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6091  Forum Pubblico / FAMIGLIA, SOCIETA', COSTUME e MALCOSTUME. / Medici, sanità pubblica in sciopero il 28 novembre inserito:: Novembre 18, 2016, 09:42:20 am
Medici, sanità pubblica in sciopero il 28 novembre
La richiesta: "Si approvino nostre richieste di emendamento a Legge Stabilità"

17 novembre 2016

ROMA - Medici, sanitari e veterinari della Sanità pubblica hanno proclamato una giornata di sciopero per il 28 novembre. "Lo sciopero ci sarà a meno che non saranno accolte le nostre proposte su contratti e assunzioni nel maxiemendamento alla Legge di Stabilità", si legge nel comunicato che annuncia lo stop dei camici bianchi.

Le condizioni di lavoro. Intanto oggi i camici bianchi che aderiscono a Anaao, Cimo, Aaroi, Fp Cgil Medici, Cisl Medici, Anpo e Uil Fp Medici hanno organizzato un sit-in davanti a Montecitorio. "Le condizioni di lavoro si sono aggravate in questi anni - ha detto il presidente del Sindacato dei medici Cimo, Riccardo Cassi -. Noi ieri abbiamo presentato al ministro della Salute una serie di richieste, tendenti a migliorare le condizioni del lavoro dei medici, e Lorenzin ha detto che se ne sarebbe fatta carico per portarle al governo. A noi non resta che attendere per vedere se tutto ciò si concretizza nel maxiemendamento alla legge di bilancio che il governo presenterà".

Le risorse. I sindacati medici, in particolare, vogliono ristabilire le risorse "non quelle aggiuntive - sottolinea ancora Cassi - ma quelle che c'erano e che ci sono state tolte, tendenti a gratificare il merito e la competenza del medico, a incentivarne la produttività, anche ai fini di abbattere le liste di attesa, e a consentire il welfare anche nelle aziende più pubbliche".

© Riproduzione riservata
17 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/salute/medicina/2016/11/17/news/medici_sanita_pubblica_in_sciopero_il_28_novembre-152190632/?ref=HREC1-8
6092  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Ho proposto di cambiare il nome alla mia "Comunità mai nata in FB ... inserito:: Novembre 17, 2016, 11:01:05 pm
In FB ho proposto di cambiare il nome alla mia ... Comunità mai nata.

Da Comunità de iSemplici a: - Rappresentazione iSemplici -.

In cui si parla anche di "Sistema Rappresentazionale": aspetti evolutivi e psicopatologici.

Staremo a vedere che succede.

ciaooo
6093  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Massimo GRAMELLINI. L’ignoranza al potere inserito:: Novembre 16, 2016, 11:28:30 pm

L’ignoranza al potere

Pubblicato il 11/11/2016
Ultima modifica il 11/11/2016 alle ore 07:27
Massimo Gramellini

L’ignoranza è una brutta bestia, diceva mio nonno tranviere, che si spezzava la schiena con gli straordinari per consentire al figlio di prendere il diploma e al nipote, un giorno, di imbroccare qualche congiuntivo sulle pagine di un giornale. Oggi mio nonno, come tanti elettori di Trump, non si vergognerebbe affatto di avere studiato poco. Anzi, trasformerebbe il suo complesso di inferiorità in una forma di orgoglio, non considerando più la cultura uno strumento di crescita economica e sociale, ma il segnale distintivo di una camarilla arrogante di privilegiati. E userebbe l’unica arma a sua disposizione, il voto, per fargliela pagare, «a quei signori». Già, ma per fargli pagare cosa? Semplice: di avere raggiunto un traguardo che alla sua famiglia è precluso. 

L’ignorante detesta chi ha studiato perché detesta una società che non consente più a suo figlio di farlo, obbligandolo a contrarre debiti spaventosi per strappare un «foglio di carta» che nella maggiore parte dei casi non garantisce il miglioramento delle sue condizioni, ma si traduce in una mortificazione ulteriore di stipendi bassi e lavori precari. Ogni conservatore diventa rivoluzionario solo quando non ha più nulla da perdere. Allora viene invaso dal rancore e va in cerca di un capro espiatorio e di un vendicatore. Quasi sempre sbagliando mira. Perché è stata la finanza, non la politica e tantomeno la cultura, a costruire questo mondo di sperequazioni odiose. E non sarà un dilettante allo sbaraglio a trovare la formula magica per restituire agli esclusi il progresso perduto.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/11/cultura/opinioni/buongiorno/lignoranza-al-potere-E6t2tKd0QYaPlbCeRrExrN/pagina.html
6094  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Gianni RIOTTA - Tra gli ex operai di Detroit che hanno tradito i Democratici inserito:: Novembre 16, 2016, 11:26:46 pm
Tra gli ex operai di Detroit che hanno tradito i Democratici
L’ex cuore industriale d’America si è affidato al tycoon repubblicano che prometteva di ridare lavoro e futuro alle tute blu ormai disoccupate
Nel 2013 la città di Detroit ha dichiarato fallimento. Molti quartieri sono rimasti deserti: in tre anni ha perso decine di migliaia di abitanti

Pubblicato il 14/11/2016
Ultima modifica il 14/11/2016 alle ore 07:07
Gianni Riotta - Detroit

I coloni francesi scacciarono gli indiani Irochesi da antiche valli, fiumi e laghi, avidi di pellicce e territorio, imponendo la pronuncia allo stato del Michigan, «sh» dolce. La metropoli di Detroit la battezzarono dal fiume Detroit, «le détroit du lac Érié» lo stretto sul lago Erie, e se l’inflessione parigina del XVII secolo fosse arrivata fino a noi, Eminem e gli altri rapper bianchi e neri, lamenterebbero rauchi il declino urbano di «Detruà». Troppo chic per gli emigranti polacchi, italiani, ungheresi, belgi, greci, ebrei, fino agli Yugos e Albos, rivali jugoslavi e albanesi arrivati per ultimi, in cerca di un posto di lavoro alle catena di montaggio dell’auto.

Eminem canta dunque di «Detroit contro tutti… Negli ultimi tempi sembra che sia io contro tutto il mondo… ma anche se cerco di scappare dalla povertà della strada voglio restare qui… portatemi via con gli amici, alla concessionaria Mercedes». Eminem lavava i piatti da Gilbert’s Lodge, vedeva nel viale 8 Mile Road il confine tra borghesia e «white trash», la spazzatura bianca, cui apparteneva, le famiglie travolte dalla crisi della grande industria. Questa è Macomb County, e qui Hillary ha perso le elezioni contro Donald Trump. Non cercate lontano, cercate qui, Michigan, pronunciato in americano dai tanti, come Eminem, che alla prima superiore, bocciati tre volte, lasciano la scuola per sempre.

A Macomb County, l’8 novembre 1960, il cattolico John Kennedy ebbe la migliore percentuale in tutta l’America contro il repubblicano Nixon, 63% a 37. Qui Obama vinse contro McCain e Romney e qui, la campagna di Hillary era certa di vincere, nessuno spot in tv, nessun comizio. Invece il 6 novembre, nello stupore dei suoi consiglieri che giudicavano il Michigan una causa persa, Donald Trump appare a sorpresa al Teatro Freedom Hall di Sterling Heights. A rivederlo da fuori adesso, vuoto, con il prato stento, qualche cartaccia in volo, un cestino colmo di spazzatura, sembra il monumento alla delusione democratica. Joey, uno dei guardiani, è anziano, vota democratico, «Stavo nel sindacato con mio padre, United Auto Worker. Facemmo lo sciopero per il “30 and out”, 30 anni alla catena di montaggio e in pensione, vincemmo e che bei soldi ragazzi, mutua, scuola, assunzione per i figli.
Venivano da tutto il mondo, noi neri dal Sud. Al comizio di Trump vendevamo chili, la birra era vietata, ma girava lo stesso. Ha gridato che non era finita, che le vinceva lui le elezioni. Non ci credevo, ma ha avuto ragione. In sala ho visto tanti miei vecchi compagni, e i loro figli disoccupati».

Quel che Joey osserva, esterrefatto, al comizio di Sterling Heights, allarmava già da tempo Debbie Dingell, deputata del XII distretto dove lavora la Ford-Mazda ma la GM ha chiuso una fabbrica e la città di Allen Park è in bancarotta. La Dingell si attacca al telefono, prova con Hillary, chiama anche Bill Clinton. Ha 28 anni meno del marito, John Dingell, che eletto nel XII distretto nel 1955 è recordman della Camera. Lui ricorda la Detroit che dai 426.000 abitanti del 1900 esplode a 2.200.000 in trenta anni. Lei è cresciuta nella Detroit che da 1.800.000 cittadini del 1950 crolla a 713.000 del 2010. Il Michigan ha perso tra il 2002 e il 2009 631.000 posti di lavoro, poco meno dell’intera Detroit. La Dingell prega la campagna di Washington di mandare Hillary, Bill, Obama, la Michelle, «Siamo alle corde, gli operai non ci votano dicevo. Non mi rispondevano. Alla fine han mandato Bill, siamo andati in giro a fare compere per incontrare gli elettori, troppo poco e troppo tardi!».

Tanti tra quei 631.000 licenziati corrono da Trump, che accusa Hillary di essere il passato, e promette il ritorno dei tempi del «30 and out», salario, mutua, pensione. 56 anni dopo il record di Kennedy, Trump espugna Macomb County, 54% a 42 contro la Clinton. 48.348 voti che gli consegnano l’intero Michigan, per sole 13.107 schede di scarto.

Non c’è stato nessun boom di Trump alle urne martedì scorso, Hillary è la seconda candidata più votata della storia, e solo 33.000 voti, in roulette fra Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, hanno dato la Casa Bianca all’ex re dei casino di Atlantic City. Hillary ha perso dove Eminem lavava i piatti perché ha cercato la «valanga», vincere ovunque, anziché consolidare con prudenza i 263 punti elettorali che a lungo ha avuto in tasca.

Ora tutti andiamo in pellegrinaggio dall’esperto professor Timothy Bledsoe, dell’Università Wayne State: «Ho il sospetto che il caso Macomb sia vero in tutto il Midwest. È la rivolta della classe operaia bianca, base della coalizione democratica da generazioni… al comizio di Sterling Heights Trump ha spiegato che la Gran Bretagna torna ricca con Brexit e l’America con lui, che le tute blu sono vittime della globalizzazione e lui rovescerà il sistema per loro».

 Eppure, nella rotta democratica, proprio in Michigan, a Detroit, il professor Bledsoe vede la base della riscossa democratica 2020: primi nel voto popolare, con 48 stati a 2 nel voto under 25, i democratici «devono guardare a contee come Oakland e Wayne, dove han vinto col 51% e il 66%. Macomb e le tute blu sono il passato, all’ultima carica pur vincente.

A Oakland e Wayne c’è il futuro dell’America, donne, laureati, tecnici, cultura cosmopolita».
Se Bledsoe ha ragione, la campagna elettorale 2020 comincia dunque a 12 Mile Road di Royal Oak, dove ammirate la massiccia torre e la basilica cattolica di Little Flower. Qui, negli Anni Trenta, dalla sua radio, il popolarissimo reverendo Coughlin avvelenava gli animi con una propaganda che anticipava i temi peggiori di Trump, «Non barattiamo la nostra libertà nazionale per accordi con gli stranieri che ci imbrogliano. Chiudiamoci al mondo e pensiamo alla ricchezza americana!». Padre Coughlin finì antisemita e filofascista, l’America di Roosevelt prevalse. Oggi sulla basilica del Little Flower sventolano i manifesti col sorriso di papa Francesco, a Royal Oak e alla vicina Ferndale vivono gay, single, tecnici esperti che lavorano alla fabbrica di carri armati M1, al sofisticato Tech Center della GM, disegnato dal maestro dell’architettura Eero Saarinen. La rabbia di padre Coughlin fu spenta dalle masse ottimiste del New Deal di Roosevelt e l’America si salvò da Depressione e dittature che travolsero l’Europa. Due Americhe, i delusi di Macomb e gli ottimisti digitali di Oakland, si affronteranno da qui al 2020. Ma primi diminuiscono ogni giorno, gli altri si moltiplicano, a patto naturalmente che i democratici trovino un candidato capace di unirli. E qui, vale la rima di Eminem, sono davvero per ora «soli contro tutti». 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/14/esteri/speciali/presidenziali-usa-2016/tra-gli-ex-operai-di-detroit-che-hanno-tradito-i-democratici-3WmIFFbGMiPOZECbf3zYNK/pagina.html
6095  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / FRANCESCA SCHIANCHI. Cuperlo: “Renzi ha iniziato il rodeo ma ora lavoriamo ... inserito:: Novembre 16, 2016, 11:24:56 pm
Cuperlo: “Renzi ha iniziato il rodeo ma ora lavoriamo per ridurre le distanze”
“I miei dubbi sono più utili delle certezze di D’Alema”

Pubblicato il 14/11/2016
Ultima modifica il 14/11/2016 alle ore 07:46
Francesca Schianchi
Roma

In «un estremo tentativo di ridurre le distanze», poco più di una settimana fa Gianni Cuperlo ha firmato il documento che impegna il Pd a cambiare la legge elettorale. Unico della minoranza a farlo e quindi a votare sì al referendum, oggi chiede uno sforzo di unità prima di tutti al segretario-premier Matteo Renzi: sbaglia, ammonisce, a credere «che l’autorevolezza del leader passi dalla divisione del suo Paese e del suo campo».

In questi giorni ha ricevuto più insulti o incoraggiamenti? 
«Ho sofferto quella firma al documento. Sapevo che persone che stimo l’avrebbero criticata o avversata. Ho ricevuto parecchi sostegni, ma ti spiace l’incomprensione con chi ha condiviso le tue battaglie e senti vicino. Ho pensato al giorno dopo e al dovere di un estremo tentativo per ridurre le distanze almeno sulla legge elettorale e l’elezione dei senatori».

D’Alema dice, riferito a lei, che «bisognerebbe stabilire limiti all’ingenuità» ... 
«Ah, si riferiva a me? Ingenuamente ho pensato fosse un’autocritica. Comunque continuo a pensare che i dubbi aiutano più delle certezze». 

I rapporti nel Pd sono tesi, «un rodeo», ha detto lei: cosa si deve fare per recuperare unità? 
«Il punto è che quel rodeo lo ha iniziato il premier. L’unità del Pd e della sinistra non è un totem o un atto di fede: conta su cosa e come la costruisci. Ma serve la volontà di raggiungerla quell’unità. Io non ho mai pensato che cambiare l’Italicum o eleggere direttamente i senatori fosse una concessione alle minoranze ma la via per istituzioni un po’ più solide. E anche il modo per ridare ossigeno a un centrosinistra più largo di noi. Perché questo dovrebbe esser chiaro a tutti: il Pd da solo non vince, ma senza il Pd a non vincere è la sinistra».

 

Quindi chi sbaglia è Renzi? 
«L’errore più grande è nell’idea che l’autorevolezza del leader passi dalla divisione del suo Paese e del suo campo. Passare dalla rottamazione spinta alla divisione del mondo tra innovatori e conservatori, amici e nemici, prima che una caricatura è un abbaglio». 

Bersani che chiede in una lettera a Repubblica una «riflessione collettiva» tenta il dialogo o certifica la distanza? 
«Ho apprezzato il tono. Come Bersani penso che il problema sia un’onda potente che da destra si abbatte sulle nostre democrazie. Dobbiamo vederla e attrezzare una nuova sinistra a reagire. La premessa per farlo è anche nel cogliere la quota di verità nelle ragioni dell’altro».

Si può stare in un partito senza fidarsi del segretario? 
«In un partito non si sta perché ci si fida ma perché si è convinti che quella forza sia necessaria per affrontare i problemi».

C’è il rischio di una scissione? 
«Tempo fa ho detto che il Pd per me non era un destino ma una scelta da rinnovare e far crescere. Se alzo lo sguardo sul mondo temo il fallimento di questo progetto perché ricadrebbe su tutto il centrosinistra. Mi batto per evitarlo, ma è una sfida che non si vince in pochi. E la premessa è un Pd ancorato a sinistra».

Il referendum è legato alle sorti del governo o no? 
«E’ stata una miopia del governo caricarsi una funzione che doveva essere del Parlamento. Con altri lo abbiamo gridato con proposte nel merito. Renzi ha detto che in caso di sconfitta lascerà Palazzo Chigi: direi che farlo è nelle sue corde».

Se vince il sì, come dice D’Alema, nasce il partito di Renzi? 
«Mi sono sempre battuto contro l’idea di un partito piegato al volere di un capo. E il tema del troppo potere in una figura sola rimane. Al congresso sarà in campo un’alternativa a Renzi e a quella sua impostazione che mi ha portato a non votare jobs act, buona scuola e fiducia sull’Italicum. La coerenza non si chiede, si pratica».

Come giudica l’iniziativa della lettera spedita agli italiani all’estero? 
«Se è vero che si tratta di una iniziativa del Pd e che altri in passato hanno fatto lo stesso, non vedo il problema. Se si fossero violate delle regole sarebbe giusto renderne conto». 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/14/italia/politica/renzi-ha-iniziato-il-rodeo-ma-ora-lavoriamo-per-ridurre-le-distanze-FnPoOOxn4bgX8na4Rf6L1O/pagina.html
6096  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / ALBERTO FLORES D'ARCAIS. Sanders: "Ora pensiamo ai giovani disillusi da queste e inserito:: Novembre 16, 2016, 11:22:30 pm
Sanders: "Ora pensiamo ai giovani disillusi da queste elezioni"
L'avversario democratico di Hillary Clinton alla presentazione del suo libro "La nostra rivoluzione": "C'è un sacco di gente in questo paese, compresi molti militanti democratici, che non hanno apprezzato - e non apprezzano - il tipo di sofferenza e di pena che colpiscono milioni di lavoratori in tutti gli Stati Uniti"

Di ALBERTO FLORES D'ARCAIS
15 novembre 2016

NEW YORK - C'era qualcuno già in fila un paio di ore prima, quando l'evento ha preso il via un serpentone di un paio di centinaio di persone si era formato lungo la Fifth Avenue e le strade adiacenti. L'evento era Bernie Sanders, o meglio la presentazione dell'ultimo libro (da oggi in tutte le librerie d'America) del grande rivale di Hillary Clinton alle primarie democratiche, beniamino dei giovani del partito e di molti altri che dal partito si sono allontanati in avversione alla ex First Lady.
 
"Sono qui solo per firmare qualche copia del mio libro", esordisce Bernie quando fa il suo ingresso - scortato da un paio di assistenti e quattro poliziotti - nella sala di Barnes&Nobles dedicata alla vendita di dischi e video. Poi, nonostante le pressioni del suo staff ("non sono previste dichiarazioni, zero domande, solo una photo-opportunity") qualcosa la dice. "Quel che capisco da questo voto e che c'è un sacco di gente in questo paese, compresi molti militanti democratici, che non hanno apprezzato - e non apprezzano - il tipo di sofferenza e di pena che colpiscono milioni di lavoratori in tutti gli Stati Uniti". Un'accusa, per quanto velata, che ha come destinataria Hillary Clinton e la sua campagna incapace di capire come questa sofferenza si stesse tramutando (anche nel fedele elettorato democratico di Stati come Wisconsin, Pennsylvania e Michigan) nell'appoggio e nel voto a Donald Trump.
 
Usa 2016, Flores d'Arcais: "La rivoluzione di Sanders riparte dai giovani"
  Ricorda le cose che diceva in campagna elettorale, che il popolo americano "ha il diritto a ogni tipo di istruzione" indipendentemente dal reddito familiare, che c'è "qualcosa di sbagliato" se gli Stati Uniti sono l'unico paese sulla faccia della terra a non garantire che l'assistenza sanitaria "sia un diritto fondamentale per tutti". E po che "forse dovremmo trovare un accordo sul cambiamento climatico visto che la comunità scientifica ci dice che il futuro del nostro paese è veramente a rischio".

Usa 2016, tra i sostenitori di Bernie Sanders: "Pronti a portare avanti la sua rivoluzione"
   Contro chi ha portato i democratici al disastro è ancora più netto quando, prima di salutare e chiudersi nella saletta riservata agli autografi del libro (Our Revolution, la nostra rivoluzione, il titolo) aggiunge un "penso che un sacco di gente che ha votato per Barack Obama nel 2008, che ha rivotato per lui nel 2012 e che stima l'attuale presidente" questa volta ha cambiato idea. Hanno detto: "Lo sapete che c'è? Il mio voto va a Trump perché lui ha ben chiare quali siano le sofferenze delle nostre famiglie". Infine ha concluso con uno sguardo rivolto al futuro: "Il nostro lavoro adesso è quello di riformare in modo fondamentale il partito democratico, con il lavoro di tutti a cominciare dai giovani che sono i più disillusi da quanto accaduto".

© Riproduzione riservata
15 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/15/news/sanders_ora_pensiamo_ai_giovani_disillusi_da_queste_elezioni_-152026480/?ref=HREC1-3
6097  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Fabrizio Rondolino I noisti vogliono il proporzionale perché preferiscono l’inc inserito:: Novembre 16, 2016, 11:15:25 pm
Opinioni

Fabrizio Rondolino   
@frondolino
· 15 novembre 2016

I noisti vogliono il proporzionale perché preferiscono l’inciucio
Il Noista   
Il populismo si sconfigge con la buona politica, cioè con l’alternanza di governo

Alla variegata e variopinta armata che sostiene il No al referendum di dicembre si rimprovera, fra le altre cose, di non proporre alcuna alternativa praticabile – o, il che è lo stesso, di proporne troppe e tutte diverse tra loro – e, soprattutto, di avere in comune un unico obiettivo, che peraltro non è oggetto di voto: fare la pelle a Renzi.

In realtà, c’è un altro elemento fondamentale che unifica il fronte del No, e che è destinato a pesare nel futuro politico del Paese persino in caso di vittoria del Sì: il ritorno al proporzionale.

Proporzionale “alla spagnola” è la proposta di riforma elettorale depositata dal Movimento 5 stelle; proporzionali sono le proposte che vengono dalla minoranza del Pd e dalla sinistra radicale; per il proporzionale si è schierato – a sorpresa ma non troppo – addirittura Silvio Berlusconi, il cui merito storico, da tutti riconosciuto, è l’“invenzione” del bipolarismo maggioritario.

Il nesso riforma-Italicum può dunque considerarsi valido in entrambe le direzioni, ma in un significato più profondo, più strategico: l’approvazione della riforma istituzionale consolida un sistema politico fondato sull’alternanza, cioè sulla possibilità di avere governi e maggioranze politiche omogenee scelte direttamente dagli elettori (il che naturalmente non significa che l’Italicum non possa essere cambiato).

Al contrario, la conservazione dell’assetto esistente porta con sé la restaurazione di un sistema politico in cui le scelte si spostano dagli elettori alle segreterie dei partiti. O meglio: agli elettori è riservata la rappresentanza, maggiore con un sistema proporzionale, ma soltanto ai partiti spetta la governabilità.

Il vero argomento a favore del proporzionale, come ha candidamente e sinceramente spiegato Eugenio Scalfari domenica scorsa, è impedire che il M5s vinca le prossime elezioni: poiché in Italia, come nel resto del mondo, ci sono i barbari alle porte, gli altri che barbari non sono – tutti gli altri – devono fare fronte comune.

E’ accaduto in Germania e, seppur molto più faticosamente, in Spagna, e potrebbe accadere l’anno prossimo in Francia: perché non anche in Italia?

Ma se davvero così stanno le cose, a me pare che ci sia un motivo in più per votare Sì.

La rappresentanza proporzionale e il governo di coalizione non sono in sé un male, ci mancherebbe: ma rischiano di diventarlo quando vengono piegati alla necessità di salvarsi dai barbari. L’antipolitica – qualunque cosa significhi questo termine – non si sconfigge alzando un muro fortificato a protezione dell’establishment di sinistra e di destra: si sconfigge con la buona politica. E l’ossigeno della buona politica è l’alternanza, cioè la possibilità di avere alla guide del Paese un governo scelto dagli elettori, politicamente omogeneo, responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte.

Altro che “deriva autoritaria”: l’alternativa è fra una democrazia che funziona e un sistema politico bloccato; fra il potere degli elettori e quello dei partiti o dei loro simulacri; fra l’apertura e la chiusura: in una parola, fra la responsabilità e l’inciucio.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/i-noisti-vogliono-il-proporzionale-perche-preferiscono-linciucio/
6098  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / IGNAZIO VISCO. Perché con la cultura si può mangiare inserito:: Novembre 16, 2016, 11:13:57 pm
Perché con la cultura si può mangiare
Così il governatore di Bankitalia rovescia un luogo comune

Di IGNAZIO VISCO
16 novembre 2016

POCHI anni fa in un saggio di ampia portata (Mass Flourishing – How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change, Princeton University Press, 2013), già divenuto oggetto di un approfondito dibattito quando non di ispirazione, Edmund Phelps, premio Nobel per l'economia nel 2006, affrontava un tema cruciale: da che dipende il rallentamento delle economie che si osserva ormai da più di un decennio, e verso dove siamo indirizzati? Domande, queste, che si intrecciano con la discussione, spostatasi ormai dall'accademia alle stanze della politica, su che fare per contrastare la "stagnazione secolare" che discende secondo alcuni dalle crescenti difficoltà di trasformare in investimenti il risparmio che si genera nell'economia, e secondo altri, non necessariamente in alternativa, dalla tendenziale minor crescita della produttività dopo decenni di straordinario sviluppo tecnologico e organizzativo.

Al di là di spiegazioni contingenti – crisi finanziaria globale, difficoltà dei paesi emergenti, invecchiamento della popolazione – e in contrasto forse con le richieste di accrescere con forza lo stimolo della domanda pubblica nell'economia, Phelps concludeva con alcune notevoli affermazioni: il progresso conseguito negli ultimi due secoli da masse crescenti di persone è il risultato di un diffuso e crescente dinamismo di fondo derivato dall'affermarsi, dal "fiorire", di valori quali il bisogno di creare, la propensione a esplorare, la ricerca di lavori più appaganti, il desiderio di affrontare nuove sfide e di avere successo; questo dinamismo si è andato affievolendo insieme con l’affermarsi di un "corporativismo" volto nel migliore dei casi, quando non a difendere posizioni di rendita, a sostenere gli "esclusi" e i più deboli con strumenti di ridistribuzione o di contrasto alla povertà destinati a perpetuare lo status quo, anziché a creare nuove occasioni di sviluppo; questa tendenza, ormai visibile secondo Phelps negli Stati Uniti, è da tempo prevalente nell'Europa continentale, in particolare in Italia, con una crescita dell'economia e una creazione di nuovi posti di lavoro dipendenti non da innovazioni interne all'area ma dal dinamismo esterno, anch'esso, come detto, ora in rallentamento; occorre quindi ristabilire a tutti i livelli – di legislazione e di governo, di regolazione di mercati e intermediari, di conduzione delle imprese – l'apertura all’innovazione, la disponibilità a guardare oltre il breve termine, l'affermarsi, diremmo, di una "classe dirigente" consapevole e preparata, aperta a coltivare risorse quali "creatività, curiosità e vitalità", a ricercare l'equità con l'inclusione più che con la ridistribuzione.

Insomma, un "vaste programme", con fondamentali riferimenti culturali: dalla vitalità di un Omero o di un Cellini al sogno e all'immaginazione del Don Quixote di Miguel Cervantes e dell’Hamlet e del King Lear di Shakespeare; dalle "passioni" e dall'enfasi sulla crescita della conoscenza nella società di David Hume all' "Il faut cultiver notre jardin" nel Candide di Voltaire; dal "life, liberty and pursuit of happiness" di Thomas Jefferson all'importanza del "divenire" sull'"essere" di intellettuali pur così diversi come Montaigne, Ibsen, Kierkegaard, Nietzsche o Henri Bergson, fino al modernismo di un Wilde, un Verdi e un Mascagni, e molto altro.

Ora, possiamo essere più o meno d’accordo con le proposte di Phelps, sottolinearne limiti e omissioni dell'analisi, enfatizzare con lui come il ritorno alla crescita dell'innovazione in un ambito nazionale richieda l'affermarsi di una "cultura volta a proteggere e stimolare l'individualità, l'immaginazione, la comprensione e l'espressione della propria personalità" o sottolineare, per citare la recensione di Bob Shiller al suo libro, che "riconoscere la necessità di sperimentare nuove forme di organizzazione economica non significa necessariamente abbandonare l'equità e la compassione". Ma è certo che, soprattutto nel nostro paese, non si può non prendere atto che viviamo in un’epoca di profondi cambiamenti; gli effetti della globalizzazione, gli andamenti demografici, gli avanzamenti tecnologici sono di una tale portata che, se è impossibile "prevedere il futuro", dobbiamo tutti comprendere che è prioritario rafforzare, da un lato, la capacità dell'economia di stimolare l'innovazione e incorporare il progresso tecnologico, oggi motori fondamentali di crescita e benessere, dall'altro, fare in modo che tutti possano parteciparvi e goderne i frutti.

A questo fine, partiamo da alcuni "fatti", pur consapevoli che non ci si può limitare a ripetere, come Mr Gradgrind in Hard Times di Charles Dickens, che "solo di fatti abbiamo bisogno nella vita"… Il primo fatto è che la nostra economia ristagna da ben prima della crisi finanziaria. Da più parti ne sono state investigate le ragioni: dai "lacci e lacciuoli" nell'amministrazione e nei servizi pubblici all'insufficienza dei servizi privati; da una particolare specializzazione produttiva e una dimensione media particolarmente ridotta delle imprese a un ambiente socio-economico non favorevole, in larga parte del nostro territorio, all'affermarsi di una sana e moderna cultura d'impresa; da una dipendenza eccessiva di imprese poco capitalizzate a investimenti in ricerca e sviluppo troppo bassi e concentrati; da un debito pubblico particolarmente elevato che limita iniziative volte a rinnovare le infrastrutture e a favorire investimenti pubblici, in presenza di vincoli di varia natura che operano sulla spesa corrente, alla scarsità di investimenti privati in grado di determinare, con l'innovazione, un significativo innalzamento della produttività.
 
Emergono insomma nettamente nel nostro paese le debolezze considerate nell'analisi di Phelps. Alla mancata crescita dell'economia nell'ultimo ventennio, e in particolare a una caduta della produzione industriale e del prodotto interno lordo rispettivamente di circa un quarto e quasi un decimo tra il 2008 e il 2014, hanno fatto riscontro una flessione degli investimenti privati e pubblici senza precedenti e gravi difficoltà sul fronte dei prestiti bancari, con un incremento dei crediti deteriorati che alla lunga pesa gravemente sui bilanci delle banche. In secondo luogo, la diffusione delle nuove tecnologie, non solo di natura digitale, si è accompagnata nelle imprese italiane all'accentuarsi dei ritardi sul fronte della scolarizzazione, dell'istruzione terziaria e della formazione, e quindi a livelli di capitale umano in media decisamente più bassi che negli altri principali paesi. Ma è un fatto che l'investimento in capitale umano è particolarmente redditizio e che si tratta di un fattore sempre più importante per la crescita dell'economia. Anche in Italia le persone più istruite hanno minori difficoltà nel trovare un lavoro, hanno carriere meno frammentate e salari più elevati; se si guardano gli indicatori disponibili studiare sembra però rendere meno che altrove. Si tratta, evidentemente, di un paradosso; a uno stock di capitale minore dovrebbe corrispondere un maggiore rendimento per ogni unità di capitale aggiuntivo, e così non è. In parte, il paradosso è riconducibile alle strategie delle imprese, con una domanda di lavoro qualificato frenata dalla specializzazione in settori tradizionali e ad alta intensità di lavoro, dalla dimensione aziendale ridotta, dal contesto istituzionale e regolamentare. Ma potrebbe pesare anche la percezione di un deterioramento nella qualità dell'istruzione cui le imprese avrebbero reagito, in condizioni di informazione imperfetta, con un'offerta generalizzata di bassi salari (e sfruttando la maggior flessibilità nel mercato del lavoro non per fare investimenti e riorganizzazioni ma per mantenere vantaggi di breve durata sul fronte salariale). A loro volta i bassi salari non avrebbero giustificato più elevati investimenti privati in istruzione.

La presenza di significative difficoltà nel trovare competenze adeguate nel mercato del lavoro, in particolare nell'utilizzo delle tecnologie digitali (in Italia solo il 50 per cento dei lavoratori utilizza il computer contro una media del 70 per cento per il complesso dei paesi dell'OCSE), potrebbe poi avere spinto le imprese non a innalzare i salari ma a ridurre la propensione a investire in nuove tecnologie, contenendo così il fabbisogno di manodopera qualificata: un circolo vizioso che oltre a deprimere ulteriormente l'incentivo all'investimento in capitale umano, spingerebbe i lavoratori più qualificati a cercare altrove migliori opportunità lavorative.

Un ultimo fatto, più difficile da quantificare, riguarda le tendenze in corso connesse con le innovazioni che si prevede saranno di ampio uso in un prossimo futuro (dalla robotica avanzata ai mezzi di trasporto autonomi o quasi, dalle tecnologie per l'immagazzinamento dell'energia alla stampa a 3D, dalla genomica alla tecnologia cloud e ai materiali avanzati). Anche se è difficile concordare su una dimensione temporale precisa, gli effetti sui processi produttivi, sull'organizzazione del lavoro, sulla distribuzione del reddito, sulla nostra stessa vita personale potranno essere travolgenti. Si tratta di innovazioni spesso collegate tra loro, che si alimentano a vicenda rendendo possibili brusche accelerazioni e inaspettate applicazioni (si pensi all'"internet delle cose"). Nella transizione, scompariranno inevitabilmente molti posti di lavoro; alla perdita di determinati lavori corrisponderà certamente la nascita di nuovi, ma il risultato netto e soprattutto i tempi per una sostituzione ampia ed equilibrata sono tutti da determinare. Nel breve-medio periodo non potrà che accentuarsi la polarizzazione delle professioni, con una ricomposizione dell'occupazione dalle attività svolte da lavoratori con una formazione di tipo professionale e basate sull'utilizzo di utensili e macchinari verso quelle più complesse che richiedono una formazione avanzata. Oggi da noi la quota di queste ultime è inferiore a un terzo, contro il 45 per cento circa nella media dell’Unione europea e il 50 per cento nei paesi nordici.

Ma vi è di più, oltre questi fatti. Il capitale umano non potrà infatti più coincidere, se mai l'ha fatto, con il bagaglio conoscitivo delle persone; la produttività di chi lavora non sarà più necessariamente legata a conoscenze tradizionali acquisite una volta per tutte nella scuola e nell'università e applicate in modo standard nel corso della vita lavorativa. Assumeranno sempre più importanza le "competenze": la capacità di mobilitare in maniera integrata risorse interne (saperi, saper fare, atteggiamenti) ed esterne, per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite, non di routine. Sempre più importanti saranno l'esercizio del pensiero critico, l'attitudine a risolvere i problemi, la creatività, la disponibilità positiva nei confronti dell'innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l'apertura alla collaborazione. Insomma, i valori messi in luce da Phelps.

Servirà più cultura, e bisognerà superare una buona volta e definitivamente la barriera che da noi separa la cosiddetta cultura "umanistica", da valorizzare, da quella "tecnico-scientifica", su cui investire. Al termine "cultura", dalle molte sfaccettature e spesso generatore di equivoci (ma ricordiamo quanto bassa è da noi la "spesa culturale" – nella definizione, pur limitata, di spesa in libri non scolastici, giornali e riviste, cinema, concerti, teatri, musei – con una caduta da 30 a 25 euro mensili tra il 1997 e il 2011, a fronte di un aumento di oltre il 20 per cento della spesa media complessiva), io preferisco il termine, in un'accezione ampia inclusiva delle nuove competenze, di "conoscenza". E se oltre i fatti sono importanti i valori va sottolineato con forza che oltre a un impatto positivo sulla crescita economica ne possono derivare contributi fondamentali per il rafforzamento del senso civico e la comprensione dell'importanza del rispetto delle regole e degli altri, per l’affermazione del diritto contro l'accettazione passiva di livelli di corruzione inaccettabili e dannosi, per non parlare di intollerabili abusi e di pericolosi atteggiamenti nei confronti della criminalità organizzata.

Ma bisogna essere consapevoli che non si tratta solo di chiedere allo Stato di fare la sua parte, e quindi "di più". Si tratta di maturare questa consapevolezza a livello collettivo, individui e imprese, giovani e anziani, dipendenti e non. Perché investire in cultura, in "conoscenza", è la risposta migliore che possiamo dare alle difficoltà di oggi e all'incertezza del futuro, consapevoli che finirà per ripagarci, con gli interessi. Perché, come scriveva ormai quasi tre secoli fa Benjamin Franklin nel suo Almanacco, "An investment in knowledge pays the best interest", il rendimento dell'investimento in conoscenza è più alto di quello di ogni altro investimento.

Questo testo è un estratto del libro di autori vari Il pregiudizio universale sottotitolo Un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni, (AAVV Laterza pagg. 416, euro 18) nelle librerie da domani.

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16 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/16/news/cultura_mangiare-152119427/?ref=HRER2-1
6099  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI - Il trumpismo all'italiana e la destra senza leader inserito:: Novembre 14, 2016, 05:55:40 pm
Il trumpismo all'italiana e la destra senza leader

Mappe
Di ILVO DIAMANTI
14 novembre 2016

LEGA e Forza Italia, Forza Italia e Lega. Oggi sembrano distanti e distinte. Lega o Forza Italia. Forza Italia o Lega. La Lega di Salvini si è mobilitata per il No al referendum. A Firenze. La città di Renzi. Che una settimana fa, proprio a Firenze, alla Leopolda, ha presieduto la convention del PdR. Forza Italia, invece, si è riunita intorno a Stefano Parisi.
A Padova. Dove, il giorno prima, è stato sfiduciato il sindaco leghista, Massimo Bitonci. Per la defezione, determinante, di due consiglieri di Fi.

Così, Bitonci ha sostenuto che ci sono due Forza(e) Italia(e). Anche perché a Firenze, insieme a Salvini, manifestavano Toti, presidente — forzista — della Liguria. Ma anche Brunetta e la Santanché. Però è altrettanto vero che non c’è una sola Lega. Visto che Manuela Dal Lago, ex Presidente della Provincia di Vicenza, ex deputata, ex triumvira della Lega Padana, non ha rinnovato la tessera. Perché si sente lontana da questa Lega, che ha rinunciato all’indipendenza padana. E, per questo, lascia insoddisfatto il padre fondatore, Umberto Bossi. Una Lega Nazionale e lepenista. Antieuropea e anti-immigrati. Che, invece di marciare contro Roma, si è scagliata contro Bruxelles. Tuttavia, il problema di fondo, a Destra, appare proprio l’identità e la leadership. Della Destra. In particolare oggi, dopo la vittoria di Donald Trump negli Usa. Perché gli Usa costituiscono, comunque, la guida e il riferimento della politica globale. Tanto più in Italia. Per decenni, il confine dell’Occidente. Cioè, del Mondo ispirato e guidato dall’America. Alternativo al sistema socialista. Il baricentro impiantato a Mosca. Oggi non è più così. Da tempo ormai. Ma l’elezione di Trump ha accelerato e accentuato questo passaggio. In modo traumatico. Perché Trump guarda oltre l’Europa. E si rivolge direttamente alla Russia di Putin. Mentre marca maggiormente i confini interni. Nei confronti del Messico. E fra le popolazioni, vista l’importanza, per il risultato, del voto dei “bianchi”. Così, la distinzione fra Destra e Sinistra, in Italia, diventa ancor più problematica. Ma soprattutto nella Destra, dove convivono componenti e leadership molto distinte. Soprattutto dopo il declino di Silvio Berlusconi, in seguito alle dimissioni del suo governo, giusto cinque anni fa. Il 12 novembre 2011. Infatti, la Destra, meglio: il Centro-destra, in Italia, è stato improntato da Berlusconi. La sua “discesa in campo”, nel 1994, divise il (nostro) mondo in due. Fra Berlusconiani e Comunisti. Perché, sulle macerie del muro di Berlino, Silvio Berlusconi ricostruì il muro di Arcore. Puntualmente ricambiato — e confermato — dagli avversari. Che hanno diviso il mondo fra berlusconiani e anti-berlusconiani. In questo modo, peraltro, la Lega secessionista riuscì a divenire forza di governo. “Sdoganata” da Berlusconi. Che riuscì nell’impresa di “legare la Lega” con i post-fascisti di An. E di “unire”, così, il Nord con il Sud.


Oggi, però, è rimasto poco di quella stagione. Di quel progetto. Di quelle fratture. An si è disciolta nel PdL. Mentre il leader, Gianfranco Fini, è scivolato al Centro, insieme a Futuro e Libertà. Ai confini della Destra è rimasta Giorgia Meloni, con i suoi “Fratelli d’Italia”. Mentre la Lega e Fi faticano a tenere i loro elettori. Secondo i sondaggi — che, naturalmente, sbagliano, ma continuano ad essere considerati con timore dagli attori politici — Fi oggi si aggira intorno al 12 per cento. In crescita negli ultimi mesi. Ma 5 punti sotto il risultato delle europee. La Lega, invece, è stimata un po’ meno del 10 per cento. In aumento, rispetto alle Europee. Ma in calo significativo nell’ultimo anno, visto che a giugno 2015 il suo peso elettorale era valutato al 14 per cento. Il problema, per la Lega e per Forza Italia, è che la spinta anti-sistema, contro l’establishment e contro le èlite, in Italia, non è interpretata da loro. O meglio, non tanto da loro. Perché il posto di Trump, da noi, è già stato occupato da tempo. Dal M5s. Che, non a caso, nei sondaggi, è molto vicino al Pd, nel voto proporzionale. Ma, in caso di ballottaggio, prevarrebbe. Certo, fra gli elettori del M5s, Trump non appare popolare quanto presso la base della Lega e dei FdI. Perché l’elettorato del M5s è distribuito in modo trasversale da destra a sinistra passando per il centro. Mentre il sostegno a Trump, in Italia, fra gli elettori di centro-destra e di destra, (prima del voto Usa) appariva più che doppio, rispetto alla media (sondaggio Demos). Tuttavia, Trump non si è affermato perché ha attratto — specificamente — gli elettori di “destra”. Cioè, per ragioni “ideologiche”. Si è affermato, invece, perché ha intercettato il voto degli elettori “arrabbiati” (per usare un eufemismo) contro la politica, i politici e, soprattutto, le dinastie politiche — come i Clinton. Perché ha raccolto il consenso — e amplificato il dissenso — dei ceti medi in declino. E delle classi declinate da tempo. Insomma, per dirla “all’italiana”, Trump ha vinto perché si è presentato come l’anti- politico contro l’erede dichiarata della politica — tradizionale. Contro Washington, la capitale. Che, in Italia, non coincide più con Roma, dove, ormai, stazionano tutti i “politici”. Del Pd, ma anche di Fi, della Lega e del M5s. La capitale, ormai, è Bruxelles. Il nemico è l’Europa.
Per i soggetti politici di Destra, dunque, il problema è che, in Italia, lo spazio di Trump e del trumpismo risulta già occupato. Dal M5s. E da Grillo. Tuttavia, è probabile, anzi: certo, che tutti cercheranno di trarre spunto — e spinta — dalla “lezione americana”. Soprattutto in Italia. Così non mi sorprenderei se lo stesso Renzi tentasse di trumpizzarsi. Almeno un po’. Tanto più in caso di vittoria del No al referendum. In fondo, la “rottamazione” l’ha inventata lui. Potrebbe presentare Trump come un imitatore…

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14 novembre 2016.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/14/news/il_trumpismo_all_italiana_e_la_destra_senza_leader-151955810/?ref=HRER2-1
6100  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / E. SCALFARI. Nei tempi bui del populismo Renzi deve accelerare sulla riforma inserito:: Novembre 14, 2016, 05:54:31 pm
Nei tempi bui del populismo Renzi deve accelerare sulla riforma
"Non sono né di sentimenti renziani né antirenziani, ma se il premier fosse costretto alle dimissioni a causa di un No vincente, si aprirebbe un periodo di estrema difficoltà per il nostro Paese con una netta diminuzione della governabilità e una instabilità in Europa"


Di EUGENIO SCALFARI
13 novembre 2016

LA CAMPAGNA referendaria che avrà il suo gran finale il 4 dicembre è stata resa ancor più agitata dalla vittoria di Donald Trump e dalle sue ripercussioni in Europa e in Italia. Trump nel suo primo discorso dopo la vittoria ha rivendicato alcuni problemi dominati dal capovolgimento di politiche fin qui elaborate e attuate da otto anni, e cioè due mandati di Barack Obama: quello della sanità, quello del petrolio e dell'acciaio, quello dell'immigrazione e soprattutto il fatto che lui, Donald Trump, non ha un partito, ha un suo programma ed è a quel programma che hanno aderito i repubblicani. Quel programma capovolge quello precedente di Obama, e riguarda le scelte della politica interna e di quella internazionale.
 
Sappiamo bene qual è il senso di quel discorso: la politica internazionale riguarda i suoi rapporti con Putin, con gli autori del Brexit e con i movimenti populisti presenti in quasi tutti i Paesi europei sotto varie forme. Nella politica economica indica come obiettivi totalmente diversi da quelli precedenti la piena occupazione degli operai e dei contadini, il rilancio della politica petrolifera e di quella siderurgica, la creazione di nuovi posti di lavoro naturalmente riservati ai cittadini americani. Nel suo discorso ha rivendicato che queste sono politiche da lui decise perché è lui che ha assunto la responsabilità del comando. Naturalmente con procedure democratiche previste ed attuate anche dai suoi avversari.
 
Questo significa che la sua presenza al vertice come anche la sconfitta della Clinton sono state raggiunte con le procedure liberali dell'elezione presidenziale. Ha aggiunto che la sua politica riguarda tutti e non soltanto le categorie e gli Stati che si sono dichiarati a lui favorevoli.
 
Per quanto riguarda infine i movimenti populisti europei, Trump sarà in buoni rapporti personali con alcuni di loro ma non sarà certo lui che li piloterà; sono conseguenze del suo ingresso alla Casa Bianca; vede quelle conseguenze con simpatia ma rispetta la loro autonomia. Per quanto riguarda la sua America, sarà vicino a tutti, l'ha ripetuto più volte e così sarà vicino ai movimenti europei che dalla nuova America saranno incoraggiati nelle nazioni dell'Europa.
 
L'Italia è uno dei Paesi in cui la vittoria di Trump ha avuto conseguenze positive: sulla Lega di Salvini, su Meloni, e soprattutto su Grillo. In diverso modo anche su Berlusconi. Anche lui, ai suoi tempi, ha governato senza un partito: Forza Italia fu formata dai funzionari di Publitalia ai suoi ordini. Gli unici e ascoltati consiglieri sono Gianni Letta e Fedele Confalonieri. In molte cose Berlusconi somiglia a Trump, fatte le debite proporzioni tra chi è al vertice dell'America e chi per circa vent'anni è stato non il solo ma tra i più importanti leader italiani.

I grillini, come si è già detto, sono molto vicini alle posizioni di Trump ma tra loro c'è una profonda differenza: Trump oltre ad essere molto ricco in proprio ha anche contatti stretti con i maggiori banchieri e imprese finanziarie di Wall Street; i grillini invece non hanno nessun contatto col mondo degli affari e le sole risorse provengono dagli stipendi parlamentari. Questo merito va loro riconosciuto.

***

Uno dei motivi per i quali Trump ha ottenuto la sua vittoria è stato l'attacco all'establishment americano da parte dei disoccupati, dei sottopagati, delle periferie sociali che ci sono in tutti i Paesi. La sconfitta elettorale di quella classe dirigente dà luogo ad un intervallo (molto breve) dopo il quale una nuova classe dirigente prende il potere. Naturalmente il fatto che le masse rabbiose abbiano manifestato anche i motivi della loro sofferenza provoca nella nuova classe dirigente politiche che tengano conto dei disagi esistenti e quindi siano orientate soprattutto a attenuarli o addirittura ad abolirli. La classe dirigente c'è sempre dopo brevissimi periodi di intervallo, ma cambia la linea politica del Paese, una volta vanno al potere i conservatori, un'altra volta i progressisti e riformisti. Poco tempo fa c'è stato su questo giornale un dibattito sull'argomento. Alcuni, tra i quali io stesso, sostenevano che l'oligarchia fosse la forma inevitabile della democrazia: comandano in pochi e adottano una politica che soddisfa i molti che li hanno votati. Questa è la democrazia oligarchica, altre forme democratiche non esistono, esistono però altri regimi e cioè la dittatura e l'anarchia.
 
Nella storia del Novecento i dittatori sono stati la conseguenza inevitabile di fasi di grande confusione politica. Così avvenne in Italia con Mussolini, in Germania con Hitler, in Spagna con Francisco Franco e in Russia con Lenin e poi Stalin. Inutile dire che le dittature sono state un periodo terribile nella storia delle nazioni, hanno alimentato guerre interne ed esterne per il mantenimento del potere. Richiamo qui questo dibattito perché un Paese democratico e che tale voglia restare è guidato inevitabilmente da una classe dirigente la quale accetta di essere criticata ma assume la responsabilità di governare in un sistema democratico.

***
 
Conviene a questo punto tornare alla situazione italiana. C'è un establishment intorno a lui? Questo establishment è molto ristretto e il potere renziano, sia come presidenza del Consiglio e sia come segreteria del partito di maggioranza, è alla vigilia di una crisi che porterà un nuovo gruppo dirigente, oppure Renzi è un innovatore che ha certamente commesso errori ma governa soltanto da tre anni? Tra gli italiani c'è una massa crescente che manifesta la sua rabbia sociale e c'è anche una dissidenza, sia pure molto limitata numericamente, all'interno del suo partito. Si sta dunque prefigurando un'ipotesi di crisi ed una vittoria del No referendario?
 
In questo momento i sondaggisti danno i No in maggioranza; il Sì starebbe diminuendo il distacco ma il nuovo vertice americano può avere l'effetto in Italia di un aumento dei No e non più per dissenso politico soltanto, ma anche per quella rabbia sociale che non accetta d'esser governata contro i suoi bisogni.
 
Renzi finora ha volutamente ignorato il legame tra il referendum costituzionale e la legge elettorale. Ad un certo punto si è reso conto che quello era il punto delicato del problema e ha nominato un comitato di cinque membri rappresentativi di varie posizioni ma comunque interessati ad elaborare una riforma elettorale adeguata.
 
I cinque membri hanno funzioni di notevole importanza: due sono i presidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato, uno è il vicesegretario del premier, un altro è il presidente del partito del Pd e un altro ancora proviene dalle fila dei dissidenti. Si chiama Gianni Cuperlo che non è propriamente un antirenziano.
 
Hanno lavorato per quasi un mese e dopo lunghe discussioni hanno raggiunto un progetto comune. Il progetto, avendo ormai raggiunto l'approvazione di tutti i membri del comitato, è stato sottoposto a Renzi e da lui approvato. Ne dette notizia qualche giorno fa nel corso di un discorso comiziale in favore dei Sì referendari, leggendo anche il comunicato che i cinque avevano stilato. Dopo quella sua pubblica adesione alla riforma elettorale proposta dai Cinque non ne ha più parlato. Sembrerebbe a questo punto che la sua adesione ci sia stata ma poi l'ha mandata in soffitta. È un grave errore al quale ci auguriamo ponga riparo al più presto. Il rafforzamento dei populismi e del grillismo in particolare richiede che la riforma elettorale venga molto spesso illustrata rinnovando il più frequentemente possibile la volontà del governo di effettuarla.
 
Personalmente non sono né di sentimenti renziani né antirenziani, ma mi rendo conto che se il premier fosse costretto alle dimissioni a causa di un No vincente, si aprirebbe un periodo di estrema difficoltà per il nostro Paese con una netta diminuzione della governabilità e una instabilità in Europa. Il rischio del ballottaggio nelle elezioni italiane darebbe una molto probabile vittoria al Movimento Cinquestelle. Potete immaginare l'ipotesi di un grillino che debba governare l'Italia intera e rappresentarci in Europa e nel resto del mondo. È un'ipotesi da incubo, ecco perché la legge elettorale va cambiata, il ballottaggio abolito oppure attuato non tra liste uniche bensì tra liste apparentate.
 Renzi conosce certamente la legge De Gasperi del 1953 e gli apparentamenti della Dc con altre liste e un sistema elettorale proporzionale. La Dc non si presentò mai sola alle elezioni con alleati che di tanto in tanto cambiavano. Fu alleata con tutti, prima con i cosiddetti partiti minori e laici, poi con i socialisti guidati da Nenni e De Martino ed infine con i comunisti di Berlinguer, pochi giorni prima del rapimento e poi dell'uccisione di Aldo Moro, il principale regista di questi mutamenti. Renzi conosce bene questa storia ed io forse un po' meglio di lui perché l'ho direttamente vissuta. Perciò si sbrighi sul ballottaggio, sul sistema proporzionale e sugli apparentamenti con altre forze politiche affini alle posizioni del Pd. Con i tempi bui di un demagogo alla Casa Bianca gli errori non corretti immediatamente possono diventare incubi. Nella vita ed anche nella politica l'incubo è quanto di peggio possa accadere.
 
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Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/13/news/populismo_renzi_riforma-151897771/?ref=fbpr
6101  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ADRIANO SOFRI - L’Isis e cosa resta dell’Europa inserito:: Novembre 14, 2016, 04:56:48 pm
Adriano Sofri   

· 13 novembre 2016
L’Isis e cosa resta dell’Europa

L’Europa deve accorgersi del terremoto che le sta togliendo il terreno sotto i piedi: l’Isis è affar suo (anche l’Ucraina lo era)

Ieri, nell’anniversario degli attentati di novembre a Parigi, il primo ministro francese Manuel Valls scriveva che “in materia di Difesa, non possono più esserci passeggeri clandestini. Siamo tutti sulla stessa barca! La Francia assume oggi una grossa parte dello sforzo, per colpire Daesh nelle sue roccaforti, in Iraq e in Siria, e combattere i gruppi jihadisti in Africa. Non può essere l’unica”. È un motivo ricorrente in Valls (e in Hollande).

È un motivo ricorrente in Valls (e in Hollande) quello della Francia «lasciata sola» a battersi per conto dell’Europa nel Sahel e nel Vicino Oriente, e a «salvare l’onore dell’Europa», come disse Jean-Claude Juncker facendogli eco. Valls vi aggiunge ora la considerazione che «gli Stati Uniti sono sempre meno coinvolti nelle questioni mondiali». Questa lubrificata frase vuol dire che con Trump nessuno, tanto meno Trump, ha la minima idea su che cosa faranno gli Stati Uniti nel mondo. Dunque la cosa più ragionevole e più urgente è di immaginare che dia davvero seguito ai proclami sul ridimensionamento della Nato e procurarsi gli strumenti per debellare l’Isis, che dopotutto è un problema europeo infinitamente più di quanto sia americano. Europeo come il Bataclan, e come i fuggiaschi che premono ai nostri confini. L’elezione di Trump è venuta nel pieno di una controffensiva per la liberazione di Mosul dall’Isis attesa da oltre due anni, e raddoppiata dall’operazione per isolare Raqqa. Sono le due capitali dell’Isis in Iraq e in Siria. Si era pensato che l’offensiva fosse stata lanciata per decorare la fine del mandato di Obama, o per anticipare la linea più risoluta che Hillary prometteva di tenere. Ora l’affare è passato a Trump, tanto più che è piuttosto escluso che Mosul sia liberata da qui al cambio alla Casa Bianca. Un giornalismo mediamente cialtrone aveva dato Mosul pressoché per conquistata una dozzina di giorni fa, quando la forza speciale «antiterrorismo» irachena era appena entrata nei sobborghi della sponda est del Tigri, la meno difendibile da parte dell’Isis.

Da allora l’avanzata non ha fatto sostanziali passi avanti e a volte ne ha fatti indietro, colpita dalle autobombe e gli attaccanti suicidi dell’Isis sbucati fuori dalle gallerie sotterranee o nascosti nelle case.

La battaglia di Mosul durerà a lungo e a ogni giorno cresce la minaccia spaventosa che incombe su una popolazione che ancora supera il milione. Tutto ciò era previsto.
Gli attacchi aerei sono largamente frustrati quando i bersagli si nascondono dentro una folla di civili, e in una folla di civili che vi corre incontro sventolando stracci bianchi è difficile distinguere i fuggiaschi dagli attentatori suicidi, specialmente se sono bambini violentati a questo. Si sapeva anche che le truppe in campo contro l’Isis non sono le meglio addestrate alla specie di estrema guerriglia urbana che Mosul impone. L’Iraq di Saddam aveva un reparto speciale agguerrito per la repressione urbana, dissolto come l’insieme dell’esercito, e l’antiterrorismo addestrato dagli americani manca di una pratica sul campo. Ramadi fu liberata radendola pressoché al suolo. Gli stessi peshmerga, che non operano a Mosul, erano campioni di guerra partigiana sulle montagne ma non hanno esperienza di guerriglia di città. Su questa situazione –dove l’Isis moltiplica la ferocia esemplare del terrore, come nei corpi impiccati ai semafori di cui avete sentito incombe l’incognita della vittoria di Trump.

Delle cose che aveva annunciato in campagna elettorale son piene le fosse, davvero. L’offensiva di Mosul era un disastro, lui avrebbe fatto fuori l’Isis in 30 giorni, bisognava smettere di proteggere degli infidi nemici di Assad e lasciar fare a lui e a Putin… E far pagare il conto agli alleati, e indurli, chi non ce l’ha, a dotarsi della bomba atomica, per esempio l’Arabia Saudita. Lungi dall’essere una battuta, è la prospettiva più verosimile per la Corea del Sud e per lo stesso Giappone, una volta che non si senta più difeso dagli Stati Uniti. Comunque vada, l’Europa, in corsa qua e là per emulare un risultato elettorale come quello americano dopo averlo anticipato, quel che resta dell’Europa, diciamo, deve accorgersi del terremoto che le sta togliendo il terreno sotto i piedi. L’Isis è affar suo (anche l’Ucraina lo era).

Nella ritirata eventualmente suonata da Trump sono compresi i colpi di testa internazionali cui ricorrere per rimediare ai disastri della ritirata. All’interno, almeno per due anni Trump non ha un’opposizione che ne limi il potere. All’estero, non ce l’ha per definizione. La gente del Dipartimento di Stato, del Pentagono, dell’Intelligence, lo calmerà, si dice, faranno finta di obbedire e invece no, o solo un poco… Magnifica prospettiva. Intanto Trump può forse investire Vladimir Putin, il protettore di Milosevic e di Bashar el Assad, della missione di gendarme del mondo. Non è una sua personale pazzia: da noi in tanti non vedevano l’ora, a destra e a sinistra.

Da - http://www.unita.tv/focus/lisis-e-cosa-resta-delleuropa
6102  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Paolo VIRZI'. Erano democratici i tempi della Olivetti inserito:: Novembre 14, 2016, 04:55:26 pm
Paolo Virzì   

· 12 novembre 2016
Erano democratici i tempi della Olivetti

Referendum   
Olivetti   

La verità è che siamo un popolo di emotivi. Ci piacciono la Poesia e l’opera lirica e un po’meno la Prosa, ma quando c’erano i Padri Costituenti, Pertini, Berlinguer, la macchina da scrivere Olivetti, eh beh, era tutta un’altra cosa

Cari amici e compagni del No, è divertente questo dibattito a sinistra. Diciamo che è divertente la sinistra, ontologicamente. O sconfortante, a seconda dei punti di vis ta. In pratica succede questo: da una parte viene snocciolato il rosario dei nomi brutti brutti: Salvini, Berlusconi, Cirino Pomicino, e via dicendo.

Dall’altra si risponde per le rime: Alfano! Verdini! In qualche caso si cala l’asso nella manica: le Banche! I Poteri Forti! Il tema del contendere sarebbe un quesito tecnico-procedurale sottoposto a referendum, ma è troppo noioso entrare in un merito specifico del quale sono giustamente stufi anche i costituzionalisti.

Ecco quindi che la questione diventa: «Renzi è arrogante!» «E D’Alema invece?», «Spostiamo l’asse a sinistra!», «Volete vendicarvi dei vostri fallimenti!», e così via. Da una parte e dall’altra l’accusa principale è quella di «alimentare la deriva populista».

Così secondo alcuni la vittoria di Trump dovrebbe convincere a votare No, secondo altri invece è evidente che l’ascesa alla Casa Bianca del miliardario pazzo e arrapato dovrebbe essere l’ennesimo buon motivo per votare Sì. La verità è che siamo un popolo di emotivi. Ci piacciono la Poesia e l’op era lirica e un po’meno la Prosa.

Pensavamo che fosse una prerogativa delle persone di sinistra, sognatori ipersensibili, anime fragili e suggestionabili, ma adesso ci accorgiamo che la questione è più ampia, sono così tutti gli italiani, anzi è una questione appunto planetaria. Il mondo infelice, spaventato, frustrato reagisce «con un gigantesco vaffanculo», come ha spiegato bene, nel commentare le vicende americane, uno dei più grandi esperti in materia: l’ex comico che guida quella che ad occhio e croce sarà la formazione politica che vincerà le prossime elezioni in Italia.

Poi vedremo cosa succederà: decresceremo, felicemente o meno, ma intanto ci siam tolti un peso dallo stomaco. Di governare non se ne parla. Vorrebbe dire far la fatica di venire a patti con le cose noiose e reali, prendersi almeno qualche responsabilità, affrontare problemi complessi e pallosi da spiegare. Governare, ovvero l’arte del possibile, fosse anche solo per limitare i danni. Facciamo un gioco, immaginiamo la prima cosa che capita a chi si siede a Palazzo Chigi, chiunque egli sia, Renzi, Bersani, Di Maio o Pinco Pallino: entra un dirigente dell’Inps dal volto scurissimo che spiega, con voce bassa e grave, la situazione dei conti pubblici e che lo Stato potrà pagare le pensioni soltanto fino al giorno tot, ovvero una data molto prossima.

Ed ecco che l’inquilino di Palazzo Chigi, chiunque egli sia, anche un purissimo antipolitico, se non vuole passare alla storia come quello che ha sancito la bancarotta del proprio Paese, dovrà correre a destra e a manca per convincere quella cosa misteriosa che si chiamano i mercati che non devono aver paura, devono investire, fare, costruire, intraprendere, dare lavoro, e che lui farà tutte le leggi possibili per agevolarli. E dovrà andare a cercar risorse dappertutto, come un matto, senza andare troppo per il sottile, prima che crolli tutto. Poi insieme al ministro dell’Economia dovrà cercare di capire se questi annunci e questi provvedimenti abbiano prodotto un qualche effetto, altrimenti dovrà tagliare e ancora tagliare e spiegare ai più giovani che, cucù, il lavoro non c’è più, cioè ci sono al massimo i servizi, le prestazioni, quelle cose che non vengono pagate con uno stipendio ma coi voucher.

Insomma la politica, una volta che è finita la propaganda, che si sono chiuse le urne, in quello che dovrebbe essere il suo esplicitarsi fisiologico, cioè il governo, va inevitabilmente a impattare con la ruvidezza dolorosa, crudele, insopportabile della realtà, che si è peraltro di molto complicata in questi nostri tempi feroci. Per questo noi intanto preferiamo divertirci col nostro dibattito, parlando appunto d’altro, e lasciandoci confortare volentieri dalla nostalgia, che quella sembra funzionare sempre, mette tutti d’accordo ed è gratis.

Perché quando c’erano i Padri Costituenti, Pertini, Berlinguer, la macchina da scrivere Olivetti, eh beh, era tutta un’altra cosa. Ritrovata l’unità nel sentimento struggente di rimpianto del passato ci serve una battaglia comune, che ci unisca, un bell’allarme democratico, un mostro che ci fa bau bau, cosicché, spaventati, inquietati e allarmati, possiamo stringerci tutti insieme senza se e senza ma in un’alleanza che sarà messa in discussione esattamente il giorno dopo un’eventuale vittoria elettorale. Perché, si sa, le questioni «sono ben altre». Buon lavoro e buona sinistra, cari amici e compagni che voterete contro la riforma. E buoni festeggiamenti per la vittoria del No, che per istinto da sceneggiatore cinematografico di film italiani, tenderei a dare per scontata e matematica. Perché il bello nostro è che siamo fatti proprio così.

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6103  Forum Pubblico / PERSONE che ci hanno lasciato VALORI POSITIVI / GALLUCCI, Vincenzo Maria CARDIOCHIRURGO inserito:: Novembre 14, 2016, 04:51:01 pm

GALLUCCI, Vincenzo Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 51 (1998)
Di Giuseppina Bock Berti

GALLUCCI, Vincenzo Maria. - Nacque a Ferrara il 1° nov. 1935 da Mario, medico assistente universitario e poi condotto a Porto Mantovano, e da Irene Longhini, dottore in chimica e farmacia. Nel luglio 1959 si laureò in medicina e chirurgia nell'Università di Modena, discutendo con P. Buffa una tesi sperimentale di patologia generale. Assistente volontario presso l'Università di Modena e poi presso l'istituto di patologia generale dell'Università di Padova diretto da M. Aloisi, collaborò a vari programmi di ricerca nel settore della biologia molecolare promossi dal CNR (Consiglio nazionale delle ricerche) e nel 1968 conseguì la libera docenza in patologia generale.

Cominciava intanto a manifestarsi l'interesse del G. per la chirurgia: assistente volontario presso la cattedra di patologia speciale chirurgica e propedeutica clinica dell'Università di Padova, diretta da P.G. Cevese, dal 1961 al 1963, nel 1965 conseguì il diploma di specializzazione in chirurgia generale presso l'Università di Modena. Fortemente attratto dalla cardiochirurgia e dotato di buona tecnica operatoria, nel 1962 era stato presso l'ospedale Broussais di Parigi, alla scuola di C. Dubost, e l'anno successivo, dopo aver sostenuto l'esame per il riconoscimento della laurea in medicina da parte delle autorità mediche statunitensi, aveva ottenuto una borsa di studio e quindi l'internato fino al 1967 presso il department of thoracic and cardiovascular surgery del Charlotte Memorial Hospital nel North Carolina. Fu anche interno presso il centro di chirurgia della Baylor University School of medicine di Houston, nel Texas, diretto da M.E. De Bakey, e collaborò con l'équipe di D.A. Cooley, S. Crawford, G.C. Morris e W.H. Howell, impegnata nelle più avanzate tecniche operatorie per il trattamento delle malformazioni cardiache congenite e delle patologie vascolari e nella chirurgia dei trapianti. Tornato in Italia nel 1969 e conseguiti i diplomi di specializzazione in chirurgia toracica a Bologna nel 1970 e in cardiochirurgia a Torino nel 1971 e sempre nel 1971 la libera docenza in clinica chirurgica generale e terapia chirurgica, ottenne l'idoneità a primario di chirurgia generale e di cardiochirurgia. Iniziava allora la sua carriera nell'Università di Padova, presso l'istituto di clinica chirurgica generale e terapia chirurgica diretto da P.G. Cevese dapprima come assistente incaricato, poi come assistente ordinario, quindi come aiuto di ruolo. Incaricato dell'insegnamento di chirurgia cardiovascolare nella sede distaccata di Verona nel 1970, si trasferì poi a Padova; tra il 1970 e il 1972 ricevette i premi per l'operosità didattico-scientifica. Durante questi anni, tuttavia, non mancò di frequentare ancora gli ambienti clinico-scientifici statunitensi: così, nel 1975 fu a Boston, presso il department of cardiovascular surgery della Harvard Medical School del Children's Hospital Medical Center.

Superato il relativo concorso, nel 1980 il G. divenne il primo cattedratico di chirurgia cardiovascolare dell'Università di Padova e dal 1984 gli fu affidata anche la direzione della scuola di specializzazione in cardioangiochirurgia. Contemporaneamente ricoprì importanti incarichi di insegnamento presso varie scuole di specializzazione: chirurgia generale, chirurgia dell'infanzia, chirurgia cardiaca, malattie dell'apparato cardiovascolare, cardioangiochirurgia, chirurgia pediatrica. Il 14 genn. 1985 il G. consolidò definitivamente la sua fama effettuando il primo trapianto cardiaco in Italia su un paziente affetto da una grave forma di cardiopatia dilatativa. Successivamente eseguì, con brillanti risultati, numerosissimi altri trapianti (v. Tre anni di trapianto cardiaco: i risultati clinici dell'esperienza padovana, in Giorn. italiano di cardiologia, XIX [1989], pp. 1129-1177, in collab. con G. Thiene).

Oltre che abilissimo operatore, il G. fu un serio e preciso ricercatore, autore di numerose pubblicazioni a carattere clinico e sperimentale. In età giovanile, avvalendosi della formazione istopatologica e chimico-analitica maturata nelle scuole di Modena e di Padova, condusse una serie di brillanti osservazioni biologiche: ancora studente si interessò dei problemi di biochimica muscolare con particolare riguardo alle proteine miofibrillari in condizioni normali e patologiche (Osservazioni sulla composizione proteica delle miofibrille cardiache, in Rendiconti dell'Accademia nazionale dei Lincei, s. 8, XXII [1957], pp. 664-666, in collab. con A. Corsi); i successivi studi sulla fatica muscolare, che formarono l'oggetto della sua tesi di laurea, gli consentirono di dimostrare che l'apporto di ossigeno operato dalla circolazione sopravanza, in condizioni di fatica acuta, la capacità del muscolo di utilizzare l'elemento (Prime osservazioni su alcune alterazioni biochimiche del sangue nella fatica muscolare dell'uomo, in Atti della Soc. italiana di patologia, XVI [1959], pp. 623-625, in collab. con A. Corsi - P. Bargellini). Seguì una serie di ricerche sulle proteine muscolari e le miofibrille cardiache, sulle proprietà di miosina e actina, sull'attività ATPasica, sulle caratteristiche del collagene, sulle modificazioni indotte nei tessuti connettivi, sull'evoluzione del tessuto di granulazione e sulla rigenerazione dei muscoli scheletrici, che dettero luogo a una trentina di pubblicazioni su riviste di biologia e di patologia sperimentale (ad es.: L'attività ATPasica delle miofibrille del muscolo scheletrico dopo denervazione, in Lo Sperimentale, CX [1960], pp. 241-249, in collab. con A. Corsi - P. Bargellini; Effetto dell'ipofisectomia sulle funzioni collagene del tessuto di granulazione del ratto, in Chirurgia e patologia sperimentale, IX [1961], pp. 636-640, in collab. con S. Ferolla - A. Tartarini; Il collagene nel muscolo irradiato, in Boll. della Soc. italiana di biologia sperimentale, XXXVIII [1962], pp. 484-486, in collab. con M. Bottero e altri; Biochemical correlates of discontinuous muscle regeneration in the rat, in British Journal of experimental pathology, XLVII [1966], pp. 215-227, in collab. con F. Novello e altri). Al crescente interesse per la cardiochirurgia vanno ricondotti i successivi lavori del G. nel settore della fisiopatologia cardiocircolatoria: si possono qui ricordare gli studi condotti negli Stati Uniti sulla funzione del cuore destro nel quadro emodinamico generale (Is the right heart an absolutely necessary organ?, in Bulletin de la Société internationale de chirurgie, V-VI [1964], pp. 645-671, in collab. con P.W. Sanger e altri), sulle applicazioni cliniche dell'anastomosi cava-polmonare in presenza di malformazioni congenite (The clinical applications of cava-pulmonary anastomosis, in Diseases of the chest, XLVIII [1965], pp. 145-152, in collab. con P.W. Sanger e altri), sulla possibilità di eseguire il trapianto coronarico mediante innesto omologo di parte del cuore e relative arterie coronarie (Transplantations of coronary arteries. An experimental study, in Annals of thoracic surgery, II [1966], pp. 243-249, in collab. con F. Robicsek - P.W. Sanger), sui preparati "cuore-polmone" stabilizzati e suscettibili di attività spontanea e indipendente (Homotransplantation of "live" hearts, in Cardiopulmonary diseases, XIII [1967], pp. 1-10, in collab. con P.W. Sanger e altri), sulla valutazione clinica e prognostica di numerosi casi di resezione aortica (Operative mortality of aortic resections, ibid., XIV [1968], pp. 1-12, in collab. con P.W. Sanger e altri). Dopo il rientro in Italia pubblicò ancora lavori sulla patologia dei grossi vasi (La patologia dell'arteria succlavia, in Recenti progressi in medicina, IL [1970], pp. 164-200, in collab. con P.G. Cevese), in particolare sulle lesioni dell'aorta toracica, soprattutto di natura aneurismatica, con ampi riferimenti alla diagnostica strumentale, al trattamento postoperatorio, alla prevenzione delle complicanze, tutti supportati da una ricca casistica (Aneurismi dissecanti dell'aorta. Indicazioni chirurgiche e terapia, in Gli aneurismi dissecanti dell'aorta, a cura di P.G. Cevese, Padova 1977, pp. 57-94); sulle malformazioni congenite del cuore e dei grossi vasi, delle quali illustrò gli aspetti embriologici e anatomopatologici e per il cui trattamento propose di operare interventi risolutivi indicando l'età ottimale nei primi due anni di vita, in particolare il periodo neonatale (Il canale atrioventricolare. Tecniche, limiti e risultati del trattamento chirurgico, in Cardiopatie congenite, a cura di F. Rovelli, Padova 1973, pp. 311-320; Tetralogia di Fallot: trattamento chirurgico, in Atti della Soc. italiana di cardiologia, XXXVII [1978], pp. 135-152; Anatomy and embriology of pulmonary arterial circulation in pulmonary atresia with ventricular septal defect, in Selected topics in cardiac surgery. Proceedings of the Symposium…, Padova… 1979, Bologna 1980, pp. 352-363, in collab. con G. Thiene e altri; Long-term results after repair of congenital malformations of mitral valve, in Perspectives in pediatric cardiology, II [1990], pp. 103-106); sul trattamento chirurgico delle lesioni valvolari conseguenti a endocarditi batteriche (Trattamento chirurgico delle endocarditi batteriche, in Chirurgia triveneta, XIV [1974], pp. 98-106, in collab. con D. Casarotto - C. Valfrè; Aortic valve replacement in active infective endocarditis, in Thoracic and cardiovascular surgeon, XXIX [1981], pp. 303-305, in collab. con U. Bortolotti e altri). La sostituzione valvolare con protesi a cuore aperto, che il G. operò per la prima volta a Padova nel 1970 con lusinghieri risultati, fu all'origine di un'altra serie di ricerche sull'uso di protesi biologiche le cui prime conclusioni presentò nel 1975 al XXXVI Congresso della Società italiana di cardiologia (Protesi biologiche, in Atti della Soc. ital. di cardiologia, XXXVI Congr., Cagliari… 1975. Tavole rotonde, Roma 1976, pp. 134-168, in collab. con G. Fasoli e altri) e nel 1976 al meeting dell'American Heart Association (Discussion of: Stinson E. B. et al. Long-term experience with porcine aortic valve xenografts, in Journal of thoracic and cardiovascular surgery, LXXIII [1977], pp. 62 s.) e che avrebbe in seguito approfondito nell'intento di individuare la possibilità di prevenire le complicanze più gravi (Rupture of the posterior wall of the left heart at the atrioventricular groove following mitral valve replacement, in Acta chirurgica Belgica, III [1977], pp. 297-303, in collab. con D. Casarotto e altri), la disponibilità di rimedi per quelle tardive (Patologia delle bioprotesi valvolari porcine, in Pathologica, LXXI [1979], pp. 129 s., in collab. con G. Thiene e altri), i limiti di tolleranza in situazioni particolari come la gravidanza (Pregnancy in patients with a porcine valve bioprostheses, in American Journal of cardiology, L (1982), pp. 1051-1054, in collab. con U. Bortolotti e altri); i numerosi contributi che recò sull'argomento (si veda anche Valvular prostheses: present status, in Selected topics in cardiac surgery…, 1980, cit., pp. 181-198, in collab. con P.G. Cevese), culminati in Failure of hancock pericardial xenografts: is prophylactic bioprosthetic replacement justified?, in Annals of thoracic surgery, LI (1991), pp. 430-437, in collab. con U. Bortolotti e altri, fanno del G. un grande innovatore della chirurgia cardiovascolare. Tra i vari altri suoi studi si ricordano ancora quelli sulla stimolazione cardiaca (Stimolazione cardiaca endocavitaria con pacemaker esterno permanente, in Bollettino della Soc. italiana di cardiologia, XXI [1976], pp. 941-945, in collab. con G. Donadel e altri; Le infezioni nei portatori di pacemakers, in Giorn. italiano di cardiologia, VI [1976], pp. 1043-1047, in collab. con G. Donadel; In tema di elettrostimolazione cardiaca nella terapia di alcuni stati morbosi del miocardio contrattile, in La Chirurgia toracica, XXXI [1978], pp. 534-536, in collab. con G. De Longis - A. Castellino) e quelli sull'embolia polmonare che nella sua forma massiva costituisce una indicazione al trattamento chirurgico urgente con by-pass extracorporeo parziale, embolectomia e interruzione della vena cava inferiore (Embolia polmonare acuta, in Acta chirurgica Italica, XXXII [1976], pp. 303-313, in collab. con G. Rizzoli e altri; Le embolie polmonari. Trattamento chirurgico, in collab. con P.G. Cevese - D. Casarotto, in Atti del XVI Congresso della Soc. italiana di chirurgia toracica, Taormina… 1978. Relazione III. Le embolie polmonari, Roma 1978, pp. 81-90). Una particolare menzione merita ancora l'interesse del G. per il trapianto ortotopico di cuore: dopo il suo primo intervento egli si battè a lungo presso le autorità sanitarie italiane per modificare la normativa restrittiva vigente in proposito in Italia e pubblicò Il trapianto cardiaco ortotopico. Parte I: selezione dei candidati al trapianto; Parte II: tecnica di prelievo d'organo, in Le basi razionali della terapia, XVI (1986), pp. 507-509, 511 s.; Parte III: tecnica di trapianto d'organo, ibid., XVII (1987), pp. 865-868.

Vanno infine ricordate del G. le monografie Le protesi biologiche, Roma 1977; Cardiac bioprostheses, London 1982, in collab. con L.H. Cohn; Heart and heart-lung transplantation update, Firenze 1987, in collab. con U. Bortolotti e altri; Lung and heart-lung transplantation, Padova 1991, in collab. con U. Livi e altri; e la sua partecipazione al Manuale di patologia chirurgica, fondato da G. Ceccarelli, II, Padova 1983, nei capitoli Malattie congenite del cuore, Malattie acquisite del cuore e del pericardio, Malattie delle valvole cardiache, pp. 1745-1824, in collab. con P.G. Cevese e altri.

Membro di numerose società scientifiche italiane e straniere, dal 1979 membro effettivo della prestigiosa American Society of thoracic surgeons e del Council or cardiovascular surgery dell'American Heart Association, nel 1984 il G. fu chiamato a far parte della commissione di studio sui trapianti. Fece inoltre parte del comitato direttivo dell'European Journal of cardiothoracic surgery, alla cui fondazione aveva attivamente contribuito, e collaborò con numerose riviste scientifiche italiane e straniere. Negli ultimi anni si impegnò nella progettazione e nella realizzazione di una nuova struttura dotata delle più progredite attrezzature, il centro di cardiochirurgia che fu inaugurato e intitolato al suo nome qualche mese dopo la sua scomparsa.

Morì nei pressi di Verona in un incidente automobilistico la sera del 10 genn. 1991. Era sposato con Luciana Bellomi, dalla quale aveva avuto quattro figli.

Fonti e Bibl.: Necr. in International Journal of cardiology, XXXII (1991), pp. 419-421; European Journal of cardiothoracic surgery…, V (1991), pp. 225 s.; Il Mattino di Padova, 15 genn. 1991; Annuario dell'Università degli studi di Padova, a.a. 1964-65, 1980-91, ad ind.; V. Gallucci, Curriculum vitae, Padova 1979; L. Premuda, Cuore: da sede dell'anima a pezzo di ricambio, in Rotary, LXII (1988), 1-2, pp. 16-21; G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità nell'Italia contemporanea, Roma-Bari 1994, p. 297; N.E. Shumway, The history of transplantation, lettura magistrale in memoria del prof. V. G., Università degli studi di Padova, 22 marzo 1994.

Da - http://www.treccani.it/enciclopedia/vincenzo-maria-gallucci_(Dizionario-Biografico)/





6104  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino non si fa' parte attiva nella sua pagina FB pochi lettori ... inserito:: Novembre 14, 2016, 11:59:53 am
Arlecchino non si fa' parte attiva nella sua pagina FB.
Pochissimi lettori ...

Mi concentro su LAU come contenuti nell'attesa di modificarne la godibilità.

ciaooo
6105  Forum Pubblico / SCRIPTORIUM 2017 - (SUI IURIS). / TRUMP. Vedete possiamo sperare un CANOVACCIO lo si può corregge dopo le elezioni inserito:: Novembre 12, 2016, 02:18:33 pm
Trump apre su Obamacare, potrebbe salvare alcune parti
Prima intervista dall’elezione al Wall Street Journal: “Dobbiamo unire il Paese”


Pubblicato il 11/11/2016
Ultima modifica il 12/11/2016 alle ore 08:45

L’Obamacare potrebbe sopravvivere in parte sotto la presidenza di Donald Trump. È lo stesso neopresidente ad affermarlo nella sua prima intervista dall’elezione rilasciata al Wall Street Journal.

Trump spiega come Barack Obama gli abbia chiesto di rinunciare alla totale abolizione della riforma sanitaria, e racconta di aver assicurato che valuterà i suggerimenti del presidente uscente.

«Dobbiamo unire il paese, voglio un paese unito», ha detto Trump. 

Rispondendo a una domanda sulla commissione d’inchiesta su Hillary Clinton promessa in campagna elettorale, Trump ha detto: «Non è in cima ai miei pensieri. Le mie priorità sono la sanità, i posti di lavoro, il controllo delle frontiere e la riforma delle tasse».

Poi il presidente eletto ha raccontato di aver parlato con i leader di molti Paesi o ricevuto da loro messaggi, tranne il presidente cinese Xi Jinping. Ha inoltre rivelato di aver ricevuto una «bellissima» lettera del presidente russo Vladimir Putin, con il quale, ha aggiunto, ha in programma una telefonata in tempi brevi

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/11/esteri/trump-apre-su-obamacare-potrebbe-salvare-alcune-parti-g0BEoDLFyid1W1CX9FRDLL/pagina.html
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