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4606  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / FRANCESCA SCHIANCHI. L’affondo di Renzi su Fincantieri: “Governo debole di ... inserito:: Agosto 03, 2017, 05:22:28 pm
L’affondo di Renzi su Fincantieri: “Governo debole di fronte a Macron”
Il segretario del Pd: “Il presidente francese fa solo l’interesse del suo Paese. Esecutivo fragile perché ha un orizzonte breve”.
E rilancia sulla rete Telecom

Pubblicato il 31/07/2017

FRANCESCA SCHIANCHI
INVIATA A MARINA DI PIETRASANTA

«Da me una parola contro Macron non l’avrete mai. Il presidente francese fa il suo interesse nazionale: il problema piuttosto è un governo italiano debole». 

Se non vogliono essere un attacco al premier Paolo Gentiloni - «facciamogli un applauso» - le prime parole del segretario del Pd Matteo Renzi sulle tante occasioni di scontro tra Italia e Francia degli ultimi giorni assomigliano però a una critica all’irresolutezza italiana.
 
Da qualche giorno il leader del Pd pensava a come intervenire. Dopo il vertice parigino sulla Libia da cui Roma è stata esclusa e la marcia indietro del capo del governo libico al-Sarraj sulle nostre navi nelle acque di Tripoli, poi parzialmente rientrata, venerdì mattina Renzi avrebbe dovuto rilasciare un’intervista in radio. L’ha annullata all’ultimo minuto, per evitare di lasciarsi andare a commenti infuriati su Parigi e ancor di più a polemiche con Palazzo Chigi. Si è preso ancora un paio di giorni per pensarci, e ieri, nella pineta della Versiliana, sotto un sole ancora torrido nonostante l’ora, alla presentazione del suo libro “Avanti” moderata dal direttore della Stampa, Maurizio Molinari, ha cercato di dirla così: il problema non è l’attivismo di Macron, ma la fragilità di un governo che, non per colpa di chi lo guida, ha un orizzonte molto breve davanti a sé. 
 
«Abbiamo sempre detto che, dopo il referendum, l’Italia avrebbe attraversato un periodo di debolezza, soprattutto a livello internazionale. Quello che sta facendo Macron era prevedibile, non ho niente contro di lui», risponde a precisa domanda sulle tensioni sulla rotta Parigi-Roma: «Il punto è che l’Italia deve andare a testa alta, noi ci siamo presi la flessibilità a sportellate» ma «questo governo ha davanti cinque o sei mesi», e in Europa «contano i rapporti di forza». Non è colpa insomma di Gentiloni, ci tiene a chiarire («avrà sempre la mia amicizia e il mio sostegno») ma di un governo strutturalmente debole, se le tensioni si moltiplicano e Parigi sembra talvolta farci lo sgambetto. 
 
Come reagirebbe lui è facilmente immaginabile, per chi ricorda il Consiglio europeo di Bratislava di un anno fa in cui attaccò clamorosamente le conclusioni del vertice e anche gli alleati Francia e Germania, ma davanti alla platea accaldata di Marina di Pietrasanta, tra cui la moglie Agnese e la figlia Ester, renziani della prima ora come Simona Bonafè, il sottosegretario franceschiniano Giacomelli, l’ex lettiano Sanna, evita consigli a Gentiloni, «sa benissimo cosa fare». «Macron fa una battaglia su Fincantieri? 
 
Bene, le regole europee lo consentono: consentiranno anche a noi di fare battaglie su altre partite», posto che nella prossima legislatura «abbiamo bisogno di un governo che abbia un progetto forte e autorevole nel rapporto con l’Europa». E se non è pensabile una ritorsione verso la Francia nazionalizzando Telecom («nessuno immagina di farlo») si può fare invece, propone il leader dem, «un ragionamento attorno a Cassa depositi e prestiti sulla rete, perché la rete è un asset fondamentale per il futuro del Paese».
 
Mescola futuro e passato nel suo discorso il segretario dem. Critiche a chi «va via col broncio, quando dopo che hai servito il Paese devi solo dire grazie» (riferimento chiaro al suo predecessore a Palazzo Chigi, Enrico Letta), punzecchiature agli scissionisti del Pd che hanno fondato un altro partito («se ne sono andati per paura delle primarie, auguri!»), bordate contro il M5S («un movimento eterodiretto che confonde il Cile col Venezuela»), dichiarazioni di fiducia per un Pd «diga contro i populismi». E c’è anche del personale, quando si tocca il tema degli sms fra lui e suo papà Tiziano intercettati e finiti ieri sulle pagine del Fatto quotidiano.
 
«Non so cosa accadrà quando e se mio padre, che è stato pedinato come un camorrista, sarà archiviato per la seconda volta. Dimostreranno che le intercettazioni erano regolari: non hanno rilevanza penale, chi le pubblica spiegherà perché le pubblica». Ma sul caso Consip dice di più: «Questa storia non può oscurare la vera storia: la Procura sospetta siano stati manomessi documenti e prove dell’allora presidente del consiglio: questo è tecnicamente un atto eversivo». Se qualcuno lo ha commesso, insiste, dovrà pagare: trovarlo per la magistratura non sarà difficile, si augura, «hanno lasciato più tracce di Pollicino». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/31/italia/politica/laffondo-di-renzi-su-fincantieri-governo-debole-di-fronte-a-macron-SLZn8bpLVH8iHsPiuVrobP/pagina.html
4607  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / MICHELE VALENSISE. Giochiamo di sponda con Berlino inserito:: Agosto 03, 2017, 05:20:19 pm
Giochiamo di sponda con Berlino

Pubblicato il 31/07/2017

MICHELE VALENSISE

In attesa delle elezioni federali tedesche del 24 settembre, lo scenario europeo è in movimento. Negli ultimi giorni, mentre come ogni anno Angela Merkel iniziava le sue vacanze sulle note di Wagner a Bayreuth, l’attenzione italiana si è concentrata naturalmente sulle decisioni unilaterali di Emmanuel Macron che ci riguardano da vicino: Stx-Fincantieri, migranti, Libia. Ma in questa calda estate il raggio d’azione è più ampio di quello delle nostre relazioni con la Francia. 

Se l’attuale assetto dell’Europa è fatto di connessioni e interdipendenze così evidenti, per l’equilibrio dell’Unione e per la crescita comune è bene ragionare anche con il socio di maggioranza relativa, la Germania. Al di là della collaborazione franco-tedesca, «unicum» non replicabile, con radici profonde nella storia e nella prassi dei due Paesi, per i tedeschi resta importante aprire quel formato all’apporto dell’Italia. Le ragioni sono molteplici. 
 
Secondo Paese manifatturiero d’Europa, terza economia dell’eurozona, ponte naturale verso il Mediterraneo e l’Africa, quest’ultima oggetto ora di un rinnovato impegno tedesco, senza precedenti, sul piano politico ed economico, l’Italia continua a essere considerata un elemento essenziale nella visione europea della Germania. Contrariamente a qualche interpretazione un po’ troppo ideologica, non solo non si vede alcuna «conventio ad excludendum» ai nostri danni, ma sussiste un’aspettativa, in parte insoddisfatta, di ruolo e di protagonismo italiano in Europa, ancor più in tempi di Brexit.
 
Ecco allora un quadro in cui inserire e gestire la nostra giustificata contrarietà al vibrante e rischioso attivismo unilaterale francese. Il confronto innanzitutto con il motore franco-tedesco può servire a far valere qualche rivendicazione, che non è solo nell’interesse dell’Italia. Intese operative che siano in linea con i fondamenti del mercato unico, stabilità finanziaria europea, visibili impegni congiunti nel controllo delle frontiere esterne dell’Unione, più intensa collaborazione tra gli organismi di sicurezza nazionali sono temi importanti per tutti, sui quali ciascuno ha da dare e avere come in ogni società ben funzionante. La Germania, sia con Merkel sia con Schulz, dovrebbe tenere a evitare derive nazionali e l’Italia può essere funzionale a quell’obiettivo, nonostante le incertezze della nostra congiuntura politica interna. 
 
Il raccordo governativo è già stretto ed efficace, a Berlino si apprezza l’interlocuzione con l’attuale presidente del Consiglio, più agevole e produttiva di quella con il suo predecessore. Nulla di nuovo, quindi, da inventare su questo piano. Uno spazio ulteriore di dialogo e scambio con il nostro primo partner in Europa, per rafforzare convergenze esistenti e contenere diffidenze più o meno latenti, c’è invece nel campo dei partiti, dei gruppi intermedi, della comunicazione. Troppo spesso negli ultimi anni responsabili tedeschi di partiti o di fondazioni hanno cercato invano sponde tra i colleghi italiani, irreperibili, distratti o prigionieri di agende disordinate. Certo, i partiti italiani di oggi sono ben diversi da quelli del passato e le fondazioni culturali tedesche, ricche e influenti, non sono comparabili con le nostre. Cominciamo comunque a identificare persone e strutture valide in partiti e gruppi per curare i rapporti con l’Europa e il mondo, come una volta. Qualcuno lo sta facendo, può aiutare. 
 
Il pomeriggio del 9 novembre 1989 a Bonn la porta dell’ufficio di Willy Brandt, presidente della Spd, si aprì per far entrare una vecchia conoscenza italiana, Giorgio Napolitano, «ministro degli Esteri» del governo ombra del Pci. Oltre che per la coincidenza fortuita con la caduta del muro di Berlino (sviluppo imprevisto anche per loro due, noterà poi con ironia lo stesso Napolitano), quell’incontro può essere indicativo della fitta rete e della solida consuetudine di rapporti di allora tra partiti politici a livello europeo. Per sfruttare a pieno le potenzialità dei rapporti tra Italia e Germania, anche per compensare costruttivamente qualche fuga in avanti «bonapartista» a Parigi, sarebbe utile puntare a un rinnovato dialogo politico e culturale italo-tedesco, nel quale riconoscersi con la confidenza che a suo tempo la generazione di Brandt e Napolitano alimentava sistematicamente.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/31/cultura/opinioni/editoriali/giochiamo-di-sponda-con-berlino-2X6zLii8pruWJrZzEufo7K/pagina.html
4608  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Ferruccio de BORTOLI. IL PESO DELLE SCELTE Veri e falsi interessi nazionali inserito:: Agosto 03, 2017, 05:17:51 pm
IL PESO DELLE SCELTE
Veri e falsi interessi nazionali

  Di Ferruccio de Bortoli

L’interesse nazionale si difende con la coerenza e il pragmatismo delle scelte. Con il grado di competitività del sistema. Non con proclami tenorili né tantomeno con le ritorsioni. Nel caso Stx-Fincantieri la posizione del governo e dei ministri Padoan e Calenda è doverosa. Il brocardo pacta sunt servanda vale anche per i nostri cugini francesi. E soprattutto per il troppo da noi celebrato Macron che viene meno, pochi mesi dopo, all’impegno di un governo del quale faceva parte. I vantaggi futuri per il Paese non sono però necessariamente tutelati dal passaporto della proprietà. Essere parte di un gruppo internazionale che per dimensioni, livello di investimenti e ricerca è in grado di assicurare occupazione e reddito in Italia è preferibile alla navigazione solitaria, bandiera al vento, di un’impresa che magari sposta all’estero le proprie produzioni e ha poche prospettive di crescita. Non aver venduto l’Alitalia al gruppo guidato da Air France, nel 2008, è costato molto al contribuente e agli improbabili capitani coraggiosi italiani. La crisi si è solo aggravata. L’aver aperto poi, nel trasporto aereo, più di altri Paesi, alla penetrazione dei vettori low cost — anche pagandoli in qualche caso — non ha certamente tutelato l’interesse della compagnia di bandiera. Il gruppo Tim, ovvero il risultato odierno di quella che fu definita «la madre di tutte le privatizzazioni», è oggi, anche ufficialmente nelle mani di un raider bretone.
Un Bolloré italiano in Francia non avrebbe avuto tutta la libertà che il patron di Vivendi ha goduto in Italia (dove è stato peraltro invitato). Sarebbe stato fermato come accadde in altri tempi — diverse regole europee ma stessi poteri in gioco — a Berlusconi, a Gardini e a De Benedetti in Belgio. Nonostante le regole del mercato comune la misura degli interessi non è sempre data dalla convenienza economica. Il senso di appartenenza e la coesione delle classi dirigenti nazionali possono fare la differenza. E prevalere sulla bontà di un singolo affare. Specialmente quando vi sono in gioco — come accade in parte anche per i cantieri di Saint- Nazaire — questioni di carattere strategico o militare. Il consorzio franco-tedesco di Airbus nacque nel 1970, inizialmente anche con gli inglesi. Poteva aderirvi l’industria aeronautica italiana. Restò esclusa. Forse anche per un interesse nazionale americano a non avere ancora un più grande concorrente europeo. E l’Italia fu compensata con un po’ di commesse d’oltreoceano. La Banca Commerciale venne respinta, nel 1988, nel tentativo del tutto amichevole di fondersi con Irving Bank con la scusa che aveva un azionista pubblico, l’Iri. Anche se si muoveva con la massima libertà. Un argomento d’attualità anche nel caso Stx-Fincantieri, visto che quest’ultima è a maggioranza pubblica. Cassa depositi e prestiti, che di fatto la controlla, è nata sull’esempio francese della Caisse des Depôts. La mano dello Stato italiano sull’economia è incerta e variabile. Quella francese, invece è tesa con orgoglio e protervia.
La difesa dell’interesse nazionale in un gruppo di telecomunicazioni strategico, possessore di una rete, di un monopolio naturale, forse poteva non essere lasciata solo alla tardiva valutazione delle regole legate al golden power. Ma se ci siamo perduti quello che un tempo era, con capitale pubblico, uno dei gruppi di telecomunicazioni più forti al mondo, lo dobbiamo soprattutto alla miopia della politica e all’inadeguatezza del capitalismo privato. Gli scalatori italiani caricarono il gruppo di un peso insopportabile di debiti. Molti nostri imprenditori scambiarono le privatizzazioni come un’occasione per rifugiarsi in comodi ex monopoli pubblici. Il fascino della finanza e dei guadagni immediati ebbe, non raramente, il sopravvento sulle ragioni dell’industria di per sé più faticosa ed esposta a cicli più lunghi. Perdemmo così i primati di Montedison nella chimica e nella farmaceutica, dell’Olivetti nell’informatica. Pirelli si scontrò nel 1991 con la durezza dell’interesse nazionale tedesco nel tentativo mancato di acquisire Continental. Un atteggiamento pari a quello manifestato da Angela Merkel contro le mire cinesi nell’high tech, soprattutto nel caso Aixtron. Il voltafaccia di Deutsche Bank all’epoca fu clamoroso. Il governatore della Bundesbank Poehl ammise — è scritto negli appunti dell’allora suo omologo alla Banca d’Italia, Ciampi — tutta la «doppiezza teutonica». Oggi la Pirelli è proprietà cinese. Autostrade e la spagnola Abertis studiarono un’integrazione già nel 2006. L’allora ministro dei Lavori Pubblici Di Pietro si oppose invocando l’interesse nazionale. Oggi, trascorso un decennio, Atlantia ha riaperto il dossier Abertis e ha lanciato un’offerta pubblica d’acquisto. Le ragioni del mercato, la sfida delle dimensioni, hanno avuto la meglio, pur con modalità diverse.
Ci vorrà del tempo, ma una soluzione al caso dei cantieri navali francesi sarà trovata con lo sguardo avanti, senza trascurare l’importanza della possibile creazione di un gruppo più ampio nel settore, con un’attenzione alle commesse pubbliche. La proprietà divisa al 50 per cento sarebbe scelta debole e temporanea. In due alla guida non si va lontano. Pretendere il rispetto delle regole è la strategia migliore. Se poi fossimo più rispettosi anche noi di quelle europee in altri settori e meno isolati politicamente, la strada sarebbe meno impervia. I contratti contano ma a volte finisce per contare di più il peso politico dei contraenti.

2 agosto 2017 (modifica il 2 agosto 2017 | 21:28)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_agosto_03/veri-falsi-interessi-nazionali-8d29112c-77b5-11e7-84f5-f24a994b0580.shtml
4609  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / RAFFAELE RICCIARDI Vivendi-Tim, il governo avvia un'istruttoria sulla golden pow inserito:: Agosto 03, 2017, 05:15:38 pm
Vivendi-Tim, il governo avvia un'istruttoria sulla golden power
L'esecutivo scende in campo per verificare il ruolo di direzione e controllo sull'ex-monopolista delle tlc da parte dei francesi di Vivendi. Sotto i riflettori, in particolare, la gestione di un asset strategico per il Paese come la rete

Di RAFFAELE RICCIARDI
02 agosto 2017

MILANO - Il governo accende un faro sul controllo di Vivendi nella Tim per valutare l'uso dei poteri speciali noti come "golden power", che permettono allo Stato di blindare le aziende strategiche. Si apre così un percorso che - in teoria - potrebbe portare Palazzo Chigi a scandagliare come "l'acquisizione del controllo e dell'attività di direzione" della ex Telecom da parte dei francesi abbia un impatto su un ganglio vitale per l'Italia come la rete per le telecomunicazioni. Una mossa che si potrebbe leggere come una risposta alla decisione francese di nazionalizzare i cantieri Stx: forzatura di Parigi che per il momento ha bloccato la loro acquisizione da parte di Fincantieri e che è stata oggetto di forti critiche da parte dei pezzi da novanta dell'esecutivo italiano.

Carlo Calenda, il ministro dello Sviluppo economico che ha chiesto il passo formale al governo italiano, ha escluso però che sia una ripicca per la vicenda dei cantieri ("non ha nulla a che fare"). A margine dell'informativa alla Camera sul braccio di ferro navale, della vicenda Vivendi-Tim ha detto: "Facciamo quello che il governo deve fare, cioè applicare le regole che esistono. Abbiamo chiesto a Palazzo Chigi di verificare se c'è l'obbligo di notifica sull'attività di direzione e coordinamento" di Tim da parte di Vivendi.

Che sia stato il Mise a chiedere il passaggio formale è stato ricostruito dallo stesso Palazzo Chigi: "La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha ricevuto una nota, datata 31 luglio - si legge sul sito del governo - nella quale il Ministro dello Sviluppo Economico ha sollecitato una pronta istruttoria da parte del gruppo di coordinamento all'interno della Presidenza del Consiglio", al fine di "valutare la sussistenza di obblighi di notifica" e, più in generale, "l'applicazione del decreto" sul golden power, in relazione al comunicato stampa del 28 luglio scorso di Tim spa. In quel comunicato, spiega ancora il governo, "erano state rese note, inter alia, alcune tematiche di corporate governance affrontate dal Consiglio di Amministrazione di Tim ed, in particolare, la presa d'atto dell'inizio dell'attività di direzione e coordinamento da parte di Vivendi".

Qualora sia in gioco una azienda strategica, la legge prevede che gli eventuali cambi di controllo debbano essere notificati alla Presidenza del consiglio entro dieci giorni o in ogni caso prima che divengano effettivi. Nel settore delle comunicazioni, con poteri speciali l'esecutivo potrebbe mettere un veto sulle operazioni riguardanti asset che risultassero strategici, oppure porre particolari condizioni. Per accedere alla golden power, dall'istruttoria dovrebbe emergere un possibile "grave pregiudizio" per gli interessi pubblici legati al buon funzionamento della rete di telecomunicazione.

© Riproduzione riservata 02 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/08/02/news/vivendi-tim_il_governo_avvia_un_istruttoria_sul_golden_power-172197559/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
4610  Forum Pubblico / CENTRO PROGRESSISTA e SINISTRA RIFORMISTA, ESSENZIALI ALL'ITALIA DEL FUTURO. / Sergio Fabbrini Un patto di governo per le riforme inserito:: Luglio 30, 2017, 06:17:39 pm
Un patto di governo per le riforme

 Di Sergio Fabbrini

C’è una grande rimozione nella politica italiana: il referendum del 4 dicembre scorso. Nessuno ne parla. Né si parla della crisi istituzionale in cui l’Italia continua a vivere. Se nelle grandi democrazie europee ci si domanda, quando arrivano le elezioni, chi sarà il probabile vincitore, in Italia invece già sappiamo che, alle prossime elezioni, non ci saranno vincitori. In quelle democrazie il problema è capire chi governerà. In Italia, il problema è capire se ci sarà un governo. Si tratta di un’incertezza drammatica per i nostri partner europei, oltre che per i mercati, anche se noi l’abbiamo rimossa. È necessario alzare il tappeto e vedere cosa c’è sotto.

I sostenitori del No hanno ottenuto (forse) più di quello che miravano a ottenere. Hanno fermato un progetto di riforma che avrebbe messo in discussione molte rendite di posizione all’interno del sistema politico, con l’aggiunta di aver riportato all’indietro gli equilibri interni a quest’ultimo. Massimo D’Alema e Gaetano Quagliariello avevano promesso che, subito dopo la vittoria del No, si sarebbe potuto realizzare una “vera” riforma costituzionale in sei mesi. Di quella riforma non c’è notizia, mentre giungono notizie sullo smembramento proporzionalista del nostro sistema dei partiti. Dietro la critica ai difetti dell’uno o dell’altro comma, dell’uno o dell’altro articolo, dell’uno o dell’altro emendamento della nostra costituzione, si era nascosto un desiderio diffuso a ritornare alla repubblica dei partiti senza partiti.

Trasformando il referendum in un giudizio su Matteo Renzi, e il riformismo del suo governo, è stato possibile mobilitare con successo gli istinti conservatori della società italiana. Il cambiamento fa sempre paura. Ma quella paura diventa terrore in una società ossificata in piccoli e grandi privilegi come la nostra. Così il No ci ha riportato al vecchio proporzionalismo politico invece che ad una nuova riforma.

I sostenitori del Si hanno perso (forse) più di quanto avevano immaginato. Hanno cercato di fare un passo in avanti, per ritrovarsi a farne due all'indietro. L'intelligente azione del governo Renzi nel condurre il progetto di riforma attraverso il Parlamento ha finito per essere cancellata dalla non altrettanta intelligente mobilitazione per fare approvare quel progetto dagli elettori. Non solo si è personalizzato un referendum di natura costituzionale che avrebbe dovuto mantenere una connotazione sistemica, ma si è usato il referendum per segnare una cesura con il passato dei tentativi di riforma non riusciti. Un referendum sulla costituzione non è l'equivalente (ad esempio) di quello sulla scala mobile: nel secondo è stata inevitabile la divisione tra forze politiche, nel primo quella divisione avrebbe dovuto essere evitata. I sostenitori del Si, e Matteo Renzi e Maria Elena Boschi in particolare, non sono riusciti a trasmettere il senso sistemico del progetto di riforma. A far capire ai cittadini, cioè, che quel progetto di riforma era il risultato di un lungo percorso, portava a compimento gli sforzi e le idee di tanti protagonisti politici, si connotava per il suo carattere sistemico e non già partigiano. Il voltafaccia di Silvio Berlusconi ha fatto il resto. Comunque siano andate le cose, non possiamo però rassegnarci allo statu quo, con il rischio di essere governati in futuro da una Troika. Lo statu quo è incompatibile con l'interdipendenza economica e monetaria in cui siamo inseriti. E soprattutto con l'enorme debito pubblico che ci obera. La questione delle riforme è destinata a rientrare nella nostra agenda nazionale. Per questo motivo è opportuno derivare alcuni insegnamenti dall'esperienza del 4 dicembre. Ne propongo tre.

Primo. Le riforme costituzionali hanno successo solamente quando sono riforme di tutti (o dei maggiori partiti) e non già di alcuni di essi. Se vengono percepite come riforme del governo, chi sta all'opposizione non ha interesse a sostenerle. Paradossalmente, la logica maggioritaria con cui si è formato l'attuale Parlamento (seppure dando vita a maggioranze spurie nelle due camere di quest'ultimo) ha aiutato il processo riformatore nelle camere ma non nell'elettorato. Le riforme sono più facilmente realizzabili quando sono invece promosse da governi di grande coalizione, spesso espressione di legislativi proporzionali. Il vizio (del sistema proporzionale con cui andremo a votare la prossima primavera) potrebbe dunque generare la virtù (di un progetto riformatore condiviso), a condizione che ci sia la possibilità di dare vita ad un governo di grande coalizione tra i maggiori partiti che li legittimi reciprocamente. Secondo. La riforma costituzionale deve essere tenuta separata dalla riforma elettorale. La prima riguarda la struttura delle istituzioni governative, la seconda influenza direttamente la composizione e il funzionamento del sistema di partito. Seppure per ragioni comprensibili, fu un errore approvare l'Italicum prima della riforma costituzionale. La riforma elettorale fa entrare in fibrillazione i partiti perché altera i loro calcoli per fare eleggere i propri membri in Parlamento. Una fibrillazione che inevitabilmente si scarica sulla riforma costituzionale. Peraltro, un sistema elettorale si può cambiare a maggioranza assoluta del legislativo, mentre un sistema costituzionale richiede la maggioranza qualificata di quest'ultimo. La nuova legislatura dovrebbe riprendere in mano il progetto di riforma costituzionale e solamente dopo aver portato a compimento quest'ultima porsi il problema della riforma elettorale.

Terzo. La riforma costituzionale deve avere chiaro la priorità del Paese: la stabilità al governo. E' bene non distogliersi da questo obiettivo, aggiungendone altri come la riduzione dei costi della politica o del numero dei parlamentari. Se così è, allora vi sono due obiettivi su cui costruire un patto per un governo di coalizione tra i maggiori partiti. Assegnare solamente alla Camera dei deputati il compito di dare o togliere la fiducia al governo (e ciò a prescindere dalla futura composizione e dai futuri compiti del Senato) e introdurre il voto di sfiducia costruttiva nei confronti del governo in carica (contro il quale si può votare solamente a condizione di sostituirlo con un altro governo). In condizioni favorevoli, questi due obiettivi potrebbero essere raggiunti con maggioranze qualificate dell'una e dell'altra camera, rendendo così non-necessario il ricorso al referendum popolare. Solamente dopo aver raggiunto questi obiettivi, ci si potrà porre anche il problema della riforma dei rapporti tra stato e regioni o della rappresentanza delle regioni a livello nazionale o dell'eventuale rafforzamento del ruolo del presidente della Repubblica. Occorre procedere con gradualità. Abbiamo visto che mettere troppa carne al fuoco finisce per bruciarla.

Insomma, se gli individui che rimuovono i loro problemi non hanno un futuro, ciò vale ancora di più per le democrazie. L'Italia deve affrontare e risolvere la sua sfida istituzionale. Ne va della sua autonomia decisionale nel contesto intergovernativo che oggi connota l'integrazione economica e monetaria. Il ritorno al proporzionale ha molti vizi, ma potrebbe implicare una grande virtù. Quella di tenere separati, a sinistra e a destra, chi è a favore e chi è contro la riforma. Consentendo ai favorevoli di dare poi vita ad un patto di governo per le riforme, chiaro, limitato e vincolante. Le coalizioni pre-elettorali, che in condizioni ordinarie servono a razionalizzare la competizione elettorale, nelle nostre condizioni straordinarie ostacolerebbero invece la riforma. Chissà, la talpa riformatrice potrebbe aver deciso di usare le conseguenze del No per fare avanzare (alcuni) obiettivi del Si.

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    Sergio Fabbrini. Sergio Fabbrini è professore di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Luiss, direttore della Luiss School of Government ed editorialista del Sole 24 Ore. ...

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-22/un-patto-governo-le-riforme-231143.shtml?rlabs=1
4611  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MATTIA FELTRI. L’onore di Roma svenduto dalla politica per un pugno di voti inserito:: Luglio 30, 2017, 06:16:18 pm

L’onore di Roma svenduto dalla politica per un pugno di voti
Gigantesche calunnie, indignazioni roboanti, danni letali.
La mafia non c’era ma è servita a tutti, dal Pd ai Cinquestelle

Pubblicato il 21/07/2017 - Ultima modifica il 21/07/2017 alle ore 07:04

Mattia Feltri
Roma

Ieri i giudici hanno stabilito che Roma è stata vittima di una calunnia entusiastica, colossale e globale da parte di spensierati calunniatori che hanno fatto a gara a chi calunniava meglio per due spicci di guadagno. 

Mafia capitale non esiste, come era politicamente chiaro a chi volesse vederlo sin dall’avvio dell’inchiesta e a maggior ragione quando l’ex sindaco di destra, Gianni Alemanno, era stato prosciolto dall’aggravante mafiosa insieme a tutti gli altri politici coinvolti nell’inchiesta (tranne cinque o sei e non per mafia, fra cui Luca Gramazio che, siccome ieri è stato condannato, torna a casa: uno dei luminosi paradossi della giustizia italiana). È stata calunniata Roma, le sue amministrazioni, fallimentari ma non mafiose, i suoi cittadini e la sua trimillenaria storia che in giro per il mondo porta ancora il titolo del trionfo, malgrado evidenti e abissali disastri. Mafia capitale non era mafia, era una banale, banalmente grave storia di corruzione e delinquenza arrivata a toccare il Campidoglio, senza però stringerlo fra tentacoli di piovra, come era stato raccontato a partire dal 2 dicembre 2014, giorno in cui furono arrestati Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. E lì è partita la carneficina. 

Per paradosso, in quei giorni, l’unico a tirare fuori due frasi da statista fu il sindaco Ignazio Marino: «Io mi rifiuto di avvalorare l’idea che Roma sia una città di mafiosi. Prima c’era la Roma ladrona, ora la Roma mafiosa. Non è così». È quello che avrebbe dovuto dire Matteo Renzi, presidente del consiglio e segretario del partito che esprimeva il sindaco di Roma, per proteggere quel che resta della dignità del Paese e del Pd, invece di ripararsi dietro a scaltrezze linguistiche senza domani, come si è visto: «Non sappiamo se quello che emerge dipinge dei tangentari all’amatriciana o dei mafiosi, lo dirà la magistratura. Ma noi non lasceremo la capitale in mano ai ladri». Era lo schieramento del plotone d’esecuzione per Marino, che si sarebbe lasciato tirare dentro alla gara della purezza, dichiarandosi di colpo l’ultimo argine alla cupola («la mafia vuole far cadere la mia giunta»); e quella della purezza è sempre un gara che si corre col fiato corto. Dalle altezze sacre dell’Antimafia, Rosy Bindi si buttava nella filosofia del diritto: «L’inchiesta della procura di Roma presenta elementi di novità rilevanti: individua il metodo mafioso per il reato di criminalità organizzata di stampo mafioso che non è la semplice duplicazione dell’organizzazione mafiosa di altri territori». Cioè, non sarà una cosa corleonese, ma sempre mafia è. Matteo Orfini, portato dall’emergenza al commissariamento e alla guida del Pd romano, prometteva la sciabola contro «il sistema di potere» retto «dai mafiosi». Dunque, chi pensa che Roma sia passata ai Cinque stelle per una campagna brutale e dissennata, cui ha preso parte acriticamente buona parte della stampa, sa dove deve bussare.

Perché poi, certo, i grillini ci hanno infilato le mani. Erano i pomeriggi invernali in cui i loro militanti e quelli di Giorgia Meloni e Matteo Salvini andavano sotto il Campidoglio a gridare «fuori la mafia dal Comune». In cui il New York Times scriveva che la dimensione dello scandalo «sbalordisce persino gli italiani», e si noti la delizia di quel «persino». La stampa estera sarebbe arrivata all’apertura del processo con la solida speranza di vedere alla sbarra ceffi in doppiopetto gessato, come tanti Al Capone della Garbatella. Beppe Grillo impostava la campagna elettorale per il nuovo sindaco secondo le sue riflessioni bipartitiche: «Movimento Cinque Stelle o mafia capitale?». Spiegava che «Il Campidoglio va disinfestato, i legami con la mafia recisi». Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista duellavano quanto a soluzioni sovietiche. Il primo: «Cittadini, fateci avere anonimamente, in busta chiusa, tutto quello che sapete sulla mafia nella capitale: noi vi garantiamo riservatezza». Il secondo: «Nel Pd e in Forza Italia ci sono persone per bene. Ci mandino una mail con quello che sanno, gli garantiamo l’anonimato e penseremo noi a ripulire questa Repubblica filomafiosa». Virginia Raggi ancora ieri era in aula ad attendere la sentenza per raccattare il dividendo e, quando l’aggravante mafiosa è volata via col Ponentino, non ha mosso muscolo e dichiarato la vittoria dei cittadini contro il malaffare. Dopo avere condotto un’intera e vittoriosa campagna elettorale sulla reazione popolare alla «mangiatoia della criminalità e di mafia capitale». Dopo avere promesso che la sua sarebbe stata l’amministrazione «che niente ha a che fare con mafia e criminalità». Il sindaco di Roma - insieme con Renzi e tutti gli altri - farebbe buonissima figura a chiedere scusa alla città per il danno d’immagine inferto.

L’indagine della procura di Roma, grazie soprattutto al solito, eterno, sfiancante uso politico delle inchieste, ha prodotto guasti irreparabili: tutti i partiti, la Lega e Fratelli d’Italia compresi, hanno chiesto lo scioglimento del Comune per mafia. Hanno impostato la campagna elettorale per la successione di Marino in nome della lotta alla mafia. Hanno ceduto all’estero l’immagine della loro capitale sequestrata per collusione dalla criminalità organizzata. Nessuno ha avuto l’orgoglio di difendere il decoro del Paese pur di non cedere un metro, e quando si è disposti a tanto, a calunniare il proprio Paese, e a preferire il bene di fazione che il bene di tutti, allora sì che si intravede qualcosa di somigliante al metodo mafioso.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/21/italia/politica/lonore-di-roma-svenduto-dalla-politica-per-un-pugno-di-voti-3zxUEfOzFIbdHFXBqgEOoJ/pagina.html

4612  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / LUIGI LA SPINA - Ora bisogna individuare i responsabili inserito:: Luglio 30, 2017, 06:14:59 pm
Ora bisogna individuare i responsabili

Pubblicato il 22/07/2017 - Ultima modifica il 22/07/2017 alle ore 07:19

LUIGI LA SPINA

Errori, superficialità, sottovalutazioni, pigrizie.
La lettura delle testimonianze rese alla commissione consiliare del Comune di Torino che ha indagato sul disastro di piazza San Carlo lascia davvero stupefatti. Un evento che raccoglie più di 40 mila persone ammassate davanti a un solo maxischermo in una delle piazze storiche della città organizzato come neanche avviene per una piccola fiera di paese. Con conseguenze, lo ricordiamo, tragiche: una donna morta e oltre 1500 persone ferite. 

In attesa che l’autorità giudiziaria completi l’inchiesta sui fatti del 3 giugno, già la raccolta di queste carte chiarisce l’incredibile catena di irresponsabilità che grava sulla coscienza di amministratori locali, funzionari pubblici e dirigenti dello Stato.
 
Le relazioni che concludono le indagini di simili commissioni, con i faldoni che racchiudono le testimonianze di protagonisti e comprimari, in genere, segnano il punto finale di una vicenda.
In questo caso, si può parlare, invece, di un punto di partenza, dal quale si dovrà arrivare al vero traguardo finale, quello che tutta la città di Torino aspetta sia raggiunto, cioè l’individuazione delle specifiche responsabilità. 
L’impressione complessiva che emerge dalla lettura di queste carte, però, è quella di una tale confusione di competenze e di un tale incrocio di deleghe, maldestramente e superficialmente attribuite a chi non aveva esperienze e professionalità per esercitarle con autorevolezza ed efficienza, da rendere il lavoro dei magistrati molto difficile.
 
Ecco perché non bisogna cedere alla pur comprensibile impazienza di una opinione pubblica che vorrebbe subito conoscere i risultati delle indagini. La ricerca di uno o di più capri espiatori da offrire ai torinesi per rispondere alla loro indignazione non vuol dire fare giustizia, perché le responsabilità penali e civili sono sempre individuali e distribuire colpe e punizioni nel mucchio vorrebbe dire, paradossalmente, adeguarsi a quel metodo sommario, confuso e superficiale che è stato adottato per organizzare l’evento di piazza San Carlo.
 
In attesa delle conclusioni a cui arriverà la procura, in tempi comunque sperabilmente non lunghissimi, restano responsabilità politiche e amministrative sulle quali sindaca, giunta comunale, prefettura e questura dovrebbero valutare con senso di responsabilità istituzionale. Anche in questo caso, bisogna evitare che interessi di partito strumentalizzino una vicenda tragica sulla quale Torino rischia di pagare un’immagine negativa che non merita. Come non è tollerabile che il disastro di piazza San Carlo finisca nel solito polverone delle inchieste italiche, quello che arriva a una conclusione che conosciamo fin troppo bene: tutti colpevoli e, quindi, nessun colpevole.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/22/cultura/opinioni/editoriali/ora-bisogna-individuare-i-responsabili-5qEcW3EmhUdxT67o5PVwkL/pagina.html
4613  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Emilia PATTA. La partita per l’Ema a Milano rivela il metodo politico che ... inserito:: Luglio 30, 2017, 06:12:56 pm
La partita per l’Ema a Milano rivela il metodo politico che Gentiloni vuole allargare

Di Emilia Patta

Tra le varie conseguenze della decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Unione Europea vi è anche la necessità, come è noto, di spostare da Londra sul territorio comunitario le due istituzioni comunitarie che hanno sede nella capitale britannica: l’Autorità bancaria europea (Eba) e l’Agenzia europea per i medicinali (Ema). L’Italia, con la città di Milano, si è già candidata a ospitare l’Ema e il Sole 24 Ore segue con attenzione la pratica da mesi: ora siamo al tornate decisivo, dal momento che entro il 31 luglio i Paesi interessati a ospitare una delle due istituzioni devono presentare atto formale di candidatura (il voto finale ci sarà a novembre). Già domani il premier Paolo Gentiloni sarà a Milano con il sindaco Giuseppe Sala e il governatore Roberto Maroni per partecipare alla presentazione del dossier sulla candidatura del capoluogo lombardo a ospitare l’Ema.

Anche la decisione, presa al summit Ue di fine giugno, di votare a maggioranza invece che all'unanimità come proposto dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, potrebbe rappresentare una opportunità in più per il nostro Paese e per Milano.

    L’agenzia Ue del farmaco 23 luglio 2017

Gentiloni al Sole 24 Ore: «Ecco perché l’Ema a Milano è la scelta migliore per l’Europa»

L’Italia è il secondo produttore farmaceutico dell’Unione europea, con trenta miliardi di euro di produzione e 2,6 miliardi di investimento, e Milano - anche grazie al successo dell’Expo – è la città ideale per accogliere personale e strutture. Il primo dei criteri messi a punto dai due presidenti Ue per la scelta è la rapidità con la quale la nuova sede potrà essere operativa e, come ha ricordato il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni nel suo articolo-appello pubblicato sulle colonne del Sole 24 ore, l’Italia e la Lombardia hanno già messo a disposizione il grattacelo Pirelli, uno dei simboli della modernità del nostro Paese.

Gentiloni sottolinea giustamente il lavoro di squadra svolto dal governo e dai sui ministri (in prima fila Maurizio Martina, già accanto a Sala per l’Expo) da una parte e dall’altra dalle istituzioni locali: il sindaco di Milano, eletto dal Pd e dal centrosinistra, e il governatore leghista della Lombardia. Il dossier della candidatura di Ema e la qualità del lavoro tecnico che ha comportato «mostra - nota il premier - anche a quali risultati siamo in grado di aspirare quando lavoriamo insieme. Con il sindaco Sala e con il presidente Maroni abbiamo fatto un’ottima squadra e ora ci giochiamo la partita».

    Le agenzie europee verso il trasloco 20 giugno 2017

Milano si propone come sede dell’Ema. E ha ottime ragioni per farlo

Le città che aspirano a ospitare l'Ema sono 20, tra cui alcune importanti capitali europee, e nonostante le ottime chances di Milano naturalmente la partita è apertissima. Ma quello che qui vogliamo portare all’attenzione è un metodo di lavoro quando sono in ballo interessi strategici del Paese: la collaborazione tra partiti (su questo punto l’attività del M5S non è pervenuta) e tra istituzioni. E anche, aggiungiamo, tra i partiti, le istituzioni e l’informazione di qualità. Troppo spesso i giornali insistono sulle cose che dividono un Paese politicamente già troppo diviso, dimenticando che tra i compiti della buona informazione c'è anche quello di “costruire” l'unità attorno agli interesse del Paese. Come scrive Gentiloni concludendo il suo intervento sul Sole 24 Ore, «la decisione finale dipenderà da molti fattori, e non saremo in grado di influenzarli tutti» ma «non c'è dubbio che questa candidatura, portata avanti con questa coralità e con una città che è una delle capitali internazionali d'Europa, è già un successo che deve ispirare tutto il Paese per le sue prossime scelte».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-23/la-partita-l-ema-milano-rivela-metodo-politico-che-gentiloni-vuole-allargare--142140.shtml?uuid=AEO9pq1B
4614  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Monito di Mattarella sui migranti: "Serve una discussione collegiale e una ... inserito:: Luglio 30, 2017, 06:11:11 pm
POLITICA

Contro l'Europa delle facezie e dell'inconcludenza

Monito di Mattarella sui migranti: "Serve una discussione collegiale e una risposta univoca".
E per il futuro dell'Europa auspica la revisione dei Trattati

 24/07/2017 17:31 CEST | Aggiornato 36 minuti fa
Huffington Post

ANSA
Basta "battute" e "facezie". Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, utilizza toni decisi per prendere posizione sul tema che sta investendo il dibattito nazionale ed europeo, quello dei migranti, e per richiamare i partner europei a "una risposta univoca, senza spazio per battute e facezie che non si addicono" alla gravità di quanto sta avvenendo. Per Mattarella serve "una discussione collegiale, seria e responsabile". "Il mondo di oggi - chiosa - non può essere considerato un'arena nella quale siano in brutale competizione sovranità impugnate come clave in una logica di antagonismo o addirittura di scontro".

Parlando alla Farnesina in occasione della Conferenza degli ambasciatori, il capo dello Stato chiede "fermezza negoziale" in Europa sull'immigrazione. "Sono certo" - afferma - che lo stesso "metodo di fermezza negoziale" usato per risolvere il problema delle banche "sarà quello che ci consentirà di superare i numerosi ostacoli che ancora si frappongono a un lungimirante ed efficace governo del tema forse più rilevante oggi di fronte all'Unione Europea, quello di una gestione del fenomeno migratorio di carattere autenticamente comunitario".

Nel suo intervento, il presidente della Repubblica scuote l'Europa e pone come "indispensabile" la revisione dei Trattati. Una necessità che Mattarella collega a scelte politiche: "Arrendersi all'irrilevanza, inaridirsi nell'inedia dell'inconcludenza, oppure riprendere con decisione il percorso di integrazione", sottolinea. "Soltanto un'Europa coesa potrà infatti concorrere con efficacia a far valere i propri valori e a determinare gli equilibri mondiali", aggiunge.

Mattarella sottolinea l'importanza del Migration Compact, "successivamente declinato nei diversi programmi con i primi Paesi-pilota", e ne chiede l'estensione, "considerando apporti che potrebbero essere forniti da donatori non-europei, in uno sforzo finalmente sinergico, a beneficio del rafforzamento sociale e istituzionale dei Paesi africani.

Nell'intervento di Mattarella spazio anche alla Libia. "La stabilizzazione delle aree di crisi, prima fra tutte la Libia, necessita di azioni che travalicano, se si intende dar vita a soluzioni sostenibili nel lungo periodo, la portata di singoli paesi o di singole alleanze internazionali di 'volenterosi'", sottolinea il capo dello Stato.

Da - http://www.huffingtonpost.it/?ref=RHRR-BH
4615  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / GIANLUCA DI FEO L'esodo dei migranti dal Niger all'Italia. E i militari francesi inserito:: Luglio 30, 2017, 06:08:22 pm

L'esodo dei migranti dal Niger all'Italia. E i militari francesi fanno finta di nulla

La guarnigione che sorveglia l'ultimo avamposto del 'corridoio libico' lascia passare le carovane sulla rotta più battuta dai trafficanti: da lì sono transitati quasi in 300 mila destinati ai barconi nel Mediterraneo


Di GIANLUCA DI FEO
25 luglio 2017

No, Macron non intende accogliere i "migranti economici" che varcano il Mediterraneo. Parigi non aprirà i porti alle navi cariche di disperati: non è un problema loro, che se la sbrighi l'Italia. Già, ma da oltre due anni l'esodo dall'Africa verso l'Europa passa sotto gli occhi delle truppe francesi, che nulla fanno per ostacolare gli affari dei trafficanti d'uomini. La rotta fondamentale per la Libia ormai è una sola: attraversa il Niger, passando dal crocevia di Agadez per poi raggiungere Séguédine. E il terminale di questa carovaniera è sorvegliato da un vecchio fortino coloniale chiamato Madama, accanto al quale nel 2014 i francesi hanno costruito una potente base militare.

È l'ultimo avamposto prima della Libia. Lì sotto gli occhi dei legionari nel 2016 sono transitati 291 mila migranti - dati ufficiali dello Iom - tutti diretti verso Nord e in gran parte destinati a salire sui barconi. Si muovono in lunghe colonne di camion e pickup, colmi all'inverosimile di merci e persone. Difficile non notarli nella vastità del Sahara, soprattutto per il contingente francese che schiera squadriglie di Mirage da ricognizione, di droni da sorveglianza e di elicotteri.

Ma la guarnigione dell'Armée non si cura di questa moltitudine in movimento nel deserto. Ci sono foto che mostrano l'equipaggio dei blindati francesi mentre saluta i migranti stipati in cima a un camion, gli stessi che settimane dopo verranno soccorsi dalle navi nel Canale di Sicilia. O immagini dei fuoristrada zeppi di persone che arrancano vicino ai bimotori Transall parcheggiati sull'aeroporto della base militare. I mercanti di uomini si mostrano tranquilli, anzi rassicurati dalla presenza dei soldati occidentali che tiene lontani i predoni.
 
In questi anni i muscolosi parà della Legione, eredi del reparto protagonista della Battaglia di Algeri, si sono occupati d'altro. La loro missione principale è dare la caccia ai jihadisti. Pattugliano il Sahara alla ricerca di trafficanti, sì, ma solo quelli che trasportano armi. In un paio di occasioni si sono paracadutati di notte proprio a ridosso dei valichi sulla frontiera libica, soltanto però per tendere agguati ai terroristi islamici. La guarnigione di Madama non è numerosa, in genere si tratta di 250 soldati che vengono raddoppiati in vista di rastrellamenti importanti, ma è incardinata nell'operazione Barkhane che in Niger conta più di mille uomini. Nella capitale Niamey è stata allestita una centrale dell'intelligence che analizza 24 ore su 24 le informazioni raccolte da aerei, droni, satelliti, posti d'osservazione e confidenti sul terreno: quando individuano un bersaglio sospetto, fanno partire i raid dal fortino di Madama. Ma quelli che Macron chiama "migranti economici" non sono un problema loro: tanto non gli verrà permesso di superare la soglia di Ventimiglia.

Nel Sahel la Francia ha un unico obiettivo: tutelare i suoi interessi. Come le miniere nigerine di uranio, che alimentano tutti gli impianti nucleari d'Oltralpe. Certo, la stabilità della regione è decisiva per impedire il dilagare del fondamentalismo jihadista. E per questo la Germania sostiene totalmente le decisioni di Parigi, con finanziamenti e truppe. Eppure la chiave della questione migranti è proprio in quei Paesi, solo lì si può tentare di rallentare l'esodo.

Per l'Italia è una priorità, il cuore della strategia messa in campo dal ministro Marco Minniti: "Controllare quel confine - ha ripetuto ieri - significa controllare i confini dell'Europa". A Roma si è riusciti a negoziare la tregua nel Fezzan libico, la tappa successiva al Niger nel viaggio verso il Mediterraneo. La pace tra i tebù e i tuareg ha fermato il conflitto che veniva finanziato proprio incrementando il traffico di uomini. I dati dello Iom, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, segnalano che dalla fine delle ostilità sono diminuite pure le partenze: nei primi quattro mesi di quest'anno "solo" 22 mila persone si sono mosse dal Niger verso la Libia.

Ma non basta. Serve un passo in più: bisogna ricostruire una guardia di frontiera libica, poiché i valichi non vengono più presidiati dalla fine del regime di Gheddafi. Ed è necessario potenziare le capacità delle autorità nigerine nel contrasto al business delle migrazioni, che seppur cresciuto a dismisura negli ultimi tre anni è comunque da sempre parte della vita di quel paese. Per questo bisogna unire il bastone alla carota, le attività di polizia agli aiuti economici, con una politica di lungo respiro e tanti investimenti.

Il governo Gentiloni ha cercato di fare da apripista, ipotizzando fondi per lo sviluppo e una missione militare italiana da dislocare in Niger per addestrare le nuove guardie libiche e collaborare con la polizia locale. Una squadra si è recata sul campo per studiare concretamente lo schieramento: proprio la base di Madama, con tanto di aeroporto, sembrava la posizione ideale. Poi i piani si sono insabbiati nel deserto rosso. Perché Parigi non gradisce interferenze.

Ufficialmente in Niger c'è già un'operazione della Ue che si occupa di formare gendarmi specializzati nella lotta ai trafficanti. Finora non ha combinato granché. Ma lo scorso 13 luglio è stato sottoscritto un accordo per rilanciare l'impegno dell'Unione nel Sahel: è stato firmato all'Eliseo, sotto le bandiere di Germania e Francia. Le foto della firma mostrano Federica Mogherini con alle spalle Macron e Merkel. Anche il fortino di Madama verrà potenziato: quando i francesi lo costruirono, nel 1930, aveva il compito di bloccare l'espansione italiana. Corsi e ricorsi storici di un'Europa che non sa imparare dal suo passato.

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25 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/07/25/news/niger_i_militari_francesi_lasciano_passare_i_migranti_diretti_in_italia-171560800/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1
4616  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / Nicola Pedde. In LIBIA il problema non è la Francia, ma l’Italia inserito:: Luglio 30, 2017, 06:06:24 pm
In Libia il problema non è la Francia, ma l’Italia

 24/07/2017 10:57 CEST | Aggiornato 7 ore fa

Nicola Pedde Direttore Institute of Global Studies

Ha suscitato in Italia una profonda indignazione la decisione del presidente francese Macron di organizzare a brevissima scadenza una conferenza sulla Libia, invitando i vertici politici dei due principali schieramenti a sedersi al tavolo di una trattativa gestita ed organizzata esclusivamente da Parigi.

L'incontro è programmato per martedì 25 luglio, e l'agenda dei lavori prevede la creazione di un esercito nazionale libico che assorba (o combatta) le milizie, e un piano politico di stabilità che permetta la formazione di un governo centrale stabile e capace di difendersi dalle mille insidie generate dal collasso delle istituzioni centrali nel 2011.

La strategia francese
Cosa voglia esattamente la Francia in Libia è chiaro dal 2011, e non dovrebbe essere necessario tornare sull'argomento a intervalli regolari, con circonvolute elucubrazioni tutte italiane relative a ipotetici quando improbabili scenari cooperativi.

La Francia fa in Libia quello che le riesce meglio, e che invece gli italiani sono al contrario storicamente incapaci di fare: persegue e difende i suoi interessi. Che siano in contrasto con quelli degli italiani – o di qualcun altro – poco male. Peggio per chi ancora crede a formule cooperative nel contesto della politica estera europea.

La Francia è accusata di essere stata ambigua nella gestione della politica di intervento in Libia, sostenendo dapprima la caduta di Gheddafi e il consolidamento delle formazioni islamiste, per poi schierarsi apertamente dalla parte opposta, sostenendo il generale Haftar e l'insieme di interessi politici ed economici che, attraverso l'Egitto, si riconducono sino al Golfo e agli Emirati Arabi Uniti.

Non c'è invece alcuna ambiguità dietro a questi apparenti mutamenti di alleanze. L'obiettivo della Francia non è quello di favorire la creazione del miglior governo possibile per la Libia e per i libici. La Francia è interessata al potenziale economico della Libia, e quindi muta strategia al mutare degli eventi, selezionando e sostenendo di volta in volta quelle componenti che meglio potrebbero servire gli interessi di Parigi.


Chi, quindi, meglio di Haftar, può rappresentare oggi questa scelta?
La Francia simula con la comunità internazionale di rispettare il riconoscimento del governo legittimo di Fayez al Serraj a Tripoli, ipocritamente offrendosi di mediare una conferenza nazionale di stabilità che è invece l'anticamera dell'ingresso di Haftar, l'uomo forte, nello scenario politico libico.

Haftar non è il meglio che si possa augurare alla Libia, ma rappresenta certamente il meglio che si possa ottenere per la gestione dei futuri interessi economici in loco. Ad Haftar non interessa negoziare con al Serraj la creazione di un esercito nazionale sotto il suo comando e subordinato al potere politico del premier. Ad Haftar interessa diventare nel più breve tempo possibile il nuovo Raìs della Libia, attraverso il riconoscimento di un suo ruolo di leadership politica assoluta.

Questo lo sanno bene i francesi, ma anche gli inglesi, i russi e molti altri che da una parte simulano – perché di simulazione si tratta – di rispettare gli accordi presi in sede Onu con l'intento di rafforzare e proteggere il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, mentre dall'altra ne affossano quotidianamente la credibilità con il chiaro intento di presentare poi una soluzione scontata al problema: serve di nuovo l'uomo forte.

La riunione di Parigi del 25 luglio prossimo serve esattamente a questo, per dare ad Haftar definitivamente il controllo della Libia attraverso una transizione – che si spera sia almeno incruenta – che decreti la fine della debole esperienza al Serraj e l'avvio di un nuovo autoritarismo di stile gheddafiano.

Poco male, nell'ottica francese, se questo viene mal recepito da Roma, che guardava a Macron come il salvatore dell'Europa e che invece come prima mossa affonda sugli interessi italiani in Libia, senza guardare in faccia niente e nessuno.

Certo, non è detto che il piano francese riesca. Di fiaschi a Parigi ne hanno inanellati in gran quantità dal 2011 in poi, dalla Libia stessa sino alla gran parte del Sahel, dove sono intervenuti senza adeguata capacità finanziaria in una miriade di operazioni militari del tutto inutili sotto il profilo della lotta al terrorismo, ma al contrario simbolicamente rilevanti nel presidio di specifici interessi economici.

La conferenza del 25 luglio sarà con ogni probabilità una consacrazione del ruolo di Haftar, ma la storia ci insegna che il generale non sia proprio la persona più affidabile del pianeta, con il rischio, ancora una volta, di produrre non solo un buco nell'acqua ma di incrementare l'instabilità locale.

Haftar non ha alcuna capacità o sensibilità politica, essendo animato da una esclusiva quanto personale ambizione di potere. Se qualcuno pensa di affidargli la gestione della sicurezza sul terreno senza comandarlo fermamente nell'azione, e al tempo stesso senza costruire politicamente il necessario contesto di pacificazione e riconciliazione nazionale, ha della Libia un'idea alquanto naive.

Non possiamo essere quindi certi che l'azione francese sarà coronata dal successo – e, anzi, incombono cupe nubi su questa possibilità – ma noi italiani potremo finalmente comprendere che è finito il tempo della politica di basso profilo, della finta ricerca di una cooperazione e dell'illusorio ruolo europeo.

Roma, la bella addormentata del Mediterraneo
In attesa del fatidico bacio del principe americano, la bella addormentata italiana continua il suo lungo e placido sonno nel Mediterraneo.

Impegnata nella gigantesca, quanto eticamente corretta ma tecnicamente insostenibile, operazione di gestione dei flussi migratori, senza alcun piano concreto che ne stabilisca la progressione e soluzione nel tempo, lacerata dalle tradizionali beghe della politica interna – che non concedono spazio alla "superflua" politica estera – l'Italia attende con pazienza e tenacia che qualcuno le indichi cosa fare, come farlo e con quali risorse economiche.

Per quanto concerne la Libia, la speranza di Roma è sempre la stessa, e quindi connessa alla possibilità che a Washington si cambi passo e si decida per una politica decisa e determinata, che coinvolga l'Italia in prima linea magari affidandole anche la leadership di qualche improbabile nuova missione militare.

Il principe azzurro atteso a Roma, tuttavia, sembra bazzicare anche altri ambienti in questo momento, cercando di capire come si possa definire una soluzione al problema magari aprendo le porte anche al generale Haftar, che a Foggy Bottom e al Pentagono inizia ad essere progressivamente considerato come il minore dei problemi da risolvere.

Certo, Washington non sarebbe d'accordo su due piedi con la presa del potere da parte di Haftar, e quindi cerca di comprendere come e quanto il generale possa risultare malleabile nell'accettare posizioni di compromesso. Al tempo stesso, il generale Haftar è ben conscio che le carte sono a lui favorevoli in questo momento, e può quindi permettersi di simulare una politica di apertura nei confronti di Tripoli, nella consapevolezza che un suo futuro mutamento di strategia – matematicamente certo – sarà poi accettato obtorto collo dalle sue controparti come una ineluttabile evoluzione degli eventi.

Nel frattempo, a Roma, la Farnesina organizza oggi 24 luglio la sua annuale conferenza degli ambasciatori, invitando come ospiti d'onore il ministro degli esteri francese, Jean-Yves Le Drian, e il nuovo rappresentante dell'ONU per la Libia Ghassem Salemè – libanese, ma – guarda caso – ex professore a Parigi – con i quali, con ogni probabilità, si avrà anche il cattivo gusto di parlare della Libia e di possibili strategia di cooperazione.

La posizione dell'Italia sulla Libia è quindi presto detta, purtroppo. Paralizzata nell'ambito di una scelta concettualmente giusta e tecnicamente ineccepibile (sostegno al governo legittimo di al Serraj, difesa degli interessi nazionali e delle capacità economico-infrastrutturali), la strategia di Roma verso la Libia è ormai pietrificata in attesa che qualcuno, al governo, si ricordi che tra le priorità della politica c'è anche la gestione degli affari internazionali, dando qualche indicazione.

Siamo ormai isolati nel nostro sostegno statico al governo legittimamente riconosciuto dalla comunità internazionale, nei confronti del quale non siamo stati capaci di generare alcuna reale azione di consolidamento dei loro e dei nostri interessi. Abbiamo organizzato una missione militare di cui nessuno vuole parlare a Roma, e dove soprattutto nessuno ci ha voluto seguire, esponendoci al non indifferente rischio di essere considerati i sostenitori non già di un governo, quanto di una specifica milizia.

L'unica speranza, per l'Italia, è quindi quella di veder fallire il piano francese in modo autonomo e indipendente da qualsiasi contromossa italiana, nell'ortodossa osservanza del detto cinese che suggerisce di sedersi lungo la riva del fiume ed attendere di veder passare il cadavere del proprio nemico.

Veramente poco per la difesa degli interessi nazionali.

Da - http://www.huffingtonpost.it/nicola-pedde/in-libia-il-problema-non-e-la-francia-ma-l-italia_a_23043826/?utm_hp_ref=it-homepage
4617  Forum Pubblico / SCRIPTORIUM 2017 - (SUI IURIS). / Albert Einstein e il suo attacco al capitalismo inserito:: Luglio 30, 2017, 06:04:49 pm
Albert Einstein e il suo attacco al capitalismo

Autore: La RedazioneVen, 21/07/2017 - 09:30

Albert Einstein e il suo attacco al capitalismo
Vi abbiamo già mostrato come Albert Einstein fosse solito intervenire su questioni che esulassero dal suo campo di azione, come ad esempio nel caso delle lettere al figlio e a Marie Curie, nelle quali si occupò principalmente di educazione e di stampa scandalistica.

Oggi invece vi raccontiamo di un suo intervento di natura politica e attraverso il quale non solo lanciò una durissima critica al capitalismo ma addirittura si spinse fino ad affermare che la migliore società possibile fosse quella organizzata secondo un approccio di tipo socialista.

Einstein infatti considerava proprio degli scienziati ricoprire un ruolo pubblico anche in questioni sociali, politiche ed economiche. Così nel 1949 pubblicò un articolo su «Monthly Review» dal titolo Why Socialism?

Anticipando le possibili critiche, Einstein inizia l’articolo chiedendo: «È raccomandabile che uno non esperto in questioni economiche e sociali esprima le sue opinioni sul socialismo?». Ecco la risposta: «Per un certo numero di ragioni credo che lo sia».

Einstein procede elaborando la base teorica del socialismo come egli stesso lo vede, e descrive prima quello che Marx considerava «accumulazione» e che l’economista socialista Thorstein Veblen definiva «la fase predatoria dello sviluppo umano»:

La maggior parte degli stati più grandi della storia vive per conquistare. I popoli conquistatori si dichiaravano, dal punto di vista legale ed economico, la classe privilegiata del paese conquistato. Si sono posti in modo da avere il monopolio della proprietà terriera e hanno individuato la classe sacerdotale tra i loro ranghi. I preti, che controllano l’istruzione, hanno reso la divisione della società in classi un’istituzione permanente e hanno creato un sistema di valori attraverso il quale le persone erano da quel momento in poi, e in larga misura inconsciamente, guidate nel loro comportamento sociale.

Albert Einstein e il suo attacco al capitalismo
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La scienza economica, scrive Einstein, appartiene ancora «a quella fase». Tali «leggi come possiamo trarre da fatti economici osservabili… non sono applicabili ad altre fasi». Questi fatti semplicemente descrivono lo stato predatorio degli affari ed Einstein sottintende che nemmeno gli economisti hanno metodi sufficienti per rispondere in modo definitivo alla domanda “perché il socialismo?” e «la scienza economica nel suo stato attuale può gettare poca luce sulla società socialista del futuro». Non dovremo dunque presumere, prosegue, «che solo gli esperti hanno il diritto di esprimersi su questioni che riguardano l’organizzazione della società». Einstein stesso non pretende di avere tutte le risposte. E infatti conclude il suo saggio con alcune domande su «problemi socio-politici estremamente difficili»:

Come è possibile, vista la grande centralizzazione del potere politico ed economico, impedire che la burocrazia diventi potente e invadente? Come possono essere assicurati i diritti dell'individuo e, in questo modo, un contrappeso democratico al potere della burocrazia?

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Nonostante ciò, Einstein si dice convinto del fatto che il solo modo per eliminare i mali peggiori del capitalismo sia «attraverso l’istituzione di un’economia socialista, accompagnata da un sistema educativo orientato verso obiettivi sociali». Per Einstein il male peggiore del capitalismo predatorio è la «paralisi degli individui» attraverso un sistema educativo che enfatizza un «atteggiamento competitivo esagerato» e forma gli studenti «ad adorare l’accumulazione del successo».

Ma i problemi non riguardano solo la sfera individuale e si estendono fino all’ordine politico:
I capitali privati tendono a concentrarsi in poche mani… Il risultato di tale sviluppo è un’oligarchia del capitale privato, il cui enorme potere non può essere controllato nemmeno da una società politica democraticamente organizzata. Questo è vero dal momento che gli enti in carico di legiferare sono selezionati dai partiti politici, ampiamente finanziati o comunque influenzati da capitalisti privati che, per tutti i vari propositi, separano il corpo elettorale da quello legislativo. La conseguenza è che i rappresentanti del popolo non proteggono a sufficienza gli interessi dei segmenti meno privilegiati della popolazione. Inoltre, viste le attuali condizioni, i capitalisti privati controllano, direttamente o indirettamente, le principali fonti di informazione (stampa, radio, istruzione). È perciò molto difficile, e nella maggior parte dei casi quasi impossibile, per il singolo cittadino giungere a conclusioni obiettive e fare un uso intelligente dei propri diritti politici.

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L’economia politica che Einstein descrive è spesso aspramente criticata dagli ultraliberari di destra come una varietà impura di un capitalismo che non è degno del suo nome, ma il fisico è scettico rispetto a tale critica e afferma che «non esiste qualcosa come una società puramente capitalista». I proprietari privati sempre si assicurano i privilegi attraverso la manipolazione dei sistemi politici, educativi e dei mass media.

La situazione predatoria che Einstein osserva è quella di un’estrema alienazione tra le classi:

Tutti gli essere umani, indipendentemente dalla loro posizione nella società, soffrono per questo processo di deterioramento. Inconsapevolmente prigionieri del loro egotismo, si sentono insicuri, soli e privati della loro semplice gioia di vivere. L’uomo può trovare un significato nella vita, per quanto breve e pericolosa possa essere, solo consacrando se stesso alla società.

Einstein credeva che la devozione dovesse prendere la forma di un’economia socialista che promuove sia il benessere fisico sia i diritti politici di ognuno. Ma non pretendeva di certo di poter definire in anticipo come sarebbe stato un futuro economico così pensato e come si sarebbe potuto realizzare.

Da - http://www.sulromanzo.it/blog/albert-einstein-e-il-suo-attacco-al-capitalismo
4618  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MARIO CALABRESI. La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di ... inserito:: Luglio 30, 2017, 06:03:18 pm
L'insano sollievo

L'editoriale.

La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di condanne ma i giudici hanno bocciato l'aggravante sull'associazione mafiosa

Di MARIO CALABRESI
21 luglio 2017

QUANDO la politica di una città, di fronte a condanne per 250 anni di carcere, festeggia ci sarebbe da essere contenti. Ma se si ascolta meglio e si scopre che non si festeggia perché giustizia è stata fatta bensì perché i criminali che dominavano la scena sono riconosciuti delinquenti però non mafiosi, allora c’è davvero da avere paura.

Quando ci si sente sollevati perché i Palazzi erano infiltrati fino al midollo da un’associazione criminale che non può essere definita mafiosa, allora si è perduti.

Amare Roma significa fare pulizia, non continuare a nascondere la spazzatura della corruzione, del malaffare e della criminalità organizzata dietro una rivendicazione d’orgoglio posticcio. Significa fare i conti davvero e fino in fondo con una città che è diventata capitale dello spaccio di cocaina, in cui il crimine controlla gangli economici vitali.

Le sentenze si rispettano ma la sensazione di sollievo che si è diffusa ieri sembra portare le lancette del tempo molto indietro, a quegli anni in cui si negava la ‘ndrangheta in Piemonte o in Emilia, in cui si scuoteva la testa indignati all’idea che i clan stessero conquistando tutto l’hinterland milanese. E sappiamo quali danni abbiano fatto decenni di sottovalutazione politica dei fenomeni mafiosi.

Ora a Roma si stabilisce che è la geografia a definire i fenomeni e non i fenomeni a riscrivere la geografia. La mafia è tornata ad essere cosa siciliana, nessuno si permetta più di immaginare che sopra il Garigliano nuovi clan autoctoni possano utilizzare modalità che sono proprie delle associazioni di stampo mafioso.

Possiamo andare a dormire tranquilli, magari dopo aver fatto un brindisi. Ma chiudete bene la porta e assicuratevi che i ragazzi siano in casa.

© Riproduzione riservata 21 luglio 2017

Da - http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/07/21/news/l_insano_sollievo-171297096/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2
4619  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Enrico BELLAVIA. Un "tranquillo" Alto Commissariato antimafia inserito:: Luglio 30, 2017, 06:01:32 pm
19LUG2017

Un "tranquillo" Alto Commissariato antimafia

Di Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica

L’Alto Commissariato per la lotta alla mafia era esattamente il contrario di quel che Giovanni Falcone immaginava dovesse essere la lotta alla mafia. Era il regno del quieto vivere, della pacifica coesistenza tra Stato e cosche.
A ribaltare quella logica ci aveva provato Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale divenuto prefetto che a 100 giorni dal suo insediamento, il 3 settembre del 1982, la mafia aveva assassinato.
Sulla scogliera dell’Addaura quel ritorno all’antico perseguito dalla mafia, pronta più che mai a uccidere pur di dettare le condizioni della tregua, era invocato dalla gran parte della classe dirigente siciliana. Per viltà, codardia, convenienza e connivenza. Falcone era di tutt’altro avviso. Immaginava i magistrati come perno dell’azione repressiva, una struttura investigativa di prim’ordine alle dipendenze del pubblico ministero e un coordinamento assoluto tra gli organismi delle due strutture, con una totale circolazione di notizie tra procure in una visione più internazionale che nazionale.
Erano in embrione la Dna e la Dia che avrebbero visto piena operatività dopo la sua morte. Naturalmente a Falcone, che pure l’aveva inventata, preclusero anche la possibilità che assumesse la guida della Direzione nazionale antimafia. Nello Stato, prima ancora che in Cosa nostra, c’era chi sapeva bene che Falcone con quello strumento in mano sarebbe arrivato molto in là: l’Addaura fu proprio il tentativo di fermare quel processo prima che potesse compiersi. Anche qui un delitto preventivo.
In una prigione inglese, racconta il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, si colloca proprio in quel frangente il primo abboccamento tra la mafia e gli apparati di sicurezza ostili al magistrato per fermarlo.
Perché nello Stato c’erano interessi coincidenti con quelli di Cosa nostra. Se i boss temevano la fine dell’impunità e una valanga di condanne sulle quali si sarebbe costruita l’architrave della nuova lotta alla mafia, anche nello Stato c’era chi sarebbe stato spazzato via dalla novità. Che avrebbe pagato il prezzo del compromesso, dell’accomodamento, del quieto vivere, dello scambio pattizio, dell’eterna trattativa.
Un mondo fatto di compiacenza e di coesistenza sarebbe stato demolito. Centri di potere come l’Alto Commissariato si sarebbero rivelati per quello che erano: la migliore assicurazione che oltre un livello di bassa manovalanza criminale lo Stato non avrebbe colpito.
Con un drappello di investigatori valorizzati da lui, Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli su tutti, Giovanni Falcone aveva rotto il meccanismo e dato l’assalto al fortilizio delle vecchie strutture investigative impersonato da Bruno Contrada.
C’era di che temere dall’ondata di rivelazioni dei collaboratori di giustizia pronti a far luce su quel che era stata fino ad allora la guerra tra guardie e ladri. Con i doppiogiochisti sempre lì a disputare la loro partiti. Gente come Faccia da mostro. (4 continua)

Da - http://mafie.blogautore.repubblica.it/2017/07/il-vecchio-e-il-nuovo/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-L
4620  Forum Pubblico / ARTE - Letteratura - Poesia - Teatro - Cinema e altre Muse. / Armando Torno Il discorso di Dostoevskij che rese Puškin profeta della ... inserito:: Luglio 30, 2017, 06:00:07 pm
Il discorso di Dostoevskij che rese Puškin profeta della letteratura russa

Di Armando Torno
28 luglio 2017

Con Puškin inizia un’epoca nuova. Va considerato una sorta di “profeta”. Oltre che iniziatore della lingua letteraria russa contemporanea, introdusse nei versi della sua terra l’idioma popolare.
Fece confluire nell’arte di scrittori e poeti innumerevoli elementi vivificanti. La natura, che in Russia si confonde con l’infinito, dimenticò le scialbe descrizioni di classicheggianti, sentimentalisti e romantici; la stessa vita interiore mutò sembianze, accenti, emozioni, forme.

LIBRI  21 luglio 2017
Democrazie e razzismo scientifico
Il mondo conobbe, grazie a Puškin, quella che genericamente si chiama - nei manuali e nei discorsi – l’anima russa; la medesima che si era lentamente formata attraverso esistenze di santi, viaggiatori, folli, eremiti e rivoluzionari, o semplicemente di contadini. Un’anima che dialogherà con la letteratura. Lo provano le opere di Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij, Čechov e di numerosissimi altri.

Queste parole, tranne l’elenco degli scrittori, le abbiamo prese in prestito parafrasandole da un testo che Fëdor Dostoevskij pronunciò l’8 giugno 1880 a Mosca: è il celebre “Discorso su Puškin” (ora l’editore Castelvecchi ripropone la traduzione di Ettore Lo Gatto; pp. 96, euro 12,50). Le pagine sono state tratte dal “Diario di uno scrittore, anno 1880”.

LIBRI  14 luglio 2017
Quando la botanica era cara agli dei
Non è esagerato affermare che questo “Discorso” mutò il destino della letteratura russa. Sino a quel giorno in molti, seguendo Turgenev, contestavano a Puškin il titolo di “poeta nazionale”; dopo che Dostoevskij proferì questo suo scritto le obiezioni si dissolsero, anzi la sala in cui si celebrò l’evento sembrava sconvolta “da un attacco isterico”.
O meglio, se si volesse visualizzare la scena: “Persone sconosciute piangevano, singhiozzavano, si abbracciavano”. Tutti capirono che Dostoevskij aveva riconsegnato alla Russia il suo poeta e la sua anima. La folla gridava “Profeta, profeta!”; addirittura, testimonia l’oratore in una lettera alla moglie, “Turgenev mi si è buttato al collo con le lacrime agli occhi”.

LIBRI  06 luglio 2017
Le “Notti a Serampore” di Mircea Eliade
Dostoevskij in quel “Discorso” seppe contrapporre mirabilmente lo spirito russo alla certezze economiche e scientifiche dell'Occidente e indicò in Puškin colui che riuscì a “racchiudere in sé, nel suo animo, geni stranieri, come fossero della sua terra”. Aggiunse: “Se egli fosse vissuto più a lungo, avrebbe creato altre figure immortali dell’animo russo, più comprensibili ai nostri fratelli europei”. Purtroppo morì in seguito a un duello, senza riuscire a compiere i 38 anni.
Va aggiunto a tutto questo che nel 1880 Dostoevskij conviveva con i momenti cruciali della creazione de “I Fratelli Karamazov”. Dopo aver reso immortale Puškin, tornerà a San Pietroburgo e finirà il suo romanzo. E porrà agli uomini domande su delitti e colpe, sul male e su Dio. Che attendono ancora risposte.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-07-26/il-discorso-dostoevskij-che-rese-puskin-profeta-letteratura-russa-114117.shtml?uuid=AEHpTk3B
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