico al popolo

Punto due: annientare chi ha fatto previsioni sbagliate. Moore se la prende con i 'profeti', giornalisti ed esperti di sondaggi che nei mesi scorsi, fino alla chiusura delle urne, hanno dato per vittoriosa Clinton e che anche nei prossimi tempi inventeranno storie, invitando all'unità.

Punto tre: resti solo chi vuole combattere. C'è posto, per Moore, in questo momento, solo per chi non ha intenzione di abbassare la testa: è un invito ai membri democratici del Congresso ad opporsi contro il 'pericolo' del nuovo presidente.

Punto quattro: riprendersi dallo shock. Non serve più dirsi sconvolti per il verdetto. Se le urne hanno dato questo risultato è perché c'è stata poca attenzione a quella parte di popolazione disperata che ha dato sfogo alla rabbia. La vittoria di Trump, sostiene Moore, è colpa anche dei media che lop hanno creato come personaggio.

Punto cinque: "Hillary ha vinto il voto popolare". Un invito a tutti a ricordare che la candidata democratica "ha vinto il voto popolare". Il risultato del voto è legato a un sistema elettorale che non rispecchia la volontà dei cittadini. La maggior parte di loro avrebbe voluto Clinton alla Casa Bianca e crede in posizioni 'liberali'.

SPECIALE ELEZIONI
Le previsioni di giugno. "In vita mia non ho mai sperato così tanto di essere smentito", aveva scritto Moore a giugno, prevedendo i cinque motivi della vittoria di Donald Trump. Per il regista, per prima cosa, il candidato repubblicano avrebbe puntato a conquistare i voti di Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin. E ci è riuscito.

Al secondo punto della lista, Moore collocava l'orgoglio dell''uomo bianco', che mai avrebbe potuto tollerare, dopo otto anni di presidenza da parte di un uomo di colore, che il potere finisse addirittura nelle mani di una donna.

Sul terzo gradino c'è, poi, la sfiducia per la candidata democratica, ritenuta dal 70% degli eletteori disonesta e inaffidabile, troppo legata alla vecchia politica.

Non era da sottovalutare, diceva Moore, ed è questo il quarto motivo, il peso dei sostenitori di Sanders che, seppure pronti a mettere la croce sul nome della candidata democratica, di certo non avrebbero cercato di convincere parenti, amici e conoscenti a seguire il loro esempio.

Infine, come ultimo movente, c'è la libertà che solo l'isolamento della cabina elettorale concede: nell'assenza totale di contatto reale o virtuale con il mondo esterno, ognuno può dare sfogo alla rabbia e alla voglia di ribellione. O semplicemente fare una scelta diversa da quella che tutti si aspettano da lui, semplicemente perché può.

© Riproduzione riservata
10 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/esteri/presidenziali-usa2016/2016/11/10/news/cinque_cose_da_fare_la_lista_di_michael_moore_per_limitare_trump-151720100/?ref=HREC1-3
6119  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / LUCIA ANNUNZIATA - Nuovo Ordine Mondiale inserito:: Novembre 11, 2016, 06:01:00 pm
Nuovo Ordine Mondiale

Pubblicato: 09/11/2016 11:34 CET Aggiornato: 09/11/2016 11:34 CET

L'America di cui prende la guida il presidente Donald Trump è un paese con una mediocre crescita economica, un accresciuto livello di diseguaglianza sociale e un lento ma costante declino nella creazione di nuovi lavori. Prima di infilarsi nell'emozione dello scontro politico, prima di parlare della fine del mondo a causa dell'elezione di Trump, vorrei portare l'attenzione su alcuni dati fondamentali della economia negli Stati Uniti.

Nonostante la ripresa economica, negli Usa il reddito medio delle famiglie che pure è aumentato del 5.2 per cento tra il 2014 e il 2015, rimane sotto i livelli pre-crisi. Contemporaneamente il livello di diseguaglianza sociale è cresciuto: fra il 1980 e oggi la ricchezza detenuta dall'1 per cento della popolazione è salito dal 10 al 18 per cento.

Dato che fa meritare agli Stati Uniti il primo posto nella scala della diseguaglianza fra i paesi ad alto reddito. Che questi numeri abbiano alimentato sfiducia nella competenza e nell'onestà della classe dirigente, rabbia nei confronti delle banche, disprezzo per l'incestuoso rapporto fra politici, intellettuali, e corporation, non provoca nessuna meraviglia.

Quello che è rilevante è che questo scontento si sia diretto verso il più irregolare dei candidati in campo. Il consenso di Donald Trump è stato ottenuto soprattutto negli stati industriali, e la sua vittoria va riconosciuta come fortemente radicata in questo scontento del mondo del lavoro, del declino della classe media. Ulteriore prova di questo legame? Se si guarda alla mappa elettorale americana, fa notare in queste ore il celebre sito di analisi politica Fivethirtyeight, fondato da Nate Silver, la lista degli stati dove Trump ha vinto è perfettamente sovrapponibile con quella identificata dall'economista del Mit David Autor come la mappa degli stati dove maggiore è stato l'impatto delle importazioni cinesi - impatto stimato nella perdita di 2 milioni di lavoro tra il 1999 e il 2011.

A tutti gli effetti, dunque, la vittoria di questo imprevisto e imprevedibile candidato fuori dalle righe, e fuori dalla tradizione, va considerata la prima piattaforma politica che nasce in risposta alla crisi che dal 2007 ha cambiato il volto degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Non è irrilevante dire con chiarezza queste cose in queste prime ore della vittoria di Donald Trump. L'evento è di proporzioni storiche. Il successo del Tycoon costituisce l'esplosione del sistema dei partiti americani - quello democratico che ha perso voti della sua tradizionale base sociale, e quello repubblicano che sulla base del calcolo di interessi della sua tradizionale base ha preso le distanze da Trump.
Ed è significativo che il nuovo presidente arrivi a Washington spinto da un voto che pone al suo centro proprio quel mondo del lavoro che in questi anni dai partiti tradizionali è stato sottovalutato, messo da parte, se non addirittura abbandonato.

Quale forma prenderà questa delega politica al momento non è possibile prevedere. Farà davvero Trump un muro con il Messico? Porterà Trump l'America a un nuovo accordo con la Russia di Putin? Allenterà il suo rapporto con gli europei, con una diminuzione di ruolo degli Usa nella Nato? Davvero ripiegherà sulla sua visione autarchica della economia americana, rompendo trattati di libero scambio e ritornando a un severo protezionismo? Difficile dire ora. Una cosa infatti è un candidato, altra un presidente.

Già nel suo primo discorso di ringraziamento, ha usato i toni più morbidi della conciliazione nazionale. Una sola sicurezza esiste però fin da ora. La fuoriuscita del consenso dai partiti tradizionali è un fenomeno già in corso nei vari paesi europei, compreso l'Italia, ma il voto americano vi inserisce un segno in più: la vittoria di Trump è la prima affermazione di un movimento antisistema che porta un suo leader al vertice. È un voto che istituzionalizza nel punto più alto del sistema il rifiuto del sistema stesso.

In questo senso il voto americano legittima e tracima le stesse istanze in movimento in vari paesi - Europa e Italia incluse. Questa legittimazione sarà la singola più importante influenza che gli Stati Uniti di Trump eserciteranno sul resto del mondo negli anni a venire.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/nuovo-ordine-mondiale_b_12878384.html?utm_hp_ref=italy
6120  Forum Pubblico / SCRIPTORIUM 2017 - (SUI IURIS). / L’incoerenza economica delle ricette di Donald Trump. - di Francesco Daveri inserito:: Novembre 11, 2016, 05:55:22 pm
L’incoerenza economica delle ricette di Donald Trump

11.11.16
Francesco Daveri

L’impegno a proteggere i perdenti della globalizzazione con la disdetta del Nafta e aliquote fiscali più basse ha portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ma, al contrario di quanto promesso dal tycoon, l’aumento del deficit pubblico farà salire il disavanzo commerciale Usa.

Il malessere americano che ha fatto vincere Trump

Donald Trump eredita un paese che cresce stabilmente intorno al 2 per cento annuo e con un tasso di disoccupazione sceso di poco al di sotto del 5 per cento della forza lavoro. È un paese molto diverso da quello che aveva trovato il suo predecessore, Barack Obama, alla fine del 2008. Allora, fallita Lehman Brothers, il Dow Jones era sceso sotto i 9000 punti (dai 13mila di fine 2007) e l’economia era in recessione da quattro trimestri, il che portò la disoccupazione sopra al 9 per cento nei primi mesi del 2009. I numeri che Obama lascia in eredità a Trump sono in tutto simili alle medie secolari che hanno contrassegnato da decenni il buon funzionamento dell’economia americana che, nonostante tutto, è rimasta il motore trainante dello sviluppo mondiale.

Eppure, se Trump ha vinto, è perché in America c’è malessere. Se non ci fosse, un candidato come Bernie Sanders sarebbe stato etichettato come un socialista rétro e non sarebbe certo arrivato a contendere la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti a Hillary Clinton nelle primarie del partito democratico. Se in America non ci fosse malessere, il partito repubblicano non avrebbe indicato come candidato alla Casa Bianca un estremista no-global (anche pieno di scheletri nell’armadio) lontano dalla tradizione liberista del Grand Old Party come Donald Trump.

Sanders e Trump non escono dal nulla ma rappresentano – in modi molto diversi – le esigenze degli insoddisfatti dell’America degli ultimi anni. Dei lavoratori che hanno subito le conseguenze delle delocalizzazioni manifatturiere in Messico e in Cina. Degli abitanti delle zone periferiche delle grandi città che vedono nell’afflusso degli immigrati una minaccia e non la tradizionale fonte di eterno ringiovanimento della società americana. Delle tante famiglie americane indebitate, che tra l’altro hanno visto i loro bilanci minacciati dall’aumento del costo dell’assicurazione sanitaria e delle rette universitarie dei figli.

Sostegno fiscale alla classe media con maggiore disavanzo con l’estero

E’ a questi elettori che Donald Trump ha saputo parlare, anche con il suo programma economico. Mentre la signora Clinton prometteva più eguaglianza di opportunità con un “sistema fiscale equo” (con una sovrattassa di 4 punti per i redditi superiori a 5 milioni di dollari) e “liberando l’iscrizione universitaria dai debiti”, va riconosciuto che Trump è stato più concreto nella sua promessa di aiuto alla classe media. Agli americani con un reddito individuale tra i 29 mila e i 37 mila dollari Trump ha promesso di ridurre le aliquote dal 15 al 12 per cento. E il 12 per cento toccherebbe anche a quelli con redditi compresi tra i 37 e i 54 mila dollari che oggi pagano una aliquota marginale del 25 per cento. Sui dati fiscali del 2013 si tratta di circa 30 milioni di persone. Ma anche ai 3 milioni di persone con redditi compresi tra i 91 e i 154 mila dollari Trump ha promesso un taglio di aliquota di tre punti: dal 28 per cento di oggi al 25 per cento. Non sono noccioline. La prospettiva di tanto estese riduzioni di imposta, associata alla promessa di rinegoziare accordi commerciali che – nella retorica di Trump – hanno cancellato i posti di lavoro manifatturieri della Rust Belt, è stato probabilmente vista come una promessa di benessere più concreta rispetto a quella implicita nei piani della signora Clinton.

C’è però un dettaglio su cui il nuovo presidente degli Usa ha sorvolato. Tra le sue promesse ha incluso quella di riequilibrare i conti con l’estero, oggi negativi per 800 miliardi di dollari (è il saldo della bilancia commerciale dello scambio di beni e servizi). Se però il nuovo presidente attuerà davvero il suo piano che prevede una politica fiscale molto espansiva finanziata con emissione di debito pubblico, il risultato più probabile sarà quello di aumentare, non di ridurre, il disavanzo commerciale degli Stati Uniti. L’aumento della domanda interna farà salire le importazioni, chissà magari anche dal Messico. Il probabile apprezzamento del dollaro che potrebbe conseguire dall’aumento dei tassi di interesse necessario a finanziare l’accresciuto debito contribuirà poi ad ampliare il deficit commerciale, rendendo meno competitivi i prodotti americani rispetto  a quelli del resto del mondo. E’ dunque tutt’altro che scontato che le politiche di Trump – anche se attuate come in campagna elettorale – riescano davvero nell’intento di riportare il manifatturiero a Detroit. Non passerà molto tempo prima che le promesse del tycoon oggi vittorioso siano sottoposte al test dei fatti.


In questo articolo si parla di: Donald Trump, elezioni americane 2016
Bio dell'autore
Francesco Daveri
Daveri Francesco Daveri è professore ordinario di Politica economica presso l’Università Cattolica (sede di Piacenza), dove insegna i corsi di Scenari Macroeconomici, International Finance, Economia Internazionale ed Economia Monetaria. La sua ricerca riguarda la relazione tra le riforme economiche, l’adozione delle nuove tecnologie e l’andamento della produttività aziendale e settoriale in Italia, Europa e Stati Uniti. Su questi temi ha svolto anche attività di consulenza per la Banca Mondiale, la Commissione Europea e il Ministero dell’Economia. Fa parte del Consiglio di reggenza della Banca d’Italia (sede di Bologna) e del Comitato di Sostenibilità di Eurizon Capital. Scrive articoli di commento sul Corriere della Sera. Segui @fdaveri su Twitter oppure su Facebook
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Da - http://www.lavoce.info/archives/43823/lincoerenza-economica-delle-ricette-di-donald-trump/
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