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5881  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EZIO MAURO. Giorgio Bocca, un provinciale con l'idea testarda di libertà inserito:: Dicembre 21, 2016, 06:39:02 pm
Giorgio Bocca, un provinciale con l'idea testarda di libertà

Il giorno di Natale di cinque anni fa moriva il giornalista che cambiò il modo di raccontare l'Italia

Di EZIO MAURO
21 dicembre 2016

QUANDO penso a Giorgio Bocca penso a un'idea testarda di libertà. Una formula che gli sarebbe piaciuta, ruvido e duro com'era, uguale alle sue montagne, così diverso dall'arci-italiano. Anti-italiano, era il titolo che si era scelto per la rubrica sull'Espresso. Voleva dire non accomodarsi nei vizi del nostro Paese, non accettare le facili letture del compromesso, non essere compiacenti, sapersi mettere di traverso al senso comune dominante quando diventa una zavorra per il Paese e non lo lascia crescere ed emanciparsi.

Avendo una bussola, sempre: quel poco o quel tanto di Resistenza alla dittatura che c'è stata nel nostro Paese, sufficiente tuttavia a rendere la libertà della democrazia almeno in parte riconquistata.

In questo Giorgio Bocca è stato un uomo coerente. Il giornalismo, a differenza della letteratura, del cinema o del teatro, è l'opposto di una struttura mimetica, è qualcosa di vivo che cambia sotto l'urto quotidiano della realtà che ti sorprende e scombina le certezze, le pigrizie, figuriamoci le rigidità ideologiche. È qualcosa che ti rivela per ciò che sei, se lo vivi come una passione dominante. Ecco: Giorgio ha creduto tutta la vita nella religione della realtà e quindi ha creduto nella ragione vera per cui si fa questo mestiere: andare, guardare, cercare di capire e raccontare. In Giorgio c'era la capacità di elaborare la memoria portando i ricordi a sbattere contro l'oggi e rendendo così in qualche modo "letterario" il contemporaneo. Aveva una fortissima fame di conoscenza. "A volte - dice nei suoi libri - sono stupito dell'aggressività e della vitalità che c'è in certi miei articoli". È questa fame di esperienza che spiega come per lui giornalismo fosse semplicemente un'espressione di vita. E poi naturalmente in tutto questo c'era qualcosa di più: la fisicità nel modo di fare il suo mestiere, il carattere, la natura, il mettersi in gioco. Tutto ciò che spiega il segno che ha lasciato nel nostro giornalismo.

In questo c'era anche il suo essere piemontese. Anzi, direi il piemontesismo come condizione condizionante, cioè sapere di essere soggetto a quella condizione e volontariamente accettare di esserne segnato, di farsi marchiare nell'anima. Solo così si spiega il rapporto molto complesso di Bocca con Torino. Che per Giorgio era la capitale quando partiva da Cuneo in treno da ragazzo con quattro o cinque amici: andavano prima al Valentino, poi alla Standa a vedere le ragazze, quindi nei casini di via Conte Verde e infine la sera al Caffè Concerto del Lagrange, "a mangiare dieci tramezzini e a pagarne uno". Per poi risalire sui treni della notte e tornare a casa.
Torino era la grande capitale da scoprire ma allora per lui era anche una città straniera. Quando Bocca vi arriva da partigiano è come se posasse il fucile e prendesse la penna, e infatti il disegno di copertina di Vita di giornalista (uno dei libri più veri, scritto con Walter Tobagi) ritrae Bocca con in spalla un fucile che al posto della baionetta ha una stilografica. Italo Pietra, suo direttore al Giorno ed ex partigiano come lui, in qualche modo evoca quella penna armata, quando gli assegna un'inchiesta con un'unica raccomandazione, quella che ogni giornalista vorrebbe sentire: "Mi raccomando, sparagli dentro".

Ma prima, quando Bocca arriva a Torino, si ritrova in un giornale monarchico, la Gazzetta del Popolo. Il direttore Massimo Caputo non sopporta quella sua fortissima identità di partigiano, né tollera le fughe di Bocca dagli stanzoni di corso Valdocco per andare nei bordelli di via Massimo, l'urgenza di vita che lo spinge fuori dal mondo troppo regolato della redazione dove si sente estraneo, osservato speciale. C'è una scena che spiega il tutto. La sera Bocca "chiudeva" le pagine delle province. Il direttore arrivava, il tipografo bagnava la bozza poi la stendeva, la inchiostrava, la ristendeva e gliela mostrava. Il direttore cercava l'errore con la penna in mano e la cerchia dei colleghi tutta attorno si apriva quando diceva: "Chi è quel coglione che ha fatto questo sbaglio?". Rimaneva soltanto Bocca laggiù in fondo a sentirsi apostrofare: "Eccolo, certo, lo sapevo che era lui".

Ma anni dopo Bocca riconoscerà che gli articoli più belli li ha scritti quando i suoi giornali - il Giorno, L'Europeo, Repubblica - lo mandavano a Torino, perché gli bastava entrare per un minuto in quel mondo, sentire una frase, cogliere un gesto o un modo di muoversi, camminare in quelle strade, passare in una di quelle osterie con i nomi di animale, per ritrovarsi immediatamente nella pelle della città, capirla fino in fondo: "È proprio per questo, proprio perché la conosco così bene e mi sento suo figlio - confidava - che preferisco vivere altrove".

Bocca deve andare via da Torino: Milano riscoprirà il suo vero talento, Milano paradossalmente si farà conquistare molto più facilmente. Sono gli anni del "boom", gli anni dove tutto sembra più semplice, il Giorno è un giornale che punta sulla modernizzazione del Paese, incrocio perfetto. Bocca scommette su quella borghesia produttiva che si vede intorno a Milano, crede che possa essere una molla di innovazione, il perno di un establishment capace di proseguire la sfida intellettuale di Giustizia e libertà: credere in una europeizzazione dell'Italia che la riscatti dai vizi eterni del suo passato.

Rimarrà deluso. "Non c'è onestà - dirà - oggi in Italia c'è soltanto un insieme di network che si garantiscono tra di loro. Manca il sentimento di una responsabilità nazionale che sappia coniugare gli interessi particolari legittimi con gli interessi nazionali del Paese". Sono gli anni passati sotto l'ala protettrice di Camilla Cederna da una parte, di Krizia dall'altra, gli anni dell'amicizia con Emilio Radius e quella straordinaria con Giuseppe Trevisani, il grafico visionario che disegnerà il Giorno.
È un sodalizio diverso da quello con gli amici di Torino che vivevano in otto in una stanza. A Torino, racconterà, "eravamo ancora una sorta di teppisti e di intellettuali insieme". Era amico di Ossola e di Gabetto giocatori del Torino, di Raf Vallone dalle tre vite (giornalista, calciatore, attore), di Calvino, Gatto, Pecchioli. A Milano invece entrerà dentro i salotti e si sentirà improvvisamente ricco: guadagnava un milione al mese quando la Millecento costava altrettanto, un pranzo costava duemila lire e una bottiglia di Barolo ne costava 300. "Ho speso pochissimo in donne, molto in pranzi, moltissimo in libri", ha raccontato svelando la costruzione feroce dell'autodidatta affamato di vita e conoscenza, cioè di giornalismo.

Una volta sul terrazzo di casa sua, alla fine del pranzo fece un gesto con la mano: "Guarda, tutto quello che vedo adesso è questo. Tutto qui". Guardai, c'erano solo tetti e antenne e mentre lo diceva io pensavo a quelle altre antenne, quelle del giornalismo, che dovevano essere straordinarie se riuscivano a mettere in comunicazione quel poco di visibile con l'invisibile, col resto del mondo, con la vita degli altri che si combinava con la vita di Giorgio e gli dava la possibilità ancora di interpretare il tutto, di spiegarlo, almeno di raccontarlo. Dovevano essere gli strumenti di lavoro inesausti del provinciale, di chi sa che padroneggia solo una porzione limitata di spazio e di esperienza ma sa anche che intorno c'è sempre un orizzonte più ampio, qualcosa da conoscere e da conquistare.

Poi c'è un momento dello spazio e della vita, immagino, in cui ti interroghi sulla conclusione, ed è quando l'orizzonte si curva avvicinandosi, quando il mondo si è svelato, quando il viaggio sta finendo. E immagino Bocca, a quel punto, farsi la domanda suprema, che ha nascosto nelle pagine finali del suo libro più bello: cosa resta da capire? Dietro quella domanda c'è il dubbio supremo sulla fine della conoscenza, sull'esaurimento del giornalismo, in un'epoca in cui tutto appare definitivamente rivelato, il mondo è finalmente davvero piatto, ogni cosa è prevedibile dunque è già stata prevista e qualcuno l'ha raccontata: dunque non c'è più bisogno di fare domande perché basta riscuotere le risposte. Un testa e coda della conoscenza, un'apocalisse del giornalismo. Ma Bocca dopo quella domanda è andato avanti altri 30 anni a scrivere: il giornalismo non finisce mai perché fa parte della realtà e non della sua rappresentazione, e proprio Giorgio lo ha testimoniato, cercando nei suoi articoli quel che bisogna sapere, quel che merita ricordare, ciò che resta da capire.

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/12/21/news/giorgio_bocca-154560949/?ref=HRER2-1
5882  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Rudy Francesco CALVO. - inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:43:42 pm
Focus
Rudy Francesco Calvo    - @rudyfc
· 19 dicembre 2016

Come (e perché) può cambiare il Mattarellum
Legge elettorale   

I numeri per approvare la nuova legge ci sono anche senza FI, ma un’intesa con Berlusconi renderebbe più semplice il cammino della riforma. Ecco le condizioni che l’ex Cavaliere potrebbe porre

Dunque, si riparte dal “via”. Da quel Mattarellum che rimane ancora l’unica legge elettorale applicata nel nostro Paese riconosciuta come funzionante e al di sopra di qualsiasi sospetto di incostituzionalità. Anche ammesso che si riesca a trovare un’intesa in Parlamento, però, difficilmente la nuova versione della legge ricalcherà in tutto e per tutto quella originaria che porta il nome dell’attuale Capo dello Stato.

Il perché è semplice e riguarda gli attuali equilibri tra i partiti, le coalizioni che si andrebbero a formare e, soprattutto, l’assetto tripolare assolutamente inedito, distante anche da quello che inaugurò il Mattarellum 1.0 nell’ormai lontano 1994: allora, infatti, il terzo polo centrista aveva dimensioni elettorali ben più ridotte del M5S, che oggi si confronta ad armi pari con i principali contendenti di centrosinistra e centrodestra.

Chi ci sta
A rispondere positivamente alla proposta avanzata da Matteo Renzi ieri all’Assemblea nazionale del Pd sono stati sin da subito Lega (“Disposti a presentarlo anche insieme al Pd”, ha confermato oggi Salvini) e Fratelli d’Italia. A questi si sono aggiunti i Conservatori e riformisti di Raffaele Fitto e l’ala di Forza Italia più dialogante con Salvini, rappresentata da Giovanni Toti.

Chi non ci sta
Contro l’ipotesi di un ritorno al Mattarellum, si sono schierati invece i Cinquestelle (che pure avevano avanzato tempo fa un’analoga proposta), ma anche Area popolare e la nascente Sinistra italiana. Se l’opposizione pregiudiziale dei primi era intuibile, centristi e vendoliani spingono per un sistema proporzionale, l’unico che sarebbe in grado di garantire loro una congrua presenza parlamentare anche nella prossima legislatura. E che non li metterebbe di fronte alla difficile condizione di dover concordare un’alleanza predefinita prima del voto.

L’incognita
Cosa farà Berlusconi? Se è vero che i numeri in Parlamento per approvare la nuova legge ci sarebbero anche senza FI, è evidente che un’intesa con quello che rimane ancora il leader del centrodestra rafforzerebbe la proposta di riforma, rendendone più semplice e rapida l’approvazione. Inoltre, lo stesso Berlusconi tornerebbe ad affermare la propria centralità all’interno del partito e della coalizione, mettendosi di traverso rispetto all’ascesa di Salvini.

I correttivi
D’altra parte, però, l’ex Cavaliere è costretto a fare i conti con un quadro politico molto diverso rispetto a quello che lo portò per due volte a vincere le elezioni, proprio con il Mattarellum. Se i collegi uninominali non sono mai piaciuti a FI, per la conclamata difficoltà a trovare candidature competitive sui territori, oggi rischiano di trasformarsi in una débacle: al Nord le candidature nei collegi sarebbero monopolizzate dalla Lega (e una rottura con Salvini certo non aumenterebbero le chance di successo dei nomi forzisti), mentre al Centro e al Sud la competizione rispettivamente con Pd e M5S rischia di lasciare poco spazio al centrodestra.

Per questo, Berlusconi – nel caso in cui decidesse di sedersi al tavolo della trattativa – punterà a un ampliamento della quota proporzionale, che nel Mattarellum originario era solo del 25%, fino al 40-50%. In quel caso, infatti, Forza Italia potrebbe valorizzare i propri voti di lista (per quanto residuali rispetto ai tempi d’oro) e riuscire così a formare un gruppo parlamentare in grado di garantirle un ruolo d’interdizione anche nella prossima legislatura (e fedele al leader, grazie alle liste bloccate). Soprattutto nel caso in cui dalle urne non dovesse uscire una maggioranza autosufficiente.

Per lo stesso motivo, Berlusconi farebbe fatica ad accettare i ‘premietti’ previsti nella proposta della minoranza dem (90 seggi alla prima lista/coalizione, 30 alla seconda). È vero che un centrodestra unito potrebbe riuscire a strappare il ‘premio di consolazione’ al M5S, ma potrebbe essere una vittoria di Pirro se il Pd/centrosinistra riuscisse ad agguantare i 90 seggi in grado di garantire la formazione di un governo autonomo. E inoltre – condizione imprescindibile – il centrodestra riuscirà a presentarsi unito da Alfano a Salvini?

La trattativa potrebbe trovare qui un nodo complicato da sciogliere, se Renzi – com’è possibile – dovesse insistere per una norma che garantisca la governabilità dopo il voto, possibilmente senza passare da una grande coalizione. Bisognerà quindi agire di cesello per limare probabilmente al rialzo la quota dei seggi da assegnare con il proporzionale (più vicina al 50% che al 40%) e al ribasso quella del premio per il vincitore. Dettagli, certo. Ma spesso le discussioni sulle leggi elettorali si sono arenate proprio sui dettagli.

A spazzare via ogni perplessità può essere solo la volontà politica di andare al voto prima possibile. Che Renzi ha e Berlusconi no. Questo, a oggi, è il vero discrimine per la realizzazione di un nuovo ‘patto del Nazareno’, con effetti limitati alla sola nuova legge elettorale.

Da - http://www.unita.tv/focus/renzi-berlusconi-mattarellum-legge-elettorale/
5883  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Natalia Lombardo - La minoranza dem fa i conti: con Renzi meno della metà inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:42:04 pm
Natalia Lombardo   
· 20 dicembre 2016

La minoranza dem fa i conti: con Renzi meno della metà

Senza la proposta di Renzi sul Mattarellum i bersaniani avrebbero votato contro la relazione del segretario

Se Matteo Renzi non avesse gettato nella platea dell’Ergife (e più ancora con le altre forze politiche) la carta del Mattarellum parte della minoranza dem avrebbe “votato contro” la relazione del segretario, invece di non partecipare al voto. Su quella autocritica che i bersaniani sospettano sia “un testacoda” piuttosto che una sofferta analisi della sconfitta a cui seguono delle proposte.

Tant’è che ieri Roberto Speranza, sfidante di Renzi al congresso che (per ora) non c’è, osserva l’assenza di “una parola” sulla scuola o sul lavoro. Anzi, ci sono le parole del ministro Poletti, che da una parte apre sulla modifica al sistema voucher, dall’altra difende il jobs act. E scoppia il caso sulla “gaffe” del ministro riguardo ai giovani che andando all’estero e “si tolgono dai piedi”. Le scuse di Poletti non hanno fermato la polemica.

Comunque Sinistra Riformista, la componente capeggiata da Speranza, riparte proprio dal sistema elettorale che porta il nome del Capo dello Stato, con il Mattarellum 2.0 già presentato alla Camera e al Senato. Quella contraddizione che Roberto Giachetti ha smascherato in modo non proprio elegante, ma “di pancia”. La sua, all’epoca, era vuota per lo sciopero della fame in difesa del sistema elettorale. Lo schiaffo politicamente scorretto del vicepresidente della Camera, però, ha riaperto le distanze fra la minoranza, non solo offesa dal paragone di Giachetti, ma anche indignata dagli “imbarazzanti risolini alla presidenza”, dagli “applausi in platea, più da curva da stadio che da assemblea nazionale”, commenta il deputato bersaniano Nico Stumpo. Sono usciti dalla sala dell’Ergife, non hanno partecipato al voto.

Ma ieri hanno fatto due conti sulla forza attuale di Matteo Renzi nel partito. 418 voti a favore della relazione non sono moltissimi, in effetti, su 1000 delegati, più “i 150, 180 membri di diritto” tra amministratori locali e ruoli di governo. I bersaniani partono dall’assetto dell’assemblea Pd nel corso della metamorfosi renziana, constatando che “non c’è più un unanimismo ferreo”.

Se Cuperlo aveva una “fetta” di 180 delegati circa e Pippo Civati 140, la minoranza non renziana aveva la forza di circa 300 delegati, un terzo dell’assemblea. A questo numero però bisogna “sottrarre” i ‘Giovani turchi’ di Orfini e Orlando e l’area del ministro Martina ormai nella maggioranza, quindi nelle truppe bersaniane restano tra i 200 e i 230 delegati. Il leader parte da “un sostegno di circa 950 delegati, invece ha votato a favore della relazione meno della metà”, osservano con celata soddisfazione.

Con scetticismo, invece, da Sinistra Riformista si aspettano le novità nella segreteria che si riunisce domani, dopo due anni, ma già la voce di Fassino agli Esteri fa storcere il naso: “Sarebbe andato bene trent’anni fa”, è il commento. Certo Roberto Speranza si è candidato al congresso un attimo prima che Renzi glielo sfilasse, anticipando invece delle primarie come candidato premier, sempre che il timing dei desideri di Matteo si realizzi. Speranza però vuol ripartire dal territorio con il giro per l’Italia (Monfalcone, prima tappa), ricostruire il contatto e anche “la comunità” democratica, ormai strappata da correnti e leaderismi. Un’occasione potrebbe essere la conferenza programmatica appoggiata anche da Guglielmo Epifani se “parte dal basso”.

Intanto il ministro Orlando, “giovane turco” ha detto che non si candiderà per la segreteria Pd. E nutre dubbi sul Mattarellum: “Rifletterei, in un sistema tripolare rischia di avere controindicazioni”, ha detto ieri a Zapping su Radio Rai1. Ma sulla legge elettorale, se Renzi riuscisse a mettere attorno al tavolo le altre forze politiche, la minoranza dem vorrebbe esserci perché, sempre per dirla con Epifani, “bisogna cercare un compromesso con gli altri partiti, a maggior ragione troviamolo dentro al partito”.

Gianni Cuperlo, che sembrava essere rimasto in un limbo con la firma al testo della commissione Guerini per cambiare l’Italicum, ora sembra invece il più mobile, nella minoranza, guardando a sinistra con Giuliano Pisapia. La proposta dell’ex sindaco convince poco i bersaniani, che non accettano “il trait d’union tra i buoni, i renziani, e i cattivi”. Loro. Nell’area dem che ha sostenuto il No al referendum serpeggia una certa sindrome da isolamento (nel partito, perché all’esterno dicono che sia “cresciuta la credibilità” di Bersani, Speranza e degli altri).

Di sicuro non pensano che avranno un posto in segreteria, né si mostrano interessati, ma si sentono un po’ “dimenticati” dal nuovo capo del governo: “Da Gentiloni neppure una telefonata alla minoranza, la richiesta di un parere… Non si è fatto vivo, ha cominciato senza consultare una parte del partito”.

Da - http://www.unita.tv/focus/la-minoranza-dem-fa-i-conti-con-renzi-meno-della-meta/
5884  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Fabrizio RONDOLINO Cosa vuol dire ripartire dal Mattarellum Terza Repubblica. inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:40:23 pm
Focus
Fabrizio Rondolino   @frondolino
· 19 dicembre 2016

Cosa vuol dire ripartire dal Mattarellum
Terza Repubblica   

Aprendo al Mattarellum, Renzi ha aperto anche alla possibilità (non per forza alla necessità) di una coalizione

Il cuore politico della relazione di Matteo Renzi all’Assemblea nazionale del Pd è la proposta di tornare al Mattarellum. Che il partito di maggioranza relativa, nonché primo azionista del governo, scelga con nettezza un sistema elettorale maggioritario non è probabilmente una novità – il Pd, almeno formalmente, non si è mai detto disponibile ad una legge elettorale proporzionale –, ma di certo segna una svolta importante nel dibattito politico, mette un punto fermo, circoscrive l’ambito della discussione e delle scelte.

Il Pd nasce dentro il maggioritario, e anzi ne è l’espressione politica più compiuta: nelle intenzioni dei suoi fondatori – Veltroni, naturalmente: ma si potrebbero senz’altro aggiungere Arturo Parisi e Romano Prodi – il Pd rappresenta infatti il compiuto adeguamento organizzativo e politico della sinistra riformista, fino al 2008 divisa in due o più partiti, al bipolarismo introdotto per la prima volta nella Seconda repubblica proprio dal Mattarellum.
E’ dunque significativo che Renzi, nel tratteggiare ieri la strategia del Pd post-referendum, si sia esplicitamente ricongiunto alla cultura politica che di quel partito ha segnato la nascita e la crescita.

Scegliere di difendere il maggioritario, mentre sempre più impetuosi soffiano i venti della restaurazione proporzionale, significa difendere il meglio della storia politica di questo ventennio, e cioè la possibilità per gli elettori non soltanto di scegliere direttamente una coalizione, un leader e un programma di governo, ma anche di poterne scegliere un’altra la volta successiva. Governabilità e alternanza sono i due pilastri di una democrazia efficiente e responsabile.

Riproporre il Mattarellum ha indubbi vantaggi tattici, oltreché la valenza strategica appena ricordata: si può fare molto in fretta (è sufficiente un disegno di legge composto di un solo articolo, che non necessita di emendamenti né di ulteriore lavoro parlamentare), è una legge già applicata con sostanziale successo nel corso di tre consultazioni tra il 1994 e il 2001, non può essere tacciata da nessuno di incostituzionalità, e come se non bastasse porta l’autorevole nome del Presidente della Repubblica in carica.

C’è poi qualcosa in più che merita di essere sottolineato. Aprendo al Mattarellum, Renzi ha aperto anche alla possibilità (non per forza alla necessità) di una coalizione, implicitamente ammettendo ciò che alcuni osservatori, non necessariamente critici, avevano già osservato: e cioè che il Pd, per quanto grande e articolato possa essere o diventare, difficilmente riuscirebbe nel contesto attuale a raccogliere un consenso sufficientemente ampio per governare con tranquillità.
Ma non è detto che ciò che è semplice, lineare e facile da fare diventi poi realtà. La prima incognita riguarda la maggioranza di governo: la preferenza della galassia centrista per il proporzionale è nota, e senza un’assicurazione sulle alleanze è difficile che Alfano accetti una legge elettorale che lo lascerebbe fuori dal Parlamento. Non è però scontato che il Pd accetti un’alleanza organica, o anche solo una desistenza elettorale, con Ncd e gli altri gruppi centristi.
La seconda incognita chiama in causa Silvio Berlusconi. Mentre Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono subito detti a favore del Mattarellum – “purché si voti subito” –, da Forza Italia per ora è arrivato il no secco di Maurizio Gasparri. Che cosa dirà il Cavaliere? Dopo essere stato il campione riconosciuto del maggioritario, Berlusconi si è recentemente convertito al proporzionale, più che altro perché reputa assai difficile, allo stato, tornare a guidare una coalizione di centrodestra e preferisce dunque correre da solo. Vedremo.
Quel che appare certo, è che se non ci fosse un accordo sul Mattarellum sarebbe assai difficile per questo Parlamento licenziare un’altra legge elettorale condivisa. Si andrebbe dunque al voto con un doppio Consultellum: quello già formalmente in vigore per il Senato, e quello che la Consulta ritaglierà per la Camera con la sentenza di fine gennaio sull’Italicum. L’inerzia, soprattutto nella politica italiana, ha una sua indiscutibile forza. Tocca oggi al Pd dimostrare che non sempre è così.

Da - http://www.unita.tv/focus/cosa-vuol-dire-ripartire-dal-mattarellum/
5885  Forum Pubblico / Le tesi dell'Ulivo oggi solo una Corona Olimpica? / Quegli abbracci, quei brindisi dopo la vittoria del No hanno mancato di rispetto inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:38:39 pm
   Opinioni
Francesca Pontani   @francescapontan
· 16 dicembre 2016

E ora chiedeteci scusa

Quegli abbracci e quei brindisi dopo la vittoria del No hanno mancato di rispetto ai migliaia di militanti Pd che si sono impegnati nella campagna referendaria


Caro compagno Massimo, Pierluigi, Roberto e cari rappresentati della minoranza Dem, mi rivolgo a voi con quel senso di smarrimento e di rabbia che è tipico di chi, svegliatosi improvvisamente da un lungo incubo notturno, non riesca a capacitarsi che la realtà possa essere ancora più brutta.

Pochi mesi fa scrissi una lettera accorata che poi fu pubblicata da Unità on line e ripresa parecchie volte da altri compagni e compagne nei vari social. Verso la fine la lettera declinava cosi: “Sono qui come semplice iscritta a chiedere al mio Partito, al mio Segretario ed al mio Presidente di inserire una nuova parola nello statuto del Pd: armonia. Perché se questo concetto entrerà nel nostro Statuto porterà equilibrio, bellezza e verità nella mia casa, nella nostra casa e si potrà ricominciare a sperare e a lavorare insieme per l’Italia.”

Mancava ancora qualche mese alla data del referendum e sinceramente speravo (ed ho sperato fino alle ultime settimane) che la situazione all’interno del Partito si calmasse e si tornasse a quel livello di discussione democratica tipico di un partito maggioritario ed adulto.

Così non è stato. Sono stati mesi molto pesanti, intensi e emozionanti per noi ‘peones ‘ della politica, quelli che la fanno per un ideale, senza rimborsi, vitalizi, diritti acquisiti, popolarità televisiva. I peones, quelli che si alzavano la mattina presto per andare nei mercati, davanti alla posta, davanti ai supermercati ed alle stazioni per difendere e diffondere una riforma voluta e votata da tutti noi e da tutti voi (e ripeto tutti). Siamo stati interi sabati e domeniche (in giorni liberi dal lavoro) a stare ore ed ore ai gazebo per incontrare la gente, discutere con le persone, cercando di convincerle a seguire e capire i contenuti di questa riforma, che perfetta non sarà stata, ma era almeno un punto di partenza importante per ricominciare a sperare in un Paese più moderno ed allineato con le altre società politiche.

Non slogan, non battute, non tweet ma contenuti. La dove i nostri avversari arrancavano veramente, i contenuti. Sono state giornate lunghe ma anche appassionanti, passate a studiare, a farsi raccontare da costituzionalisti e politici del Pd questa riforma nei minimi particolari per essere pronti a rispondere alle bufale che si sono sparse velocemente per la rete e per le strade.

Noi del Comitato di Monza per il Sì abbiamo cominciato a scendere in strada presto, già da metà giugno, col caldo, la stanchezza di un anno sulle spalle, la consapevolezza della dura e lunga battaglia che ci aspettava. Piano piano il nostro gruppo si è sempre più infoltito e, se le prime volte eravamo pochi a gazebo ed alle riunioni serali di coordinamento, in seguito siamo diventati un gruppo sempre più folto ed eterogeneo.

Non eravamo solo vecchi come ha detto D’Alema, ma giovani, donne, pensionati, manager, sindacalisti, casalinghe, insegnanti. Non eravamo UFO. Non siamo i vostri avversari… Eravamo il vostro popolo, la base del Pd, i vostri elettori, quelli che vi hanno delegato democraticamente a rappresentarci in Parlamento e nel Governo.

Quelli che ad ogni vostra dichiarazione alla stampa piena di veleno a scuotevano la testa pensando: “Vedrai a breve ci ripenseranno e torneranno a lottare con noi”. Quelli che assistendo a trasmissioni televisive dove il No più grande era urlato da chi aveva in tasca la tessera del nostro stesso partito. Del nostro stesso passato politico.

Non siamo UFO, né fascisti né fautori de derive autoritarie. Non siamo distruttori di democrazia e di Costituzioni ma gente che ha creduto in quel che il proprio Partito aveva pensato, progettato, condotto, approvato. Siamo la base del Pd, quella che ha votato compatta per una percentuale altissima quel si sulla scheda elettorale.

Ma siamo quelli del Partito Democratico, quelli che sanno che la discussione interna è importante, quelli che sono tornati magari dopo tempo a fare politica attiva anche per voi, a riportare la gente alle urne, a scontrarsi coi compagni dell’ANPI, magari con quella tessera in tasca che bruciava un po’…

Sinceramente ho cercato di perdonarvi ogni cosa, ogni cattiveria, ogni stillicidio, ogni malumore. Poi è arrivato quel brindisi. Quei sorrisi. Quegli abbracci.

E penso solo una cosa. Da giorni.

Chiedeteci scusa.

Chiedete scusa alle nostre famiglie, ai nostri figli, alle nostre amicizie, agli esami universitari non dati, al lavoro un po’ trascurato, agli affetti dimenticati …

Da - http://www.unita.tv/opinioni/referendum-minoranza-dem-assemblea-pd/
5886  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Sergio STAINO. Trovare le parole giuste inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:36:12 pm
Opinioni
Sergio Staino   @SergioStaino
· 17 dicembre 2016

Trovare le parole giuste
Meglio trovare le parole giuste e vere per scusartene e guadagnarti un tuo condizionale voto di fiducia. Io voterei sì.

Cara Valeria Fedeli, tu sai, e comunque te lo ripeto qui, che ho per te una forte stima e una altrettanto forte amicizia. Stima e amicizia sono cresciute lungo la tua attività di sindacalista tessile e le circostanze, a volte drammatiche, che ti avevano portata nella Toscana di Prato e di Firenze, e poi la tua attività parlamentare, eletta in Toscana.

Ho imparato dalla limpidezza risoluta con cui hai ricostruito, da vicepresidente del Senato, la storia del faticoso riconoscimento dei diritti delle donne e ti sei impegnata a farlo avanzare, oltre che nelle istituzioni, nella vita quotidiana del lavoro e delle famiglie e soprattutto dell’educazione. Questo fervido impegno basta a spiegare la speciale malevolenza che la tua nomina nel governo ha eccitato in alcuni esponenti della vanità integralista.

Dunque ho accolto, non dirò con scandalo, ma con desolazione la sciocchezza del tuo curriculum. Io, con le mie vignette e le mie conversazioni a tavola, non faccio altro che raccontare la mia vita, però non mi è mai capitato di compilare un curriculum. Se l’avessi fatto non so se mi sarei ricordato di citare la mia laurea in architettura, episodio del tutto marginale delle mie carriere.

A desso, non so per quanto, sono diventato direttore della gloriosa testata di cui ero antico vignettista, dunque tutto può succedere. Magari avrei potuto diventare ministro dell’istruzione pubblica, come Benedetto Croce, che fu il più influente intellettuale italiano e fu ministro della pubblica istruzione senza aver mai preso la laurea, almeno così mi ha detto gente assai ben informata.

La debolezza che ti ha indotto a ritoccare titoli di studio fa molta tenerezza, tanto è assurda e senza proporzione con le tue capacità e i tuoi meriti. Per me, ad esempio, sei stata la più bella delle nuove aggiunte fatte al Governo ed ero ve r a m e n te incuriosito e felice di vedere come una con la tua storia e il tuo solidale entusiasmo, se la sarebbe cavata in un ministero così complicato e zeppo di tensioni di ogni tipo.

Penso che i miei nipotini si sarebbero trovati molto bene in una scuola italiana al cui vertice ci fossi stata tu. Sono sicuro che avrebbero acquisito conoscenze utili e, soprattutto, valori etici oggi così tragicamente sbiaditi. Forse la logica della politica richiederà le tue dimissioni perché questa piccola bugia sarà utilizzata a lungo per attaccarti, umanamente e politicamente, ed io non so proprio cosa consigliarti di fare.

Lasciare, forse, sarebbe la cosa più facile. Oppure meglio trovare le parole giuste e vere per scusartene e guadagnarti un tuo condizionale voto di fiducia. Io voterei sì.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/trovare-le-parole-giuste/
5887  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Torna Renzi e accelera, scelta del premier e elezioni presto inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:32:19 pm
   Focus
Mario Lavia    @mariolavia
· 17 dicembre 2016

Torna Renzi e accelera, scelta del premier e elezioni presto
Domani l’Assemblea Nazionale dalle 10

La situazione italiana è su un crinale molto pericoloso, misto di debolezza della politica e grande ansia nella società: bisogna in un certo senso ricominciare a costruire un progetto all’altezza della situazione. Per questo occorre che il popolo decida, con nuove elezioni, quale sia il progetto migliore. Quello del Pd sarà in campo: è in questo quadro che Matteo Renzi torna a candidarsi per la guida del Paese.

Da Pontassieve, dove Renzi si è rintanato in questi giorni, continua a filtrare pochissimo. Ma siamo in grado di anticipare che domani alla Assemblea Nazionale del Pd (a Roma, hotel Ergife, dalle 10, diretta streaming su Unità.tv), Renzi in estrema sintesi proporrà questa analisi e questa semplice road map: primarie del centrosinistra e poi elezioni politiche. Il tutto in primavera. E preceduto, per quello che riguarda il Pd, da un’ampia discussione a tutti i livelli, con lui stesso segretario: il Congresso che dovrà confermarlo o sostituirlo si terrà dopo le elezioni. Non è ad un resa dei conti interna che Renzi punta quanto a una “sfida finale” con un Movimento Cinque Stelle sfibrato dalla vicenda romana e una destra contraddittoria ma egemonizzata dal populismo della Lega.

Il clima della riunione di domani sarà inevitabilmente segnato dalla contrapposizione fra Renzi e la minoranza, a sua volta alle prese con un’indicazione chiara sul da farsi (prima voleva il Congresso subito, poi ha cambiato posizione, oggi ha lanciato Speranza come avversario dell’attuale segretario ma non come unico nome): ed è possibile che anche altre aree del partito spingano per un Congresso subito.

Ma in realtà il punto vero di dissenso con Renzi è la data delle elezioni. Non è detto, anzi, che esponenti di correnti diverse come AreaDem o Giovani Turchi non si spendano per un proseguimento della legislatura a dopo l’estate con un governo Gentiloni che vede ammonticchiarsi sul suo tavolo sempre nuovi dossier.

Senza contare che i bersaniani non solo insisteranno per il Congresso in vista del quale Renzi dovrebbe dimettersi ma premeranno perché si celebri il referendum della Cgil sul Jobs act, secondo round della partita tesa a demolire le politiche del governo Renzi.

Dal segretario del Pd si attendono naturalmente la lettura sulla grande sconfitta del 4 dicembre – e l’autocritica Renzi l’ha fatta sin dalla sera del referendum – e forse anche indicazioni sulla vita interna di un partito che sotto molti aspetti ha bisogno di nuove cure.

Da - http://www.unita.tv/focus/torna-renzi-e-accelera-scelta-del-premier-e-elezioni-presto/
5888  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / MATTEO RENZI al lavoro sulla nuova squadra. Priorità: dialogo e ... inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:31:07 pm
Focus
Rudy Francesco Calvo      @rudyfc
· 19 dicembre 2016

Renzi al lavoro sulla nuova squadra.
Priorità: dialogo e apertura alla società



Il segretario torna a dedicarsi a tempo pieno al partito, con in testa la road map che dovrà condurre il Pd a primarie di coalizione e al voto in primavera

Una segreteria del tutto nuova o solo poche sostituzioni chirurgiche per rilanciare l’attività del partito. È questo il primo dubbio sul quale Matteo Renzi sta riflettendo nelle sue ritrovate vesti di segretario del Pd a tempo pieno. La seconda soluzione sarebbe quella più semplice, attuabile in tempi rapidi. La tentazione di un azzeramento è però molto forte nel leader dem, che darebbe così l’idea più netta di una svolta e coglierebbe l’occasione per valorizzare quelle nuove energie provenienti dal basso di cui ha parlato in assemblea, a cominciare dai sindaci. Da qui l’idea di escludere del tutto dalla nuova squadra i parlamentari in carica.

Certo, i tempi si allungherebbero, ma probabilmente non troppo. Anche perché Renzi ha promesso di dare il via, parallelamente alla campagna d’ascolto che occuperà il mese di gennaio, a una “struttura che sia in grado sul programma di fare un lavoro puntuale”. E sui giornali comincia già a girare qualche nome delle personalità che potrebbero essere coinvolte, come il ministro Maurizio Martina, Tommaso Nannicini (già sottosegretario a palazzo Chigi) o Piero Fassino. Ma è ancora presto per il totonomi.

Mercoledì intanto si riuniranno a Roma i segretari provinciali dem proprio per iniziare a impostare il lavoro dei successivi trenta giorni, che culmineranno con la mobilitazione nazionale preannunciata per il 21 gennaio. È il tentativo di aprire finalmente all’esterno quei circoli che finora sono stati in gran parte principalmente un luogo di scontro e di conta fra le correnti e quei potentati locali, con i quali Renzi ha promesso di voler chiudere una volta per tutte. Un primo passo, almeno. Perché se lo stesso Renzi (e Gianni Cuperlo dopo di lui) hanno ben evidenziato lo scollamento tra il gruppo dirigente nazionale (tutto, di maggioranza e minoranza) e la base di iscritti ed elettori del Pd, nessuno ha ancora avanzato proposte organiche per ricucire il rapporto tra il partito e la società, a cominciare proprio dai circoli. E un mese non potrà certo bastare, senza cambiare dirigenti, regole, abitudini ormai incancrenite.

L’allontanarsi del congresso sembra congelare però questa discussione. La road map che Renzi ha in mente per il medio termine è ben diversa e vede come sbocco le elezioni politiche da tenere – nelle sue intenzioni – non più tardi della prossima primavera. Ecco allora la proposta sulla legge elettorale da condurre in porto. Ed ecco l’intenzione – mai in realtà esplicitata – di svolgere le primarie per la scelta del candidato premier del nuovo centrosinistra che, se si voterà con un Mattarellum più o meno rimaneggiato, si presenterà sotto le stesse insegne nei collegi uninominali.

Non si tratta solo di un modo per riaffermare un principio di stampo maggioritario (“la sera del voto si sa chi governa”), mentre dopo l’esito del referendum in molti hanno cercato di riportare il Paese verso le secche del proporzionale. Allargare il confronto a tutto il centrosinistra è anche un modo per chiamare a raccolta quegli elettori che non sono intenzionati a votare Pd, ma che sono a pieno titolo coinvolti in un confronto tra due linee, che ormai vanno ben al di là dei confini del partito, ma che attraversano trasversalmente anche altre forze, a cominciare dalla nascente Sinistra italiana.

Da una parte, la maggioranza dem (renziani, ma anche AreaDem, Giovani turchi e Sinistra è cambiamento di Martina) e il ‘Campo progressista’ guidato da Giuliano Pisapia, riunito proprio oggi a Bologna per l’iniziativa ‘Per un nuovo centrosinistra’ con Cuperlo e i sindaci Merola e Zedda: sono queste le forze intenzionate a dialogare per ricucire i rapporti, con la possibilità di trovare anche qualche sponda sul fronte centrista. Dall’altra, la minoranza bersaniana del Pd e i vendoliani di Sel, che con l’ex premier sembrano ormai aver chiuso i rapporti. Non si capisce ancora con quali conseguenze sul piano politico e organizzativo.

La nuova segreteria del Pd rifletterà molto probabilmente anche questa divisione: in squadra saranno chiamate personalità in grado di gettare ponti, non di alzare muri, né dentro il partito né all’esterno. Programma, comunicazione, organizzazione: tutti i settori principali dovranno avere questa impronta.

Da - http://www.unita.tv/focus/renzi-pd-segreteria-elezioni-primarie-coalizione/
5889  Forum Pubblico / Le tesi dell'Ulivo oggi solo una Corona Olimpica? / Cos’è e come funziona il Mattarellum ... inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:29:11 pm

Cos’è e come funziona il Mattarellum
Matteo Renzi l’ha proposto all’assemblea del Pd. Nel 2013 lo volevano Giachetti, Sel e il Movimento 5 Stelle. Tre mesi fa la minoranza bersaniana.
Ma di che si tratta?

Pubblicato il 18/12/2016    Ultima modifica il 18/12/2016 alle ore 13:16
Francesco Zaffarano

Il Mattarellum è tornato di moda. Quando a proporre di ripristinarlo era stato Roberto Giachetti, che per portare avanti alla sua battaglia si era sottoposto a un estenuante sciopero della fame di pannelliana memoria, il Partito Democratico aveva nicchiato votando contro alla Camera. Unici sostenitori della proposta erano stati i deputati di Sel e del Movimento 5 Stelle. Oggi, invece, è Matteo Renzi a proporre il ritorno al sistema elettorale del 1993. È una scelta che raccoglie un’eredità importante, con cui Renzi ricolloca il suo progetto di Pd nel solco dell’Ulivo. A proporre negli ultimi giorni il ritorno al Mattarellum, infatti, era stata Sandra Zampa (deputata e vicepresidente del Pd), storica portavoce di Romano Prodi. E proprio Prodi è stato il primo beneficiario del Mattarellum, con cui è riuscito a battere Berlusconi nel 1996 e portare la sinistra unita al governo per la prima volta. Bisognerà vedere, adesso, se Movimento 5 Stelle e Sel continueranno a essere favorevoli al ritorno al Mattarellum (o, al posto loro, le diverse formazioni di centrodestra in Parlamento). Ma intanto, come funziona?

Il Mattarellum, in vigore tra il 1994 e il 2005, è un sistema misto, che alla Camera prevede l’elezione del 75% dei deputati con collegi uninominali (in ogni collegio ogni lista presenta un solo candidato per collegio e vince chi prende più voti) e il 25% con un sistema proporzionale. La soglia di sbarramento, per la parte proporzionale, è fissata al 4%. Il voto per la Camera viene espresso attraverso due schede, una per il voto nel collegio uninominale e una per il scegliere tra le liste bloccate che concorrono per il 25% di seggi assegnati su base proporzionale. A questi due meccanismi si aggiunge poi il cosiddetto scorporo dei voti, cioè un sistema per riequilibrare la distribuzione dei seggi che, per la parte uninominale, tende a svantaggiare i partiti più piccoli. Lo scorporo consiste nel sottrarre a una lista (nella parte proporzionale) i voti ottenuti dai candidati collegati alla stessa lista e già eletti nella parte uninominale. In questo modo, almeno nella parte proporzionale del Mattarellum, si dà più ossigeno ai partiti più piccoli, riducendo l’impatto di quelli più grossi già avvantaggiati con il sistema uninominale.

Per quanto riguarda il Senato, anche qui il Mattarellum si divide in un 75% maggioritario e un 25% proporzionale, con una sostanziale differenza per quest’ultimo. L’assegnazione dei seggi del Senato, a differenza della Camera, avviene su base regionale e con un sistema di ripescaggio dei migliori candidati bocciati alla prova dell’uninominale (anche qui premiando, quindi, i candidati minoritari).

Il Mattarellum 2.0 
Va notato che, oltre alla proposta Giachetti (bocciata in Aula nel 2013, ai tempi c’era il governo Letta) e a quella pressoché identica della Zampa, nei mesi scorsi era stata la minoranza del Pd a parlare di un Mattarellum 2.0 come alternativa all’Italicum. Si sarebbe trattato di riprendere la vecchia legge elettorale arricchendola di un premio di maggioranza di massimo 90 seggi. L’idea dei bersaniani era di scongiurare con questo premio di maggioranza lo stallo registrato nel 1994, quando Berlusconi non aveva abbastanza voti al Senato e aveva messo in piedi un governo con l’aiuto dei senatori a vita e l’uscita dall’Aula si un gruppo di senatori eletti con la Lista Segni. 

Problemi di ieri e di oggi 
Il fatto curioso è che nel 1994 il Mattarellum non funzionò come si sperava perché l’Italia del dopo Mani Pulite si trovava a confrontarsi con uno scenario politico inedito: il bipolarismo aveva ceduto il passo a un accenno di tripolarismo, diviso tra il centrodestra di Berlusconi, la sinistra di Occhetto e il centro di Segni. Oggi il tripolarismo, come noto, si è addirittura accentuato e, per quanto a destra la situazione sia fluida (per non dire confusa), la sfida non può esaurirsi a uno scontro diretto tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle (con l’Italicum, per dire, ci si sarebbe arrivati solo con il ballottaggio). Da questo punto di vista la proposta dei bersaniani avrebbe senso per permettere all’Italia di avere un Parlamento in grado di produrre una maggioranza il giorno dopo le elezioni. Del resto, come aveva rilevato alcuni mesi fa il professor Roberto D’Alimonte in una simulazione basata sui voti delle elezioni politiche del 2013 (quando il centrosinistra era al 29,5, il centrodestra al 29,1 e M5s al 25,5) e sui sondaggi degli ultimi mesi, il Mattarellum preso e applicato oggi rischierebbe di riportarci alla casella da cui siamo partiti tre anni fa: un Parlamento spaccato, M5S che non fa alleanze e una grossa coalizione Pd-Forza Italia per avere un governo.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/18/italia/politica/cos-e-come-funziona-il-mattarellum-storia-e-problemi-di-una-legge-elettorale-9H8vOqlxu0LnR8DGBLAkWK/pagina.html
5890  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino. Da FB ... Verso i 5stelle (Di Battista su Marra) inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:27:29 pm
Verso i 5stelle (Di Battista su Marra)

Questo "camminare insieme" può essere accettabile nel fare una passeggiata più o meno "romantica".

Non per avere la presunzione di gestire responsabilità politico-amministrative come salvatori della patria, senza avere la capacità e forse l'onestà di saperlo fare con successo.

Da FB del 18/12/2016
5891  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Gentiloni non seguirà il percorso segnato da Renzi inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:25:49 pm
Gentiloni non seguirà il percorso segnato da Renzi
L'attuale presidente del Consiglio ha dichiarato che il suo governo cesserà di esistere quando gli sarà stata tolta la fiducia. E chi può toglierla se non Matteo, e con quali esiti sulla campagna elettorale?

Di EUGENIO SCALFARI
18 dicembre 2016

PRIMA che l’incarico di formare un nuovo governo fosse conferito dal presidente della Repubblica a Paolo Gentiloni, io scrissi che Matteo Renzi avrebbe dovuto esser lui a proseguire. Il referendum sulla riforma costituzionale vinto dai No con una affluenza record non imponeva le dimissioni al governo in carica, potendo senz’altro continuare. Il presidente Sergio Mattarella fece infatti pressioni in questo senso proprio per consentire stabilità e governabilità fino alla fine della legislatura nel 2018. Scrissi anche che Renzi avrebbe dovuto trasformarsi da leader politico a statista, due dizioni profondamente diverse tra loro e scrissi anche che avrebbe dovuto tener presenti gli esempi di Camillo Benso conte di Cavour e di Garibaldi, di spirito rivoluzionario dotati.

Questi due esempi mi furono contestati da molti critici: come si poteva avvicinare a Renzi nomi come quei due, protagonisti del Risorgimento? Con critiche a mio avviso profondamente sbagliate: gli esempi del passato fanno parte del presente e di un passato culturale indispensabile alla politica. Non a caso Mazzini aveva studiato Marx e Cavour aveva letto con attenzione Machiavelli e Guicciardini. A me non dispiace affatto esser criticato e spesso lo merito, ma mi piace anche rispondere quando penso d’aver ragione.

Renzi comunque non accettò l’offerta del presidente della Repubblica. E propose a sua volta un governo presieduto da Gentiloni che avrebbe del resto seguito i suoi suggerimenti nella formazione del Ministero, il che in gran parte avvenne. Quanto a Renzi, si sarebbe dedicato al partito del quale è tuttora segretario. Un partito che nel voto referendario ha ricevuto il 40 per cento, una cifra importante e compatta, mentre i No non hanno un Capo che li guidi, in gran parte sono voti di grillini e di intellettuali e di giovani e di lavoratori disoccupati e animati da rabbia sociale. L’obiettivo di Renzi è di arrivare allo scioglimento delle Camere entro giugno senza più ballottaggio ma con un sistema proporzionale e premio di maggioranza. Naturalmente Gentiloni lo seguirà e ne avrà meritata ricompensa, così come l’avranno Boschi e Lotti. Gentiloni lo seguirà nell’attuazione di questo disegno? E Grillo sarà messo fuori causa dalle grane di questi giorni?

***

Gentiloni probabilmente non lo seguirà e tanto meno il presidente Mattarella che detesta di dover sciogliere le Camere molto prima della scadenza della legislatura. Del resto, su questo punto sono d’accordo il presidente del Senato, Pietro Grasso, la presidentessa della Camera Laura Boldrini, il presidente emerito Giorgio Napolitano e forse a titolo personale il presidente della Corte Costituzionale. Per quanto riguarda l’Europa, Renzi non gode più di buona stampa a Bruxelles. Questo non se lo merita. Per rafforzare l’Europa ha fatto molto, è stato l’aspetto più meritorio della sua politica, ma probabilmente è proprio questa la ragione della sua impopolarità a Bruxelles. Il rafforzamento dell’Europa disturba i nazionalismi degli stati confederati che non vogliono affatto la perdita del potere: il nazionalismo francese, quello spagnolo, quello olandese, quello belga, per non parlare della Germania ancora impigliata nelle elezioni politiche.

Purtroppo, a questa meritevole politica europea, Renzi non ha aggiunto purtroppo un’altrettanto meritevole politica economica e sociale in Italia. Del resto è proprio questa difettosa politica economica ad avere scatenato la rabbia sociale manifestata con i No referendari. Il 60 per cento degli italiani aveva questo in corpo contro il 40 per cento dei Sì, ma quel 40 non è affatto di Renzi. A guardar bene i voti renzisti si aggirano sul 25, massimo 30 per cento. E il Pd non è affatto compatto, la dissidenza interna è molto critica e non lo seguirà, D’Alema non lo seguirà, Franceschini non lo seguirà. Ed infine Gentiloni non lo seguirà. Non a caso, l’attuale presidente del Consiglio ha in varie sedi dichiarato che il suo governo cesserà di esistere quando gli sarà stata tolta la fiducia. E chi può toglierla se non Renzi? Con il suo 30 per cento? Si può tollerare questo sforzo? Con quali effetti sulla sua campagna elettorale?

L’esame di questa situazione ci fa pensare che Gentiloni porterà il suo governo fino al 2018 in pieno accordo con Mattarella. Poi si vedrà. Ci sono personalità di buon conio da sperimentare a sinistra, cominciando dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia e non è il solo. Caro Matteo, se avessi tenuto a mente Cavour e Garibaldi forse non saresti a questo punto. Mi rammarico per te e per l’Italia.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/18/news/gentiloni_non_seguira_il_percorso_segnato_da_renzi-154348075/?ref=HRER2-2
5892  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / D. QUIRICO - Nel deserto che alleva i jihadisti tra cercatori d’oro e Tuareg inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:24:53 pm
Nel deserto che alleva i jihadisti tra cercatori d’oro e Tuareg
Il viaggio del nostro inviato nelle montagne di Agadez, con la paura di essere venduto ai terroristi. La sua guida Assalan sedotta da Al Qaeda: «Mi fidavo, ora ho visto in lui l’ombra del radicalismo»
L’esercito vieta di andare sulle montagne fuori da Agadez (la seconda città del Niger): lì si rifugiano banditi e insorti

Pubblicato il 18/12/2016
Ultima modifica il 18/12/2016 alle ore 13:50
Domenico Quirico inviato nell’hair (Niger)

Perdonami Alassan, ma questa volta ho paura di te. Sì: ho paura che tu mi tradisca. Ti guardo. Abbiamo viaggiato un giorno intero nel deserto verso le nostra meta, le sfrangiature granitiche dell’Hair strette tra la sterminata sabbia del Ténéré e la frontiera algerina. Le montagne dell’Hair! Nido di tutte le mafie, sentiero di Al Qaeda, delle armi, della droga, dell’oro. Aperto solo ai jihadisti, ai trafficanti, ai cercatori disperati, ai Tuareg. Chiuso agli occidentali da almeno dieci anni. Muto, veloce prepari il tuo fornello di sterpi secchi, soffi sulla brace, riempi il bollitore. Sei tranquillo, come sempre, preso nel gioco di quando sei nel deserto, la tua vita, la tua vita di Tuareg: preparare il tè, accudire il fuoristrada, cuocere il pane nella sabbia coperta di braci. 

Forse è colpa dell’ora se ho paura, questo vasto paesaggio nerastro eppure popolato da uomini che praticano il male, come nei mondi finiti, spopolati dal fuoco e che nessuna rugiada feconderà mai più. Quattro mesi fa, non più, mi hai portato verso la Libia con un convoglio di migranti, povere cose vive trasportate come cose già morte. Tutto è andato bene eppure c’era già nel meccanismo tra noi come uno scricchiolio, la ruggine del dubbio. Anche stavolta mi hai fatto la domanda, quella di sempre da quando ti conosco, cinque anni. «Fammi venire in Europa con te, tu puoi».

Anche questa volta, dopo esserti confidato, continui tranquillo i tuoi lavori. «Alassan, vedremo, ma come faccio? Dovresti attraversare il mare e poi i visti, il lavoro. Sai cercare le tracce nel deserto, ritrovare i cammelli che hai lasciato liberi un anno fa, ma da noi?». Non mi serbi rancore per i miei rinvii, hai rivolto la supplica all’unico dio che ti può salvare, per te non sono (o non ero?) qualcuno che ti porta ogni tanto un po’ di denaro. Sono una forza da mettere in moto come un vento favorevole che un giorno forse si librerà sul tuo destino. 

Come faccio a dimenticare quando mi hai raccontato degli uomini della tua tribù, una delle più povere e lontane, che, arrivati al fiume Niger per la prima volta, piansero scoprendo degli alberi verdi e forti? Da qualche parte, forse, ci sono gli uomini di Al Qaeda che controllano, questo fuoco nel buio infinito ha dato l’allarme. Eppure abbiamo scaricato il nostro poco bagaglio, abbiamo acceso la legna secca e in pieno deserto, sulla nuda scorza del pianeta, in una solitudine da primordi del mondo, abbiamo costruito il nostro villaggio di uomini. Ecco forse questa è la vera sfida contro i fanatici: non i droni e gli eserciti. Ma essere umilmente, comunemente laddove non dovresti essere, mettere un segno sul vuoto, lasciare la traccia di noi uomini di Occidente, un fuoco, il segno degli pneumatici sulla sabbia, la fila di parole di un racconto. Lo hai detto, e bene, tu stesso: neanche tutti i droni del mondo potrebbero trovarli qui, gli islamisti del deserto. E ritrovare noi, solo due mortali sparsi tra la roccia e le stelle, consci dell’unica dolcezza del respirare.

Sì. Ho paura di te. Ho notato che non bevi più birra. Era l’unico vizio che ti teneva lontano dalle loro terribili virtù. Sento che ti sei convertito a questi idoli, che sono idoli carnivori. Tu che mi hai dato straordinarie lezioni di geografia. Non mi hai spiegato il deserto, me lo hai reso amico. Non mi parli di piste né villaggi o tribù. Mi hai raccontato di un cespuglio di tamarindo miracolosamente verde da secoli in una gola, su verso il monte Tamgak, e per me quei tre arbusti sono ormai un segno. Non mi hai indicato wadi secchi da millenni ma un pozzo che solo tu e pochi altri conoscete, la valle della fontana. E perduta nello spazio a trecento chilometri da Agadez, dai suoi caffè sudici dell’odore di uomini stanchi, la sabbia sempre fresca attorno a quel pozzo mi sembra di toccarla, mi avvolge con la sua smisurata frescura. 

Sai che ti pagherò anche questa volta. Ma non basterà, hai ragione. Nei luoghi in cui mi hai portato c’è sempre qualcuno che può pagare più di te. Io lo so bene. Quello che mi spaventa non è neppure questo. È che mi sembri diverso, come se qualcuno dotato di una forza immensa ti avesse afferrato per le spalle e adesso la creta di cui eri composto fino a ieri si è seccata, si è indurita e nessuno potrebbe ridestare dentro di te l’uomo che eri. 

 L’ultima volta mi hai fatto strani discorsi, su dio e la giustizia. E poi questa fretta che hai di portarmi subito via da Agadez, di essere inghiottiti dalle montagne più pericolose del mondo. Come se non dovessi lasciar tracce, una volta sceso dall’aereo che mi ha portato da Niamey. Rifletto: non abbiamo telefono che funzioni, nessun legame per quanto tenue ci legherà più al mondo fino a quando non torneremo in città. Siamo fuori da tutto. Siamo usciti dalla città di nascosto perché è vietato andare sulle montagne, stiamo attraversando da un giorno la grande vallata nera delle favole. La valle della prova. Nessun soccorso qui. Se mi tradirai nessun perdono al mio errore. Di nuovo. Sono affidato alla discrezione di dio. Ma quale dio, il tuo o il mio? So che non lo faresti per denaro. Ma esistono tempeste di dio che devastano così, in un’ora, le messi di un uomo. Soprattutto in questa parte del mondo dove giardini in cui scorrono freschi ruscelli esistono solo nel corano. Perché così esso definisce il paradiso.

Appena arrivato mi hai raccontato un delitto e il tuo sguardo era strano come se volessi capire se avevo paura. «Hanno rapito un americano qui vicino ad Agadez: un mese fa». «Che ci faceva un americano ad Agadez?». «Non so, era qui da anni lo conoscevano tutti. Forse gli americani lo cercano ma non dicono nulla». Forse vuoi dirmi qualcosa tu? 
Da quando ho iniziato a sospettare di te, il mio amico Tuareg, ho capito che Al Qaeda ha già vinto. Perché ha insinuato in noi sospetto e paura. A Mosul e a Raqqa ci impegna in inutili battaglie, ci costringe a gettare stanchi ruggiti prima di ricadere nella ignavia dei vinti. È in questa impalpabile presenza la sua forza, è nel fatto che io so che è qui, che questa sabbia è cosa sua e lo sarà per sempre. La sua forza sono la sabbia e il silenzio. Qui la terra è misteriosa. Il suo spazio è come quello di Milton: si nasconde in se stesso. Per coglierla bisogna rinunciare al proposito di svelarla. Affiorano dal fondo dei territori proibiti, completano i loro traffici o i loro assalti sanguinosi e poi riaffondano nel loro mistero. E noi ci illudiamo di averne addomesticato qualcuno. 

Perché mi stai vestendo da Tuareg, prima di uscire di nascosto dalla città? Avvolgi bene il turbante, arte difficile che non ha mai imparato, devo mostrare solo gli occhi. È bianco, di buon cotone. E il caffetano: scuro, con complicati disegni, elegante dici tu. A me non piace, mi sembra una di quelle tovaglie plastificate che usavano da noi nelle osterie. Non mi piace travestirmi, Alassan! Significa mentire, è faticoso mentire, deforma la tua percezione delle cose.

E adesso mi porti allo stadio: che buffa parola per questa distesa di sabbia e polvere e immondizia. A vedere 1500 bambini e le loro false madri, affittati per pochi soldi da famiglie poverissime perché li portino in giro a mendicare. Attendono da mesi che le Nazioni Unite facciano qualcosa per loro. Non dovevo venire qui, mi perseguiterà il loro sguardo da lazzari resuscitati ma prigionieri ancora delle oscure rive dove hanno vagato. C’è davvero la morte di dio, qualsiasi dio, nello sguardo di quei bambini.

Questo è l’Hair. Avanziamo con il fuoristrada tra difficili passaggi, per tre giorni siamo come prigionieri di un dopo cataclisma di appena ieri; smottamento ancora incompiuto di pietre nere, montagne ancora crollanti, vallate che si sono appena aperte segnate dalle righe sottili di erbe secche, masse di pietre ancora in bilico minacciano rovine prossime e nuove sopra di noi. È strano in questo silenzio, in questa immobilità, vedere cose che di recente hanno dovuto far tremare il deserto e riempirlo di rumori.

Tra coloro che vivono qui, jihadisti, cercatori d’oro, banditi, c’è senza dubbio come un patto ed una tregua di distruzione. Dove è l’oro? Là, nel primo girone di questo inferno di pietre, nelle vallette tra monte e monte, piene di gramigna e di serpenti velenosi. Gli uomini quaggiù sono piccoli, quasi invisibili. Si stagliano sulle creste. Spariscono nei cunicoli scavati fino a cento metri solo a colpi di vanga. La pietra fatta diventare scheggia per raccogliere spesso solo una polvere d’oro su un dito, sottile come una ala di farfalla. I loro scavi li segnano primitivi treppiede che reggono la corda per scendere e far salire il materiale, anche il verricello è fatto a mano, di legno, di artigianale bellezza. Ora qualcuno si aiuta con cartucce di dinamite o usa le mine antiuomo, ma sono inesperti e spesso una esplosione tardiva o il crollo della parete appena incisa dalla mina li seppellisce o li squarcia.

Ci fermiamo, io mi tengo di lato coprendomi il volto con il turbante. Non devo parlare. Mai. Spuntano dalla terra pattuglie mute di giganti stanchi, patinati di polvere, coperti di stracci. Crani rapati, nel passo la solennità della stanchezza. Ci sono nigeriani, ghanesi, maliani, algerini. La febbre di diventare ricchi. Diffidenza degli occhi, sguardo che sorveglia. I Tuareg li assalgono per portar via l’oro e i rari, preziosi apparecchi cinesi rilevatori di metallo. Questa gente vive qui mesi in un paesaggio che i loro pozzi mettono come in disuso. Attorno per lunghezze infinite qualche albero pesto grigio come se fosse avvolto di cenere. Eppure ti sembra meraviglioso come un fiore in un vecchio vaso. Due uomini si avvicinano esitanti, un vecchio e un ragazzo. Il ragazzo quasi si inginocchia davanti a me, allunga le mani in un gesto di resa e di preghiera: l’antica paura dei neri di fronte all’abito del Tuareg, il guerriero, il razziatore dei deserti.

Il pozzo non è loro, un ricco di Agadez li paga per scavare e prenderà poi l’oro. Il vecchio ha lasciato al villaggio la moglie e sei figli. Per mesi non li vedrà. Prima di ogni parola respira profondo. Le frasi sono un timido fosco balbettio. Non sa sorridere. Non ha mai sorriso.«Puoi trovare se hai fortuna anche dieci chili d’oro. È successo. Non è una favola. Se avessi il rilevatore di metalli, potrei cercare da solo e l’oro lo troverei. Ma costa seicentomila franchi Cfa (800 euro), una fortuna. Conoscevo sei cercatori algerini, hanno trovato qualche pepita, hanno riattraversato la frontiera. I soldati li hanno presi, gente del Nord, pazzi furiosi. Credete di esser uomini? Li hanno evirati e poi li hanno lasciati andare. Sono arrivati fino a un villaggio, prima di morire dissanguati».

Dirupi cadono verticali sugli abissi più si avanza verso i duemila metri, le pieghe del panneggio della montagna su cui arranca il fuoristrada diventano più erte, non vi è evasione possibile. È il terzo giorno, il fuoristrada come sempre per la sosta nascosto dietro un’ansa della roccia o una macchia più fitta. Il secondo girone. Dalla pista arrivano i rumori di motore, Alassan, stranamente, non si inquieta. Due pick up nuovi ma coperti dalla polvere di un lungo viaggio si fermano, come per una intesa. Saltano a terra sei ragazzi vestiti di scuro, le facce coperte dai turbanti. Solo il capo ha il volto scoperto. Strani occhi blu cenere, bellissimi, ma in terribile contrasto con un volto da assassino. Mi guarda. Si siede con Alassan su una stuoia, cominciano a parlare fitto in tamaseg, la lingua Tuareg. Gli altri che, ora mi accorgo, hanno in mano fucili, attendono come se dovesse venirne comunque una conclusione. Il capo si rialza, Alassan senza una parola comincia a impastare il pane per la sera.

Io ho rivisto gli occhi di quelli che mi vogliono bene. Come allora. Interrogano. Tutta una adunata di sguardi che rimprovera il mio silenzio. Per un attimo ho pensato che avrei di nuovo dovuto imparare che nulla, in definitiva, è intollerabile. Siamo ad Agadez, vedo la matita scura e dritta del minareto di sabbia. Ti ho sospettato a torto allora. Non so. È il momento di pagare. 

Quanto vuoi Alassan? Dammi ciò che credi, in questi giorni la cosa più importante che ti ho dato non avrai mai soldi per pagarla. Forse ho capito Alassan. Allora è vero. Anche tu hai sentito questo terribile bisogno di rinascere, canterai gli inni di guerra e spezzerai il pane del deserto con i tuoi confratelli. Ritroverete insieme quello che cercate: il sapore dell’universale. Ma del pane che ti offriranno morirai. Che il deserto ti sia comunque lieve. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/18/esteri/nel-deserto-che-alleva-i-jihadisti-tra-cercatori-doro-e-tuareg-Iuy7DrzpddH6IEIKb6N44N/pagina.html
5893  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Mario Lavia - “Niente meline”, Renzi è già con la testa alle elezioni. inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:22:19 pm

Focus
Mario Lavia    @mariolavia
· 18 dicembre 2016

“Niente meline”, Renzi è già con la testa alle elezioni. Sul Mattarellum sfida Berlusconi
Sordina alle polemiche interne (tranne Giachetti verso la sinistra)

Un Matteo Renzi anche umanamente segnato dalla sconfitta dal referendum. Ma pronto a dare battaglia, perché “non si può scendere dicendo ‘mi sono stancato'”, anche se la tentazione di “mollare” ce l’ha avuta eccome. Quaranta minuti di analisi autocritica sul rovescio del 4 dicembre, un po’ di stilettate qua e là contro il M5S e tanto orgoglio per il suo Pd.

Ma il sentiment della lunga relazione di Renzi alla Assemblea nazionale del Pd pare soprattutto questo: la voglia, anzi l’impazienza, di giocare la prossima partita, la più importante, quella delle elezioni. “Stiamo andando verso il voto”, ha detto rivelando questa sua fretta. Per questo obiettivo, fra l’altro, il segretario ha bisogno di un clima diverso nel suo partito: ed ecco che le varie componenti della maggioranza (con Franceschini, Delrio, Orlando, Martina) si pongono sulla stessa lunghezza d’onda. Certo, Gianni Cuperlo chiede il Congresso presto. Ma è solo Roberto Giachetti a rompere quello che lui stesso chiama “clima idilliaco” scagliandosi contro Roberto Speranza con frase che rimarrà negli annali: “Hai la faccia come il culo”.

Goccia che fa traboccare il vaso della sinistra che non prende la parola (prima aveva parlato con toni dialoganti Guglielmo Epifani) e alla fine nemmeno vota la relazione del segretario, che infatti passa con 481 voti a favore, solo 2 voti contrari e 10 astensioni.

Renzi “vede” le elezioni – anche se non insiste esplicitamente, davanti al nuovo premier Gentiloni -e infatti mette fretta a tutti: “Non si faccia melina sulla legge elettorale”. E’ il punto forse più importante e nuovo della relazione. Significa un ammonimento (anche ai suoi?) a non pensare di trascinarla in lungo, oltre l’estate (ha fatto persino un fugare accenno alla questione dei vitalizi che scattano a ottobre). C’è un modo per “chiudere” relativamente presto sulla legge elettorale: riprendere il Mattarellum. Da oggi, questa è la proposta ufficiale del Pd: gli altri calino le loro carte.

E se il segretario – come ci ha poi spiegato direttamente – aveva previsto un sì di Meloni e Salvini, attende ora da Berlusconi una scelta chiara.

La lunga parte autocritica – sul Sud, sui giovani, sul web – è servita a Renzi non solo per ribadire le proprie responsabilità (e quella più enorme è “non aver visto che arrivava la politicizzazione, credevo fosse possibile parlare del referendum”) ma per cominciare a rimettere in sesto il Partito come strumento. Su questo, una serie di indicazioni di lavoro, a partire dalla insoddisfazione per come ha funzionato la segreteria – mercoledì la prima riunione operativa post-voto.

Ha dato l’impressione, Renzi, di volersi dare un nuovo profilo, meno presenzialista, più “aggregatore”, più disposto all’ascolto: ma non meno leader. Ha preferito mettere la sordina alle polemiche interne (anche per questo ha proposto di non fare subito il Congresso, “la conta”) preferendo piuttosto insistere sulla necessità di ricostruire un pensiero vincente, in vista della grande competizione elettorale di cui egli non ha indicato i tempi ma ha lasciato capire che comunque è nel vicino orizzonte. E sapendo che il corpo del partito è con lui.

Da - http://www.unita.tv/focus/niente-meline-renzi-e-gia-con-la-testa-alle-elezioni/
5894  Forum Pubblico / PERSONE che ci hanno lasciato VALORI POSITIVI / Ricordo di Paolo Prodi, l’uomo che sapeva unire ... inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:20:12 pm
Adriano Prosperi   
· 20 dicembre 2016
Ricordo di Paolo Prodi, l’uomo che sapeva unire


Distaccato ma non indifferente, guardava ai fatti del giorno e li commentava. È stato organizzatore di cultura, costruttore di contesti aperti agli studiosi e reti di dialogo

Caro Sergio,
mi chiedi di parlare di Paolo Prodi. Non è facile per me. Si tratta di una persona importante, nota in Italia e fuori per gli studi, per l’opera svolta nelle istituzioni e nella società ma anche di una persona che è stata molto presente nella mia vita. La sua morte mi è giunta inattesa: eppure sapevo dei molti guai di salute che lo bersagliavano.

Quando si perde un amico – a questa età, poi – è una grande fetta della propria vita e della memoria che se ne va con lui. “Cinquanta anni, spesso insieme”, queste parole sue le leggo ancora nella dedica di Christianisme et monde moderne, uscito dieci anni fa per Gallimard (uscito solo in francese, qualcuno dovrebbe farlo leggere agli italiani). Il conto degli anni si è poi fermato a sessanta. Data al 1967 l’incontro che decise della mia vita. Fu decisivo allora per me ascoltarlo mentre in un incontro di studio per ricordare Delio Cantimori scompigliava mitemente le carte di una storiografia italica mirata solo agli eretici e agli esiliati della Controriforma. Raccontò allora di Carlo Sigonio e di come nel seguire un’idea severa della verità storica fosse incappato nella reazione della polizia inquisitoriale. Capii che se volevo studiare da dove venisse quella tradizione ed educazione cattolica in cui ero cresciuto era con lui che potevo farlo, anche perché intanto lui mi offriva un lavoro vero e serio di insegnamento, in una facoltà di massa come poche, il Magistero di Bologna. Di serie B, si diceva allora. Quella che lui costruì col mio aiuto non fu una scuola elitaria e di pochissimi, come quella da cui venivo, ma un luogo dove centinaia di allievi imparavano a reagire all’imparaticcio passivo delle magistrali e a costruirsi una autonoma conoscenza della storia con ricerche su fonti di prima mano.

Davanti a lui, mi sembrava di essergli vicino come un fratello minore: anche perché c’era una sua speciale capacità di porsi al livello di ogni interlocutore, di dare fiducia e incoraggiamento. Solo a poco a poco scoprii alcune delle tante cose che c’erano già state nel suo passato. La sua famiglia d’origine, per esempio. E le sue scelte: Milano, la Cattolica, la facoltà di Scienze politiche. Non una scelta casuale. Il suo cattolicesimo non era l’abitudine irriflessa, la vaga appartenenza sociologica di ogni italiano, ma un radicamento fortissimo, tanto profondo quanto meno esibito. Membro giovanissimo del gruppo di Dossetti, aveva partecipato alla campagna elettorale per le elezioni comunali di Bologna. Dalla sconfitta politica era nata l’idea di una strategia lunga di rinnovamento culturale e la costruzione di quella meravigliosa biblioteca che si chiamò allora “Centro di documentazione”, concepita per allargare l’orizzonte del cattolicesimo italiano – un orizzonte che aveva conosciuto tra altre vergogne la canea del vescovo di Prato e delle gerarchie ecclesiastiche contro la coppia che aveva osato sposarsi col solo rito civile. Vi si stipavano ricchezze di un sapere nuovo e insolito sul fatto religioso nella storia e nel presente. Era situata nel cuore della Bologna rossa, in un’area povera, vi si incontravano e ascoltavano teologi e studiosi della religione di altri paesi e di altre culture. E quasi subito vi si cominciò a lavorare per i dibattiti in corso nell’assemblea del Concilio Vaticano II. Tra l’altro, Paolo Prodi fu tra i curatori di un’opera fondamentale in materia di concilii, i Conciliorum Oecumenicorum Decreta.

In quegli anni si era consumata la scelta mistica di Dossetti e la conseguente divisione tra i membri del gruppo originario tra il monacato e il matrimonio, ma anche a quella tra est e ovest. A est, c’era la Palestina, cioè l’utopia del cristianesimo primitivo, a cui guardava Dossetti. Paolo Prodi scelse non il passato ma il futuro, non l’utopia ma la profezia, avrebbe detto lui: e andò verso ovest. Aveva conosciuto ai margini del Concilio don Ivan Illich e il vescovo Oscar Romero (il primo processato dal Sant’Uffizio, il secondo destinato a morire assassinato sull’altare). Decise di andare a conoscere le giovani chiese latinoamericane alle prese coi loro enormi problemi e in lotta contro l’invadenza di un dominio nordamericano spalleggiato dal Vaticano. Si recò a Cuernavaca in Messico presso il Cidoc, un centro di documentazione osteggiato dal Vaticano. Voleva capire che cosa accadeva in una società ribollente di problemi e di contraddizioni. Progettava di fare del Cidoc un centro di studio per un lavoro di lunga durata, al pari di quello bolognese. Fu quello uno dei suoi tanti progetti di centri di documentazione e di studio che guardassero avanti, ai tempi lunghi di mutamenti appena cominciati.

Così andava avanti per la sua strada. Quale? Difficile qui distinguere lo storico dall’organizzatore di cultura, dall’educatore, dal costruttore di contesti aperti agli studiosi e di reti di dialogo con altre culture nazionali più robuste e attrezzate della nostra. Gli esiti di questo lavoro e la misura della profondità del rapporto che coi suoi libri e la sua opera Paolo Prodi ha costruito nella comunità sovranazionale della cultura storica mondiale si possono ora misurare dai messaggi di cordoglio che da tre giorni continuano a giungere a tutti noi, suoi amici e allievi e in primo luogo ai suoi familiari, dai quattro angoli del mondo: penso di non andare errato se ritengo che dai tempi di Federico Chabod in poi non si sia mai registrato un simile fenomeno in Italia.

Fin dai suoi inizi fu evidente che la vita accademica del professore gli andava stretta. Appena vinta la cattedra di Storia moderna, pubblicò su un quotidiano nazionale una domanda di lavoro: “professore offresi”. Ma di lavoro se ne procurò tanto, da solo. Non perdeva di vista la politica. Ricordo fra gli altri un incontro col sindacato dei metalmeccanici sulla guerra del Vietnam. Molti anni dopo, ricordo anche che aderì spontaneamente al digiuno collettivo per chiedere la revisione del processo ad Adriano Sofri. E tuttavia restò sempre antropologicamente inadatto al conflitto di breve respiro della politica, così come fu del tutto immune dai personalismi e dalle guerre di corridoio che infestano da sempre il piccolo mondo accademico. Era uomo che univa: diceva la sua e lottava a viso aperto ma poi chiudeva lì, senza strascichi né ruggini nascoste. Quando la sua proposta di togliere ogni carattere di chiusura cattolica al centro bolognese per farlo navigare nel mare aperto degli studi venne rifiutata dall’amico e cognato Giuseppe Alberigo, se ne uscì in silenzio dall’istituzione a cui aveva dedicato grandissimo impegno e guardò altrove. Per esempio, al mondo della scuola italiana: nel 1972 l’antico collega della Cattolica Riccardo Misasi divenuto ministro della pubblica istruzione, gli propose – e lui accettò – di creare nel Ministero un Ufficio studi. Vi portò avanti nel breve biennio del ministero un progetto importante sul tema dei distretti scolastici. Subito dopo divenne rettore dell’università di Trento, una fatica di cui volle un compenso: che fu l’Istituto storico italo-germanico, diventato grazie a lui un luogo vivissimo di scambio culturale.

E intanto studiava e scriveva. C’era come un ritmo di sistole e diastole fra gli studi e il lavoro di creazione e organizzazione delle istituzioni. Parlare dei suoi studi non si può senza tenere presenti le convinzioni forti del suo cristianesimo ma anche e soprattutto la sua fiducia nel sapere storico, la sua volontà di ricavare dallo studio del passato una chiave interpretativa del percorso storico tale da permettere allo storico di intravedere la logica dei grandi mutamenti e dislocamenti strutturali. Per questo fu sempre attentissimo alla definizione dei termini e dei concetti nella lingua di comunicazione dei risultati delle ricerche, una lingua internazionale a cui dedicò continui interventi. E, al di là dei termini e dei concetti, studiò l’evoluzione delle istituzioni e delle dottrine, quelle teologiche e quelle canonistiche che avevano costruito il sedimento comune della società europea nel lungo medioevo. Si trattò di anni e anni di letture e di riflessioni, sfruttando l’offerta di centri di ricerca negli Stati Uniti e soprattutto in Germania. Ne ritornava con libri che entravano subito come sangue nuovo nella circolazione delle idee e obbligavano i lettori a scoprire territori sconosciuti o dimensioni fino ad allora rimaste celate ai nostri occhi.

Da uno sguardo concentrato sulla figura del papa romano, punto di riferimento obbligato nei conflitti delle culture cristiane e nella tradizione della cultura laica italiana da Machiavelli ai nostri giorni, ricavò la scoperta indicata nel titolo del libro suo – Il sovrano Pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna (1982, più volte ristampato). Vi si spiegava come con la svolta storica della rivoluzione papale, l’assunzione di un doppio potere temporale e spirituale avesse dato vita alla distinzione tra le due anime del potere politico, quella sacrale e quella temporale aprendo la via a un’evoluzione che doveva caratterizzare in modo originale la storia dell’Occidente. Da lì, attraverso una ricerca che è poco definire pionieristica perché fu una vera scoperta della dimensione di lunga durata del patto politico, nacque la sua storia del giuramento – Il sacramento del potere: il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente(1992). E dovremo anche ricordare il titolo volutamente sommesso di un altro grande libro: Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto(2000). Molte sono le cose che si vorrebbero dire sull’importanza di queste sue indagini. Basti osservare che se si guarda al contesto degli anni di queste uscite librarie si vedrà come nascessero in un contesto di precaria salute della convivenza civile e di crisi profonda del funzionamento della politica. Il che vale per un altro libro frutto di un intenso anno di studio nella fondazione Ebert di Erfurt: Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente (2009). Sarebbe fin troppo facile segnalarne il sostrato nell’ingorgo di problemi sociali e culturali nati dalla distribuzione ineguale delle risorse e dall’invadente autonomia del mercato e del sistema finanziario rispetto a ogni altro potere statale.

Funzione civile dello storico: quanto si è discusso di questo. Paolo Prodi ha contribuito in modo fattivo alla discussione offrendo il modello del suo modo di lavorare e la qualità delle sue analisi. Tra le quali bisognerà almeno ricordare la sua tesi per così dire storica e profetica sul nodo delle differenze tra modernità dell’Occidente europeo e culture islamiche. La individuò nel rapporto tra il sacro e il potere. L’Occidente secondo la sua tesi ha inventato con la rivoluzione papale dell’età gregoriana un dualismo di tipo nuovo fra Chiesa e Impero. Su questa strada si è proceduto desacralizzando il potere sovrano separato dal corpo fisico del re già durante il Medioevo e sostituendo alla sacralità del potere il patto politico. Da allora, col ’700, si avvia l’articolazione e divisione dei diversi poteri nell’ambito di patti collettivamente sanciti che hanno permesso di passare dal campo politico a quello giuridico. Questo dualismo tra la dimensione del potere e quella del sacro è quella che ha permesso, a suo avviso, lo sviluppo delle forme di organizzazione politica e sociale dell’occidente.

Ma Paolo Prodi non si è limitato a rintracciare le linee di evoluzione plurisecolari della nostra attuale realtà: ha fissato l’attenzione sulle ragioni di una crisi che dura da tempo e per la quale ha invitato a tornare allo studio e alla conoscenza della storia, abbandonando la diffusa, generalizzata immersione sociale nella fiction in cui il vero e l’inventato si mescolano. Un saggio suo del 2012 sulla crisi del costituzionalismo è stato un grido d’allarme inascoltato, una messa in guardia conto l’illusione che un nuovo costituzionalismo o un rifugio rassicurante su costituzioni storiche ci possa mettere al sicuro dal dilagare di “sovranità finanziarie internazionali nelle quali potere sacrale, potere politico e potere economico sono di nuovo fusi.” Parole serie e meditate che ci stanno ancora davanti.

Distaccato ma non indifferente, guardava ai fatti del giorno, li commentava. Scherzavamo sulle definizioni che aveva trovato per il progetto di costituzione sottoposto a referendum: quella di “bitorzolo” mi sembrava calzante; l’altra, “bugiardino”, lasciava capire che intanto lui era costretto a decifrare le scritture in piccolo e in codice di parecchi foglietti di medicinali. Lamentava che nessuno avesse pensato a dare attuazione all’articolo 49 sui partiti. Un tema che gli stava a cuore, su cui aveva scritto da storico e si era impegnato nelle occasioni di fare politica che aveva avuto.

In questo intreccio fra ricerca storica e lettura del presente aveva investito tutta la sua vita.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/ricordo-di-paolo-prodi-luomo-che-sapeva-unire/
5895  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Intervista a Mogherini: Putin brutale in Siria solo l’Ue ha un piano per la pace inserito:: Dicembre 19, 2016, 04:36:40 pm
Intervista a Mogherini: “Putin brutale in Siria, solo l’Ue ha un piano per la pace”
Il capo della diplomazia europea: “L’Unione è l’unica a dialogare con tutte le parti”.
Sui migranti: “La commissione va avanti sulla solidarietà fra Stati, l’Italia conti su di noi”
Il «ministro degli Esteri» europeo: Federica Mogherini, classe 1973, guida la diplomazia europea dal 2014

Pubblicato il 18/12/2016 Ultima modifica il 18/12/2016 alle ore 11:37
Marco Bresolin, Marco Zatterin

Vladimir Putin fa la guerra e parla di pace. Aggredisce, duella con l’Occidente, negozia, convoca vertici con turchi e iraniani. Per farla breve, domina la scena siriana. E l’Europa dov’è? «Non dove è la Russia, e sono molto fiera che non stia bombardando Aleppo», risponde rapida Federica Mogherini: «Per una scelta politica presa molti anni fa, l’Unione europea non è un attore militare sul palcoscenico siriano». Eppure, incalza l’Alto rappresentante per la Politica estera, «sarebbe riduttivo dire che il nostro è solo un soft power». Perché l’Ue ha investito 9 miliardi dall’inizio della crisi per controbilanciare una situazione drammatica. E perché si sta preparando per il dopo. «Siamo gli unici che parlano con tutti», assicura. E, visto che il multilateralismo in quella regione non funziona, «lavoriamo attraverso i nostri rapporti bilaterali per evitare che la Siria diventi un buco nero, un nuovo Iraq o una nuova Libia». 

Il 2016 sta finendo. «Non un anno semplice», concede l’ex ministro degli Esteri, persuasa che quello che arriva non si presenta più facile. «Ci saranno elezioni in almeno quattro Paesi europei», è il conteggio che include l’Italia. Più Trump, Brexit, migranti. E Siria. In gennaio la signora Mogherini riceverà i delegati degli Stati interessati dal conflitto siriano. Vuole tessere la tela che darà all’Europa il ruolo di playmaker diplomatico. Per «trasformare la guerra per procura in una pace per procura». 

Questo è il domani. E oggi che cosa fate per la crisi siriana? 
«Aiutare la Siria in questo momento vuol dire anzitutto evitare di bombardarla. Siamo il principale donatore, dal punto di vista umanitario: quasi tutti gli aiuti che i siriani ricevono arrivano grazie all’Ue e all’Onu che li porta. Scuole per bambini, acqua, medicinali. Il nostro impegno diplomatico comincia da qui».

E come si svolge? 
«Guardando avanti. Ho avviato un dialogo diretto con tutti gli attori regionali: Iran, Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Giordania, Libano, Qatar, Emirati. E con i siriani, con le diverse componenti delle opposizioni e ciò che resta della società civile. Non nuovi formati o riunioni multilaterali, ce ne sono già stati troppi, bensì incontri bilaterali in accordo con l’Onu. Cerchiamo risposte comuni a quattro domande: quale unità per la Siria? Quale forma di governo? Come gestire la riconciliazione? Come ricostruire il Paese dal punto di vista economico? La ricostruzione costerà cifre enormi. Probabilmente a Mosca, e forse a Washington, finita la guerra qualcuno considererà il capitolo chiuso. Noi, no». 

A che condizioni? 
«Il nostro impegno per la ricostruzione sarà legato all’avvio di una reale transizione politica in Siria che possa condurre davvero il Paese verso la pace».

Tra i Paesi dell’Ue restano ampie divergenze sull’atteggiamento con i russi. Molti considerano la linea europea troppo morbida. 

«I governi sono tutti d’accordo sul fatto che il comportamento della Russia, soprattutto ad Aleppo, è di una brutalità inaccettabile. Non vedo distinguo su questo. Così come siamo tutti d’accordo nel dire che con la Russia, sulla Siria e non solo, serve un canale politico aperto. Le conclusioni del Consiglio europeo includono un mandato per il mio lavoro sulla Siria, compresi anche contatti diretti e continui con tutti. Anche con Mosca».

Quello su cui invece l’Ue è divisa sono i migranti. Come sarà possibile trovare un accordo sulla riforma del diritto d’asilo? 

«C’è un problema molto serio sul fronte interno delle politiche migratorie. Perché le proposte che la Commissione aveva fatto si sono arenate e perché il Consiglio non trova ancora oggi un punto di convergenza su come affrontare il tema della solidarietà. Spero che la presidenza maltese riuscirà a far fare un passo in avanti. Se tutto il peso viene lasciato su alcuni Stati, il sistema non regge. La Commissione continuerà a spingere per un meccanismo di solidarietà interna. Su questo l’Italia può contare di averci dalla sua parte. Ma il nodo va risolto dai governi nazionali, all’interno del Consiglio». 

C’è chi considera pretestuosa la battaglia dell’Italia sulla riforma di Dublino perché la maggior parte dei migranti che arrivano sono irregolari. 

«Il tema di Dublino è fondamentale. Incide sui numeri dell’accoglienza ed è una questione di principio: l’Europa è una comunità solidale o no? Il tema va al di là dell’asilo. L’Italia fa bene a concentrarsi su tutti i fronti: Dublino, lotta ai trafficanti, salvataggio delle vite, rimpatri, investimenti nei Paesi di origine. È un lavoro che stiamo facendo insieme».
Su quest’ultimo fronte, il Consiglio ha riconosciuto i progressi fatti con i Compact nei cinque Paesi coinvolti. Avanti così? 

«Iniziamo a vedere i risultati. Guardate il Niger, Paese di transito dei migranti che poi vanno in Libia. A maggio erano stati registrati 70 mila migranti, a novembre i passaggi sono scesi a 1500. Questo grazie al Compact, ai progetti mirati che prevedono anche rimpatri volontari nei Paesi di origine». 
Giovedì al Consiglio europeo c’è stato l’esordio di Gentiloni: dopo il referendum, si è ridotto il peso dell’Italia a Bruxelles? 

«No. L’Italia è un Paese solido, il governo è stimato. Ovviamente avrei preferito di gran lunga avere uno scenario diverso, con una vittoria del sì, con l’esecutivo Renzi ancora in carica e una riforma costituzionale di cui l’Italia ha bisogno. Però la saggezza e la rapidità con cui Mattarella ha gestito la crisi hanno dimostrato la solidità delle istituzioni e del Paese, cosa molto apprezzata dai nostri partner europei e no. E anche la reazione dei mercati è stata contenuta. Abbiamo dimostrato piena capacità di gestire bene i passaggi turbolenti e di crisi. Non vedo un problema di debolezza del governo italiano».

Tra l’atteggiamento di Renzi e quello di Gentiloni, però, c’è un abisso. Da alcune cancellerie era emersa insofferenza per certi atteggiamenti ostili dell’ex premier. 

«Quelle dell’Italia non sono state politiche “ostili” prima e non lo sono adesso. Anzi, sono battaglie che servono molto all’Europa, sulla solidarietà e sull’economia. Sono per l’Europa, non contro. Detto questo, certamente Gentiloni e Renzi hanno due caratteri diametralmente opposti e stili diversi. Ma gli obiettivi e le scelte politiche sono le stesse».

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