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5701  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Federico Capurso. Il convegno dei 5S sul lavoro fa il pieno di dem inserito:: Gennaio 19, 2017, 05:46:08 pm

Il convegno dei 5S sul lavoro fa il pieno di dem
La presenza di Cesare Damiano, Gianni Cuperlo, Matteo Richetti e Alessia Rotta ha stupito gli stessi organizzatori

Pubblicato il 19/01/2017
Federico Capurso
Roma

Un rapido colpo d’occhio alla platea e si ha l’impressione di assistere ad una riunione del Partito democratico. E invece, dai renziani Matteo Richetti e Alessia Rotta ad alcuni esponenti di spicco della minoranza dem come Gianni Cuperlo e Cesare Damiano, è numerosa la truppa Pd presente al convegno organizzato a Montecitorio dal Movimento 5 stelle dal titolo «Lavoro 2025».«In effetti, si sono stupiti di vederci lì», confessa Rotta, che ha anche preso alcuni appunti, «ma è stata interessante l’idea di proiettare il tema del lavoro nel medio e lungo periodo e a loro l’ho detto: è stato fatto un bel lavoro». Un’iniziativa che, dicono in coro i tanti democratici presenti, ha avuto il pregio di coinvolgere relatori di primo piano del mondo accademico come Federico Buttera, Umberto Romagnoli e Domenico De Masi. «Alcuni li considero dei miei maestri», dice Damiano, «e per le loro idee in materia economica potrebbero partecipare ad un convegno del Pd».

Così, la presenza in ordine sparso degli avversari dem nel cuore pulsante del grillismo, che in questi mesi di preparazione della campagna elettorale è alla ricerca di punti di riferimento per la costruzione del proprio programma, prende le sembianze di una involontaria missione diplomatica, alla ricerca di futuri punti di convergenza. Uno spirito ecumenico pubblicamente espresso da Cuperlo con un post su Facebook e con l’augurio «che ci siano degli sviluppi. Oggi sono rimasto colpito dall’accoglienza: andando lì ho avuto l’impressione, io come altri colleghi, di non essere visto come un corpo estraneo, ma che fosse apprezzata questa disponibilità a conoscersi, confrontarsi». Alla ricerca di punti di contatto, dunque. 

Ma posizioni comuni, come testimonia Damiano, «senza volerlo già ci sono. Come in commissione Lavoro, ad esempio, dove sul tema dei voucher il Movimento 5 stelle ha depositato una proposta di legge identica alla mia». D’altronde, «alla base della nascita del Movimento 5 stelle - dice Richetti - c’è anche l’aver messo in secondo piano, da parte nostra, alcuni risvolti economici. Quando prevale l’ambito finanziario e non quello della solidarietà, si arriva a ciò che lamentano alcuni nostri elettori: la perdita di alcuni spunti di sinistra». L’auspicio, condiviso anche dagli altri parlamentari Pd presenti, è di «riuscire a costruire un’area di dialogo».

Così, gli organizzatori grillini del convegno, Tiziana Ciprini e Claudio Cominardi, nel pomeriggio commentano: «Questi governi a trazione Pd non sanno vedere oltre il loro naso».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/19/italia/politica/il-convegno-dei-s-sul-lavoro-fa-il-pieno-di-dem-fFNpFwVmw2kh0xbhhppxwK/pagina.html
5702  Forum Pubblico / I.C.R. Immaginare Conoscere Realizzare. "Le TERRE DI RANGO" e "Le TERRE DI FANGO". / Oreste Saccone. Norme anti-elusione: un regalo ai grandi evasori inserito:: Gennaio 18, 2017, 10:51:34 pm
Norme anti-elusione: un regalo ai grandi evasori

Fisco Equo <lef.posta@fiscoequo.it>
Di Oreste Saccone

Niente più carcere per i manager e sterilizzata la linea dura della magistratura, con i poteri degli uffici giudiziari e dei giudici fortemente ridimensionati nell’individuare e perseguire l’abuso. Sembra proprio una mano ai grandi evasori la nuova disciplina sul contrasto all’elusione fiscale approvata nel 2015 dal governo Renzi. In caso di operazioni di tax planing sostanzialmente elusive i grandi manager non dovranno più temere il rischio di finire in galera e la magistratura si ritrova con le armi spuntate. il governo anziché limitarsi a meglio definire la clausola antiabuso affermatasi nella giurisprudenza con diverse sentenze della Corte di Cassazione a partire dal 2008 per inserirla in pianta stabile nel sistema fiscale, si è preoccupato essenzialmente di sterilizzarla e limitarne gli effetti. Appare francamente scandaloso sul piano etico e irragionevole sul piano costituzionale ritenere molto meno grave (fino a prevederne l’irrilevanza penale) il comportamento di chi si sottrae al pagamento di imposte milionarie ponendo in essere sofisticate operazioni elusive, appositamente pianificate a tavolino, rispetto alla classica evasione mediante l’occultamento di ricavi.

1-La clausola antiabuso – un po’ di storia - Fino al 2008 i grandi potentati industriali, economici e finanziari, sfruttando vuoti normativi e asimmetrie esistenti tra i sistemi fiscali dei Paesi in cui operano, erano abituati a pianificare raffinate operazioni elusive di alta ingegneria fiscale, al solo scopo di ottenere indebiti risparmi d'imposta. Tra i grandi contribuenti prosperavano schemi di tax planing sostanzialmente elusivi, nel convincimento che, in assenza di una norma generale antiabuso, era permesso tutto ciò che non fosse espressamente vietato. Il bengodi è finito per l'intervento deciso e definitivo della Suprema Corte, sulla scia dell’orientamento assunto dalla Corte di Giustizia in tema di abuso del diritto ai fini IVA.
In particolare, nel 2006 la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha affermato la esistenza di una generale clausola antiabuso (sentenza Halifax, del 21.2.2006), considerata immanente alla sesta direttiva, direttamente applicabile nell’ordinamento nazionale ai fini IVA. Nel 2008 la Cassazione a Sezioni Unite, con tre storiche sentenze, ha riconosciuto l’esistenza di un principio generale antielusivo anche in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, rinvenuto non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento italiano.
L’orientamento assunto dalla Suprema Corte in tema di abuso del diritto ha prodotto subito rilevantissimi effetti a beneficio dell’erario.
Dal 2008 in poi l’Amministrazione finanziaria, basando la sua azione di controllo sulla esistenza di una generale clausola antielusiva, ha intercettato e contestato numerosi e rilevanti schemi elusivi/evasivi posti in essere dai grandi contribuenti, incrementando sensibilmente i recuperi fiscali conseguiti a seguito dei controlli (solo nel 2011 l’incremento è stato dell’800% rispetto al 2007).
2-L’abuso del diritto nel decreto legislativo emanato dal Governo Renzi nel 2015 - In questo contesto è sopravvenuta la pressante sollecitazione al mondo politico, in particolare da parte dei maggiori studi professionali e dal mondo accademico, di disciplinare con una specifica norma generale l’istituto dell’abuso del diritto affermatosi per via giurisprudenziale.
La richiesta ha trovato risposta nel dlgs.. 128/2015, che con l’art. 1 ha inserito nello Statuto dei diritti dei contribuenti l’art. 10 bis, avente ad oggetto la “disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”’, in attuazione dell’art. 5 della legge di delega 11 marzo 2014, n. 23. Su quale sia stato il filo conduttore del Governo nell’esercitare la delega e di cosa ha inteso fare, è significativo un passaggio contenuto nel Def 2015, che non lascia dubbi “L’abuso del diritto sarà disciplinato con l’obiettivo prioritario di tutelare i diritti dei contribuenti e non di difendere le pretese di accertamento dell’amministrazione finanziaria. Nella sostanza il governo anziché limitarsi a meglio definire la clausola antiabuso affermatasi per via giurisprudenziale, per inserirla in pianta stabile nel sistema fiscale, si è preoccupato essenzialmente di sterilizzare gran parte del contributo interpretativo dato dalla Corte di Cassazione e limitarne gli effetti.
In tale prospettiva il governo ha proceduto sistematicamente a smontare la costruzione dell’istituto dell’abuso del diritto di derivazione giurisprudenziale.
3-Contestazione della condotta abusiva solo in assenza di specifiche violazioni tributarie - In particolare Il comma 12 dell’art. 10 bis in presenza di operazione che si ritiene elusive impone agli uffici finanziari di contestare la condotta abusiva solo in assenza di specifiche violazioni tributarie. Ciò vuol dire che i verificatori, in presenza di fattispecie complesse, costituite da una pluralità di fatti e atti collegati di non facile inquadramento giuridico, nelle quali è palese l’assenza o la marginalità dei vantaggi economici e l’indebito risparmio d’imposta (tali da rappresentare evidenti comportamenti abusivi), saranno obbligati ad indagare ulteriormente sugli schemi giuridici utilizzati dal soggetto controllato, per escludere nel caso concreto la sussistenza di ipotesi che costituiscono violazioni di norme specifiche (ad esempio presenza di atti simulati o in frode alla legge).
Il comma in esame sembra voler contrastare l’orientamento sostanzialista assunto dalla Corte di Giustizia e dalla Suprema Corte, secondo il quale il meccanismo dell’abuso del diritto costituisce il superamento della forma giuridica in vista di cogliere l’esatta finalità economica di un negozio o di un complesso negoziale.
La disposizione appare fortemente ambigua e non trova riscontro nella legge di delega. I limiti procedimentali imposti dalla norma rendono molto più complicata l’attività d’indagine degli uffici finanziari in sede di accertamento.

4-Non rilevabilità d’ufficio del carattere abusivo della condotta - Sul piano processuale Il comma 9, nelle controversie riguardanti fattispecie elusive, e solo in queste, vieta ai giudici la possibilità di riqualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione, come avviene in qualsiasi altra controversia sottoposta al suo giudizio.
E’ evidente l’obiettivo della disposizione di sterilizzare lo strumento processuale che ha consentito alla Suprema Corte di riqualificare come abusive le fattispecie concrete sottoposte al suo riesame.

Vale la pena rilevare che se la disposizione fosse stata già vigente nel 2008 i supremi giudici non avrebbero avuto cognizione delle controversie che hanno dato luogo all’affermazione della clausola antielusiva per via giurisprudenziale.
La disposizione appare del tutto irragionevole, stante in particolare il rilievo costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto e non trova riscontro nella legge di delega.

5-Depenalizzazione della condotta abusiva – dubbi di incostituzionalità - La legge 23/2014, all’art. 8 ha delegato il governo a revisionare il sistema sanzionatorio penale. In particolare mediante l'individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione e delle relative conseguenze sanzionatorie. La norma prevede anche la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto di adeguate soglie di punibilità.
La disposizione sembra costituire una sorta di delega in bianco, costituzionalmente censurabile. In particolare non viene indicato alcun criterio sostanziale che consenta al delegato di stabilire il grado di pericolosità delle condotte abusive rispetto alle altre condotte evasive.
In tale scenario il decreto delegato, forzando la delega depenalizza in toto l’elusione fiscale senza prevedere alcuna soglia di punibilità.
Appare francamente scandaloso sul piano etico e irragionevole sul piano costituzionale ritenere molto meno grave (fino a prevederne l’irrilevanza penale) il comportamento di chi si sottrae al pagamento di imposte milionarie ponendo in essere sofisticate operazioni elusive, appositamente pianificate a tavolino, rispetto alla classica evasione mediante l’occultamento di ricavi.
In palese contraddizione, tra l’altro, con le valutazioni fatte dallo stesso Ministro dell’economia, che nel Rapporto 2014 sull’evasione fiscale attribuisce valore 5, cioè di massima pericolosità, alle forme sofisticate di evasione e fenomeni di elusione (rapporti con estero, ingegneria finanziaria, “pacchetti” elaborati da professionisti, mentre attribuisce il valore 2 al semplice occultamento parziale di reddito.

6- Regime sanzionatorio amministrativo - Nell’ambito dell’art. 10 bis in esame, che pure ai fini penale si preoccupa di segnare un solco netto tra abuso del diritto e infedele dichiarazione, non si evince direttamente quali sanzioni amministrative si rendono applicabili in caso di abuso del diritto.
Non vorremmo che l’ambiguo testo della norma nasconda un'altra insidia. E cioè quella di considerare, anche ai fini del sistema sanzionatorio amministrativo, la violazione del divieto dell’abuso del diritto una fattispecie diversa dalla infedele dichiarazione. Con la conseguenza che, in assenza di una disposizione che punisca espressamente l’abuso del diritto, non venga in alcun modo sanzionata, ipotesi già in passato sostenuta da una parte della dottrina.

7- Conclusione – In assenza di una sostanziale revisione della disciplina vigente, con la quale è stato artatamente tracciato un solco netto tra evasione e abuso del diritto derubricando quest’ultimo a mero incidente di percorso, è facile prevedere una sensibile ripresa dei fenomeni elusivi, della cui dimensione non sarà facile avere reale contezza visto che il monitoraggio del tax gap italiano non tiene conto di essi.
L’auspicio è che quanto prima la Suprema corte o i giudici delle leggi procedano a ridefinire la materia in via giurisdizionale in conformità ai principi costituzionali di giusta tassazione e di pari trattamento davanti alla legge, tenendo anche conto della recente Direttiva UE 2016/1164, che conferma l’orientamento sostanzialista assunto dalle SS.UU con le sentenze del 2008.

Da - Fisco Equo <lef.posta@fiscoequo.it>
5703  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Il Partito del rinvio ora gongola: “Così si allontanano le elezioni” inserito:: Gennaio 18, 2017, 10:49:21 pm
Pubblicato il 12/01/2017 Ultima modifica il 12/01/2017 alle ore 13:03
Il Partito del rinvio ora gongola: “Così si allontanano le elezioni”
Renzi incassa l’ok alla sua riforma ma si apre un duello a sinistra

CARLO BERTINI, UGO MAGRI
ROMA
Le voci filtrate dalla Consulta narrano di uno scontro epico, combattuto a colpi di precedenti giuridici, in cui mai nessun giudice costituzionale si è azzardato a tirare in ballo ragionamenti politici. Eppure non ce n’è uno, tra i quasi mille onorevoli riuniti ieri alla Camera in seduta comune, che considerasse la sentenza diversamente da un Valium. Il cui effetto è distendere i nervi e rallentare la corsa verso le urne. Soprattutto i peones (attenti alla data del 15 settembre quando matureranno la pensione) sono convinti di avere sventato il rischio che un sì della Corte sull’articolo 18 terrorizzasse a tal punto l’establishment, da spingerlo alle urne pur di posticipare di un anno il nuovo show-down referendario. La battuta più in voga nel Transatlantico, non a caso, è: «La Consulta ha approvato l’articolo 2018», cioè l’anno in cui a questo punto si andrà a votare.

La frenata 
Ai piani altissimi delle istituzioni c’è chi considera la decisione della Corte un sano elemento di riflessione per tutti, ex premier compreso. Il quale viene descritto in quegli ambienti come intento a preparare le elezioni, certo, ma non ancora del tutto determinato a staccare la spina della legislatura. Potrebbe farlo, ma anche no, soppesandone i pro e i contro. In pubblico il Pd nega che il finale sia già scritto. Anzi, il traguardo ufficiale resta lo stesso: votare a giugno come termine massimo. Con qualunque legge elettorale, meglio se corretta per favorire la governabilità. «Le elezioni nulla c’entrano con una sentenza che conferma la bontà del jobs act», taglia corto il numero due del partito, Guerini. Anzi, Gentiloni e lo stesso Renzi risultano soddisfattissimi che sia stato confermato l’impianto di una riforma come quella sul lavoro. Con una motivazione che smonta la tesi secondo cui Renzi, machiavellicamente, avrebbe tifato per un via libera al referendum: «Vi immaginate cosa sarebbe successo se, dopo avere interrotto la legislatura e magari avere vinto le elezioni, Matteo si fosse ritrovato a fare i conti con un altro referendum, per giunta sui licenziamenti?». Solo un masochista poteva desiderarlo.
 
Quesiti da sminare 
Sia come sia, ora il governo ha un «mission» in più: sminare i due quesiti rimasti in piedi. Secondo uno che se ne intende, come l’ex leader Cgil Epifani, evitare il referendum sarà facile sugli appalti e molto complicato sui voucher. Dalle parti di Gentiloni contano di farcela e dal loro punto di vista si capisce perché: guai se si arrivasse alle elezioni politiche con la sinistra lacerata sul tema lavoro. La minoranza Pd già minaccia una campagna per «due sì», Emiliano e Speranza lo vanno sbandierando, Bersani vorrebbe rivoltare il job act come un calzino. Voucher e lavoro nero sono dunque già il cuore della battaglia congressuale anti-renziana dentro il Pd.
 
Enigma Consulta 
Tra due settimane la Corte sarà di nuovo protagonista, ma sull’Italicum. E il risultato è incerto. Se avesse deciso a ottobre, è sicuro che l’avrebbe bocciato: così garantiscono autorevoli membri. Ma da allora gli equilibri interni sono mutati, e nessuno mette più la mano sul fuoco. Ogni previsione potrebbe essere ribaltata, perfino sul ballottaggio.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/12/italia/politica/il-partito-del-rinvio-ora-gongola-cos-si-allontanano-le-elezioni-l4jQ8Vxt5d8GZCDQuMyKJM/pagina.html
5704  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Annona. Chi viveva a Roma aveva la sussistenza assicurata grazie all’annona ... inserito:: Gennaio 18, 2017, 10:45:46 pm
VII - Annona

Chi viveva a Roma aveva la sussistenza assicurata grazie all’annona (dal nome della dea italica dell’abbondanza): un approvvigionamento di grano che garantiva ai cittadini indigenti la sopravvivenza.

L’annona fu introdotta da Caio Gracco nel 123 a. C. e fu alla base del consenso popolare nei primi passi dell’impero.

Un altro “incentivo” alla fedeltà a Roma furono invece i terreni concessi a chi intraprendeva la carriera militare.
5705  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FABIO MARTINI. Il patto con Gentiloni. E Renzi ora spinge per il reddito minimo inserito:: Gennaio 18, 2017, 10:43:35 pm
Il patto con Gentiloni. E Renzi ora spinge per il reddito minimo
Mosse e tempi concordati con l’ex premier. “Pensiamo al presente”
Introducendo la riunione, Gentiloni ha pronunciato una frase significativa: «Decidiamo e raccontiamo quel che facciamo più che quel che faremo»

Pubblicato il 15/01/2017
Ultima modifica il 15/01/2017 alle ore 07:29
Fabio Martini
ROMA

Dal Policlinico Gemelli lo hanno dimesso alle 9,50, ha fatto una capatina a casa e poco prima di mezzogiorno Paolo Gentiloni si è presentato a palazzo Chigi per la riunione del Consiglio dei ministri. Una sequenza che intende essere eloquente e che comunque ha un valore simbolico: il presidente del Consiglio sta bene, si ricomincia come prima. Mentre passava dal cortile di palazzo Chigi al primo piano, un dettaglio fermato da una telecamera, racconta l’uomo Gentiloni: il presidente del Consiglio è solo, apre una porta e avvertendo con la coda dell’occhio una persona dietro di lui, ha rallentato e trattenuto la maniglia. Gesto minimo ma che indirettamente aiuta a spiegare l’accoglienza affettuosa che gli hanno riservato ministre e ministri al suo ingresso nel salone del Consiglio.

E, introducendo la riunione, Gentiloni ha pronunciato una frase significativa: «Decidiamo e raccontiamo quel che facciamo più che quel che faremo». Un’indicazione nel segno del pragmatismo da parte di chi vuol far bene, ma non sa quale sia l’orizzonte temporale del governo. L’ orizzonte sarà deciso, in base alle condizioni politiche, da Matteo Renzi, segretario del partito più forte del Parlamento. Tanto è vero che due giorni fa, quando Renzi è andato a trovare Gentiloni presso il Reparto di Cardiologia, i due hanno chiacchierato del futuro, trovandosi d’accordo sulle questioni essenziali. I due, effettivamente, hanno deciso di muoversi all’unisono. Come un tandem. Renzi ha bisogno di Gentiloni per realizzare quelle misure programmatiche che connotino il Pd in vista della campagna elettorale e Gentiloni ha bisogno di Renzi per svolgere il suo compito «con dignità», come dice lui. 

 L’ex presidente del Consiglio ha interpretato la sconfitta al referendum soprattutto come un segno di protesta da parte di alcune fasce sociali e geografiche (giovani, ceto medio impoverito, Sud) alle quali ora invece vuole parlare, vestendo i panni del leader che cerca di dare una risposta a quelle fasce di nuova emarginazione. Con provvedimenti eloquenti. Come il “reddito minimo garantito”, al quale stanno lavorando nell staff di Renzi. L’ex premier ha sempre escluso di poter caldeggiare il “reddito di cittadinanza”, che sta a cuore ai Cinque Stelle e che rappresenta controindicazioni significative: prevede un trasferimento universale e permanente a ogni individuo che rispetti requisiti minimi di appartenenza a una comunità, ma senza alcuna limitazione connessa alla condizione economica. Una misura che avrebbe un costo stratosferico (oltre 300 miliardi) ed è per questo motivo che al Pd stanno lavorando al “reddito minimo garantito”, che cioè sia in grado di assicurare a chiunque sia in età lavorativa un’integrazione che lo porti a un livello minimo accettabile. 

Naturalmente ciò che più sta a cuore a Renzi, è arrivare allo scioglimento anticipato delle Camere. Ma anche in questo caso c’è una novità: il segretario del Pd pubblicamente continuerà a tenere il punto - se non lo facesse la prospettiva si affloscerebbe - ma si sarebbe fatto meno tranchant: Renzi vuole la rivincita ma non a tutti i costi, non al costo di perdere un’altra volta. E comunque, avrebbe detto, entro febbraio si decide, in base alle trattative con i partiti. Prima di andare allo showdown delle elezioni anticipate, al Pd vogliono capire quale compromesso si potrà raggiungere con Berlusconi sulla legge elettorale, anche perché Renzi non vuole passare alla storia come il leader che riporta il proporzionale in Italia e al tempo stesso vuole uno strumento che gli consenta di governare e di incidere. Intanto il governo in carica, con provvedimenti su scuola e unioni civili, continua a marciare con un passo realizzativo “renziano” e Gentiloni, non avendo ricevuto veti da parte dei medici, ha deciso di confermare l’impegno a Berlino del 18, un bilaterale Germania-Italia con Angela Merkel.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/15/italia/politica/il-patto-con-gentiloni-e-renzi-ora-spinge-per-il-reddito-minimo-dq4UrqvJ7MUHVN678iWyaL/pagina.html
5706  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Renzi: “La sconfitta brucia, ma sono pronto a ripartire”. E rilancia il Pd inserito:: Gennaio 18, 2017, 06:13:36 pm
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 15 gennaio 2017

Renzi: “La sconfitta brucia, ma sono pronto a ripartire”. E rilancia il Pd
Politica   
Il presidente del consiglio Matteo Renzi durante la conferenza stampa nella sede del Partito Democratico sui risultati delle elezioni amministrative comunali, Roma, 06 giugno 2016. ANSA/ANGELO CARCONI   

Referendum, voto anticipato, Pd e il futuro del Paese. Matteo Renzi, in un’intervuista a Repubblica, parla per la prima volta dopo le dimissioni

La sconfitta al referendum “brucia, eccome”, ammette Matteo Renzi che confessa, in una intervista a Repubblica di aver pensato “al ritiro”, ma di essere anche pronto, ora, a ripartire dagli errori, e a rilanciare il Pd. “Credo nel Pd – dice – lo rilanceremo con facce nuove e valori forti”. E sul voto: “Io non ho fretta, decidiamo quel che serve all’Italia, senza ansie ma anche senza replicare il 2013″.

Renzi analizza gli errori commessi: “Mi sono illuso che si votasse su province, Cnel, regioni. Errore clamoroso. In questo clima la parola riforma è suonata vuota, meccanica, artificiale. Nel 2014 il Paese sapeva di essere a rischio Grecia, l’efficienza aveva presa, funzionava perché serviva. Tre anni dopo avrei dovuto metterci più cuore, più valori, più ideali. Insomma, meno efficienza e più qualità”. E credo per il futuro nelle opportunità della sinistra che può “vincere e convincere. Ma deve entrare nel nuovo secolo, tenere insieme le tradizioni e il futuro”.

Tant’è che spiega cosa vuol dire essere di sinistra per lui: “Per me essere di sinistra è anche innovare: essere garantisti sulla giustizia, abbassare le tasse, non andare necessariamente a rimorchio del sindacato che contesta ideologicamente i voucher e poi li usa. Lo farò. L’ho fatto”.

Nel Pd “adesso c’è da fare. Lanceremo una nuova classe dirigente, gireremo in lungo e largo l’Italia, scriveremo il programma dei prossimi cinque anni in modo originale. Siamo ammaccati dal referendum ma siamo una comunità piena di idee e di gente che va liberata dai vincoli delle correnti. Ci sarà da divertirsi nei prossimi mesi dalle parti del Nazareno”.

L’ex premier è chiaro anche sul voto anticipato: “Io non ho fretta, decidiamo quel che serve all’Italia, senza ansie ma anche senza replicare il 2013 dove abbiamo pagato un tributo elettorale al senso di responsabilità del Pd. Forse alcuni parlamentari – specie dei nuovi partiti – sono terrorizzati dalle elezioni perché sanno che non avrebbero i voti neanche per un’assemblea di condominio. Ma noi no. Noi faremo ciò che serve al Paese”.

Il ballottaggio “è il modo per evitare inciuci, governissimi, larghe intese tra noi e Forza Italia che non servono al Paese e aprono un’autostrada al grillini”. Dunque la posizione del Pd sulla riforma elettorale resta “ballottaggio o se no Mattarellum”. E “se poi dalla Corte verrà fuori un sistema diverso ci confronteremo con gli altri”. “Col maggioritario – sottolinea Renzi a Repubblica- il Pd è il fulcro di un sistema simile alla democrazia americana. Con il proporzionale torniamo a un sistema più simile alla democrazistiana. Ma il Pd sarà decisivo comunque. Il futuro dell’Italia passa da noi, dai nostri sindaci, dalla comunità di valori della nostra gente. Che non ne può più di chi tutti i giorni spara contro il quartier generale”.

Renzi non risparmia una riflessione anche sul Movimento Cinquestelle e il suo leader Grillo “vince se denuncia il male. Non se prova a cambiare. Quei ragazzi sono già divisi, si odiano tra gruppi dirigenti, fanno carte e firme false per farsi la guerra. Ma sono un algoritmo, non un partito”. “Lui è il Capo di un sistema che ripete ai seguaci solo quello che vogliono sentirsi dire, raccogliendo la schiuma dell’onda del web” – afferma, e aggiunge – “io non voglio una sinistra all’algoritmo: la voglio libera, capace di pensare con la sua testa, coi sui valori, la sua cultura, i suoi ideali”.

Nell’intervista Renzi mette a fuoco anche la questione banche: “Il caso Etruria ci è costato molto. Ma abbiamo fatto tutto quello che andava fatto. Abbiamo commissariato la banca, mandato a casa gli amministratori compreso il padre della Boschi, Etruria è l’unica banca sanzionata due volte, ci sono indagini della magistratura e ci saranno processi: vedremo chi sarà condannato e chi no”. E invece il commento dell’ex premier sulla crisi delle banche. “Non vedo l’ora che parta la commissione di inchiesta per fare chiarezza sulle vere responsabilità, dai politici ai manager ai controllori istituzionali”, ha aggiunto.

Infine sul futuro del quotidiano L’Unità, assicura che “lavoreremo a una soluzione con umiltà e buon senso”. “Faremo di tutto – dice- Vedrò Staino e gli editori della settimana prossima. Ma se il giornale vende poco davvero pensiamo che la colpa sia del segretario del partito?”.

Da - http://www.unita.tv/focus/renzi-la-sconfitta-brucia-ma-sono-pronto-a-ripartire-e-rilancia-il-pd/
5707  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FABIO MARTINI. Effetto Gentiloni, tornano i ministri inserito:: Gennaio 18, 2017, 06:12:03 pm
Effetto Gentiloni, tornano i ministri
Nel giro di due settimane i dicasteri sono tornati a parlare, a proporre e ad agire in prima persona. È la fine del “centralismo” renziano?

Pubblicato il 17/01/2017 -  Ultima modifica il 17/01/2017 alle ore 13:40
FABIO MARTINI

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico nel nuovo governo: i ministri, soprattutto quelli competenti, sono tornati a parlare, a proporre, ad agire in prima persona. Col risultato che nel giro di due settimane sono venuti alla luce diversi piani operativi. Quello per i migranti, preparato (e spiegato) dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Quello sui nuovi livelli di assistenza pubblica preparato (e spiegato) dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin. La nazionalizzazione del Monte dei Paschi di Siena seguirà le linee preparate dal ministero dell’Economia guidato da Pier Carlo Padoan. Il ministro delle Sviluppo Economico Carlo Calenda e quello delle Infrastrutture Graziano Delrio hanno tenuto “botta” ai tedeschi nella rovente polemica sulla questione delle emissioni delle auto Fca. 
    
Sembra un fenomeno scontato ma si tratta di una novità. Per quasi tre anni, sotto la guida di Matteo Renzi, ogni provvedimento era scandito da due imperativi: la “centralità” in termini di presenza e di immagine del presidente del Consiglio, la scansione temporale dei provvedimenti sulla base della loro comunicazione. La “centralità” del premier aveva finito per oscurare i propri ministri: tutti i principali provvedimenti settoriali – dal Jobs Act alle riforme istituzionali, da quelle dei diritti a quelle dell’ordine pubblico – finivano per identificarsi col presidente del Consiglio, che li presentava e rilanciava in conferenze stampa, slides, lanci sul web. 
 
Col nuovo governo, i singoli ministri sono tornati a “respirare”: il nuovo ministro dell’Interno Marco Minniti, che da molti anni si occupa prevalentemente di sicurezza, nel giro di pochi giorni ha prodotto un piano organico sulla questione migranti, mentre in termini di immagine, è stato lui, prima ancora del presidente del Consiglio, a “mettere la faccia” sulla brillante operazione di polizia che ha portato allo scontro a fuoco nel corso del quale è morto l’autore della strage di Berlino. Certo, un maggior protagonismo da parte dei ministri può avere il suo rovescio della medaglia, come dimostrano le dichiarazioni di alcuni ministri e infatti a palazzo Chigi non sono state apprezzate alcune sortite (non solo quella di Poletti sui giovani emigranti italiani), ma la maggior libertà è un prezzo da pagare per avere una squadra più motivata. 

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5708  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / ELIANA DI CARO. Asli Erdogan e Pinar Selek: «Siamo come l’erba: fragile, ma ... inserito:: Gennaio 18, 2017, 06:09:36 pm
Donne e attiviste per i diritti umani
Asli Erdogan e Pinar Selek: «Siamo come l’erba: fragile, ma non si spezza mai»

di Eliana Di Caro 13 gennaio 2017
   
Asli Erdogan in teleconferenza da Istanbul a Milano. (Ansa)
La voce della resistenza turca è risuonata a Milano, al teatro Dal Verme, attraverso la potente testimonianza delle scrittrici Asli Erdogan e Pinar Selek. Asli in video collegamento da Istanbul perché, scarcerata il 29 dicembre scorso dopo quattro mesi di detenzione per l’accusa di terrorismo, non può lasciare il Paese e deve affrontare la prossima udienza del processo il 14 marzo; Pinar, invece, presente all’incontro organizzato da “Tempo di Libri”, la fiera editoriale che si svolgerà a Milano dal 19 al 23 aprile e di cui l’evento del Dal Verme, dedicato alla libertà e ai diritti, ha costituito un’anteprima. Introdotta dall’assessore alla Cultura Filippo del Corno («È un’occasione di conoscenza e di scambio di dialogo che vanno alimentati attraverso i libri»), e da Chiara Valerio, responsabile della prima edizione milanese della kermesse editoriale («Vogliamo che sia una fiera della manutenzione della cultura italiana»), la tavola rotonda ha visto la partecipazione anche del giornalista Lirio Abbate, che vive sotto scorta, e della docente di lingua e letteratura turca all’Università di Napoli, Lea Nocera.

Giornalisti minacciati e uccisi: l’appello di Abbate
Sotto la sapiente regia di Marino Sinibaldi, direttore di Radio 3, si è cominciato con l’intervento di Abbate, il quale ha sottolineato l’eccezionalità dell’Italia: un Paese avanzato, occidentale, moderno dove i giornalisti sono stati minacciati e uccisi per il loro lavoro, «perché scrivevano o perché sapevano. Questa cosa la si subisce, la criminalità organizzata è come la dittatura, la forza va imposta sulla parola che è considerata un’arma. In Sicilia otto giornalisti sono stati uccisi dalla mafia». Abbate ha chiuso con un appello: «Non lasciamo sole le persone che sono minacciate perché scrivono».

La libertà negata di espressione     a colloquio con Pinar Selek 19 aprile 2015
«Ma “genocidio” non è più tabu»
Da qui in poi, la scena è stata tutta per la Turchia, un Paese - ha affermato Sinibaldi - che in questo momento porta tutti i tratti dei conflitti contemporanei e vive in modo drammatico la negazione della libertà di espressione: «È tutto visibile, li vediamo i giornalisti incarcerati e torturati, è sotto i nostri occhi quello che succede lì più che altrove». Lea Nocera ha fatto un utile e sintetico quadro della storia e della società turche, propedeutico alla conversazione delle due scrittrici. Nell’osservare Selek ed Erdogan (nessuna parentela con il premier), si ha la misura dei segni di una lunga lotta. Selek, sociologa, attivista a favore delle minoranze oppresse in Turchia, vive in Francia in esilio forzato dal 2009, ha alle spalle il carcere e le torture che ha raccontato in La maschera della verità (Fandango: si veda l’intervista alla Domenica del Sole del 19 aprile 2015), parla con grinta e grande carica della necessità di resistere ma anche di allontanarsi dalla Turchia per potersi esprimere: «Subivo la tortura e non ho detto neanche una parola, ma ho capito che bisogna andare oltre la Resistenza, bisogna essere in uno spazio libero per creare, non subire passivamente ma essere libere. Per questo la solidarietà internazionale ha un ruolo importantissimo: bisogna far uscire Asli dalla Turchia perché possa continuare a creare, è una grandissima scrittrice. Le frontiere non sono importanti, soprattutto non le hanno istituite le donne».

Siamo come l’erba: fragile, ma non si rompe mai
La sociologa turca Pinar Selek. Ansa / Matteo BazzI
Selek ha voluto ricordare il tempo in cui Asli Erdogan le è stata vicina, quando lei 18 anni fa fu arrestata e trattata come una terrorista: «Era una delle giornaliste che hanno scritto su di me e per me, è venuta in prigione, mi ha aiutata a rialzarmi così come adesso faccio io con lei. A volte ci chiedono “come fate”? Come riuscite a resistere? Siamo come l’erba: fragile, ma non si rompe mai. La nostra amicizia, il fatto di essere insieme ci dà forza. Prima dell’inizio di questo incontro ci siamo parlate tre minuti, le ho detto “sii paziente, ti facciamo uscire”. Le sollecitazioni e le richieste devono essere inviate da tutte le istituzioni. Bisogna insistere, non si fa in due giorni».

Donne militanti
Gli applausi sono diventati ancora più forti e caldi quando è comparso sullo schermo il volto malinconico e un po’ pallido di Asli Erdogan, classe 1967, arrestata con l’accusa di terrorismo per i suoi articoli sul giornale filocurdo Ozgur Gundem. «Ringrazio tutti per il sostegno – ha detto - per aver parlato di me e dei miei libri. Senza l’intervento dei giornalisti, degli scrittori, e delle persone comuni sarei ancora in galera. Centotrentasei giorni in carcere sono stati lunghissimi, orribili anche perché ingiusti, fuori dal diritto. Sono stata accusata e imprigionata per motivi politici e mi è pesato moltissimo. Non sono la sola: ci sono molte persone in carcere di cui si è persa cognizione, non se ne conosce il numero. La situazione è fuori dal controllo della giustizia e del diritto. Siamo a un punto in cui bisogna chiedersi cosa vuol dire reato, colpa, innocenza, parole che vanno messe in discussione».

Solidarietà, scrittura e resistenza
Asli Erdogan si è anche soffermata sul lato umano di un’esperienza che l’ha provata e che vorrà raccontare: «Ho dato un nuovo valore alla vita: ero in cella con venti donne, ho imparato molto nella quotidianità. Del carcere ho già parlato in L’edificio di pietra (non tradotto in italiano ndr), ma ora che c’è questa grossa macchia nera, l’unico modo per affrontarla è la scrittura. La prossima udienza sarà il 14 marzo ma non sarà l’ultima, perché dei 4 reati che mi sono imputati, c’è quello di propaganda terroristica». Per questo le è stato impedito di lasciare il territorio. «In questo momento in Turchia – spiega - vige lo stato di emergenza, con una serie di decreti che prevedono il ritiro del passaporto per qualunque persona sia sotto inchiesta per il reato di appartenenza a un’organizzazione terroristica, anche per il primo grado di parentela (coniugi e figli): una situazione che ha condizionato la vita di molte famiglie».
La serata si è conclusa con la lettura di brani tratti da Il mandarino meraviglioso (Keller), scritto da Asli Erdogan quando era una fisica al Cern di Ginevra. «È il mio primo libro, allora avevo 25 anni e non pensavo di fare la scrittrice», ricorda, ed è l’unico momento in cui dallo schermo un accenno di sorriso le illumina il volto. «Spero un giorno di essere lì con voi».

eliana.dicaro@ilsole24ore.com
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5709  Forum Pubblico / I.C.R. Immaginare Conoscere Realizzare. "Le TERRE DI RANGO" e "Le TERRE DI FANGO". / Riccardo Saporiti. 18/01/2017 Alla fine le fake news salveranno il giornalismo inserito:: Gennaio 18, 2017, 06:05:15 pm
Alla fine le fake news salveranno il giornalismo
•   Riccardo Saporiti
•   18 gennaio 2017

Non la nemesi, ma la salvezza del giornalismo. Le fake news, le bufale on line finite al centro del dibattito dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e il referendum costituzionale del 4 dicembre, non rappresentano una minaccia per il mestiere di raccontare. E non solo alla luce delle contromisure che Facebook sta sperimentando in Germania per rendere più facile segnalare le notizie false, impedire di sponsorizzare i post che le riportano e notificando agli utenti gli articoli ritenuti non attendibili da parte di organismi di controllo indipendenti.
Ad essere convinti che le bufale non siano solamente un pericolo sono proprio i membri di quella categoria più minacciata dalle notizie false, ovvero i giornalisti. Convinti che le fake news possano diventare un’occasione di riscatto per chi lavora in redazione. A patto, però, che si punti sul giornalismo di qualità. A dirlo è l’edizione 2017 del rapporto “Journalism, media and technologies trends and prediction”, realizzato da Nic Newman per conto del Reuters institute for the study of journalism.
Si tratta delle risposte ad un questionario sottoposto nello scorso mese di dicembre a 143 tra direttori, amministratori delegati e responsabili delle edizioni digitali originari di 24 Paesi. La metà dei partecipanti ha iniziato la propria carriera sulla carta stampata, un terzo opera nel servizio pubblico, mentre uno su dieci lavora per testate nate con il digitale. Il 90% svolge la propria attività in Europa, nello specifico nel Regno Unito, in Francia, Germania, Austria, Italia, Finlandia e Spagna. Mentre il restante 10% è attivo negli Stati Uniti, in Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone.
Richiesti di valutare l’impatto della diffusione delle fake news sulle proprie testate, più di due su tre si sono detti ottimisti. Il 70% degli intervistati ha infatti affermato che le bufale finiranno con il rafforzare i media, offrendo un’occasione al giornalismo di qualità di emergere. L’idea di fondo è che il modo di contrastare le fake news sia quello di migliorare la qualità del modo in cui si fa giornalismo e del prodotto che si offre ai lettori. Le risposte al questionario sono riassunte in questa infografica:
Impatto diffusione fake news
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Il giornalismo di qualità ha però bisogno di fondi per essere finanziato. E per il 2017 si ripropone il problema di come generare introiti per i media on line. L’elemento sul quale ci si concentrerà maggiormente in questo 2017, almeno così ha risposto il 47% degli intervistati, è rappresentato dai contenuti a pagamento. Ovvero i pay Wall, formula introdotta in Italia ad esempio dal Corriere della Sera. Una modalità che divide il mondo dell’editoria, visto che il 53% ha risposto di non essere interessato a svilupparlo nei prossimi 12 mesi, ma che rimane quella capace di attirare maggiormente il consenso di editori e direttori intervistati dal Reuters Institute. La situazione, in generale, è questa:
Fonti introiti
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Oltre alla pubblicità tradizionale, altre fonti di finanziamento che catalizzeranno l’attenzione dei media nei prossimi mesi sono i video e i contenuti sponsorizzati. Mentre solo un intervistato su cinque ha detto di essere interessato all’organizzazione di eventi per finanziare la testata. E solo uno su otto vede nell’e-commerce una fonte di risorse per i media. Un’esperienza provata in Italia dal Fatto Quotidiano.
Infine i social network, ormai diventati parte integrante della vita all’interno delle redazioni. Richiesti di indicare quale sia la piattaforma sulla quale sarà più importante investire nel corso del 2017, il 78% degli intervistati ha indicato Facebook. Quota a cui si aggiunge un 16% che ha citato Facebook messenger, l’app di messaggistica di Palo Alto, e un 13% che ha menzionato Whatsapp, altra piattaforma di messaggistica acquistata da Zuckerberg per 19 miliardi di dollari, Dopo i contrasti relativi agli introiti pubblicitari degli anni passati, Facebook sembra insomma essere diventato il principale alleato delle testate giornalistiche.

Con un ruolo dominante rispetto alle altre piattaforme:
Piattaforme
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In un questionario a risposta multipla, Google conquista la seconda piazza con YouTube, che vedrà impegnata una testata su quattro. Quindi c’è Apple News, l’applicazione della Mela per la selezione e l’aggregazione delle notizie. Oltre che in Borsa, Twitter arranca anche nella considerazione dei media, visto che solo una testata su otto afferma che sia importante investire per cinguettare. La stessa percentuale di coloro che invece hanno detto di voler puntare su Snapchat, una delle piattaforme social più utilizzate dai millennials. Ovvero i lettori di domani. Che però le testate hanno bisogno di cominciare ad attirare già da oggi.

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5710  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / AMEDEO LA MATTINA. Perché il centrodestra è a rischio estinzione inserito:: Gennaio 18, 2017, 06:02:00 pm
Perché il centrodestra è a rischio estinzione
Non c’è ancora accordo sulle primarie. E continua lo scontro tra Berlusconi e Salvini

Pubblicato il 13/01/2017
Ultima modifica il 13/01/2017 alle ore 12:05
AMEDEO LA MATTINA

ROMA
Il centrodestra in via di estinzione come un mammut. Forse potrà sopravvivere a livello locale: Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia dovrebbero presentarsi in coalizione alle elezioni amministrative di primavera dove si voterà in quattro Comuni capoluogo e ventidue capoluogo di Provincia. Alle politiche si preannuncia un disastro. Se non ci saranno le primarie per decidere chi guiderà la locomotiva o se non sarà Matteo Salvini a fare il capo macchinista, i «sovranisti» che guardano alla Le Pen andranno per conto loro. E a loro si accoderanno gli ex Msi-An-Destra sociale Alemanno e Storace. 

Lo scontro Salvini-Berlusconi 
La situazione interna al centrodestra è andata ben oltre le sole questioni politiche. E finché le divergenze riguardavano la legge elettorale e perfino la leadership del centrodestra, Silvio Berlusconi ha fatto quasi finta di niente. «Fatelo parlare, non polemizzate con Salvini, da solo non va da nessuna parte», è l’indicazione che dà ai suoi colonnelli. Il Cavaliere invece serra nervosamente la mascella e socchiude gli occhi come un alligatore quando il rumoroso capo della Lega tocca i fili dell’altra tensione, quelli della scalata a Mediaset da parte di Vivandi. Ed è proprio quello che ha fatto Salvini. «Non sarebbe uno scandalo se i francesi dovessero comprare Mediaset che non è un’azienda strategica per il Paese». Tra l’altro, sostiene Matteo, i quattrini di Bollorè potrebbero far comodo a Berlusconi che così risolverebbe i suoi problemi con i figli. Apriti cielo! Problemi tra il patriarca e i cinque figli?
 
La strana alleanza tra i due Matteo 
«Come si permette, come osa mettere il becco nelle nostre cose di famiglia», hanno gridato all’unisono Marina e Piersilvio, mettendo il padre ancora di più di cattivo umore. Sembra che il Cavaliere abbia perso le staffe e usato nei confronti di Matteo alcuni epiteti irriferibili. Ma intanto Salvini continua a lavorare alla sua Opa del centrodestra e spinge in tutti i modi per elezioni anticipate, facendo da sponda a Matteo Renzi. I due Matteo si sono sentiti al telefono un paio di volte tra durante le festività natalizie e sembra che il loro cellulari siano squillati pure ieri. Entrambi puntano a un Mattarellum reso più proporzionale e ad accelerare verso le urne. «Io e Renzi abbiamo un interesse comune, anche generazionale: se non si vota entro giugno saremo rosolati», è il ragionamento di Salvini che attribuisce a Berlusconi, Mattarella e la sinistra Dc guidata da Franceschini l’obiettivo di mantenere lo status quo. 
 Le bordate della Lega a Forza Italia 
Al Cavaliere che attende la sentenza di Strasburgo (tra luglio e settembre) per essere riabilitato e ricandidarsi, Salvini non risparmia più nulla. Non perde occasione per bombardare Arcore da tutti i lati. Dice che il Cavaliere «inciucia», che parla bene di Gentiloni e Mattarella, vota il salva-banche («20 miliardi regalati»). «Oggi siamo lontanissimo, non è il Berlusconi che ricordavo». Tajani, in pole position per la presidenza dell’Europarlamento. è «un servo di Bruxelles». «Se Berlusconi non condivide il nostro programma per uscire dall’euro e controllare i confini, un’alleanza è impossibile».
 
Silvio alla ricerca di un leader 
Il centrodestra è in coma e solo un miracolo potrà farlo tornare a vivere come una volta. Solo che Berlusconi vorrebbe il sistema proporzionale per tenersi le mani libere e fare la grande coalizione dopo il voto politico. Cambio generazionale? Candidatura alla premiership del centrodestra? Il Cavaliere non ha mai cambiato idea su Salvini e Meloni e ripete quello che aveva detto in occasione della rottura nelle comunali di Roma: «Quei due non sarebbero in grado di amministrare un condominio». Tagliente il giudizio di Salvini su Berlusconi: «Ormai inciucia per avere protezioni molto in alto, non solo al Quirinale, ma anche da Mario Draghi. È lui ormai il nuovo punto di riferimento in Europa per tenere in piedi il governo oggi e per evitare che in futuro a Palazzo Chigi vadano i 5 Stelle o un centrodestra rinnovato dalle fondamenta, con un programma che non fa sconti all’Europa».

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5711  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / BILL EMMOTT. - May, la chiarezza che giova all’Unione inserito:: Gennaio 18, 2017, 06:00:10 pm
May, la chiarezza che giova all’Unione

Pubblicato il 18/01/2017
Bill Emmott

Bene, almeno l’incertezza è finita. Alcuni commentatori hanno definito i sei mesi di oscillazioni del governo britannico sul piano per la Brexit «ambiguità costruttiva», una frase usata da Henry Kissinger 40 anni fa. Confusione rende meglio l’idea, ma ora è chiaro: il primo ministro britannico Theresa May ha annunciato che il Regno Unito lascerà il mercato unico europeo e l’unione doganale. 

E’ un azzardo, ma ha un senso. Anche la scorsa estate la signora May aveva detto che tra le sue priorità c’erano limitare la libera circolazione dei cittadini europei e porre fine alla giurisdizione della Corte europea di giustizia nel Regno Unito. Per questo la Gran Bretagna deve abbandonare il mercato unico, perché è sottoposto alle leggi europee e la libera circolazione ne è uno dei principi cardine. Logico quindi attenersi a questo piano.

Certo si può discutere se siano queste le priorità, anche sul piano politico, a parte quello economico. La signora May evidentemente pensa che per lei sarebbe politicamente troppo rischioso acconsentire a mantenere la libertà di movimento. Sta dicendo d’altra parte che è pronta a correre il rischio di causare un danno economico alla Gran Bretagna abbandonando il più grande mercato unico del mondo per evitare un rischio politico al partito conservatore a cui appartiene.

Durante i sei mesi di confusione e ambiguità sui piani britannici per la Brexit, il primo ministro ha lasciato che i suoi ministri e il suo partito si cimentassero in un dibattito pubblico chiedendosi se questa fosse la scelta giusta. La sua posizione sul tema è stata coerente. Ma lasciando aperto il dibattito e aspettando di vedere quale sarebbe stato l’atteggiamento degli altri governi europei ha permesso che prevalesse l’incertezza. 

La fine di questo stato di cose è una buona notizia per gli altri 27 membri dell’Unione europea. Non devono più preoccuparsi che la Gran Bretagna cerchi di convincerli ad abbandonare i principi che sono il cuore dell’Unione europea. Non ce l’avrebbe fatta, anche se alcuni politici e intellettuali britannici chiaramente erano convinti che qualche altro Stato fosse pronto a limitare l’immigrazione e che riuscire a tenere nel mercato unico la Gran Bretagna, la quinta economia mondiale, fosse così importante da valer bene qualche concessione.

Si sarebbe risparmiato un sacco di tempo dimostrando che si trattava di un’illusione. Si sarebbe rischiato di creare una spaccatura ancora maggiore tra i Paesi dell’Unione e una relazione ancora più difficile con la Gran Bretagna.

Quindi la chiarezza su questo tema farà bene all’Europa. Le celebrazioni del 60° anniversario del Trattato di Roma, a marzo, non devono essere offuscate da questo problema. L’Unione europea può andare avanti cercando di sviluppare le sue politiche sulle questioni molto più importanti dei rifugiati, dell’economia e delle relazioni con la Russia.

 Per la Gran Bretagna tuttavia, anche il discorso del primo ministro May non fa del tutto chiarezza sul futuro del Paese. Il Regno Unito sa che in futuro negozierà un trattato di libero scambio con l’Unione europea, così come cercherà di farlo con gli Stati Uniti e con altri Paesi. Ma ancora non si sa quanto lontano voglia spingersi il governo britannico per adempiere alla vaga promessa del primo ministro May di creare una «Gran Bretagna globale» che sarà il punto di riferimento per la libertà di commercio.

Sappiamo, per certo, che la Gran Bretagna non intende seguire Donald Trump sulla via dell’isolazionismo e del protezionismo. Il voto sulla Brexit è stato più frutto di arroganza nazionalista che di quella sorta di rabbia per la globalizzazione cavalcata da Trump. Ma cosa implichi questo per l’economia britannica ancora non si sa.

La signora May dice che il suo obiettivo è il libero commercio con l’Unione europea. Questo disegno comprende l’agricoltura? Abolirà tutti i sussidi e le altre forme protezionistiche per gli agricoltori britannici uscendo dall’Unione e consentirà l’accesso ai prodotti comunitari senza tasse né quote? 

O, per fare un altro esempio, sappiamo che lasciando l’Unione il Regno Unito potrà abbassare le tasse sulle importazioni di auto fino a zero, se vorrà. Il tasso europeo è ora del 10%. Questo intende la signora May quando dice che «liberarsi» dell’Unione europea ci permetterà di diventare i maggiori sostenitori del libero scambio. Ma le aziende automobilistiche giapponesi, indiane e americane che producono nel Regno Unito saranno d’accordo con quest’eccellente idea?

Tutto questo non lo sappiamo. E quindi il risultato vero del discorso chiarificatore del primo ministro britannico è di aver chiarito le idee agli altri 27 membri dell’Ue, ma non molto alla Gran Bretagna stessa. 

Traduzione di Carla Reschia 
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5712  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Alessandro BARBERA inserito:: Gennaio 18, 2017, 05:53:51 pm
Carmen Reinhart
Pubblicato il 18/01/2017 - Ultima modifica il 18/01/2017 alle ore 10:17
Alessandro Barbera
Inviato a Davos

Carmen Reinhart attende l’intervista in un angolo della sala affollata di vip del World Economic Forum. Con Janet Yellen è l’economista donna più nota al mondo, eppure nel via vai di consiglieri, accompagnatori e addetti stampa si confonde fra tanti. Veste una giacca bianca leopardata, simile a quelle di Theresa May, ma a differenza della premier inglese è convinta che «nel lungo periodo» la Brexit farà danni. Sulle prospettive dell’Italia e dell’Europa è ancor più pessimista: «Quello delle banche italiane ormai è il problema numero uno dell’Italia, e rischia di condizionare l’intera area euro».

La Commissione europea chiede all’Italia una correzione da 3,4 miliardi mentre il governo si appresta a spenderne venti per salvare alcune banche. Cosa ne pensa? 
«Ormai da un po’ di tempo mi sono convinta che l’Italia dovrebbe prendere in considerazione una ristrutturazione del suo debito, a partire da quello privato. La storia delle crisi bancarie ci insegna che in queste condizioni l’Italia non può uscire dalle secche della bassa crescita».

Che intende dire? Rischiamo un nuovo 2011? 
«Finché i bilanci delle banche italiane non saranno stati effettivamente ripuliti, finché non saranno in grado di tornare a sostenere in maniera aggressiva l’economia, il Pil non riprenderà a salire abbastanza e ogni altro tentativo sarà vano».

 Cosa la rende così pessimista? 
«Le ristrutturazioni bancarie degli ultimi vent’anni hanno funzionato perché hanno effettivamente rimesso in piedi il sistema. Non penso solo a quanto fatto negli Stati Uniti nel 2009, ma quel che è accaduto in anni precedenti in Svezia o Norvegia. In Italia questo non è mai avvenuto». 

L’Italia avrebbe potuto fare ciò che lei propose nel 2012, quando l’Europa intervenne a sostegno della Spagna, ma il governo di allora decise di non accettare quell’aiuto per ragioni politiche. Fu un errore? 
I problemi risalgono al 2009. Avreste dovuto intervenire prima, siete in grave ritardo. La Banca centrale europea finora vi ha dato una mano, il piano di acquisti di titoli pubblici ha dato una spinta all’economia europea, ma non è stato sufficiente. Lo dimostra la storia del Giappone: la politica monetaria da sola non basta».

La tesi di molti è che si tratti di una soluzione impraticabile in Italia. 
«Conosco le difficoltà politiche. So che non sono ricette buone per creditori ed elettori. So per esempio che non si potrà fare nulla fino alle elezioni tedesche dell’autunno. Ma ci sono molti modi per ristrutturare un debito. Casi di successo, come in Irlanda, altri andati meno bene, come in Portogallo. Le soluzioni tecniche ci sono». 

Ripulire i bilanci delle banche significa aumentare il debito pubblico, che in Italia è già alto. 
«Lo capisco: tutto questo ha un costo, anzitutto fiscale. Ma ormai sono convinta sia l’unico modo per ristabilire la fiducia degli investitori ed evitare l’uscita di capitali che emerge dai numeri. Meglio avere un debito ufficiale più alto che pagare sui mercati le conseguenze di quello implicito legato alle sofferenze bancarie».

Per fare questa operazione l’unica opzione praticabile è chiedere l’intervento del Fondo salva-Stati, l’Esm. 
«Precisamente».

E se invece di fare tutto questo il governo insistesse in una strategia aggressiva di riduzione della spesa? Non esiste una soluzione che eviti un aumento dei costi per il contribuente? 
«Ipotizziamo che l’Italia riduca il suo deficit medio annuale all’uno per cento. Cosa cambierebbe? Nulla».

E come la mettiamo con le regole europee? 
«Capisco. L’Europa potrebbe far finta di niente ancora per qualche anno, ma a quale prezzo?». 

Twitter @alexbarbera 
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5713  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / ENRICO FRANCESCHINI May sceglie 'hard Brexit': "Fuori da Ue e da mercato comune inserito:: Gennaio 18, 2017, 05:51:19 pm
May sceglie 'hard Brexit': "Fuori da Ue e da mercato comune per una GB globale.
Voto finale del Parlamento “May sceglie 'hard Brexit': "Fuori da Ue e da mercato comune per una GB globale.
Il primo ministro inglese esclude qualunque parziale associazione con l'Europa e punta a un negoziato che punti a un rapporto "tra uguali, fra una Gran Bretagna Globale, indipendente e sovrana, e i nostri amici e alleati della Ue". E lancia una velata minaccia: "Se ci punirete abbasseremo imposte e attireremo investimenti"
   
Dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI
17 gennaio 2017

LONDRA - Fuori dall'Unione Europea, fuori dal mercato comune, fuori da tutto. E' l'intenzione di Theresa May per il negoziato con la Ue che comincerà a fine marzo: una "hard Brexit", una Brexit dura, anzi durissima. "Non vogliamo nessuna parziale appartenenza alla Ue, nessuna associazione con la Ue, niente che ci lasci metà dentro, metà fuori", ha detto il primo ministro britannico nell'atteso discorso di oggi sui suoi obiettivi per la trattativa con Bruxelles.

"Non vogliamo adottare un modello già adottato da altri paesi", ha affermato: quindi niente modello Norvegia (fuori dalla Ue ma dentro il mercato comune), modello Svizzera (una forma di associazione al mercato comune) o modello Turchia (fuori dal mercato ma dentro l'unione tariffaria doganale). "Non vogliamo mantenere dei pezzi di Ue, nel momento in cui la lasciamo", ribadisce la premier una volta per tutte. Anche se poi, quasi all'ultimo lascia aperta la porta di un accordo sulle merci senza dogana, simile a quello turco. E il discorso contiene una notizia inattesa: l'impegno a sottoporre l'accordo finale con la Ue, prevedibilmente fra un paio d'anni, nella primavera 2019, al termine della trattativa, a un voto del parlamento britannico. Che, in teoria, potrebbe bocciare l'accordo e lasciare tutto com'è. Ma lei non è preoccupata: "Il parlamento ha votato per indire il referendum, ha votato per iniziare il negoziato sulla Brexit, sono certa che voterà anche per realizzare la volontà popolare di uscire dalla Ue".

Trump su Brexit: "Una gran cosa"
Ci sarà dunque la ricerca di un accordo con la Ue fatto su misura per il Regno Unito, la cui aspirazione è quella di creare una "Global Britain", una Gran Bretagna globale, "il migliore amico dei nostri partner europei, ma che cerca amici, rapporti e alleati oltre i confini dell'Europa, nel mondo". Questo, secondo Theresa May, è il mandato conferitole dal referendum del giugno scorso, in cui il popolo britannico ha votato "per il cambiamento, per uscire dall'Unione Europea e per abbracciare il mondo". E ha così votato, aggiunge la premier, "con gli occhi aperti, consapevole che la strada da fare sarà talvolta incerta, ma convinto che conduca a un brillante futuro per i nostri figli e i nostri nipoti". Compito del governo, osserva May, "è realizzare questa volontà e questo significa qualcosa di più che semplicemente negoziare una nuova relazione con la Ue, significa chiederci che tipo di paese vogliamo essere".

Merkel replica al presidente eletto Usa: "Noi europei padroni del nostro destino"
La sua risposta è priva di dubbi: "Un Regno Unito sicuro, prospero, tollerante, un magnete per i talenti internazionali e una casa per innovatori e pionieri". Il fatto che il voto per la Brexit abbia prevalso 52-48 per cento, riflettendo di fatto un paese diviso a metà, non pare avere troppo rilievo per la donna che ha preso il posto di David Cameron e considera Margaret Thatcher la sua eroina. La premier non vede le divisioni: "Il paese si sta unendo", sostiene. Di diverso avviso l'opposizione, i liberaldemocratici già protestano che il referendum non conteneva alcuna domanda sull'uscita dal mercato comune. "Il nostro voto per uscire dall'Unione Europea non è un rifiuto dei valori che condividiamo con l'Europa", prosegue May. "La decisione di andarcene dall'Europa non rappresenta un desiderio di essere più distanti da voi, che siete i nostri amici e i nostri vicini. Continueremo a essere partner affidabili alleati disponibili e buoni amici. Vogliamo comprare le vostre merci e che voi compriate le nostre, commerciando con voi nel modo più libero possibile". Ma perseguendo "una nuova partnership tra uguali, fra una Gran Bretagna Globale, indipendente e sovrana, e i nostri amici e alleati della Ue".
 
Nel discorso di stamane il primo ministro ha elencato 12 priorità per il negoziato con Bruxelles con cui realizzare "una nuova, costruttiva, equa partnership con la Ue", guidata da 4 principi chiave: certezza e chiarezza; una Gran Bretagna più forte; una Gran Bretagna più giusta; una Gran Bretagna veramente globale". Le priorità includono: controllo dell'immigrazione, uscita dalla Corte di Giustizia Europea, mantenimento dell'unità nazionale britannica e il diritto per i 3 milioni di europei residenti in Gran Bretagna di restarci a tempo indeterminato, così per il milione e mezzo di cittadini britannici residenti in Europa. E ha chiuso con una velata minaccia: "Se in Europa qualcuno vuole punirci per l'uscita dalla Ue, attenzione, sarebbe un errore innanzi tutto per l'Europa, noi cambieremmo modello economico, abbasseremmo le imposte, attireremmo investimenti". Quasi un ricatto all'Europa: se ci maltrattate, diventeremo un paradiso fiscale appena al di là della Manica.
 
Naturalmente, la "Global Britain" che non vuole mantenere neanche "un pezzetto" di Ue è solo la posizione iniziale di Downing Street in un negoziato che durerà due anni. Fattori esterni potranno modificarla: come la sentenza della Corte Suprema sul diritto del parlamento britannico di dire la sua (attesa per i prossimi giorni), l'ipotetico voto del parlamento medesimo, peraltro riaffermato da May, l'andamento dell'economia (in dicembre l'inflazione è salita all'1,5 per cento rispetto all'1,2 di novembre) possibili elezioni anticipate a livello nazionale. Intanto le elezioni anticipate ci saranno in Irlanda del Nord, il 2 marzo, e già quelle potrebbero influire sugli umori di Londra riguardo all'Europa. Ma per ora Theresa May pronuncia un addio alla Ue senza "se", senza ma" e senza rammarichi, fiduciosa di poter costruire una "nazione globale, forte, rispettata nel mondo e unita in casa propria". Vedremo se sarà ancora fiduciosa alla fine della trattativa.
 
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Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/01/17/news/brexit_may_non_vogliamo_stare_meta_fuori_e_meta_dentro_ue_con_bruxelles_nuova_equa_partnership_-156177618/?ref=HREC1-4
5714  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino. Da FB ... terremoto sotta la neve in Italia centrale. inserito:: Gennaio 18, 2017, 05:00:18 pm
L'argomento si presta ad equivocare su quali sono le "competenze" della Stato e quali quelle dei Cittadini. Certo che si deve tenere pulito (non solo dalla neve) l'ingresso privato di casa nostra ma sino a che livello di "sforzo". Siamo un Paese che sarà per molto tempo impegnato in emergenze che richiedono le "pronte" attenzioni delle istituzioni, a favore dei Cittadini tutti, quindi la si deve smettere di scaricare sul Cittadino responsabilità non di sua competenza. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un accanimento progressivo a carico dei Cittadini, dalle tasse eccessive perché il debito cresce, sino a ritenere un "dono" il fatto che l'esercito sia impegnato nel soccorrere in caso catastrofi. Dovrà essere la norma d'ora in poi, siamo un paese allo sfascio idrogeologico e non possiamo scaricare solo sui Vigili del Fuoco e (da un po' di tempo in qua) sulla Protezione Civile la soluzione di problemi di TUTTI. Lo Stato deve stare vicino al Cittadino disastrato, con tutte le sue forze nessuna esclusa. Ciaooo
   
Da FB del 18 gennaio 2017 ore 16,50
5715  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Lo scudo di Draghi è il ministro del Tesoro europeo inserito:: Gennaio 17, 2017, 05:41:44 pm
Lo scudo di Draghi è il ministro del Tesoro europeo
Il presidente Bce vede lucidamente i pericoli di un'Europa di governicchi in una società globale. Un solo ministro del Tesoro dell'Eurozona sarebbe un passo importante verso la federazione

Di EUGENIO SCALFARI
15 gennaio 2017

L'euro è sotto attacco. Non soltanto del populismo che alligna in Europa sempre di più, ma anche di alcune banche d'affari ed enti speculativi ed anche di economisti, studiosi attenti alle tendenze finanziarie e monetarie nonché, beninteso, agli interessi privati ed anche pubblici che non pensano all'interesse comune europeo ma ad una forza nazionalistica sempre più rigorosa in una confederazione che rifiuta di costruire un continente federale.

Se prendiamo come esempio il più grande e importante degli Stati federali, gli Stati Uniti d'America, il dollaro non è mai stato in discussione. Dopo la fine dell'ultima guerra mondiale un dibattito ci fu su due tematiche in qualche modo connesse tra loro: quale doveva essere il rapporto tra il dollaro e l'oro, che naturalmente avrebbe influito su tutte le altre monete, e l'opportunità o meno di mantenere il dollaro come principale strumento internazionale, agganciandone il tasso di cambio ad un "pool" di monete di altri Stati di grande importanza politica, economica, territoriale, in possesso di materie prime; insomma un'anticipazione di una società globale che vide la luce quarant'anni dopo sotto la spinta delle nuove tecnologie ed anche dell'immenso esercito dei popoli poveri che fuggono la miseria e le sanguinarie dittature che li opprimono rendendo necessaria la fuga verso altri continenti più ricchi e meno sanguinari. Insomma più civili, ancorché non sempre (anzi quasi mai) favorevoli all'invasione degli emigrati.

La conferenza si svolse a Bretton Woods su un sistema monetario da costruire e ferma restando l'importanza del dollaro come strumento operativo; l'ipotesi sostenuta principalmente da John Maynard Keynes era una moneta contabile unica il cui tasso di cambio veniva fissato dalla media tra i tassi delle monete dei principali Paesi del mondo. Quella moneta il cui nome sarebbe stato Bancor avrebbe rappresentato una sorta di ancoraggio di tutti i Paesi aderenti a questa sorta di club, le cui rispettive monete non potevano, anzi non dovevano allontanarsi dai tassi stabiliti una volta per tutte tra ciascuna di loro e il Bancor, potendo tuttavia oscillare entro una fascia del 4 o del 6 per cento senza subire alcuna penalità sulle rispettive economie.

Qualche cosa di simile era avvenuta tra le varie monete europee e fu definita una sorta di clearing multilaterale, con oscillazioni consentite entro il 6 per cento e con l'obbligo di saldare ogni mese i debiti eventuali al suddetto club chiamato Ecu. Il pagamento avveniva in dollari. Questo clearing multilaterale durò fino al 1997 quando i Paesi europei (non tutti ma i principali) decisero di adottare la moneta unica, cioè l'euro. I Paesi membri dell'Unione europea, politica ed economica, erano 28 fino a quando il Regno Unito di Gran Bretagna ne è uscito e dunque gli Stati sono diventati 27, dei quali 19, i principali, hanno aderito all'euro. Tra di essi il principale è la Germania non soltanto per la sua struttura economica e per la consistenza della sua popolazione, ma anche perché l'euro, di fatto, non è che il cambiamento di nome del marco tedesco che era la moneta di riferimento sulla quale furono fissati i vari cambi con le altre monete. Queste sono le premesse storiche della crisi monetaria attuale. Una crisi, o meglio una crescente sfiducia nella moneta comune, nasce naturalmente da ragioni politiche ed anche da malanni economici e sociali che ciascuno dei 19 Paesi europei sta attraversando. Ritirarsi dall'euro, magari soltanto per qualche anno, consentirebbe soprattutto di essere sottratti a quella sorta di protettorato tedesco che stabilisce la politica economica e le regole che gli Stati debbono rispettare, i sistemi di controllo e le relative penalizzazioni nei casi di inadempienza. Ma sarebbe anche la fine di un sogno che non è un'utopia ma deve, dovrebbe, diventare una realtà e cioè gli Stati Uniti d'Europa, senza la quale (l'ho scritto infinite volte ma l'ascolto dei vari governi è nullo su questo tema) le nazioni europee in una società sempre più globale diventeranno scialuppe di salvataggio o gommoni o gondole per turisti che vengono a godersi le tante bellezze d'arte e di panorama dei vari Paesi europei che in una storia di almeno tremila anni sono stati la culla della civiltà del mondo ad occidente della Cina, dell'India e dell'Africa centrale.

***

C'è una sola eccezione al nazionalismo e al populismo che hanno impedito al sogno di Ventotene di diventare realtà, ed è la Banca centrale europea e il suo presidente Mario Draghi. È italiano e prima di essere prescelto per dirigere l'Istituto che ha sede a Francoforte è stato governatore della Banca d'Italia, ma la sua nazionalità originaria non ha minimamente influenzato il suo lavoro; l'Italia è una componente importante dell'Unione europea e come tale interessa la Bce non meno ma nemmeno più degli altri Paesi europei.

La Bce fu concepita nel 1997. Era evidente che una confederazione che aveva deciso di chiamarsi Unione senza ancora esserlo, aveva bisogno di trasformare l'Ecu, cioè il clearing multilaterale, in una Banca centrale; ma in realtà quella decisione fu presa da Mitterrand e da Kohl come contrappeso politico all'unificazione della Germania Est (filosovietica) con la Germania Ovest, ovviamente europeista. La Francia e tutti i Paesi dell'Unione temevano molto un'eventuale tendenza filosovietica della Germania, della quale c'erano già stati alcuni preoccupanti segnali. La creazione d'una Banca centrale e d'una reale unione europea furono il prezzo che la Germania dovette accettare per poter portare fin quasi all'Elba i propri confini e per annettersi milioni di persone di lingua tedesca ampiamente addestrate alla vita e al lavoro industriale: una ricchezza e un aumento di popolazione che fece della Germania il primo paese d'Europa.

La Francia mitterrandiana non era certo (e tuttora non è) protesa verso un'Europa federale; la "grandeur" francese è sempre stata un ostacolo alla federazione; ma un'Europa nell'orbita sovietica sarebbe stata un pericolo e una diminuzione del potere politico della Francia e Mitterrand agì di conseguenza.

Va anche aggiunto che timori analoghi aveva anche il cancelliere tedesco: Kohl era europeista, il suo partito democristiano, la Cdu, non era affatto propenso ad eventuali politiche di apertura verso l'Est, alla quale guardavano invece con simpatia il partito socialdemocratico e soprattutto le sue frange di sinistra comunista. Kohl perciò si schierò con Mitterrand e fu anche confermato in questo atteggiamento dall'immediata adesione dell'Italia di Prodi e soprattutto di Ciampi che era allora il ministro del Tesoro e fu quello che trattò con Kohl sulle modalità e il tasso di cambio tra la lira e il nascente euro. Questa è la storia dell'euro, che soppiantò le altre monete dei diciannove Paesi europei ed ebbe ovviamente una Banca centrale della quale le Banche centrali nazionali costituiscono il suo consiglio.

La Bce è la sola istituzione europea sostanzialmente indipendente rispetto alle altre. È vero che i suoi azionisti sono i 19 Paesi che aderiscono alla moneta euro, ma è anche vero che non si tratta di un vero e proprio consiglio di amministrazione. Draghi non ha sopra o accanto a sé un solo ministro del Tesoro, ma ne ha 19, il che in una materia squisitamente tecnica significa nessuno.

Eppure è proprio Draghi ad avere chiesto con insistenza che sia creato un ministro del Tesoro unico dell'Eurozona. È vero che spetterebbe al Consiglio dei capi di governo dell'Eurozona sceglierlo e nominarlo, ma qui la loro area di guida e di controllo cessa, la Banca centrale può rispondere ad uno ma non a diciannove. Eppure quell'uno, che ridurrebbe in qualche modo il potere di Draghi sulla politica monetaria dell'Eurozona e non soltanto, è proprio lui che lo vuole, appoggiato in questo anche da Renzi quando era capo del governo. Come mai?

La riposta è semplice: Draghi è un favorevole assertore dell'Europa federale e non soltanto confederata, e sa che un solo ministro del Tesoro dell'Eurozona sarebbe un passo importante verso la federazione europea. Draghi vede lucidamente i pericoli di un'Europa di governicchi in una società globale, non sente ovviamente sentimenti nazionalistici ed è perciò il più franco e sincero sostenitore degli Stati Uniti d'Europa. Purtroppo con pochi alleati. L'Italia di Renzi lo è stata e anche quella di Gentiloni lo è e lo è stata quella di Napolitano, di Ciampi, di Prodi. Fine: non lo è Grillo, non lo è Salvini. Berlusconi lo è a mezza bocca, in realtà del tema Europa non gliene importa niente. Se la sinistra italiana prendesse sul serio questo tema come dovrebbe, sarebbe una forza politica non trascurabile, ma è occupata soltanto dalle sue beghe interne di partito; è europeista ma non ha mai mosso un dito per dimostrarlo. Non così il suo leader: Renzi in Europa ha dato il meglio di sé e se avesse agito con altrettanta lucidità sul piano italiano non si sarebbe cacciato nel mare di guai che sta e stiamo attraversando.

È incredibile come in tre anni sia venuto meno un leader che sembrava poter governare con carisma e con efficacia (che è più importante del carisma). Ce la farà a riprender quota? Avrebbe fatto meglio a proseguire il suo governo e, visto che rifiutò l'offerta in quel senso del presidente Mattarella, farebbe bene ad occuparsi del partito, dell'Europa ed attendere che Gentiloni conduca il governo fino alla fine naturale della legislatura; a quel punto potrebbe ripresentarsi al Paese con una legge elettorale appropriata.

Pubblichiamo qui a fianco una sua ampia intervista con Ezio Mauro. È interessante, le domande di Ezio sono tutte appropriate come sempre. Le risposte di Renzi altrettanto precise; a sentirlo parla del futuro suo e di quello del Paese. Si tira un respiro di sollievo, ma sul tema delle elezioni subito, e con quale legge elettorale, c'è il silenzio pressoché assoluto. E quindi altrettanto assoluto è il mio giudizio sulla sua figura di statista. A me sembra piuttosto essere un perfetto giocatore di roulette. Spero ovviamente di sbagliare: non tanto nell'interesse di Renzi ma in quello del Paese.
 
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15 gennaio 2017

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