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4651  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / La rivoluzione che serve alla sinistra. (Cosa c'entra Renzi con la sinistra) ... inserito:: Luglio 26, 2017, 05:25:20 pm
La rivoluzione che serve alla sinistra

Pubblicato il 18/07/2017 - Ultima modifica il 18/07/2017 alle ore 07:00

GIOVANNI ORSINA

La sinistra italiana ha tutta l’aria di star sulla soglia d’un rivolgimento radicale. La svolta potrebbe forse avvenire prima delle prossime elezioni, o magari dopo, né si sa bene dove porterà. Mi sembra tuttavia difficile che l’assetto esistente possa durare ancora a lungo.

Le ragioni dell’instabilità corrono lungo tre cerchi concentrici: l’ideologia, il partito, il leader. Il cerchio più largo non è soltanto italiano: la sinistra è in difficoltà pressoché ovunque, perché sono venute meno le parole d’ordine con le quali, fra gli Anni Settanta e i Novanta del secolo scorso, aveva risposto al tramonto della tradizione progressista novecentesca, della classe operaia e del welfare state. A voler molto semplificare, quelle parole d’ordine sono due, cosmopolitismo e diritti. E non funzionano più perché è entrata in crisi l’antropologia sulla quale si fondano. Un’antropologia ottimistica fatta di tolleranza, solidarietà, fiducia nel prossimo e nel futuro, identità pacifiche e compatibili l’una con l’altra. 
 
Per almeno un trentennio le culture di segno progressista hanno cercato d’imporre questo modello antropologico come l’unico eticamente legittimo, e nel contempo si sono illuse che avesse ormai trionfato. I nostri tempi si stanno però incaricando di dimostrare che la vittoria di quel modello, se mai c’è stata, è stata ben più precaria e provvisoria di quanto non si pensasse o sperasse. E le élite progressiste sono di colpo messe di fronte a una realtà che non soltanto trovano ripugnante, ma da lungo tempo credevano fosse del tutto superata, e che non sanno quindi come affrontare. L’evidente contraddizione politica d’un Partito democratico che per un verso vuole aiutare i migranti «in casa loro», per un altro concedere lo ius soli – tanto per prendere un esempio –, è figlia anche di questo stato confusionale.
 
Ma le difficoltà del Pd – per venire al secondo dei cerchi concentrici – non sono soltanto ideologiche, e hanno profili specificamente italiani. Almeno tre. Il primo è la sua storica fragilità identitaria, dipendente per tanti versi dal peso della tradizione post-comunista, «croce e delizia» – ossia portatrice d’un saldissimo ancoraggio organizzativo, territoriale e morale, ma irrimediabilmente minoritaria. È una contraddizione che affligge la sinistra italiana fin dal 1994, che può spiegare molto della sua storia dell’ultimo ventennio, e che ha un peso ancora oggi – pure se siamo ormai giunti alla stretta finale, con ogni probabilità, il post-comunismo essendo sulla via del tramonto. Il secondo profilo specificamente italiano della crisi del Pd, e della sinistra in generale, è rappresentato da un’antica tradizione di frazionismo e litigiosità. Il logoramento evidente d’un partito che ha governato per anni il Paese, la maggioranza delle Regioni e dei Comuni – infine – è il terzo profilo.
 
Facendo forza sulla leadership (terzo cerchio), Renzi ha tentato di superare di slancio la crisi ideologica e di «sfondare» al centro, anche se lo ha fatto in maniera confusa e troppo palesemente strumentale. Ha cercato poi di rimediare all’incertezza identitaria e al frazionismo. Malgrado il disegno avesse indubbiamente un senso, tuttavia, Renzi ha fallito – col contributo determinante, per altro, del terzo fattore che ho menzionato sopra, il logoramento del potere. E, a più di sette mesi dal 4 dicembre, il suo fallimento appare con sempre maggiore chiarezza come un punto di non ritorno.
 
Nel non volerlo considerare tale, nel vagheggiare la rivincita, nella bulimia comunicativa, il segretario democratico pare comportarsi come quegli innamorati che, piantati dalla fidanzata, non si danno per vinti, implorano e insistono. E nel loro affanno crescente non si accorgono che stanno rendendo sempre più palesi proprio quei difetti per i quali la fidanzata li ha lasciati, e che la poveretta si va esasperando sempre di più. Non vedono insomma – o non se ne curano – che il loro comportamento non risolve e compone più, ma accresce il caos.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/18/cultura/opinioni/editoriali/la-rivoluzione-che-serve-alla-sinistra-UBQDn9C6xurkrpMT18gDqL/pagina.html
4652  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / WLODEK GOLDKORN. Il pericolo che corre per l'Europa, Italia compresa. inserito:: Luglio 24, 2017, 05:03:20 pm
ANALISI

Così la Polonia sta smantellando la democrazia
Il Paese sta dimostrando come si possa instaurare un regime senza carri armati, né prigionieri politici, né censura.
Un esempio che potrebbe indicare la strada a molti altri Kaczynski in giro per il nostro Continente (Italia compresa)


DI WLODEK GOLDKORN
20 luglio 2017

E' quasi mezzanotte, quando sul podio degli oratori della Dieta polacca sale Jaroslaw Kaczynski. Faccia contrita, una voce fredda dice, rivolto ai deputati dell'opposizione: “Avete assassinato mio fratello; canaglie”. Ufficialmente Kaczynski è un semplice deputato, Nei fatti è lui il vero capo dello Stato; il governo, il presidente della repubblica, il presidente della Camera nonché la maggioranza parlamentare ubbidiscono a qualunque suo ordine o desiderio. In questo momento il suo desiderio è: rendere i tribunali dipendenti dall'esecutivo, ossia fare sì che la giustizia segua le direttive del partito, Pis (quasi nomen omen, Diritto e Giustizia, si chiama).

L'incidente si è verificato durante una discussione in Aula di una proposta di legge per cui sarà l'esecutivo a decidere quando mandare in pensione i giudici della Corte costituzionale e sarà l'esecutivo a nominare i presidenti dei tribunali, mentre sarà il parlamento a nominare la maggioranza (15 su 25) dei componenti del Consiglio supremo della Magistratura. In parole povere: sarà Jaroslaw Kaczynski il padrone della Giustizia di un paese che (per ora) risulta membro dell'Unione europea.

Attenzione, la Polonia non è un paese arretrato; e non si tratta di antiche reminiscenze del regime comunista. Il caso polacco è interessante perché è un esempio di come si possa, passo dopo passo, smantellare la democrazia, distruggere lo Stato di diritto, instaurare un regime che a nessuno risponde se non al capo supremo, senza percorrere le vie “turche”. In questo senso la Polonia potrebbe indicare la strada a molti altri Kaczynski in giro per il nostro Continente (Italia compresa).

Il meccanismo si basa su tre pilastri: il primo, la stanchezza della gente con la politica e i politici, la delusione perché la politica non è in grado di mantenere le proprie promesse (Bauman parlava del divorzio tra politica e potere) e quindi le sue procedure diventano un rito strano e spesso odioso agli occhi di molti. Si tratta di un fenomeno comune a quasi tutti i paesi dell'Europa. Il secondo pilastro è una narrazione convincente di un Partito che vorrebbe abolire le procedure democratiche; e qui i dettagli e i particolari cambiano a seconda del paese. Il terzo pilastro, di nuovo comune a tutti, è la propensione di molti a rendersi servi e docili strumenti del Capo senza porsi problemi di coscienza e anzi godendo nel far Male.

In Polonia la narrazione parte dell'incidente aereo, in cui nel 2010, sui cieli russi, perse la vita Lech Kaczynski, allora presidente della Repubblica e fratello gemello di Jaroslaw. Quell'incidente nella narrazione del potere di oggi, fu un attentato, perpetrato dai russi (ovviamente) e coperto da “traditori” della patria, tra i quali, le élite liberali e cosmopolite nonché l'allora premier Donald Tusk.

Così la Polonia è vittima dei russi, dei liberali, dell'Europa filogay (essendo le élites filoeuropeiste), e c'è una quinta colonna in seno alla società. Come si diceva prima, in questo discorso c'è ovviamente una gran dose di odio e di propensione al male, insita in ognuno di noi e che si manifesta prepotente nei tempi di crisi. Far male e pensar male (perché le élite mi trattano da rifiuto umano) dà soddisfazione, quando si è scontenti della propria vita.

Vinte le elezioni del 2015 (grazie all'idiozia e la pigrizia di chi era al potere allora; ossia le famose “élite liberali”), con il 37 per cento dei voti (alle urne si è recato il 50 per cento dei polacchi), Kaczynski, per prima cosa ha purgato la tv e la radio di Stato. Licenziati i giornalisti considerati “ostili”, oggi nel media pubblici nessuno osa criticare il governo. Le manifestazioni di massa dell'opposizione vengono definite “folclore”. In seguito, le aziende di Stato o che fanno affari con aziende di Stato sono state persuase a non fornire pubblicità ai giornali nemici di Kaczynski, ad esempio a “Gazeta Wyborcza” (e che tuttavia resiste anche dal punto di vista economico).

Poi è stata alterata la composizione della Corte Costituzionale, in violazione della Costituzione stessa. E così si è arrivati a oggi: le mani sui tribunali e un discorso, in pieno parlamento del capo supremo che incita esplicitamente all'odio e trasforma i rappresentanti della nazione in canaglie e assassini: in fuorilegge cioè.

Occorre poi una maggioranza parlamentare, deputati e presidente della camera che (come accade in questi giorni a Varsavia) usando il regolamento impediscono la libera discussione e trasformano la Dieta in una macchinetta di votazione (risparmio i dettagli tecnici), perché il golpe, deve essere realizzato in fretta, altrimenti rischia di fallire.

Ecco, spiegato, come in Europa, si può con mezzi democratici (niente marce su Roma, niente carri armati in piazza; niente prigionieri politici; niente censura) sopprimere la democrazia.

© Riproduzione riservata 20 luglio 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/07/20/news/cosi-la-polonia-sta-smantellando-la-democrazia-1.306494?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L
4653  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / JACOPO IACOBONI. La sindaca M5S di Anguillara: “Avvisai la Raggi del disastro, inserito:: Luglio 24, 2017, 05:00:15 pm
La sindaca M5S di Anguillara: “Avvisai la Raggi del disastro, non è mai venuta alle riunioni”

Sabrina Anselmo: «C’erano tutti, Acea, Regione, comuni lacustri, tranne la Città Metropolitana. Il Movimento? Vogliono cacciarmi solo perché ho difeso il lago»

La sindaca Sabrina Anselmo rischia l’espulsione per aver omesso di aver subito una condanna 9 anni fa, poi estinta per indulto.

Del caso si è occupato il blog di Grillo e il M5S ha aperto un procedimento disciplinare

Pubblicato il 24/07/2017 - Ultima modifica il 24/07/2017 alle ore 07:14

JACOPO IACOBONI

«La Raggi? Alle riunioni sul lago di Bracciano non è mai venuta». Sabrina Anselmo è la sindaca, M5S, di Anguillara Sabazia, uno dei tre comuni lacustri assieme a Bracciano e Trevignano che formano, con Roma Capitale, il Consorzio del lago. Anselmo è una grillina convinta, ambientalista, e sta facendo da molto tempo una battaglia affinché Acea e il Comune di Roma (che ne detiene il 51%) stoppino le captazioni di acqua dal lago. In coincidenza con questa battaglia, è spuntata giovedì una lettera anonima spedita in comune che ricorda una vicenda cui fin qui i vertici M5S non avevano prestato attenzione: Anselmo omise nel suo curriculum di candidata di aver subito una condanna per calunnia nove anni fa. La pena fu condonata e estinta per indulto, non compare sul casellario giudiziale, ma ora la storia è stata fatta tornare a galla, e il M5S ha motivo per espellerla. «È fango contro di me».
 
È un pretesto? Il vero motivo per cui vogliono espellerla è lo scontro con Roma sul lago di Bracciano? 
«Sì, è inutile negarlo. E non le nascondo che non è il primo che fa questa riflessione. I fatti parlano chiaro. Pago la battaglia per fermare le captazioni di acqua dal lago, battaglia che ho fatto assieme agli altri due sindaci del lago».
 
Acea cosa ha risposto a questa richiesta? 
«Intanto Acea non ci ha mai fornito i dati reali».
 
Parlano di un mero 8% dei prelievi dal lago. Questo però non quadra con l’ira di Paolo Saccani, il presidente di Acea Ato 2, per lo stop imposto da Zingaretti. Saccani parla di «atto abnorme e illegittimo». Ma perché Acea è così adirata per lo stop? 
«È quello che gli abbiamo detto anche noi. Solo che Acea non ci ha mai dato i dati; il monitoraggio ce l’hanno solo loro. Anche Zingaretti, che stimo per ciò che ha fatto, glieli chiede, nell’ordinanza. Perché Acea parla sempre solo di “media di captazione”? Non c’è chiarezza. Anche noi abbiamo scienziati e geologi. Acea dice che il lago sarebbe solo trenta centimetri sotto, in realtà lo zero idrometrico va calcolato in riferimento al fiume Arrone: il lago è sotto di 1 metro e 70».
 
Sul disastro ecologico le chiederò dopo. Quali sono esattamente i passi che avete fatto? Da quando, e in quali sedi, denunciate il disastro, che ormai è arrivato? 
«Da novembre abbiamo allertato i tavoli con i rappresentanti di Acea sul territorio. Poi a marzo sono cominciate le riunioni periodiche in regione. Gli attori c’erano tutti, Acea, la Regione, l’unico sempre assente è stato la Città Metropolitana, che non si è mai presentata»
 
Stiamo parlando della Raggi? Non è mai venuta? 
«Non ho problemi a dirlo».
 
Scusi, ma perché non veniva? E comunque, siete dello stesso partito, lei non l’ha avvisata direttamente del disastro? 
«Sì. Io ho avuto occasione di parlarle in un paio di occasioni di quello che stava succedendo sul lago. La situazione era visibile, c’erano anche le foto. L’ho invitata a venire a vedere con i suoi occhi».
 
E lei non è mai venuta? 
«Se è venuta, io non l’ho mai saputo. Non so se la cosa sia stata presa sottogamba, o se sia stata delegata Acea a gestire la situazione. Fatto sta che è stata gestita malissimo. Se da novembre si fossero presi i provvedimenti giusti, magari si sarebbero salvati quei 40 centimetri che a noi avrebbero fatto la differenza. Questo non prendere mai in considerazione la realtà dei fatti mi amareggia. Acea a volte è venuta ai tavoli anche con arroganza».
 
Raggi cosa le disse quando ne parlaste? 
«Disse che conosceva bene il problema, che si sarebbe attivata per risolverlo. Capisco perfettamente che un sindaco sale su un treno in corsa. Però un piano più tempestivo non avrebbe portato a questi risultati».
 
Voi avete fatto anche un esposto alla procura di Civitavecchia per disastro ambientale. 
«Sì, abbiamo chiesto alla Procura di aprire un’indagine per accertare le responsabilità. L’acqua sta finendo. Sta morendo un’alga rara, che abbiamo salvato per miracolo espiantandola in un laboratorio. C’è l’ipotesi di disastro ambientale, e archeologico».
 
Sindaco, lei sarà espulsa dal M5S? 
«Io non mi tiro indietro. Dovessi scontrarmi con tutto e tutti. Ero entrata nel Movimento proprio per fare battaglie come questa per l’ambiente».
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/24/italia/politica/la-sindaca-ms-di-anguillara-avvisai-la-raggi-del-disastro-non-mai-venuta-alle-riunioni-33VwOXA0uqKG58IgYPIFxJ/pagina.html
4654  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Migranti, Minniti: ''Non consegniamo l'Italia ai cattivi maestri della demagogia inserito:: Luglio 24, 2017, 04:57:55 pm
21 LUGLIO 2017

Migranti, Minniti: ''Non consegniamo l'Italia ai cattivi maestri della demagogia''

"Non dobbiamo consegnare l'Italia ai cattivi maestri della demagogia. Il meccanismo dell'immigrazione va governato nel rispetto dei diritti della persona". È questa la posizione del ministro dell'Interno, Marco Minniti, che ieri sera è intervenuto alla festa dell'Unita di Milano.
"Io - ha spiegato - voglio governare i flussi illegali, e su questo ci ho messo la faccia. So bene che a quel punto il popolo italiano mi capirà: di fronte al blocco dei flussi illegali potrò aprire i flussi legali". "Il cuore della partita si gioca in Libia, l'Europa deve agire lì", ha aggiunto.
Domenica 23 il ministro Minniti ha annunciato una nuova riunione in Tunisia, dove ha organizzato un gruppo di contatto tra sette paesi europei e diversi paesi del NordAfrica.

Da - https://video.repubblica.it/dossier/immigrati-2015/migranti-minniti--non-consegniamo-l-italia-ai-cattivi-maestri-della-demagogia/281449/282044
4655  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Marco Ludovico. Giallo dell’area di salvataggio: libica ma «coordinata da Malta inserito:: Luglio 24, 2017, 04:55:10 pm
MIGRANTI

Il giallo dell’area di salvataggio: libica ma «coordinata da Malta»

di Marco Ludovico 
22 luglio 2017

Mossa a sorpresa della Libia alla vigilia del vertice di lunedì a Tunisi sull’immigrazione dei ministri dell’Interno di Europa e Africa. Tripoli dichiara la sua zona Sar (search and rescue) marittima, l’area di propria competenza per la ricerca e il soccorso. Lo comunica alcuni giorni fa con una lettera ufficiale all’Imo (International Maritime Organization), agenzia specializzata dell’Onu per la cooperazione marittima e la sicurezza della navigazione. E «vista l’attuale carenza di risorse e di strutture, dovute al fatto che la guardia costiera e le capacità delle forze aeree sono state distrutte durante le operazioni militari del 2011- aggiunge nella lettera Omar Al Gawashi, presidente dell’Autorità dei Porti Libici e dei Trasporti Marittimi - il governo libico delegherà Malta a coprire la regione Sar di Tripoli». Anche sulla base «di un accordo bilaterale con il governo di Malta nel 2009».

L’iniziativa potrebbe cambiare posizioni e responsabilità in campo nel Mediterraneo. La latitanza di Malta nel soccorso migranti è un fatto storico. Così come è un fatto che La Valletta, interpellata dall’Italia sull’iniziativa libica, ha negato l’intesa con Tripoli sul coordinamento dei soccorsi. Ma il sasso è ormai lanciato: la Libia, così, mostra volontà d’azione coerente con l’Action Plan del 4 luglio. Il piano della Commissione europea per sostenere l’Italia, ridurre la pressione migratoria e aumentare la solidarietà, rileva, tra l’altro, come «i partner dell’Africa settentrionale, in particolare la Tunisia, l’Egitto e la Libia, dovrebbero essere incoraggiati a notificare formalmente le proprie aree di attività di ricerca e salvataggio e a creare Mrcc (Maritime rescue coordination center)». Tanto che è già in fase di valutazione la centrale operativa per la Libia: un progetto con finanziamenti Ue allo studio della Guardia costiera italiana. Come si possa conciliare con gli impegni di coordinamento richiesti ora da Tripoli a Malta non è chiaro. Ma l’iniziativa comunque è in campo e fa uscire allo scoperto La Valletta.

Certo la lettera della Libia all’Imo non era attesa. Così in Italia è stata acquisita dai ministeri interessati - Infrastrutture e Trasporti, Difesa, Affari esteri, Interno - per studiare implicazioni e contromosse se necessario. Il vertice di lunedì a Tunisi, del resto, è un passaggio cruciale per il ministro dell’Interno Marco Minniti. Si incontra il cosiddetto «gruppo di contatto» sull’immigrazione, già riunitosi a Roma su iniziativa di Minniti alla Scuola superiore della Polizia di Stato il 20 marzo. Ci sono i ministri dell’Interno di Tunisia, Libia, Ciad, Niger, Algeria; di Francia, Italia, Svizzera, Austria, Germania e il commissario europeo Dimitri Avramopoulos. La riunione si concluderà, come da prassi, con una dichiarazione di intenti. Ma Minniti terrà anche un orecchio teso verso Varsavia: sempre quel giorno, infatti, si vede per la seconda volta nella sede di Frontex il gruppo dei tecnici dei paesi membri dell’Unione. A distanza del primo incontro sollecitato dall’Italia, l’11 luglio, quando al termine fu deciso un gruppo di lavoro per rivedere il piano operativo della missione Triton, presente la delegazione italiana con dirigenti della Polizia di Stato, Guardia Costiera e Guardia di Finanza. Non è affatto escluso che la lettera della Libia con il richiamo all’impegno di Malta sia citata anche nel vertice di Varsavia di lunedì. Dove dovrebbe esserci anche il rappresentante de La Valletta.

Ieri, dopo l’Austria, anche l’Ungheria ha attaccato l’Italia. «Chiudete i porti» e creiamo «centri di accoglienza fuori dall’Ue» è stato il messaggio del premier ungherese Viktor Orban. «Lezioni improbabili» le ha definite il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni: «Non accettiamo parole oltraggiose sul tema dei migranti» ha aggiunto. Già in settimana i leader dei Paesi del patto Visegrad - la polacca Beata Szydlo, il ceco Bohuslav Sobotka, lo slovacco Robert Fico, e Orban - avevano inviato una lettera a Palazzo Chigi per ribadire la necessità di identificare «i veri richiedenti asilo prima di entrare in Ue».«L’Europa dovrebbe darci solidarietà, non lezioni anche perché non è un pulpito che funziona» ha avvertito il ministro degli Esteri Angelino Alfano. La titolare della Difesa, Roberta Pinotti, sottolinea come dietro «i consigli non richiesti ognuno guardi al cortile della propria campagna elettorale». E il presidente del Parlamento Ue Antonio Tajani ha richiamato i Paesi dell’est al rispetto dell’accordo sui ricollocamenti.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-21/il-giallo-dell-area-salvataggio-libica-ma-coordinata-malta--212754.shtml?uuid=AEFCd40B
4656  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Franco CARDINI. EFFEMERIDI DEL CAOS FACCIO QUELLO CHE POSSO inserito:: Luglio 20, 2017, 05:21:06 pm
Minima Cardiniana 180

Pubblicato il 3 luglio 2017
Domenica 2 luglio – S. Ottone

EFFEMERIDI DEL CAOS
FACCIO QUELLO CHE POSSO

Franco CARDINI

Sono accadute molte cose, questa settimana. E voi, cari Amici, siete troppo esigenti. Come si diceva una volta, “Io non sono mica Nembo Kid”. Sono un professore in pensione che fa parecchio volontariato (nel senso che quasi nessuna delle mie attività è retribuita o sostenuta da alcun ente pubblico o privato). Tenete presente che non posso rispondere a tutti i messaggi che mi inviate in e-mail (ormai siamo sui 300 al giorno) perché sto scrivendo un paio di libri contemporaneamente e sono in ritardo, ho una decina di saggi in sospeso, debbo far articoli quasi tutti i giorni, faccio conferenze quasi giornaliere e debbo frattanto leggere tesi di laurea, manoscritti che mi vengono inviati per chiedere Prefazione oppure anche solo consigli ecc. Ho quasi del tutto abolito le pause-pranzo e ridotto a tre-quattro ore il riposo notturno. Davvero, non posso fare di più.

Data questa pesante “condizione operaia”, non ho tempo né per il face-book, né per il twitter, né per gli SMS né per altre diavolerie del genere: anzi, a dirVi la verità non capisco nemmeno dove lo troviate Voi, tutto questo tempo. Siete tutti disoccupati? Siete tutti pensionati? Soffrite tutti d’insonnia? Vivete di rendita?

Bene. Di tutte queste cose, io sono solo la seconda. Ma sono un pensionato che lavora più di prima, e per giunta a più bassa retribuzione. Mi chiedete il perché di tutto questo disorientamento in giro, di questa disaffezione per la politica, di questa crisi di quell’identità della quale tanto si parla. Ho cercato di rispondere qui, collettivamente, a molte domande, scrivendo qualche paginetta un po’ più elaborata, sotto forma di saggio (cfr. infra: Note storiche sull’identità italiana e sulle prospettive di una sua ridefinizione).

Mi chiedete poi un parere su Vasco Rossi e le masse che è riuscito a convogliare nella pianura padana: figuratevi, ho dovuto viaggiare sui treni locali Bologna-Modena tra ieri sabato e oggi domenica, in condizioni che un’acciuga sott’olio avrebbe considerato insostenibili; e poi a chi sostiene che Vasco sia il suo idolo  posso soltanto rispondere che musicalmente sono monoteista (wolfangamadeusmozartiano); e a chi mi chiede se conosco le droghe rispondo che anch’io sulle Ande ho masticato coca (serve per respirare meglio ad alta quota) e in Asia centrale ho accettato a volte hashish da qualche carovaniere (ma come esperienze estatiche conseguenti non mi pare che la diarrea sia proprio il massimo), fermo restando che la mia droga preferita resta il peperoncino calabrese (ma apprezzo quello cubano, non disdegno quello messicano e se proprio non c’è altro faccio buon viso perfino alla paprika dolce ungherese).

Si è parlato molto di migranti, ma mi paiono discorsi che lasciano il tempo che trovano. Che volete che vi dica? Obbligare francesi e inglesi a “mettersi attorno a un tavolo”, come si usa dire, insieme con gli italiani, è già un grande successo. Peccato che i risultati siano inconsistenti e che la futura conferenza di Tallinn si annunzi come un nuovo fiasco. Perché? Riflettete un attimo. Anzitutto, se l’unica decisione consiste nel cercar d’impostare   una forma di disciplina nei confronti delle imbarcazioni delle ONG, arriviamo comunque tardi (avremmo dovuto farlo da molto tempo): ma la sigla ONG, d’altronde, copre una quantità straordinaria di casi particolari e di situazioni molto diverse fra loro e sarebbe necessario un rapido e intenso sforzo basato sulla collaborazione internazionale per venirne a capo. Se poi si tratta di “dar più soldi alla Libia”, qui allora la canzonatura è palese: la Libia ha tre governi contrapposti, uno filojihadista, uno collegato a doppio filo all’Egitto e alla Turchia e uno – quello che ONU e NATO appoggiano – riconosciuto e sostenuto solo dai cosiddetti “organismi internazionali”, che non ha alcun credito né alcun consenso nel paese e che serve solo a firmare gli accordi con le varie multinazionali per consentir loro di continuar a sfruttare il suo paese (e la nostra ENI ne sa qualcosa). Distinguer tra “rifugiati” e “migranti economici”, come qualcuno vorrebbe, è tanto abietto quanto impossibile. Ormai il vero problema non è più né politico né militare: da una parte vaste aree del continente sono alla fame (ed è stato appunto lo sfruttamento delle multinazionali in combutta con i corrotti governi nazionali africani e i loro patrons occidentali);  dall’altra il flusso migratorio è causato anche dalla falsa immagine dell’Occidente come paradiso terrestre diffusa dai nostri media in tutto il continente africano;  da un’altra ancora le nostre vere classi dirigenti – vale a dire gli anonimi o semianonimi gestori della finanza e dell’economia mondiale, dei quali i politici sono “comitati d’affari” – hanno tutto l’interesse da un lato a esportare dall’Africa forza-lavoro a buon mercato assorbendone la quantità di cui hanno bisogno e disinteressandosi del destino degli altri, dall’altro a perpetuare il supersfruttamento delle ricchezze e delle risorse africane la produzione delle quali richiede scarsa e specializzata forza-lavoro e quindi non risolve il problema delle masse disoccupate e impoverite (anzi, lo ha determinato e contribuisce ad aggravarlo). Finché in sede ONU le potenze che occupano i seggi di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, una delle prerogative dei quali è il “diritto di Veto” alle risoluzioni dell’Assemblea, le multinazionali – protette appunto da quelle potenze, la classe politica delle quali esse in gran parte controllano e ricattano –  continueranno a distruggere l’Africa e a soffocarci col flusso migratorio dalle loro scelte e dal loro interesse provocato. O s’impone alle lobbies di destinare allo sviluppo dei paesi africani una quota-parte dei loro profitti trasformandoli in investimenti produttivi in loco, o la questione non verrà mai risolta e alimenterà, da noi, il circolo malefico insicurezza-malavita-xenofobia.

Sull’eterno problema dell’Islam, è ovvio che la tattica consistente nel cercar di continuo di isolare le comunità musulmane (agitando anche lo strumento incostituzionale dei ”referendum cittadini” ogni volta che si tratta di aprire una nuova moschea –  e dello sgranar quotidianamente il rosario dei crimini commessi da singoli musulmani (ai quali volta per volta si potrebbero contrapporre migliaia di casi di concittadini o di ospiti dall’esemplare condotta: peccato però che “non facciano notizia”), non si andrà da nessuna parte. La via è quella dell’affrettarsi a stipulare convenzioni con i rappresentanti delle comunità: è la via del confronto e dell’integrazione che si sforzi di mantenere la diversità etno-linguistico-culturale (vive la difference!) collaborando però a eliminare con decisione quei costumi e quelle consuetudini che sono sul serio incompatibili con la nostra concezione di libertà e di dignità. E’ in questa direzione che stanno lavorando alacremente le comunità musulmane: si vedano le dichiarazioni rese da Yassine Lafram, responsabile della comunità bolognese, dopo i recentissimi episodi di violenza delle quali si è reso responsabile un giovane marocchino nei confronti delle sue stesse sorelle. Lafram non ha esitato a condannare fermamente e senza ambiguità qualunque uso di costrizione o di violenza messo al servizio di una supposta tradizione religiosa che consiste in realtà in un insieme di consuetudini arbitrarie e retoriche.

Segnalo al riguardo il bell’indirizzo rivolto dal cardinal Angelo Scola al Comitato Scientifico della Fondazione Oasis, editrice dell’omonima rivista edita dalla Marsilio di Venezia, e pubblicata su “Il Corriere della sera” di oggi 2 luglio, p. 20, col titolo I segnali contraddittori dell’Islam contemporaneo. Concordo in pieno con la sua analisi del jihadismo come “una forma di antimodernità che tuttavia rimane succube della modernità” e con il suo giudizio secondo il quale “occorre liberarsi dall’illusione che, sconfitto il jihadismo, le società europee si libererebbero dalle loro contraddizioni per entrare finalmente nella ‘fine della storia’. No, sconfitto il jihadismo, le società europee si ritroveranno con i loro problemi. O, per dirla in un altro modo, solo risolvendo i problemi generati da un liberismo soffocante le società europee saranno in grado di sconfiggere il jihadismo”.

Ineccepibile analisi: che mostra come il mostruoso jihadismo sia un pessimo male, ma non la causa, bensì la risposta sbagliata e criminale – quindi un effetto – di quella che davvero è la redix ominum malorum tra quelli che affliggono la società moderna. Questa radix il cardinale Scola correttamente la individua, ma riduttivamente ed eufemisticamente la definisce, come “un liberismo soffocante”. Esso è il turbocapitalismo internazionale, versione ultima dell’individualismo sfrenato, dell’auri sacra fames e della Volontà di Potenza che non sono conseguenze distorte, bensì l’essenza stessa della Modernità.

Infine, il caso di Charlie Gard. Interpellato telefonicamente ieri sabato da una giornalista de “Il Fatto quotidiano”, che chiedeva il mio parere sull’argomento, le ho lealmente risposto di non saperne abbastanza. In effetti, conoscevo solo quanto aveva scritto qualche giornale. Ho chiesto invece a Marina Montesano un parere meditato, frutto di un’analisi rapida ma attenta. Ecco quanto essa mi e ci scrive.

IL CASO CHARLIE GARD E L’ACCANIMENTO MEDIATICO (Marina Montesano)

Mi è difficile esprimere un parere sulla vicenda medica di Charlie Gard, il bambino inglese di dieci mesi al centro di un contenzioso fra medici e genitori, con ricorso alla magistratura. Ho trascorso gli ultimi trent’anni a occuparmi di storia, prima come studente universitario poi come docente, e ancora nel mio settore di ricerca sono più le cose che non conosco che quelle che padroneggio; e lo reputo normale. Quindi figuriamoci cosa posso sapere di una malattia degenerativa rarissima, una patologia dei mitocondri delle cellule. Fino a questa vicenda, neppure sapevo che esistesse, della qual cosa posso solo ritenermi fortunata: ora so che è una malattia tremenda e incurabile, che ha ridotto un bambino di diciotto mesi in un letto d’ospedale, sordo, cieco e intubato. Ho provato a leggere i pareri degli esperti in materia, visto che io non lo sono. Sono stata molto colpita dall’analisi lucida e allo stesso tempo emotivamente coinvolgente espressa da una dottoressa del San Raffaele di Milano, Alessandra Rigoli: http://www.tpi.it/opinioni/dottoressa-cattolica-commento-charlie-gard/

Può darsi che mi capiterà di leggerne altre, contenenti un parere differente, che mi spingeranno a pensare differentemente. Per ora mi sono fatta l’idea che nel caso di Charlie non si possa parlare di eutanasia, ma della fine di un accanimento terapeutico. Ma se volessi davvero saperne di più, dovrei entrare in possesso di tutte le carte mediche e processuali, ammesso siano pubbliche (le prime credo e spero di no), nella speranza di capirle appieno, e farmi un parere meglio motivato in base ad esse.

Tuttavia, mentre cercavo queste informazioni, mi sono imbattuta, anzi sono stata travolta da un’infinità di commenti sulla vicenda. Alcuni ragionevoli, molti imbevuti di un mix esiziale di paragoni del tutto aneddotici (un altro bambino è vivo / felice / ecc., senza chiedersi se davvero vi sia un rapporto con il caso in questione), di pareri medici e teologici espressi da persone prive di qualsiasi competenza in entrambi i campi, di invettive apocalittiche contro modernità / medici / tribunali / corti europee. Se espressi su Facebook, talvolta accompagnati da emoticon con lacrimuccia, cagnolini piangenti e così via. Insomma, l’atmosfera giusta per inquadrare un caso del genere.

In parte, è l’ormai famigerato ‘popolo di internet’, quello che soprattutto in Italia è riuscito a mettere insieme antiche ignoranze e moderno senso di onnipotenza, per cui non ci si limita più a rifare la nazionale d’Italia, come ai bei tempi, ma si disquisisce di tutto senza conoscere niente. Se poi si tratta di medicina / diritto / storia tanto meglio: un bignami, o il suo equivalente contemporaneo, l’hanno aperto tutti almeno una volta nella vita! E ovviamente, quello di medici / giuristi / professori è solo sapere pomposo del quale è opportuno dubitare.

Ma non c’è solo questo. Si scopre, seguendo questa vicenda, che esiste un popolo numeroso veramente preoccupato per il diritto alla vita dei deboli e degli indifesi. E’ rincuorante, e al tempo stesso sorprendente: perché, generalmente, è un popolo che si nasconde bene. Dove siete quando c’è chi plaude ai bambini annegati nel Mediterraneo? Perché non tuonate? Dove siete quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità denuncia che nel 2016 la  malaria, curabilissima, ha fatto 429mila morti? Che 2/3, ossia circa 280mila, sono bambini sotto i cinque anni?  Ma molti di più ne uccidono la polmonite e persino la diarrea: oltre un milione ogni anno.

Certo, per questi bambini morti l’accanimento mediatico non c’è. Opinionisti e politici (tanti i sedicenti cattolici) tacciono, nessuno ha interesse a parlarne, e tanto gli emoticon quanto i cagnolini di facebook possono risparmiarsi le lacrime.

Marina Montesano

NOTE STORICHE SULL’IDENTITA’ ITALIANA E SULLE PROSPETTIVE  DI  UNA SUA RIDEFINIZIONE

l’Italia nel contesto euro-mediterraneo

Esiste l’Italia? Esistono una tradizione italiana? O sarebbe più giusto dire che l’Italia forse non esiste, però esistono gli italiani: e chiederci se non sarebbe più giusto e corretto limitarsi a definirli “italici”?

L’Ordine dei Cavalieri nato attorno alla chiesa di San Giovanni Battista in Gerusalemme – e divenuto poi di Rodi, adesso di Malta – è distinto in otto circoscrizioni “nazionali”, che tuttavia non ricalcano tanto gli stati-nazione moderni quanto i sistemi linguistico-nazionali dell’Europa occidentale: Castiglia, Alemagna, Inghilterra, Aragona, Italia, Francia, Alvernia, Provenza. Esse sono difatti detti “Lingue”. E’ da notare che la “Lingua d’Alemagna” raccoglie i paesi d’idioma germanico continentale con le immediate pertinenze baltofinniche, mentre la penisola iberica è distinta in due “Lingue” (il Portogallo è associato alla Castiglia; Navarra, Galizia, Paese Basco e Catalogna all’Aragona) e la Francia addirittura in tre (Francia propriamente detta, Alvernia che ricalca l’antico Delfinato e Provenza che comprende tutti i paesi occitani a nord dei Pirenei). Questa tormentata geografia linguistico-nazionale riflette adeguatamente il laborioso processo di concrezione di quel che Massimo Cacciari ha molto adeguatamente definito “l’Arcipelago Europa”: ma s’incontra, in sette casi su otto, con un’identità abbastanza precisa, espressa difatti  da un non meno esplicito segno araldico. Solo nel caso dell’Italia gli araldisti giovanniti si sono trovati a mal partito: e, non essendo riusciti a trovare un simbolo unificatore, hanno preferito ricorrere alla parola “Italia” ricamata in lettere gotiche dorate e posta in banda su un campo nero. Un colore che forse rimanda alle origini benedettine (o agostiniane?) dell’Ordine; ma   che è anche un non-colore, un’assenza, l’incapacità di assegnare alla penisola anche un valore simbolico-cromatico che tutta la rappresenti?

Dopo l’unità d’Italia, il dilemma della mancanza di una tradizione nazionale comune – e quindi d’un simbolo che la rappresenti – fu risolta felicemente per la bandiera della Marina: che raccolse in uno scudo diviso in quartieri le armi delle quattro “Repubbliche marinare”. Viceversa, lo scudo sabaudo contornato d’azzurro al centro del tricolore fu un espediente tutto sommato spurio e poco rappresentativo di qualunque cosa, salvo la volontà egemonica piemontese nel segno della quale si compì, in modo discutibile e imperfetto, un processo unitario nazionale che avrebbe potuto anche compiersi in altro modo. La Repubblica Sociale Italiana si scelse l’aquila della Repubblica Romana del ’49, un simbolo “preunitario” per un tempo ch’era divenuto ormai “postunitario”: ed era tutto dire. Un velo pietoso cada sul pasticcio retorico-massonico-sindacalista che ha espresso il simbolo di stato dell’Italia repubblicana. E uno ancor più pietoso  sull’araldica delle regioni italiane, frutto d’un’ignoranza storico-filologica, d’un’imperizia araldica e d’un cattivo gusto che insieme raggiungerebbero l’acme del kitsch – e non sarebbe poco – se i risultati non fossero anche desolatamente  banali, cosa che il kitsch riesce sovente a non essere.

L’assenza d’un apparato simbolico riflette l’assenza d’una vera e radicata identità nazionale. E giustifica anche la scarsa affezione al tricolore nazionale, umiliata oltretutto da quasi mezzo secolo di esorcizzazione – quando l’onorar la propria bandiera equivaleva a beccarsi la patente di “fascista”: e ciò anche nelle scuole -, maldestra reazione al nazionalismo esasperato della dittatura. Il fallimento dell’esperienza e del modello nazionale fascisti, che avevano del resto una loro forte e coerente continuità rispetto a uno dei molti modi d’intendere il Risorgimento – altro che “invasione degli hyksos” di crociana memoria! – ha le sue responsabilità nel ritardo, nel ristagno e nelle incertezze che si registrano a proposito della maturazione d’una coscienza nazionale italiana. Il fascismo ha rappresentato una fase importante, pur con tratti di rozzezza e di violenza, dello sviluppo del processo di nazionalizzazione delle borghesie e delle messe, di quel “fare gli italiani” dopo aver “fatto l’Italia” che si potrebbe qualificare – prendendo a prestito una definizione a metà fra Carl Gustav Jung e Norbert Elias – come il “processo d’individuazione” della coscienza nazionale italiana. La damnatio memoriae del fascismo ha interrotto questo processo e ha reso arduo, lento e insicuro il riprenderlo. Il rilancio di un “orgoglio italiano”, a partire dal periodo craxiano e più tardi fino ai giorni nostri, magari con punte d’invidia nei confronti del tripudio di strips and stars statunitense esploso in reazione alla tragedia dell’11 settembre 2001,  non appare tuttavia granché sentito e  condiviso  dalla gente: che nella realtà municipale ch’è la vera sostanza profonda del nostro paese preferisce tenersi stretti semmai i suoi gonfaloni cittadini, mentre in certe aree della sua opinione pubblica un po’ più colta si chiede se meglio non sarebbe semmai lavorare a diffondere  una coscienza patriottica europeistica nella quale riassumere (non, badate, dissolvere  e fondere) quella italiana.

Due libri scritti da altrettanti spiriti bizzarri, L’Italia non esiste di Sergio Salvi (Camunia 1996) e Doveroso elogio degli italiani (Rizzoli 2001) di Rino Cammilleri, che dovrebbero essere obiettivamente l’un contro gli altri armati, si rivelano invece – a una spregiudicata lettura in parallelo – quasi complementari.  Ha molte ragioni il Salvi: l’Italia è stata molto a lungo un’espressione geografica e circoscrizionale, non nazionale, nel 1861 nacque uno stato, non una nazione; l’Italia è unita nell’artificio della lingua scritta ma disunita nella concreta realtà della lingua italiana; all’identità approssimativa degli italiani sotto il profilo socioantropologico corrisponde una realtà incompiuta del paese-Italia; all’irrisolta “questione meridionale” se ne affianca una, irrisolta e a lungo “negata”, settentrionale; la mitologia risorgimentale è falsa almeno quanto quella leghista è utopicamente arbitraria; le fantaregioni come Padania e Appenninia sono ridicole astrazioni. Eppure deve pur esserci qualcosa che lega fra loro gli abitanti della penisola – lingua a parte – se, come ribatte il Cammilleri, noi italiani abbiano il comune vizio (già rilevato da Giuseppe Prezzolini) dell’autodenigrazione, ma abbiamo dato al mondo una quantità di scoperte, d’invenzioni, di opere d’arte, di idee originali da farci davvero considerare il sale della terra. E uno storico inglese di sinistra, Paul Ginsborg, sostiene da tempo che perfino i difetti degli italiani – a cominciare dal loro poco senso civico, corretto però ad esempio da una forte sensibilità familiare, di gruppo di ambiente, magari perfino di cosca –  è una delle nostre ricchezze e delle nostre fortune.

Forse l’identità nazionale italiana non esiste: nel senso che le nazioni non sono mai frutto di determinismi etnogeografici di sorta, bensì di volontà. Si è nazione perché si vuol divenire tale: e nessuna forza storica è mai riuscita a farci sul serio e a lungo sentire nazione. La stessa ricchezza culturale delle nostre tradizioni cittadine e regionali c’impedisce di sviluppare un forte senso nazionale; in un certo senso, nel concreto processo storico che ci poneva a contatto con realtà mediterranee ed europee diverse a seconda della nostra regione, non ne avevamo bisogno.

Ma a questo punto va anche detto di più: un’identità per così dire assoluta e totale, un’identità perfetta, non esiste. E aggiungerei: per fortuna. In effetti, i caratteri storici e antropologici sui quali si fondano le varie accezioni del termine “identità”, di cui oggi si abusa, paiono convergere su un insieme di connotati non sempre facili a comporsi e ad armonizzarsi reciprocamente. Non esiste un’identità perfetta: tutte le identità sono imperfette, e ordinariamente quelle che si potrebbero definire “macroidentità” (le nazionali e le religiose sono forse tra esse) altro non sono se non il risultato sincretico piuttosto che non la sintesi di una serie di “microidentità” tra loro disomogenee, e delle quali tuttavia persone, gruppi e comunità in differente misura compartecipano e si riconoscono.

Ma chiediamoci il perché di tante domande – e di tante polemiche – attuali sull’identità italiana. Perché chiederci proprio oggi, e con tanto accanita insistenza, se e nella misura in cui possiamo definirci una “nazione” o una “patria”, e se è più o meno ancora necessario che l’una e l’altra dimensione – affini, ma non identiche –  possano o addirittura debbano ancora riconoscersi in uno “stato”?

Vi sono forse due dimensioni – una generale e mondiale, una specifica di noialtri italiani – alle quali è corretto impostare il problema.

Nel mondo, il nostro è un tempo di forti polarizzazioni. Da un lato sembra che il processo di globalizzazione marci al deciso livellamento delle identità e alla fatale cancellazione di ogni limite e di ogni confine, quindi anche di qualunque sovranità statale: e,  in tempi forse non lunghi, la stessa unica superstite superpotenza potrebbe diventare nei suoi organi decisionali un guscio vuoto riempito della volontà  dei centri dirigenti delle multinazionali, con un  governo ridotto a “comitato d’affari” di essi: Dall’altro, però, stanno riemergendo o emergendo per la prima volta un po’ dappertutto gruppi, nuclei, “tribù” stretti attorno alle loro autentiche o artificiali identità (etniche,  linguistiche o religiose che siano)  e ben decisi ad affermarsi attraverso lo scontro con gruppi, nuclei, “tribù” vicini ed avversi.

In Italia, l’affermarsi delle istanze federalistiche e addirittura di tentazioni scissionistiche si sposa con un’antica tradizione fondata sul policentrismo – specie, ma non soltanto, al nord e al centro – per finir col costituire un quadro di fondo  caratterizzato sul piano delle istituzioni politiche da una  “fuga dall’Italia” nel particolare per il trasferimento dei poteri alle regioni e ai comuni, nel generale per l’inserimento del nostro paese nella Comunità Europea e del suo permanere all’interno di quella realtà poco precisa ma politicamente e massmedialmente molto forte ch’è il “mondo occidentale”. Insomma: siamo italiani in quanto soprattutto italofoni (e anche l’italofonia è condizionata e “corretta” da molti dialetti, vernacoli, argots eccetera); ma sul piano politico non meno che su quello  pratico ci chiediamo se questa nostra “italianità” non sia ormai diventata un valore pleonastico dal momento che per definirci sul piano ristretto la città e la regione ci bastano, mentre su uno più ampio siamo semmai europei ed occidentali.

Il principe di Metternich sosteneva, com’è noto, che “l’Italia è un’espressione geografica”.  E non era una battuta sprezzante, ma una constatazione: il “regno d’Italia” fondato alla fine del X secolo dagli imperatori sassoni sulle basi  del  regno longobardo e poi carolingio  e arrivato fino alla pace di  Presburgo del 1806 non c’era più, quello napoleonico era finito con  il congresso di Vienna; e nessuno dei due, del resto, aveva mai incluso il centro-sud della penisola.  L’Italia non disponeva di una sua compagine unitaria sotto il profilo politico:  ma conosceva (conosce) altre forme di unità? Non certo quella storica: in età romana, la parola “Italia” risalì dal Meridione della penisola fino alle Alpi, senza tuttavia mai significare altro che una realtà circoscrizionale. L’antica frattura tra un nord celto-etrusco-italico e un sud greco-punico con inserti italico-etruschi sopravvisse alla Romanità e si trasferì (dopo gli apporti germanici, uraloaltaici e anche arabo-berberi dell’Alto Medioevo) in una dicotomia tra un centro-nord comunale e poi signorile e un sud monarco-unitario che ripeteva quasi perfettamente l’antica divisione tra Italia e Magna Grecia, con in più la variabile dei territori che riconoscevano l’autorità temporale del vescovo di Roma. Fra 1859 e 1860 “si fece l’Italia”, ma non gli italiani. E a render tali gli abitanti della penisola non bastava nemmeno la lingua: tanto più ch’essa era unitaria  solo come lingua scritta dei ceti colti,  mentre  a livello orale e per i ceti subalterni prevalevano i dialetti.

L’Italia non esiste è il titolo provocatorio e paradossale d’un libro sarcastico, dissacratore e dottissimo di Sergio Salvi (Camunia 1996). Altro che principe di Metternich. Salvi nega l’esistenza di una “nazione italiana”: intendendo per nazione l’insieme di genti legate da comunanza di tradizioni storiche, di lingua, di costumi, ed aventi coscienza di tali  vincoli comuni.  Nega che l’Italia possa essere una “patria”, vale a dire l’unione di un territorio e di un popolo che vi risiede e che ad esso è unito nella  condivisione di lingua, cultura e tradizioni.  Bisogna dire che ha molte ragioni: il policentrismo storico-culturale italiano è sovente per sua natura centrifugo, ed esistono culture regionali dotate di profonda complementarità con culture extraitaliche e poco o nulla affini a quelle italiche vicine. La Sicilia si spiega attraverso i mondi greco, punico, bizantino, arabo-africano, spagnolo; sono Grecia e Spagna a dare un tono semiunitario alla cultura meridionale; la costa ligure si legge meglio se la si confronta con  la  Corsica, la Provenza e la catalogna che non col suo entroterra; il Piemonte è indecifrabile separato dalla realtà burgundo-alamanna; il mondo adriatico nel suo insieme resta dimidiato se non viene posto in rapporto con quello balcano-danubiano.

Il punto è tuttavia che tradizioni davvero unitarie non esistono; e che non c’è popolo né persona che non siano compartecipi, al tempo stesso, di molte identità, tutte imperfette. Una nazione non è tale se nasce su un supporto genetico: è tale se e nella misura in cui si riconosce storicamente e culturalmente  tale.  A metà Ottocento, un sottile strato d’intellettuali e una parte delle borghesie italiane si sono voluti riconoscere tali: si è poi avviato un processo di nazionalizzazione della penisola che non è mai stato del tutto compiuto, sulla base di una formula istituzionale – quella giacobina e bonapartista dello stato  unitario e accentrato – ch’era obiettivamente fuori dalle tradizioni storiche italiane,  avviate semmai (come la Germania) verso una soluzione federale che ne valorizzasse le libertà e  le consuetudini locali.

Si fece in altri termini l’Italia: e il modo con cui la si fece non fu esente da malintesi, tradimenti, violenze, inganni. Non si riuscì a fare gli italiani: e qui bisogna dire che Benedetto Croce sbagliava giudicando il fascismo una “discesa degli Iksos” del tutto estraneo alle tradizioni nazionali. Era vero il contrario: perché in quelle tradizioni erano profondamente radicati il conformismo, il trasformismo, il burocratismo, la retorica: mali postrisorgimentali passati all’Italietta e al fascismo, che tuttavia cercò sia pur in modo per molti versi rozzo e violento di trasferire nella società la Weltanschauung garibaldina e mazziniana. Non era certo quello l’unico modo per tentarlo: ma il tentativo ci fu, ed è coerente con la storia dell’Italia unitaria. Sbagliava il grande Croce, aveva invece almeno in parte ragione il suo non meno grande corregionale abruzzese, il Volpe.  Non che il fascismo fosse – com’egli sosteneva – l’esito necessario del Risorgimento unitario: ma, senza dubbio, esso si era configurato sotto il profilo storico come uno dei coerenti esiti di esso. Ma proprio la stretta consequenzialità tra Risorgimento e fascismo, sostenuta dal regime, ha in qualche modo compromesso il primo inducendo a vederlo come una premessa del secondo: una tesi che, se non ha mai trovato consenziente la maggior parte degli studiosi e dei politici, ha in cambio profondamente inciso a livello della coscienza diffusa degli italiani.

Per questo ha ben visto Ernesto Galli della Loggia nel saggio La morte della patria (Laterza). La fittizia e coatta identità nazionale fondata dal fascismo, e da esso presentata come la conclusione del Risorgimento, fallì. Ma sono falliti anche i tentativi di radicare nella Resistenza i fondamenti di un’identità nazionale e democratica.  Per troppi anni l’ombra del nazionalismo fascista e la cattiva coscienza di chi vi aveva per conformismo, per paura o  per tornaconto aderito si sono tradotti  in un’eclisse e un disagio per il concetto di patria: per troppi anni, nella realtà di tutti i giorni, dirsi italiani ed orgogliosi di esserlo equivaleva a confessarsi fascisti.  I ceti dirigenti dell’Italia postfascista obbligarono purtroppo gli italiani, in effetti, a buttar via il bambino (la patria) con l’acqua sporca del bagnetto (il fascismo); e un patriottismo resistenziale non è mai nato al di là delle sue espressioni politiche e intellettuali, sia perché non è mai stato profondamente sentito, mai fondato su un reale consenso (mentre il fascismo un consenso lo aveva eccome), sia perché equivocamente dotato di troppi volti. Il patriottismo liberale, quello azionista, quello comunista c’erano, ma erano troppo diversi fra loro. Mentre i cattolici, emarginati dalla vita nazionale fino al ’29 e in seguito variamente coinvolti e compromessi  tanto nell’esperienza fascista quanto in quella di un antifascismo ch’aveva pur connotati propri, non avevano mai davvero superato la diffidenza e l’ostilità  nei confronti dell’unitarismo.

Cosa tanto più grave, quest’ultima, perché erano semmai proprio il cattolicesimo e la vita  ecclesiale –  lo avevano da sponde differenti anche se forse meno lontane di quanto paia riconosciuto tanto Gramsci quanto Mussolini –  l’unico vero e condiviso valore comune della grande maggioranza degli italiani.

E adesso, quindi, che fare? Accettare un’Italia stemperata, diluita e in pratica disciolta nelle realtà regionali che agendo nel futuro ordine federale potrebbero finire con lo scomporla? Assistere al suo scomparire nella più ampia identità europea, anch’essa vaga e sfumata?  Pensiamo di no; riteniamo che due millenni di storia comune – esisteva pure una provincia Italiae nel mondo romano, per quanto non sia il caso di far del nominalismo – , rivissuti e ripensati sia pur con  equivoci e mistificazioni  da due secoli ad oggi, non possano esser gettati a mare. L’Italia come stato e come popolo deve entrar a far parte di una Comunità Europea vissuta e sentita, appunto, come comunità di stati e di popoli. Soluzioni alternative, che consentissero di riconoscerci tutti e soltanto come imperfettamente italofoni, non sono storicamente plausibili. Nessun “patriottismo europeo” potrà concretarsi, se non quello fondato sui patriottismi delle patrie e sulla coesione dei popoli  da cui l’Europa è composta. A patto che si tenga bene a mente, e s’insegni ai nostri ragazzi, che patriottismo significa anzitutto senso civico e consapevolezza d’identità. Nulla va quindi affidato né alla retorica né alla natura: essere italiani non è un caso, né l’esito di un cammino necessario e obbligato. Essere italiani è una scelta affidata alla coscienza storica e alla volontà.

Per il principe di Metternich ai tempi del congresso di Vienna, s’è detto, l’Italia era un’espressione geografica. In realtà, la sua dura e precisa affermazione era volta a negare e ad esorcizzare però una verità emergente: che cioè, se l’Italia era stata un’espressione geografica, ormai dalla fine del Settecento era diventata qualcos’altro: sotto l’influsso del modello francese e dell’idea di nazione importata dalla Rivoluzione, senza dubbio, ma anche sotto quello del risorgere di valori e di componenti di libertà municipale – appoggiati a e valorizzati da contenuti patriottico-religiosi – che si erano espressi in modi e in termini occasionalmente antifrancesi e antigiacobini, ma tali tuttavia da far capire (anche se non subito lo si capì)  ch’essi avrebbero potuto condurre all’elaborazione sia pur lenta e non univoca di uno scenario nel quale i concetti di unità e d’indipendenza della penisola avrebbero trovato modo di affermarsi.

Ma pochi anni prima che il Metternich  formulasse il suo giudizio, un altro e più alto e intenso ne era stato formulato, a proposito dell’Italia, da Ugo Foscolo ne I Sepolcri: dove già si indicava con chiarezza il rapporto tra nazione italiana, memoria  della sua identità attraverso il culto delle “itale glorie” e  culto religioso vissuto in termini che con chiarezza rinviavano alla tradizione greca e latina ma che, tuttavia, trovavano il loro momento e il loro monumento catalizzatore in un “tempio” ch’era una Chiesa cattolica, in un pantheon sepolcrale posto sotto l’egida d’una visione cristiano-cattolica della vita, della morte e  del culto da rendersi ai defunti connotato attraverso un’intensa rete di ridefinizioni culturali e cultuali ma pur sempre segnato dalla teologia della comunione dei santi. Alcuni lustri più tardi, Alessandro Manzoni avrebbe posto in Marzo 1821  la fede e la tradizione religiosa – e nel contesto dei suoi versi non possono esserci dubbi ch’egli alludesse esclusivamente alla cattolica – tra gli elementi fondamentali e costitutivi della nazione italiana.

Il rapporto forte e profondo, quasi endiadico, tra italianità e cattolicesimo (nella consapevolezza che la prima non potesse andar disgiunta dal secondo, che tuttavia restava un àmbito incommensurabilmente più ampio di essa), si presentava anche nel celebre motu proprio del 10 febbraio del 1848, in quel  “Benedite, gran Dio, l’Italia!” col quale Pio IX aveva acceso tante speranze, provocato tanto entusiasmo e tanto allarme e avviato una breve travolgente stagione densa di equivoci poco più tardi drammaticamente emersi alla luce.

Ma proprio questo è il punto. L’Italia su cui il papa invocava la divina benedizione non era tanto e soltanto quella del giobertiano Primato quanto quell’Italia imperiale romana che Diocleziano aveva riorganizzato in province sulle quali si erano modellate le diocesi vescovili e che almeno dal V-VI secolo – vale a dire dai papi Leone I e Gregorio I – i presuli che sedevano sulla cattedra episcopale dell’Urbe, e che erano profondamente legati alle vicende dell’aristocrazia senatoria e latifondista, avevano considerato come area connotata da una loro egemonia di fatto che si connotava anche attraverso elementi molto concreti, come le riserve granarie sicule con le quali quel grande aristocratico ch’era Gregorio Magno alleviava la fame delle genti della sua diocesi e della penisola.

Il rapporto tra Italia e fede cattolica, in effetti, va scandito in più fasi e articolato in differenti piani: esso conosce e comprende senza dubbio un aspetto profondo, diffuso, “popolare” nell’accezione gramsciana del termine, che corrisponde a una rete straordinariamente fitta di tradizioni che in gran parte sono entrate in crisi – e non del tutto – solo nella seconda metà del XX secolo, in connessione con l’avanzare del processo di laicizzazione e con quella che alcuni anni or sono Sabino Acquaviva definiva “l’eclisse del Sacro nella società contemporanea”, mentre appaiono oggi invece oggetto sovente di revivals tuttavia disomogenei e talora qualitativamente equivochi; ma accanto a questo piano che comprende e confonde l’Italie des profondeurs  e  il folklore, si ha sul piano propriamente storico la mappa complessa e anch’essa disomogenea dei rapporti, delle connessioni e delle compromissioni tra istituzioni temporali e istituzioni ecclesiali dall’Alto medioevo all’unità del paese, che hanno determinato e segnato molteplici aspetti della nostra vita civile, culturale ed economica e che il contenzioso aperto dai quali  non sembra essere stato del tutto risolto e metabolizzato neppure dal dettato dei due successivo concordati novecenteschi tra stato italiano e Chiesa cattolica; e, infine, si ha il rapporto specifico tra Santa sede e Italia, vale a dire tra istituzioni connesse con la presenza sul suolo della penisola dell’episcopio romano  con tutto il bagaglio d’implicazioni ad esso relative  a partire appunto – ancora una volta – dall’Alto medioevo, da quando cioè i vescovi di Roma hanno avviato il loro, sia pur non coerente fin dall’inizio, progetto di primato in auctoritate prima e propriamente anche in potestate poi su tutta la Chiesa latina.

Sembra che oggi – pacate e in parte superate le polemiche (alcune strumentali) provocate dalle opposte celebrazioni della campagna d’Italia del generale Bonaparte e delle “insorgenze” o dalla beatificazione di Pio IX – ci si possa avviare a una fase ulteriore, animata da un serio disincanto, della  considerazione storica di quel mezzo secolo che va dal controverso radicamento della Rivoluzione francese in Italia alla prima guerra d’Indipendenza: il mezzo secolo cruciale per la definizione dell’Italia  come patria-nazione e del superamento d’un’idea e di un modo istituzionale di usare il concetto “Italia”, risalente almeno all’età carolingia,  che lo arrestava alla parte centrosettentrionale della penisola o addirittura alle soglie del Patrimonium Beati Petri, escludendone comunque la parte meridionale e insulare, il Regnum. Erano state proprio l’avventura giacobino-bonapartista e le Insorgenze da essa provocate a far emergere e ad attivare da una parte una densa discussione politica e intellettuale, da un’altra una serie di espressioni e di sentimenti diffusi, a carattere comunitario e collettivo, che si erano rivelati in grado di radicarsi anche se in modo omogeneo dalle Alpi alla Sicilia. Il sentimento religioso, la consapevolezza d’un’unica ancorché non monolitica comune appartenenza a una comunità linguistica ed etnoculturale, il culto delle tradizioni e delle libertates proprie di un mondo assuefatto al policentrismo ma anche al confronto e allo stretto rapporto, avevano fatto germogliare un’idea di patria-nazione destinata ad esprimersi attraverso un’armonia discorde di tesi e di ipotesi, senza dubbio nuova e mai prima di allora profilatasi nella realtà ma subito partita alla ricerca di illustri antenati: Roma repubblicana e augustea, Dante, Petrarca, Giangaleazzo Visconti,  il Machiavelli…

Risorgimento, lo si è chiamato. Piuttosto che polemizzare sulle parole e proporne una loro modificazione che sempre comporta in qualche misura l’abbandono di una parte della loro eredità storica,  bisogna semmai sempre affrontare con chiarezza gli aspetti storici della loro avventura semantica. Al pari che nel cosiddetto Rinascimento, nel quale non ri-nacque affatto l’antica civiltà grecoromana ma si affermò qualcosa di originalmente nuovo, non Risorgimento non ri-sorse alcun modello desueto o superato d’Italia in qualche modo richiamato a nuova vita, ma sorsero tout court e per la prima irripetibile volta idee e valori nuovi,  magari coesistenti ma anche contrastanti fra loro, destinati a entrare perfino in rotta di collisione, tutti comunque radicati in qualche modo in una proposta di rielaborazione dell’eredità passata, della storia.

Quello che fu chiamato allora Risorgimento dette a se stesso, attraverso un processo storico che come sempre si rivelò assolutamente libero – checché se ne dicesse – da  deterministiche necessità, un finale esito nazionale e statale di tipo unitario e centralistico, secondo un modello ispirato alle soluzioni della Francia del Secondo Impero ma per altri versi animato dalle esperienze democratiche, repubblicane, in qualche misura concettualmente anche egalitarie, della “sinistra” mazziniana e garibaldina. Ne nacque un processo di unificazione nazionale e di consolidamento della raggiunta unità politica che in qualche misura condusse alla negazione del policentrismo e del municipalismo che tanta parte erano della storia quanto meno dell’Italia settentrionale e centrale, e all’elaborazione di una tavola di valori nella quale il cristianesimo aveva un grande ruolo e uno straordinario peso, ma  che comportava uno scontro con le istituzioni ecclesiali cattoliche e  con quel che restava sia del potere temporale della Sede romana, sia  delle prerogative gestionali di tipo politico, giuridico ed economico fin lì detenuti da gerarchie e da sodalizi della Chiesa o da essa comunque dipendenti. E’ noto come due successivi concordati abbiano cercato di regolare questa materia e di appianare il relativo contenzioso; ed è noto che di recente commentatori come Ernesto Galli della Loggia si siano chiesti se la società civile italiana sia ormai matura per fare a meno dei presupposti e degli strumenti concordatari.

Intanto, e d’altro canto, gli italiani degli ultimi lustri sembrano star riscoprendo le loro “piccole patrie” municipali e regionali: ed è giusto, perché la storia millenaria della penisola è storia di un mosaico di appartenenze, di una pluralità di città-stato e di stati-regione, di un policentrismo che sarebbe stato difficile, nel secolo XIX, organizzare in una disciplina federalistica ma che costringere sul letto di Procuste di un unitarismo di stampo e di modello giacobino-bonapartista non è stata scelta felice. Qualcuno sta cercando d’inventare e di proporci nuove patrie, ritagliate all’interno dell’Italia: ma esistono davvero connotati “nazionali” nell’improvvisata padanità, nel  qua e là risorgente meridionalismo? E sarà davvero possibile, e sarà auspicabile, sostituire il patriottismo italiano con un nuovo non diciamo patriottismo, ma perlomeno senso civico europeo?  Ma siamo ancora in tempo a tornare sui passi che abbiamo percorso – non sempre prudentemente – negli ultimi cinquant’anni, e reinsegnare l’affetto e il rispetto per l’amor di patria alle giovani generazioni, dopo che almeno da due siamo stati disabituati a questi valori, anzi indotti quasi a vergognarcene o a trattarli con sdegnosa ironia?  E come si comporrà un possibile ritrovato senso d’italianità non solo con gli orizzonti più ristretti del municipio e della regione e con quelli allargati dell’Europa, dell’euromediterraneità e dell’Occidente, ma anche col problema religioso? Non dimentichiamo che il senso d’italianità, dopo il 1848, è cresciuto in contrasto con la Chiesa, cioè con la comunità che inquadrava la stragrande maggioranza degli italiani stessi sotto il profilo religioso. Ma non dimentichiamo neppure che oggi il dialogo, l’incontro-scontro, non è più limitato ai cattolici e ai laici. Anche qui, il discorso è policentrico: ci sono i laici, gli agnostici, gli atei, ma anche le confessioni cristiane diverse dalla cattolica, le sette, le nuove religioni: tutti fenomeni in crescita. C’è una presenza islamica in incremento; c’è un mondo ebraico che dopo la shoah rivendica la sua italianità ma ha abbandonato i lidi – che gli erano in parte propri fino alle leggi razziali del ’38 – della tendenza semplicemente assimilazionista.

La vocazione italiana al policentrismo, mai superata, si ripropone dunque anche al livello religioso, dove la stessa Chiesa sembra aver abbandonato  la tesi d’una coincidenza se non totale quanto meno molto larga  dell’identità nazionale con quella cattolica e andar addirittura accettando per sé  il ruolo, nuovo nella consapevolezza se non nella sostanza,  d’una realtà istituzionalmente e culturalmente di straordinario rilievo, ma  politicamente, moralmente e numericamente di sia pur qualificata minoranza. Sotto il profilo religioso, questa è la novità che più d’ogni altra qualifica la storia recentissima del nostro paese. Venuta meno anche l’identità cattolica come identità pervasiva e maggioritaria se non unica, che cosa ci resta? Forse, la coscienza appunto storica della nostra “vocazione” – sia detto con la piena coscienza della pericolosità del “vocazionismo” come dimensione ideologica – a far da policentrica e polimorfica cerniera tra Europa e Mediterraneo e fra Europa e Oriente, il nostro fondamentale ruolo di “euroterroni” che in passato ha fondato il genio, la flessibilità, la capacità di adattamento e di metabolizzazione della storia. Crediamo che non sia poco.

L’Italia, il Mediterraneo, la Pace.

Se l’Italia è un paese europeo, essa è anche, e non meno, un paese mediterraneo. Tale dimensione è vissuta nel mondo politico in due direzioni fondamentali: a sinistra, in termini di pace; a destra, in termini di sicurezza. Lasciamo per ora da parte questa dimensione, che propriamente sembra preludere a una visione del Mediterraneo come appendice funzionale dell’atlantico (inserita quindi nella prospettiva dell’Europa-Occidente, la prospettiva atlantista). Esaminiamo invece il tema della pace, che per un verso parrebbe più retorico e convenzionale, per un altro si presenta forse come più interessante se considerato al di là dello stereotipo pacifista, in una dimensione civica concreta.

E’ molto difficile, oggi, parlare di pace. Venti di guerra soffiano impetuosi tra Asia e Mediterraneo, e quasi nessuno – fra i politici che contano sul serio come tra gli opinion makers più influenti – sembra disposto a spendere una parola per la pace. Anzi, si va diffondendo – ed è forse questo il dato più allarmante – una sorta di convinzione pseudorazionale che la guerra sia, a questo punto, non solo “giusta”, bensì anche “necessaria”; e si vanno con sempre maggior decisione criminalizzando le poche voci contrarie, proponendo sistematicamente un aberrante paragone con l’Europa dopo il trattato di Monaco del ’38 e sostenendo che chi si oppone alla guerra fornisce un aiuto “obiettivo” ai “nuovi Hitler”.

Per tutto il secondo dopoguerra siamo stati dominati da un conformismo occidentale che si diceva quasi coralmente pacifista; anche per questo la repentina, corale conversione alla guerra – e alla guerra “giusta”, una dimensione che fino a pochi anni fa si rimproverava duramente alla Chiesa cattolica – mi sconcerta. La risposta “di guerra” all’attentato dell’11 settembre del 2001 era solo una di quelle possibili; così come era – e lo ha sottolineato Simon Peres – solo una delle linee possibili, e non affatto l’unica praticabile,  quella della rappresaglia scelta da Sharon dopo i recentissimi attentati in Israele. Quello della guerra senza quartiere contro tutti i terroristi o supposti tali e i loro complici o supposti tali – che rischia di allargare a macchia d’olio il conflitto in corso – è il teorema proposto-imposto dal presidente Bush: non è affatto l’esito di una necessità obiettiva, bensì il risultato di una scelta politica alla quale sempre meno estranee appaiono anche le ragioni interne all’equilibrio politico statunitense e al controllo delle fonti energetiche nell’Asia centrale.  Il convergere delle conseguenze di questo teorema con la fredda volontà dei centri terroristici, ormai evidentemente indirizzati a far deflagrare un più ampio conflitto al fine di procurarsi il sostegno di una base di consenso di massa nel mondo musulmano, rischia di strangolare sul serio la pace.

Con questi presupposti, e in questo contesto, riesce davvero difficile parlare di pace. Stiamo oggi toccando con mano una tanto triste quanto innegabile realtà: vi sono nella storia momenti in cui, e forze per le quali, la guerra diviene utile, opportuna, redditizia. In casi del genere, gli appelli alla ragione non servono: perché non meno razionali e ragionevoli, purtroppo, sono gli elementi che determinano il nascere e il dilagare dei conflitti. Le ragioni del potere o della convenienza economica militano sovente in favore delle guerre anziché delle paci.

D’altronde, se la guerra può essere strumento di affermazione di potere, è vero anche il contrario. Essa può altresì essere strumento di liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento. Si può rifiutare in linea di principio tale strumento, come si è fatto nella costituzione italiana: ma abbiamo visto ch’è davvero difficile tradurre puntualmente i princìpi in atti e in scelte di tipo concreto. Un mondo nel quale un miliardo circa di persone, pari a un quinto della popolazione mondiale, detiene e gestisce oltre l’ottanta per cento delle ricchezze e delle risorse del globo, mentre quattro miliardi di persone, i quattro quinti di tale popolazione, è costretto a sopravvivere disponendone di meno del venti per cento, è per forza soggetto al deflagrare d’infiniti conflitti.

Non serve dunque il pacifismo retorico, quello delle buone intenzioni: non serve un pacifismo che astragga dal fatto che, per preparare la pace, è necessario modificare profondamente le strutture  economiche, finanziarie, produttive, tecnologiche d’un mondo fondato sull’ingiustizia e sulla sperequazione. I ragazzi che marciano per la pace nelle nostre strade o che nel suo nome occupano le aule scolastiche, debbono pur chiedersi che tipo di politica produttiva sia quella seguita dalla “Nike” o dalla “Adidas” che forniscono loro tanto ambìti oggetti di consumo. Debbono pur interrogarsi sulla provenienza del petrolio ch’è materia prima per la miscela dei loro motorini. Debbono pur domandare ai loro genitori se essi sono sicuri di non concorrere in qualche modo a finanziare le industrie produttrici di armi allorché immettono i loro risparmi nel circuito della borsa. Non si può sul serio marciare per la pace mentre il nostro motorino, la nostra maglietta, le nostre scarpe, i soldi che abbiamo in tasca marciano invece compatti per la guerra.

E’ dunque opportuno cominciare dal paese ch’è il nostro e nel quale viviamo, l’Italia. E’ davvero portatrice di una missione di pace, la nostra penisola? Come può esprimerla?

Per rispondere adeguatamente, bisognerebbe cominciare col chiedersi che cosa sia l’Italia. Forse l’identità nazionale italiana non esiste: nel senso che le nazioni non sono mai frutto di determinismi etnogeografici di sorta, bensì di volontà. Si è nazione perché si vuol divenire tale: e nessuna forza storica è mai riuscita a farci sul serio e a lungo sentire nazione. La stessa ricchezza culturale delle nostre tradizioni cittadine e regionali c’impediva di sviluppare un forte senso nazionale; in un certo senso, nel concreto processo storico che ci poneva a contatto con realtà mediterranee ed europee diverse a seconda della nostra regione, non ne avevamo bisogno.

Ma a questo punto va anche detto di più: un’identità per così dire assoluta e totale, un’identità perfetta, non esiste. Per fortuna. In effetti, i caratteri storici e antropologici sui quali si fondano le varie accezioni del termine “identità”, di cui oggi si abusa, paiono convergere su un insieme di connotati non sempre facili a comporsi e ad armonizzarsi reciprocamente. Non esiste un’identità perfetta: tutte le identità sono imperfette, e ordinariamente quelle che si potrebbero definire “macroidentità” (le nazionali e le religiose sono forse tra esse) altro non sono se non il risultato sincretico piuttosto che non la sintesi di una serie di “microidentità” tra loro disomogenee, e delle quali tuttavia persone, gruppi e comunità in differente misura compartecipano e si riconoscono.

Ma chiediamoci il perché di tante domande – e di tante polemiche – attuali sull’identità italiana. Perché chiederci proprio oggi, e con tanto accanita insistenza, se e nella misura in cui possiamo definirci una “nazione” o una “patria”, e se è più o meno ancora necessario che l’una e l’altra dimensione – affini, ma non identiche –  possano o addirittura debbano ancora riconoscersi in uno “stato”?

Vi sono forse due dimensioni – una generale e mondiale, una specifica di noialtri italiani – alle quali è corretto impostare il problema.

Nel mondo, il nostro è un tempo di forti polarizzazioni. Da un lato sembra che il processo di globalizzazione marci al deciso livellamento delle identità e alla fatale cancellazione di ogni limite e di ogni confine, quindi anche di qualunque sovranità statale: e, in tempi forse non lunghi, la stessa unica superstite superpotenza potrebbe diventare nei suoi organi decisionali un guscio vuoto riempito della volontà  dei centri dirigenti delle multinazionali, con un  governo ridotto a “comitato d’affari” di essi. Dall’altro, però, stanno riemergendo o emergendo per la prima volta un po’ dappertutto gruppi, nuclei, “tribù” stretti attorno alle loro autentiche o artificiali identità (etniche, linguistiche o religiose che siano)  e ben decisi ad affermarsi attraverso lo scontro con gruppi, nuclei, “tribù” vicini ed avversi. Ma allora, qual è il ruolo della Chiesa cattolica, quale il ruolo del sentimento di appartenenza alla cattolicità che alberga in molti italiani, rispetto all’appartenenza alla comunità italiana? Che l’identità nazionale possa identificarsi nel nostro paese con quella cattolica, che pure della sua tradizione e della sua storia è tanto cospicua parte, non si può sostenere: neppure paesi nei quali processo  di unificazione nazionale e di identificazione con una fede e una Chiesa  sono ben più convergenti e si potrebbe dire per molti aspetti convergenti – cito qualcuno fra i pur essi stessi discussi casi-limite di Polonia e Chiesa cattolica, d’Irlanda e Chiesa cattolica, di Russia e Chiesa ortodossa (a parte la lunga e  del resto essa stessa non univoca parentesi socialista), di Prussia e Chiesa evangelica –  possono presentare la loro coscienza nazionale e la loro coscienza religiosa come una sorta di valore sino in fondo endiadico e inscindibile.

Alla luce di tutto ciò, il còmpito di una ridefinizione dell’identità italica deve partire dal presente puntando al futuro, per recuperare quelle tradizioni che al progetto del presente sono strettamente connesse. L’archeologia folklorico-culturale non serve; il conservatorismo si traduce fatalmente in un immobilismo museale che di solito serve da maschera per un cinico e amorale rifiuto delle radici nel nome dell’adesione a un perbenismo funzionale al mantenimento dello status quo sociale; quel che forse, provvisoriamente, può servire è un “tradizionalismo futurista”, che abbia chiaro il principio secondo il quale le tradizioni sono una realtà viva, che si rinnova di continuo (e che non ha nulla a che fare con quella delle consuetudini incollate a un passato acriticamente visto come “da conservare” indipendentemente dai suoi contenuti) e sia ben consapevole del fatto che si è nazione solo se, quando e nella misura in cui tale si vuole essere.

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4657  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Francesco RADICIONI. Addio a Liu Xiabo, il Nobel dissidente inserito:: Luglio 18, 2017, 05:01:27 pm

Addio a Liu Xiabo, il Nobel dissidente
L’attivista cinese è morto ieri in ospedale a 61 anni. Da Tiananmen a Charta ’08 ha sfidato il regime chiedendo riforme democratiche.
Il Comitato di Oslo: Pechino è responsabile per la sua fine

Pubblicato il 14/07/2017

Francesco Radicioni
Pechino

Tutta la vita di Liu Xiaobo è stata quella di un uomo in rivolta. Intellettuale, attivista democratico e premio Nobel per la Pace. Nel dicembre 2008, quando la polizia va ad arrestarlo per l’ultima volta, Liu sta lavorando a Charta ’08. Solo due giorni dopo sarebbe stato reso pubblico questo manifesto politico che - fin dal nome - trae ispirazione da Charta ’77, il documento dei dissidenti nella Cecoslovacchia sotto l’influenza sovietica. «La Cina deve andare verso un sistema di libertà, di democrazia, di stato di diritto». 

Centinaia di accademici e attivisti cinesi hanno firmato il documento in cui si chiede a Pechino di garantire quei diritti che nella Repubblica Popolare rimangono tabù: fine del monopolio politico del Partito Comunista, separazione dei poteri, libertà di espressione e una riforma costituzionale in senso federale. Per le autorità cinesi è troppo. Il giorno di Natale 2009 - al termine di un processo che dura una manciata di ore - Liu Xiaobo viene condannato a 11 anni di carcere con l’accusa di «incitamento alla sovversione dei poteri dello Stato». Nel 2010 il comitato di Oslo assegna a Liu Xiaobo il premio Nobel per la Pace: un riconoscimento per la «lunga e non-violenta battaglia per i diritti umani fondamentali in Cina». L’ira di Pechino si abbatte sul Nobel. Definisce il premio a Liu Xiaobo «un grave errore» e annuncia ripercussioni nelle relazioni con la Norvegia. A monito per le altre capitali europee, i rapporti con Oslo vengono congelati per alcuni anni. 

Nonostante gli appelli internazionali, la Cina non consente a Liu Xiaobo di uscire dal carcere neanche per andare a ritirare il premio: alla cerimonia di consegna l’attivista è rappresentato da una sedia vuota. Intanto, a Pechino, finisce agli arresti domiciliari Liu Xia, sua moglie, sebbene nei suoi confronti non siano mai state mosse delle accuse formali. 

Le radici dell’attivismo democratico di Liu Xiaobo devono però essere cercate indietro nel tempo. Pechino, metà degli Anni 80. Liu è un giovane docente di letteratura all’Università Normale in un periodo in cui il mondo accademico cinese ribolle di dibattiti e idee. Quel professore è capace d’incantare i ventenni perché parla con audacia e passione di politica, in una Cina da poco uscita dalla Rivoluzione culturale di Mao. È polarizzante. Una volta disse che «le principali guerre combattute dagli Stati Uniti sono tutte eticamente difendibili». Nel conflitto in Medioriente sceglie di stare dalla parte di Israele. 

Nella primavera del 1989 Liu sta facendo ricerca a New York, quando a Pechino gli studenti marciano su piazza Tienanmen per chiedere democrazia. Il professore non perde tempo e fa rientro a Pechino per partecipare alle manifestazioni. Dopo l’imposizione della legge marziale, tenta una mediazione in extremis con l’esercito per consentire agli studenti di lasciare la piazza prima che - nella notte tra il 3 e 4 giugno 1989 - scatti la repressione. «Se non fosse stato per Liu e per pochi altri - ricorda la giornalista Gao Yu - quella notte il bagno di sangue avrebbe avuto dimensioni maggiori».

Per il ruolo avuto nella primavera di Pechino, le autorità condannano Liu Xiaobo a quasi due anni di carcere per «propaganda contro-rivoluzionaria». Quando esce di prigione l’Australia gli offre asilo politico. Liu rifiuta di lasciare il Paese, per continuare la sua battaglia per la democrazia in Cina. 

È nei circoli degli artisti della Pechino degli Anni 80 che, oltre alla politica, Liu Xiaobo incontra la compagna di tutta una vita. Anche Liu Xia è un’intellettuale: poetessa e con una solida famiglia alle spalle. Nel 1996 vanno a vivere insieme. Pochi mesi dopo per Liu Xiaobo si aprono le porte di un campo di lavoro per alcuni suoi scritti su Taiwan. L’amore tra la poetessa e il «nemico dello Stato» resiste e la coppia si sposa mentre Liu Xiaobo sta scontando questa nuova condanna a tre anni. «Xia è stata provata - fisicamente ed emotivamente - da questi anni trascorsi lontano dal marito e sotto l’invadente presenza della polizia cinese», raccontano gli amici. «Questa è però la vita che Liu Xiaobo ha continuato a scegliere, anche quando la paura e la corsa al denaro riduceva al silenzio un’intera generazione di attivisti democratici in Cina». Il 26 giugno era stato scarcerato per permetterne le cure in ospedale. Nei giorni scorsi Usa e Germania aveva fatto un appello per permettergli di essere curato all’estero, ma Pechino non ha ceduto. Lo avevano anche visitato due dottori stranieri.

La notizia della sua morte ha infiammato i social network. I leader del movimento di Tiananmen hanno duramente condannato il governo cinese: «Spero che il mondo ricordi per sempre come il partito comunista cinese, questo nuovo gruppo nazista, abbia brutalmente torturato a morte Liu Xiaobo», ha scritto su Facebook, uno dei leader del movimento studentesco del 1989, oggi in esilio negli Usa. Anche il Comitato per il Nobel ha puntato il dito contro Pechino: «Il governo cinese ha la pesante responsabilità della morte prematura di Liu». Il segretario di Stato Usa Tillerson ha invece chiesto di liberare la vedova Xia «consentendole di lasciare la Cina, un desiderio che ha già espresso».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/14/esteri/addio-a-liu-xiabo-il-nobel-dissidente-hnFmvh6SDBevIfiFJdv3qO/pagina.html
4658  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Beatrice Rutiloni Gramsci, che parla di noi inserito:: Luglio 18, 2017, 04:56:42 pm
Interviste

Beatrice Rutiloni @bearuti  · 14 luglio 2017

Gramsci, che parla di noi

#Democratica cover Gramsci-mostra
Sinistra, libertà, uguaglianza. La rinascita gramsciana secondo il presidente della Fondazione, Silvio Pons
 
C’è da dire che Antonio Gramsci è diventato un’icona pop. Come la Marilyn di Andy Warhol o il Che sulle t-shirt dei sognatori di tutto il mondo, così, con quella sua faccia da “intellettuale organico”, Gramsci è diventato il volto più noto della politica con la P maiuscola, quella che mescola pensiero, studio, serietà, passione. Sobrietà.

Gramsci come il nuovo idolo di una generazione un po’ nerd, che da ogni angolo del mondo ritrova in quel modernissimo sguardo la propria fuga dal presente. L’ultimo degli utopisti, con quegli occhialetti tondi che sono passati da John Lennon a Harry Potter, è oggi più celebrato di Lenin: quattro anni fa nel Bronx, l’artista svizzero Thomas Hirschhorn ha creato l’installazione The Gramsci Monument, un luogo di aggregazione che ha ospitato reading, lezioni, corsi per bambini, concerti e seminari. Dalla casa museo di Ghilarza, in Sardegna, dove Gramsci visse la sua infanzia, sino a New York, la miniera gramsciana sembra arricchirsi di anno in anno. A dimostrazione del fatto che l’eredità culturale, quando è viva, è come un classico: non muore mai, anzi, rinasce nella memoria.

A ottant’anni dalla scomparsa dell’uomo politico, definizione che nella sua massima espressione riunisce tutte le altre, quella di filosofo, storico, linguista, giornalista e scrittore, resta molto di Gramsci: restano le sue bellissime lettere private, che esprimono l’uomo, e restano i Quaderni, tradotti in tutto il mondo e aperti mille volte nella vita. Di quelle letture che prendi e riprendi perché sempre ti dicono, un po’ come la Recherche di Proust. E rimane l’impressione di Gramsci, la stessa cifra inquieta e ordinata del suo volto è nella sua pagina scritta, con quella indimenticabile grafia, piccolissima, precisa, di un uomo che sa che il tempo non si spreca e non si perde.

Uno dei più grandi conoscitori dell’opera gramsciana è Silvio Pons, storico dell’Europa orientale, tra i massimi esperti del comunismo internazionale e presidente della Fondazione Gramsci.

Viene da chiedere, oggi che è il 14 luglio, anniversario della Rivoluzione francese, quanto vale la libertà.

E’ un valore globale ed è più attuale che mai. Viviamo un’epoca di grande disordine mondiale in cui sono rimessi in discussione i principi fondamentali della democrazia. L’ultimo esempio di rivoluzione nel nome della libertà sono state le Primavere arabe che ormai abbiamo rimosse alla luce della catastrofe della Siria e di tutti gli eventi violenti che sono seguiti alla caduta dei regimi. Potremmo dire che tra la fine del Novecento e l’inizio del secolo molte comunità si sono mosse per rivendicare libertà. Non c’è stato solo il 1989 in Europa, di rivoluzioni pacifiche ce ne sono state molte altre tra i Balcani, il sud dell’Africa, fino all’Iran. Ci sono state intere comunità senza nome che hanno imposto nell’agenda mondiale una richiesta di libertà che va molto al di là della tradizione eurocentrica della rivoluzione francese.

L’egocentrica rivoluzione francese.

Dico che gli europei hanno monopolizzato alcuni valori, tra cui la libertà. La rivoluzione francese ha generato la modernità politica europea, l’evento genetico del nazionalismo occidentale. Ora siamo in un’epoca in cui Occidente e americanismo sembrano appartenere al passato e sono superati, ma una certa idea di libertà e anche di uguaglianza che può farsi riferire alla nostra storia moderna si è globalizzata. Ci sono tante rivoluzioni francesi, tra cui metto in testa la Primavera araba.

Che però è fallita.

Le rivoluzioni possono fallire ma anche il loro fallimento esprime significati importanti, soprattutto in relazione alla parte del mondo dove originano. Anzi, direi che proprio perché sono fallite dobbiamo fare ancora più attenzione. Il fantasma delle libertà moderne è ancora tra noi.

E quello dell’uguaglianza?

Molto meno, viviamo in un mondo diseguale: da una parte c’è la crescita della ricchezza globale – ma sono ferocemente contrario a chi accusa la globalizzazione di essere una portatrice di povertà – che ha seminato ricchezze nel mondo in modo diseguale. La Cina o l’India sono le nuove potenze, l’Occidente non controlla più, non influenza più. La redistribuzione delle risorse ha spostato l’asse della ricchezza da Occidente a Oriente con la dannosa conseguenza che da noi il benessere è polarizzato nelle mani di pochi e che assistiamo a un tendenziale impoverimento delle classi medie, vero fulcro della democrazia occidentale. Di fronte a tutto ciò continua a sorprendermi che la richiesta di maggiore equità non abbia ancora suscitato delle proteste sociali che era legittimo aspettarsi.

Forse è ancora presto?

Il punto è che le società oggi sono molto corporative e dunque si fa fatica a immaginare un blocco sociale e politico che ponga la questione di una maggiore uguaglianza .Vedo un fenomeno che porta sottrazione di uguaglianza ma non vedo emergere  sentimenti di protesta e contestazione, che rimangono chiusi e marginali oppure si esprimono sotto la forma dei populismi.

E che forma sociale sono i populismi?

Primitiva. Illusoria. L’idea che sia sufficiente conquistare quote di sovranità nazionale per migliorare la vita delle persone è un miraggio. Nel mondo di oggi il primato dei singoli Stati è limitato da una serie di forze che non sono contendibili dal potere di ciascuno. L’unica possibile forma di resistenza e di riforma, l’unica risposta positiva ai processi di globalizzazione è sovranazionale.

L’unica risposta è l’Europa?

Il tema di una governance globale continua ad essere un grande tema ma molto lontano da noi. L’Europa è una risposta, certo. Il processo di integrazione europea nasce come il rigetto alle guerre tra stati-nazione che hanno contraddistinto la storia del Novecento. A questo si aggiunge la consapevolezza che solo una grande area sovranazionale in termini economici, democratici e produttivi può sostenere la globalizzazione.

Il problema sono leader?

I leader sono lo specchio della società. Il punto è che non si è creato uno spazio politico legittimato e accettato da tutti. Il livello nazionale continua ad essere più forte e questo determina continue tensioni tra i singoli stati e l’Europa. Aggiungiamo che in tempi di crisi con l’ Europa debole il populismo,con la sua dote di illusione, ha una porta aperta.

Gramsci, chiuso in cella, aveva intravisto i nostri giorni: nei Quaderni parlava di mondializzazione dell’economia contrapposta alla nazionalizzazione della politica. È impressionante.

In realtà questo processo era particolarmente visibile già dopo la Prima guerra mondiale: il tempo di Gramsci è legato al nostro. Noto due cose: che la globalizzazione inizia molto prima della fine della guerra fredda poiché una crescente interdipendenza inizia già dalla fine dell’Ottocento e  che non esisteva una forma di egemonia evidente. Con il linguaggio di oggi potremmo dire che non c’era negli anni Venti e Trenta una governance mondiale, e questa è anche una tendenza del nostro secolo.

Altra tendenza del nostro secolo è la crisi della sinistra un po’ ovunque. Come se la spiega?

È un tema che ci investe e assilla da tempo. Non è una crisi recente e dobbiamo fare dei passi indietro anche se è vero che la ricetta nessuno ce l’ha. Di ragioni, invece, ce ne sono molte: c’è stata l’idea che dopo la fine del comunismo fosse possibile fare una nuova sinistra democratica, era l’epoca della Terza Via, dei Blair e dei Clinton. Un’esperienza di sinistra riformista e anti-totalitarista che si arenò alla fine del secolo. Credo che quello fu l’inizio del declino. Siamo un po’ fermi lì e penso che la sinistra oggi non abbia ancora fatto i conti con il paradigma progressista secondo cui lo sviluppo è sempre lineare e inarrestabile. La sinistra è una delle vittime della globalizzazione, ed è entrata in crisi con l’esaurirsi del welfare state. E poi, si sa, quando la politica è in crisi lo è a maggior ragione la sinistra.

La destra ne risente meno?

La destra è più brava, da sempre, a fare leva sui sentimenti delle persone, sulla paura. La sinistra non ha questo tipo di possibilità e quindi in mancanza di Politica, quella con la famosa P maiuscola, soffre di più.

Un suo consiglio.

Siamo sempre lì: iniziamo a rivedere il paradigma progressista. La sinistra deve vivere e deve essere contrapposta alla destra. Facciamo un errore storico se pensiamo che questi valori non esistono più.

Ha ragione. Basta vedere le reazioni alla legge contro l’apologia di fascismo. Hanno detto che è liberticida. Ed è la cosa più gentile che hanno detto.

E’ un fatto preoccupante perché si basa su una perdita di memoria: dobbiamo conservare la consapevolezza che il fascismo fu una catastrofe. Non si tratta di antifascismo di maniera ma di riaffermare la neutralità della nostra storia. Anche i valori dell’Europa sono anti-totalitari e la perdita di memoria è visibile in quello che accade in Ungheria o in Polonia. Dire che è liberticida una legge che condanna l’apologia di fascismo è contraddittorio e lo è due volte se ad esprimersi così sono coloro che sino a qualche mese fa si intestavano la difesa della nostra Costituzione.

A chi si riferisce?

Al Movimento 5 Stelle che ha fatto le barricate per una Carta che è profondamente antifascista e che, allo stesso tempo, afferma che una legge che condanna l’esaltazione del ventennio sia liberticida.

Da - http://www.unita.tv/interviste/gramsci-che-parla-di-noi/
4659  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / Enrico BELLAVIA. Corvi e veleni annunciano la guerra inserito:: Luglio 18, 2017, 04:54:18 pm
18LUG2017

Corvi e veleni annunciano la guerra

Di Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica

Giovanni Falcone, lo aveva chiaro, sugli scogli dell’Addaura si era combattuta una guerra tra chi nello Stato lo voleva morto e chi, nello Stato gli aveva salvato la vita. Ecco perché parlò di “menti raffinatissime” dietro la strage sventata. Sapeva che non era solo affare di manovalanza criminale. Su quella scogliera non c’era solo Cosa Nostra.
Dal 21 giugno 1989 il giudice non dormirà più nel suo letto. Ma sdraiato sul pavimento, sotto il cuscino una pistola. Al suo amico Francesco La Licata confida: «Non mi posso più permettere di dormire a sonno pieno».
E ai funerali di Nino Agostino sussurra al vicequestore Saverio Montalbano: «Questo è un segnale contro di me e contro di te».
I sospetti per l’Addaura si addensano sui boss Madonia, mafioso il padre Francesco e tre dei suoi quattro figli, Giuseppe, Nino e Salvino, sicari col diploma in tasca, fedelissimi di Totò Riina. I luogotenenti dei Madonia sono i Galatolo, solida famiglia della costa. Controllano il cantiere navale. E nel loro quartier generale, tra l’Acquasanta e l’Arenella, sono di casa anche alcuni "sbirri", tra cui quell'uomo con la "faccia da mostro" che era andato a cercare Nino Agostino a casa pochi giorni prima del suo omicidio.
Lorenzo Narracci, il numero due del Sisde a Palermo, fedelissimo del capo locale dei Servizi, Bruno Contrada, ha la barca ormeggiata proprio di fronte casa Galatolo.
Ma sugli scogli dell’Addaura, davanti la villa che Falcone, affitava ogni estate, più che indagare si smobilita. Ci si incarica di ripulire in fretta la scena del crimine da ogni traccia. Viene fatto brillare il congegno dell’innesco. E’ cancellato un elemento chiave per dare concretezza alla tesi che di una strage sventata e non di un avvertimento si era trattato.
E così intorno a Falcone inizia il valzer dei sospetti: la bomba?, una messinscena voluta da lui stesso per acquisire meriti e benemerenze, un viatico di carriera.
Il Corvo, l’anonimo estensore della lettera in cui la vulgata si tradusse in scritto, lo sostenne. Il resto fu un turbine che travolse il giudice Alberto Di Pisa come autore dell’anonimo – poi scagionato - fermò nei fatti una gigantesca istruttoria sul ruolo dell’ex sindaco Vito Ciancimino nel mondo degli appalti e confuse nella sabbia della maldicenza tutto e tutti. A occuparsi di indagini sulle indagini ci mise del suo l’apparato dell’Alto commissariato alla lotta alla mafia, un carrozzone di assoluta inutilità con il quale lo Stato si era lavato la coscienza relegando ancora una volta alla Sicilia il compito di sbrogliarsela con il suo male.
Giovanni Falcone per primo era convinto che così com’era non servisse a molto, tanto più che quando era stato in predicato di dirigerlo, a Roma avevano trovato il modo di impedirglielo. Perché l’Alto commissariato, nei fatti una succursale dell’allora Sisde - il servizio segreto civile - era il crocevia di un certo modo di acquisire informazioni che dovevano restare al sicuro. (3 continua)

Da - http://mafie.blogautore.repubblica.it/2017/07/814/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P2-S2.6-T1
4660  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Roberto GALULLO. Perché la mafia dei terreni incendia l'Italia inserito:: Luglio 18, 2017, 04:49:26 pm

Palazzi evacuati a Sciacca
Perché la mafia dei terreni incendia l'Italia

Di Roberto Galullo 13 luglio 2017

La mafia dei terreni – boschi e pascoli – colpisce ancora. Dietro i roghi che stanno devastando ettari ed ettari di terreno in Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia c'è quasi sempre la mano criminale dell'uomo. In attesa che la follia autodistruttiva colpisca anche altre regioni che tradizionalmente sono flagellate dal fenomeno – come la Puglia – è bene mettere in fila alcune ragioni per le quali la criminalità organizzata ha interesse ad attizzare gli incendi. Non esiste una classifica di demerito. Anzi, spesso, le ragioni folli viaggiano insieme.

Una ragione è la pervicacia di cosche e clan nel dimostrare che, di qualunque area, sono in grado di indirizzare destini, fortune e sfortune. Dimostrano ai proprietari (siano essi privati o demaniali) che possono fare il bello e il cattivo tempo. A maggior ragione – si badi bene – se i boschi e i pascoli incendiati sono assoggettati a vincolo di inedificabilità quindicennale. E' evidente l'intento del Legislatore di impedire la speculazione edilizia che deriverebbe dal mutamento di destinazione urbanistica dei terreni. Se il proprietario non si piega alle richieste estorsive dei criminali – ma ragionamento per altro verso analogo può essere fatto nei confronti delle amministrazioni che perdono entrate dalla mancata edificazione – ecco che scatta la furia incendiaria.

In Campania, Sicilia – ma anche sempre più in Lombardia – ciò che il fuoco arde può diventare terreno di sversamento illecito di ogni tipo di rifiuto. Se le aree sono impervie (ma non certo per le rodate organizzazioni malavitose) è meglio.

Cosa nostra in alcune aree siciliane – recentemente sono saliti alla ribalta i Nebrodi – è talmente ammanicata con i settori deviati delle amministrazioni pubbliche che è in grado di pianificare truffe redditizie ai danni dell'Unione europea o della stessa Regione. Per esempio, nelle assegnazioni di terreni pubblici a prestanome e/o a esponenti delle famiglie locali di mafia, che per quelle terre usufruiscono di finanziamenti per attività mai realizzate, praticando invece abigeato, macellazione di carni clandestine e infette e in varie altre attività economiche in nero.

LA CLASSIFICA DEGLI INCENDI DOLOSI-COLPOSI-GENERICI
Numero infrazioni accertate e percentuale sul totale nazionale. Dati 2016
E che dire della Calabria dove spesso operai infedeli appiccano volontariamente il fuoco perché sanno che in quel modo l'anno successivo hanno il posto assicurato nel ripascimento?

Del resto che la mafia dei terreni abbia un business lo dicono anche i numeri. Come quelli messi in fila dall'ultimo rapporto Ecomafia di Legambiente.
Lo scorso anno sono stati 4.635 gli incendi boschivi che hanno visto l'intervento dell'ex Corpo forestale dello Stato e dei corpi regionali, numeri ancora in crescita rispetto al 2015. Roghi che hanno mandato in fumo nel 2016 più di 27mila ettari di aree verdi. Esattamente quanto è stato devastato dal fuoco in questo assaggio di estate 2017. Di male in peggio.

Le persone denunciate, tra piromani, ecocriminali ed ecomafiosi nel 2016 sono state 322, mentre quelle arrestate sono state 14.

Gli incendi non vengono appiccati solo d'estate. Uno degli ultimi casi di fiamme invernali che, nonostante le temperature basse, in poco tempo divorano pezzi di superficie boschive, risale al mese di febbraio, quando è stato sfigurato un ampio tratto di bosco a Solcio di Lesa (Novara), oltre che in una riserva di caccia tra Oleggio e Gattico.

IL BUSINESS DEGLI INCENDI
In base agli eventi dolosi, colposi, generici nel 2016, in milioni di euro. (Fonte: elaborazione Legambiente su dati del Corpo forestale dello Stato)
Le stime complessive fatte dall'ex Corpo forestale sui danni ambientali causati nel 2016dai roghi ruotano intorno ai 14 milioni mentre i soli costi per l'estinzione sono stati quantificati in circa 8 milioni, per un totale di quasi 22 milioni.

r.galullo@ilsole24ore.com
© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-13/perche-mafia-terreni-incendia-italia-214116.shtml?uuid=AEAMPAxB
4661  Forum Pubblico / SCRIPTORIUM 2017 - (SUI IURIS). / “La felicità non è un'emozione. Non è un sentimento. È una pratica – ... inserito:: Luglio 18, 2017, 04:44:49 pm
Mercoledì 12 luglio 2017

 Frasi di Michael Novak   

“La felicità non è un'emozione. Non è un sentimento. È una pratica – la pratica dell'eccellenza nell'azione.”

MICHAEL NOVAK

Da frasicelebri.it

4662  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / La sinistra del CentroSinistra è un pensiero diverso (socialdemocratico) del ... inserito:: Luglio 18, 2017, 04:42:45 pm
Se cominciano a capirlo in diversi (noi da anni) forse evitiamo un ulteriore inganno di "quella" sinistra.

Basta non cadere nell'equivoco che loro cavalcano da anni di chiamarsi centrosinistra o peggio ulivo.

La sinistra del CentroSinistra è un pensiero diverso (socialdemocratico) del pensiero di “quella” sinistra radicale (marxista).

ciaooo

Da FB del 15 luglio 2017
4663  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FRANCESCO BEI. Alfano: la collaborazione col Pd ormai s’è conclusa inserito:: Luglio 18, 2017, 04:39:39 pm
Alfano: la collaborazione col Pd ormai s’è conclusa
«Ma continuiamo a sostenere lo stesso governo, Gentiloni corretto. Lo ius soli? Una legge giusta proposta nel tempo sbagliato»

Il leader di Alleanza popolare Angelino Alfano ha ormai rotto con il Pd

Pubblicato il 18/07/2017

FRANCESCO BEI
ROMA

Pd addio, «la collaborazione con loro si è ormai conclusa», annuncia il leader di Alternativa popolare Angelino Alfano.

 
Lei è appena uscito dalla riunione con gli altri ministri degli esteri dell’Ue dove si è parlato proprio di Libia e dell’ondata di migranti sulle nostre coste. La solita solidarietà a parole all’Italia? 
«Diciamo che tutti hanno ben chiara l’insostenibilità di questa situazione, sarebbe bene che tutti avessero il coraggio di fare insieme a noi seri investimenti in Africa per diminuire le partenze e applicassero quanto già sottoscritto in termini di ricollocamenti».
 
Intanto in Italia avete fatto questo sgambetto al Pd sullo ius soli. Si è vendicato di Renzi che l’ha trattata come un leader di un cespuglio senza voti? 
«Macché...Semplicemente: una legge giusta, se fatta in un modo o in un tempo sbagliato, rischia di diventare sbagliata al di là del merito». 
 
Voi lo ius soli l’avete votato alla Camera, adesso avete cambiato idea. Al di là della buona volontà di Gentiloni di approvarla a settembre, la legge è finita su un binario morto? 
«Noi abbiamo ribadito a Gentiloni che non siamo pentiti del voto favorevole alla Camera. Ma alcuni correttivi saranno necessari al Senato, anche su questioni delicate».
 
Per esempio? 
«La concessione della cittadinanza nei confronti di figli i cui genitori non l’abbiamo chiesta. Alcuni elementi di debolezza vanno colmati».
 
Ma così si rischia di non fare più in tempo a votarla, e poi ci sarà la sessione di bilancio... 
«Non abbiamo pregiudiziali ideologiche contro lo ius soli, ma ciascuno ha le sue priorità: noi per esempio, per questo finale di legislatura, chiediamo l’approvazione della legge sulla legittima difesa».
 
Insomma, proponete uno scambio al Pd: ius soli in cambio della legittima difesa? 
«Nessun baratto, ma vogliamo concordare un’agenda di fine legislatura con le forze che sostengono il governo». 
 
Intanto con il rinvio dello ius soli avete ottenuto gli applausi del centrodestra. State lavorando per tornare alla casa madre? 
«Con questa legge elettorale che non prevede alleanze, abbiamo la possibilità di costruire un’area autonoma, popolare e liberale. A questo soltanto stiamo lavorando. Non sono previste alleanze e noi non le stiamo cercando: sono gli altri, da Monza a Catanzaro passando per Genova, che alle ultime amministrative le hanno cercate con noi».
 
E dopo il voto? 
«Vedremo come si saranno espressi i cittadini».
 
Dopo la decisione di bloccare la fiducia sullo ius soli si è guastato il vostro rapporto con Gentiloni? 
«Il presidente del Consiglio è stato molto corretto, ha mostrato rispetto verso chi lo sostiene pur ribadendo che la legge la vuole fare. Il rispetto e la buona educazione talvolta sono un optional, come il metallizzato sulle auto, mentre Gentiloni le ha di serie. Ha esercitato inoltre una leadership di sua stretta competenza - in quanto premier - nel decidere di non mettere la fiducia».
 
A differenza di altri, come Renzi, intende? Con il segretario del pd ha più avuto modo di parlare dopo la rottura sulla legge elettorale? 
«Non ce n’è stata né l’occasione né la necessità».
 
Probabile che si vada al voto con queste leggi rimaste dopo il taglia e cuci della Consulta. Voi cosa farete? 
«Cercare alleanze è un modo per confondere gli elettori visto che non sono previste dal Consultellum. Io credo invece che occorra al più presto lanciare una proposta politica che unisca tutti coloro che sono distinti e autonomi dalla sinistra, ma che non vogliono andar dietro a chi, come Salvini, ci vuole portare fuori dall’Europa».
 
Addio Pd dunque? 
«La collaborazione con loro si è ormai conclusa, sosteniamo lo stesso governo, ma non facciamo parte della stessa coalizione: diciamo che abbiamo un parente in comune, di nome Gentiloni, ma tra noi e loro non c’è più alcun legame».
 
Con Berlusconi invece come vanno le cose? L’ha più sentito? 
«Sì, ci siamo incontrati al funerale di Kohl».
 
E...? 
«Ci siamo salutati ma non abbiamo parlato di politica».
 
Un’ultima cosa, c’è molta polemica sulla missione Triton: la destra e M5s sostengono che Renzi abbia barattato la flessibilità sui conti con l’accettazione della clausola per cui i migranti sarebbero stati sbarcati nei nostri porti. È andata così? 
«Io all’epoca ero al Viminale, il negoziato sulla flessibilità non era, ovviamente, nelle mie competenze, ma mi sento di escludere scambi. E comunque Triton, per quanto riguarda le navi europee, conta solo il 10 per cento sul totale degli sbarchi».

Da - http://www.lastampa.it/2017/07/18/italia/politica/alfano-la-collaborazione-col-pd-ormai-s-conclusa-mgh8eJgFfDCEVyhZgGV2NK/pagina.html
4664  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI Se i giovani non sperano nel Paese... inserito:: Luglio 18, 2017, 04:36:46 pm
Se i giovani non sperano nel Paese...
 
Tra i 15 ai 34 anni l'opinione generale è che per far carriera l'unica speranza è andare all'estero. Siete d'accordo? Raccontate la vostra esperienza

Di ILVO DIAMANTI
17 luglio 2017

L'ITALIA non è un Paese per giovani. Lo sappiamo bene, ormai da tempo. Infatti, ogni 100 ragazzi, sotto i 15 anni, ce sono quasi 160, oltre i 65. E nei prossimi 10 anni, secondo l'Istat, sono destinati a crescere in misura esponenziale. Fin quasi a 260. D'altronde, l'età mediana, nel nostro Paese, sfiora i 50 anni. Sono dati ormai noti, anche ai non addetti ai lavori. Basta guardarsi intorno, per accorgersi che i giovani e i giovanissimi sono una razza in via di estinzione.

Fino a qualche anno fa la nostra demografia era sostenuta dagli immigrati. Ma anch'essi si sono adeguati. Infatti, gli immigrati di seconda generazione hanno, in media, 1,9 figli per coppia. Un numero ben superiore rispetto agli italiani, ormai scesi a circa 1,3. Ma comunque in calo costante. E ormai al di sotto dell'equilibrio generazionale. Così invecchiamo, sempre di più. E diventiamo sempre più in-felici e scontenti, visto che è difficile essere ottimisti e soddisfatti quando si invecchia. E il futuro scivola dietro alle nostre spalle.

TABELLE - LE PAROLE DEL FUTURO

Aggiungiamo che i flussi migratori non ci vedono solo come un Paese di destinazione. Ma soprattutto di passaggio, visto che buona parte degli immigrati che giunge in Italia lo fa per andare altrove. In Germania e in Gran Bretagna, anzitutto. Peraltro, anche l'Italia è divenuta Paese di "emigrazione". Nell'ultimo periodo, infatti, sono espatriati, in media, oltre 100 mila italiani l'anno. Nel 2016: 106 mila. In maggioranza: giovani, fra 18 e 34 anni. Con titolo di studio e livelli professionali elevati. Se ne vanno dall'Italia perché qui non trovano sbocchi occupazionali adeguati.

Ormai, si tratta di una convinzione diffusa e consolidata: circa 6 persone su 10, infatti, pensano, realisticamente, che i figli - a differenza del passato - non riusciranno a riprodurre o, a maggior ragione, a migliorare la posizione sociale dei genitori. Mentre 2 italiani su 3 ritengono che, per fare carriera, i giovani se ne debbano andare altrove. E si comportano di conseguenza. Se ne vanno e non ritornano. Per questo, la rappresentazione del mondo delineata dai giovani appare sempre più ripiegata sul passato. Sempre meno aperta. Il linguaggio riflette e ripropone, in modo marcato, questa visione.

Lo conferma il sondaggio dell'Osservatorio di Demos-Coop, dedicato al Dizionario dei nostri tempi, condotto e presentato nei giorni scorsi su Repubblica.

Le parole dei giovani, infatti, si distinguono e si caratterizzano proprio per questo. Perché richiamano il passato più del futuro. I giovani: guardano indietro. Ancor più dei loro genitori. La parola "Speranza", nella popolazione, è proiettata nel "futuro", da quasi due persone su tre. Ma fra i giovanissimi (15-24 anni) la proporzione si riduce sensibilmente: 57%. E fra i giovani-adulti (25-34 anni) crolla al 41%. La nostra gioventù: ha poca speranza. Tanto più nella transizione verso l'età adulta. Più che in avanti, pare scivolare indietro. Verso il passato prossimo. Per questo i giovani non credono molto nella "ripresa". I giovani-adulti ancor di meno. Più che a "riprendere" pensano a "resistere". Perché sono disillusi. Secondo loro, il "merito" conta poco, nel lavoro. E, in generale, nella vita. Oggi. E tanto più domani. Per questo di fronte all'Italia appaiono disillusi. Anche se non delusi.
 
Il problema, per loro, non è la "democrazia". Soprattutto i giovanissimi: ci credono. Magari con un po' di distacco. Perché sono cresciuti nell'era dei "Social media". E per loro l'orizzonte è marcato dalla "democrazia digitale". Il problema, invece, è proprio il futuro. Che non riescono a disegnare, ma neppure a immaginare. La famiglia, l'istituzione che ha sempre fondato e radicato la nostra società, oggi non basta più. Non perché abbia perduto importanza e significato. Al contrario. È sempre il riferimento obbligato per gli italiani. Un marchio oltre che un centro del nostro sistema. Ma, appunto, non garantisce più sicurezza nel futuro. Fra i giovani: molto meno che per il resto degli italiani. È in grado di offrire protezione, ma non proiezione. Tutela, ma non spinta.
 
Nel complesso, come abbiamo già osservato, il maggior senso di disagio pervade i giovani-adulti, fra 25 e 34 anni. Non più giovani. Non ancora adulti. Questo passaggio fra diverse stagioni della vita ne condiziona il sentimento. Perché i giovani-adulti non dispongono degli stessi strumenti per comunicare con gli altri. Per informarsi e per informare. La loro confidenza con i Social media, con il digitale: appare molto più limitata rispetto ai "fratelli minori". Cresciuti fra smartphone e tablet. Abituati a twittare prima che a parlare. Anzi, prima "di" parlare. Così, i giovani-adulti non riescono a vedere la "democrazia digitale" come metodo di governo di domani. Anzi, anche per questo, non sembrano molto convinti del futuro della democrazia.
 
L'orizzonte dei giovani e dei giovanissimi, d'altra parte, è oscurato dalla minaccia del terrorismo. Percepita in misura molto maggiore rispetto al resto della popolazione. Così, molto più degli adulti e dagli anziani, i giovani sembrano attratti dalle figure che riflettono e interpretano le paure del nostro tempo. I Nuovi Capi, che evocano Nuovi Muri. Popolari e populisti. Anzi, popolari perché populisti. Per tutti: Donald Trump.

Il Presidente degli USA, discusso per lo stile e i contenuti del suo messaggio, prima ancora che per le sue scelte politiche. Ebbene, secondo un quarto degli italiani, Trump è destinato ad avere più importanza. Domani. Nel futuro. Ma fra i giovani e ancor più fra i giovanissimi questa misura cresce ancora. Di più. Fino al 36%. Questi giovani: sembrano in difficoltà a orientarsi. A spingersi, a proiettarsi e a progettarsi. In avanti. A uno sguardo d'insieme, magari affrettato: evocano l'idea di una generazione che ha perduto la speranza. E non riesce a trovare buone ragioni per credere nel futuro. Questa generazione. Evoca un'ombra che incombe su tutta la nostra società. Perché i giovani sono il nostro futuro. E se i giovani perdono la speranza come possiamo sperare nel futuro della nostra società? Come possiamo sperare nel futuro?
 
© Riproduzione riservata 17 luglio 2017

DA - http://www.repubblica.it/politica/2017/07/17/news/se_i_giovani_non_sperano_nel_paese_-170953045/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
4665  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / SERGIO RIZZO La resistenza dei dirigenti di Stato, sono i più pagati d’Occidente inserito:: Luglio 18, 2017, 04:34:59 pm
La resistenza dei dirigenti di Stato, sono i più pagati d’Occidente
Nonostante il tetto ai compensi introdotto nel 2014 lo stipendio dei mandarini italiani è superato solo dagli australiani.
Intanto una pioggia di ricorsi blocca la pubblicazione dei patrimoni

Di SERGIO RIZZO
17 luglio 2017
 
L'ULTIMA rilevazione dell'Ocse sulle retribuzioni dei dirigenti pubblici dice quanto la trasparenza sia preziosa, e per alcuni versi anche dolorosa. Grazie a lei sappiamo che i mandarini italiani sono i più pagati del mondo sviluppato, con la sola esclusione dell'Australia.

Affermare tuttavia che con il tetto agli stipendi dei funzionari pubblici fissato tre anni fa in 240mila euro lordi l'anno non sia cambiato nulla sarebbe ingeneroso: qualche busta paga scandalosa (e immeritata) è stata per fortuna ridimensionata. Ma è sempre la media, con o senza quel tetto, che continua a fregarci.

I confronti parlano chiaro. La retribuzione media delle nostre figure burocratiche apicali è scesa fra il 2011 e il 2015 da 339.249 a 212.132 euro lordi. Il calo non è stato affatto trascurabile: meno 37,4 per cento. Nonostante una simile sforbiciata, però, siamo ancora ben al di sopra di quella dannata media dei Paesi sviluppati che aderiscono all'Ocse. Fissata, secondo la rilevazione di cui parliamo, in 160.627 dollari: 132.315 euro lordi.

Decisamente meglio è andata ai dirigenti di prima fascia, quelli immediatamente al di sotto del massimo livello apicale. Dopo l'introduzione del famoso tetto le loro retribuzioni medie, sempre secondo i calcoli dell'Ocse, sono infatti addirittura aumentate, seppur di poco: l'incremento dai 197.962 euro del 2011 ai 199.330 (lordi, ovvio) del 2015 è dello 0,7 per cento, che sale all'1,5 con la metodologia di calcolo Ocse, che tiene conto anche dei contributi previdenziali e dell'orario effettivo di lavoro. A questo proposito andrebbe ricordato che l'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, prendendo proprio spunto dal raffronto internazionale aveva previsto risparmi di mezzo miliardo l'anno già a partire dal 2014. Ebbene, almeno in questo caso è accaduto il contrario. E qui siamo di nuovo al punto cruciale: la trasparenza. In questo nuovo studio, che peraltro ricalca i risultati della precedente analisi del 2013, l'Ocse precisa che non tutti i Paesi riportano nelle loro analisi i dati effettivi, come fa invece l'Italia. Da quattro anni, infatti, qui vige il principio della pubblicità dei compensi dei dirigenti pubblici. È la conseguenza di un decreto, il numero 33 del 2013, che però non è stato digerito da tutti gli interessati. Ma è nulla al confronto di ciò che è successo nel momento in cui si è deciso di estendere l'obbligo di trasparenza anche alle informazioni patrimoniali. Allora sono scoppiate improvvise allergie. Letteralmente incontenibili.

La battaglia comincia il 25 maggio 2016, quando la Funzione pubblica approva un decreto legislativo che impone ai dirigenti la pubblicazione della propria situazione economica e reddituale sui siti internet ufficiali di ogni singola amministrazione. E con le variazioni intervenute anno dopo anno. Nello stesso provvedimento viene specificato che la cosa riguarda tutti, ma proprio tutti, gli incarichi di livello dirigenziale: per capirci, anche quelli che vengono assegnati per decisione politica.

Tanto basta per innescare l'immancabile ricorso al Tribunale amministrativo, che il 2 marzo sospende senza battere ciglio l'efficacia della nuova misura. Affermano i giudici che è necessario considerare la "consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate nel ricorso", specificando di aver preso la travagliata decisione dopo aver valutato "l'irreparabilità del danno paventato dai ricorrenti discendente dalla pubblicazione online, anche temporanea, dei dati per cui è causa". Non bastasse, ecco un altro ricorso, stavolta del sindacato al quale si associano pure quattro burocrati, che contesta le linee guida emanate dall'Autorità nazionale anticorruzione per l'attuazione della norma del 2013 che prevede la trasparenza degli atti relativi agli incarichi di natura politica e dirigenziale. A quel punto l'Anac di Raffaele Cantone non può che fermare le macchine e sospendere tutto, in attesa del sospirato giudizio di merito del Tar. Che si prende tutto il tempo necessario, e forse anche qualcosina in più: sette mesi.

I giudici amministrativi hanno fissato la relativa udienza per martedì 10 ottobre 2017. Ovvero, 222 giorni dopo aver deliberato la sospensiva e a quasi un anno e mezzo dal decreto che imporrebbe l'obbligo di far conoscere ai cittadini anche i patrimoni dei dirigenti pubblici e la loro evoluzione durante lo svolgimento dell'incarico. Mentre tutti continuano a ripetere che la trasparenza è il migliore antidoto contro il cancro della corruzione.

© Riproduzione riservata 17 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/07/17/news/la_resistenza_dei_dirigenti_di_stato_sono_i_piu_pagati_d_occidente-170953043/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S1.8-T1
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