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5716  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Riccardo NOCENTINI. Ridefinire il posizionamento strategico del PD inserito:: Gennaio 17, 2017, 05:23:30 pm
l'Unità TV > Opinioni
Riccardo Nocentini - @nocentinir

· 13 dicembre 2016
Ridefinire il posizionamento strategico del Pd

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Al di là dei contenuti e della tipologia di elettori, come spazio politico, il PD prenderà quello della DC, i Cinque stelle quello del PCI, Forza Italia quello dei socialisti

Quando un partito risponde alla domanda “che fare?”, va oltre le analisi e psicoanalisi post-elettorali ed inizia a cercare una nuova strada e a definire la propria meta. Questo è il compito che il PD ha davanti, ridefinire la propria strategia. Questo non significa pianificare meglio gli obiettivi di policy, che spesso sconfinano nel ritualismo, e neanche lavorare in maniera migliore sulla dimensione motivazionale e del senso di apparenza. C’è tutto questo, ma c’è anche un altro aspetto oggi determinante, che rappresenta lo sfondo dei contenuti e delle azioni politiche.

Per avvicinarci a comprenderlo dobbiamo modificare leggermente la domanda iniziale: “quale ruolo vogliamo svolgere nel contesto politico che abbiamo davanti?”. La sconfitta attuale non è tanto di Matteo Renzi, o del PD e neanche di tutti gli italiani. Forse, e lo dico con grande rammarico, ha perso quell’idea che dai movimenti referendari degli anni ’90 era arrivata fino al rafforzamento degli enti locali con l’elezione diretta di sindaci (1993) e dei Presidenti di regione (1995) e che, con la riforma della Costituzione e con una nuova legge elettorale, cercava di portare a compimento un sistema maggioritario capace di fornire stabilità di governo e chiarezza rispetto alle scelte dei cittadini.

Il contesto politico nel quale ci muoveremo nei prossimi anni è diverso, l’ordinamento dello Stato rimarrà quello del bicameralismo paritario e di un confuso ruolo delle regioni, oltre ad una legge elettorale che, molto probabilmente, sarà di tipo proporzionale. Dobbiamo assumere questo contesto politico come un’invariante strutturale, non farlo sarebbe velleitario o, peggio, ipocrita.

Al di là dei contenuti e della tipologia di elettori, come spazio politico, il PD prenderà quello della DC, i Cinque stelle quello del PCI, Forza Italia quello dei socialisti. Il Pd avrà la funzione nazionale di un’azione riformista concentrata su un continuo sforzo di allagamento e sintesi. Il Movimento cinque stelle, si autoescluderà da ogni compromesso e cercherà di rafforzare la sua capacità di opposizione. Forza Italia si giocherà la possibilità di essere “l’ago della bilancia” necessario per formare i governi.
E’ un cambio di paradigma per il PD, si tratta di ridefinire la sua vocazione maggioritaria in un quadro di nuove alleanze, all’interno delle quali si deve porre come centro e guida. La lente interpretativa del PD non deve essere indirizzata verso l’interno, ma verso l’esterno, gli obiettivi devono coinvolgere il contesto, cioè la filiera degli attori istituzionali, la coesione sociale, l’apertura all’ambiente.

Oggi ci muoviamo in uno spazio che si configura come una rete, dove gli attori sono interdipendenti e le interdipendenze, riconosciute e organizzate, possono creare valore. La strategia allora diventa il comportamento che ridefinisce in ogni attimo il “chi”, il “cosa” e il “come”, che sono le leve del nostro posizionamento. La strategia rappresenta le priorità che sto presidiando, più precisamente, il PD, deve pensare il proprio posizionamento strategico in questo nuovo contesto politico di riferimento.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/ridefinire-il-posizionamento-strategico-del-pd/
5717  Forum Pubblico / Le tesi dell'Ulivo oggi solo una Corona Olimpica? / Il populismo e il nuovo disordine mondiale inserito:: Gennaio 17, 2017, 05:17:00 pm

Dossier | N. 11 articoli Mappamondo

Il populismo e il nuovo disordine mondiale

    12 gennaio 2017

Si suppone che il nuovo anno inizi nella speranza. Anche nei giorni più bui della Seconda Guerra Mondiale, le celebrazioni del Nuovo Anno erano sostenute dalla convinzione che in qualche modo il corso degli eventi si sarebbe orientato verso la pace. E pare oggi profetico quanto scrisse Arthur Koestler dopo la caduta della Francia nel 1940: «Il problema sta nel fissare la libido politica [dei tedeschi] su una bandiera più affascinante della svastica, e che l’unica che farebbe al caso sarebbe quella a stelle e strisce dell’Unione Europea». Anche altri immaginavano già istituzioni internazionali e riforme nazionali – il diritto di voto per le donne in Francia, il servizio sanitario nazionale in Gran Bretagna, la legge G.I. Bill negli Stati Uniti per i benefici ai veterani – in grado di cementare l’ordine globale postbellico.

L’inizio del 2017 non offre consolazioni di questo genere. Quest’anno la domanda principale è se si potrà sostenere l’ordine postbellico, ora al suo ottavo decennio, una volta che si insedierà il presidente-eletto americano Donald Trump il 20 gennaio. Trump ha ripetutamente dichiarato che il presidente russo
Il presidente russo Vladimir Putin durante un incontro al Cremlino lo scorso 9 gennaio (Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)

Vladimir Putin è uno spirito affine i cui tentativi di influenzare le elezioni dei Paesi occidentali, sovvertire l’Ue e ripristinare la sfera russa di influenza che include Ucraina e gran parte dell’Est Europa troveranno pochi impedimenti Usa. Aggiungiamo a questo l’ostinata ignoranza di Trump, i conflitti di interesse e il continuo stuzzicare la Cina, e il mondo sembra destinato a entrare in una fase radicalmente destabilizzante, che riflette in gran parte l’incredibile imprevedibilità della politica estera americana guidata da Trump.

Anche in casa, Trump e il partito repubblicano da lui ora presieduto hanno fatto ben poco per rassicurare chi nutre dei timori sulla sua presidenza. Malgrado la mancanza di esperienza negli incarichi pubblici, ha riempito l’amministrazione di magnati inesperti e militari in pensione, invece che di esperti politici.

All’inizio dell’anno, secondo un sondaggio Gallup la fiducia degli americani nella capacità di Trump di svolgere le proprie funzioni era 30 punti in meno (e inferiore al 50% su alcune tematiche) rispetto a quanto non fosse per i tre predecessori, prima del loro insediamento.

La preoccupazione – se non addirittura la paura – dei commentatori di Project Syndicate rispetto a Trump è stata spesso evidente sin dai titoli dei vari articoli. L’ex primo ministro svedese Carl Bildt, ad esempio, suggerisce ai lettori di «head for the bunkers», ossia di «andare verso i bunker», mentre Nouriel Roubini della NYU teme che la presidenza di Trump significhi «“America First” and Global Conflict Next», ossia «l’America prima di tutto, poi il conflitto globale».

All’ansia si aggiunge la prospettiva che Trump e i leader populisti di altri Paesi possano consolidare la propria posizione sugli elettori – consentendo loro di smantellare persino una democrazia liberale con i tanto decantati “checks and balances” previsti dalla costituzione americana. Secondo Slawomir Sierakowski, direttore dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, il partito polacco Diritto e Giustizia (PiS), fondendo nazionalismo e ridistribuzione economica, potrebbe aver trovato una strategia per radicare ciò che lui definisce “dittatura eletta”. E Rob Johnson, presidente dell’Institute for new economic thinking (Inet), sostiene che qualcosa di simile sia possibile – ma non ineluttabile – negli Usa.

Non tutti i commentatori di Project Syndicate sono così pessimisti. Trump, che ha perso il voto popolare, potrebbe di fatto essere più debole di quanto sembri, ed è probabile che l’opposizione all’interno del proprio partito – soprattutto rispetto all’amicizia con la Russia e all’ostilità nei confronti del libero scambio – persista. Ciò nonostante, come suggeriscono diversi commentatori, il voler strafare in politica potrebbe diventare un rischio reale per Trump solo quando la libido politica degli americani si concentrerà su una bandiera più affascinante.

La diplomazia del disordine
Per ora, quella bandiera recita “America first”. Trump, secondo l’ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami, eviterà di essere «coinvolto in spinosi dilemma morali, oppure si farà trascinare dal grande senso di responsabilità per il resto del mondo». Mentre Trump ha attirato l’ammirazione di “realisti” putativi di politica estera come il biografo di Henry Kissinger, Niall Ferguson (e una valutazione favorevole di Kissinger stesso), Ben-Ami bolla come «delirante» la convinzione che «l’orgogliosamente imprevedibile e il profondamente disinformato Trump» possa «effettuare grandi progetti strategici». Anzi, «provocando la Cina, mettendo in dubbio la Nato e minacciando guerre commerciali», prosegue Ben-Ami, «Trump sembra destinato a fare su scala globale quello che l’ex presidente George W. Bush ha fatto in Medio Oriente, ossia destabilizzare intenzionalmente il vecchio ordine senza riuscire a crearne uno nuovo».

    “Trump sembra destinato a fare su scala globale quello che l’ex presidente George W. Bush ha fatto in Medio Oriente, ossia destabilizzare intenzionalmente il vecchio ordine senza riuscire a crearne uno nuovo”
Shlomo Ben-Ami, ex ministro degli Esteri israeliano
E se Trump sposterà effettivamente «la strategia geopolitica americana verso l’isolazionismo e l’unilateralismo», avverte Roubini, è probabile che il caos e i conflitti che attanagliano il Medio Oriente per buona parte di una generazione si propaghino. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, fa notare, i dazi protezionistici «hanno scatenato misure di ritorsione commerciale e guerre valutarie che hanno aggravato la Grande Depressione», mentre «l’isolazionismo… ha consentito alla Germania nazista e al Giappone imperialista di dichiarare una guerra aggressiva e minacciare il mondo intero».

Oggi, continua Roubini, in assenza di un «attivo impegno Usa in Europa subentrerà una Russia aggressivamente revanscista». In modo analogo, «se gli Usa non garantiranno la sicurezza ai propri alleati sunniti, tutte le potenze regionali – compresi Iran, Arabia Saudita, Turchia ed Egitto – potrebbero decidere di volersi difendere solo con l’acquisizione di armi nucleari». E «gli alleati asiatici come le Filippine, la Corea del Sud e Taiwan», osserva, «potrebbero non avere altra scelta che prostrarsi di fronte alla Cina», mentre «altri alleati Usa, come il Giappone e l’India, potrebbero essere costretti a dotarsi di forze militari e sfidare apertamente la Cina».

    “Gli alleati asiatici come le Filippine, la Corea del Sud e Taiwan potrebbero non avere altra scelta che prostrarsi di fronte alla Cina, mentre altri alleati Usa, come il Giappone e l’India, potrebbero essere costretti a dotarsi di forze militari e sfidare apertamente la Cina”
Nouriel Roubini, New York University

L’ex ministro degli Esteri spagnolo Ana Palacio e l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer condividono i timori di Roubini. Come fa notare Palacio, la presidenza di Trump arriva in un momento in cui «la dissoluzione del sistema globale liberale basato sulle regole» è già decisamente in atto, a causa della «mancanza di progressi nello sviluppo di istituzioni e strumenti giuridici». E Fischer non ha dubbi sul fatto che Trump, «esponente del nuovo nazionalismo», contribuisca a questa atrofia, soprattutto a quella dell’ordine postbellico in Europa. Nella misura in cui «l’amministrazione Trump sostenga o chiuda un occhio di fronte ai» tentativi di destabilizzazione in Europa da parte di Putin, «l’Ue – schiacciata tra i troll russi e Breitbart News – dovrà prepararsi ad affrontare tempi difficili».

La forma dei futuri shock
I rischi sono aggravati dalla probabilità che siano mal-interpretati, e quindi mal-gestiti. Ciò riflette in parte la difficoltà di analizzare le dichiarazioni politiche da 140 caratteri: Bildt, che ha anche rivestito la carica di ministro degli Esteri svedese, non è certamente il solo a prevedere «un sistematico spettacolo di destabilizzazione internazionale via Twitter». Sin dalla sua elezione, osserva, «Trump dichiara di voler assoggettare anche gli aspetti più fondamentali della politica estera Usa a rinegoziazione». E lo ha fatto immancabilmente su una piattaforma pubblica che non consente sfumature né tantomeno un dialogo costruttivo. Proprio prima di Pasqua, ad esempio, un tweet sembrava sovvertire la dottrina nucleare Usa.
La presidente taiwanese Tsai Ing-wen alla vigilia di un viaggio in America Latina lo scorso 7 gennaio (Reuters)

Una maggiore chiarezza sulle idee di Trump (se non altro perché twitta spesso su diversi argomenti) potrebbe non essere meno irritante. Yasheng Huang del Mit Sloan school of management afferma, ad esempio, che, «rimettendo in dubbio» la “One China policy” rispetto a Taiwan, «Trump sta giocando con il fuoco». Il rischio più minaccioso è che potrebbe finire per «accendere gli animi dei falchi del governo e dell’esercito cinese, se confermerà la loro convinzione che gli Usa intendono minare gli interessi “core” del loro paese». E come Ben-Ami e Roubini, Huang è convinto che nel punzecchiare la Cina, Trump «le stia dando contemporaneamente forza e potere». Di fatto, «con l’aiuto di Trump», conclude, «il Secolo cinese potrebbe arrivare prima di quanto previsto».

Anche l’audace apertura del presidente Barack Obama nei confronti di Cuba sembra destinata a un ribaltamento trumpiano. «Poiché il Congresso si è rifiutato di normalizzare le relazioni Usa-Cuba revocando l’embargo Usa», osserva Jorge Castañeda, ex ministro degli Esteri messicano, «Obama è stato costretto a ricorrere ad ordini esecutivi giuridicamente reversibili per allentare le restrizioni su viaggi, rimesse, commercio e investimenti». Trump «ha promesso – ancora una volta su Twitter – di cancellare tutto questo a meno che non riesca a ottenere “un accordo migliore per la popolazione cubana, i cittadini cubano-americani e gli Usa nel complesso”». Ma un accordo di questo tipo, sostiene Castañeda, «non ha speranze: il regime di Castro non farà ciò che non ha mai fatto e non negozierà questioni politiche interne con un altro Paese».

In Asia, l’effetto Trump sta già compromettendo le iniziative politiche di vecchia data messe in atto dai leader democratici della regione. Il Giappone forse si trova nella posizione più pericolosa, il che spiega perché il primo ministro Shinzo Abe si è precipitato a New York per incontrare il presidente-eletto, il primo leader straniero a incontrare Trump.

    “Trump vuole un accordo migliore per la popolazione cubana, i cittadini cubano-americani e gli Usa nel complesso. Ma un accordo di questo tipo non ha speranze: il regime di Castro non farà ciò che non ha mai fatto e non negozierà questioni politiche interne con un altro Paese”

Per anni, secondo Brahma Chellaney del Center for Policy Research di New Delhi, Abe «ha assiduamente corteggiato» la Russia. «Gli approcci di Abe nei confronti di Putin» sono stati un punto fermo nella sua «più ampia strategia di posizionare il Giappone come contrappeso per la Cina, e ribilanciare il potere in Asia, dove Giappone, Russia, Cina e India formano un quadrilatero strategico». Nella visione di Abe, «il miglioramento delle relazioni con la Russia – con cui il Giappone non ha mai formalmente fatto pace dopo la Seconda Guerra Mondiale – è l’ingrediente mancante per un equilibrio tra le potenze nella regione».
Il presidente filippino Rodrigo Duterte e il primo ministro giapponese Shinzo Abe durante la visita di quest’ultimo a Manila del 12 gennaio (Epa)

Ma il corteggiamento di Putin da parte di Trump ha lasciato Abe in disparte. Con «gli Usa nel proprio angolo – fa notare Chellaney – la Russia «non avrà più bisogno del Giappone». Inoltre, Abe è stato indebolito dalla promessa di Trump di far ritirare gli Usa dall’accordo Trans-Pacific Partnership siglato tra 12 Paesi. Abe ha visto il Tpp «come un mezzo per evitare che la Cina dettasse le regole nel commercio asiatico», afferma l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott. Senza il Tpp, «ora aumentano le probabilità che la Cina rivesta quel ruolo».

È nelle rovine di Aleppo, però, che si può discernere più chiaramente il probabile impatto internazionale della presidenza “America first” di Trump. Ovviamente, Trump non può essere colpevolizzato per gli sconvolgimenti in Siria. Come sostiene Christopher Hill, la débâcle in Siria è dovuta a «una manifestazione di diplomazia clamorosamente incompetente» da parte di Obama. Ma la politica estera che Hill prevede con Trump è una politica che persegue obiettivi americani «senza alcun tentativo serio di guidare il supporto internazionale, o persino di valutare altre opinioni o interessi».

Richard Haass, presidente del Council on foreign relations, è altrettanto critico rispetto alla diplomazia Usa in Siria e al precedente che crea, perché «non agire in Siria si è rivelato tanto importante quanto agire». E non solo per la Siria: il mondo ha recentemente visto gli Usa farsi da parte affinché Iran, Russia e Turchia tentassero di far cessare i combattimenti in questa regione. Indipendentemente dagli esiti della politica estera di Obama, nel Medio Oriente o altrove, la leadership e l’iniziativa geopolitica Usa saranno ancor più deficitari con Trump.

L’economia Usa secondo Trump
Di certo non lo si direbbe dai tweet di Trump, ma Obama lascia un’economia americana che è più forte di quanto non sia stata dall’inizio della presidenza di George W. Bush 16 anni fa. La crescita annua del Pil si attestava al 2,9% nel terzo trimestre del 2016; il tasso di disoccupazione è sotto il 5%; e il disavanzo di bilancio e il deficit commerciale Usa hanno registrato un calo per tutto il secondo mandato di Obama. Se Trump dovesse comportarsi come fa normalmente, si prenderebbe semplicemente il merito del successo di Obama e manterrebbe le sue politiche, che hanno chiaramente (seppur lentamente) rimediato ai massicci danni economici lasciati in eredità dalla peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione.

Difficile che accada. Tutto, dai dettagli delle sue politiche economiche ai personaggi chiave scelti per implementarle, indica che Trump e il Congresso controllato dai repubblicani siano pronti a smantellare quanta più eredità di Obama possibile. Il “principio organizzatore” delle politiche economiche di Trump, secondo Simon Johnson, senior fellow del Peterson Institute for International Economics, «sembra essere quello di abbandonare del tutto il pragmatismo e procedere con un’ideologia estrema e screditata». Si tratta di un programma «strutturato attorno a massicci tagli fiscali, a una profonda deregolamentazione (anche per finanza e ambiente) e all’abrogazione della riforma sanitaria firmata da Obama, l’Affordable Care Act». E ora che i repubblicani alla Camera «hanno iniziato a pensare ai dazi sulle importazioni come parte del loro pacchetto di ’riforme’ – sostiene Johnson – inizieranno tutti ad abbracciare» il protezionismo, pur avendo recentemente supportato il TPP.

Resta tutto da vedere. Ma se Trump impone un dazio, come sembra certo, «è probabile che alcuni o tutti i partner commerciali dell’America facciano delle ritorsioni, imponendo dei dazi sulle esportazioni Usa», continua Johnson. «Dal momento che le aziende Usa orientate all’export, molte delle quali pagano salari elevati, riducono l’output, rispetto a ciò che avrebbero altrimenti prodotto, l’effetto presumibilmente sarà una riduzione del numero dei posti di lavoro buoni».

    “Se Trump impone un dazio, come sembra certo, è probabile che alcuni o tutti i partner commerciali dell’America facciano delle ritorsioni, imponendo dei dazi sulle esportazioni Usa”
    Simon Johnson, senior fellow del Peterson Institute for International Economics

In modo analogo, gli economisti Gita Gopinath, Emmanuel Fahri e Oleg Itskhoki sono in dubbio sull’impatto che ci sarà sulla bilancia commerciale se il team di Trump «proponesse di tagliare le aliquote fiscali sulle imprese e imponesse un adeguamento fiscale alla frontiera», che come l’imposta sul valore aggiunto, «tratterebbe le merci acquistate sul mercato interno e quelle importate in modo differente, e incoraggerebbe le esportazioni». A loro avviso, è improbabile che questa strategia funzioni «per il semplice motivo che le autorità Usa mantengono un tasso di cambio flessibile». Ipotizzando la piena implementazione delle riforme fiscali proposte da Trump, «il dollaro si apprezzerebbe insieme alla domanda di beni Usa», il che «controbilancerà qualsiasi guadagno di competitività».

Carmen Reinhart di Harvard la pensa in modo analogo sui piani di Trump. Il dollaro, fa notare, è ora in rialzo «di oltre 35% rispetto al paniere di valute dai minimi registrati nel luglio del 2011». E il costante apprezzamento dei tassi di cambio pone «un grande ostacolo al mantenimento della sua promessa» – tanto risonante negli stati della “Rust Belt” in cui ha stravinto – «di riportare il manifatturiero negli Stati Uniti, anche se per farlo bisogna imporre dazi e smantellare gli esistenti accordi commerciali».
Il presidente della Federal Reserve Janet Yellen in un’immagine d’archivio (Ap)

A Trump restano poche opzioni. Come osservano Gopinath, Fahri e Itskhoki, è improbabile che la Federal Reserve si affidi all’apprezzamento del dollaro riducendo i tassi di interesse, perché ciò alimenterebbe l’inflazione domestica. E Reinhart esclude una versione aggiornata dell’Accordo del Plaza del 1985, che progettò il deprezzamento del dollaro rispetto al marco tedesco e allo yen. «Un forte apprezzamento dello yen – sostiene – probabilmente farebbe deragliare il modesto progresso forgiato dalla Bank of Japan nell’aumentare l’inflazione e le aspettative inflazionistiche».

Inoltre, «non sarà la Bundesbank a sedere attorno al tavolo nel 2017 – bensì la – «Banca centrale europea, che sta affrontando un’altra tornata di difficoltà nella periferia» dell’Eurozona, facendo del debole euro una «manna dal cielo». E poi c’è la Cina. Ma «considerato l’impatto negativo di uno yen forte post-Plaza sulle successive performance economiche del Giappone», osserva Reinhart, «non è chiaro perché la Cina pensi cha valga la pena rafforzare il renminbi».
    “Il solo fatto di pensare di trasformare il commercio in un’arma è un abbaglio politico di proporzioni epiche”

Ovviamente, l’inazione da parte della Cina potrebbe esporla a un’altra raffica di tweet furiosi – che ora riportano il sigillo presidenziale americano – sulla sua presunta “manipolazione della valuta”. Ma esattamente come Trump sembra negare gli effetti di un dollaro in salita, il suo «duro discorso» sul commercio in generale, e sulla Cina in particolare, «si è dimenticato di un fattore chiave», sostiene Stephen Roach dell’Università di Yale. È il «significativo deficit sui risparmi domestici» dell’America, fa notare Roach, a rappresentare «l’insaziabile appetito di risparmi in eccesso dall’estero, che a sua volta genera il suo cronico deficit di parte corrente e un massiccio disavanzo commerciale».

Il problema, avverte Roach, è che, diversamente dai tweet notturni di Trump, l’imminente amministrazione «sta giocando con munizioni vere» contro un avversario che possiede munizioni in abbondanza, con tutte le profonde ripercussioni globali che ciò implica. Per un leader che non è noto per un’attenta valutazione, e che si è circondato di «falchi estremisti anti-Cina», il solo fatto di pensare che trasformare «il commercio in un’arma» possa equivalere a ciò che Roach definisce «un abbaglio politico di proporzioni epiche» non è una ragione sufficiente per credere che non accadrà.

Opporre resistenza
Pur evitando questo abbaglio, secondo Chris Patten, cancelliere dell’Università di Oxford, probabilmente ve ne saranno altri, in parte perché i social media stessi, a suo avviso, sono diventati una forma di munizioni, consentendo «alle menzogne di prendere il posto della verità nei discorsi pubblici e nei dibattiti». Patton, però, presume che la verità possa tornare a galla. A suo parere basterebbe neutralizzare le falsità con i fatti: ricusare i collaboratori che citano «titoli di notizie false o dichiarazioni ignoranti e tendenziose», segnalare i notiziari fuorvianti e sollecitare «i leader della comunità a rimboccarsi le maniche e a fare lo stesso».

Peter Singer dell’Università di Princeton, però, dubita che la mera insistenza da parte di singoli individui sull’accuratezza dei fatti sia sufficiente a difendere l’integrità delle elezioni democratiche dalle false notizie. Singer cita l’esempio di un video su YouTube, che è stato visualizzato 400mila volte prima delle elezioni americane (e poi rimosso), in cui il teorico della cospirazione americana di estrema destra Alex Jones accusava «Hillary Clinton di aver personalmente ucciso, fatto a pezzi e stuprato» bambini. Rivisitando la famosa opinione concordante del giudice della Suprema Corte di Giustizia Louis Brandeis in Whitney v. California, Singer pensa che «la convinzione di Brandeis che “più parole, e non un silenzio imposto” sia il rimedio per “la falsità e le fallacie” appaia ingenua, soprattutto se applicata a una campagna elettorale». Considerato il tempo e il costo dei processi civili per diffamazione, e della loro efficacia «solo contro coloro che hanno la possibilità di pagare qualunque danno venga addebitato», Singer si chiede se sia «ora che il pendolo legale oscilli nuovamente verso il reato penale di diffamazione».

Oltre a regolamentare i discorsi, serviranno politiche più dure in altre aree. Fischer sostiene che l’Europa, in particolare, debba essere proattiva nel difendere i propri interessi, soprattutto perché la Russia considera la «debolezza o la mancanza di una minaccia da parte dei suoi vicini» non «come una base per la pace, quanto piuttosto come un invito a estendere la propria sfera di influenza». Per più di sette decenni, gli europei hanno potuto concentrarsi su altre questioni. «La vecchia Ue si trasformò in una potenza economica perché era protetta dallo scudo di sicurezza degli Usa», osserva. «Ma senza questa garanzia, può affrontare le attuali realtà geopolitiche solo sviluppando la propria capacità di mostrare forza politica e militare».

Tornando negli Stati Uniti, Laura Tyson dell’Università di Berkeley e Lenny Mendonca del Presidio Institute sono del parere che stato e governi locali possano altresì offrire un efficace fonte di resistenza. «La risposta al trumpismo – sostengono – è “il federalismo progressista”: la ricerca di obiettivi politici progressisti avvalendosi della sostanziale autorità delegata ai governi subnazionali nel sistema federale Usa». In particolare, stati come la California, che vanta la sesta più grande economia del mondo e ha votato massicciamente per la Clinton, possono diventare il fulcro di ciò che Tyson e Mendonca chiamano «federalismo non cooperativo», che implica «rifiutare di condurre politiche federali cui ci si oppone». A titolo esemplificativo, la legislatura dello stato sta considerando «nuove proposte di legge per finanziare servizi legali per gli immigranti contro la deportazione e bandire l’uso di risorse statali e locali per l’applicazione delle leggi sull’immigrazione per motivi costituzionali».

Catturare la bandiera?
La cosa più importante, suggerisce Sierakowski, è smettere di pensare che il populismo si possa semplicemente autodistruggere. Certo, un fattore chiave di vulnerabilità dei governanti populisti, secondo Sergei Guriev, capo economista della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, è la loro convinzione di «essere i soli a poter risolvere i problemi dei loro Paesi». Trump lo ha detto esplicitamente, e poiché «sono in molti a considerare un Ceo di successo come qualcuno in grado di mantenere obiettivi ben definiti», fa notare Guriev, «giungono alla conclusione che un imprenditore possa risolvere problemi sociali che un politico non è in grado di risolvere».

Ma è sbagliato, perché secondo Guriev si pensa che i leader politici «con un’ottica imprenditoriale siano più concentrati sull’efficienza che sull’inclusione». Se però da un lato «il leader aziendale può eliminare posti di lavoro ed emettere indennità di licenziamento ai lavoratori in esubero», i governi devono preoccuparsi di «ciò che accade a questi lavoratori successivamente». Il rischio, quindi, è che quando una mentalità aziendale ispira la politica, «le riforme ignorano o allontanano troppi elettori», facendo perdere ai leader popolarità.

Per Sierakowski, questo è quello che secondo molti accadrà inevitabilmente ai governi populisti. E aggiunge, «la visione convenzionale di ciò che attende gli Usa (e forse la Francia e i Paesi Bassi) nel 2017 è un erratico governante che attua politiche contradittorie che vanno principalmente a beneficio dei ricchi». Con il ritorno di Jaroslaw Kaczyński al potere in Polonia un anno fa, i suoi avversari erano proprio convinti che: il suo governo (in cui non riveste alcun ruolo formale) «avrebbe funzionato a vantaggio dei ricchi, creato caos e avrebbe rapidamente commesso degli errori – che è esattamente quello che è accaduto nel 2005-2007», la prima volta che salì al potere il PiS.

Ma non questa volta. Secondo Sierakowski, il PiS si è «trasformato da nullità ideologica in un partito che è riuscito a introdurre degli scioccanti cambiamenti a velocità record e in modo efficiente». Invece delle precedenti politiche economiche neoliberali, il PiS ha «attuato i più grandi trasferimenti sociali nella storia contemporanea della Polonia», così inducendo un «calo del tasso di povertà nell’ordine del 20-40%, e del 70-90% tra i bambini». Le generose prestazioni previdenziali, unite al nazionalismo socialmente conservatore, si sono rivelate altamente efficaci nell’assicurarsi il supporto degli elettori. Di fatto, fintanto che Kaczyński «controlla questi due baluardi del sentimento degli elettori, è al sicuro», crede Sierakowski. «Coloro che tentano di opporsi a Trump», conclude, «possono tirare le proprie conclusioni da questo fatto».

Ma in che modo l’esperienza della Polonia si può applicare ad altri Paesi in generale, e agli Usa in particolare? Johnson di Inet riconosce la possibilità che il trumpismo possa diventare una forza politica durevole. A suo avviso, «se i repubblicani fanno passare un pacchetto di crescita keynesiano nei prossimi due anni che aumenti i salari, potrebbero assicurarsi la presa di potere per molti anni a venire», anche quando «ignorano o indeboliscono i diritti delle donne e dei lavoratori, la tutela ambientale e l’istruzione pubblica».

    “È probabile che l’espansione fiscale proposta da Trump vada nuovamente e sproporzionatamente a vantaggio degli abbienti, senza prendere in considerazione il resto degli americani”

    Simon Johnson, senior fellow del Peterson Institute for International Economics
Ma Johnson non è convinto che i repubblicani siano inclini ad adottare le riforme necessarie a garantire un’ampia condivisione dei benefici derivanti dalla crescita. Anzi, «è probabile che l’espansione fiscale proposta da Trump vada nuovamente e sproporzionatamente a vantaggio degli abbienti, senza prendere in considerazione il resto degli americani». Fa notare che mentre «i “partenariati pubblico-privato” sono stati promossi come un mezzo per indirizzare il capitale verso un’azione di ricostruzione nazionale», l’esperienza degli ultimi anni dimostra che «tali misure possono essere manipolate, e spesso portano a risultati del tipo “testa vinco io, croce perde il contribuente” di cui hanno beneficiato Wall Street e la Silicon Valley».

Ovviamente, non è da escludersi il consolidamento del trumpismo. Il rapido abbraccio del protezionismo da parte dei repubblicani al Congresso, insieme al rapido ritiro della proposta di smantellare l’organismo indipendente che controlla il Parlamento, ossia l’Office of Congressional Ethics, suggerisce che con buona probabilità accetteranno Trump – anche su questioni di presunto principio – per restare al potere. Ma conta anche il contesto. Il sistema elettorale e i partiti politici d’America sono molto più centrati sul candidato di quanto non siano in altri Paesi avanzati, creando un significativo spazio per l’opposizione dall’interno. E così è stato con il conflitto di Trump con i senatori repubblicani e le agenzie di intelligence americane per aver rifiutato le accuse ben fondate secondo cui la Russia avrebbe effettuato degli attacchi hacker per manipolare l’elezione a suo vantaggio.

Inoltre, mentre la Polonia vanta una delle società etnicamente più omogenee del mondo, per gli Usa vale il contrario. Significa che il capitale politico che si può ottenere dal discorso anti-immigrati – che secondo Sierakowski gli avversari di Kaczyński dovrebbero adottare per sconfiggerlo – è di gran lunga più limitato negli Usa. Gli alleati di Trump finiranno col compromettere i propri valori. Se i suoi avversari faranno altrettanto, scopriranno che pessime decisioni politiche equivalgono a una pessima politica.

Copyright Project Syndicate, 2017
© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-01-12/il-populismo-e-nuovo-disordine-mondiale-131539.shtml?uuid=ADBGf3VC
5718  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Fabrizio d'Esposito Pd un partito-spettro in balìa del Pokerista (battuto) Renzi inserito:: Gennaio 17, 2017, 05:02:28 pm
Pd, un partito-spettro in balìa del Pokerista (battuto) Renzi
La sconfitta rimossa - L’assenza di dibattito e i retropensieri sulla legge elettorale

Di Fabrizio d'Esposito | 14 gennaio 2017

Martedì 10 gennaio a Palazzo Madama, quando il ministro Poletti è arrivato per la sua striminzita informativa sui giovani all’estero, alcuni senatori antirenziani del Pd fotografavano così la drammatica situazione del loro partito, dando forma peraltro a una sorta di inconsapevole sillogismo. Prima immagine: “Il 4 dicembre il Paese ha rigettato il renzismo, questo è il vero punto che impedisce una discussione nel partito”. Seconda immagine: “Renzi è come quel pokerista che ha perso un piatto enorme e vuole subito un tavolo per rifarsi”. Domanda finale: “In queste condizioni com’è possibile andare al suicidio del voto anticipato?”.

Il gigantesco pantano che sta risucchiando Pd è direttamente proporzionale alla sindrome del bunker che ormai sta logorando l’ex premier rimasto segretario. Non una visione politica. Ma una visione del potere per il potere, al punto che scherzando e ridendo, ma fino a un certo punto, nei capannelli dem di Montecitorio qualcuno azzarda l’esigenza di “una perizia psichiatrica” per il segretario, sconquassato “dall’ossessione di tornare a Palazzo Chigi”.

Ecco perché Bersani sente aria di “Gentiloni stai sereno” ed ecco perché il Pd renziano ha completamente rimosso la montagna della catastrofe referendaria del 4 dicembre. Nessuna analisi elettorale, nessun approfondimento, per esempio, sul quarantenne votato dai vecchi e non dai giovani. Solo qualche vaga riflessione di superficie nella pallida assemblea del 18 dicembre. Nel frattempo il Pd continua a perdere appeal, voti e iscritti. Non solo. Il 13 gennaio il bersaniano Fornaro ha calcolato che oltre 100mila persone non hanno confermato la loro firma per il 2×1000 ai democratici, il 20 per cento in meno.

Al contrario, tra il Nazareno a Roma e l’esilio toscano di Pontassieve, si continuano a sviluppare tattiche di guerriglia per il voto anticipato, in attesa del nuovo giorno del giudizio della Corte costituzionale, stavolta sulla legge elettorale vigente per la sola Camera, il fatidico Italicum. La sentenza è prevista il 24 gennaio e tutto sembra immobile, o quasi, sul modello del surplace ciclistico.

In teoria, Renzi e i suoi predicano il maggioritario del Mattarellum ma il retropensiero, nemmeno tanto retro, è quello di precipitarsi alle urne con le due leggi corrette dalla Corte costituzionale: il Consultellum per il Senato (alias il Porcellum ripulito) e quel che resterà dell’Italicum per la Camera. Matteo Orfini, sempre più renziano, lo ha ribadito l’altra sera in tv, nonostante gli avvertimenti del Quirinale per fare una nuova legge in Parlamento.

È l’ansia del giocatore che subito vuole rifarsi, appunto. Ma con quale partito? Cinicamente sono in tanti, tra i dem, a pensare che “una sconfitta alle Politiche chiuderà per sempre il ciclo di Renzi”. Però riuscirà il Pd a sopravvivere all’ex Rottamatore? Nei suoi tre anni di segreteria, tolta la fiammata delle Europee (ma gli italiani ancora non conoscevano bene Renzi), il Pd ha accumulato disastri su disastri: le regionali del 2015, le amministrative dell’anno appena conclusosi. Questa urgenza renziana rischia di essere mortale per i democratici, senza dibattito e senza idee. Del resto, analizzare il renzismo farebbe male anche al governo Gentiloni.

Di Fabrizio d'Esposito | 14 gennaio 2017

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5719  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / MONICA GUERZONI. - Guidi: «Fatta a pezzi per un niente Con la politica ho chiuso inserito:: Gennaio 17, 2017, 05:00:02 pm
Guidi: «Fatta a pezzi per un niente Con la politica ho chiuso»
L’ex ministra dopo la richiesta di ’archiviazione di Tempa rossa: ora penso a mio figlio. «Non c’era nulla in quella intercettazione. È finito tutto in una bolla di sapone»

Di Monica Guerzoni

Le luci della ribalta l’hanno prima esaltata, poi sfregiata politicamente e nel profondo. E adesso che potrebbe uscirne a testa alta, festeggiando la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Tempa Rossa e rivendicando pubblicamente «buona fede e correttezza al servizio del Paese», Federica Guidi si tiene alla larga da registratori e telecamere: «Sono stata fatta a pezzi e costretta alle dimissioni — si sfoga in privato —. E per cosa? Non c’era nulla in quella intercettazione. Non ero nemmeno indagata. E infatti, è finito tutto in una bolla di sapone».

«Ho sofferto troppo»
Nel passaggio dalla Procura di Potenza alla Procura di Roma lo scandalo giudiziario e mediatico su petrolio lucano, corruzione e traffico di influenze illecite, si è sciolto come il ghiaccio di questi giorni gelidi. L’impianto accusatorio del caso che la scorsa primavera fece tremare il governo Renzi non ha retto e il pm Roberto Felici ne ha chiesto l’archiviazione. Dunque niente reati, nessuna associazione a delinquere, anche se l’allora compagno della ministra, Gianluca Gemelli, è dipinto nelle carte romane come un «soggetto intraprendente, interessato alle opportunità derivanti da Tempa Rossa». Un tipo apparso ai giudici spregiudicato e millantatore, che però, «al di là di censurabili atteggiamenti, non emerge abbia mai richiesto compensi per interagire con esponenti del governo». E allora? La telefonata incriminata tra Guidi e Gemelli, l’emendamento alla legge di Stabilità che la ministra si impegnava a far approvare per sbloccare un impianto nel potentino, il nome della Boschi che spuntava nell’intercettazione? Niente di penalmente rilevante. E ora che è tutto finito, Federica non brinda. L’amarezza prevale sul sollievo: «Ho sofferto troppo. E adesso che mi sono ripresa la mia vita, mi interessano solo mio figlio, la famiglia e l’azienda. È stata dura, non voglio parlare di questa esperienza incredibile, non voglio saperne più nulla e non leggerò una riga che parli di me».

«Non leggo di me sui giornali»
Per tranquillizzare gli amici l’imprenditrice nata a Modena nel 1969 si dice «felice di aver riconquistato l’anonimato». E a chi le suggerisce di parlare per recuperare immagine e dignità, risponde che non ha motivo «di essere riabilitata». Con la politica ha chiuso. E per quanto il «doppiopesismo» del Pd a suo tempo le fece male, non intende accendere polemiche: «È stata una cosa brutale, ma è andata». L’imperativo è difendersi, proteggere il piccolo Gianguido. Tutelare la Ducati Energia, dove è tornata a lavorare al fianco del padre Guidalberto, per tanti anni vicepresidente di Confindustria. La chiamano in tanti, le porgono complimenti che non sembra gradire: «Faccio soprattutto la mamma. Sono serena, ma non so se questa ferita potrà mai rimarginarsi. Non nego che a livello umano le conseguenze sono state profonde e nemmeno una bella notizia come l’archiviazione può farmi piacere». Per questo evita con cura di incrociare il suo nome stampato sui giornali: «Quando si parla di me non li apro. Ho sviluppato una sorta di ipersensibilità per quella vicenda, una tale idiosincrasia che non mi interessa nemmeno chiuderla. Servirà ancora tempo, perché tutto questo possa decantare». Il suono di quelle due parole, Tempa Rossa, è un ciak che aziona nella sua testa il film di quei giorni. La bufera politica. Le opposizioni che attaccano. Il M5S che presenta la mozione di sfiducia. La maggioranza e il Pd che le gettano addosso una coperta di sospetti e silenzio, rimproverandole sottotraccia di non aver rivelato di che pasta fosse fatto l’uomo che, nei giorni della bufera, disse di considerare «a tutti gli effetti mio marito».

Quando Renzi disse: «Guidi è indifendibile»
Il 31 marzo Matteo Renzi, in missione negli Usa, fa trapelare attraverso i collaboratori il suo stato d’animo: «Guidi è indifendibile, ha commesso un errore e si deve dimettere. I tempi sono cambiati. Chi sbaglia, va a casa». Scaricata dal premier Federica lascia la poltrona su cui si era seduta il 22 febbraio 2014, inseguita dalle accuse di conflitto di interessi. L’addio, in una lettera al Corriere, è amaro: «La mia è anche una scelta umana, che mi costa, ma che ritengo doverosa per i principi che hanno ispirato sempre la mia vita».

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12 gennaio 2017 (modifica il 12 gennaio 2017 | 23:23)

Da - http://www.corriere.it/politica/17_gennaio_13/guidi-fatta-pezzi-un-niente-7be976a2-d90b-11e6-97e6-e1e054cdfc34.shtml
5720  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Camusso: “Pressioni sui giudici per respingere il quesito sull’art. 18” inserito:: Gennaio 17, 2017, 04:54:56 pm

Camusso: “Pressioni sui giudici per respingere il quesito sull’art. 18”
La segretari della Cgil al governo: “Fissi subito la data del voto. I voucher strumento malato e non riformabile”

Pubblicato il 14/01/2017
Ultima modifica il 14/01/2017 alle ore 07:37

Roberto Giovannini
Roma

Anche oggi - dice Susanna Camusso - abbiamo chiesto al governo di fissare la data dei referendum.

Segretario, la vostra campagna referendaria non è azzoppata dal no al quesito sull’articolo 18? 
«I due referendum parlano a milioni di lavoratori di cui nessuno si occupa mai, e ai giovani che subiscono ricatti e precarietà. Sui licenziamenti illegittimi continueremo a muoverci, anche col contenzioso giudiziario. Ma i referendum su voucher e appalti servono a ragionare del lavoro che verrà, per bloccare una logica impazzita. Già oggi per i voucher passa circa il 7% del lavoro. Non dimentichiamo che basta avere un “buono” da un’ora in una settimana e si viene considerati come “occupati”».

Quando parlate di “contenzioso giudiziario” sui licenziamenti, cosa intendete esattamente? 
«Sono state scritte tante sciocchezze, nessuno ha in mente di ricorrere in sede europea contro la Corte Costituzionale. Noi pensiamo che ci sia una legge, il Jobs Act, che è ingiusta: crea diseguaglianze tra lavoratori, e disparità tra lavoratori e impresa. Non è un caso, lo dimostrano le statistiche ufficiali, che i licenziamenti aumentino. Già ci siamo mossi a fondo nei contratti, per recuperare le garanzie che sono state sottratte, articolo 18 compreso; ora valuteremo in che modo ricorrere presso le Corti dell’Unione europea per farla finita con ingiustizie ai danni dei lavoratori introdotte nelle leggi. Nessun ricorso contro la Consulta, che non ha giudicato nel merito il Jobs Act, ma solo sull’ammissibilità del referendum».

Una Consulta di cui non condividete la decisione. 
«Noi pensiamo di aver rispettato tutte le norme e i precedenti giuridici, ma prendiamo atto della decisione. Si leggono strani retroscena secondo cui la Cgil avrebbe presentato un quesito per farselo bocciare... assurdità. Certo, attendo di leggere le motivazioni della sentenza: non si capisce quali nuove e diverse valutazioni rispetto al passato la Corte abbia formulato - con un grande conflitto interno, a quanto risulta - per bocciare il nostro referendum. Leggo che anche presidenti emeriti della Consulta hanno sollevato la questione». 

 Possono aver pesato considerazioni politiche? 
«Abbiamo constatato un crescendo di interventi per spiegare alla Corte che doveva fare. Fatto senza precedenti. Si è parlato di colloqui tra ministri e giudici costituzionali: mi parrebbe un comportamento non rispettoso dell’autonomia delle istituzioni».

Sui voucher il governo prepara modifiche. Saranno sufficienti per evitare il referendum? 
«Noi abbiamo chiesto di abrogare i voucher, uno strumento malato e irriformabile. Quello è il metro di misura: il Parlamento può varare una nuova norma, ma per far decadere il voto deve rispondere all’istanza posta dal quesito. Si parla di bizzarre ipotesi di riforma, attribuite al ministero del Lavoro: collegare i voucher “consentiti” a un’azienda al numero dei dipendenti è la dimostrazione che con i voucher non si vuole regolare il lavoro occasionale, ma solo mettere a disposizione una nuova forma di flessibilità che fa dumping contro il lavoro regolare. È chiaro che non si vuole la regolazione del lavoro occasionale e l’emersione del lavoro nero – cosa peraltro non riuscita con i voucher – ma costruire una nuova forma di lavoro precario».

Eppure il lavoro occasionale esiste. Abolire i voucher non significa negare questa realtà? 
«Il lavoro occasionale esiste, e la Cgil ha presentato nella Carta dei diritti una proposta in merito. I voucher non sono usati nel lavoro occasionale, dove servirebbero, ma dove non dovrebbero essere usati: nel lavoro stagionale nel turismo, in agricoltura quando c’è il raccolto, nei cantieri edili, sulle catene di montaggio, per sostituire lavoratori in sciopero. Si continua a dire cosa avrebbero dovuto essere i voucher; si ammetta invece che sono un mezzo per fare dumping al lavoro regolare e a quello flessibile “normale”. E a volte, come nel turismo, sono usati anche per coprire e nascondere il lavoro nero». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/14/economia/pressioni-sui-giudici-per-respingere-il-quesito-sullart-timuBEqMDquTFwUMznDfSN/pagina.html
5721  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / MARIO LAVIA. Sinistra italiana, neanche è nata e già è divisa. ... inserito:: Gennaio 17, 2017, 04:53:06 pm
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Mario Lavia - @mariolavia
· 16 gennaio 2017

Sinistra italiana, neanche è nata e già è divisa. La lunga storia delle scissioni
Domani a Lecce con Pisapia i “dialoganti” dell’ex Sel

Ci ha pensato domenica Il Manifesto, con un lungo articolo di Daniela Preziosi, a gettare un fascio di luce sulla ennesima querelle a sinistra-sinistra. Querelle? Di più: diciamo che Sinistra Italiana, che nemmeno è formalmente nata, già si divide.

Il congresso fondativo infatti sarà a Rimini dal 17 al 19 febbraio, ad un anno e mezzo – addirittura – dalla prima iniziativa dei fuoriusciti del Pd che si incontravano con Sel, il 7 novembre 2015 al teatro Quirino di Roma: un tempo lunghissimo che evidentemente non ha sciolto ‘il’ nodo di fondo, quello del rapporto con il Pd.

Da quel 7 novembre 2015 moltissime cose sono successe e anche se l’impianto di fondo di SI non è cambiato (“Noi mettiamo a disposizione dei cittadini la possibilità di costruire un nuovo soggetto che non è di nessuno, che non ha un padrone. E’ una opportunità per quel popolo di sinistra che non ha più una casa”, ha detto Alfredo D’Attorre) pure la sottile linea di frattura gira sempre attorno allo stesso punto: col Pd ci si deve scontrare o ci si deve incontrare? Un classico del dibattito a sinistra.

A far esplodere la contraddizione in seno al partito è stata la scesa in campo di Giuliano Pisapia. Definito da qualcuno in casa Sel/SI (Giovanni Paglia) “un maggiordomo” del Pd, e invece artefice di un progetto interessante per altri: i quali hanno rotto gli indugi e scritto una lettera – sono in 16, fra cui il capogruppo Arturo Scotto – lamentando un brutto clima e reclamando che “sotto e oltre le differenze si riconosca un nucleo di verità e dignità”, che – tradotto – vuol dire pretendere un democratico spazio di parola.

Dietro il linguaggio felpato, i ’16’ pongono già il problema dei problemi: quello della democrazia interna, da sempre terreno di scontri interni nelle formazioni di sinistra. Oggi Stefano Fassina, uno dei ‘duri”, che si è “autosospeso” dal gruppo parlamentare di Sinistra italiana fino a che non ci sarà un chiarimento, ha detto a Repubblica.it che “il punto è che dobbiamo imparare a discutere al nostro interno in modo più rispettoso”. E in ogni caso, niente ruota di scorta, si sarebbe detto una volta: “Non siamo la compagnia low cost del Pd”.

E domani – informa ancora Preziosi – si terrà a Lecce una iniziativa proprio con Pisapia e alcuni dei ’16’, fra cui Dario Stefàno, da tanto tempi in rotta con la linea dura di Sel (Fratoianni, Fassina), il sindaco di Cagliari Massimo Zedda (idem), il vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio.

Da sempre le formazioni di ‘sinistra critica’ sbattono contro il muro del rapporto con il partito più grande della sinistra, ieri il Pci-Pds, oggi il Pd. Un giornalista attentissimo a queste dinamiche, anche dal punto di vista della ricostruzione storica, Ettore Maria Colombo, ha ricordato sul suo blog le tappe essenziali della scissione-mania che ci permettiamo di riportare in parte.

La sinistra cosiddetta ‘radicale’ – e già sarebbe meglio aggiungere ‘che tale fu’ – ha un’antica coazione a ripetere dalla quale non riesce proprio a discostarsi, neppur volendo. Una’storia’ e una ‘tradizione’ così radicata che ne ha causato una prima volta la morte – diciamo intorno al 2007/2008, quando Rifondazione comunista, fondata nel 1991/1992 per contrapporsi, da sinistra, allo scioglimento del Pci e alla sua trasformazione in Pds-Ds-Pd, si ruppe e diede vita a Sel di Vendola e Prc di Ferrero dall’altro (neppure insieme, nella fantomatica Sinistra Arcobaleno superarono il quorum a Politiche 2008 ed Europee 2009)  – e che sta per causarne, una seconda volta, la ‘ri-morte’ di quel che rimane di entrambe. Insomma, il rischio concreto è che, a sinistra del Pd, resti poco o nulla delle vestigia di un passato che fu, a metà degli anni Novanta, persino semi-glorioso. La Rifondazione di Garavini-Cossutta nel 1993/’94 prima e quella di Bertinotti-Cossutta nel 1996-’98 poi arrivarono a cifre elettorali ragguardevoli e condizionarono, per almeno tre volte, la nascita e poi la morte di governi di centrosinistra, cambiando di fatto la storia d’Italia: nel 1995-’96 dando, i Comunisti Unitari di Crucianelli, e negando, il Prc di Cossutta, la fiducia al governo Dini; nel 1996-’98 dando e poi negando, il Prc di Bertinotti e il Pdci di Cossutta, la fiducia al I governo Prodi e, il secondo, al I e al II governo D’Alema; nel 2007-2008 dando e poi negando, sempre il Prc di Bertinotti, la fiducia al II governo Prodi, che cadde ‘anche’ per colpa del Prc, pur se formalmente la crisi la aprì l’Udeur di Clemente Mastella. Poi, appunto, un lungo silenzio, quasi assordante, con Ferrero e Vendola che si litigarono le spoglie di una Rifondazione comunista ridotta in briciole (vinse Ferrero, congresso 2009 a Chianciano, Vendola, che di quella sconfitta ancora non si capacita, fondò Sinistra ecologia libertà con Verdi e Psi prima, poi da solo), il Pdci che si inabissava nel nulla, i Verdi pure. Infine, alle Politiche del 2013 – quelle ‘non perse’ ma neppure ‘vinte’ dal Pd di Bersani – la (finta, ingannevole, illusoria) rinascita: Sel, grazie alla coalizione Italia Bene comune, fatta con Pd e i centristi, rientrò in Parlamento dalla porta principale: gruppone alla Camera, Boldrini presidente, nuova attenzione dei media. Durò assai poco. Prima la scissione dei ‘miglioristi’ (nel senso di seguaci dell’ex enfant prodige di Bertinotti nel secondo Prc, Gennaro Migliore) che fondarono una piccola costola di area Pd e poi, nel Pd, entrarono, non pareggiati dai ‘nuovi innesti’ di fuoriusciti dal Pd (Fassina, D’Attorre, Galli, Mineo); poi la stagione dei sindaci ‘arancioni’ (Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, Doria a Genova) che presto dilapidarono la ‘Nuova Speranza’ che si era accesa nel popolo della Sinistra.

Come si può vedere da questa ricostruzione dei fatti, ogni volta che subentri una questione politica strategica si finisce con una scissione. E’ una maledizione che colpisce le organizzazioni della sinistra, seppure in contesti diversissimi, da sempre.

E in questo bailamme – nel quale va ricordato anche il flop della “Coalizione Sociale” di Maurizio Landini, tentativo un po’ ingenuo di fare una “Cosa” politico-sociale presto svanita nel nulla mentre resiste la civatiana “Possibile” – non sarà semplice per la nascitura SI tenere insieme le due anime, quella ‘irriducibile’ e quella attenta a non rompere il filo con il Pd tramite una nuova formazione Pisapia-Boldrini (se la presidente della Camera a un certo punto vorrà essere di questa partita), il ‘Campo progressista” dell’ex sindaco di Milano: chi vivrà vedrà.

Da - http://www.unita.tv/focus/sinistra-italiana-neanche-e-nata-e-gia-e-divisa-la-lunga-storia-delle-scissioni/
5722  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Danilo TAINO «Un unico Occidente? Per Trump non esiste. Siamo tutti concorrenti» inserito:: Gennaio 17, 2017, 04:50:30 pm
L’INTERVISTA
«Un unico Occidente? Per Trump non esiste. Siamo tutti concorrenti»
Norbert Röttgen presidente della Commissione Affari esteri del Bundestag del «Se Trump torna indietro sull’Ucraina indebolirà l’Europa e Merkel»

Di Danilo Taino, corrispondente da Berlino

Cosa l’ha colpita dell’intervista?
«Noi consideriamo l’Occidente una comunità di Paesi amici, con un orizzonte unico: questa idea non ha spazio nel pensiero di Trump. La Nato, l’Unione europea, la partnership transatlantica non sono cose che gli interessano. È interessato a fare deal, accordi. È concentrato sull’America, tutti gli altri sono da considerare concorrenti».
Dice che la Nato gli interessa.
«Nell’intervista, in realtà, dice due volte che la Nato è obsoleta. Il fatto è che la Nato sta al cuore dell’Europa che abbiamo costruito in 70 anni».
Ma gli accordi di cui parla non saranno interessanti?
«Che accordi saranno? Mettono in discussione i trattati che funzionano da 70 anni? Nessuno sa da cosa siano guidati questi deal. Quando parla di togliere le sanzioni contro la Russia intende dire che vuole un accordo con Mosca a spese dell’Europa?».
Le sanzioni: se Trump le eliminasse, l’Europa si troverebbe isolata, lo stesso Angela Merkel.
«Gli Stati Uniti sono sempre cruciali nelle grandi decisioni. Deve essere chiaro che senza Usa non c’è unità dell’Occidente. Se la nuova Amministrazione americana torna indietro sulla questione ucraina, ciò indebolirà enormemente l’Europa e la Germania. Anche la cancelliera tedesca».
Finora gli europei sono sembrati in confusione di fronte a Trump.
«Sfortunatamente l’Europa è nella sua peggiore forma, colpita da Est, da Sud e ora anche da Ovest. È la situazione più difficile da quando furono firmati i trattati di Roma. Ma dobbiamo sapere che nessun Paese può fare fronte da solo alle nuove sfide. Occorre muovere passi in modo unito: è impensabile dividersi in questa situazione».
Lo crede possibile?
«C’è mancanza di volontà, è vero. Dobbiamo però sapere che se proseguiamo su questa strada mettiamo a rischio la nostra sicurezza, quella che ha garantito decenni di pace e di prosperità all’Europa».
Trump dice che la Ue è un veicolo della Germania. A lei sembra che la Germania stia facendo abbastanza, in questa situazione?
«La Germania deve fare di più. Prendersi una quota maggiore di responsabilità in Europa. Ma dobbiamo anche essere coscienti dei nostri limiti. È un’illusione pensare che la Germania possa essere sostitutiva dell’America. È qualcosa al di sopra delle possibilità tedesche. Nemmeno un’Europa unita e molto più attiva potrebbe sostituire gli Stati Uniti. Possiamo però essere determinanti nel mantenere la partnership con l’America».
Come?
«Si tratta di andare all’offensiva, essere proattivi: andare negli Stati Uniti, non permettere che la partnership evapori. È la sfida del momento».

16 gennaio 2017 (modifica il 16 gennaio 2017 | 20:56)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/17_gennaio_17/unico-occidente-lui-non-esiste-siamo-tutti-concorrenti-1683214c-dc25-11e6-8880-ab80bbeec765.shtml
5723  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Pisapia, l’insofferenza della Sinistra per l’ex sindaco: “Allearsi con Renzi?... inserito:: Gennaio 17, 2017, 04:47:21 pm
Pisapia, l’insofferenza della Sinistra per l’ex sindaco: “Allearsi con Renzi? Megalomane. Quel centrosinistra non c’è più”

POLITICA
La proposta del Campo progressista lanciata nei giorni scorsi dall'ex primo cittadino rischia di dirottare verso il Pd una parte dei consensi della futura Si, quando manca poco più di un mese al suo atto. E' per questo motivo che gli umori della base e i giudizi dei dirigenti della sinistra radicale non sono teneri nei confronti di quello che fu uno dei protagonisti della Rivoluzione arancione del 2011. Fratoianni: "Non è su di lui che vogliamo fare il congresso”. Palazzotto: "La sua visione politica è sbagliata". Ma Scotto apre: "No a bocciature in tronco"
Di Valerio Valentini | 14 gennaio 2017
   
Al solo sentirlo nominare, Nicola Fratoianni reagisce con una certa insofferenza. “Non è su Giuliano Pisapia che vogliamo fare il congresso”. Comprensibile, certo. Ma è anche inevitabile che per ora, quando manca poco più di un mese all’atto fondativo di Sinistra italiana, a movimentare il dibattito sulla natura e il destino del partito che sorgerà dalle ceneri di Sel sia anche e soprattutto l’ex sindaco di Milano. Pisapia il compagno “che sta sbagliando strada”, Pisapia il “distruttore”, il “tentatore”, addirittura il “megalomane”. Sentendo gli umori della base e le riflessioni dei dirigenti di Si, sono questi i giudizi che più spesso emergono su quello che fu uno dei protagonisti più osannati della Rivoluzione arancione del 2011. A far discutere è in particolare la proposta lanciata nei giorni scorsi da Pisapia: quella del Campo progressista. E cioè una forza – “non un nuovo partito”, s’è affrettato a precisare lo stesso giurista milanese – alla sinistra del Pd ma ad esso saldamente ancorato. Un’idea che pare piaccia molto a Matteo Renzi, ma assai meno ai rappresentanti di Si, che dal 17 al 19 febbraio si riuniranno a Rimini per il primo congresso del loro nascente partito.

Fratoianni, che a quell’appuntamento arriva come il rappresentante di maggior peso dell’ala radicale, e con il sostegno (per il momento non ancora ufficiale) di Nichi Vendola, boccia subito l’iniziativa: “Il centrosinistra cui Pisapia sembra aspirare oggi non è al centro dei nostri dibattiti semplicemente perché non esiste più. E non esiste più perché è stato cancellato dalle politiche del Pd di Matteo Renzi”. Arturo Scotto, altro candidato alla leadership, sulla nascita del centrosinistra si mostra più possibilista (“E’ una prospettiva per cui anche Sinistra italiana può impegnarsi”), ma è altrettanto categorico nel porre una condizione essenziale: “All’interno di un’eventuale alleanza di centrosinistra non può essere presente chi, come l’attuale segretario del Pd, di quella coalizione è stato il killer”.

Se queste sono le premesse, è difficile spiegarsi come mai sia proprio con Renzi, o comunque con un Pd a trazione renziana, che Pisapia sembra intenzionato a voler dialogare, pur senza ridursi – come lui stesso ha ribadito – ad essere “la stampella di nessuno”. O forse proprio difficile da spiegarselo non è, almeno stando a quanto sussurrano i maligni. Secondo alcuni osservatori, lo scopo di Pisapia potrebbe essere quello di cucire un’alleanza col Pd che gli permetta di partecipare ad eventuali primarie di coalizione. Senza alcuna prospettiva di vittoria, ovvio: ma con la certezza, quella sì, di racimolare una percentuale di rappresentanza che gli consenta poi di ottenere un qualche riconoscimento. C’è chi già parla di contrattazioni avviate: uno scranno alla Corte costituzionale o magari un dicastero. Dice Erasmo Palazzotto, deputato siciliano di Sel: “La visione politica di Pisapia è sbagliata: lui pensa che oggi sia necessaria una sinistra collaterale al Pd. Puntare cioè ad accordi su base locale e poi rivendicare, a livello nazionale, qualche posto di governo. Un partito satellite, insomma, come lo è il Partito socialista di Nencini. Lo scopo di Pisapia è stringere un’alleanza con Renzi nella speranza di vedersi nominato ministro della giustizia? A me sembra una strategia anche legittima, ma senz’altro avvilente”.

Chi Pisapia lo conosce bene, chi gli è stato vicino sin dai tempi di Rifondazione Comunista e lo ha accompagnato nella sua ascesa politica, tende a negare che si tratti solo di arrivismo personale: “Giuliano nel centrosinistra ha sempre creduto. Oggi però gli manca, mi pare, la capacità di capire che quella strada non è percorribile”. Alcuni compagni milanesi, di quelli che tra il 2001 e il 2006 sedevano accanto all’avvocato comunista sui banchi della Camera, parlano di un’operazione incomprensibile: “Ma come? Dici di voler unire la sinistra, e il tuo primo atto in questa nuova veste è quello di spaccare Sel alla vigilia del congresso?”. Ma allora come si spiega, l’idea del Campo progressista? “Semplice. È puro delirio di onnipotenza”.

A Milano la proposta ha diviso i militanti. Per alcuni, l’idea di allearsi col Pd è “una tentazione”: perché è vero che dover dialogare “con chi ha abolito l’articolo 18” e “siede al governo con un pezzo della destra” pone seri “problemi di coscienza”, ma è altrettanto vero che rinunciare a contaminarsi significherebbe “relegarsi all’irrilevanza”. C’è però anche chi sottolinea come un primo esperimento in piccolo di questa Campo progressista ci sia già stato: “E i risultati non sono stati esaltanti”. Il riferimento è alla Lista Arancione promossa proprio da Pisapia per garantire a Beppe Sala il sostegno della sinistra milanese nella corsa a Palazzo Marino, alle comunali dello scorso giugno. Una scelta che tra la base non riscosse grande entusiasmo. “Parliamoci chiaro: immaginare di fare le primarie col Pd, al momento, significa immaginare un terreno impraticabile. Un’ipotesi fuori dal mondo. Anche per questo la proposta di Pisapia non mi convince per niente”, sentenzia Fratoianni. Meno drastico, sul punto, Scotto: “Sono contrario alle chiusure a priori. Quindi anche la proposta di Giuliano rifiuto di bocciarla in tronco: nessuna chiusura netta. Ma precisiamo: l’illusione del governo del capo, la stagione dell’uomo solo al comando va senz’altro archiviata”. Se a Scotto si fa notare che ragionare di un Pd senza Renzi è quantomeno ardito, lui replica che è presto per fare previsioni: “Il nostro dialogo con la minoranza del Pd va avanti da tempo. Vedremo”. E comunque tutti, in Si, ci tengono a puntualizzare che più importanti delle alleanze sono i programmi: “Inutile parlare dell’alchimia degli schieramenti se prima non si elabora un’agenda condivisa”, dicono in coro.
Quanto a Pisapia, la proposta del Campo progressista farà pure fatica a scaldare i cuori dei militanti storici, ma forse rischia di togliere ossigeno alla futura Sinistra italiana, dirottandone verso il Pd una parte dei consensi. Pericolo che però viene ridimensionato da Palazzotto: “Non è a noi che Pisapia toglie il terreno sotto i piedi. Se la sinistra torna a fare la sinistra, troverà spazio e consenso. Semmai l’operazione di Campo progressista offre un’ottima sponda a Renzi nella sua sfida per il controllo del Pd, perché indebolisce chi, all’interno di quel partito, tenta di spostare l’asse più a sinistra”.

Nel frattempo, un’altra proposta di alleanza è arrivata a movimentare la marcia d’avvicinamento di Si al suo congresso fondativo. Pippo Civati, in un’intervista al Manifesto del 12 gennaio, ha teso una mano agli attuali esponenti di Sel: realizzare “un manifesto comune”, “una costituente delle idee, per scrivere un progetto di governo” in vista della prossima legislatura. “Stimo Pippo e la sua intelligenza – commenta Scotto – ma mai più sinistre arcobaleno e liste Tsipras. I cartelli elettorali non servono e non funzionano”. Secondo Palazzotto, invece, “Sinistra italiana deve uscire dal suo congresso con la volontà di avviare subito un dialogo con varie forze della sinistra”. E non solo Possibile di Civati: “Dobbiamo guardare anche a esperienze di governo locali e liste civiche come quelle rappresentate da Renato Accorinti a Messina e Luigi De Magistris a Napoli. Non nell’ottica del minestrone, ma in quella di una piattaforma ampia e inclusiva”.

La sensazione, comunque, è che a determinare gran parte delle strategie future di Si sarà la natura della nuova legge elettorale. Ammette Fratoianni: “Se passa il Mattarellum, lo so, c’è il rischio che restando fuori dalle alleanze si resti fuori dal Parlamento. Ma non può essere questa paura il motivo per costringersi ad accettare politiche sbagliate”. Viceversa, col proporzionale, lo scenario cambierebbe radicalmente. E non è un caso che tutti proporzionalisti convinti si dicano i dirigenti del nascente partito. “L’equivalenza un voto un seggio è fondamentale. Qualunque distorsione è dannosa”, osserva Scotto. In un’ottica simile, è evidente, un’alleanza col Pd diventerebbe assai meno necessaria. E anche la proposta lanciata da Pisapia si sgonfierebbe. Scherza Palazzotto: “Io Giuliano me lo ricordo come un accanito proporzionalista. Chissà se ora ha cambiato idea”.

Si vedrà. Quel che è certo è che per ora l’ex sindaco di Milano ha cambiato il suo programma d’impegni. La manifestazione nazionale di Campo progressista, prevista a Roma per il 22 gennaio, è stata annullata. “Non era mai stata davvero fissata”, precisano dallo staff di Pisapia. Ma secondo alcuni è un segnale importante, che dice di come l’avvocato milanese preferisca aspettare, ripensarci, confrontarsi con amici e alleati. Il progetto, per ora, resta poco definito: e non è detto che alla fine decolli davvero.

Di Valerio Valentini | 14 gennaio 2017

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/14/pisapia-linsofferenza-della-sinistra-per-lex-sindaco-allearsi-con-renzi-megalomane-quel-centrosinistra-non-ce-piu/3313683/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2017-01-14
5724  Forum Pubblico / ICR Studio. / Scienza e Filosofia - John Jost Cervelli di destra e di sinistra inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:45:41 am
Scienza e Filosofia
Cervelli di destra e di sinistra

Di John Jost 14 gennaio 2017

Anche in condizioni ottimali, vi sono comunque minacce al buon funzionamento dei sistemi democratici che derivano dalla natura umana. Ci sono, ad esempio, l’apatia politica, il cinismo, l’alienazione, la decisione di una parte dei cittadini di ritirarsi dal processo elettorale, così come vi sono tentativi egemoni da parte delle élite politiche di mantenere il controllo escludendo determinati segmenti della popolazione dal voto. Già da decenni gli scienziati della politica lamentano l’ignoranza e la mancanza di conoscenza e sofisticatezza che caratterizza l’elettore medio. La maggior parte dei cittadini pone infatti meno attenzione e meno impegno a comprendere i dettagli dei candidati, delle loro politiche e delle loro piattaforme di programma rispetto -ad esempio- a comprendere sport e intrattenimento.

E poi ci sono i problemi del «ragionamento motivato». I ricercatori si sono bersagliati l’un l’altro con studi su preconcetti, errori e irrazionalità da parte del cittadino medio e hanno preso per assiomatico che i cittadini sono maestri nell’auto-inganno, incapaci di oggettività, specialmente quando si tratta di materie di controversia sociale, morale o politica. Vi sono moltissime evidenze di psicologia sociale e politica che mostrano come i preconcetti ideologici e di parte portino la gente fuori strada - per lo meno alcune volte. E pochissimi hanno accettato di difendere le virtù epistemiche del grande pubblico.

Ciò nonostante, la ricerca ci fornisce spunti di riflessione per chiunque presuma che i deficit di elaborazione dell’informazione siano permanenti oppure siano distribuiti in maniera paritaria nell’ambito dello spettro ideologico. Alcune persone, in realtà, riescono meglio di altre quando si tratta di scovare, elaborare e soppesare elementi di prova discordante e tirare conclusioni che siano ragionevolmente accurate. Negli Stati Uniti, così come altrove, sembra esistere una asimmetria destra-sinistra nel ragionamento motivato e nella suscettibilità alle false credenze. Tra altre differenze psicologiche, i conservatori tendono a mostrare un tipo di pensiero più intuitivo ed euristico mentre i liberali mostrano un pensiero più deliberato, sistematico, impegnato. Questo forse aiuta a comprendere perché il mercato delle “false notizie” si posizioni prevalentemente sulla destra politica.

Molti si sorprendono che possano esistere anche correlati neurofisiologici dell’ideologia politica. In un esperimento che abbiamo condotto con i miei colleghi, sono stati collocati degli elettrodi di registrazione sul capo di soggetti politicamente di destra o di sinistra, in modo da potere registrare specifiche onde cerebrali (Event-Related Potentials) mentre questi eseguivano un compito al computer, specificamente studiato per indurli a sviluppare uno schema di risposta dominante (vale a dire, abituale). Ogni tanto nel corso del test ai partecipanti veniva richiesto di dominare le loro risposte abituali e di rispondere in maniera flessibile, mettendo in atto un comportamento diverso. Questo test è studiato per misurare la «capacità di monitorare un conflitto», cioè la capacità dei soggetti di gestire pezzi di informazione in potenziale conflitto fra loro, in altre parole la capacità di gestire la tensione psicologica fra agire come d’abitudine ed essere pronti alla flessibilità in risposta a mutate contingenze esterne.

Da questo esperimento sono emerse molte osservazioni. Primo, i conservatori facevano più errori di procedura rispetto ai liberali, rimanendo erroneamente legati alla risposta abituale anche quando era richiesta una risposta di tipo diverso. Secondo, i liberali mostravano una maggiore attività neurale correlata al conflitto, quando era richiesta una inibizione della risposta abituale: questo suggerisce che questi erano più in sintonia con la presenza di un conflitto e con la necessità di monitorare un tale conflitto interno. Terzo, esistevano differenze nel pattern di attivazione cerebrale e queste differenze erano localizzate nella corteccia cingolata anteriore, una parte del cervello preposta a cogliere e risolvere conflitti cognitivi. Nel loro insieme, questi risultati suggeriscono la stuzzicante possibilità che le differenze fra le ideologie destra-sinistra sono, tra altre cose, anche manifestazioni di processi psicologici (e neuronali) fondamentali che appartengono all’ambito dell’elaborazione dell’incertezza.

Altri studi di neuroscienze della politica hanno valutato l’attività funzionale globale del cervello (piuttosto che di aree specifiche del cervello stesso): un gruppo di ricercatori di Londra guidato da Geraint Rees -e dei quali, da notare, faceva parte anche l’attore Colin Firth- ha esplorato la relazione fra l’orientamento politico e il volume delle strutture cerebrali. Specificamente, hanno considerato la possibilità che il cervello dei conservatori e dei liberali potesse differire in termini di strutture fisiche. In due campioni di studenti universitari britannici, hanno osservato che nella scansione dei cervelli dei liberali la corteccia cingolata anteriore aveva più materia grigia. I cervelli dei conservatori, invece, mostravano maggiore materia grigia nell’amigdala, una parte del cervello coinvolta nell’elaborazione della salienza emotiva, della paura e della gratificazione.

È pensabile, forse, che un giorno le differenze nella dimensione dell’amigdala potranno spiegare la ragione per la quale -in sondaggi dell’opinione pubblica come quello condotto da Ipsos/Reuters l’anno scorso negli Stati Uniti - i conservatori più spesso dei liberali descrivono come «altamente minacciosi» un’ampia gamma di nazioni, leader, gruppi ed eventi (ad esempio Iran, Cina, Russia, Yemen, Siria, Cuba, l’Islam, Al Qaeda, l’Isis, il terrorismo, il traffico di droga, i cyber-attacchi, l’immigrazione, l’ateismo e i diritti dei gay). A questo punto le evidenze neuroanatomiche conferiscono una certa credibilità alla nozione che l’ideologia politica sia legata all’orientamento psicologico di base verso l’incertezza e la paura. Tuttavia è importante tenere presente che il rapporto di causalità rimane ancora ambiguo. Potrebbe darsi, infatti, sia che le differenze osservate nell’attività e nelle strutture cerebrali contribuiscano all’emergere di ideologie diverse ma anche che sia l’adottare una specifica ideologia a produrre, nel tempo, tali differenze di struttura e funzione cerebrali. Nelle neuroscienze politiche questo è ancora una specie di dilemma dell’uovo e della gallina.

Queste differenze fisiologiche e psicologiche possono aiutare a comprendere perché coloro che sono a destra e a sinistra spesso non trovano accordo su quale sia il problema, tanto meno su quale potrebbe essere la soluzione. Quando sono presenti conflitti di personalità, stile cognitivo e priorità motivazionale questi possono solo aggravare legittimi disaccordi sulle politiche da assumere. Le implicazioni per il funzionamento democratico sono del tutto scoraggianti.

La questione è peggiorata dal problema dell’autoritarismo. Più che qualsiasi altro sistema politico, la democrazia possiede la capacità intrinseca di decretare la propria fine, come diceva Platone molto tempo fa. Manipolando il sistema democratico, le élite politiche possono implementare politiche che limitano la libertà dei cittadini e possono insediare leader che non sono inclini alla democrazia. In modo molto concreto, possiamo dire che la democrazia dipende dalla capacità e dalla motivazione dei cittadini ad assorbire valori democratici e tollerare coloro che hanno bagagli sociali, culturali, etnici e ideologici diversi. Dappertutto in Europa siamo testimoni della rinascita di partiti di destra estrema e coalizioni di governo che promettono riforme “illiberali” e politiche vendicative verso l’immigrazione: una volta al potere questi soggetti politici abbracciano pratiche autoritarie, come l’intimidazione di chi manifesta, di giornalisti, di accademici e di chiunque altro essi ritengano potenzialmente deleterio.

Negli Stati Uniti vi è diffusa apprensione, all’indomani dell’elezione alla presidenza di Donald Trump. Il suo stile segnerà un cambiamento nella politica americana, il pericolo che l’autoritarismo di destra possa finalmente trionfare? Sondaggi nell’opinione pubblica durante il ciclo elettorale hanno rivelato che i sostenitori di Trump differiscono da altri elettori nella loro affinità al populismo autoritario. Trump non soltanto ha coltivato aggressività e violenza contro i suoi detrattori, ma ha anche richiesto sottomissione ad altri, compresi, durante il dibattito delle primarie, gli stessi avversari repubblicani, che ha sminuito in vari modi. Il cinismo e la distruttività di Trump sono palpabili: «Il mondo è un posto spietato» ha detto alla rivista Esquire nel 2004 ed è determinato a battere tutti i “perdenti”. Molto meglio se può anche umiliarli. «Quando qualcuno ti fa del male, bisogna andargli dietro nella maniera più crudele e violenta possibile» ha scritto nel libro How to Get Rich.

Esiste dunque motivo di preoccuparsi che le istituzioni e i meccanismi democratici di oggi potrebbero non essere all’altezza di affrontare e di riconciliare i conflitti ideologici a livello di valori, priorità e policies, ancor meno i conflitti psicologici e sociali. Fintanto che gli attori politici che sono in disaccordo -spesso aggressivamente- su quali valori debbano sovrastarne altri sono motivati da reti di credenze, opinioni e valori che non si sovrappongono e -a un livello più profondo- da interessi, inclinazioni e bisogni psicologici divergenti, è difficile immaginare istituzioni politiche che producano soluzioni soddisfacenti. Per «soddisfacente» intendo soluzioni guidate da spinte di oggettività, razionalità e «ragionevolezza», compreso l’impegno ad riconsiderare le proprie opinioni sulla base della logica e dell’evidenza. Queste spinte, a loro volta, vengono rafforzate dalla tenace promozione della giustizia procedurale e di meccanismi non coercitivi di comunicazione e decisione, al contrario dell’esercizio spietato del potere politico o economico. Quel che serve è solo questo: un sistema che risolva i conflitti che originano dalla psicologia, dall’ideologia e un elevato grado di pluralismo, in modo che siano possibili compromessi già difficili, e gli interessi primari della società siano non soltanto dichiarati e trasparenti, ma anche adottati in accordo con standard di giustizia. Si può solo sperare che sia nella natura dell’umanità concepire un sistema che sia democratico in tutti questi aspetti e che, una volta stabilito, sia anche rispettato

L’autore è co-Director del Center for Social and Political Behavior della New York University e presiederà il Workshop «The Neural Basis of Political Behavior» presso la Neuroscience School of Advanced Studies a Siena, il 3-6 Maggio 2017. I precedenti delle serie «Neuroscienze e Società» pubblicati dalla Domenica e curati dalla Neuroscience School of Advanced Studies sono di Giulio Tononi (13 Novembre 2016) e Patricia Churchland (4 Dicembre 2016)

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-01-14/cervelli-destra-e-sinistra-152402.shtml?uuid=ADHO4KTC&cmpid=nl_domenica
5725  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Carlo Bertini : ecco il piano di Renzi per rilanciare il Pd inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:43:49 am
Segreteria con nomi nuovi e agenda sociale: ecco il piano di Renzi per rilanciare il Pd
Oltre a Fassino e Nannicini possibile un incarico anche allo scrittore Carofiglio

Pubblicato il 14/01/2017
Ultima modifica il 13/01/2017 alle ore 20:51

Carlo Bertini

Oltre un’ora di chiacchierata, la prima a tu per tu dallo scambio della campanella del passaggio di consegne a palazzo Chigi. Matteo Renzi va a trovare Paolo Gentiloni nella sua stanza al Gemelli e insieme fanno il punto della situazione, toccando tutti i temi sensibili, dalla legge elettorale che impegnerà il leader Pd, ai temi del lavoro sui quali si pronuncerà il governo nei prossimi giorni per tentare di sminare i due referendum della Cgil sui voucher e sugli appalti. Ed è proprio sull’agenda sociale che premier e segretario lavoreranno in tandem, visto che Renzi vuole accentuare il profilo del partito di governo sui temi del lavoro e dei giovani che hanno visto il Pd più in affanno in questi mesi, come dimostrato dai vari test elettorali.

Gentiloni sta bene, si è completamente rimesso, ieri ha visto pure la Boschi per preparare il consiglio dei ministri: stamattina infatti uscirà dall’ospedale diretto non a casa, bensì a Palazzo Chigi, dove vuole presiedere la riunione del suo gabinetto che presenta un ordine del giorno corposo: decreti attuativi sulla scuola e sulle unioni civili ed altri provvedimenti. 

Con il premier, dopo una mattinata passata al Nazareno per una serie di incontri, Renzi si è di certo voluto confrontare anche sulla nuova road map che lo vedrà protagonista: lunedì prossimo dovrebbe dare il via libera alla nuova composizione della segreteria del Pd, «più collettiva, più aperta, più autorevole», come la definisce lui, che verrà formalizzata in una riunione della Direzione. Il leader non riuscirà a fare della segreteria un organismo snello come avrebbe voluto, ma ci saranno diversi innesti e novità: Piero Fassino, che Renzi ha mandato a Lisbona a presenziare per i funerali di Mario Soares, si occuperà degli Esteri e curerà i rapporti con i socialisti europei, Tommaso Nannicini si occuperà del programma (il 23 gennaio organizzerà un seminario sull’evasione fiscale) e tra gli intellettuali potrebbe fare il suo ingresso lo scrittore Enrico Carofiglio. Entrerà anche il ministro Maurizio Martina - capo della corrente di sinistra leale al leader. E in segreteria resteranno non solo diversi parlamentari - tra i più accreditati David Ermini, Ernesto Carbone, Alessia Rotta, ma anche tutte le anime del partito tranne la minoranza ribelle dei bersaniani: sarà rappresentata la corrente di Cuperlo - con cui Renzi ha perlato ieri a lungo - così come quella dei «giovani turchi» di Orfini e Orlando, e quella di Franceschini.

Renzi parteciperà poi ad un’assemblea dei circoli il 21 gennaio a Roma e a quella con gli amministratori locali del Pd il 27-28 gennaio a Rimini: i primi appuntamenti pubblici che segneranno la ripresa della sua attività a pieno ritmo, che lo vedrà presente nella capitale nel suo ruolo di segretario Pd almeno tre giorni a settimana.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/14/italia/politica/segreteria-con-nomi-nuovi-e-agenda-sociale-ecco-il-piano-di-renzi-per-rilanciare-il-pd-dIxGYoy2j1BD9lq3IBXgVO/pagina.html
5726  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Laura AGUZZI. Obama, il presidente che ha insegnato agli uomini come piangere inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:41:48 am
Obama, il presidente che ha insegnato agli uomini come piangere
Tra le eredità del presidente ce n’è una di tipo sentimentale: la capacità maschile di mostrare i sentimenti in pubblico

Pubblicato il 16/01/2017
Ultima modifica il 16/01/2017 alle ore 12:23

Laura Aguzzi

Di Barack Obama è stato detto e scritto di tutto. Alla scadenza del suo secondo mandato, si parla della sua eredità politica, economica, internazionale. Si è detto che è stato il presidente della “coolness”, un presidente figo insomma. E il lungo elenco di Gif a lui dedicate da Ghiphy ci ricorda che ce ne vorrà di tempo per vederne un altro così. Eppure di una delle sue eredità, minore forse, ma importante, non si parla molto: il coraggio di aver mostrato i sentimenti maschili in pubblico. Le sue lacrime, ad esempio: si sono viste molto e se n’è parlato poco. Eppure sono state un bellissimo regalo per molte donne e uomini. Prima di lui nessun presidente aveva osato tanto.

«Michelle LaVaughn Robinson negli ultimi 25 anni non sei stata solo mia moglie e la madre delle mie figlie, sei stata il mio migliore amico»: il 10 gennaio le bacheche Facebook di tutto il mondo sembravano essersi incantate dopo il tributo alla First Lady fatto da Obama durante il suo ultimo discorso da Presidente. Non una semplice dichiarazione d’amore, quanto di totale parità e complicità. In questi anni Michelle Obama ha pianto in pubblico meno di quanto lo abbia fatto Obama: è successo mentre cercava di aiutare Hillary in difficoltà nella campagna elettorale, quando disse: «Mi alzo ogni mattina in una casa costruita da schiavi e guardo le mie figlie, due giovani donne nere, giocare con il loro cane nel prato della Casa Bianca». E poi di nuovo nel suo ultimo discorso da First Lady: lacrime composte, trattenute.

Obama invece si è commosso più volte senza mai far nulla per nascondersi. Tutti ricordiamo il suo volto rigato di lacrime dopo la strage di bambini alla Sandy Hook Elementary School: «Ogni volta che ripenso a quei bambini, divento matto». Era il 5 gennaio del 2016. Non era mai successo che un presidente piangesse durante un discorso per la percezione di un’ingiustizia. Lacrime di impotenza di fronte a un massacro: lui, il Presidente degli Stati Uniti, che ci dice che non è onnipotente, che è pur sempre un uomo con i suoi limiti. E non se ne vergogna. Pochi giorni prima Obama si era commosso per l’esibizione (stratosferica) di Aretha Franklin alla cerimonia per i Kennedy Center Honors. Chissà cos’avrà pensato il presidente in quel momento: forse che Aretha ha passato parte della sua vita sotto la segregazione razziale e che il suo talento straordinario è stato più forte dei pregiudizi. O forse che la sua età avanza e lei riesce ancora a incantare il pubblico.

 
Tutto era iniziato con il ballo di inaugurazione di fronte a Beyoncé, l’intensità di quel ballo. Ma basta guardare alcune delle foto di Barack Obama con le figlie per capire quanto l’emotività sia stata centrale nel mondo comunicativo di Obama. Non ostentata, né nascosta. Semplicemente parte dell’uomo e del Presidente. Ugualmente si potrebbe dire dell’espressioni di sentimenti di affetto profondo verso altri uomini, come accaduto con Joe Biden (anche lui si è commosso quando da Obama ha ricevuto la Presidential Medal of Freedom, una delle massime onorificenze Usa). 

Ma non è vero che Barack Obama sia stato l’unico presidente degli Stati Uniti a piangere in pubblico. Sembra che Dwight Eisenhower pianse passando in rassegna le truppe che si apprestavano allo Sbarco in Normandia (condannate a gravissime perdite) durante la seconda Guerra mondiale. Di certo lo fece pochi anni dopo, nel ’52, durante un discorso al pranzo con l’82° Airborne Division (82ema Divisione aviotrasportata), che al D-Day e alle operazioni successive aveva pagato un durissimo tributo di sangue. Nixon ebbe un accenno di commozione durante il suo discorso d’addio dopo lo scandalo Watergate, parlando di sua madre (ma si trattenne). George W. Bush aveva il volto rigato di lacrime durante la cerimonia per la consegna postuma della Medaglia d’Onore al caporale eroe della Marina Jason Dunham, alla Casa Bianca nel gennaio del 2007. 

Ma le lacrime dell’uomo che piange per le incombenze e il sacrificio che il suo ruolo gli impone rientrano in una visione tipicamente maschile del mondo. Le lacrime degli uomini non sono ammesse in società se non per sancire un patto tra gli uomini. Solo per motivi alti quali, appunto, il sacrificio per il bene supremo della patria, le vite dei soldati caduti in difesa della nazione. Barack Obama ha mostrato un aspetto più sentimentale: un uomo può commuoversi anche per i propri sentimenti, per l’amore, per l’amicizia, per l’indignazione o il dolore. Può mostrare che la cosa più importante della sua vita sono le sue figlie e il rispetto della compagna di una vita. Può piangere per le ingiustizie. 

Le donne continuano a essere condannate per voler assumere “atteggiamenti da uomo” quando cercano di inserirsi in ambienti a forte predominanza maschile (come la politica o il giornalismo). Salvo poi essere rimproverate o apertamente prese in giro se lasciano emergere un lato più vulnerabile. Le lacrime maschili in società aiutano a scalfire il mito del cowboy machissimo che piuttosto fa a cazzotti (cosa socialmente tollerabile) ma no, le lacrime no. Obama ha mostrato che un uomo può essere abbastanza forte e solido da non aver paura di mostrare le propria fragilità. D’altronde tutte le donne del mondo sanno che gli uomini piangono. Anche se loro continuano a nasconderlo in pubblico. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/16/esteri/obama-il-presidente-che-ha-insegnato-agli-uomini-come-piangere-noVX9OBHNwmxrvuYfEyN2K/pagina.html
5727  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Armando MASSARENTI - La copertina di oggi, scritta da Massimo Bucciantini inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:39:46 am
La copertina di oggi, scritta da Massimo Bucciantini, ci conduce nella Parigi degli illuministi del Settecento, «nel bel mezzo di una battaglia tra ancien régime e un nuovo mondo che preme ma che stenta a venire alla luce», una battaglie contro i pregiudizi e le gerarchie di un sistema politico che riguarda soprattutto la sfera estetica e culturale, divenuta il terreno principale di scontro tra due modi alternativi di pensare il mondo è la società... È questa una parte importante del modo in cui si manifestò l'Illuminismo francese nel suo attacco a un ancien régime che non era «solo - scrive Bucciantini - una fortezza di verità politiche e religiose per definizione intoccabili, ma anche di gusti, di generi musicali, artistici, letterari, che avevano il compito di rendere piacevole quello che altro non era che una gigantesca impostura». «Arte e politica della cultura dei Lumi. Diderot, Rousseau e la critica dell'antico regime artistico» è il libro di cui si parla, scritto da Gerardo Tocchini, che ci racconta l'impegno dei philosophe di bandire per sempre dalle scene «il sovrannaturale, il metafisico, il meraviglioso per dedicarsi unicamente all'uomo e al complesso delle sue responsabilità sociali».

Armando Massarenti - Responsabile il Sole24 Ore - Domenica
@massarenti24

Da – ilsole24ore.com
5728  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Andrea ORLANDO. UNIRE I PUNTI. inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:36:32 am
12 - 01 - 2017 Di Andrea Orlando

 Unire i punti

Con la sconfitta al referendum del sì non ha perso, come si cerca di affermare con una carente e per certi versi consolatoria interpretazione, soltanto Renzi.
È stata sconfitta la strategia, o almeno uno degli elementi fondamentali della strategia con cui il centrosinistra, sin dalla sua nascita, ha cercato di contrastare il populismo e l’antipolitica.
Il centrosinistra, almeno nella sua “struttura portante”, ha progressivamente legato, infatti, la propria parabola al compimento della transizione istituzionale.
Si è immaginata la democrazia dell’alternanza come il contesto naturale nel quale sviluppare una moderna forza riformista.
E ancora si è pensato che una democrazia meglio funzionante avrebbe ricucito lo strappo, che si è progressivamente ampliato tra cittadini e istituzioni. Una lacerazione che ha creato la condizione per il rafforzamento dei diversi populismi e delle spinte antisistemiche.
Alcuni avevano messo in guardia rispetto ai pericoli insiti nel ridurre la crisi della democrazia a una questione di funzionalità istituzionale.
Questa avvertenza però non ha inciso significativamente nel mainstream che si è sviluppato nel corso degli anni.
Fatto sta che oggi, improvvisamente e traumaticamente, viene meno una delle questioni che ha tenuto il campo in questo ventennio, non solo come “questione in sé”, ma anche come terreno determinante del riconoscimento reciproco tra i principali attori del bipolarismo.
Naturalmente c’era del vero in quell’analisi che individuava nella fragilità istituzionale la principale causa della crisi democratica.
C’era del vero, ma non c’era tutto.
Così, se purtroppo il centrosinistra e il PD in primo luogo si trovano privi di un obiettivo che ne ha segnato l’identità, per fortuna restano altri sentieri da percorrere per dare una risposta alla crisi democratica.
Il primo è affrontare il nesso che lega tale crisi democratica alla questione sociale.
Il risultato referendario lo ha messo in evidenza in modo macroscopico con la differenza nell’andamento del voto tra centro e periferia, tra generazioni, tra nord e sud.
È una forma di ironia della storia il fatto che sul terreno della riforma delle istituzioni la sinistra di governo si sia improvvisamente risvegliata, scoprendo che le disuguaglianze sono cresciute ed è cresciuta la loro incidenza sulla dinamica politica.
Guardare allora alle cause e alle soluzioni delle disuguaglianze e dei divari ( la destra lo sta facendo, a suo modo, da tempo) è importante per tutti. Per la sinistra costituisce però la condizione per la sua stessa esistenza.
Poi c’è l’incompiuta Europa. Dimensione potenzialmente minima per fronteggiare l’impatto dei fenomeni globali sulla società, ma in concreto troppo debole per farlo e tuttavia sufficientemente invadente per inibire agli stati membri l’utilizzo della residua capacità d’intervenire nelle dinamiche economiche e sociali, tanto da diventare il principale bersaglio dei populismi e dei nazionalismi. Anche in questo caso progettare una nuova Europa diventa urgente per tutti coloro che ritengono che il destino dell’uomo non possa essere integralmente consegnato alle mutevoli ed inique leggi dell’economia e della finanza.
E diventa urgente per chi ritiene che il modello di convivenza civile e di soluzione democratica dei conflitti, che si è affermato in questa parte del mondo, sia il più avanzato tra quelli sperimentati dall’umanità.
Infine c’è la questione istituzionale italiana, che resta là dov’era nella sua eterna transizione, nel suo concreto scarto tra costituzione formale e materiale al tempo della disintermediazione.
Se il tema per un certo tempo non sarà affrontato, non sarà per mancanza di urgenza, ma per impraticabilità del campo.
Ma quest’ultima circostanza non può diventare un alibi assoluto.
Ci sono riforme istituzionali considerate “minori”, che minori non sono in una strategia di ricostruzione del tessuto democratico.
E non c’è solo la questione fondamentale del destino dei cosiddetti corpi intermedi, a partire da partiti e sindacati. C’è anche l’esigenza di costruire nuovi modelli di partecipazione alle decisioni pubbliche.
Un’esigenza che diventa stringente alla luce del calo costante dei votanti alle consultazioni politiche e amministrative, dell’implosione e parcellizzazione della rappresentanza, della frammentazione delle domande sociali.
Ricostruire l’idea di un destino comune è la condizione per affermare un’alleanza contro la paura e i suoi imprenditori e una visione solidaristica dello sviluppo sociale.
Per questo, dopo una lunga stagione in cui partecipazione ed enti locali sono stati considerati un costo, è tempo di aprirne una in cui siano considerati investimenti sulla coesione della comunità.
Molte sono dunque le implicazioni di questa sconfitta. Tutte costringono a percorrere strade nuove, ma in qualche modo antiche. Sono strade che si percorrono approfondendo, studiando, demolendo gli stereotipi che in questi anni si sono accumulati.
Gli articoli che pubblichiamo affrontano questi punti. Ma se uniamo i punti, come in quella nota rubrica della “Settimana enigmistica”, emerge il profilo di una sinistra per questo difficile tempo.

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Pubblicato da: Andrea Orlando, front

Da - http://www.lostatopresente.eu/2017/01/unire-i-punti.html
5729  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Walter VELTRONI. - Democrazia: rivoluzione o ritorno? inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:33:51 am
   Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter
· 15 gennaio 2017

Democrazia: rivoluzione o ritorno?
Oggi la democrazia è, per me, la grande ammalata, di questo nuovo secolo

È in uscita, in libreria, La democrazia e i suoi limiti, un saggio di Sabino Cassese, certamente una delle persone più titolate, per profondità di studi ed esperienze, a stimolare una riflessione sul tema. Che è la questione cruciale di questo tempo confuso. Una rivoluzione, parola tante volte invocata, è in corso. Ma la stessa parola rivoluzione ha, letteralmente, un doppio significato: se dal punto di vista politico essa corrisponde al significato di rivolgimento dell’assetto politico e/o istituzionale, dal punto di vista astronomico indica, invece, il tempo che un astro impiega per tornare nello stesso posto tra le stelle.

Persino la radice etimologica della parola, ci ricorda la Treccani, rimanda, dal latino, a un significato apparentemente contraddittorio: rivolgimento, ritorno. Stiamo vivendo, quasi inconsapevoli, la più grande rivoluzione degli ultimi cinquant’anni. Stanno mutando modelli di produzione, la definizione stessa di classe sociali, la distribuzione della ricchezza, l’assetto geopolitico del mondo (si pensi solo alla crisi dell’Europa). Stanno cambiando, molto velocemente, i modi di informarsi, di sapere, di comunicare, di stabilire relazioni umane, sentimentali, sessuali.

Il parlamento europeo si prepara ad approvare un preoccupato documento sulle implicazioni etiche, giuridiche, sociali della massiccia e crescente introduzione della robotica nello svolgimento di prestazioni fino ad oggi affidate a funzioni umane. Non siamo a Blade Runner, certo, ma davvero già oggi ciascuno di noi potrebbe dire la frase con la quale inizia il monologo del replicante nel film di Ridley Scott: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare…».

E speriamo di non dover mai pronunciare la parte finale di quell’incipit. L’esito di una rivoluzione di questa portata è incerto. Essa può portare ad una società in cui l’essere umano potrà dispiegare le sue facoltà fino all’estremo, in cui non esisteranno limiti possibili ai diritti di vivere la vita in una condizione di piena libertà individuale e collettiva, in cui il sapere si diffonderà travolgendo le barriere sociali e ciascuno vivrà godendo delle opportunità per far valere il proprio talento. Può essere, chi ama la vita e non la morte, la libertà e non la dittatura, deve lavorare per questo.

Le grandi rivoluzioni scientifiche richiedono una politica alta e geniale, capace di leggere il mutamento nella sua sconcertante profondità e di elaborare un nuovo lessico. Che sia figlio, però, di un sistema di valori, forte e appassionante. Cassese, nel suo saggio, ci ricorda come, nella sua storia, la democrazia abbia faticato a includere milioni di esseri umani nei suoi processi decisionali. Per lungo tempo milioni di neri, in sistemi detti democrazia, non avevano diritto al voto e in Italia e in Francia le donne hanno potuto partecipare alle consultazioni elettorali solo a partire dal dopoguerra.

È un problema che abbiamo ancora oggi: ricorda Cassese che nel 1960 coloro che vivevano in un paese diverso da quello della loro nascita erano 77 milioni (e molti erano italiani, non dimentichiamolo mai). Oggi sono 244 milioni, 136 dei quali nei paesi sviluppati. Per la stragrande maggioranza questi esseri umani vivono subendo gli effetti di decisioni alle quali non hanno partecipato.

Oggi la democrazia è, per me, la grande ammalata, di questo nuovo secolo. Non riesce a ritrovarsi e dopo aver demolito tutte le forme di mediazione del rapporto tra governati e governanti si trova sospesa tra la crescente tentazione di forme di potere autoritario che riducano la complessità processuale della democrazia e il suo contrario, la furba utopia di una finta democrazia diretta che in realtà è una nuova forma di partitismo assoluto. Ma la democrazia ha bisogno di essere ripensata, nel tempo di questa caotica rivoluzione.

Si devono immaginare forme di democrazia dal basso, di sussidiarietà, che integrino il lavoro delle istituzioni e responsabilizzino i cittadini nella gestione di segmenti rilevanti della propria esistenza: il lavoro, il quartiere, la scuole dei figli. Una democrazia che delega potere, che diventa cabina di regia di grandi scelte, che agisce in trasparenza assoluta, che è rappresentata non, come accade sempre di più, dai pretoriani di correnti senza anima né politica, ma da cittadini che si formino nel fuoco di esperienze di cittadinanza e nei processi formativi di partiti chiamati a ripensarsi nella società, in orizzontale, aprendosi.

Non ho mai usato la definizione di partito liquido – che non condivido, come considero assurdo il partito pesante e correntizio – ma ho sempre amato l’idea di un partito aperto, nemico dei capibastone di ogni rango e capace di formare, nel senso letterale del termine, generazioni di ragazzi appassionati di politica e non di potere. Partiti capaci di sentirsi una comunità, unita da un comune sentire e da una passione indefessa per il dibattito, per il senso critico, per il dubbio. Questo, luogo di una comunità e agorà della libera ricerca comune, è stata L’Unità.

Spero continui ad esserlo, ce n’è bisogno. Tra qualche giorno negli Stati Uniti si svolgerà la cerimonia di insediamento del nuovo presidente. Credo chiunque capisca che, questa volta, sarà qualcosa di diverso. Sta nascendo qualcosa di assolutamente inedito e la cui portata, da queste colonne previsto in largo anticipo, sarà la storia a misurare. C’è ragione di forte inquietudine.

L’America che Obama ha trovato era un paese sconvolto dall’esplosione della recessione. Dopo otto anni la disoccupazione è al 4,9 e si sono creati 15,5 milioni posti di lavoro. Ovviamente il bilancio della sua presidenza è più complesso e anche contraddittorio. Ma i risultati e la popolarità di Obama, al punto massimo in questi mesi, non hanno impedito la vittoria di Trump. Capita, in politica. E capita con radicalità estrema quando spira un vento di crisi della politica e della democrazia.

Nel momento in cui Barack Obama esce dalla Casa Bianca vale la pena ricordare una sua breve frase: «Credo che saremo giudicati per come ci prendiamo cura del povero e del vulnerabile, del malato e dell’anziano, dell’immigra – to e del rifugiato, di tutti coloro che stanno cercando una seconda possibilità». Così, per ricordarci chi siamo. O chi dovremmo essere.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/veltroni-democrazia-rivoluzione-o-ritorno/
5730  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Alessandro BARBERA Crescita e sviluppo: vince il Nord Europa, il rapporto di... inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:31:53 am
Crescita e sviluppo: vince il Nord Europa, il rapporto di Davos boccia l’Italia, posto 27 su 30
Il nostro Paese penalizzato da infrastrutture, disoccupazione giovanile e qualità della scuola

Pubblicato il 16/01/2017
Alessandro Barbera   

Immaginate una classifica dei trenta Paesi più ricchi del mondo con cui misurare insieme qualità delle istituzioni, opportunità d’impresa e sicurezza sociale. L’ha fatta il World Economic Forum, e l’Italia ne esce male, appena ventisettesima. Si chiama “Inclusive Growth and Development Report”: nell’era dei populismi, delle diseguaglianze e della stagnazione secolare occorre aggiornare le parole d’ordine. All’ultimo G20 i cinesi hanno lanciato il mantra della globalizzazione inclusiva, un messaggio che sarà fatto proprio anche dal G7 made in Italy. La “crescita inclusiva” è da qualche anno il concetto chiave al Forum di Davos, l’appuntamento più atteso dalla politica e finanza mondiale che inizia domani fra le montagne svizzere. 

La classifica per il 2017 è il trionfo di quelle che una volta chiamavamo le socialdemocrazie nordiche. L’indice di “sviluppo inclusivo” incorona come migliore fra le vecchie economie ricche la Norvegia, seguita da Lussemburgo, Svizzera, Islanda, Danimarca e Svezia. Oggi quei Paesi vincono per ragioni in parte diverse da quelle che negli anni settanta e ottanta ne facevano un modello. Non solo perché si tratta di Paesi con (ancora) i migliori standard di sicurezza sociale, ma perché nel frattempo sono diventate economie dinamiche e in grado di attrarre capitali esteri. Educazione, servizi di base, infrastrutture, livello di corruzione, lavoro. Ad eccezione di Australia e Nuova Zelanda (rispettivamente ottava e nona) i primi dodici Paesi con il miglior mix di sviluppo imprenditoriale e sicurezza sociale sono tutti a nord delle Alpi. La Germania è tredicesima, la Francia diciottesima, la Spagna ventiseiesima seguita dall’Italia. Fanno peggio di noi Portogallo, Grecia e Singapore. Fuori dalla classifica dei trenta Paesi Ocse – con un indice a parte - svettano la Lituania, l’Azerbaijan, Ungheria, Polonia e Romania.

In Italia cresce il divario economico e nel mondo l’1% è ricco come il 99%

Il capitolo dedicato all’Italia è un concentrato di problemi noti: fatta eccezione per alcuni parametri, il Belpaese risulta molto spesso in coda alla classifica. Ventinovesimi per “servizi di base e infrastrutture”, ventottesimi alla voce “corruzione”, ventinovesimi in “imprenditorialità” e “intermediazione finanziaria”. Talvolta emergono forti contraddizioni, come nel caso dell’educazione: quattordicesimi per diritto all’accesso, solo ventottesimi per qualità della scuola. O alla voce occupazione: ventinovesimi in produttività, noni in “compensazioni salariali e non”. Detta in una battuta: l’Italia non è un gran posto dove aprire un’impresa ma i diritti di chi lavora sono piuttosto tutelati. Siamo undicesimi al mondo per numero di possessori di prima casa, ma anche per la pressione fiscale sulla proprietà immobiliare.

Qua e là emergono aree di eccellenza, più o meno note: tredicesimi per i costi necessari ad avere una linea a banda larga fissa, undicesimi nei test Pisa di matematica, ottavi nella spesa sanitaria in percentuale al Pil, quarti nel garantire una buona aspettativa di vita a tutti i cittadini, ricchi e poveri. Al di là della qualità della spesa, siamo il settimo Paese fra quelli che spendono di più per la sicurezza sociale, il primo nel garantire la sanità pubblica a tutti.

Per i giorni di assenze dal lavoro per maternità siamo quarti al mondo, settimi per i giorni di congedo parentale, ancora settimi per “densità sindacale”, ovvero per il numero di sindacalisti in percentuale ai lavoratori attivi. Nella classifica a trenta siamo al nono posto per la percentuale di lavoratori garantiti da contratti di lavoro collettivo. Una buona notizia per chi vive al Sud (dove il costo della vita è più basso) non un grande viatico per chi crede in un sistema più inclusivo e meritocratico: siamo ultimi per salari legati alla produttività, penultimi nel tasso di partecipazione delle donne al lavoro, terzultimi per tasso di occupazione giovanile.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/16/economia/crescita-e-sviluppo-vince-il-nord-europa-il-rapporto-di-davos-boccia-litalia-posto-su-Tb9LUa8SohMJldgZL8aupJ/pagina.html
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