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4666  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / GIOVANNI ORSINA. La rivoluzione che serve alla sinistra inserito:: Luglio 18, 2017, 04:30:48 pm
La rivoluzione che serve alla sinistra

Pubblicato il 18/07/2017 - Ultima modifica il 18/07/2017 alle ore 07:00

GIOVANNI ORSINA

La sinistra italiana ha tutta l’aria di star sulla soglia d’un rivolgimento radicale. La svolta potrebbe forse avvenire prima delle prossime elezioni, o magari dopo, né si sa bene dove porterà. Mi sembra tuttavia difficile che l’assetto esistente possa durare ancora a lungo.

Le ragioni dell’instabilità corrono lungo tre cerchi concentrici: l’ideologia, il partito, il leader. Il cerchio più largo non è soltanto italiano: la sinistra è in difficoltà pressoché ovunque, perché sono venute meno le parole d’ordine con le quali, fra gli Anni Settanta e i Novanta del secolo scorso, aveva risposto al tramonto della tradizione progressista novecentesca, della classe operaia e del welfare state. A voler molto semplificare, quelle parole d’ordine sono due, cosmopolitismo e diritti. E non funzionano più perché è entrata in crisi l’antropologia sulla quale si fondano. Un’antropologia ottimistica fatta di tolleranza, solidarietà, fiducia nel prossimo e nel futuro, identità pacifiche e compatibili l’una con l’altra. 
 
Per almeno un trentennio le culture di segno progressista hanno cercato d’imporre questo modello antropologico come l’unico eticamente legittimo, e nel contempo si sono illuse che avesse ormai trionfato. I nostri tempi si stanno però incaricando di dimostrare che la vittoria di quel modello, se mai c’è stata, è stata ben più precaria e provvisoria di quanto non si pensasse o sperasse. E le élite progressiste sono di colpo messe di fronte a una realtà che non soltanto trovano ripugnante, ma da lungo tempo credevano fosse del tutto superata, e che non sanno quindi come affrontare. L’evidente contraddizione politica d’un Partito democratico che per un verso vuole aiutare i migranti «in casa loro», per un altro concedere lo ius soli – tanto per prendere un esempio –, è figlia anche di questo stato confusionale.
 
Ma le difficoltà del Pd – per venire al secondo dei cerchi concentrici – non sono soltanto ideologiche, e hanno profili specificamente italiani. Almeno tre. Il primo è la sua storica fragilità identitaria, dipendente per tanti versi dal peso della tradizione post-comunista, «croce e delizia» – ossia portatrice d’un saldissimo ancoraggio organizzativo, territoriale e morale, ma irrimediabilmente minoritaria. È una contraddizione che affligge la sinistra italiana fin dal 1994, che può spiegare molto della sua storia dell’ultimo ventennio, e che ha un peso ancora oggi – pure se siamo ormai giunti alla stretta finale, con ogni probabilità, il post-comunismo essendo sulla via del tramonto. Il secondo profilo specificamente italiano della crisi del Pd, e della sinistra in generale, è rappresentato da un’antica tradizione di frazionismo e litigiosità. Il logoramento evidente d’un partito che ha governato per anni il Paese, la maggioranza delle Regioni e dei Comuni – infine – è il terzo profilo.
 
Facendo forza sulla leadership (terzo cerchio), Renzi ha tentato di superare di slancio la crisi ideologica e di «sfondare» al centro, anche se lo ha fatto in maniera confusa e troppo palesemente strumentale. Ha cercato poi di rimediare all’incertezza identitaria e al frazionismo. Malgrado il disegno avesse indubbiamente un senso, tuttavia, Renzi ha fallito – col contributo determinante, per altro, del terzo fattore che ho menzionato sopra, il logoramento del potere. E, a più di sette mesi dal 4 dicembre, il suo fallimento appare con sempre maggiore chiarezza come un punto di non ritorno.
 
Nel non volerlo considerare tale, nel vagheggiare la rivincita, nella bulimia comunicativa, il segretario democratico pare comportarsi come quegli innamorati che, piantati dalla fidanzata, non si danno per vinti, implorano e insistono. E nel loro affanno crescente non si accorgono che stanno rendendo sempre più palesi proprio quei difetti per i quali la fidanzata li ha lasciati, e che la poveretta si va esasperando sempre di più. Non vedono insomma – o non se ne curano – che il loro comportamento non risolve e compone più, ma accresce il caos.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/18/cultura/opinioni/editoriali/la-rivoluzione-che-serve-alla-sinistra-UBQDn9C6xurkrpMT18gDqL/pagina.html
4667  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Alessandro De Angelis. Teste mozzate e Renzi: Pisapia agita i "compagni" inserito:: Luglio 18, 2017, 04:25:19 pm
POLITICA

Teste mozzate e Renzi: Pisapia agita i "compagni"
Rivolta dentro Mdp sulla proposta di rotazione dei mandati: "Questo è renzismo". In alto mare cabina di regia

 17/07/2017 16:49 CEST | Aggiornato 10 ore fa

Alessandro De Angelis Politics reporter, L'Huffington Post

Ritornano ombre, veleni e sospetti su Giuliano Pisapia tra i suoi "compagni" di viaggio della Ditta che fu. Ombre, veleni e sospetti alimentati da un paio di uscite dell'ex sindaco suonate come qualcosa di più di voci dal sen fuggite: il "non mi candido", il principio della "rotazione", ovvero il limite di due mandati nella scelta delle candidature. Le riunioni di Articolo 1 si sono trasformate, qualche giorno fa, in uno sfogatoio. In parecchi hanno evocato "la vecchia cultura piccolo borghese della destra italiana che considera la politica un lavoro sporco". Enrico Rossi è sbottato: "Il principio della rotazione è mutuato dai Cinque Stelle. È un principio giacobino teorizzato da Marat che risolveva il problema indicando ogni giorno le teste da tagliare".

In questo sfogo, le teste mozzate sarebbero, ça va sans dire, quella del perfido e ingombrante D'Alema ma anche quella del buon Bersani, entrambi con diverse legislature alle spalle. E chissà se il modello, si sono chiesti in parecchi, sia Marat o se sia assai più vicino: la Leopolda. "Nella filosofia questo è un approccio renziano... La rottamazione...". Così l'ha interpretata Susanna Camusso parlando venerdì sera all'ambasciata francese con qualche amico, anche un po' contrariata. Perché davvero è apparsa assai bizzarra la posizione di uno già investito del ruolo di leader che evita di confrontarsi col voto popolare, magari con tanto di retorica su privilegi e poltrone a cui rinunciare, e, al tempo stesso, propone regole rottamatorie, come il limite dei due mandati. Marco Furfaro, braccio destro di Pisapia, spiega all'HuffPost: "Tra rottamazione e restaurazione, noi abbiamo proposto la rotazione, per favorire un mix di esperienza e rinnovamento. Le primarie chieste da D'Alema? Rischiano di essere meccanismi che favoriscono il ceto politico. Se ad esempio vogliamo candidare il migliore ricercatore d'Italia, con le primarie mica passa".

Ecco, la questione di fondo che ha poco a che fare con carattere e umore del leader riluttante, come lo ha definito Gad Lerner. Pisapia ha chiesto agli altri in prospettiva di sciogliersi e cedere sovranità nell'ambito di un processo più ampio e gli altri gli hanno fatto capire che non se ne parla; Pisapia ha alzato un muro verso Sinistra Italiana e Speranza sta lavorando per una cabina di regia con dentro i vari pezzi della sinistra, compresa Sinistra Italiana; Pisapia vorrebbe applicare a tutti, a partire da sé il limite dei due mandati, gli altri pensano a una forma di primarie dal basso; Pisapia non ha detto una parola sul governo, mentre gli altri si preparano a un autunno caldo: "Per noi – dice Arturo Scotto all'HuffPost - è finita. E se qualcuno ha dubbi, la vicenda dello ius soli li dirada. Alfano non è d'accordo e si blocca lo ius soli. Mentre non ci fu analoga sensibilità verso i partner della maggioranza quando si reintrodussero i voucher in barba a chi aveva firmato per i referendum della Cgil. Gentiloni si cerchi altrove i voti".

E si capisce perché, su questi presupposti, la famosa cabina di regia che dovrebbe nascere in questi giorni per la costruzione del famoso "processo unitario a sinistra" è un complicato work in progress di cui si capirà qualcosa quando mercoledì si vedranno, a Roma, Roberto Speranza e Giuliano Pisapia. Perché, al fondo, non è solo questione di frasi, ma di compatibilità e visione politica. La verità è che, in cuor suo Pisapia, non ha rinunciato ancora al "modello Milano", una coalizione di centrosinistra, vera e con tanto di primarie. E razionalmente, oltre che col cuore, pensa che il discorso non sia chiuso. Infastidito da questo chiacchiericcio che lo dipinge come pronto a tornare con Renzi, simbolo di una sinistra potabile, rispetto alla sinistra comunista e baffuta, l'ex sindaco pensa però che tutto è ancora possibile. E che, dopo la elezioni siciliane, qualcosa nel Pd accadrà se, come annunciato, sarà una debacle per il centrosinistra. E che, ciò che oggi appare chiuso, si potrà riaprire. Ovvero una nuova trattativa di legge elettorale, su cui quella volpe di Berlusconi ha già dato segnali a quanti nel Pd sono interessati proponendo una disponibilità a un modello di coalizione.

Dopo piazza Santi Apostoli, dove sembrava iniziato un percorso irreversibile, Pisapia ha confidato a più di un amico il suo disappunto. Perché aveva chiesto una piazza senza bandiere di partito, e invece ha visto sventolare un mare di bandiere rosse, portate con orgoglio dai militanti di Articolo 1. Un atteggiamento piaciuto assai poco ai suoi compagni di viaggio, giudicato irrispettoso verso gente che ha viaggiato in pullman anche sei, sette ore, per applaudirlo come leader. E anche ostile, snobisticamente ostile, come spesso accaduto nel giro di Lotta Continua milanese, verso la "burocrazia comunista".

In parecchi si chiedono, dentro Articolo 1, in un clima che non ha l'orgoglio e l'entusiasmo di un nuovo inizio se sia adatto a guidare, se lo voglia fare fino in fondo, o se alla fine si disimpegnerà. In parecchi, tra i renziani, hanno visto le sue ultime uscite come uno smarcamento verso D'Alema, ma anche verso Bersani perché anche da quelle parti se uno dice "non mi candido" dopo aver chiuso una manifestazione è chiaro che sta prendendo le distanze: "Con Pisapia - dice Matteo Richetti - dialogo e confronto tutta la vita, con D'Alema e chi ci spara addosso tutti i giorni no".

E allora il punto è questo: si è capito che Pisapia farebbe il "nuovo Prodi", anche con la benedizione del vecchio Prof e con i preziosi consigli di Lerner. Ma finora, come nota Richetti, non si è mai posto come leader alternativo a Renzi, pronto a sfidarlo in tv, a fargli una campagna contro, perché un'alleanza col Pd continua a metterla in conto prima del voto, come ci sperano – a questo schema - Franceschini, Orlando, lo stesso Romano Prodi. Se poi invece lo schema fosse Leopolda contro bandiere rosse, "Renzi contro gli sconfitti da Renzi", sempre per dirla con i suoi consiglieri e ideologi, beh allora sull'irreversibilità del suo impegno in pochi sono disposti a scommettere un euro. In fondo potrà dire, dopo quella dichiarazione, che in campo non è mai sceso, non essendosi candidato.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/07/17/teste-mozzate-e-renzi-pisapia-agita-i-compagni_a_23033857/?utm_hp_ref=it-homepage
4668  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / GIORDANO STABILE. I curdi siriani: Al-Baghdadi è ancora vivo, si trova a Raqqa inserito:: Luglio 18, 2017, 04:23:47 pm
I curdi siriani: Al-Baghdadi è ancora vivo, si trova a Raqqa
Anche gli Usa dubitano della morte del “califfo” dell’Isis, mentre Iran e Russia confermano l’uccisione
Pubblicato il 17/07/2017 - Ultima modifica il 17/07/2017 alle ore 16:51

GIORDANO STABILE
INVIATO A BEIRUT

Continua il rimpallo di notizie sulla sorte di Abu Bakr al-Baghdadi. Dopo che un mese fa il ministero della Difesa russo aveva detto che era stato ucciso vicino a Raqqa, e dopo che i media sciiti iracheni avevano confermato la morte e aggiunto che anche l’Isis l’aveva ammessa, oggi i servizi dei curdi siriani si dicono invece certi “al 99 per cento” che il leader dell’Isis è ancora vivo.

I dubbi americani 
Già ieri i servizi segreti iracheni avevano ridimensionato le certezze sull’eliminazione dell’autoproclamato califfo, mentre quelli americani erano sempre stati molto scettici. Ora le forze curde siriane impegnate nella battaglia contro lo Stato islamico a Raqqa, si dicono convinte che il capo dell’Isis non è morto e che si nasconde nei pressi di Raqqa, “capitale’ “del califfato in Siria, ora assediata. 
 
La capitale assediata 
“Sono sicuro al 99% che il capo dell’Isis, il terrorista che si fa chiamare Abu Bakr al-Baghdadi sia ancora in vita e che si trovi in una zona a sud di Raqqa”, ha dichiarato Lahur Talabani, “un alto funzionario curdo nella lotta al terrorismo” come riportano diversi media arabi tra i quali Sky News Arabyyi, una tv satellitare basta ad Abu Dhabi, sul modello della saudita Al-Arabiya.
 
Battaglia di propaganda 
Il rimpallo di notizie si lega però anche alla guerra propagandistica che oppone i due principali fronti impegnati nella lotta all’Isis, in concorrenza fra loro. Il fronte formato da Bashar al-Assad, Iran, milizie sciite irachene e Russia tende a confermare la morte di Al-Baghdadi perché sarebbe opera di una raid russo, quindi merito loro. I media filo-sciiti alimentano questo filone. Il fronte formato da parte del governo iracheno, Paesi sunniti del Golfo, Stati Uniti tende a ridimensionarla.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/17/esteri/i-curdi-siriani-albaghdadi-ancora-vivo-si-trova-a-raqqa-SaZzgRv6VIoBd4WoQffHJN/pagina.html
4669  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / MATTEO RENZI Il libro "Avanti" ha fatto molto discutere in questi giorni. inserito:: Luglio 18, 2017, 04:21:25 pm
Lunedì 17 luglio 2017
Enews 483

Matteo Renzi
Buona settimana, amici delle E-News.

Avanti, insieme.
Il libro "Avanti" ha fatto molto discutere in questi giorni. Mi fa piacere. Un libro in fin dei conti serve a questo, a farti pensare: le polemiche lasciano il tempo che trovano, le idee entrano in circolo.
In "Avanti" ci sono tre cose:

1. Il racconto di alcuni fatti. Qualcuno mi ha scritto: "Ma perché hai ricordato il passato, Matteo? Adesso non serviva riaprire la pagina del Patto del Nazareno o della staffetta di febbraio 2014 o della nottata con Tsipras al Consiglio Europeo o delle banche". Non ho alcun interesse a riaprire le polemiche del passato. In un libro, tuttavia, la verità va scritta: i fatti sono fatti. La verità di ciò che è accaduto davvero deve essere salvaguardata, specie in questa epoca di post-verità. Poi ognuno si fa liberamente la sua opinione.

2. Le proposte per il futuro. Possiamo essere d'accordo o meno sull'assegno universale per i figli come sul raddoppio dei fondi delle periferie. Possiamo essere tifosi dell'austerity o della flessibilità. Ma quel che è certo è che adesso finalmente si discute di idee concrete. E per questo alla ripresa autunnale il PD organizzerà la propria conferenza programmatica, come proposta da tanti a cominciare da Andrea Orlando, nei giorni che vanno dal 12 al 15 ottobre. Proprio nel decennale della fondazione del PD. Insieme a Maurizio Martina e Tommaso Nannicini chiederemo a un piccolo team di cinque persone di coordinare i lavori della Conferenza perché sia davvero un'occasione utile di confronto sul futuro del Paese. Ci sta a cuore il futuro dell'Italia, non il futuro delle singole carriere personali.

3. La condivisione delle emozioni. Ve l'ho scritto nella scorsa enews. Il libro è pieno di impressioni personali, di emozioni anche intime. Perché fanno politica le persone in carne e ossa e non gli algoritmi. Fanno politica coloro che vivono di sangue e passione e non gli algidi esecutori di un programma burocratico. E quindi ho inserito molti momenti personali. Mostrare l'anima e il cuore del politico costa molto in termini personali, ma forse è giusto e necessario.

Su quest'ultimo punto - quello personale, che è anche il meno analizzato per adesso dai commenti - torneremo in futuro. Lasciatemi però segnalare un bellissimo articolo di Massimo Recalcati su Repubblica di oggi. Per chi di voi ha tempo e modo di leggerlo, mi farebbe piacere conoscere i vostri commenti: matteo@matteorenzi.it

Per parlare del libro e dei suoi contenuti sarò:

martedì 18 a Napoli, alle 16 al Mattino (dove parleremo anche di Bagnoli, di Scampia, di Pompei e della Reggia di Caserta e di molto altro)
mercoledì 19 a Milano, alle 18.30 al Teatro Parenti
giovedì 20 a Roma, alle 18.30 alla Libreria Nuova Europa i Granai, in Via Rigamonti 100
venerdì 21 a Firenze, in un posto bellissimo. Talmente bello che ancora non abbiamo deciso dove. Ma non temete, sarà davvero bellissimo. Altrimenti non sarebbe Firenze:-)
Nel frattempo tutti i giorni arriva sul telefonino di chi lo vuole un piccolo giornalino chiamato "Democratica": otto pagine di notizie utili, riflessioni, link, commenti.
La forza dei fatti e delle idee contro chi insegue scie chimiche e polemiche.
I dati dell'export, le procedure per il bonus asili nido, i dati delle pensioni, domani i numeri dell'edilizia scolastica (incredibili!). Lo inviamo tutti i giorni a chi è interessato, via sms, whatsapp, email. Per riceverlo basta mandare un messaggio al 3486409037

Stare tenacemente e allegramente dalla parte dei contenuti, delle idee, delle proposte. Lasciando ad altri il presidio delle polemiche quotidiane. Questo è il nostro compito, proviamoci insieme.

Un sorriso,
Matteo

blog.matteorenzi.it
matteo@matteorenzi.it

Pensierino della sera. Tantissimi i campioni sportivi di questa settimana che mi piacerebbe portare alla vostra attenzione nel pensierino della sera. A cominciare, ovviamente, da Roger Federer. Lo vedi giocare e pensi: e chi lo rottama quello lì? Campione senza tempo, strepitoso. Ho pensato però che il vero campione della settimana si chiama Valerio. Si tratta di un atleta paralimpico di nuoto, affetto dalla sindrome di Down. Mercoledì scorso a Sabaudia ha salvato una bambina di 10 anni che rischiava di annegare. Penso che l'Italia debba essere orgogliosa di concittadini come Valerio. Nel mio piccolo, io sono orgoglioso di essere concittadino di questo campione.
4670  Forum Pubblico / PROTAGONISTI (news varie su loro). / Addio a LIU XIABO, il Nobel dissidente. (Un Maestro di civiltà democratica) inserito:: Luglio 16, 2017, 05:29:13 pm

Addio a Liu Xiabo, il Nobel dissidente
L’attivista cinese è morto ieri in ospedale a 61 anni. Da Tiananmen a Charta ’08 ha sfidato il regime chiedendo riforme democratiche. Il Comitato di Oslo: Pechino è responsabile per la sua fine

Pubblicato il 14/07/2017
Francesco Radicioni
Pechino

Tutta la vita di Liu Xiaobo è stata quella di un uomo in rivolta. Intellettuale, attivista democratico e premio Nobel per la Pace. Nel dicembre 2008, quando la polizia va ad arrestarlo per l’ultima volta, Liu sta lavorando a Charta ’08. Solo due giorni dopo sarebbe stato reso pubblico questo manifesto politico che - fin dal nome - trae ispirazione da Charta ’77, il documento dei dissidenti nella Cecoslovacchia sotto l’influenza sovietica. «La Cina deve andare verso un sistema di libertà, di democrazia, di stato di diritto». 

Centinaia di accademici e attivisti cinesi hanno firmato il documento in cui si chiede a Pechino di garantire quei diritti che nella Repubblica Popolare rimangono tabù: fine del monopolio politico del Partito Comunista, separazione dei poteri, libertà di espressione e una riforma costituzionale in senso federale. Per le autorità cinesi è troppo. Il giorno di Natale 2009 - al termine di un processo che dura una manciata di ore - Liu Xiaobo viene condannato a 11 anni di carcere con l’accusa di «incitamento alla sovversione dei poteri dello Stato». Nel 2010 il comitato di Oslo assegna a Liu Xiaobo il premio Nobel per la Pace: un riconoscimento per la «lunga e non-violenta battaglia per i diritti umani fondamentali in Cina». L’ira di Pechino si abbatte sul Nobel. Definisce il premio a Liu Xiaobo «un grave errore» e annuncia ripercussioni nelle relazioni con la Norvegia. A monito per le altre capitali europee, i rapporti con Oslo vengono congelati per alcuni anni. 

Nonostante gli appelli internazionali, la Cina non consente a Liu Xiaobo di uscire dal carcere neanche per andare a ritirare il premio: alla cerimonia di consegna l’attivista è rappresentato da una sedia vuota. Intanto, a Pechino, finisce agli arresti domiciliari Liu Xia, sua moglie, sebbene nei suoi confronti non siano mai state mosse delle accuse formali. 

Le radici dell’attivismo democratico di Liu Xiaobo devono però essere cercate indietro nel tempo. Pechino, metà degli Anni 80. Liu è un giovane docente di letteratura all’Università Normale in un periodo in cui il mondo accademico cinese ribolle di dibattiti e idee. Quel professore è capace d’incantare i ventenni perché parla con audacia e passione di politica, in una Cina da poco uscita dalla Rivoluzione culturale di Mao. È polarizzante. Una volta disse che «le principali guerre combattute dagli Stati Uniti sono tutte eticamente difendibili». Nel conflitto in Medioriente sceglie di stare dalla parte di Israele. 

Nella primavera del 1989 Liu sta facendo ricerca a New York, quando a Pechino gli studenti marciano su piazza Tienanmen per chiedere democrazia. Il professore non perde tempo e fa rientro a Pechino per partecipare alle manifestazioni. Dopo l’imposizione della legge marziale, tenta una mediazione in extremis con l’esercito per consentire agli studenti di lasciare la piazza prima che - nella notte tra il 3 e 4 giugno 1989 - scatti la repressione. «Se non fosse stato per Liu e per pochi altri - ricorda la giornalista Gao Yu - quella notte il bagno di sangue avrebbe avuto dimensioni maggiori».

Per il ruolo avuto nella primavera di Pechino, le autorità condannano Liu Xiaobo a quasi due anni di carcere per «propaganda contro-rivoluzionaria». Quando esce di prigione l’Australia gli offre asilo politico. Liu rifiuta di lasciare il Paese, per continuare la sua battaglia per la democrazia in Cina. 

È nei circoli degli artisti della Pechino degli Anni 80 che, oltre alla politica, Liu Xiaobo incontra la compagna di tutta una vita. Anche Liu Xia è un’intellettuale: poetessa e con una solida famiglia alle spalle. Nel 1996 vanno a vivere insieme. Pochi mesi dopo per Liu Xiaobo si aprono le porte di un campo di lavoro per alcuni suoi scritti su Taiwan. L’amore tra la poetessa e il «nemico dello Stato» resiste e la coppia si sposa mentre Liu Xiaobo sta scontando questa nuova condanna a tre anni. «Xia è stata provata - fisicamente ed emotivamente - da questi anni trascorsi lontano dal marito e sotto l’invadente presenza della polizia cinese», raccontano gli amici. «Questa è però la vita che Liu Xiaobo ha continuato a scegliere, anche quando la paura e la corsa al denaro riduceva al silenzio un’intera generazione di attivisti democratici in Cina». Il 26 giugno era stato scarcerato per permetterne le cure in ospedale. Nei giorni scorsi Usa e Germania aveva fatto un appello per permettergli di essere curato all’estero, ma Pechino non ha ceduto. Lo avevano anche visitato due dottori stranieri.

La notizia della sua morte ha infiammato i social network. I leader del movimento di Tiananmen hanno duramente condannato il governo cinese: «Spero che il mondo ricordi per sempre come il partito comunista cinese, questo nuovo gruppo nazista, abbia brutalmente torturato a morte Liu Xiaobo», ha scritto su Facebook, uno dei leader del movimento studentesco del 1989, oggi in esilio negli Usa. Anche il Comitato per il Nobel ha puntato il dito contro Pechino: «Il governo cinese ha la pesante responsabilità della morte prematura di Liu». Il segretario di Stato Usa Tillerson ha invece chiesto di liberare la vedova Xia «consentendole di lasciare la Cina, un desiderio che ha già espresso».

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4671  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / UGO MAGRI Berlusconi ferma la campagna acquisti perché vuole evitare il voto... inserito:: Luglio 16, 2017, 05:26:46 pm

Berlusconi ferma la campagna acquisti perché vuole evitare il voto anticipato
Indebolendo i verdiniani cadrebbe anche il governo, Silvio non vuole
Berlusconi si è accorto che lo “shopping” politico potrebbe ritorcersi contro di lui. Ridurre i margini della maggioranza avrebbe l’effetto di mettere a rischio Gentiloni sullo «ius soli»

Pubblicato il 12/07/2017

Ugo Magri
Roma

La fretta renziana sullo «ius soli» sta suscitando sospetti. Tra i senatori Pd sono in molti a chiedersi che bisogno c’è di ricorrere addirittura a 4 voti di fiducia, uno per ciascuno degli articoli di cui si compone la legge. Tra l’altro, si fa notare, ogni votazione è un rischio perché al Senato i numeri sono incerti. I bersaniani sosterranno la riforma, è vero; però mancheranno i voti di Ap. E in assenza degli alfaniani diventeranno decisivi gli 80 senatori che stanno nel mondo di mezzo, in quella terra di nessuno guidata solo dalle rispettive convenienze. Finora, per conservare più a lungo l’indennità parlamentare e i benefici annessi, questa zona grigia ha sempre sostenuto il governo nei passaggi decisivi. Probabilmente andrà così pure la prossima settimana, quando lo «ius soli» arriverà in aula; o magari no, nessuno se la sente di mettere una mano sul fuoco. Di qui il punto interrogativo sulle reali intenzioni di Renzi: per quale motivo il Pd, anziché scegliere la scorciatoia pericolosa, non imbocca la strada lenta ma più sicura della fiducia su un unico maxi-emendamento? Servirebbe poi un ulteriore passaggio alla Camera, però il governo non rischierebbe di cadere nel burrone.

Forse, ecco il dubbio, qui sta il vero obiettivo di Matteo: esorcizzare la noia della politica provando il brivido dell’azzardo. Se lo «ius soli» passa, bene; se non passa e il governo cade, perfino meglio. In quel caso andremmo a votare sul finire dell’estate o all’inizio di autunno. Per quanto il segretario si sforzi di negarlo pubblicamente, chi gli sta intorno lo descrive tuttora pronto a cogliere l’attimo per tornare alle urne, qualora si presentasse l’occasione. Una certa preoccupazione lambisce gli ambienti istituzionali e gli stessi leader di opposizione. Uno in modo particolare: il Cav.

Colpo di freno 
Berlusconi era stato (e rimane) disposto a votare prima della naturale scadenza, perfino il 24 settembre prossimo, ma chiede in cambio una legge elettorale come piace a lui. L’ha individuata nel sistema tedesco, interamente proporzionale. Gli eviterebbe patti con Salvini, del quale Silvio non sopporta né le idee né le maniere. Il mese scorso era sembrato che l’intesa sul tedesco fosse matura, ma poi si sa come andò. Da allora, sotto sotto, Berlusconi ha continuato a sperare che Renzi cambiasse idea. E per ingannare il tempo si è messo a fare campagna acquisti, in modo da avere un maggior numero di senatori il giorno in cui l’altro dicesse «ok, ripartiamo dal modello germanico». Un paio di verdiniani sono già stati arruolati e ce ne sarebbero altri 8 che non vedono l’ora, metà di Ala e l’altra metà di Alfano. Sennonché adesso Berlusconi si è accorto che lo “shopping” potrebbe ritorcersi contro di lui. Ridurre i margini della maggioranza avrebbe l’effetto di mettere a rischio Gentiloni sullo «jus soli». E se il governo cadesse sugli immigrati, andremmo alle urne con le due leggi elettorali passate al vaglio della Consulta: proprio ciò che il Cav vorrebbe evitare. Di qui lo stop agli acquisti. Gli appuntamenti in agenda sono stati messi tutti in stand by. A ciascuno dei personaggi è stato recapitato il messaggio: «Sei dei nostri, ma per il momento è meglio se rimani lì dove sei». Come sostiene Maurizio Gasparri, «per Forza Italia non sarà in fondo una gran perdita, è gente impresentabile. Anzi, per dirla tutta, siamo alla raccolta differenziata, ecologica certo, ma sempre di quella roba si tratta». 

A complicare le relazioni con Renzi, ha contribuito la ricostruzione nel nuovo libro del segretario Pd, dove si narra che il famoso Patto del Nazareno fallì quando Berlusconi confessò candidamente di aver concordato pure con Massimo D’Alema la candidatura al Colle di Giuliano Amato: per non subire la scelta di quei due, Renzi preferì eleggere Sergio Mattarella. Rivangare la vicenda è come spargere sale su ferite mai del tutto rimarginate. Altro indizio di freddezza: nello scorso weekend, a pranzo con familiari e amici nella sua villa sarda, Berlusconi ha scartato tanto il «piano A» quanto quello «B». Il primo consiste nell’alleanza con Salvini, il secondo punta a un governo con Renzi. L’uomo ha deciso che vincerà da solo, proponendo tagli alle tasse, doppia moneta e separazione carriere dei magistrati (pm e giudici addirittura in palazzi separati). Ha congedato gli ospiti regalando a ciascuno un barattolo di «Marmellata del Presidente», ecologica e autoprodotta. 

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4672  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / MARCO BRESOLIN “Triton è una missione dell’Italia, non tocca a noi cambiare rego inserito:: Luglio 16, 2017, 05:25:05 pm
“Triton è una missione dell’Italia, non tocca a noi cambiare regole”

La portavoce di Frontex: «Coinvolgere gli altri Stati? Complicato». Ma Roma chiede di usare i porti stranieri. Oggi summit a Varsavia

Pubblicato il 11/07/2017

MARCO BRESOLIN
INVIATO A BRUXELLES

«Il piano operativo di Triton dice che l’Italia è il Paese ospitante della missione. Se qualche altro Stato volesse aggiungersi, da un punto di vista teorico la possibilità ci sarebbe. Ma mi pare uno scenario molto complicato, anche perché le attività sono tutte guidate dalla Guardia Costiera Italiana». Dal quartier generale di Frontex, la portavoce dell’agenzia Ue Ewa Moncure ripete concetti che da quelle parti sembrano scontati. «Tutte le attività di Triton - spiega - sono coordinate dalla Guardia Costiera, che decide come distribuire le imbarcazioni. Su tutte le navi e su tutti gli elicotteri che partecipano all’operazione, poi, sono sempre presenti ufficiali italiani. Triton non funziona in modo autonomo, ma è come se operasse per conto dei confini italiani».
 
Oggi però il governo si presenterà alla riunione di Varsavia con i rappresentanti degli altri Paesi portando una richiesta chiara: «Bisogna regionalizzare l’attività di Triton». Regionalizzare vuol dire una cosa ben precisa: consentire alle navi che operano nell’ambito di Triton di attraccare anche in altri porti europei dopo i salvataggi in mare.
 
Soluzione che non sembra trovare sostegno tra gli altri Paesi Ue, in primis Spagna e Francia. E la mossa del governo raccoglie anche le critiche di Antonio Tajani, presidente dell’Europarlamento: «C’è un trattato sottoscritto e il ministero pensa si debba cambiare. Noi prima facciamo gli errori e poi cerchiamo sempre di chiedere di cambiare le cose».
 
«Triton è una delle tante operazioni di Frontex - prosegue Moncure -, non è l’unica. E funziona esattamente come le altre che abbiamo in Spagna (Hera, Indalo e Minerva, ndr) o in Grecia (Poseidon, ndr). Ogni operazione ha un Paese che la ospita, nel caso di Triton è l’Italia. Che quindi si fa carico degli sbarchi. Non c’è niente di speciale in questo: è stato deciso così nel momento in cui è stata avviata», nel 2014.
 
È tutto scritto nero su bianco, nell’Allegato numero 3 del piano operativo di Triton: «Le unità partecipanti (alla missione, ndr) sono autorizzate dall’Italia a sbarcare nel proprio territorio tutte le persone intercettate e arrestate nelle sue acque territoriali, nonché nell’intera area operativa oltre le sue acque territoriali».
 
Nel capoverso successivo viene specificato che le persone salvate devono essere «portate in un posto sicuro in Italia» e che «nessuna delle persone salvate (…), anche fuori dall’area operativa, può essere fatta sbarcare sul territorio di un Paese Terzo».
 
Le righe successive chiariscono meglio una questione che spesso viene messa in discussione, vale a dire il ruolo di Malta: «In caso di un salvataggio nelle acque territoriali e zone contigue di Malta, o per assicurare la salvaguardia delle vite di persone in difficoltà, è possibile sbarcare a Malta». È possibile, dunque. Non obbligatorio.
 
Secondo il piano di Triton, voluto dall’Italia, gli sbarchi «possono» anche avvenire a Malta. Ma come eccezione e solo in determinati casi particolari, non come regola.
 
L’Italia però vuole rimettere in discussione tutto. E chiede quindi di «regionalizzare» gli sbarchi negli altri porti mediterranei dell’Ue. «Non spetta a noi decidere su questo - continua la portavoce di Frontex -, ma serve una discussione tra gli Stati che partecipano a Triton. Vediamo cosa uscirà dalla riunione».
 
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4673  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Nicholas Kristof La crisi nordcoreana in cinque verità inserito:: Luglio 16, 2017, 05:23:35 pm
ASIA

La crisi nordcoreana in cinque verità

    Di Nicholas Kristof 14 luglio 2017

1. La strategia di Trump sulla Corea del Nord sta fallendo. Il presidente Trump aveva detto a gennaio che il test di un missile balistico intercontinentale da parte di Pyongyang «non avverrà»: invece è avvenuto. E non è una cosa di poco conto, perché significa che la Corea del Nord sarà sempre più in grado di colpire gli Stati Uniti con armi nucleari, chimiche e biologiche (non sappiamo se i nordcoreani al momento siano in grado di agganciare a un missile una testata nucleare, ma se non ne sono in grado ora lo saranno presto). Forse i sistemi di difesa antimissile potrebbero fermarli, forse no.

La maggior parte degli esperti giudica improbabile che la Corea del Nord decida di spazzare via Los Angeles solo per il gusto di farlo. Ma «improbabile» non è così rassicurante quando sei nel mirino. E nel caso di un tracollo della Corea del Nord, qualche generale arrabbiato potrebbe decidere che se il regime deve cadere anche gli Stati Uniti dovranno pagare un prezzo.

Escalation e migliaia di morti: ecco perché gli Usa non colpiscono la Corea del Nord

2. Nemmeno la strategia di Obama e quella di Bush hanno funzionato con la Corea del Nord. Nel corso degli anni gli Stati Uniti hanno fatto la faccia cattiva e hanno teso la mano, ma in nessuno dei due casi hanno ottenuto risultati. Il motivo è che la Corea del Nord è determinata a sviluppare una capacità nucleare per garantire la sopravvivenza del regime. E va detto in effetti che la Libia e l’Iraq sono stati rovesciati anche perché non disponevano di un deterrente nucleare: è molto difficile quindi pensare che Kim Jong-un, il leader nordcoreano, rinunci al suo programma nucleare. L’obiettivo statunitense di denuclearizzare la penisola coreana semplicemente non sembra più molto credibile.

La strategia di Clinton nei confronti di Pyongyang però un po’ aveva funzionato. Nel 1994, il presidente Bill Clinton elaborò un «quadro concordato» per bloccare il programma nucleare di Pyongyang. Era un brutto accordo, con gli Stati Uniti che sostanzialmente allungavano a Pyongyang una «mazzetta» fatta di petrolio e un nuovo reattore nucleare in cambio della rinuncia al programma atomico, e nessuna delle due parti lo ha pienamente rispettato (la Corea del Nord imbrogliò di nascosto continuando a lavorare per dotarsi di tecnologie militari basate sull'uranio). Ma la sostanza è che durante gli otto anni della presidenza Clinton Pyongyang non aggiunse neanche una testata nucleare al suo arsenale.

L’accordo era un pasticcio, ma era un risultato molto migliore di quelli ottenuti durante il primo mandato di George W. Bush (quando la Corea del Nord sviluppò per la prima volta armi atomiche) o il secondo mandato di Bush e i due mandati di Obama.

3. Le pressioni cinesi non sono la soluzione magica. Forse si può convincere Pechino a esercitare qualche pressione in più sulla Corea del Nord, e sarebbe utile soprattutto bloccare il flusso di tecnologie avanzate dalla Cina alla Corea del Nord (i missili di Pyongyang sono costruiti in parte con prodotti importati dalla Cina). Ma Pechino non taglierà i ponti con la Corea del Nord perché non vuole che il Paese crolli: vede con timore la prospettiva di avere un alleato militare degli Stati Uniti al suo confine coreano.

Anche se mi sbagliassi e la Cina fosse disposta a esercitare pressioni enormi sulla Corea del Nord, è difficile immaginare che Pyongyang si piegherebbe e rinuncerebbe al suo programma nucleare. La bomba atomica è la priorità per Kim Jong-un. Negli anni 90 ci fu una carestia che uccise oltre mezzo milione di persone, ma nonostante questo il regime non si spostò di un millimetro dalle sue posizioni. Se ulteriori sanzioni provocassero un’altra carestia e la morte di altri nordcoreani, la cosa non turberebbe Kim abbastanza da spingerlo a rinunciare al suo arsenale nucleare.

4. Le opzioni militari per l’Occidente sono disastrose. Uno dei grandi pericoli dei prossimi anni è che Trump si faccia trascinare in una guerra nella penisola coreana. Gli Stati Uniti potrebbero essere tentati di colpire un sito missilistico nordcoreano, e potrebbe succedere effettivamente. Ma la cosa potrebbe indurre Pyongyang a colpire a sua volta la Corea del Sud e il Giappone dando inizio a una nuova guerra di Corea.

Il problema di fondo è che la Corea del Nord ha 21mila pezzi di artiglieria, molti dei quali puntati su Seul, un’area metropolitana da 25 milioni di persone. Altre centinaia di missili potrebbero raggiungere Tokyo e la Corea del Nord ha sempre il dito sul grilletto per paura che gli Stati Uniti cerchino di far fuori i suoi missili e i suoi pezzi di artiglieria. Le devastazioni per Seul e Tokyo, e per l’economia mondiale, sarebbero colossali in qualsiasi conflitto. Alla fine la Corea del Nord verrebbe rapidamente distrutta, ma a un costo spaventoso. Gary Luck, l’ex comandante delle forze americane in Corea del Sud, diceva che il risultato sarebbe un milione di vittime e mille miliardi di dollari di danni.

Corea del Nord lancia missile a lungo raggio. Usa chiedono riunione Onu

5. L’opzione meno disastrosa è la diplomazia. L’obiettivo dovrebbe essere un accordo in cui la Corea del Nord congela i suoi programmi nucleari e missilistici in cambio di un alleggerimento delle sanzioni e un ridimensionamento delle esercitazioni militari nell’area. Non è chiaro se funzionerebbe, ma la Cina sostiene il concetto generale e alcuni esponenti del regime nordcoreano sono sembrati aperti all’idea.

Sicuramente i negoziati si trascinerebbero, la Corea del Nord potrebbe imbrogliare e in ogni caso è una soluzione che non risolverebbe il problema, ma lo rinvierebbe a tempo indefinito. Ma le alternative – la Corea del Nord che acquisisce la capacità di colpire gli Stati Uniti o il rischio di un’altra guerra di Corea – sembrano comunque peggiori.

La difficoltà di fondo delle relazioni internazionali è che ci sono più problemi che soluzioni, e dovremmo concedere alla diplomazia una possibilità.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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4674  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Il voto contro Letta, Speranza ammette: “Ha ragione Renzi” inserito:: Luglio 16, 2017, 05:22:06 pm
Focus
Unità.tv  @unitaonline  · 14 luglio 2017

Il voto contro Letta, Speranza ammette: “Ha ragione Renzi”

In un’intervista rilasciata oggi al Corriere della Sera Roberto Speranza ripercorre i motivi sul perché il Pd decise di chiudere l’esperienza dell’esecutivo guidato da Enrico Letta

In un’intervista rilasciata oggi al Corriere della Sera Roberto Speranza ammette che la ricostruzione sul perché il Pd decise di chiudere l’esperienza dell’esecutivo guidato da Enrico Letta, fatta da Renzi nel suo libro “Avanti”, è assolutamente veritiera. Per il segretario del Pd non fu un complotto ma un’operazione politica alla luce del sole. In questi giorni le versioni su quanto accaduto e le letture si sono sovrapposte sollevando dei leciti dubbi. Inoltre la reazione dello stesso Letta non è stata per nulla pacata. Ora però viene fatta chiarezza. Ecco cosa chiede Monica Guerzoni e cosa risponde Speranza:

Fu lei, Roberto Speranza, a chiedere a Renzi di soffiare la poltrona di Palazzo Chigi a Letta?
«Ebbene sì, noi della allora minoranza del Pd lo costringemmo con tutte le nostre energie, perché lui proprio non ci voleva andare… Non sapevo che nel Pd fossero ai miei ordini. La cosa buffa è che ancora mi accusino di essere anti-renziano!».

 Scherzi a parte, Renzi rifarebbe quella staffetta domani. E lei, voterebbe di nuovo contro Letta in direzione?
«All’inizio del 2014 Renzi aveva una carica innovativa che offriva al Pd la possibilità di essere una diga più alta rispetto ai partiti anti-sistema. Poi le scelte di merito hanno rovesciato quell’energia, al punto che oggi Renzi non è più la diga, ma la garanzia per lo sfondamento delle forze antisistema e delle destre».
Per Letta, Renzi è un caso psicanalitico. Concorda?
«Dal 4 dicembre Renzi sta cercando disperatamente una rivincita e lo hanno capito tutti, perché gli italiani sanno distinguere tra verità e falsità. La mia sofferenza è che questo atteggiamento sui temi del lavoro, della scuola, o delle riforme ha portato alla rottura del Pd e poi del centrosinistra, che oggi è frammentato».
Dichiarazione che di certo non faranno piacere a Pier Luigi Bersani che invece ha sostenuto una versione differente attaccando Renzi: “Ma c’è ancora qualcuno in giro che può credergli a quest’uomo qui?”.

Il passaggio politico, per gli appassionati del genere, che viene ben spiegato qui: Quando Speranza e Cuperlo chiusero l’éra Letta.

Da - http://www.unita.tv/focus/il-voto-contro-letta-speranza-da-ragione-a-renzi/
4675  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / FRANCESCO GRIGNETTI. Lavoro per frenare i trafficanti, il piano di Minniti ... inserito:: Luglio 16, 2017, 05:20:37 pm
Lavoro per frenare i trafficanti, il piano di Minniti per la Libia

Giovedì il ministro a Tripoli per convincere le tribù a fermare i flussi di migranti


Pubblicato il 11/07/2017

FRANCESCO GRIGNETTI
ROMA

Occhi puntati oggi su Varsavia, alla sede centrale di Frontex, l’agenzia europea delle frontiere, dove si vedono i rappresentanti dei governi che partecipano alla missione Triton, nel Mediterraneo centrale. Riunione chiesta dall’Italia. Da parte nostra ci sarà il prefetto Giovanni Pinto, direttore centrale della Polizia delle Frontiere, con il mandato di «ridiscutere» un pilastro della missione, ossia lo sbarco in Italia (e non nei porti di Francia, Spagna o Malta) dei migranti che vengono recuperati sulle navi che operano nell’ambito di Triton.
 
Altra questione, ma intrinsecamente collegata agli sbarchi, sono i salvataggi a cura delle navi umanitarie. È in preparazione un codice di condotta per le Ong a cura dell’Italia, che l’Europa tutta intende fare proprio. E non sarà uno scherzo farlo digerire alle associazioni. Giusto per capire le posizioni, ieri la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha seccamente detto: «Dico no a un codice ad hoc solo sulle Ong. Non bisogna rendere il loro lavoro più complicato. Quel codice rispediamolo al mittente. Dopodiché, se una Ong ha rapporti non trasparenti, se dimostrato, ne risponda davanti alla legge». Infine, un invito ai ministri dell’Interno: «Prima di riunirsi nei loro vertici partecipino a un salvataggio: capiranno che vuol dire».
 
LEGGI ANCHE - “Triton è una missione dell’Italia, non tocca a noi cambiare regole” (M. Bresolin) 
 
Se a Varsavia si parlerà dell’accoglienza di chi arriva, due giorni dopo a Tripoli sbarca Minniti in persona per discutere con i libici di come non far partire troppi migranti. Il ministro ha in calendario una riunione con i sindaci delle città meridionali della Libia, in particolare del Fezzan, i quali si preoccupano che sul flusso di migranti sia ormai nata e prosperi un’economia specifica. Se davvero si vuole frenare il flusso di migranti illegali che risale dall’Africa, avevano spiegato i sindaci del Fezzan in una riunione precedente a Roma, occorre che nasca un’altra economia. Di qui di nuovo la richiesta di aiuto all’Italia (che con la Libia ha stipulato a febbraio un accordo bilaterale, poi appoggiato dai Ventotto).
 
Qualche idea è stata messa a punto. C’è il progetto di arruolare in una nascente Guardia di frontiera un certo numero di miliziani dei clan Tuareg e Tebou (le due principali etnie che si contendono il Fezzan) per utilizzarla a difesa delle frontiere e non il contrario: dopo Tallinn, ora anche i ministri europei dell’Interno appoggiano ufficialmente la nascita in Libia di questa Guardia di frontiera che nel deserto dovrebbe fare lo stesso lavoro della Guardia costiera.
 
I sindaci del Fezzan chiedono però di passare dalle parole ai fatti anche su altri dossier. Attendono che si concretizzino gli aiuti promessi per realizzare strade, aeroporti, ospedali e infrastrutture. Spiegava il ministro Minniti nei giorni scorsi: «Il traffico di esseri umani, purtroppo, oggi è uno dei principali canali economici di cui la Libia vive. Nel momento in cui si punta a stroncarlo, è chiaro che bisogna offrire a quelle popolazioni un circuito economico alternativo».
 
Si pensa anche a gemellaggi tra comuni italiani e libici. E se poi alla riunione di Tripoli ci saranno altre richieste di parte libica, Minniti, che al momento è l’unico in grado di andare e venire dalla Libia, dove lo considerano un interlocutore affidabile, ha annunciato che è pronto a prendere nota per poi ripartire con il discorso europeo. A Tallinn, infatti, per la prima volta i Ventotto si sono resi conto che è ora di non lesinare più sui finanziamenti alla Libia a meno di non finire sommersi.
 
Matteo Renzi, intanto, recrimina perché l’hanno messo in croce per una frase. «Dovremmo mettere un tetto massimo oltre il quale l’Italia non può fare di più, ma dentro il quale si facciano politiche di accoglienza vere», ribadisce. «Il piano per l’Africa deve essere collegato al blocco delle partenze. Questo non è razzismo. È un elemento di buon senso». 

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4676  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Beatrice Rutiloni. Gramsci, che parla di noi. Sinistra, libertà, uguaglianza. inserito:: Luglio 16, 2017, 05:15:22 pm
Interviste
Beatrice Rutiloni @bearuti  · 14 luglio 2017

Gramsci, che parla di noi

#Democratica cover Gramsci-mostra

Sinistra, libertà, uguaglianza. La rinascita gramsciana secondo il presidente della Fondazione, Silvio Pons
 
C’è da dire che Antonio Gramsci è diventato un’icona pop. Come la Marilyn di Andy Warhol o il Che sulle t-shirt dei sognatori di tutto il mondo, così, con quella sua faccia da “intellettuale organico”, Gramsci è diventato il volto più noto della politica con la P maiuscola, quella che mescola pensiero, studio, serietà, passione. Sobrietà.

Gramsci come il nuovo idolo di una generazione un po’ nerd, che da ogni angolo del mondo ritrova in quel modernissimo sguardo la propria fuga dal presente. L’ultimo degli utopisti, con quegli occhialetti tondi che sono passati da John Lennon a Harry Potter, è oggi più celebrato di Lenin: quattro anni fa nel Bronx, l’artista svizzero Thomas Hirschhorn ha creato l’installazione The Gramsci Monument, un luogo di aggregazione che ha ospitato reading, lezioni, corsi per bambini, concerti e seminari. Dalla casa museo di Ghilarza, in Sardegna, dove Gramsci visse la sua infanzia, sino a New York, la miniera gramsciana sembra arricchirsi di anno in anno. A dimostrazione del fatto che l’eredità culturale, quando è viva, è come un classico: non muore mai, anzi, rinasce nella memoria.

A ottant’anni dalla scomparsa dell’uomo politico, definizione che nella sua massima espressione riunisce tutte le altre, quella di filosofo, storico, linguista, giornalista e scrittore, resta molto di Gramsci: restano le sue bellissime lettere private, che esprimono l’uomo, e restano i Quaderni, tradotti in tutto il mondo e aperti mille volte nella vita. Di quelle letture che prendi e riprendi perché sempre ti dicono, un po’ come la Recherche di Proust. E rimane l’impressione di Gramsci, la stessa cifra inquieta e ordinata del suo volto è nella sua pagina scritta, con quella indimenticabile grafia, piccolissima, precisa, di un uomo che sa che il tempo non si spreca e non si perde.

Uno dei più grandi conoscitori dell’opera gramsciana è Silvio Pons, storico dell’Europa orientale, tra i massimi esperti del comunismo internazionale e presidente della Fondazione Gramsci.

Viene da chiedere, oggi che è il 14 luglio, anniversario della Rivoluzione francese, quanto vale la libertà.

E’ un valore globale ed è più attuale che mai. Viviamo un’epoca di grande disordine mondiale in cui sono rimessi in discussione i principi fondamentali della democrazia. L’ultimo esempio di rivoluzione nel nome della libertà sono state le Primavere arabe che ormai abbiamo rimosse alla luce della catastrofe della Siria e di tutti gli eventi violenti che sono seguiti alla caduta dei regimi. Potremmo dire che tra la fine del Novecento e l’inizio del secolo molte comunità si sono mosse per rivendicare libertà. Non c’è stato solo il 1989 in Europa, di rivoluzioni pacifiche ce ne sono state molte altre tra i Balcani, il sud dell’Africa, fino all’Iran. Ci sono state intere comunità senza nome che hanno imposto nell’agenda mondiale una richiesta di libertà che va molto al di là della tradizione eurocentrica della rivoluzione francese.

L’egocentrica rivoluzione francese.

Dico che gli europei hanno monopolizzato alcuni valori, tra cui la libertà. La rivoluzione francese ha generato la modernità politica europea, l’evento genetico del nazionalismo occidentale. Ora siamo in un’epoca in cui Occidente e americanismo sembrano appartenere al passato e sono superati, ma una certa idea di libertà e anche di uguaglianza che può farsi riferire alla nostra storia moderna si è globalizzata. Ci sono tante rivoluzioni francesi, tra cui metto in testa la Primavera araba.

Che però è fallita.

Le rivoluzioni possono fallire ma anche il loro fallimento esprime significati importanti, soprattutto in relazione alla parte del mondo dove originano. Anzi, direi che proprio perché sono fallite dobbiamo fare ancora più attenzione. Il fantasma delle libertà moderne è ancora tra noi.

E quello dell’uguaglianza?

Molto meno, viviamo in un mondo diseguale: da una parte c’è la crescita della ricchezza globale – ma sono ferocemente contrario a chi accusa la globalizzazione di essere una portatrice di povertà – che ha seminato ricchezze nel mondo in modo diseguale. La Cina o l’India sono le nuove potenze, l’Occidente non controlla più, non influenza più. La redistribuzione delle risorse ha spostato l’asse della ricchezza da Occidente a Oriente con la dannosa conseguenza che da noi il benessere è polarizzato nelle mani di pochi e che assistiamo a un tendenziale impoverimento delle classi medie, vero fulcro della democrazia occidentale. Di fronte a tutto ciò continua a sorprendermi che la richiesta di maggiore equità non abbia ancora suscitato delle proteste sociali che era legittimo aspettarsi.

Forse è ancora presto?

Il punto è che le società oggi sono molto corporative e dunque si fa fatica a immaginare un blocco sociale e politico che ponga la questione di una maggiore uguaglianza .Vedo un fenomeno che porta sottrazione di uguaglianza ma non vedo emergere  sentimenti di protesta e contestazione, che rimangono chiusi e marginali oppure si esprimono sotto la forma dei populismi.

E che forma sociale sono i populismi?

Primitiva. Illusoria. L’idea che sia sufficiente conquistare quote di sovranità nazionale per migliorare la vita delle persone è un miraggio. Nel mondo di oggi il primato dei singoli Stati è limitato da una serie di forze che non sono contendibili dal potere di ciascuno. L’unica possibile forma di resistenza e di riforma, l’unica risposta positiva ai processi di globalizzazione è sovranazionale.

L’unica risposta è l’Europa?

Il tema di una governance globale continua ad essere un grande tema ma molto lontano da noi. L’Europa è una risposta, certo. Il processo di integrazione europea nasce come il rigetto alle guerre tra stati-nazione che hanno contraddistinto la storia del Novecento. A questo si aggiunge la consapevolezza che solo una grande area sovranazionale in termini economici, democratici e produttivi può sostenere la globalizzazione.

Il problema sono leader?

I leader sono lo specchio della società. Il punto è che non si è creato uno spazio politico legittimato e accettato da tutti. Il livello nazionale continua ad essere più forte e questo determina continue tensioni tra i singoli stati e l’Europa. Aggiungiamo che in tempi di crisi con l’ Europa debole il populismo,con la sua dote di illusione, ha una porta aperta.

Gramsci, chiuso in cella, aveva intravisto i nostri giorni: nei Quaderni parlava di mondializzazione dell’economia contrapposta alla nazionalizzazione della politica. È impressionante.

In realtà questo processo era particolarmente visibile già dopo la Prima guerra mondiale: il tempo di Gramsci è legato al nostro. Noto due cose: che la globalizzazione inizia molto prima della fine della guerra fredda poiché una crescente interdipendenza inizia già dalla fine dell’Ottocento e  che non esisteva una forma di egemonia evidente. Con il linguaggio di oggi potremmo dire che non c’era negli anni Venti e Trenta una governance mondiale, e questa è anche una tendenza del nostro secolo.

Altra tendenza del nostro secolo è la crisi della sinistra un po’ ovunque. Come se la spiega?

È un tema che ci investe e assilla da tempo. Non è una crisi recente e dobbiamo fare dei passi indietro anche se è vero che la ricetta nessuno ce l’ha. Di ragioni, invece, ce ne sono molte: c’è stata l’idea che dopo la fine del comunismo fosse possibile fare una nuova sinistra democratica, era l’epoca della Terza Via, dei Blair e dei Clinton. Un’esperienza di sinistra riformista e anti-totalitarista che si arenò alla fine del secolo. Credo che quello fu l’inizio del declino. Siamo un po’ fermi lì e penso che la sinistra oggi non abbia ancora fatto i conti con il paradigma progressista secondo cui lo sviluppo è sempre lineare e inarrestabile. La sinistra è una delle vittime della globalizzazione, ed è entrata in crisi con l’esaurirsi del welfare state. E poi, si sa, quando la politica è in crisi lo è a maggior ragione la sinistra.

La destra ne risente meno?

La destra è più brava, da sempre, a fare leva sui sentimenti delle persone, sulla paura. La sinistra non ha questo tipo di possibilità e quindi in mancanza di Politica, quella con la famosa P maiuscola, soffre di più.

Un suo consiglio.

Siamo sempre lì: iniziamo a rivedere il paradigma progressista. La sinistra deve vivere e deve essere contrapposta alla destra. Facciamo un errore storico se pensiamo che questi valori non esistono più.

Ha ragione. Basta vedere le reazioni alla legge contro l’apologia di fascismo. Hanno detto che è liberticida. Ed è la cosa più gentile che hanno detto.

E’ un fatto preoccupante perché si basa su una perdita di memoria: dobbiamo conservare la consapevolezza che il fascismo fu una catastrofe. Non si tratta di antifascismo di maniera ma di riaffermare la neutralità della nostra storia. Anche i valori dell’Europa sono anti-totalitari e la perdita di memoria è visibile in quello che accade in Ungheria o in Polonia. Dire che è liberticida una legge che condanna l’apologia di fascismo è contraddittorio e lo è due volte se ad esprimersi così sono coloro che sino a qualche mese fa si intestavano la difesa della nostra Costituzione.

A chi si riferisce?

Al Movimento 5 Stelle che ha fatto le barricate per una Carta che è profondamente antifascista e che, allo stesso tempo, afferma che una legge che condanna l’esaltazione del ventennio sia liberticida.

Da - http://www.unita.tv/interviste/g
4677  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / ANDREA CARUGATI. Parlamentari renziani in allarme dopo le anticipazioni del ... inserito:: Luglio 16, 2017, 05:12:37 pm
Parlamentari renziani in allarme dopo le anticipazioni del libro del segretario del pd

Il timore è per «l’eccesso di aggressività» di Matteo, per i «troppi fronti polemici che sta aprendo»

Pubblicato il 15/07/2017 - Ultima modifica il 15/07/2017 alle ore 19:57

ANDREA CARUGATI
ROMA

“Speriamo che Richetti riesca a farlo rinsavire almeno un po’, altrimenti si va a sbattere…”. Tra i parlamentari renziani l’allarme ormai è a livello di guardia. Le anticipazioni del libro di Renzi e il tour mediatico martellante del segretario, con relativa e lunghissima coda di polemiche, sta suscitando sempre più preoccupazione nella truppa di chi lo ha sostenuto alle primarie, anche tra alcuni renziani di lungo corso. Il timore è per “l’eccesso di aggressività” di Matteo, per i “troppi fronti polemici che sta aprendo”. 

Qualche sera fa a Roma un gruppo di senatori e deputati di area renziana si sono ritrovati, come spesso accade, a cena. E si sono scambiati dubbi e perplessità: “Ma fino a dove vuole arrivare?”. Preoccupano lo strappo con Prodi, la riapertura della ferita con Enrico Letta, il gelo con Franceschini. “Vuole mandare fuori anche Dario?”. “C’era davvero bisogno di offendere così Enrico dopo tre anni?”. “E se Prodi va con Pisapia?”. Sono tante le domande che sono circolate durante la cena, pochissime le risposte. “E’ il suo carattere, quando si sente sotto assedio reagisce così: vende cara la pelle”, spiega una senatrice chiedendo l’anonimato. “Ha stravinto le primarie, ora è il momento di unire, non può stare in tv 24 ore al giorno, rischia di stancare, come è successo il 4 dicembre”.
 
I nervi sono tesi. Nei giorni scorsi alla buvette del Senato altri conciliabili, così al ristorante di palazzo Madama. Senatori di area Renzi e vicini a Franceschini si scambiavano pensieri. Ansie. “In Emilia Romagna lo strappo con Prodi è devastante”, spiega uno di loro. “Molti dei nostri che hanno votato Sì al referendum e Matteo al congresso sono furiosi. Ci chiamano per dirci ‘ma come aveva detto che si passava dall’io al noi, e invece fa tutto come prima’…”.
 
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Matteo Richetti, portavoce della segreteria, è subissato di chiamate dai colleghi: “Pensaci tu, fallo ragionare”. Nei giorni scorsi lo stesso Richetti in un’intervista aveva detto di voler fare apprezzare al segretario “quanto rumore può fare il silenzio”. E quanto fosse opportuno parlare solo di cose concrete, senza aggredire questo o quello. “Sono d’accordo con Richetti, dobbiamo stare solo sui contenuti, e non possiamo limitarci a ripetere le cose fatte, quelle gli italiano le sanno già”, spiega il senatore renziano e cattodem Stefano Lepri. “Serve uno stile pacato e attento a costruire, che ci aiuti a ritrovare empatia con gli italiani, non è più il tempo di imitare l’aggressività dei 5 stelle””. 
 
Un alto dirigente del Pd, nel Transatlantico del Senato, alza le spalle: “Passo giornate intere a ricucire, fuori e dentro il partito. Se vogliamo andare avanti non si può insultare Alfano, dirgli che fa il ministro e non ha un voto, quello rischia di perdere senatori che tornano dal Cavaliere…”. “Matteo le cose non le manda a dire, ama gli eccessi”, sorride amaro Giorgio Tonini, presidente della commissione Bilancio del Senato: “Ma noi in autunno dovremo fare una manovra difficile e la scissione di Mdp ci sta rendendo la vita difficile. Vogliono spingerci a votare sempre più spesso con Forza Italia per poterci attaccare, questo ci danneggia”. Aggiunge Tonini: “La polemica con Franceschini ci mette in difficoltà. Qui in Senato in tanti sono a cavallo tra i due leader, già la situazione in maggioranza è pericolosa, bisogna lavorare per spegnere le polemiche dentro il Pd”. 
 
E invece nella minoranza tira sempre più il vento della scissione, nonostante gli sforzi di Andrea Orlando e Gianni Cuperlo per frenare. Richetti getta secchiate d’acqua sul fuoco, il rischio di nuovi addii (dopo quello di Elisa Simoni, deputata e parente di Renzi) allarma anche i seguaci del segretario. “Ma come facciamo a puntare al 40% se restiamo sempre in meno?”, sospira un deputato. Il sospetto è che Matteo “voglia rottamare il Pd e costruire un nuovo partito sul modello di Macron”. Ma in tanti, anche tra i suoi supporter, temono che stavolta l’azzardo finisca male. “L’uno contro tutti non ha funzionato il 4 dicembre, perché dovrebbe funzionare adesso?”.

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4678  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Patrizia CAIFFA Lo psichiatra Vittorino Andreoli: “Livello di civiltà disastroso inserito:: Luglio 16, 2017, 05:10:48 pm
MIGRAZIONI E RAZZISMO

Lo psichiatra Vittorino Andreoli: “Livello di civiltà disastroso, regrediti alla cultura del nemico”

14 luglio 2016
Patrizia CAIFFA

Nonostante il refrain contro i migranti sia sempre lo stesso: "Premesso che non sono razzista...", nelle società occidentali il razzismo sta uscendo allo scoperto e rischia di essere legittimato come una opinione. Secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli siamo in "una cornice di civiltà disastrosa", l'Italia e l'Occidente stanno "regredendo alle pulsioni istintive", al dominio della "cultura del nemico": "La superficialità porta l'identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare se stesso".

Dall’America all’Europa all’Italia sembra uscire allo scoperto, fomentato da politici e media irresponsabili e amplificato dai pareri espressi sui social media, un clima aperto di razzismo e xenofobia, come se l’espressione di odio razziale nei confronti dei migranti o delle minoranze, anche con linguaggi e gesti violenti, non sia più un tabù ma una legittima opinione. L’episodio di Fermo, con l’uccisione del nigeriano le cui dinamiche chiarirà la magistratura, ha avuto uno strascico di posizioni opposte sui social. Molti difendono apertamente l’aggressore, come se la violenza, verbale e poi fisica, dell’insulto razziale sia legittima. Mentre il refrain contro i migranti è sempre lo stesso: “Premesso che non sono razzista…”. Cosa ci sta succedendo? Lo abbiamo chiesto allo psichiatra Vittorino Andreoli, ma la premessa che anticipa tutta la riflessione è semplice e sconfortante: “Questa società non mi piace”.

Cosa sta succedendo alle nostre società occidentali?

Sono stati consumati, se non distrutti, alcuni principi, che erano alla base della nostra civiltà, che nasce in Grecia, a cui si aggiunge il cristianesimo. Non c’è più rispetto per l’altro, la morte è diventata banale, tanto che uccidere è una modalità per risolvere un problema. Non c’è più il senso del mistero e del limite dell’uomo. L’episodio di Fermo va inserito in una cornice di civiltà disastrosa. Non esiste più l’applicazione dei principi morali della società e c’è un affastellarsi di leggi, come se le leggi possano sostituire i principi. Oggi domina la cultura del nemico: la superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare se stesso. Questa è una regressione antropologica perché si va alle pulsioni. Tutto questo è favorito da partiti che sostengono l’odio, lo stesso agire sociale è fatto di nemici. Perfino nelle istituzioni religiose qualche volta si affaccia il nemico. In questo quadro tornano le questioni razziali.

Qualcuno dice: “non è razzismo, è superficialità”. Io ribatto: no è razzismo.
E’ considerare l’altro inferiore perché ha quelle caratteristiche, per cui bisogna combatterlo. Se uno è diverso da te è un nemico e va combattuto. Si arriva alla legge del taglione. Si torna a fare la guerra perché il diverso è un nemico che porta via soldi, posti di lavoro, eccetera. Così come c’è una gerarchia dei potenti c’è anche una gerarchia di razze. Perché sono presi di mira solo alcuni.

Il razzismo e i pregiudizi sono però universalmente presenti nel cuore dell’uomo, a prescindere dalle nazioni. I fatti di questi giorni negli Usa ne sono un esempio.

E’ sicuramente un istinto presente nella nostra biologia, nella nostra natura, ossia la lotta per la sopravvivenza di cui parlava Darwin, la lotta per la difesa del territorio. Ma tipico dell’uomo non è solo la biologia ma la cultura. E la cultura dovrebbe essere quella condizione in cui rispettiamo gli altri e riusciamo a frenare un istinto. Il problema è: come mai la cultura che caratterizza l’uomo e consiste nel controllo delle pulsioni non c’è più? Tutta una cultura che si era costruita fino a epigoni che erano quelli dell’amore, della fratellanza, è completamente recitata ma non vissuta.

Questo è un Paese, ma anche tutto l’Occidente, che sta regredendo alla pulsionalità, all’uomo pulsionale. Ciò che mi spaventa e mi addolora è che per raggiungere una cultura ci vuole tanto tempo e la si può perdere in una generazione.
Gli episodi che osserviamo sono silenziosamente sostenuti da tante persone. Non dicono niente ma li approvano. Bisogna impedire che ci sia chi soffia sul fuoco. Nessuno parla del valore della conoscenza utile nell’avvicinare altre storie, altre culture. Tutto viene mostrato come negativo: gli immigrati fanno perdere posti di lavoro, c’è violenza e criminalità. Il problema è che all’origine c’è sempre una esclusione. E’ terribile, stiamo diventando un popolo incivile.

Nei dibattiti pubblici, soprattutto sui social, c’è sempre un “noi” contro “loro”: i migranti, più deboli, diventano il capro espiatorio di tutti i mali.

Certo, questo è il principio darwiniano. L’evoluzione si lega alla lotta per l’esistenza: “mors tua, vita mea”. Bisogna eliminare il nemico, deve vincere la mia tribù che deve prendere il tuo territorio. E’ una regressione spaventosa. Poi c’è la crisi che ha sottolineato la paura, le incertezze. E la paura genera sempre violenza. Ci rendiamo conto che, in un Paese che non legge, un giornale ha regalato il Mein Kampf di Hitler? Perché non hanno regalato “La pace perpetua” di Kant?

Marketing, ricerca di consenso e voti, incoscienza: quali sono, secondo lei, le vere ragioni dietro a scelte così pericolose? Come fare per arginarle?

Non è follia, è stupidità. Bisogna prendere una posizione molto decisa: non è più possibile fare finta. Questa è una società falsa, che recita. Andiamo incontro a situazioni che saranno di nuovo drammatiche. Ci vuole più coraggio anche nella Chiesa. Il Papa lo ha avuto nel suo schierarsi dalla parte dei migranti, ma ci sono quelli che non sono d’accordo. Bisogna cominciare a dire che questa nazione deve cercare di far emergere uomini e donne saggi, intelligenti. Stiamo scegliendo i peggiori. C’è una ignoranza spaventosa.  Bisogna poter parlare, spiegare, capirsi. Occorrono persone credibili per parlare ai giovani, ma la via è sempre quella della cultura. Fare promozione, educazione, dimostrare quanta positività c’è in chi viene odiato, per stimolare al rispetto nei loro confronti.

Con i giovani è più facile perché sono come pagine bianche di un libro da scrivere. Ma con adulti già formati come si fa? E’ una battaglia già persa in partenza?

No, perché l’espressione esplicita dei pregiudizi nasce dal sentirsi sostenuti. Se nascondono ancora il loro pensiero sono recuperabili. Il problema emerge quando ci si sente in tanti a pensarlo. Bisogna far scoprire cosa c’è nell’altro, cosa significa una società diversa.

Purtroppo oggi sui social non si nasconde più il proprio pensiero: lo schermo del computer protegge dal confronto diretto, le affermazioni diventano più violente e l’espressione dei pregiudizi, anche in maniera razionale, serve solo a rafforzare l’ego…

E’ vero. Questo è più grave, perché se uno stava zitto e si esprimeva a casa, agiva male solo in famiglia. Adesso diventa un’azione diffusa, trasformandosi in vera e propria propaganda.

14 luglio 2016
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DA - https://agensir.it/italia/2016/07/14/lo-psichiatra-vittorino-andreoli-livello-di-civilta-disastroso-regrediti-alla-cultura-del-nemico/
4679  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Giorgio CUSCITO -La sovranità del Pcc dipende dal benessere economico della Cina inserito:: Luglio 16, 2017, 05:08:45 pm
La sovranità del Pcc dipende dal benessere economico della Cina

 11/07/2017

BOLLETTINO IMPERIALE In occasione dei suoi 96 anni, il Partito comunista ricorda lo slogan di Xi Jinping di continuare a crescere senza scordare le origini. Al ritmo di riforme economiche e lotta alla corruzione. Un momento delicato in vista del congresso dell’autunno, decisivo per i prossimi 4 anni della Repubblica Popolare.

Di Giorgio Cuscito

Il Bollettino Imperiale è l’osservatorio settimanale di Limes dedicato all’analisi geopolitica della Cina e alle nuove vie della seta. Grazie al sostegno di TELT. Puoi seguirci su Facebook e Twitter.
Il Partito comunista cinese (Pcc) deve guardare alle sfide future senza dimenticare le sue origini ideologiche e storiche. Questo è il messaggio chiave espresso dai media della Repubblica Popolare per celebrare il 96° anniversario della fondazione del Partito, avvenuta il 1° luglio 1921 a Shanghai. L’evento ha avuto più copertura mediatica in Cina che all’estero a causa dell’altro evento, i festeggiamenti per la restituzione di Hong Kong alla madrepatria, che capita nel medesimo giorno. Non poteva essere altrimenti, visto che lo stesso presidente Xi Jinping era presente al ventennale.
Nel celebrare l’anniversario del Partito più grande al mondo (89,5 milioni di iscritti più della popolazione della Germania) i media cinesi hanno posto l’accento sui risultati raggiunti sul piano economico e quelli della campagna anticorruzione. Il loro obiettivo era accrescere la fiducia della popolazione nel Pcc, che si trova di fronte a una fase cruciale: in autunno si terrà il suo 19° Congresso nazionale e Xi, il più potente leader cinese dopo Mao Zedong e Deng Xiaoping, cercherà di inserire negli organi di vertice del Partito il maggior numero di politici appartenenti alla sua cordata. Ciò è indispensabile per adottare le riforme economiche necessarie a garantire la crescita del paese.
Negli ultimi anni, il presidente ha accentrato il potere su di sé e nel 2016 è stato definito il “nucleo” (hexin) della leadership. A lui spetta il compito di guidare la Cina verso il sogno del “risorgimento cinese, che prevede lo sviluppo di una “società moderatamente prospera” entro il 2021, centenario della fondazione del Pcc, e la costruzione di un paese “forte e ricco” entro il 2049, centenario della Repubblica Popolare.
In vista di questi traguardi, l’editoriale del Quotidiano del popolo del 1° luglio, ha esortato così i cinesi: “Preserviamo per sempre lo spirito della lotta dei comunisti [i fondatori del Partito, n.d.a.] e continuiamo a resistere alla prova in questo test storico per poter accogliere, con eccellenti risultati, il diciannovesimo Congresso del Partito e dare, con impegno, una risposta ancora migliore alla storia e al popolo”. Tutto ciò significa, parafrasando Xi, “continuare ad avanzare senza dimenticare l’intenzione originale” (Bu wang chuxin, jixu qianjin).
Lo sviluppo di una “società moderatamente prospera” rientra nei  “quattro complessivi”, gli obiettivi enunciati dal presidente e in base a cui il Partito sta sviluppando le sue politiche. Di questi fanno parte anche il proseguimento delle riforme, il governare nel rispetto della rule of law e il rafforzamento della disciplina del Pcc. Dopo il Congresso, il “pensiero” (sixiang) di Xi potrebbe essere inserito nella costituzione del partito accanto all’unico altro consentito per ora, quello di Mao. In questa maniera, il presidente darebbe il suo storico contributo sul piano teorico al socialismo con caratteristiche cinesi.
Le cifre del Partito…
Secondo Xinhua, “da quando è stato fondato, il Partito è stato visto con dubbi, incomprensioni e perfino ostilità. Eppure è emerso come una delle storie più eccitanti e di successo nel mondo. La Cina era una nazione povera, spaventata dalle aggressioni straniere e dalla guerra civile. Ora è la seconda più grande economia al mondo e uno dei principali attori a livello internazionale”.
Di questo percorso i media cinesi hanno sottolineato il successo più eclatante: aver elevato al di sopra della soglia di povertà circa 700 milioni di persone. Un risultato senza dubbio straordinario, nonostante ve ne siano ancora milioni in questa condizione, in particolare nelle aree rurali e nella parte interna della Cina. Entro il 2020, secondo l’agenzia di stampa cinese, questo problema dovrebbe essere superato.
Dal benessere del paese (il cui tasso di crescita del pil è oggi pari al 6.9%) dipende direttamente la sovranità del Partito, il cui 37% dei membri è composto da operai e contadini, il 25,21% da professionisti e operatori nel management e la parte restante da funzionari studenti e pensionati. Il 91,3% delle aziende pubbliche, il 70% di quelle private e il 59% delle organizzazioni sociali sono rispettivamente dotate di una sezione del Partito incaricata di supervisionare il lavoro e prendere parte al processo decisionale.
Secondo Xinhua, “per i primi 14 anni, il Partito non aveva un leader forte al centro e ciò determinò delle battute d’arresto nella causa rivoluzionaria. Il Pcc era sul punto di sciogliersi. Nel 1935, Mao Zedong stabilì la sua autorità all’interno del comitato centrale del Pcc e nelle Forze armate. Da allora, la leadership del Partito è stata parte integrante nel superamento delle difficoltà di quest’ultimo”. In questa maniera l’articolo esalta il ruolo di Mao e allude indirettamente alla solidità dell’attuale vertice del Pcc.
Carta di Laura Canali, 2015
…e quelle dell’anticorruzione
Per celebrare il Partito, i media hanno posto l’accento sui successi della lotta alla corruzione, con cui Xi sta facendo fuori le mele marce sia rafforzando il controllo sul Pcc. La campagna è guidata da Wang Qishan, capo della Commissione centrale per l’ispezione disciplinare (Ccdi) e alleato del presidente. Dal 2012, vi sono stati 1,16 milioni di casi e sono state intraprese azioni disciplinari contro 1,2 milioni di persone. Nel 2016, 57 mila membri del Partito hanno confessato i propri reati. Almeno 240 funzionari di alto rango (le cosiddette “tigri”) sono stati indagati e 1,14 milioni di membri del Pcc, quadri e livelli inferiori (“le mosche”) sono stati puniti, inclusi 554 mila nelle aree rurali.
Oltre 2.800 membri fuggiti all’estero sono stati catturati nell’ambito di operazioni come “Sky Net” e “Fox Hunt”. Di questi 476 sono ex funzionari e 40 erano tra i ricercati della “red notice list” dell’Interpol, dal nome della richiesta per localizzare e arrestare provvisoriamente un individuo con l’estradizione in sospeso – non è un mandato d’arresto internazionale.
Tra i casi di fuggitivi più interessanti vi è quello di Guo Wengui, milionario cinese espatriato nel 2014 che ora vive a New York. Guo non è stato ancora acciuffato, malgrado anche lui sia sulla “red notice list” dell’Interpol. Su YouTube, Twitter e in alcune interviste rilasciate a Voice of America e Minjing (sito di notizie basato negli Usa) Guo ha accusato di corruzione funzionari di alto livello, incluso lo stesso Wang Qishan, che guida la campagna per catturare tigri e mosche. In seguito, il milionario ha affermato che Xi aveva ordinato di investigare sugli affari di Wang, ma non ha fornito alcuna prova a riguardo.
Guo, azionista di maggioranza della Beijing Zenith Holding e della Beijing Pangu Investment, era strettamente legato all’ex viceministro del ministero della Sicurezza dello Stato Ma Jian, attualmente perseguito per corruzione. Questi è il funzionario di sicurezza più anziano a subire questa sorte dopo Zhou Yongkang, ex zar dei servizi segreti e prima “tigre” messa in gabbia da Xi. Ad aprile, i media cinesi hanno diffuso un video in cui Ma afferma di essersi scambiato dei favori con Guo. Secondo la polizia cinese, il fuggitivo avrebbe corrotto in passato dei funzionari del controllo del traffico aereo e della Hainan Airlines per ottenere informazioni su passeggeri stranieri inclusi uomini d’affari e celebrità per poi fabbricare storie false e affermare che gli erano state riferite da Ma.
A incuriosire del caso Guo è che le sue accuse si siano intensificate pochi mesi prima del Congresso nazionale del Pcc dopo anni di relativo silenzio. Le ragioni non sono chiare, ma l’effetto sperato è probabilmente destabilizzare la leadership prima di questo delicato evento. Difficilmente le sue accuse, di cui non vi è per ora alcun riscontro, potranno intaccare la stabilità del Partito. Secondo l’Ufficio nazionale di statistica cinese, i cui dati sono spesso messi in dubbio in Occidente, il 92,9% dei cinesi dice di essere soddisfatto per i risultati della lotta alla corruzione.
L’argomento preoccupa e allo stesso tempo affascina i cinesi, che seguono con interesse la serie televisiva “In nome del popolo” (Renmin de mingyi), dedicata proprio alla caccia ai corrotti. La puntata pilota è stata vista da circa 350 milioni di persone. Il programma risponde alla rinnovata esigenza di trasmettere sensazioni positive in merito alla lotta alla corruzione e alla consapevolezza di Pechino sul saper controllare la narrazione riguardo tale argomento. Xi ha precisato che la politica nella Repubblica Popolare non ha nulla a che vedere con gli intrighi di potere inscenati nella serie tv “House of Cards” (seguitissima dai cinesi e dai vertici del Pcc), nonostante abbia confermato la presenza nel Partito di cospiratori che ne mettono in pericolo la governance.
Guardare avanti con un occhio al passato
Per “andare avanti senza dimenticare l’intenzione originale” e assicurarsi il consenso della popolazione, Xi intende abbinare alla preservazione della tradizione del Pcc e alla lotta alla corruzione importanti riforme economiche. Anche se il rapporto annuale sulla stabilità finanziaria della Repubblica Popolare afferma che i rischi riguardo il credito e la liquidità sono controllabili, cambiamenti su tale fronte potrebbero essere imminenti.
Secondo una fonte anonima consultata dal quotidiano Caixin, a metà luglio potrebbe svolgersi una grande conferenza di lavoro a porte chiuse per riformare il settore finanziario. Tale evento, svoltosi per la prima volta nel 1997 durante la crisi asiatica, si tiene generalmente ogni cinque anni. L’edizione imminente è stata rimandata più volte a causa di divergenze interne su come gestire questo ambito. Secondo Caixin, la prossima conferenza dovrebbe definire la cornice in cui sviluppare una maggiore apertura dei mercati e la creazione di un organo “super-regolatore” al di sopra delle agenzie esistenti e operante fuori dalla People’s Bank of China, la banca centrale. I provvedimenti sarebbero adottati dopo il 19° Congresso nazionale del Pcc. Alla luce di ciò, non è un caso che da aprile la lotta alla corruzione abbia iniziato a colpire con maggiore intensità anche il settore finanziario.
La riforma di questo ambito, insieme a quello delle imprese statali e a i cambiamenti ai vertici del Pcc sono tra gli elementi che potrebbero rendere il Congresso nazionale del prossimo autunno un passo fondamentale lungo il percorso del risorgimento cinese.
Carta di Laura Canali, 2016

da - http://www.limesonline.com/rubrica/la-sovranita-del-pcc-dipende-dal-benessere-economico-della-cina?source=newsletter
4680  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Pisapia va via. - di Beatrice Rutiloni inserito:: Luglio 16, 2017, 05:06:16 pm
Focus

Beatrice Rutiloni @bearuti  · 14 luglio 2017

Pisapia va via

Sinistra Giuliano Pisapia in occasione dell’organizzato da Radio Popolare, Milano, 9 giugno 2017.
Il leader del Campo progressista non si candiderà alle prossime elezioni
 
Lo aveva detto a Democratica Stefano Boeri, che Pisapia conosce bene per averci lavorato gomito a gomito per un anno e mezzo al Comune di Milano: “Giuliano è un fine politico, un uomo abilissimo nelle relazioni, ma per me la questione è un’altra: bisogna federare la sinistra su un percorso tattico o su progetti concreti di rilancio del Paese? Unirla sulla base di una santa alleanza contro Renzi o di una visione del futuro prossimo? Sono convinto che ci sia uno spazio per un progetto politico alla sinistra del Pd, ma dubito che a guidare una ritrovata coalizione del No possa essere chi ha votato Sì al referendum”. Troppe distanze nel “campo progressista” immaginato dall’ex sindaco di Milano, così tante che la profetica affermazione dell’architetto si è concretizzata in queste ore con il passo indietro di quello che già da tempo veniva definito (il copyright è di Gad Lerner) un “leader riluttante”.

Il “fine politico” che doveva fare da federatore della cosa a sinistra del Pd ha dato dunque forfait dicendo chiaramente di non ambire” a nessun ruolo istituzionale” né tantomeno di essere tentato dal pensare “neanche lontanamente di candidarmi alle prossime elezioni”.

L’uscita di Pisapia ha spiazzato i compagni di viaggio di Mdp- Articolo 1. C’è da dire che già sul palco di piazza Santi Apostoli le prime difficoltà tra le diverse anime di Insieme si cominciavano a vedere e questi primi quindici giorni di luglio devono essere serviti all’ex primo cittadino milanese per mettere a fuoco quello che non vuole: una riedizione della sinistra “arcobaleno” litigiosa e scomposta.

Ma soprattutto non vuole che uno come D’Alema, che tutto quello che poteva fare in politica ha fatto in una carriera trentennale, dal segretario di partito al deputato al premier, si candidi ancora una volta alle prossime elezioni. Per scongiurare questa possibilità Pisapia fa lui stesso il passo indietro: come dire, “lasciamo spazio a una nuova generazione”, d’accordo con Romano Prodi, che con la metafora della sua tenda ha fatto ben capire di voler restare super partes. E’ la rottamazione di Pisapia, diretta ai protagonisti della scissione dal Pd per niente riluttanti, ma anzi molto intenzionati a tornare in Parlamento, tanto che ad oggi, di fronte alla pressante richiesta del loro possibile leader di sciogliere i gruppi parlamentari hanno risposto sempre picche.

E così, stretto tra le volontà ferree, concrete e pragmatiche di Bersani & Co. e l’ideologia movimentista della sinistra più radicale che può nascere attorno alle figure di Anna Falcone e Tomaso Montanari, magari in ticket con Nicola Fratoianni, Pisapia che fa?  Un bel passo indietro.

Non era esattamente a questo litigioso consesso che aveva pensato per Insieme.

Da - http://www.unita.tv/focus/pisapia-va-via/
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