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5761  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / BAUMAN. inserito:: Gennaio 12, 2017, 12:12:55 pm
Bauman: «La felicità è la risposta a ciò che ci consuma»
Di Marco Dotti
10 gennaio 2017

Ci siamo dimenticati della felicità. Alla sua costruzione, ricerca, speranza abbiamo sostituito il desiderio. E il desiderio del desiderio: un castello di carta che, generando iperconsumo di massa, ha dissolto legami, relazioni, forme del fare e del convivere. L'ultima lezione del sociologo polacco Zygmun Bauman: cercare la felicità come apertura all'altro. «La felicità è risolvere problemi, non anestetizzarsi»

Come sopravvivere alla liquidità che caratterizza i nostri tempi, i nostri ritmi, le nostre relazioni, anche le più vitali? C'è un modo per superare quella tendenza ipermoderna alla rarefazione di ogni legame, struttura, senso del luogo, della comunità e del coappartenere che Zygmunt Bauman, il sociologo scomparso ieri a 91 anni, ha chiamato modernità liquida? Per Bauman c'è e consiste nel prendere atto della situazione in cui siamo, rendersi in altri termini conto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti e antichi fini.

Elites sub-politiche
Possiamo immaginare la modernità - rispondeva Bauman a David Lyon, in uno dei suoi tanti libri intervista - «come una spada con la sua lama affilata che preme continuamente sulle realtà esistenti». Ma il guaio - osservava Umberto Eco, in una "Bustina di Minerva", proprio commentando Bauman - è che la politica e in gran parte l’intellighenzia europee e globali non hanno ancora compreso la portata del fenomeno e chi dovrebbe guidarci dall'altra parte del fiume se ne sta fermo in attesa della corrente.

Eco definirà questa situazione come il terreno di coltura dell' "Ur- Fascismo", Bauman come una condizione di doppio legame, ossia una situazione di incoerenza emotiva e incongruenza di decisioni: « i governi che si presumono ancora sovrani del loro territorio soffrono in realtà di un doppio legame, con alcuni poteri globali e con i loro elettori, locali, e ritenuti anch’essi sovrani. Nessuna meraviglia che siano ondivaghi e precari nelle decisioni. Avidamente ma invano, cercano di avere il piede in due scarpe, ma le richieste dei due campi non si conciliano. Al massimo possono essere ascoltate e, a intermittenza, realizzate. Tuttavia, quasi mai soddisfacendo fino in fondo una delle due parti, per non parlare di entrambi contemporaneamente».

La mappa non è il territorio
Ci muoviamo con mappe che non corrispondono più al territorio che, d'altronde, è un territorio mobile. Usiamo scarpe pesanti dove servirebbe correre e, nel fango, ci muoviamo come su una spiaggia di Capalbio. Una società, scriveva Bauman, «può essere definita "liquido-moderna" se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo».

Il problema è che, in questa modernità rarefatta, si assiste a una dissoluzione, ma anche a una progressiva involuzione e chiusura dei rapporti e dei legami, fragili eppure cruenti che strutturano le nostre società.

 Una società può essere definita "liquido-moderna" se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo

Gli stati-nazione indipendenti sono ormai incapaci di affrontare i problemi derivanti dall’interdipendenza globale. Con la globalizzazione del potere che lascia indietro la politica locale, spiegava Bauman, «gli strumenti disponibili di azioni collettive efficaci non corrispondono alla misura dei problemi generati dalla nostra condizione globalizzata. Per citare Ulrich Beck, stiamo già in una situazione cosmopolita ma ci manca drammaticamente una consapevolezza cosmopolitica. Abbiamo fallito nella capacità di costruire con serietà istituzioni destinate a gettare le fondamenta di tale consapevolezza».


 La felicità -osservava Bauman - è la sfida dell'umanità presente, per la sua dignità futura
Felicità: la sfida del rischio
In tutto questo, Bauman ricordava che ci siamo dimenticati di una parola semplice eppure stratificata e vitale. L'abbiamo svenduta all'iperconsumo di massa e alla dirompente potenza espansiva delle tecnostrutture del desiderio. La parola è "felicità". Che cos'è la felicità e perché, oggi, può tornare a interrogarci radicalmente?

La felicità - spiegava Bauman - «è uno stato mentale, corporeo, che sentiamo in modo acuto, ma che è ineffabile. Una sensazione che non è possibile condividere con altri. Ciononostante, la caratteristica principale della felicitè è quella di essere un'apertura di possibilità, in quanto dipende dal punto di vista con il quale la esperiamo. Nell'antichità la felicità era una ricompensa per pochi eletti selezionati. In un momento successivo venne concepita come un diritto universale che spettava a ogni membro della specie umana. Successivamente, si trasformò in un dovere: sentirsi infelici provoca senso di colpa. Dunque chi è infelice è costretto, suo malgrado, a trovare una giustificazione alla propria condizione esistenziale».
. Ma esiste una seconda linea di evoluzione del concetto di felicità: la felicità come stato finale, come obbiettivo al quale dobbiamo tendere. La felicità come fine concreto, che abbiamo dimenticato

All'interno di questa seconda prospettiva, ricorda Bauman, `l'evoluzione è stata verso un'esperienza della felicità legata direttamente al piano della vita quotidiana, che nella contemporaneità ha indebolito l'idea della felicità come obiettivo. A ciò si lega anche la parallela evoluzione del concetto di desiderio. Ora, non ci si ferma soddisfatti, e felici, quando un nostro desiderio si realizza. Piuttosto, ci si spinge subito a desiderare qualcos'altro che ci possa soddisfare in maniera migliore. Desideriamo il desiderio più che la realizzazione di esso. Quest'atteggiamento dà luogo ad una catena tendenzialmente infinita di frustrazioni e insoddisfazioni».

Se il desiderio ipermoderno, iperveloce, tecnologicamente drogato non vede né vuole problemi (ma costruisce muri fra noi e il mondo), la felicità è - insegnava Bauman, a commento del lavoro di Erik Gandini La teoria svedese dell'amore di cui abbiamo ampiamente parlato su Vita - è sfida, consapevolezza, presa di coscienza di quei problemi. Ecco perché la felicità è tanto avversata dai fantasmi del mondo liquido.

«Non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà. Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllare le sfide poste dal destino, ci si sente persi se aumentano le comodità». La felicità -osservava Bauman - è la sfida dell'umanità presente, per la sua dignità futura.

09 gennaio 2017

Da - http://www.vita.it/it/article/2017/01/10/bauman-la-felicita-e-la-risposta-a-cio-che-ci-consuma/142082/
5762  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Fabrizio Tonello. Zygmunt Bauman Il potere si è liberato dal controllo politico. inserito:: Gennaio 12, 2017, 12:11:21 pm
Il potere si è liberato dal controllo politico.
Intervista con Zygmunt Bauman

10 SETTEMBRE 2012

Il pensiero di Zygmunt Bauman sta evolvendo? Il grande sociologo inglese di origine polacca è diventato celebre per i suoi libri sul mondo moderno, “un mondo che chiamo liquido perché come tutti i liquidi non può restare immobile a lungo. In questo nostro mondo tutto, o quasi, è in continua trasformazione: le mode che seguiamo, gli oggetti che richiamano la nostra attenzione, ciò che sogniamo o temiamo, che suscita in noi speranza o preoccupazione”. A questa fluidità, però, si accompagna un grandissimo aumento della disuguaglianza e una forte resistenza al cambiamento. Oggi negli Stati Uniti un amministratore delegato guadagna in media 531 volte più del lavoratore medio; nel 1960 il rapporto era 1 a 12. Di questo abbiamo parlato con lui durante una lunga conversazione a Mantova, in occasione del Festival Letteratura e dell’uscita del suo nuovo libro, Cose che abbiamo in comune, Laterza, 2012.
 
Professor Bauman, Lei è il teorico della “modernità liquida”, ha scritto mille volte che tutti noi “veniamo trascinati via senza posa”. Non ha l’impressione che il mondo in cui viviamo stia però diventando sempre più solido, immodificabile?
Se Lei intende per “solidità” che è diventato più resistente al cambiamento ha ragione. Negli ultimi anni ci sono stati molti movimenti, gli Indignados spagnoli, Occupy Wall Street e altri. Molte spinte, grandi manifestazioni di massa e tuttavia non accade nulla. Prendiamo Occupy Wall Street: è stato trattato bene dai giornali, la televisione ne ha parlato, l’unica forza che non ha prestato alcuna attenzione è stata la Borsa di Wall Street. Non è cambiato assolutamente nulla. C’è solidità nel senso di resistenza al cambiamento, il sistema sembra immune a tutte le pressioni. Tuttavia, se prendiamo una bistecca, vogliamo tagliarla e non ci riusciamo, dobbiamo chiederci se è la carne che è davvero troppo dura o se è il coltello che stiamo usando che non è abbastanza affilato.
La mia teoria è che il sistema non è solido di per sé: ha sviluppato efficaci meccanismi di autoriproduzione ma ha delle fragilità incorporate. Ha una tendenza interna ad autodistruggersi, non potrà continuare a lungo. Se la resistenza umana non sarà in grado di mettervi fine ci penserà la natura. Ci sono ovviamente limiti alle risorse del pianeta e una società basata sulla crescita illimitata della produzione e del consumo incontrerà questi limiti molto presto.
 
Lei ci diceva poco fa che la politica è locale, delimitata dai confini degli Stati nazionali, mentre il potere è globale: è questo che rende il sistema così indifferente alle manifestazioni di resistenza alle sue logiche?
Certo, il potere è globale, il suo spazio è il pianeta, mentre le elezioni americane sono una competizione attorno agli interessi degli Stati Uniti: è questo che mette il potere in grado di fluire liberamente ovunque senza prestare troppa attenzione a ciò che succede qua e là. A causa di questa fluidità ci troviamo in ciò che Antonio Gramsci chiamava un interregno, una situazione in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Il vecchio ordine fondato sulla stretta associazione di territorio, Stato e nazione sta morendo. La sovranità non è più associata ad alcuno degli elementi della triade territorio/Stato/nazione: tutt’al più è legata in modo blando a alcune loro componenti. Oggi essa è difficile da definire e controversa, porosa e scarsamente difendibile, disancorata e in balia delle correnti. Ciò che dà un’impressione di solidità del sistema è il fatto che il potere si è liberato dal controllo politico mentre la politica ha un deficit di potere.
 
Sempre più lucido, sempre più indignato, Zygmunt Bauman, 87 anni, se ne va portando da solo la sua valigia, con la sua pipa e un fascio di carte che gli servono per il pamphlet sulla disuguaglianza che uscirà tra qualche mese.
 
Fabrizio Tonello

Da - http://www.unipd.it/ilbo/content/il-potere-si-e-liberato-dal-controllo-politico-intervista-con-zygmunt-bauman
5763  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Bill Emmott. E sull’Unione incombe Marine Le Pen inserito:: Gennaio 09, 2017, 05:31:53 pm

E sull’Unione incombe Marine Le Pen

Pubblicato il 09/01/2017

Bill Emmott
   
Il Generale Charles de Gaulle ne sarebbe orgoglioso. Perché il futuro dell’Europa in questo nuovo anno non sarà plasmato in Germania, né in Italia, né nella problematica Russia, e nemmeno nella Gran Bretagna della Brexit, ma in Francia. Altri avranno un ruolo, potrebbero anche creare dei casi. Ma sarà la Francia ad avere l’influenza più decisiva.

De Gaulle non era un fautore molto collaborativo della solidarietà europea. Dopo tutto, com’è noto, a metà degli Anni 60 ricattò la giovane Comunità europea boicottando gli incontri per promuovere la propria visione di un’Europa intergovernativa piuttosto che sovrannazionale. Era quello che Donald Trump potrebbe chiamare «La France prima». Ma ecco, voleva l’Europa per rendere la Francia più potente nel mondo, e questo sta di nuovo per accadere.

Uno dei motivi è ben noto: la possibilità, ed è scioccante anche solo che si possa definire una possibilità, che a maggio Marine Le Pen del Front National possa essere eletta alla presidenza. Chi non ha sentito enunciare la cupa logica speculativa? Che dopo la Brexit e Trump, il prossimo colpo alle previsioni razionali e alla saggezza convenzionale, la prossima vittoria del populismo, debba essere il presidente Le Pen?

Se ciò dovesse accadere, l’Unione europea finirebbe in pezzi. A differenza di Trump, Le Pen è in politica da 20 anni e le sue posizioni politiche hanno una consistenza che significa che devono essere prese sul serio: lei vorrebbe ricostruire le barriere commerciali della Francia, lasciare l’euro e limitare rigorosamente l’immigrazione, e nessuna di queste cose è compatibile con l’Unione europea come la conosciamo. E lei fa davvero sul serio.

Il risultato è che non ha senso alcuno in qualsiasi Paese dell’Ue - la Gran Bretagna che negozia la Brexit, l’Italia che prende in considerazione di andare al voto - prendere decisioni importanti fino alla conclusione del secondo turno delle elezioni presidenziali in Francia, il 7 maggio. Il risultato è semplicemente troppo importante per tutti noi. Ma è importante anche per un altro motivo, oltre alla paura di un presidente Le Pen.

Questa seconda ragione per cui l’influenza della Francia sarà determinante è molto più positiva. Nei suoi 60 anni di esistenza l’Unione europea non ha mai fatto progressi, non è mai stata in grado di agire in modo credibile e con decisione, tranne quando i governi di Francia e Germania hanno pensato insieme, pianificato insieme e lavorato insieme. Durante i cinque anni del mandato del presidente François Hollande, questo motore franco-tedesco è arrivato a un punto morto. Nessuna delle due parti si fida dell’altra e i tedeschi pensano che il presidente Hollande sia debole e incapace.

Senza il motore franco-tedesco, la gestione delle molteplici crisi dell’Europa è stata disastrosamente lenta, inefficace e divisiva. Eppure Francia e Germania hanno interessi comuni: le uccisioni di Berlino il 19 dicembre, a poco più di un anno dal massacro del Bataclan e cinque mesi dopo un identico attacco condotto con un camion a Nizza, hanno dimostrato che i due Paesi devono affrontare la stessa minaccia terroristica; avendo concepito insieme l’euro quando Kohl e Mitterrand erano presidenti e collaboravano strettamente, condividono un profondo interesse per far funzionare il sistema valutario; e con l’America di Trump, potenzialmente ostile all’Europa, hanno più che mai bisogno l’uno dell’altro nella geopolitica.

Se in Francia a maggio si verifica il risultato più probabile delle elezioni presidenziali, vale a dire la vittoria del candidato di centro-destra François Fillon, si potrebbe aprire una nuova era per la collaborazione franco-tedesca. Fillon, economicamente un liberalizzatore, ma conservatore sotto il profilo sociale, è molto più compatibile con il cancelliere Angela Merkel e soprattutto con i suoi sostenitori della Democrazia cristiana e dell’Unione cristiano sociale, rispetto al presidente Hollande. Potrebbe anche riuscire a convincere Merkel e il parlamento tedesco ad allentare i vincoli di bilancio stretti che bloccano le economie della zona euro.

Ma il risultato probabile si avvererà, dopo un 2016 che ha visto vanificati i risultati dati per probabili in Gran Bretagna e in America? I principali pericoli, in Francia come in Olanda, dove si vota a marzo, e in Italia, in qualsiasi momento si voterà, nascono dalla combinazione di alto tasso di disoccupazione, redditi delle famiglie stagnanti e paura dell’immigrazione.

Il problema di Hillary Clinton è stato il suo legame troppo stretto con le istituzioni americane che avevano portato al crollo finanziario del 2008 e che in seguito non sono state in grado di gestire una ripresa equa. La Brexit è un caso molto diverso, data la lunga storia di semi-distacco dall’Europa della Gran Bretagna, ma può ancora essere spiegata con l’alienazione dai poteri costituiti che fondamentalmente comprendevano un’Europa che, grazie alla perdita del motore franco-tedesco, ormai sembrava un problema piuttosto che un qualsiasi tipo di soluzione.

Per vincere nel 2017 i partiti politici e gli intellettuali che auspicano società aperte e liberali e una collaborazione a livello europeo dovranno dimostrare di poter offrire più speranza per il futuro dei cittadini di tutte le età di quanto non facciano i sostenitori della chiusura e del rifiuto dell’Europa, come ad esempio le Pen e Geert Wilders nei Paesi Bassi.

Questo significa che dovranno convincere gli elettori che possono far di nuovo funzionare l’Europa, rendendola parte della soluzione per i problemi nazionali piuttosto che essa stessa un problema. Soprattutto dovranno convincere gli elettori che sono in grado di restituire dinamismo all’economia nazionale, rimuovendo ciò che ostacola la crescita e la creazione di posti di lavoro. 

François Fillon è adatto a questo compito perché è capace di rivolgersi sia ai giovani che vogliono lavoro e opportunità sia ai più anziani che si preoccupano dei valori francesi tradizionali. Entrambi gli altri principali candidati, Manuel Valls per la sinistra e l’indipendente Emmanuel Macron, hanno anch’essi la capacità di ispirare i giovani ma, in quanto appartenenti al governo Hollande, risultano compromessi dal suo fallimento. La posta, per l’Europa e per il mondo, non potrebbe essere più alta.
[traduzione di Carla Reschia]

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/09/cultura/opinioni/editoriali/e-sullunione-incombe-marine-le-pen-0VA9ClmAglQCbUW9r4O5uL/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170109.
5764  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino. Da FB ... inizio 2017 inserito:: Gennaio 09, 2017, 05:29:40 pm
E' tremendo quando ci si rende conto di non essere amato!

Non tanto per l'amore che non riceviamo ...
quanto per l'amore che non può cogliere, chi amiamo.

ciaooo
5765  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / JACOPO IACOBONI. - Distrarre dalla Raggi e rassicurare le cancellerie: ... inserito:: Gennaio 09, 2017, 01:33:20 pm
Distrarre dalla Raggi e rassicurare le cancellerie: Casaleggio jr ordina, il fedelissimo Borrli telratta
Ma il fronte anti-Di Maio attacca: se Virginia ha mentito, rischia davvero di cadere

LAPRESSE
Pubblicato il 09/01/2017
Ultima modifica il 09/01/2017 alle ore 07:03

Jacopo Iacoboni

Ier i Nigel Farage ha contattato Beppe Grillo. Un colloquio, ha poi raccontato, nel quale si è complimentato per le recenti prese di posizione del leader M5S iper euroscettiche e molto dure sui migranti. Da quello che ha riferito - Farage ha detto di aver capito che «l’alleanza del M5S con l’Alde non durerà a lungo». Il colloquio con «Beppe» è stato totalmente amichevole, il che appare bizzarro, nel giorno di uno dei più clamorosi, ma anche intelligenti cambi di idea politici della stagione recente: il gruppo grillino passa dall’alleanza con uno dei più feroci euroscettici, il leader della Brexit, all’alleanza con un «eurofanatico», come proprio Farage definisce Verhofstadt. Ma perché avviene proprio adesso, questa svolta a trecentosessanta gradi? E poi: chi l’ha decisa, e attuata? 

Adesso perché la Casaleggio ha bisogno di cambiare totalmente il frame dell’informazione, che da oggi sarà centrato sui guai di Virginia Raggi (da stamattina ogni giorno potrebbe essere quello buono perché i pm interroghino la sindaca di Roma). La tragedia politica che sarebbe stato un avviso di garanzia, che poteva essere dirompente nella logica forcaiola «indagine uguale dimissioni», è stata attutita col nuovo codice etico grillino: le dimissioni non ci saranno più, per un eventuale avviso di garanzia.

Senonché, rivela una fonte che ha accesso alla discussioni importanti nel Movimento, è sorto un altro problema grosso nel quale Raggi s’è infilata da sola, e che spiega quanto sia necessario ancora - per Grillo e Davide Casaleggio - coprire mediaticamente questa vicenda: Raggi potrebbe aver mentito. «Il 16 dicembre, dopo l’arresto di Marra, la sindaca, nella famosa conferenza stampa con accanto Daniele Frongia, disse che “Marra era solo uno dei 23 mila dipendenti del Comune”. È stato un grave errore non comunicativo, politico». Anche al grillino più impermeabile ai fatti risulterebbe difficile credere alla sincerità di questa affermazione della sindaca se - come sembra probabile - dalle chat tra lei e l’ex vicecapo di gabinetto venisse fuori un rapporto politico-amministrativo preferenziale tra i due. «Se Raggi avesse mentito che si fa?».

Il fronte Fico-Lombardi (personaggi diversissimi, ma gli unici - per antica militanza uno, per astuzia e, a modo suo, coraggio politico l’altra) potrebbe chiedere la testa della sindaca, a quel punto proprio usando il nuovo codice: che protegge dall’avviso di garanzia, ma spiega che le dimissioni possono esser decise (fu in sostanza il caso di Pizzarotti) quando l’eletto M5S non si comporta in maniera trasparente, o peggio, mente ai «cittadini». I suoi elettori. Ossia: al popolo cinque stelle. In quest’ottica sollevare proprio oggi la questione europea è arma di distrazione di massa (dopo la storia del tribunale popolare sulle fake news). 

Chi ha deciso, comunque, tempistica e contenuto della svolta sull’Alde? Le impronte di Davide Casaleggio, attraverso il suo fedelissimo David Borrelli, sono ovunque. Di Maio era di certo uno dei pochi a sapere. Come probabilmente il primo capogruppo M5S in Europa, Ignazio Corrao. Borrelli ha sondato le varie opzioni di alleanza; certo è uno non amato dagli ortodossi, perché considerato troppo poco anti-europeista (in tv da Mentana disse «io ho 45 anni, sono nato e cresciuto con il sogno europeo. Il mio primo viaggio è stato un interrail in giro per l’Europa. Credo fortemente in quello che era l’Europa all’epoca»). L’obiettivo di questa mossa di Casaleggio jr è rassicurare le cancellerie europee - a Milano hanno al fin notato che, per gli osservatori stranieri, il M5S sta finendo in un ghetto, quello dei partiti xenofobi, anti-euro e filorussi. «Vogliono giocarsi il tutto per tutto alle prossime politiche, che per loro sono un “o la va o la spacca”». Il Movimento è talmente diviso, e deve tenere insieme talmente tante cose disparate che, paradossalmente, ha una sola chance: vincere a breve, costi quel che costi. Pazienza per la base, il mito delle origini, le contraddizioni e le giravolte.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/09/italia/politica/distrarre-dalla-raggi-e-rassicurare-le-cancellerie-casaleggio-jr-ordina-il-fedelissimo-borrelli-tratta-oJYe2kh9qcLsopqe3SkGnK/pagina.html
5766  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / ALBERTO FLORES D'ARCAIS. Intelligence Usa: "Putin ordinò di influenzare il voto" inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:51:46 pm
Intelligence Usa: "Putin ordinò di influenzare il voto".
Trump: "Nessun effetto sul risultato"
Il report degli 007 sulle operazioni di hackeraggio durante le elezioni. La Russia puntava ad aiutare il candidato repubblicano screditando la concorrente Clinton. Dem all'attacco: "La nostra democrazia dipende da come reagiremo"

ALBERTO FLORES D'ARCAIS
06 gennaio 2017
 
NEW YORK - L’accusa adesso è precisa: “Abbiamo determinato che il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato nel 2016 una campagna per influenzare l'elezione presidenziale Usa”.

Per l’Intelligence americana non ci sono più dubbi, c’è la longa manu del Cremlino dietro gli hacker che hanno violato i sistemi informativi Usa con l’obiettivo “di minare la fiducia dell'opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico, denigrare Hillary Clinton e danneggiarla nel suo tentativo di essere eletta presidente degli stati Uniti”. Un atto di accusa gravissimo, scritto nero su bianco nel rapporto (cinquanta pagine) che i servizi di spionaggio Usa (è firmato dal direttore della National Intelligence James Clapper) hanno consegnato giovedì ad Obama e ieri al nuovo presidente (sarà in carica dal 20 gennaio) Donald Trump.

Quando i particolari sulle accuse a Putin sono stati resi pubblici era passata solo un’ora dall’incontro che Clapper (insieme al capo della Cia John Brennan e al direttore del Fbi James Comey) aveva avuto proprio con The Donald per consegnargli il rapporto e nel tentativo di abbassare i toni di quella che è diventata una guerra aperta tra il prossimo presidente e i vertici dello spionaggio Usa (che Trump ha già deciso di sostituire praticamente in blocco).

"È stato un incontro costruttivo", aveva detto Trump dopo quasi un’ora e mezzo di colloqui, gettando acqua sul fuoco di una polemica che pur tutta la giornata di venerdì aveva costretto tv e giornali online a una serie di ‘breaking news’ sull’argomento. Aveva chiesto che "entro 90 giorni" dal suo insediamento gli venisse presentato un piano “su come combattere e fermare i cyber-attacchi contro” gli Stati Uniti, aveva confermato quello che ripete da giorni (“gli hackeraggi non hanno avuto alcun impatto sulle elezioni”), aveva ammesso solo una generica colpa di Mosca (“Russia, Cina, altri paesi e gruppi hanno compiuto cyber-attacchi contro alcune strutture americane”)  e si era scagliato nuovamente contro i media, accusati di scrivere “il falso”.

Nel testo (ora reso pubblico) i capi delle agenzie di intelligence Usa dicono anche che “Putin e il governo russo hanno manifestato una chiare preferenza per il presidente eletto Trump”, ma che gli hackeraggi ordinati dal Cremlino “non hanno avuto alcun effetto sul risultato delle elezioni” e come non ci sia stata “alcuna alterazione delle macchine per votare”.
C’è però la quasi certezza (il testo parla di “alto grado di fiducia”) sul fatto che “i tentativi russi di influenzare l’elezione presidenziale Usa nel 2016 rappresentino la più recente espressione del desiderio di lunga data di Mosca di minare l'ordine democratico liberale Usa” e come questi hackeraggi abbiano dimostrato “una significativa escalation nel livello di attività, scopi e sforzi rispetto a precedenti operazioni” del Cremlino: “Con operazioni ‘coperte’ (segrete) come i cyber-attacchi e anche con operazioni a volto scoperto da parte di agenzie governative russe, media finanziati da Mosca, intermediari di terze parti (Wikileaks, ndr) e attività a pagamento di troll”. Quanto basta e avanza per dare il via a una nuova guerra fredda “digitale” e per mettere in difficoltà Donald Trump, la sua dichiarata (ancora due giorni fa) amicizia con Putin e lo strano asse che lo ha visto difendere (su Twitter) Assange e Wikileaks.

“È una caccia alle streghe” aveva detto il nuovo presidente al New York Times un paio d’ore prima dell’incontro con i capi dell’Intelligence e dopo che il Washington Post aveva pubblicato alcuni contenuti del rapporto con le intercettazioni di funzionari russi che “hanno esultato per la vittoria di Trump”, considerata un “successo geopolitico” per Putin e che hanno celebrato l’avvenimento “congratulandosi fra loro”. E dopo che erano stati identificati “gli intermediari grazie ai quali i russi hanno fornito a Wikileaks le email trafugate dagli hacker di Mosca al partito democratico”.

Evocare gli spettri degli anni Cinquanta dopo aver chiesto che i media americani “vengano messi sotto inchiesta” per le rivelazioni sugli hacker russi al soldo del Cremlino, era sembrata la solita mossa imprevedibile di The Donald. Questa volta il rischio che sta correndo sembra però più alto del solito: perché se è vero che fra pochi giorni cambieranno tutti i vertici dell’Intelligence, lo scontro è ormai aperto anche con esponenti influenti del partito repubblicano. Il senatore John McCain ed altri membri del Congresso si sono schierati pubblicamente dalla parte dell’Intelligence e James Mattis, il generale (in pensione) da lui nominato capo del Pentagono e noto con il nomignolo di Mad Dog, cane pazzo, si è scontrato apertamente con il Transition Team di Trump su alcune nomine cruciali per la Difesa.

Per quanto indeboliti, dopo la perdita della Casa Bianca e di un voto che ha dato una maggioranza considerevole ai repubblicani nel Congresso, i democratici sembrano decisi a fare di questa storia degli hackeraggi “ordinati da Putin” la prima vera battaglia di opposizione contro la Cada Bianca di Trump: “con tutti i mezzi possibili”.

© Riproduzione riservata 06 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/01/06/news/trump_hacker_intelligence-155532989/?ref=HREC1-1
5767  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Massimo Franchi La neosegretaria della Fp Cgil: “Conosco la Madia, siamo coetane inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:49:51 pm
   Interviste
Massimo Franchi - @MassimoFranchi
· 13 giugno 2016

“Così io e Marianna firmeremo i contratti”.
Parla Serena Sorrentino (Fp-Cgil)

La neosegretaria della Fp Cgil: “Conosco la Madia, siamo coetanee. Se alle dichiarazioni seguiranno i fatti rinnoveremo il settore pubblico fermo da ben 7 anni. Ma servono più risorse”

Prova vivente del rinnovamento del sindacato, la sua elezione è stata salutata con un tweet direttamente dal ministro Marianna Madia: “Congratulazioni a @sorrentinoser nuova segretaria generale @FpCgilNazionale sarà un confronto aperto e stimolante”. Mercoledì Serena Sorrentino, 37enne napoletana, è stata eletta segretario generale della Funzione pubblica (Fp) della Cgil. Si tratta della più giovane sindacalista a guidare una federazione delicata e importante come quella dei pubblici, incarico arrivato dopo quello di segretario confederale ricoperto dal giugno 2010.

Sorrentino, col ministro Marianna Madia – 36 anni a settembre – siete praticamente coetanee. E, se non sbaglio, vi conoscete già.

Sì, ci siamo incontrate molte volte. Sia nel suo ruolo precedente di parlamentare del Pd (nel 2011 il ministro Madia scrisse un libro dal titolo “Precari. Storie di un’Italia che lavora” con prefazione di Susanna Camusso, ndr) che come ministro in quanto io avevo la delega confederale alla contrattazione pubblica. La nostra è una conoscenza istituzionale, non a livello personale. Detto questo il suo tweet di benvenuto mi ha fatto molto piacere e le ho risposto subito che aspetto che apra il confronto.

Vi troverete una di fronte all’altra a trattare il rinnovo dei contratti pubblici. Pensa che l’affinità generazionale potrà aiutare a trovare un accordo? Si può dire che in qualche modo parlate un linguaggio nuovo entrambe.

Non lo so. Anche il nostro linguaggio dipende dal percorso di formazione: lei politica, io sindacale. In questo momento ciò che accadrà è nelle mani del ministro: è lei che ha aperto alla ricontrattualizzazione dei contratti pubblici. Noi abbiamo apprezzato le aperture, alcune dichiarazioni condivisibili altre ci vedono in netto disaccordo ma verificheremo i fatti.

Iniziamo quindi dall’ultima dichiarazione del ministro Madia: “Gli aumenti contrattuali dei dipendenti pubblici andranno ai redditi più bassi”. Concorda?
Se significa tenere fuori dagli aumenti salariali i dirigenti e capi dipartimento siamo anche d’accordo. Si tratta di stipendi molto alti che di certo non hanno risentito – se non marginalmente – del blocco contrattuale di 7 anni. Dopo di che il problema vero è come –e se –verranno contrattati gli aumenti salariali sulla stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici. Visto che c’è ancora il rischio che il governo decida i criteri con un decreto senza nemmeno confrontarsi con i sindacati.

L’altro grande problema è quello delle risorse: la legge di stabilità ha stanziati solo 300 milioni. Una vostra stima sostiene che si tramuterebbero in soli 5 euro al mese per ogni dipendente.
Sì, è così. Questo è il problema più grande. Trecento milioni sono pochissimi. Soprattutto se rapportati ai 16 miliardi spesi in decontribuzione regalati alle imprese col Jobs act con effetti limitati sui posti di lavoro che sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di una cifra simbolica appostata per evitare di incorrere in un nuovo giudizio dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha obbligato il governo a rinnovare i contratti pubblici dopo 7 anni. In più dobbiamo ricordare che le risorse che noi chiediamo per i contratti servono certamente per aumentare i salari, ma servono anche alla formazione, alla contrattazione decentrata che aiuta a migliorare i servizi ai cittadini che la Pa deve erogare. Stanziare così poche risorse significa non voler migliorare i servizi ai cittadini.

Il blocco contrattuale si spiegava informalmente così: nella crisi i lavoratori privati rischiano il posto, i pubblici no. Quindi per loro è giusto non avere aumenti…
Ma non è così. È falso sia che i dipendenti pubblici siano ipergarantiti e che – ancor di più – guadagnino più di altri: il Conto annuale appena reso pubblico certifica che i redditi medi dei dipendenti pubblici sono molto bassi.

Risorse a parte; cosa si aspetta dunque dal ministro Madia per arrivare al rinnovo dei contratti?
Che si abbandoni l’ottica punitiva rispetto ai lavoratori pubblici e l’unilateralità delle decisioni dei dirigenti. Il ministro dovrà presentare l’atto di indirizzo all’Aran sul rinnovo dei contratti: deve prevedere, secondo noi, che la contrattazione sia liberata dai vincoli della legge brunetta e non si limiti alla parte normativa ma si contratti anche la parte economica: non accetteremo che ancora una volta gli aumenti siano decisi senza confronto.

La riforma Brunetta prevede la divisione dei dipendenti in tre fasce rispetto al merito: un 25 per cento che sarà premiato, un 50 per cento senza infamia e senza lode e un 25 per cento che verrà penalizzato.
Noi siamo subito stati contrari. E il motivo principale è che in questo modo non si incentiva assolutamente l’impegno o il merito. È invece un metodo di una rigidità assoluta che mette tutto nella disponibilità del dirigente.

Vi aspettate una convocazione a breve?
Il ministro ha dichiarato che dopo che avrà portato in Consiglio di ministri l’accordo quadro che abbiamo firmato sul riordino dei comparti (ridotti da 12 a soli 4, ndr) ci convocherà. Ci auguriamo lo faccia a breve.

La sentenza della Corte di Cassazione sulla non applicazione della riforma Fornero sull’articolo 18 per i dipendenti pubblici cambierà qualcosa?
Era scritto in legge l’esclusione del lavoro pubblico. Dopo di che se lo chiede alla Cgil la nostra risposta sta nella Carta dei Diritti, una sola disciplina che valga per tutti: se un licenziamento è illegittimo il lavoratore va reintegrato, se accetta, liberamente, l’indennizzo questo deve essere di entità tale da avere funzione di deterrenza.

Chiudiamo con il capitolo Cgil. Lei viene definita come “la delfina di Susanna Camusso”. Le fa piacere o la infastidisce?
Cosa vuole che le dica? Il delfino almeno è un mammifero intelligente.

La definizione porterebbe alla conseguenza che lei sarà il prossimo segretario generale della Cgil…
Sono stata chiamata a dirigere i dipendenti pubblici. Spero di poterlo fare e di raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati – rinnovo dei contratti e allargamento dei diritti – portando a termine il mio mandato, quindi direi che ho un’altra prospettiva e la categoria mi piace molto.

Lei comunque impersonifica il cambiamento del sindacato. Nessuna alla sua età è mai stato segretario confederale e segretario generale di una federazione così importate. Ancor di più in quanto donna.
È un ruolo di grande responsabilità e dimostra come la Cgil è un sindacato aperto e in grado di accogliere generazioni diverse.

Si racconta che lei entrò in Cgil da studentessa media. E non ne è più uscita. Si è mai sentita una anomalia?

Ci sono tanti giovani con incarichi importanti, come la nuova segretaria generale della Filcams (la federazione del commercio e servizi, quella con più iscritti, ndr) Maria Grazia Gabrielli che ha pochi più anni di me. Noi abbiamo certamente portato nella Cgil l’esperienza di chi ha vissuto la precarietà sulla sua pelle. E magari un linguaggio meno sindacalese. Ma nel sindacato generazioni diverse convivono.

Niente rottamazione dunque…
Non esiste proprio. Io ho imparato dai sindacalisti più esperti gli strumenti della contrattazione. Ci si trasmette la conoscenza. In questo modo in Cgil si riesce ad avere un equilibrio, a rappresentare tutti: l’organizzazione è in grado di rigenerarsi senza traumi. Se fino a qualche anno fa i giovani sentivano il sindacato lontano, ora grazie all’idea di contrattazione inclusiva che tenga conto di tutti i lavoratori, riusciamo a tenere assieme anche i meno garantiti che prima potevano sentirsi esclusi.

Lei è la segretaria confederale che ha seguito in prima persona la stesura della Carta dei diritti universali, il nuovo Statuto su cui state raccogliendo le firme per una proposta di legge popolare. Non le dispiace lasciare il progetto?
Non è così perché anche da segretario della Fp posso seguirlo: ad esempio, da noi circa il 40 per cento dei lavoratori sono del settore privato. I problemi sono gli stessi di qualsiasi altra categoria, e poi la Carta parla a tutti pubblici e privati.

Accanto alla Carta state raccogliendo le firme per tre referendum abrogativi su articolo 18, voucher e appalti. Dato per scontato che riusciate a raccogliere le firme, nel giugno 2017 si dovrebbe votare. Crede che per quel tempo l’opinione pubblica sarà in grado di capire e appoggiare le vostre proposte?
I referendum sono uno strumento che abbiamo deciso di utilizzare per spronare il Parlamento a discutere della Carta che propone una nuova cultura del lavoro che superi la divisione lavoratori dipendenti-autonomi e dia nuovi diritti comuni a tutti. Detto questo, osservo che già sui voucher – seppur con un provvedimento non sufficiente – e sulla flessibilità sulle pensioni il governo è stato costretto a mettere mano ad argomenti da noi sollevati, quindi la mobilitazione dei lavoratori è in grado di cambiare l’agenda politica. Il quadro politico è già mutato e muterà ancora di più da qui a giugno 2017: siamo certi che l’opinione pubblica ci appoggerà. Anche sull’articolo 18: perché non chiediamo di tornare al vecchio Statuto ma cambiare totalmente il principio, il meccanismo sanzionatorio. Perché la sanzione verso i licenziamenti illegittimi sia un vero deterrente, bisogna punire le aziende che sbagliano non i lavoratori senza colpe, stiamo parlando di licenziamenti dichiarati “illegittimi e senza giusta causa”, non tutti i licenziamenti.

Ultima domanda: nel 2014 ad un Direttivo Cgil lei fu contestata perché disse che “Di Vittorio nel 1952 aveva pensato lo Statuto dei lavoratori”. Com’è finita quella storia?
Fui contestata da una sola persona: il segretario della Fiom di Genova Grondona. Che urlò che Di Vittorio era morto nel ’57 e che lo Statuto era del 1970. Ma avevo ragione io: nel congresso di Napoli del 1952 Di Vittorio parlò già di Statuto dei lavoratori. E tutti me lo riconobbero, ma sa è difficile riconoscere per alcuni che possono essere affiancati da dirigenti più giovani, fortunatamente la rottamazione non ha cittadinanza in Cgil né dei giovani verso i più maturi, né dei più maturi verso i più giovani.

Da - http://www.unita.tv/interviste/cosi-io-e-marianna-firmeremo-i-contratti-parla-serena-sorrentino-cgil/
5768  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Andrea Malaguti. Nella piccola Venezia tradita: “I 5 Stelle non li voteremo più” inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:46:35 pm
LaStampa.it
Nella piccola Venezia tradita: “I 5 Stelle non li voteremo più”
A Chioggia un deposito a Gpl mette in crisi la giunta eletta da solo 6 mesi
Una delle manifestazioni del comitato No Deposito Gpl che con 11mila firme aveva sostenuto il candidato Ferro al ballottaggio

Pubblicato il 07/01/2017 - Ultima modifica il 07/01/2017 alle ore 08:21

Andrea Malaguti   
Inviato a Chioggia (Venezia)

Il problema è che qui, nella piccola Venezia, dove i leoni sulle colonne bianche delle piazze sono grandi come gatti, fanno storicamente fatica a mettersi d’accordo. O anche, come dice il consigliere della Lega Nord, Marco Dolfin: «Se si andasse a votare tre volte nella stessa settimana eleggeremmo tre sindaci diversi». Forse. Solo che in questo caso tra i pescherecci e le spiagge di Chioggia, 49 mila abitanti che vivono di vongole, stabilimenti balneari, alberghi e campi da coltivare nella nebbia, non c’è aria da commedia goldoniana - «Sior sì balemo, devertimose, za che semo novizzi» - piuttosto da melodramma mariomeroliano.

Uno scenario reso ancora più cupo dal freddo polare della laguna che ha trasformato in pochi mesi l’aria inebriante del cambiamento elettorale in un muro di sospetti e rancori. Doveva essere una rivoluzione limpida e veloce quella del governo a 5 Stelle dell’architetto Alessandro Ferro, si sta trasformando in una via crucis che inchioda il neo sindaco a due problemi antichi - la gestione degli immigrati e la messa in sicurezza della Romea - e a uno emerso di recente, ma diventato decisivo per il cambio di guardia avvenuto sei mesi fa al palazzo del Comune: i tre bomboloni del deposito di Gpl piazzati all’improvviso tra il porto e le case, monumento indecente a tutto ciò che non si vuole, non si dovrebbe fare e che dunque si farà. A che cosa serve? Chi l’ha voluto in questa terra di baruffe, capace di votare indifferentemente a sinistra, a destra, adesso Grillo, ma rimasta democristiana nel profondo? E, soprattutto, quanto è pericoloso? «Potenzialmente molto e di certo non l’abbiamo voluto noi», dice il sindaco, che in campagna elettorale, sostenuto dal vice presidente della Camera Luigi Di Maio, aveva giurato che se avesse vinto lui l’impianto sarebbe sparito da Chioggia. «Era una speranza». E adesso? «Bisogna fare i conti con la legge. E non è semplice». Già sentita, questa.

 I tre bomboloni 
Il passaggio dalla promessa alla speranza non è piaciuto al comitato «No Deposito Gpl» che, forte delle sue undicimila firme (una valanga), aveva sostenuto Ferro nel ballottaggio con il sindaco uscente Giuseppe Casson, capace di ottenere il 35% dei voti (contro il 22% grillino) alla prima tornata. E qui servirebbe una parentesi. Perché Casson, che aveva aperto la legislatura con il Pd, era riuscito a chiuderla con la Lega Nord, accorgendosi con ritardo, ritenuto a dir poco colpevole, della nascita dell’ecomostro voluto tecnicamente da Romano Tiozzo, sindaco prima di lui, da sempre vicino a Comunione e Liberazione. Vi state perdendo? Normale. Perché il miscuglio di tradimenti, incoerenza, dribbling e riposizionamenti, tra queste calli di aria salata, è indescrivibile ma da record mondiale e comunque, stringendo, ha fatto sì che al momento decisivo i due terzi di Chioggia sbattessero Casson fuori dal Palazzo. Tutti contro uno. Contro. Non pro. «Ma oggi dubito che i 5 Stelle vincerebbero ancora», dice l’avvocato Giuseppe Boscolo, che oltre a essere il legale dei No Gpl è anche il portavoce del comitato Romea Sicura, che da anni si batte per rivedere il percorso della strada più pericolosa d’Italia. «Anche su questo Ferro ci ha voltato le spalle». Ma lei lo ha votato? «In effetti non ero ostile». E oggi? «Direi che sono degli incompetenti». Un amore finito male. Perché, giura Boscolo, il sindaco, che un tempo passava le giornate a battagliare con loro, adesso non li ascolta più. «E’ il comitato che pretende di dettare legge», replica Ferro. Baruffa. 

Intanto i tre bomboloni, odiati da tutti con l’eccezione del Vescovo, restano lì (pronti a essere riempiti già all’inizio di maggio) occupando uno spazio di novemila metri cubi destinato al Gpl che le navi gasiere porteranno dal Medio Oriente. «L’impianto è pericoloso. Si ricorda che cosa fece un vagone solo di gpl alla stazione di Viareggio? La legge prevede che una struttura così dovrebbe stare ad almeno due chilometri dalle case. E invece questo è a duecento metri», dice Roberto Rossi, presidente del comitato. «Non basta. Lo spazio era destinato a rifornire di carburante la marina, poi, senza nessun cambiamento di destinazione d’uso, è stato allargato in maniera abnorme e predisposto per stoccare il Gpl che servirà tutto il Nord Italia. Secondo il governo è un’opera strategica. Secondo noi impedirà ai pescherecci di entrare in porto e ne ucciderà le attività. Sono a rischio pesca e turismo. Non volevamo le gasiere, ma le grandi navi». Non esattamente la stessa cosa. «Io non so se qualcuno ha preso delle tangenti come mormorano in tanti, ma mi piacerebbe che un’inchiesta della magistratura andasse a fondo», dice Maria Rosa Boscolo, pasionaria ex infermiera che oggi guida le manifestazioni di piazza. «Nella vita ho sempre votato a sinistra. Stavolta 5 stelle, perché c’era bisogno di riempire un vuoto. Spero di non avere sbagliato». Così a soli sei mesi dall’insediamento il Movimento - incendiario all’opposizione, pompiere al governo - è già sotto processo. E ad attaccarlo non sono solo i comitati.

Guerra agli immigrati 
Quando ha sentito l’oggetto dell’ordine del giorno, Maria Chiara Boccato, ventinovenne al primo mandato in consiglio, ha pensato a uno scherzo. «Mica voteremo questa robaccia?». Votata. A larghissima maggioranza. Con il Movimento compatto e una sola eccezione. Lei. Ma compatto su cosa? Su un documento presentato dalla Lega che in premessa - con la inevitabile imprecisione della sintesi - diceva: siccome gli extracomunitari portano disordine e malattie, non solo è il caso che non li facciamo salire sugli autobus con noi, ma ci organizzeremo affinché sia impedito loro di arrivare nel nostro territorio. Letto e ratificato. Gorino ha fatto scuola anche qui, a pochi chilometri da Cona. «Una cosa indecente». Boccato dice che i suoi colleghi grillini sono diventati arroganti e sospettosi, neanche fossero guardie di frontiera al controllo passaporti. E che fanno fatica a parlare con la stampa e con chi non li ama. «Ma noi non siamo così e dobbiamo ricordarci che non abbiamo preso il 67% dei voti, ma il 22», E quando parla dà l’impressione di restringersi sempre di più per effetto del freddo.

Fedelissimi 
A Palazzo Comunale Gilberto Boscolo, ex consigliere e ora segretario di Ferro, ma secondo molti vero sindaco di Chioggia destinato presto a correre per un seggio romano, spiega che il successo 5 Stelle è semplice. «Casson era immobile. Noi no». Di fronte a lui Ortensio Crepaldi, ex infermiere ed ex sindacalista, accanito sostenitore di Grillo, alza un muro contro l’offensiva degli ex amici diventati nemici. «Oggi in Comune c’è qualcuno che ci ascolta. Certi attacchi sono strumentali. I 5 Stelle sono giovani. Bisogna dare loro il tempo di crescere». E se intanto l’impianto Gpl apre? «Vedremo. Di certo il sindaco e i suoi collaboratori hanno individuato i problemi: la Romea, l’impianto, il turismo e l’agricoltura». Facile. «Non è vero prima i problemi li nascondevano. E magari qualcuno sul Gpl ci ha pure guadagnato». Divaga sugli albergatori che non sanno stare uniti e sui pescatori di frodo che grazie alle vongole hanno bagni firmati Valentino e si comportano come pistoleri in un saloon di Dodge City. Baruffe. Sempre baruffe. Inevitabili baruffe. Questa è Chioggia. «I 5 Stelle però hanno la forza per cambiare. Ora devono dimostrarla». Se no? «Vedremo». Di nuovo. E magari ha ragione don Angelo Busetto, parroco del Duomo, quando stigmatizzando la supposta superficialità dei suoi diocesani dice: «La verità è che a Chioggia la gente non cambia mai idea, cambia solo bandiera». Sipario. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/07/italia/politica/nella-piccola-venezia-tradita-i-stelle-non-li-voteremo-pi-N2EZc679lbdonZEQvzF1ML/pagina.html
5769  Forum Pubblico / Le tesi dell'Ulivo oggi solo una Corona Olimpica? / “In democrazia il popolo è SEMPRE sovrano”. FALSO! di Emilio Gentile inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:44:41 pm
CORTINA D’AMPEZZO • venerdì 6 gennaio   

A Una Montagna di Libri
Emilio Gentile presenta

“In democrazia il popolo è SEMPRE sovrano”. FALSO!

(Laterza)
Con Francesco Chiamulera
Palazzo delle Poste
Ore 18

Cortina d’Ampezzo. Oggi quasi tutti gli Stati, i partiti, i movimenti politici si dichiarano democratici. Abraham Lincoln definì la democrazia «il governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Ma nel nostro tempo le cose stanno proprio così? Se lo chiede Emilio Gentile, tra i maggiori storici italiani contemporanei, autore di In democrazia il popolo è sempre sovrano. Falso! (Laterza). E Gentile sarà il prossimo ospite di Una Montagna di Libri, la rassegna protagonista della stagione letteraria cortinese. Venerdì 6 gennaio 2017, alle ore 18, l’appuntamento sarà al Palazzo delle Poste.

 EMILIO GENTILE storico di fama internazionale, considerato tra i massimi esperti del fascismo, è professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza. Allievo di Renzo De Felice, della sua vasta produzione ricordiamo La Voce e l’età giolittiana (1972), Le origini dell’ideologia fascista (1975), Mussolini e La Voce (1976), Il mito dello Stato nuovo (1982) e Le religioni della politica (2001), Fascismo. Storia e interpretazione (2002), La democrazia di Dio (2006), Il capo e la folla (2016). Nel 2003 ha ricevuto dall'Università di Berna il Premio Hans Sigrist per i suoi studi sulle religioni della politica.

 IL LIBRO. Sembra ormai che il popolo faccia da comparsa in una democrazia recitativa: entra in scena solo al momento del voto. Poi, nella realtà, prevalgono le oligarchie di governo e di partito, la corruzione nella classe politica, la demagogia dei capi, l’apatia dei cittadini, la manipolazione dell’opinione pubblica, la degradazione della cultura politica ad annunci pubblicitari. E se nelle democrazie attuali questi fossero tratti non contingenti ma congeniti?

 

L'appuntamento con Emilio Gentile è quindi per venerdì 6 gennaio 2017, alle ore 18, presso il Palazzo delle Poste di Cortina d’Ampezzo. Ingresso libero fino a esaurimento posti.

l Save the date. Prossimo appuntamento di Una Montagna di Libri sabato 7 gennaio. Presso il Miramonti Majestic Grand Hotel, alle 18, Colazione al Grand Hotel.  Moravia, Parise e la mia Roma perduta. Incontro con Marina Ripa di Meana (Maggiori dettagli nel prossimo comunicato).
4 gennaio 2016

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Una Montagna di Libri ha luogo a Cortina d’Ampezzo d’estate e d’inverno, in due edizioni. Con oltre settanta incontri annuali, è la manifestazione protagonista della stagione letteraria cortinese.
Ospiti delle precedenti edizioni della rassegna sono stati, tra gli altri, Emmanuel Carrère, Peter Cameron, Azar Nafisi, Alberto Arbasino, Serge Latouche, Goli Taraghi, Sonallah Ibrahim, Boris Pahor, Mogol, Pietro Citati, Raffaele La Capria, Michael Jakob, Dacia Maraini, Kenneth Minogue. La manifestazione è realizzata in convenzione con il Comune di Cortina d’Ampezzo e gode del sostegno di Regione Veneto e Comune di Cortina.

Responsabile della manifestazione è Francesco Chiamulera.
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5770  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI - Gli italiani e lo Stato: giù la fiducia nei partiti, ma tra ... inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:42:16 pm
Gli italiani e lo Stato: giù la fiducia nei partiti, ma tra politica e social cresce la partecipazione
Rapporto Demos: si acuisce il distacco cittadini-istituzioni mentre la campagna referendaria ha riacceso l’interesse per le questioni pubbliche

Di ILVO DIAMANTI
07 gennaio 2017

Nell'anno dell'anti-politica, mentre si acuisce il distacco dallo Stato e dai partiti, si assiste a un prepotente ritorno della politica. O meglio: della "partecipazione politica". Attraverso nuovi "media". Ma anche attraverso le forme più tradizionali. Internet e la piazza, insieme. A rinforzarsi a vicenda. Peraltro, all'indomani del referendum che ha bocciato la proposta di riformare la Costituzione, riemerge e si ripropone, ancora ampia, la domanda di riformare la Costituzione. E le istituzioni. Di emendare il bicameralismo. Di ridurre i costi della politica. Sono alcuni paradossi - apparenti - del XIX Rapporto "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica.
   
LE TABELLE

D'altronde, la campagna referendaria, per quanto aspra, ha, comunque, ri-educato gli italiani ai temi della Carta costituzionale. E ne ha concentrato l'attenzione intorno alle questioni pubbliche. Non solo, ma ha mobilitato gran parte dei cittadini. Li ha spinti al voto e, prima ancora, al dibattito. Nelle sedi politiche, ma anche nella vita quotidiana, negli ambienti privati. Sono gli effetti imprevisti di tanti mesi di confronto e divisioni. Alla fine hanno realizzato un esito unificante. Sotto altri profili, questo Rapporto riproduce un ritratto coerente con il passato.

In alto, davanti a tutto e a tutti, nella classifica dei soggetti pubblici: Papa Francesco. E le Forze dell'Ordine. Rispondono a una domanda - diffusa e radicata - di certezza etica e, d'altro canto, di sicurezza personale. Mentre le istituzioni dello Stato riscuotono la consueta diffidenza. Al tempo stesso, i cittadini sono insoddisfatti dei servizi pubblici. Provano sfiducia nei confronti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Ma, soprattutto, verso i soggetti di rappresentanza politica. I partiti, lo stesso Parlamento. Sono, come sempre, in fondo alla classifica. Evidentemente, è in questione il fondamento della nostra democrazia, visto che i principali attori della rappresentanza, i partiti, non sono solamente sfiduciati, ma vengono ritenuti "corrotti". Quanto e più che ai tempi di Tangentopoli.

Il No al referendum costituzionale, d'altronde, ha avuto - anche - questo significato. Un No al sistema dei partiti. E ai politici che li guidano. In testa: il Premier. La sfiducia diffusa nella società, peraltro, avvolge anche la sfera delle relazioni personali, dei "rapporti con gli altri". Guardati con prudenza da gran parte dei cittadini. Chissà: ci potrebbero fregare... E poi ci sentiamo "invasi". La paura degli immigrati non è mai stata così alta.

Eppure, come sempre quando si tratta dell'Italia e degli italiani, il quadro non è mai così lineare e coerente come potrebbe apparire a prima vista. La considerazione dei servizi pubblici, anzitutto. Gli italiani non ne sono soddisfatti, come detto. Eppure pochi, anzi, pochissimi richiedono davvero "più privato". È l'atteggiamento di prudenza critica, radicato nella nostra società. La democrazia: sarà anche corrotta, ma "un uomo solo al comando" potrebbe essere più pericoloso. Per non parlare della UE e dello stesso Euro. Gli italiani ne pensano il peggio. Però pochi, pochissimi, tra loro, vorrebbero abbandonare l'Euro. E la UE. Perché, anche se non piacciono, non si sa mai... Restarne fuori potrebbe costarci parecchio.

Lo stesso discorso vale per le riforme costituzionali. Non più tardi di un mese fa largamente bocciate. Tuttavia, la necessità di emendare la Costituzione, per renderla più efficiente, è largamente condivisa. E molti che un mese fa avevano votato No, oggi si dicono d'accordo con alcuni dei punti più importanti del referendum. Il superamento del bicameralismo e, soprattutto, la riduzione dei parlamentari.

Il problema è che il referendum, nella percezione generale, assai più della Costituzione, riguardava il sistema politico e di governo. Per primo, Renzi. Oggi quel governo e quel premier non ci sono più. Mentre le riforme possono attendere. Quanto, non si sa. Sicuramente, parecchio.

In questo cielo chiaroscuro c'è una zona di luce interessante e significativa. La partecipazione. Nell'ultimo anno appare cresciuta in modo significativo. In massima misura quella "im-mediata", realizzata attraverso la rete e i social-media. Strumento di "democrazia della sorveglianza". Mentre la partecipazione sociale e il volontariato segnano il passo. Probabilmente, fra queste tendenze c'è una relazione. In quanto le nuove forme di partecipazione hanno, in parte, surrogato e, talora, rimpiazzato la partecipazione sociale e volontaria. Ma si è allargata anche la partecipazione politica "tradizionale", incentivata, nel corso degli ultimi mesi dalla mobilitazione referendaria. In ogni caso, la "critica democratica" ha allargato le basi della "partecipazione democratica". Ha spinto i cittadini a interrogarsi sui valori e sui limiti della Costituzione. Sui rischi che corriamo, nel tentativo di correggerla e ridisegnarla. Ma anche su quanto ci costa la resistenza a ogni innovazione.

Insomma, nel corso dell'ultimo anno, mi pare sia cresciuto, fra i cittadini, il senso civico e critico. Insieme alla domanda di riforme. Che potrebbe essere assecondata meglio evitando di "politicizzarla". O meglio, di piegarla a fini politici contingenti. Ma mi pare sia stato un buon anno per la nostra democrazia. Nonostante tutto. Perché si è allargata la voglia e anzitutto la pratica della partecipazione. Politica e critica. Attraverso vecchie e, soprattutto, nuove vie. La mobilitazione e l'affluenza inattesa, per dimensione, al referendum, ne sono un segnale evidente. Meglio seguirlo con attenzione.

Certo, continuiamo ad essere un popolo di riformisti scettici, animati da un rapporto con lo Stato: critico e disincantato. E da un orientamento politico polemico. Eppure attivo e partecipe. Ci sentiamo europei: nonostante tutto. Siamo italiani. Una nazione con poco Stato. Oppure troppo. Dipende dai punti di vista.

© Riproduzione riservata 07 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/07/news/a_picco_la_fiducia_nei_partiti_ma_tra_politica_e_social_cresce_la_partecipazione-155539074/?ref=HREA-1
5771  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Francesco Semprini. Dai migranti al terrorismo, Trump cerca un alleato in Italia inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:40:42 pm
Dai migranti al terrorismo, Trump cerca un alleato in Italia per rilanciare l’alleanza con gli Usa
Due collaboratori del neo presidente spiegano i suoi piani dopo il risultato del referendum

Pubblicato il 07/01/2017
Ultima modifica il 07/01/2017 alle ore 09:57

Francesco Semprini

«Donald Trump ha accolto con interesse l’esito del referendum in cui vede un’opportunità di rinnovamento positivo della leadership del Paese. E in questa ottica è alla ricerca di un interlocutore preferenziale in seno alla compagine politica per rilanciare la partnership tra Stati Uniti e Italia, in particolare nell’ambito della comune lotta al terrorismo». E’ questo il messaggio che emerge dall’entourage del presidente eletto secondo quanto riferito da Guido George Lombardi e dal generale Paul Vallely, due amici e collaboratori di Trump, i quali spiegano a La Stampa la visione del prossimo inquilino della Casa Bianca nelle relazioni con l’Europa e con la stessa Italia. 

Una nuova Italia in una rinnovata Europa 
«E’ chiaro che Trump sia contento del risultato referendario alla luce dei discorsi e delle dichiarazioni fatte in passato non solo sull’Italia ma anche in merito alla Brexit», spiega Lombardi. «Tutti i suoi consiglieri, a partire da Steve Bannon che è molto vicino alla politica europea, consideravano il “no” come un primo passo verso un processo di ricollocazione dell’Italia, una sorta di distacco, non nel senso di uscita dall’Unione europea, ma di presa di distanza dagli schemi conformisti di un certa politica e di una certa Europa. Un passaggio verso la strada del popolarismo che privilegia l’economia reale, il lavoro, la real politik e l’allontanamento dall’ideologia conformista che sta decretando il fallimento del progetto europeo così com’è». 

Trump cerca un interlocutore 
Secondo il clan Trump - insiste Lombardi - questo è un «no» che rende l’Italia più forte, anche se a questo punto occorre attendere nuove elezioni per capire che piega prenderà il Paese e «per individuare il giusto interlocutore con cui l’amministrazione americana dovrà interloquire per rilanciare i rapporti con lo storico alleato». E anche di questo si è parlato a margine dei lavori di un recente forum del Endowment for Middle East Truth (EMET), osservatorio con sede a Washington fortemente pro-Usa e pro-Israele. Ed è proprio nel corso del forum che raggiungiamo telefonicamente Lombardi. «Qui a DC, in questa conferenza, ci sono diverse persone molto vicine al team presidenziali, tra cui ex militari, - prosegue l’amico italiano del presidente eletto - ed è un’opportunità per affrontare temi importanti come i rapporti con Israele, la lotta al terrorismo e il futuro delle relazioni con l’Europa». 

 
I generali puntano sull’Italia 

Tra loro c’è Paul Vallely, generale pluristellato, veterano di guerra, commentatore politico e militare, e amico del generale Michael Flynn fedelissimo di Trump e prossimo numero uno della Defense Intelligence Agency. Generale, come vede la situazione in Italia? «Alcune settimane fa ho incontrato Farrage e abbiamo discusso della situazione in atto, quello che sta avvenendo in Europa è un processo storico, il baricentro si sta spostando dalla parte della gente, in Italia, in Francia e in Germania». Secondo Vallely il popolo sta prendendo coscienza della propria sovranità, di essere la spina dorsale di nazioni indipendenti che non devono per forza essere parte di un movimento globalista e globalizzante. «E questa è un ottima cosa, per l’Italia ad esempio si è compiuto un passo nella direzione che favorisce la gente. Siamo contenti». Secondo il veterano allo stato attuale le nazioni europee non hanno l’obbligo di essere parte di una entità sovranazionale come la Ue che ha dimostrato - specie in alcuni specifici casi come l’Italia - «di esigere più di quanto offra». «Non mi sembra che Bruxelles abbia fatto molto per i popoli europei fuorché creare una burocrazia pesante comandata dai soliti noti. Sta emergendo una nuova visione dell’Europa e con questo passo ci saranno interessanti scenari di cooperazione con l’America di Trump». Quindi non ci sono dubbi sulle relazioni tra Italia ed Usa? «Italia e Usa - prosegue il generale - saranno parte di un’alleanza forte ma soprattutto rinnovata fatta da governi che difendono le rispettive sovranità e si impegnano sul piano della cooperazione». Ciò indipendentemente da chi sarà il prossimo ambasciatore a Roma («c’è una lista di una decina di persona in ballo», rivela Lombardi). 

Rifugiati e lotta al terrorismo 
E proprio sul piano della cooperazione italo-americana, secondo Vallely, con l’Italia sarà cruciale affrontare il problema dei rifugiati, lavorando al contempo sulla situazione nel Mediterraneo, in Siria, Iraq e Libia. «Occorre raggiungere una stabilizzazione della regione e di Paesi come la Siria, per consentire a chi è stato costretto a lasciarla di ritornavi a vivere anziché rifarsi una vita fuori. Il problema dei rifugiati è molto serie perché è legato in diversi suoi aspetti al rischio di terrorismo ed è il veicolo utilizzato dall’Isis per entrare in Europa». E questo secondo la cerchia di Trump è un problema che deve essere affrontato e risolto con la collaborazione della Russia: «Loro hanno lo stesso problema col rischio di spinte terroristiche dal Caucaso, pertanto bisogna trovare soluzioni condivise», afferma il generale che sottolinea le sue origini itali-irlandesi. 

 La nuova resistenza 
E proprio sulla questione del terrorismo torna Lombardi con una teoria che «sta prendendo piede» in seno all’entourage di Trump. «Oggi c’è in una situazione simile a quella del 1939, l’Europa è invasa da truppe islamiste così come accadde allora con i nazisti. Non parlo delle persone in fuga dalla fame o dalla guerra che entrano in Europa per trovare lavoro, ma di personaggi aderenti all’Isis o che si ispirano ad esso sul Web, e che poco hanno a che fare con i valori reali della religione musulmana. Anzi usano la religione per attuare i loro piani espansionistici totalitari o terroristici». Gente che come attitudine è simile ai nazisti, «per questo parliamo di una sorta di “nazislamizzazione” che vuole divorare l’Europa con la Sharia». Secondo Lombardi i vari governi Renzi, Merkel e Hollande sono i Vichy di oggi, «i governicchi che si sono arresi all’arroganza e alla minaccia del terrorismo». La Brexit, l’America di Trump, l’Italia del «no» sono invece forze positive come allora lo furono Churchill, Roosvelt e lo sbarco in Sicilia. «In questo contesto occorre individuare alleati tra i movimenti conservatori e popolaristici, per rafforzare la resistenza al terrorismo. Molte persone vicine al presidente sono d’accordo - conclude Lombardi - persone vicine al presidente, da lui indicate o nominate in posti chiavi della prossima amministrazione Usa».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/07/esteri/trump-cerca-un-alleato-in-italia-per-rilanciare-la-partnership-con-gli-usa-QTYtmZagBagSkP456CvgYP/pagina.html
5772  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / Bufale, un bagno d’umiltà per partiti e giornalisti di Marco Bentivogli inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:38:33 pm
l'Unità TV > Opinioni
Marco Bentivogli - @BentivogliMarco
· 7 gennaio 2017

Bufale, un bagno d’umiltà per partiti e giornalisti
Ha ragione Grillo quando dice di voler condividere con altri la genesi delle bufale

Rispettare le regole che consentono l’esercizio pieno della democrazia è la base stessa della democrazia. Questo rispetto dovrebbe sempre superare il bisogno di consenso che altrimenti diventa finto, artefatto. È la verità su cui si fonda la democrazia, e non quest’ultima che certifica la “verità”. È evidente che la difesa delle bufale, e del giro economico ad esse collegato, non è stato eretto a custodia della libertà di espressione, ma è piuttosto un modo di denigrare il prossimo senza assumersene la responsabilità. Del resto, lo stesso Grillo, ai tempi di Visco, fece barricate affinché si ritirasse quel saggio provvedimento che prevedeva la pubblicazione, online, dei redditi di chiunque. E oggi un numero di persone inferiori agli abitanti di Monterotondo approva un codice “etico”, senza neanche il quorum (la maggioranza più uno) degli iscritti ad un blog di un’azienda privata, che di sicuro non potrà mai sostituire quel perimetro di garanzie già definito dalla Costituzione. Quella stessa Costituzione già dimenticata, ad appena un mese dal referendum, dai nuovi partigiani digitali. Si parla tanto di post-verità, ma cosa dire di una verità che è diventata “stagionale”?

Dopo aver ucciso la verità, la caccia dei colpevoli non può essere un esercizio così banale. Un tempo “la verità” era scritta sui giornali, poi diventò quella annunciata dalla radio e dalla tv, fino ad arrivare ad oggi in cui il veicolo di verità nella vulgata popolare è diventato il mondo dei social.

Si dice che, grazie all’alto tasso di diffusione degli “analfabeti funzionali” (così vengono definite le persone restie ad affrontare un ragionamento di media difficoltà e a scrivere un proprio pensiero), i social illudono legioni di “neo-ignoranti” di potersi definire “informati” tramite la sola lettura del titolo di una notizia (o comunque non più di tre righe) o addirittura tramite la sola visione di una foto che diventa virale in rete. O che confondono l’informazione con l’odio verso chi la pensa diversamente, come nella peggior specie di tifo calcistico.

Anche i più ingenui sanno che non esiste spontaneità nella propagazione delle bufale. È disponibile l’inchiesta del portale americano Buzzfeed dove si evidenziava il legame tra il Movimento 5 stelle e un network di siti specializzati nella diffusione di notizie false e teorie complottiste. Altri partiti italiani utilizzano bufale per diffondere notizie false sui migranti. Alcune inchieste hanno evidenziato come questi siti acchiappa-clic (che sono soliti distorcere titoli di testate vere) siano collegati a siti “pay for clic” con sponsorizzazioni che assicurano fino a 10.000 dollari di guadagno al giorno, senza controlli e con zero spese.
Tutti i movimenti populisti della storia non sono di certo interessati ad accendere la testa delle persone, ma il loro stomaco, e per questo tendono a distruggere il prima possibile il confine tra il vero e il falso. Perché intanto saranno veramente pochissimi quelli che si prenderanno il disturbo di controllare la fonte e la veridicità della notizia e il risultato sarà che l’odio e la paura si propagheranno più velocemente e contageranno sempre più persone. Si parte con follower e I like comprati (quanti personaggi pubblici lo fanno?).

A monte c’è un grave problema, a mio avviso, di cui tutti evitano di parlare: è possibile che si presenti alle elezioni un movimento che si sente libero di non sottostare al titolo IV della Costituzione italiana, senza la registrazione di uno Statuto democratico e i cui parlamentari o amministratori locali invece di “rappresentare la nazione senza vincolo di mandato” (art. 67), debbano sottoscrivere un contratto – comprensivo di penali – con un’azienda privata? Fecero più scandalo i rapporti tra Pubblitalia e gli elettori di Forza Italia eppure, per quanto discutibili, erano poca cosa rispetto a legami così vincolanti. A livello comunicativo (e non solo) il grande rischio è una pericolosa assuefazione alla violenza con cui in rete gli attivisti digitali minacciano chiunque non la pensi come loro. Persino loro familiari.

Al M5S pare essere consentito tutto. Anche forme più o meno esplicite di violenza. Mi sono sforzato di capire il perché. In fondo una spiegazione c’è: il M5S è il figlio naturale, anche se illegittimo, dei partiti e del mondo dell’informazione italiana. Tutti i partiti, e soprattutto le élite, hanno talmente deluso ogni aspettativa che anche i più operosi e consapevoli si sono alleati con i rancorosi. Si sa, la corruzione sembra inestirpabile per quanto è radicata e diffusa tra rappresentanti e rappresentati. Ma per le persone “l’antipolitica” è divenuta un’arma per annullare la propria responsabilità personale. Come il personaggio “Napalm51” di Crozza o tragici esempi di disperazione come quello di quell’uomo che nel 2013 sparò a un carabiniere davanti al Parlamento, dopo che aveva dilapidato lavoro e risparmi alle slot, ed essere stato lasciato dalla moglie che lavorava nei campi a 700 euro in nero.

Ma le persone non sono tutte così. C’è chi si aspetta il cambiamento non dai comici o dagli xenofobi, ma da gruppi dirigenti che – con umiltà e senso dell’etica – diano un vero segnale di discontinuità, capaci – una volta arrivati al potere – di non dividere il mondo in nemici e amici, piazzando gli amici nei posti chiave. Che capiscano veramente l’onore e l’onere di rappresentare le persone e le energie migliori del Paese.

Ma la paternità di certi movimenti, i partiti la condividono con il mondo dell’informazione italiana. Certo, con lodevoli eccezioni. Non voglio generalizzare. Ma ha ragione Grillo quando dice di voler condividere con altri la genesi delle bufale. Non è meno grave la definizione di palinsesti-fotocopia, di “eventifici” e “personaggifici” in cui grandi giornali e tv si sono spesso trasformati, lontani dai fatti e dalle persone reali. Quanti operatori dei media hanno puntato non dico sulla qualità ma sulle regole basilari e un minimo di pluralismo d’informazione? Programmi di intrattenimento che squalificano il buon nome della cultura italiana o talk-show che provocano quella finta indignazione che consolida la più sedimentata rassegnazione.

L’annuncio di querela a Grillo (poi ritrattata) da parte di Mentana è l’esempio imbarazzante di un gioco di specchi che ha mostrato che il tema era solo di onorabilità professionale personale in cui la reciprocità si è giocata nel considerare fessi da un lato i propri elettori e dall’altro i telespettatori del Tg La7. Che delusione…

La questione della credibilità del pulpito da cui muove Grillo non annulla la questione della libertà di informazione italiana né la sua scarsa qualità. Servilismi con i Governi e conformismi con le opposizioni sono aspetti della stessa malattia. Arrivare primi alle no-stop sulle breaking-news può essere utile, ma non fai il tuo lavoro fino in fondo se non parli con rispetto e pluralismo del lavoro, se non dici ad esempio neanche una parola sul rinnovo del Contratto nazionale più grande del lavoro privato, quello dei metalmeccanici (eppure alle assemblee hanno partecipato 600mila persona e votato in 350mila, dieci volte i votanti del blog di Grillo). Se in Corea un milione e cinquecentomila persone hanno mandato al tappeto una presidente liberticida sostenuta dalla Samsung, e non viene data neanche la notizia, come se non fosse accaduto nulla. Sono tantissime le vertenze, le storie e le manifestazioni di lavoratori che non fanno notizia.

Ah! Ma forse è questo il guaio: viene considerato pericoloso chi, lontano dai riflettori, prova a risolvere – spesso riuscendoci pure – le cose che non vanno. Perché rompe il giochino di quelli per cui è sempre meglio raccontare che tutto va male, far crescere i frutti amari della narrazione di sventura, e poi criticare anche i propri frutti, dopo averli innaffiati quotidianamente. Ecco, meno arroganza e onnipotenza e tanta umiltà farebbero fare un passo avanti all’informazione, ne abbiamo un urgente gran bisogno per disincagliare il Paese. Anche perché gli under 35 non vedono più tv e non leggono da tempo i giornali e presto molleranno anche i social istigatori e ingannevoli.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/bufale-un-bagno-dumilta-per-partiti-e-giornalisti/
5773  Forum Pubblico / PERSONE che ci hanno lasciato VALORI POSITIVI / Nel giorno della scomparsa di Tullio De Mauro (1932-2017) riproponiamo questa... inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:36:10 pm

L'analfabetismo italiano e la Repubblica fondata sull'ignoranza

Nel giorno della scomparsa di Tullio De Mauro (1932-2017) riproponiamo una sua bella intervista rilasciata l'anno scorso in cui descriveva il nuovo analfabetismo
Nel giorno della scomparsa di Tullio De Mauro (1932-2017) riproponiamo questa sua intervista rilasciata l'anno scorso a La Voce di New York.

   Buona lettura

Secondo gli studi dell'autorevole linguista De Mauro, meno di un terzo della popolazione italiana avrebbe i livelli di comprensione della scrittura e del calcolo necessari per orientarsi nella vita di una società moderna. Il peso sullo sviluppo economico e sociale resta enorme.
Di Filomena Fuduli Sorrentino - 28 marzo 2016
Tullio De Mauro è il più autorevole linguista italiano. De Mauro ha insegnato linguistica in diverse università italiane e ha diretto il Dipartimento di Scienze del Linguaggio nella Facoltà di Filosofia, e successivamente il Dipartimento di Studi Filologici, nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell'Università la Sapienza di Roma. Già ministro della pubblica istruzione (aprile 2000-giugno 2001, governo Amato), ha presieduto la Società di Linguistica Italiana (1969-73) e la Società di Filosofia del Linguaggio (1995-97). Nel novembre 2006 ha contribuito alla fondazione dell'associazione Senso Comune per un progetto di dizionario informatico, di cui è tuttora presidente. È socio ordinario dell'Accademia della Crusca, e dal novembre 2007 dirige la Fondazione Maria e Goffredo Bellonci. De Mauro presiede il comitato direttivo del Premio Strega. Ha scritto moltissimi libri, tra i quali il recente Storia linguistica dell'Italia repubblicana (Laterza, Bari 2014).
Professor De Mauro, nel 2010 aveva condotto uno studio sull'analfabetismo in Italia.  Ci fa il punto sui dati raccolti allora, sulle novità e come si dividono?
"Da molti anni, perlomeno dalla Storia linguistica dell'Italia unita del 1963, ho cercato di raccogliere dati sull'analfabetismo strumentale (totale incapacità di decifrare uno scritto) e funzionale (incapacità di passare dalla decifrazione e faticosa lettura alla comprensione di un testo anche semplice) e ho cercato di richiamare l'attenzione dei miei illustri colleghi sul peso che l'analfabetismo ha sulle vicende linguistiche e, ovviamente, sociali in Italia. Avevamo dati sull'analfabetismo strumentale, ma per l'analfabetismo funzionale avevamo solo sondaggi parziali e ipotesi, a elaborare le quali abbiamo lavorato a lungo in diversi, ricordo qui almeno e soprattutto il professor Saverio Avveduto a lungo presidente dell'UNLA (Unione Nazionale per la Lotta all'Analfabetismo). Dai tardi anni novanta dello scorso secolo per merito di Statistics Canada (il centro statistico nazionale canadese) sono state promosse accurate indagini comparative e osservative su estesi campioni statistici delle popolazioni per determinare diversi gradi di analfabetismo nei diversi paesi del mondo. Già nel 2005 ho potuto utilizzare questi dati. Nel 2014 è giunta a compimento la terza indagine comparativa internazionale gestita dall'OCSE (l'Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico).  L'indagine è chiamata PIAAC, Programme for International Assessment of Adult Competencies), e per quasi trenta paesi del mondo, tra cui l'Italia,  ha definito cinque livelli di alfabetizzazione in  literacy e numeracy delle popolazioni  in età di lavoro (16-65 anni), dal livello minimo di analfabetismo strumentale totale, a un secondo livello quasi minimo e comunque insufficiente alla comprensione e scrittura di un breve testo, ai successivi tre gradi di crescente capacità di comprensione e scrittura di testi, calcoli, grafici.   Dati analitici sul nostro e altri paesi possono trovarsi in un mio libro più recente, Storia linguistica dell'Italia repubblicana (Laterza, Bari 2014). Qui il nostro focus è l'Italia. Come in Spagna il 70% della popolazione in età di lavoro si colloca sotto i due primi livelli. Soltanto un po' meno di un terzo della popolazione ha quei livelli di comprensione della scrittura e del calcolo dal terzo livello in su che vengono ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna. Ma il fenomeno ha gravi dimensioni in tutti i paesi studiati anche se nessuno raggiunge i livelli negativi di Italia e Spagna. Più della metà della popolazione è in condizioni che potremmo dire "italo-spagnole" negli USA e (a decrescere), in Francia, Gran Bretagna, Germania ecc. Perfino in paesi virtuosi, per eccellenza dei sistemi scolastici e diffusione della lettura, si trovano percentuali di analfabeti prossime al 40%: così in Giappone, Corea, Finlandia, Paesi Bassi.
Il problema dunque, pur a diversi livelli di gravità, non è solo italiano. Anche dopo avere acquisito buoni, talora eccellenti livelli di literacy e numeracy in età scolastica, in età adulta le intere popolazioni sono esposte al rischio della regressione verso livelli assai bassi di alfabetizzazione a causa di stili di vita che allontanano dalla pratica e dall'interesse per la lettura o la comprensione di cifre, tabelle, percentuali. Ci si chiude nel proprio particolare, si sopravvive più che vivere e le eventuali buone capacità giovanili progressivamente si atrofizzano e, se siamo in queste condizioni, rischiamo di diventare, come diceva Leonardo da Vinci, transiti di cibo più che di conoscenze, idee, sentimenti di partecipazione solidale".
L'analfabetismo fa credere che la realtà sia diversa da quella vissuta. Quali sono i problemi che il nostro paese affronta a causa dell'inconsapevolezza dei cittadini?
"I problemi sono molti. Mi limiterò qui a ricordare solo quel che illustri economisti come Luigi Spaventa o Tito Boeri hanno spiegato: il grave analfabetismo strumentale e funzionale incide negativamente sulle capacità produttive del paese e, a loro avviso, è responsabile del grave ristagno economico che affligge l'Italia dai primi anni novanta".
Qual è la percentuale degli italiani che ha una comprensione dei discorsi politici o che capisca come funzioni la politica italiana?
"È certamente inferiore al 30%".
Secondo Socrate "c'è un solo bene: il sapere. E un solo male: l'ignoranza". Oggi si combatte l'analfabetismo altrui oppure si usa come arma di sfruttamento per arrivare al potere?
"Purtroppo l'analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni".
Qual è la percentuale degli italiani che ha comprensione dei vocaboli ambigui e di locuzioni straniere usati dai politici e dalla TV?
"All'interno del 30% di meglio alfabetizzati solo una percentuale modesta ha una buona conoscenza di lingue straniere e di linguaggi tecnico-scientifici. In attesa di indagini mirate e specifiche, che stiamo avviando, si può ipotizzare che solo il 10% della popolazione in età di lavoro capisce bene tecnicismi e forestierismi".
Secondo Lei il governo italiano fa abbastanza per il mantenimento e l'insegnamento della lingua italiana all'estero?
"Ci sono da qualche tempo molte buone intenzioni, ma scarseggiano iniziative di sostegno paragonabili a quelle delle istituzioni pubbliche che promuovono lo studio delle lingue di altri paesi. British Council, Cervantes, Centre culturel français, Confucio, Japan Foundation, Goethe... La Dante Alighieri ha nome analogo ad alcune grandi ed efficienti istituzioni straniere, ma, anche se con un po' di finanziamenti pubblici, è lontana per struttura e natura dal poter assolvere ai compiti della complessiva promozione della lingua e cultura dell'Italia fuori di Italia. Di più potrebbero fare i nostri Istituti di cultura se fossero più numerosi nel mondo e ben sostenuti da finanziamenti statali.  Resta da sperare (e a mio avviso non è poco) nel faidatè dei milioni di italiani e oriundi italiani sparsi nel mondo".

Da - Fonte: http://www.lavocedinewyork.com/arts/lingua-italiana/2016/03/28/analfabetismo-italiano-e-la-repubblica-fondata-sullignoranza/
Pubblicato da Franco Romanò a 06:06
5774  Forum Pubblico / PERSONE che ci hanno lasciato VALORI POSITIVI / Addio a Mario Soares, eroe della democrazia portoghese. di Mario Lavia. inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:34:00 pm
l'Unità TV > Focus
Mario Lavia - @mariolavia
· 7 gennaio 2017
Addio a Mario Soares, eroe della democrazia portoghese

Oppositore del fascismo, leader assoluto della ritrovata democrazia, socialista e europeista

È stato un eroe della riconquista della democrazia del Paese, leader socialista portoghese, europeista convinto: questo e molto di più è stato Mario Soares, il socialista ex presidente portoghese, già più volte premier e esiliato dal regime di Salazar, morto oggi a Lisbona. Aveva 92 anni.

Da sempre oppositore della giunta militare al potere in Portogallo, Soares aveva vissuto lunghi anni in esilio, fino al 25 aprile 1974, giorno della leggendaria “Rivoluzione dei garofani” che mise fine alla dittatura salazarista e riportò il paese alla libertà. La sua opposizione al regime gli era costata l’esilio e il carcere.

La Rivoluzione portoghese diede il via ad una grande stagione riformista nell’Europa meridionale, di cui il leader socialista di quel Paese fu protagonista insieme allo spagnolo Felipe Gonzales, al francese Francois Mitterrand, al greco Andreas Papandreu che con Bettino Craxi diedero vita al cosiddetto socialismo mediterraneo.

Soares fu capo del governo portoghese negli anni immediatamente successivi alla dittatura, tra il 1976 e il 1978 e poi tra il 1983 e il 1985, ministro degli Esteri e infine capo dello Stato per un decennio al 1986 al 1996. Convinto europeista, sotto la sua presidenza il Portogallo avviò il negoziato che l’avrebbe portato a far parte della Comunità europea della quale fu deputato.

In Portogallo sono stati proclamati tre giorni di lutto nazionale.

Da - http://www.unita.tv/focus/addio-a-mario-soares-eroe-della-democrazia-portoghese/
5775  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / DOMENICO QUIRICO - “Sono diventato jihadista nelle carceri italiane. inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:31:32 pm
“Sono diventato jihadista nelle carceri italiane. Ecco come ci reclutano”
La storia di uno spacciatore tunisino, in cella per tentato omicidio. “L’egiziano ci conosceva tutti, mi ha trasformato in un terrorista”

Pubblicato il 07/01/2017
Ultima modifica il 07/01/2017 alle ore 07:21

Domenico Quirico
Sousse (Tunisia)

L’uomo che racconta questa storia l’ho incontrato in un viottolo di campagna vicino a Sousse. Ulivi, terra e cielo. Nessuno che potesse ascoltare. Abbiamo parlato in un furgoncino bianco, che odorava di cipolle e verdura. Precauzioni. L’uomo è tunisino, come il terrorista di Berlino. Racconta di prigioni italiane e di conversioni. Terribili assonanze. Forse il segreto della jihad sanguinaria non era in Siria o nei deserti, ma qui sotto i nostri occhi ciechi.

Ecco il suo racconto. «Ecco quello che mi è rimasto in mente delle prigioni italiane, ne ho viste una infinità: Rebibbia, Civitavecchia, Firenze, Venezia, Milano. Il rumore delle porte che si chiudono è un rumore unico, come se tirassero un colpo di fucile. Ma il rumore, poi, si smorza, senza eco, i rumori di una prigione sono tetri e privi di eco. E poi, il volto del Reclutatore. Era egiziano, aveva braccia pesanti come clave e mani curate, i baffi tagliati come usano i salafiti, i radicali di Dio. Non c’era in lui alcuna traccia di senilità. La voce. Magica, ti faceva diventare un uomo. Sapeva tutto il Corano e gli hadith profetici e la sunna.

Restare con lui nell’ora d’aria e di socializzazione era una festa per i sensi e per il cuore. Con lui, persino io, giovane delinquente intossicato dall’eroina, mi sentivo purificato, elevato.

La Terra e il Paradiso 
Al sicuro. Con lui, nessuno ti guardava male, nessuno ti giudicava. Eri libero e calmo. Tutto ti apparteneva, tutto ti spettava come seguace di Dio. Al Alim, colui che sa. Il sole che entrava a fatica nel carcere, il vento che sentivi al di là dei muri, il cielo. La voce era calda, melodiosa capace di evocare la terra e il paradiso, i versetti li pronunciava in modo lento e sfolgorante, tanto che diventavano invocazioni, quando smetteva per prender fiato gli chiedevamo: ancora, ancora. “La mia comunità non sarà mai d’accordo nell’errore”. Ricordava e raccontava le storie di quando l’Islam conquistava il mondo, dei Califfi che sbaragliavano i nemici come se fossero polvere del deserto. E dell’emiro Osama, che aveva messo paura all’America. Chi ci aveva mai raccontato queste cose? Li vedevamo tutti, mi vedevo davanti a loro, mi sentivo esaltato, ispirato, arricchito di minuto in minuto, da un racconto all’altro. Gli dicevo: queste storie non le dimenticherò mai, e lui: per questo ve le affido, perché siate buoni musulmani e perché non vengano dimenticate. Eravamo in tanti in quella sezione del carcere, sapevo che lui ci sorvegliava e i suoi occhi ci benedicevano.

Droga alla Garbatella 
Dov’è ora? È morto. Tento qualche volta di immaginarlo avanzare con gli altri combattenti di Dio, tra le rovine di Homs, verso il luogo in fiamme da cui nessuno ritornava. No, non voglio pensarlo là. Non posso. Penso che l’incontro di un uomo con la Morte debba rimanere segreto. Preferisco distogliere lo sguardo, chiudere gli occhi. E lo ricordo la prima volta che mi avvicinò in prigione: nella doccia. Chi ero io allora, vuoi sapere? Fai domande, troppe. Ma tutto è scritto nelle carte, su da voi, che cosa ti nascondo? Tutto è cominciato con un gruppo di ragazzi tunisini come me, arrivati in Italia. Un giorno, mi fanno vedere la droga, spacciavano. Era marrone e io ero sorpreso: ma nei film la droga è bianca, gli dicevo. Ho provato, era buona. Spacciavo nelle strade e la prendevo, l’eroina, spacciavo per farmi, non per diventare ricco. Alla Garbatella c’era un posto semi abbandonato, quasi in rovina. Ne avevano fatto una moschea irregolare, ma era destino che fede e droga fossero per me sempre vicini. Noi la usavamo per tagliare l’eroina e per dormire. C’era un odore pazzesco di piscio di gatti, quando eravamo fatti davamo la caccia ai gatti e li ammazzavano a bastonate. 

Eravamo tunisini e qualche algerino. Non era un giro grosso e così un giorno, con altri tre, decidiamo di tentare il colpo: rapinare altri spacciatori più ricchi di noi. Scegliamo i nigeriani, perché? Sono negri. Ne adeschiamo uno, proponendogli una partita di eroina a prezzo buono, quando arriva con il denaro uno di noi, tira fuori una 7,65 e prendiamo tutto. Venne fuori una sparatoria, uno dei nigeriani fu ferito gravemente. In tre giorni, ci hanno preso. Tentato omicidio, spaccio, stavolta ero nel giro grosso, ma in galera. E in regime di sorveglianza speciale, si chiamava così, mi pare.

Allora: la doccia. Io la doccia la facevo nudo, dell’Islam non m’importava nulla, mi piacevano le donne con le tette grosse e il vino. Lui mi parla: “Perché fai la doccia senza mutande, siamo musulmani noi, abbiamo degli obblighi che ci impone Dio, e Dio non vuole”. Ma non era una minaccia, un ordine, era una conversazione tra amici. Si vedeva che mi aveva già studiato, lui controllava tutti i nuovi, quelli che venivano da Paesi dell’Islam. Sapeva tutto: perché erano dentro, la durata della condanna, quelli che avevano pene lunghe li teneva per ultimi, aveva tempo per non farseli sfuggire, quelli più interessanti erano i tossici, sapeva se prendevano il metadone. Sapeva perfino cosa compravamo allo spesino, cibo, sigarette. Sapeva, per esempio, che io compravo vino, quello da poco prezzo, ma sempre vino era. È dalla spesa che si capisce se sei un detenuto che ha soldi o sei un poveraccio che non ha nulla, una recluta più facile per Dio.

 Perché lì non hai speranze, non sei nessuno senza la droga, sei un malato. Gli educatori, lo psicologo? E chi li vede mai. Aspetti qualcuno che ti prenda con sé, che ti chiami fratello nell’Islam. Ci vediamo in paradiso. I reclutatori sono persone che ti riempiono di emozioni. 
Simile con il simile 

La seconda volta che mi parlò, fu a causa delle partite di pallone. Giocavamo a calcetto nell’ora d’aria, in genere quasi tutti in slip. E lui sempre gentile, calmo: “Sai che noi dobbiamo coprirci le gambe. Perché non vieni a pregare con noi? Non sai i versetti? Non importa, ti insegneremo. E poi, perché parli con gli italiani, Kafir, questi cani di miscredenti? Non vedi come ci trattano?”

In quella sezione, c’erano camorristi che avevano separato da famiglie rivali, e forse qualcuno che aveva cominciato a pentirsi. E poi slavi, romeni e serbi. L’odio tra noi e loro saliva, erano risse continue. Solo gli albanesi erano con noi, perché erano anche loro musulmani. In carcere ci si raggruppa subito, tunisini con tunisini, Islam con Islam. E poi, alla matricola arrivi e leggono da dove vieni: sei musulmano? Benvenuto! Ti metto con i tuoi, così vi tenete compagnia tra maomettani.

I guardiani sono stupidi: notano che, dove ci sono quelli che pregano, tutto è tranquillo, mentre gli altri fanno risse, bevono, danno problemi. Allora, quando il Reclutatore andava dal direttore a chiedergli, umilmente, una stanza per pregare il venerdì - in fondo, noi musulmani siano gli unici che non abbiamo nulla -, quello la concedeva con gioia. Anche il cappellano del carcere era d’accordo! Tra credenti, ci si dà una mano. Usavamo la stanza del biliardino, stendevamo dei tappeti. Si pregava molto, e molto si parlava: la Palestina, l’Iraq, la Siria, il Califfato, le solite storie, guarda gli infedeli come ci rubano tutto il petrolio. Uno si convertì quando gli raccontarono che le donne cecene non chiedevano cibo o aiuti in denaro, ma solo confezioni della pillola del giorno dopo, perché i soldati russi le violentavano tutte.

Ti senti vuoto 
Questo è il punto essenziale: tu entri in prigione, non hai più niente, niente droga, niente soldi, ti senti vuoto, ti pare d’impazzire. È una sorta di ingombro che senti confusamente annodarsi giù, e diventare corpo nel corpo. Scopri di punto in bianco che non sei più niente, ti palpi dentro la mente, lo spessore del buio che avanza nelle viscere. Questa è la materia prima per convertire.

Le celle, diciamo un po’ delle celle: in dieci, quattordici. In buchi che puzzano di tutti quelli che ci hanno vissuto dentro. È lì che vivi. Al mattino alle 8,30 la doccia, se è giorno stabilito, poi più nulla, fino alle 12, quando passa il carrello del cibo. Al pomeriggio, due ore d’aria, torni in cella, la conta, ti resta un’ora di socialità, passi da una cella all’altra, prima che chiudano. Non fai niente, magari per anni, perché c’è la graduatoria prima di diventare scopino o porta vitto: parli, parli e vedi la tv, sempre accesa, e vedi gli attentati, gli americani sgozzati, le bandiere con i segni islamici sulle città conquistate, e cominci a fare il tifo per Bin Laden, per il Califfo, per i vendicatori. 

Parla calmo e gentile 
E il Reclutatore parla sempre, calmo e gentile: dice che la religione vera non è quella che abbiamo imparato da piccoli, che siamo nati per una missione, combattere per il Profeta. È la jihad della comunicazione questa, la jihad della parola, più efficace delle bombe. Lui sceglie proprio i peggiori, quelli più istupiditi dalla droga e quelli poveri, a cui non arriva mai nulla dall’esterno. Offre buoni piatti di cibo, regali. I soldi non mancano, accrediti postali da spendere allo spaccio interno, che non destano sospetti. E poi ci sono i telefonini. Dal carcere i Reclutatori sono in contatto continuo con i loro confratelli, per avere i telefoni corrompono una guardia o qualche volontario ingenuo di buona volontà: devo chiamare la mia famiglia, non li sento da anni, e con il telefono fai tutto. Li si nasconde nel water per sfuggire alle ispezioni, basta svitare due bulloni, togli la memoria e lo avvolgi accuratamente in modo che non si danneggino. Oppure nel frigorifero, tra la verdura che non permette, in caso di scoperta, di risalire a un detenuto. Il Reclutatore è in carcere sempre per reati in fondo minori: documenti falsi, detenzione di un’arma. La sua è una missione specifica. Si diventa emiri così: più conversioni ottieni in prigione e più sali nelle gerarchie della jihad. 

La violenza se sgarri 
Se ti opponi, se sgarri, c’è la violenza. Un giorno, all’inizio, devo incontrare l’avvocato, prima di andare in parlatorio, bevo due sorsi di Tavernello, ti ho detto che mi piaceva il vino. Sulle scale incontro il Predicatore, lui scende, io salgo. Mi chino per omaggiarlo e lui sente subito l’odore del vino: miscredente, infame, attento a non rifarlo. Mi hanno picchiato, non so come sono rimasto vivo. 

Voi non capite niente: sempre a ragionare, ma quelli sono drogati, spacciatori, cosa c’entra l’Islam? La droga, il vizio, tutto ciò che disonora, ha in certi esseri un potere eguale a quello della fede: la stessa disperazione cerca diverse profondità. Milano è un posto importante della jihad e dello spaccio. Hanno emanato a Milano una fatwa: la droga potete venderla, per fare soldi per la causa, e poi quelli che crepano sono i figli dei miscredenti, che vadano in malora. Sui sacchetti di eroina scrivono la frase del Corano: in nome di Dio, cominciamo. Quando passa la polizia e tu sei lì che spacci, ti insegnano un versetto del Corano da dire: “Dio ha alzato una barriera attorno a noi per difenderci. I nostri nemici sono ciechi’’. E quelli sono convinti davvero che, per la polizia, loro sono invisibili.

Quando sono entrato in carcere la prima volta, quelli che pregavano erano forse il cinque per cento, ora sono la maggioranza. E quelli che resistono sono pochi e senza aiuto. Un tunisino che aveva denunciato le violenze e le minacce di morte dei salafiti al capo delle guardie si è sentito rispondere: che posso fare? Portarti a casa mia? Dio vi acceca e non vi lascia immaginare l’unica misura efficace, infiltrare detenuti musulmani che siano con voi e far cadere tutta l’organizzazione interna. Noi possiamo mentire, comportarci in modo empio, per ingannarvi meglio. Voi non comprendete che la grazia e il peccato sono spesso molto vicini. A proposito: non ti è venuto il dubbio che io potrei essere il Reclutatore?».

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