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4261  Forum Pubblico / L'ITALIA, FATTI e FETENTI dei nostri PANTANI, dei TUGURI e delle CLOACHE / NICOLA PINNA La banda che si arricchiva con il DNA dei centenari sardi. inserito:: Novembre 04, 2017, 07:24:25 am
La banda che si arricchiva con il Dna dei centenari sardi
Diciassette indagati in Ogliastra tra scienziati e sindaci. I pm: hanno rubato le provette per vendere l’elisir di lunga vita
L’Ogliastra è una delle cinque zone del pianeta in cui si vive più a lungo

Pubblicato il 31/10/2017

NICOLA PINNA
PERDASDEFOGU (NUORO)

I vecchietti l’avevano capito subito: «Ora vogliono fare affari con il nostro sangue». E se è vero che gli anziani d’Ogliastra non s’intendono di business o di complesse questioni scientifiche, su questa vicenda la loro saggezza è stata davvero provvidenziale. «Venderanno il nostro Dna per poi dire che hanno riprodotto il segreto della longevità», protestava il centenario Antonio Mura, il giorno che si è cominciato a parlare di un’asta internazionale per la cessione dei 230 mila campioni di Dna raccolti tra gli abitanti di questo angolo di Sardegna. 
 
Un grande affare a basso costo, perché tra le migliaia di provette custodite qui a Perdasdefogu è nascosto il mistero della lunga vita. Ci sono, di certo, informazioni preziose anche per la lotta alle malattie ereditarie e per chiarire chissà quanti altri arcani medici. «Il Dna per me è una cosa strana, io non ho mai capito bene com’è fatto – sosteneva uno dei nonnini di Villagrande –. Ma sono sicuro che questo è il nostro tesoro». E infatti qualcuno aveva tentato di rubarlo.
 
Il bottino era davvero grosso e non è un caso che per la prima volta in Italia la procura della Repubblica di Lanusei abbia aperto un fascicolo per furto di materiale biologico, recapitando 17 avvisi di garanzia. L’indagine si è svolta come se il caso fosse una rapina milionaria: le 25 mila provette sparite dalle stanze sterili del parco Genos di Perdasdefogu, gli investigatori le hanno considerate come una cassaforte piena di gioielli e banconote. Lo scandalo era rimbalzato subito sui media di mezzo mondo e nel giro di qualche giorno i carabinieri della compagnia di Jerzu avevano ritrovato la strana refurtiva nelle celle frigorifere del reparto di oculistica di un ospedale di Cagliari. Dove sarebbe finito? «Il nostro sospetto – sostiene il procuratore di Lanusei, Biaggio Mazzeo – è che si potesse creare una grossa speculazione e che i campioni potessero essere utilizzati per realizzare brevetti da rivendere alle case farmaceutiche. Nella vicenda si è creato un grosso corto circuito: si è partiti da una ricerca senza scopo di lucro, alla quale la gente aveva partecipato con entusiasmo, e si è arrivati a un intricato affare internazionale».
 
L’indecifrabile mistero dell’Ogliastra è un’ossessione ventennale per gli scienziati di mezzo mondo. Per scoprire i segreti dei centenari si sono fatti studi su tutto: sulle condizioni climatiche e lo stile di vita, l’aria e l’acqua, l’isolamento dei paesi e le abitudini alimentari. Il muro più difficile da abbattere resta quello delle caratteristiche genetiche della popolazione. E il dubbio principale non è mai stato chiarito: cos’hanno in comune le persone che abitano in una delle cinque zone del pianeta in cui si vive più a lungo? Trovare la risposta era proprio l’obiettivo del più grande screening genetico che sia mai stato fatto: 14 mila persone, tutte residenti in 10 Comuni dell’area centro orientale della Sardegna, sottoposte a prelievi e analisi. Il progetto si chiamava Shardna ed era partito nel 1995. Aveva iniziato Renato Soru, ancor prima di darsi alla politica, creando una società consortile con la partecipazione dei Comuni dell’Ogliastra. Qualche anno dopo, tutto il patrimonio è passato nelle mani dell’ex ospedale San Raffaele di Milano e successivamente, con il crac della fondazione di don Verzè, anche la banca del Dna è finita all’asta. L’unica offerta, nel 2016, l’ha fatta la società inglese “Tiziana Life Sciences” (quotata in Borsa e amministrata da un italiano) che si è comprata i campioni biologici e tutti i segreti contenuti all’interno con appena 258 mila euro. Qualche mese dopo però si è saputo della curiosa sparizione delle provette e ancora più curiosa è stata la scoperta fatta in pochi giorni dai carabinieri: i campioni di Dna erano stati spostati a Cagliari dal professor Mario Pirastu, primo direttore scientifico della banca genetica ed ex ricercatore del Cnr. «Le avevo spostate qui per proseguire le ricerche, non c’è stato nessun furto». Ora anche lui è indagato, insieme ad altri ricercatori e a molti sindaci della zona. «Certo, hanno consentito di sfruttare i dati delle anagrafi per portare avanti questo screening – spiega il capitano Giuseppe Merola -. Tra l’altro i prelievi erano stati fatti con una finalità di ricerca e non per essere rivenduti».
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/31/italia/cronache/la-banda-che-si-arricchiva-con-il-dna-dei-centenari-sardi-dB64kDPknrGQEPcAgyalOP/pagina.html
4262  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / MONICA RUBINO. Martina: "Il Pd vuole una coalizione larga, Mdp ci dia una ... inserito:: Novembre 04, 2017, 07:22:33 am
Martina: "Il Pd vuole una coalizione larga, Mdp ci dia una risposta"
"Sì al confronto, ma senza abiure. Non mettiamo veti".
Orlando: "Renzi è stato scelto dalle primarie, non va sottovalutato".
Rosato: "Senza di noi, solo sinistra di testimonianza"

Di MONICA RUBINO
30 ottobre 2017

Renzi: "Pronti a discutere senza veti a centro e a sinistra, ma non rinuncio a nostre idee".
Ius soli: "Se fiducia, voteremo"

ROMA - "Spero che gli interlocutori riflettano sull'apertura prodotta a Napoli. Non mettiamo veti, siamo intenzionati a creare una coalizione larga, con idee forti per guardare a futuro. Converrebbe anche a loro riflettere e approfondire di più prima di rispondere in questo modo". Il vicesegretario del Pd Maurizio Martina si rivolge a Pier Luigi Bersani e Massimo D'Alema di Mdp invitandoli ad esaminare con più attenzione la disponibilità al confronto offerta dai dem durante la conferenza programmatica di Napoli.

Ospite su Radio Capital del programma Circo Massimo, condotto da Massimo Giannini e Jean Paul Bellotto, il ministro delle Politiche Agricole ribadisce però quanto già affermato da Matteo Renzi: "Se si vuole lavorare insieme non bisogna partire da posizioni preconcette, ma discutere di quale futuro immaginiamo per l'Italia nei prossimi anni. Certo, non possono chiederci di fare abiure o rinunciare a pezzi importanti del lavoro fatto in questi anni".

Quanto alla vicenda di Bankitalia, con la riconferma di Ignazio Visco da parte del governo, Martina nega che si sia aperta una ferita tra il premier Paolo Gentiloni e il segretario del Pd: "Il capitolo è chiuso, non parlerei di ferita ma di discussione franca e molto vera. Ma ora si va avanti, siamo una squadra, buon lavoro al governatore".

Il vicesegretario dem risponde poi alle critiche del senatore del suo partito Massimo Mucchetti che ha definito Renzi "una sciagura per il Pd": "Sono giudizi assolutamente sbagliati che non condivido". Mentre non si sbilancia sulla decisione del presidente del Senato Pietro Grasso di lasciare il Pd: "Siamo molto rammaricati, ma abbiamo grande rispetto della seconda carica dello Stato e non polemizziamo con lui. Non lo si strattona, lo si ascolta".

Sulle pensioni Martina, che ha proposto una pausa di riflessione sull'adeguamento alle aspettative vita, sostiene che è  "importante salvaguardare il principio adeguamento, introducendo però una gradualità perché non tutti i lavori sono uguali".
 
Infine lo Ius soli. Ieri Renzi alla convention democratica si è dimenticato di parlarne. Ma il vicesegretario rassicura: "Vedremo cosa decide di fare Gentiloni, io personalmente sono favorevole alla fiducia: il Pd ci sarà".

Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando interviene sul tema delle alleanze a Omnibus, su La7: "Non è che dico che le conclusioni di ieri di Renzi siano sufficienti, c'è da lavorarci ma tolgono un blocco" e comunque "dividersi sulla ricostruzione degli antefatti non ha senso, non si può fare il ragionamento sul pregresso ma su quello che si deve fare. Quelli di Mdp sono ossessionati da Renzi, ma l'accordo lo devono fare con il pd, che è una cosa complessa", aggiunge.

"Penso che si sottovaluti il fatto che Renzi è stato scelto dalle primarie - continua Orlando  -  Io non credo che il Pd renziano sia in grado di risolvere tutto il centrosinistra, ma non penso che il centrosinistra si possa costruire non tenendo conto che c'è una parte del centrosinistra che si identifica con Renzi". Un punto su cui concorda anche l'altro sconfitto alle primarie, il governatore della Puglia Michele Emiliano: "Io che ho perso il congresso non posso dire a Renzi 'vai a fare una camminata', è inconcepibile nella vite nei partiti". Quindi l'invito è a lavorare "sui contenuti: loro (i bersaniani, ndr) devono costringere il Pd a un contenuto programmatico che gli sia confacente, ma basta con i comunicati stampa, iniziamo a lavorare".

Contro la "sinistra di testimonianza" si scaglia anche il capogruppo dei democratici alla Camera Ettore Rosato, autore della legge elettorale appena approvata dal Parlamento: "Da oggi si comincia a lavorare, penso si possa arrivare a un'intesa" anche con Mdp per un centrosinistra largo, "è ragionevole, ci saranno tre proposte politiche alternative: quella della destra trainata da Salvini, quella populista e incapace di governare del M5s e poi la proposta riformista di centrosinistra che noi vogliamo costruire insieme agli altri. Chi si colloca fuori da questo quadro farà testimonianza, non corre per vincere". Rosato è ottimista: "Penso che con Mdp si riesca ad arrivare a un'intesa".

© Riproduzione riservata 30 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/30/news/maurizio_martina_radio_capital-179741435/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P9-S1.8-T1
4263  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / LUIGI LA SPINA - La solitudine del Piemonte nell'emergenza inserito:: Novembre 04, 2017, 07:21:15 am

La solitudine del Piemonte nell'emergenza

Pubblicato il 30/10/2017

Luigi La Spina
Non c’è bisogno di essere fisicamente sui monti che bruciano. Non c’è bisogno di dover scappare di casa perché le fiamme la lambiscono. Non c’è bisogno di abitare a Torino per scrutare con angoscia la nube rossastra e cupa che l’avvolge. Basta guardare le foto e i filmati agghiaccianti che compaiono sui giornali, in tv o sulla rete per comprendere la situazione drammatica in cui una Regione come il Piemonte si trova ormai da molti giorni e, purtroppo, senza che le previsioni meteorologiche, per altri giorni, offrano conforto.

Eppure, sembra che uno strano «silenziatore d’allarme» sia stato applicato a una emergenza così grave un po’ da tutte le autorità che dovrebbero intervenire con l’urgenza indispensabile, con tutti i mezzi disponibili, chiedendo l’aiuto e facendo ricorso a tutte le forze che un Paese come l’Italia dovrebbe mobilitare in un caso del genere. 

Hanno cominciato gli amministratori locali a non proporzionare le loro richieste di assistenza per i rischi che correvano i loro territori e i loro abitanti, forse un po’ per l’orgoglio di far da soli e un po’ per quella consueta ritrosia piemontese che rifugge il lamento.

Stessi atteggiamenti hanno mostrato autorità piemontesi e torinesi. Anche per costoro quel «silenziatore» può avere parecchie motivazioni. 

Da una parte, la presunzione, alimentata da scarsa consapevolezza della gravità dei pericoli e delle enormi difficoltà di far fronte alla vastità del territorio devastato dalle fiamme, di possedere forze sufficienti per il controllo e lo spegnimento degli incendi. Dall’altra, il timore, del tutto incomprensibile, di esagerare un allarme che, invece, aveva tutti i motivi per essere gridato con quella forza che la situazione richiedeva.

Così, davanti a questo «bon ton» piemontese e torinese, in questo caso tutt’altro che buono, il governo si è adeguato al generale tran-tran, sommesso e distratto. Né il presidente del Consiglio ha fatto sentire la sua voce e, soprattutto, ha assunto decisioni opportune in aiuto del Piemonte, né lo ha fatto il ministro dell’Interno, solitamente, bisogna ammetterlo, pronto ad adottare iniziative efficaci e tempestive. La ministra della Difesa, Pinotti, si è limitata ad accogliere la richiesta di 60 alpini per controllare che i piromani non proseguissero nelle loro folli imprese incendiarie. E ci mancava che dicesse di no. 

Da parte delle organizzazioni di volontariato, infine, che da Nord a Sud del nostro Paese si sono sempre mobilitate con grande entusiasmo, con grande senso di solidarietà, ma anche con grande capacità operativa, non sembra che, in questo caso, si sia avvertita la solita disponibilità a intervenire.

Ecco perché l’impressione è quella di una sostanziale solitudine della Regione di fronte a un’emergenza quale mai si è presentata in questo territorio, almeno in tempi recenti. Sarà colpa della proverbiale sobrietà sabauda. Sarà colpa dell’abitudine che il Piemonte ha dato all’Italia di non sollecitare un aiuto nazionale, neanche quando è indispensabile. Sarà colpa di una disattenzione generale che corrisponde, parliamoci chiaro, a un interesse particolare di molti italiani. Sarà colpa dello scarso timore delle autorità governative e dei partiti nazionali per reazioni di indignazione che gli abitanti di una Regione come il Piemonte non sono soliti manifestare. Ma è ora che tutti, in Italia, comprendano la gravità di quello che sta succedendo e che non continuino a volgere il capo da un’altra parte. 
   
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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/30/cultura/opinioni/editoriali/la-solitudine-del-piemonte-nellemergenza-gTVboU1Ji5mnRZ3Lrel8gJ/pagina.html
4264  Forum Pubblico / ARTE - Letteratura - Poesia - Teatro - Cinema e altre Muse. / Dario BERTINI. Charles Bukowski e altri ... inserito:: Novembre 04, 2017, 07:19:41 am
Dettagli

Una poesia è una città piena di strade e tombini
piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi,
piena di banalità e di roba da bere,
piena di pioggia e di tuono e di periodi
di siccità, una poesia è una città in guerra,

una poesia è una città che chiede a una pendola perché,
una poesia è una città che brucia

Charles Bukowski

La poesia al pub, luogo d'incontro per eccellenza: siete tutti invitati a condividere la passione per la poesia leggendo testi vostri o di poeti amati, magari davanti a una buona birra!


A cura di Dario Bertini

Da Fb del 27/10/2017
4265  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / GIORDANO STABILE. Raqqa, viaggio nella terra dell’Apocalisse inserito:: Novembre 04, 2017, 07:16:35 am
Raqqa, viaggio nella terra dell’Apocalisse
L’ex capitale dell’Isis è una città fantasma. Le famiglie che provano a tornare saltano sulle mine lasciate dai miliziani. Ed è emergenza umanitaria per i civili in fuga dagli sciiti
Pubblicato il 02/11/2017 - Ultima modifica il 02/11/2017 alle ore 12:57

GIORDANO STABILE
INVIATO A RAQQA

Un ponte sopra un torrente che scorre in un fosso, fra i canneti ingialliti dalla sabbia del deserto. È questo il limite occidentale della città fantasma, Raqqa, l’ex capitale dello Stato islamico ridotta a un cumulo di macerie. Da questa parte, lungo la strada polverosa, qualche bottega ha riaperto e le prime famiglie sono tornate. Di là è una terra di nessuno, dove possono entrare solo gli sminatori inviati dagli Stati Uniti. 

La maggior parte dei quartieri, i tre quarti di una città che una volta contava mezzo milione di abitanti sono disabitati. Tutti gli accessi sono sorvegliati ma ogni notte qualcuno cerca di entrare, di andare a vedere che cosa è rimasto della propria casa. E ogni notte si sentono le esplosioni delle bombe trappole piazzate dall’Isis prima della disfatta. In due settimane, dopo la fine della battaglia, sono morte 19 persone. Una volta perduta, Raqqa doveva diventare inabitabile. Ed è così, per ora. 

Subito dopo il ponte, al check point delle Forze democratiche siriane, sventola la bandiera dello Ypg, i guerriglieri curdi che hanno condotto il grosso della battaglia, per oltre quattro mesi, e perso 600 combattenti, i loro «martiri». Accanto alla moschea semidistrutta, due fuoristrada sbarrano la strada. Oltre si prosegue nel quartiere di Sibahiya e poi nel centro della città moderna, dove l’Isis ha condotto l’ultima resistenza. Ma la strada è ancora chiusa. «L’Isis ha minato tutto, anche le porte delle case, le pentole, i giocattoli», conferma Danis, il comandante dell’area, in mimetica, maglioncino e scarpe da ginnastica blu. È un esercito che veste casual quello dello Ypg, ma sulla terrazza della moschea c’è ancora piazzata una mitragliatrice da 7,62, nera luccicante. Il califfato a Raqqa è finito, ma «non si sa mai».

La tensione che ancora si sente, dopo una lotta così dura, non è però soltanto per il fantasma dell’Isis, che continua a uccidere dopo esser stato distrutto. I guerriglieri curdi faticano a controllare la pressione degli abitanti che vogliono entrare, a qualsiasi costo. C’è una famiglia accampata proprio davanti al check-point. Il vecchio con il copricapo a quadretti rossi e bianchi dei beduini agita il bastone e fa la faccia dura, ma poi si siede, quasi si accascia. Si chiama Mohammad Qassim, ed è lì con la moglie, una sorella e il nipotino. La notte scorsa hanno arrestato il figlio maggiore: «Era andato soltanto a vedere la casa», spiega. Non è un «criminale, devono liberarlo». Anche perché di notte la città «pullula di sciacalli, si portano via tutto, ma quelli non li fermano». I pochi commercianti del quartiere accanto, Jazira, confermano.

I combattenti stranieri 
La più combattiva è Fatima Mustafa, una donna sulla cinquantina, il viso tondo, con il vestito e l’hijab neri, come gli occhi che a un certo punto si riempiono di lacrime. «La casa mia è distrutta, in quella di mio figlio non c’è più nulla, neanche l’acqua per bere». Altri però l’interrompono. La vita è durissima ma è vita, «non la morte su questa Terra come sotto Daesh», cioè l’Isis. «Abbiamo visto tante decapitazioni, mani mozzate in piazza Al-Naim», raccontano: «Qualcuno ha creato questo mostro e ce l’ha messo in testa, come a Mosul, a Deir ez-Zour, sono venuti da tutto il mondo a massacrarci, noi di Raqqa non c’entriamo nulla». Tutti i capi, spiegano, erano stranieri, e anche la manovalanza più fanatica: «Almeno il 70 per cento: maghrebini, tunisini, sauditi, europei, anche americani, e tantissimi ceceni e russi», cioè combattenti dell’Asia centrale ex sovietica, uzbeki e tajiki, che qui come a Mosul hanno condotto una resistenza accanita e suicida. Ma non tutti.
 
La battaglia si è chiusa due settimane fa con un accordo fra i curdi e i combattenti stranieri rimasti, circa trecento. Si sono arresi in cambio - anche se non è la versione ufficiale - di un salvacondotto verso le ultime zone ancora in mano allo Stato islamico, a valle lungo il fiume Eufrate. Il timore che possano in qualche modo tornare nei Paesi d’origine, anche in Europa, è elevato. L’ultima fase della guerra al Califfato sta scardinando tutte le frontiere. Da Ovest avanzano le forze governative e assediano i quartieri ancora in mano all’Isis di Deir ez-Zour; da Raqqa, verso Sud-Est, premono le Forze siriane democratiche guidate dai curdi; da Est sono l’esercito iracheno e le milizie sciite ad attaccare verso il confine fra Siria e Iraq e le città di Al-Qaim e Al-Bukamal. È una morsa tremenda, che schiaccia anche centinaia di migliaia di civili in fuga da tutto, dagli islamisti, dagli sciiti, dai governativi.

Siamo di fronte a una «catastrofe umanitaria», conferma Angélique Muller, coordinatrice delle emergenze per Medici senza frontiere nel Nord della Siria. «Solo nei primi sette mesi del 2017 un milione e mezzo di persone hanno dovuto lasciare le loro case», a un ritmo mai visto in sette anni di guerra pure durissima. L’impatto è stato devastante verso la fine della battaglia di Raqqa e con l’inizio delle nuove offensive. «Due settimane fa - continua Muller - nel campo di Ain Issa c’erano 7 mila rifugiati, oggi sono 22 mila». Ma la maggior parte dei nuovi arrivi non sono dalla Siria. «Stanno arrivando migliaia di iracheni. All’inizio non capivamo poi è emerso un fenomeno sconvolgente: questa gente, sunnita, scappa dalle milizie sciite irachene, arriva fin qui per poi proseguire lungo l’Eufrate fino al confine con la Turchia, poi si sposta di nuovo verso Est in territorio turco e cerca di entrare nel Kurdistan iracheno».

Un esodo biblico che si spiega soltanto perché il Kurdistan «è ancora considerato l’unica zona sicura per i sunniti in Iraq», nonostante lo scontro con il governo centrale iracheno delle ultime settimane. La guerra all’Isis ha lasciato in macerie anche gli Stati, la Siria e l’Iraq, non solo Raqqa. Il fanatismo sunnita ha massacrato sciiti, cristiani, curdi, yazidi. Ora i sunniti temono la vendetta sciita. «Assistiamo persone che sono dovute scappare due, tre volte, arrivano da tutta la Siria, anche dalle zone ora sotto controllo turco, come Idlib», continua Muller. Il Kurdistan siriano, il Rojava, è diventata l’ultima spiaggia per tutti, ma è poverissimo, «non ha nulla da offrire» e soprattutto «non ha più un sistema ospedaliero». Fin dove possono, sopperiscono le Ong, come Msf.
 
I campi 
L’amministrazione locale messa in piedi alla meglio dai curdi del Pyd, il braccio politico dei guerriglieri, è «sopraffatta» da una crisi che metterebbe alla prova uno Stato solido. Nel campo principale di Ain Issa i funzionari che distribuiscono i buoni pasto urlano sempre più nervosi. Scandiscono nome e cognome e poi: «Min wein enta?», tu da dove vieni? La risposta che arriva dalla fila interminabile davanti allo sgabuzzino che funge da ufficio è quasi sempre «Iraq». Dalla zona di Al-Qaim, soprattutto, ma anche da province più lontane, come Salahuddin, Diyala. Sono i disperati in cerca di un porto sicuro che non esiste più in questo Medio Oriente scardinato dalle guerre. Anche i due Kurdistan, quello iracheno e quello siriano, sono sotto assedio, pressati dalla Turchia, e dai governi di Baghdad e di Damasco dominati dagli sciiti e alleati dell’Iran.
 
L’esercito iracheno sta per prendere il posto di frontiera che collega i due Kurdistan, Fish Khabour. A quel punto i rifornimenti di armi per i guerriglieri, ma anche gli aiuti umanitari, saranno molto più difficili. I curdi siriani non ci vogliono pensare. Hanno un loro progetto, senza mezzi ma pieno di idealismo, anche se condito da una dose di marxismo-leninismo. In ogni caso all’opposto di quello dell’Isis. Parità fra donne e uomini, anche nell’esercito, e tante scuole, per tutti i bambini. Nel campo di Ain Issa è il primo giorno dell’anno scolastico, sotto la tende certo, ma si festeggia comunque assieme agli insegnanti. Per molti bambini fuggiti da Raqqa è la prima volta in assoluto, alcuni hanno anche dieci anni. Sotto il califfato c’erano solo lezioni di jihad e istruzione a uccidere. Ora questi bambini inzaccherati dal fango ballano in circolo e cantano. Non hanno più nulla, solo fame e freddo, ma per un’ora possono ridere felici.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/02/esteri/raqqa-viaggio-nella-terra-dellapocalisse-7NkTsheNlp5CAM9A9rzDUO/pagina.html
4266  Forum Pubblico / ICR Studio. / Il RICETTO delle PAROLE - I C R - Immaginare - Conoscere - Realizzare. inserito:: Novembre 04, 2017, 07:15:18 am
E' in atto una operazione di falsificazione della realtà, che pre-tende che noi si confonda una sistematica e protratta azione di violenza sessuale sotto ricatto, con una serie di "palpatine e strusciamenti alla ricerca di momenti di trasgressione non violenta.

I Media ci sguazzano convinti da sempre che i lettori siano micro-umani sciocchi e influenzabili … sbagliano.

Sbagliano, avendo ragione … ma soltanto per una parte (non piccola) di persone da recuperare al genere umano normale.

Da La Collina dei Curiosi su FB del 3 novembre 2017. 
4267  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Re: LUIGI LA SPINA - inserito:: Novembre 04, 2017, 07:13:18 am
Un passo verso la verità
Pubblicato il 03/11/2017

LUIGI LA SPINA

La città, ma soprattutto i parenti della vittima, poi, la donna che è ancora tetraplegica e spera nel miracolo di una difficile guarigione, infine, i moltissimi feriti, a cinque mesi dalla terribile notte di piazza San Carlo, attendono una risposta giudiziaria che chiarisca le responsabilità di quella tragedia. Ora, la procura di Torino si appresta a formulare ipotesi di reato che potrebbero coinvolgere gran parte dei vertici cittadini in un’accusa molto grave, quella di omicidio colposo. 
 
C’erano due strade che i magistrati avrebbero potuto imboccare. La prima, la più facile, era quella di rispondere all’inquietudine dell’opinione pubblica con un giustizialismo sommario e frettoloso, offrendo uno o più capri espiatori alla condanna, peraltro preventiva, dei cittadini. La seconda, la più comoda, era quella di far prevalere il timore delle conseguenze, politiche e amministrative, di una indagine così delicata, sull’esigenza di un accertamento rigoroso delle responsabilità. Bisogna dare atto alla procura torinese di aver evitato entrambe queste tentazioni, resistendo alle sollecitazioni di chi lamentava presunti ritardi e presunte prudenze insabbiatrici, come di chi suggeriva cautele speciali per speciali protagonisti della scena pubblica cittadina.
 
La democrazia liberale, come diceva Norberto Bobbio, esiste se c’è l’assoluta trasparenza delle decisioni e l’assoluta divisione dei poteri. Torino deve avere l’ambizione di dimostrarlo.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/03/cultura/opinioni/editoriali/un-passo-verso-la-verit-D6q3NmEuNcHOHyQg5bduNO/pagina.html
4268  Forum Pubblico / ICR Studio. / Il RICETTO delle PAROLE - I C R - Immaginare - Conoscere - Realizzare. inserito:: Novembre 04, 2017, 07:07:55 am
Il RICETTO delle PAROLE
I C R - - Immaginare - Conoscere - Realizzare.


RICETTO
ri|cèt|tos.m.av. 1313; dal lat. receptu(m), acc. di receptus, -us, v. anche 1ricettare.

1. LE luogo in cui si alloggia o sosta, ci si rifugia o ci si nasconde; dimora, abitazione: avendo un suo ricetto vicino ad una strada (Boccaccio)
2. CO fig., accoglienza, ospitalità, ricovero: dare, offrire, trovare ricetto
3. TS stor. nel Medioevo, raggruppamento di costruzioni cintate da mura munite di torri, in cui gli abitanti delle zone rurali si rifugiavano in caso di pericolo

ggiannig
4269  Forum Pubblico / ICR Studio. / Il RICETTO delle PAROLE - I C R - Immaginare - Conoscere - Realizzare. inserito:: Novembre 01, 2017, 06:47:31 pm
Il RICETTO delle PAROLE
I C R - - Immaginare - Conoscere - Realizzare.


RICETTO
ri|cèt|tos.m.av. 1313; dal lat. receptu(m), acc. di receptus, -us, v. anche 1ricettare.

1. LE luogo in cui si alloggia o sosta, ci si rifugia o ci si nasconde; dimora, abitazione: avendo un suo ricetto vicino ad una strada (Boccaccio)
2. CO fig., accoglienza, ospitalità, ricovero: dare, offrire, trovare ricetto
3. TS stor. nel Medioevo, raggruppamento di costruzioni cintate da mura munite di torri, in cui gli abitanti delle zone rurali si rifugiavano in caso di pericolo

ggiannig
4270  Forum Pubblico / STORIE: TRISTI, BELLE, BRUTTE. / Storia segreta di come le suore abbiano nascosto la vendita di migliaia di bimbi inserito:: Ottobre 31, 2017, 12:11:40 pm

La storia segreta di come le suore abbiano nascosto la vendita di migliaia di bambini in Spagna

DI Nicolò Zuliani   
18 ottobre 2017   


È il 1982, in Texas. Randy Ryder, dopo un’infanzia passata con la madre affetta da alcolismo e problemi psichiatrici, scopre di non essere suo figlio. Lei gli confessa di averlo comprato in un ospedale a Malaga, in Spagna, nel 1971.

È il 2009. In un ospedale di Madrid, Jean Luis Moreno ascolta suo padre sul letto di morte confessare di averlo comprato nel 1969 da un prete a Saragozza per 150.000 pesetas, poco meno di 50.000 euro. Sconvolto, Jean Luis va a vedere i registri dell’ospedale dove crede di essere nato. Non ci sono né il suo nome né quello di sua madre. Usando investigatori privati risale alla suora che aveva reso possibile l’adozione. Lei prima nega di aver preso denaro, poi ammette con tono gelido di ricordare i compratori. Jean Luis presenta denuncia al tribunale civile, poi all’ordine provinciale di Saragozza e infine alla corte suprema. Il caso viene sempre archiviato.

È il 2010. Ines Madrigal scopre in un cassetto il suo certificato di nascita e qualcosa non torna. Date e luogo non coincidono con la sua carta d’identità. Affronta sua madre, e viene a sapere di essere stata data “in regalo” da un ginecologo famoso, che non disse mai da dove proveniva la bambina. Le aveva dato istruzioni di fingere la gravidanza.
Questi non sono casi isolati. Sono 300.000.

Nell’aprile del 1939, in Spagna, il generale Francisco Franco prende il potere. È un uomo con forti valori cattolici e nazionalisti. Uno dei suoi più fidati consiglieri è lo psichiatra Antonio Vallejo-Nagera. Vallejo aveva passato la prima guerra mondiale in Germania, dove aveva appreso il concetto di pulizia etnica e formulato una serie di cazzate clamorose spacciate per verità scientifiche. Tra i tanti deliri spiccava quello del “morbo rosso”. Secondo Vallejo, essere comunisti o dissidenti era una malformazione mentale, trasmissibile come un virus, dalla quale non si poteva guarire. Il 17 ottobre 1941, Franco semplifica le leggi sull’adozione per un motivo specifico: quando le famiglie dei nemici del regime venivano incarcerate, i figli venivano affidati agli orfanotrofi, che a loro volta li affidavano a famiglie considerate rispettabili: bastava fossero politicamente corrette, eterosessuali e cattoliche. Nel 1958 ci fu una seconda riforma, secondo la quale i genitori biologici, dopo tre anni dall’abbandono, perdevano qualsiasi diritto sul bambino. Gli orfanotrofi – leggi il Vaticano – non erano più tenuti a dare informazioni. Gli istituti si trovarono così a disposizione una fornitura continua di bambini e neonati, a volte figli di donne non sposate, a volte strappati dalle mani di anarchici, comunisti e dissidenti.

E perché regalarli, se si possono vendere?
Dal 1943 al 1987, in Spagna il traffico di bambini genera introiti miliardari. Il meccanismo è semplice: le suore intercettano le puerpere ideali, di solito donne sole, con famiglie problematiche, o molto povere. Le coccolano dicendo che le aiuteranno, raccomandandosi che quando verrà il momento vadano nelle loro cliniche a partorire. Quando arrivano le drogano col Pentothal. Appena partorito, il bambino viene portato immediatamente in un’altra stanza, dove a volte c’è già la compratrice, a volte un nido nascosto. Si fa aspettare la madre biologica per ore, raccontando che il neonato ha delle complicazioni impreviste, poi dopo 6-9 ore si riferisce che è morto. Se la madre protesta o diventa aggressiva, la si sottomette prima con la forza, poi con la burocrazia e i ricatti. Sono tutte donne fragili, povere, fortemente cattoliche e ignoranti: le suore sanno che non possono permettersi un avvocato.

Manoli Pagador partorisce nel 1971 a Madrid, a 23 anni. L’ultima cosa che ricorda di suo figlio è il pianto che sparisce giù per il corridoio. Quando nel 1975 Franco muore e il regime collassa, il traffico di bambini continua florido. Il popolo spagnolo è stremato e diviso. Affrontare i propri orrori non è mai facile, perché si rischia una spirale giustizialista dove tutti hanno colpe. Nel 1977, il nuovo governo promulga la ley de amnistia, che noi chiameremmo “legge scurdammoce ‘o passato”. Nessuno vuole parlare del fatto che ovunque madri e figli si stanno cercando. Chiunque sollevi l’argomento viene ignorato. Nel 1981, nella clinica Santa Cristina, Purificacion Betegon partorisce due gemelle premature. Suor Maria Gomez Valbuena le chiede di darle in adozione. Quando Betegon rifiuta, la suora riferisce che le bambine sono morte a causa dell’incubatrice rotta. La Betegon corre a vedere e le trova vive. Un’infermiera le spiega che sono cerebralmente morte, poi Betegon viene portata via a forza. Nessuno le presta soccorso o aiuto. Ma la gente per strada parla. Così, nel 1982, German Gallego, fotografo per il settimanale spagnolo Interviù, indaga. Va alla clinica San Ramòn, una piccola clinica con solo dieci stanze, ma un costante viavai di donne che vanno e vengono senza registrarsi né lasciare traccia. Il primario è il dottor Eduardo Vela, ginecologo. Lui rifiuta di rilasciare interviste e smentisce ogni voce. Lo stesso fa la suora responsabile, suor Maria. Alcune novizie, però, seppur spaventate, chiedono al giornalista di tornare nel cuore della notte. Una volta lì, gli confessano tutto. Il traffico, i soldi, i furti, le bugie.

«E se la madre volesse vedere il corpo del bambino?» domanda Gallego.
Le suore mostrano una cella frigorifera, dove sono conservati dei neonati morti da mostrare in caso di emergenza. Gallego fotografa i corpicini, pubblica l’inchiesta e aspetta almeno una telefonata della polizia. Non arriva mai.

Il dottor Eduardo Vela durante il franchismo è diventato ricchissimo, ma non curando le persone: facendo affari. È stato consigliere della Security World SA, una società di sicurezza privata. Negli anni ’70 fonda la Bellacasa, una società immobiliare che ha le mani in tutta Madrid. Come riusciva a fare tutto? I soci della Bellacasa erano:

Adele Bermejo Rivas, sua moglie.
José Sainz de Miera, delegato capo della Falange franchista nella provincia di Valencia.
José Manuel Gonzales Fausto, consigliere dell’Istituto nazionale di Previsione.
Josè Antonio Giron de Velasco, detto “il leone” ministro del lavoro dal 1941 al 1957 e pupillo del generale Franco.
Dottor Manuel “F.M.”

Ecco perché la Bellcasa va a gonfie vele: se un gerarca franchista ti vuole comprare la casa al prezzo di un panino, rifiutarsi potrebbe essere pericoloso. Giron era così in alto che dopo l’assassinio del primo ministro era candidato a sostituirlo, finché nel 1957 il suo ruolo viene affidato a dei tecnici dell’Opus Dei. Insomma, Eduardo Vela aveva agganci belli grossi, e di uno a tutt’oggi non si sa nulla: quel dottor Manuel F.M. di cui i giornali spagnoli non rivelano il nome completo, perché è l’ultimo ancora vivo. Quando nel 1982 esce l’inchiesta, tutte le proprietà del dottor Vela cambiano nome. Dal 1982, risulta nullatenente mentre sua moglie è miliardaria. Sempre nel 1982, il braccio destro di Vela, cioè suor Maria Gomez Valbuena, porta via dal grembo di Maria Luisa Torres la figlia appena nata, Pilar Alcalde. Quando la Torres chiede di vedere la sua bambina, suor Maria la minaccia di portarle via l’altro figlio e di farla incarcerare per adulterio.

Dal 1980, ogni tentativo di risolvere la questione legalmente viene bloccato e insabbiato. Quando le madri chiedono di esumare le tombe dei figli, dentro trovano resti di bambini ben più grandi, o del sesso sbagliato, o vuote, o riempite di pietre. In un caso, trovano la gamba di un maschio adulto. Uno dei giudici più influenti di Spagna, Baltasar Garzon, prova ad aprire un’inchiesta. Viene bloccata dalla corte suprema. Gli anni passano, e le voci aumentano, finché il traffico di bambini si interrompe nel 1987. Nel 2010, Vela parla (inconsapevolmente) con dei giornalisti di ElMundoTV, che si spacciano per bambini adottati in cerca delle loro madri biologiche. Lui confessa di aver bruciato l’archivio con i nomi di madri e compratori. Non c’è modo di risalire a chi fossero.

Poi, nel 2011, arriva la BBC. In un documentario agghiacciante la giornalista ricostruisce tutto. Intervista le tante associazioni di madri derubate, ma mettere insieme tutte le storie umane, sotto le statistiche, è impossibile. Prova a intervistare anche Vela, che si rifiuta. Allora finge di essere incinta e fissa un appuntamento. Durante il colloquio, registrato con una telecamera nascosta, appena Vela capisce di essere di fronte a una giornalista, si altera, va nell’altra stanza e fa ritorno brandendo un crocifisso e recitando passi della Bibbia. Dopo l’inchiesta si mobilita l’opinione pubblica di tutto il mondo. I bambini sono stati comprati anche da coppie estere. Sono in sudamerica, America, Messico, Francia. A fine 2012 viene arrestata suor Maria Gomez Valbuena, imputata di avere orchestrato la rete dei sequestri. Si avvale della facoltà di non rispondere e il 19 gennaio 2013 muore di insufficienza cardiaca. Anzi, di enfisema polmonare. Anzi, era molto malata. Comunque è morta, c’è il certificato firmato dal dottor Enrique Berrocal Valencia. Peccato che il certificato, in tribunale, proprio non ci vuole arrivare. Ha ritardi inspiegabili. E quando arriva, ha delle strane anomalie.

Le associazioni non credono alla morte della suora. Dicono, “se possono falsificare il certificato di nascita e la carta d’identità di mio figlio, possono falsificare il certificato di morte di una suora”. Del resto nessuno ha visto il corpo: l’ordine a cui apparteneva rende pubblica la morte solo due giorni dopo, quando è già stata seppellita in una tomba priva di nome. E negli anni, gli spagnoli hanno imparato che nelle tombe spesso e volentieri non c’è quello che dovrebbe. Quando chiedono l’esumazione del corpo, la sorella di suor Maria la nega e dice che lei era presente al decesso. Nella stanza spoglia e austera dove suor Maria ha passato i suoi ultimi anni gli inquirenti trovano le cartoline che le famiglie adottive hanno mandato da tutto il mondo alla suora nel corso degli anni. Una, del 2013, dice “Buon natale! Lasciate che i bambini vengano a me”.

Il dottor Eduardo Vela, che grazie a un’equipe di avvocati riesce a procrastinare il processo da quattro anni, finalmente finisce alla sbarra. Il processo procede a rilento perché nomi, fatti, documenti, sono difficilissimi da reperire. Tutto è in mano a poche donne che ricordano, testimoni ormai lontani sullo sfondo di un regime crudele e ancora troppo vicino. Quando Zapatero nel 2007 ha istituito la legge della memoria storica, la Spagna si è divisa. Fare i conti col proprio passato rischia di far sprofondare il popolo in una spirale d’odio e rancore senza fine. L’ETA non fa in tempo a consegnare le armi che la Spagna affronta una delle crisi peggiori della sua storia tra secessionisti, indipendentisti ed estrema destra. In un contesto del genere, buttare benzina sul fuoco potrebbe non essere la cosa più saggia da fare.

Ai “niños robados”, però, oltre alla giustizia interessa soprattutto trovare la propria famiglia. È solo di recente, grazie al processo della Betegon, che qualcuno pensa a suor Maria. La donna annotava meticolosamente nei quaderni blu i nomi dei bambini, dei genitori adottivi e biologici, il prezzo e l’indirizzo. Un secondo archivio, in pratica. Quei quaderni esistono ancora, ma la Conferenza Episcopale Spagnola, presieduta dal cardinale Antonio Maria Rouco Varela, rifiuta di collaborare coi tribunali spagnoli. I quaderni sono custoditi da loro, che fanno capo al Vaticano. Ossia uno Stato estero. Chissà quando, dove e come il Vaticano ne è entrato in possesso.

Solo a maggio di quest’anno una delegazione delle Nazioni Unite si è incontrata coi rappresentanti delle autorità spagnole e della Chiesa, dicendo che è ora dire basta. Tutti hanno convenuto sia ora di aprire i quaderni, ma ad oggi non c’è ancora nessun colpevole. Le associazioni hanno formato una banca del DNA e ogni domenica manifestano in piazza, tenendo in mano un cartello che dice “Ti cerco. Ti stiamo cercando”. Prima di morire vorrebbero poter vedere il volto del figlio, o della madre, che non hanno mai conosciuto.

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4271  Forum Pubblico / ICR Studio. / Il RICETTO delle PAROLE è una nuova idea ... inserito:: Ottobre 31, 2017, 11:25:29 am
Il RICETTO delle PAROLE è una nuova idea di apertura alla partecipazione di scrittori e lettori, cui viene offerta la possibilità di esprimersi e di farsi leggere come persone libere.

Unica regola generale il rispetto del prossimo e della buona educazione, secondo la consuetudine ormai consolidata di un buona partecipazione ad un forum pubblico.

Segue...

ggiannig
4272  Forum Pubblico / ICR Studio. / RICETTO: accoglienza, ospitalità, ricovero: dare, offrire, trovare ricetto inserito:: Ottobre 30, 2017, 01:42:03 pm
RICETTO
ri|cèt|tos.m.av. 1313; dal lat. receptu(m), acc. di receptus, -us, v. anche 1ricettare.


1. LE - luogo in cui si alloggia o sosta, ci si rifugia o ci si nasconde; dimora, abitazione: avendo un suo ricetto vicino ad una strada (Boccaccio)

2. CO - fig., accoglienza, ospitalità, ricovero: dare, offrire, trovare ricetto

3. TS - stor. nel Medioevo, raggruppamento di costruzioni cintate da mura munite di torri, in cui gli abitanti delle zone rurali si rifugiavano in caso di pericolo

ggiannig
4273  Forum Pubblico / CENTRO PROGRESSISTA e SINISTRA RIFORMISTA, ESSENZIALI ALL'ITALIA DEL FUTURO. / Federalismo e libertà regionale - di GIAN FRANCO CIAURRO inserito:: Ottobre 29, 2017, 09:18:28 pm
GIAN FRANCO CIAURRO

Federalismo e libertà regionale caratterizzato da accentuate autonomie, non solo amministrative, ma anche in campo legislativo. Il costituzionalista Vittorio Ambrosini ne trasse motivo per classificare il nuovo Stato repubblicano italiano come uno “Stato regionale”, quasi in una “terza via”, una categoria intermedia tra Stato unitario e Stato federale. E be noto, però, che questo ordinamento entrò concretamente in funzione (almeno per quanto riguarda le regioni a statuto ordinario) con enorme ritardo, a più di vent’anni dalla sua approvazione, quando lo Stato si era organizzato secondo i vecchi moduli centralistici del periodo monarchico sicché la creazione delle regioni finì per essere considerata come introduzione di una sorta di corpo estraneo nei meccanismi statuali, con i conseguenti fenomeni di rigetto e di sostanziale inattuazione della scelta autonomistica operata dalla Costituente. Facendo un consuntivo di quella esperienza, possiamo dire oggi con tranquilla coscienza che l’ordinamento regionale è sostanzialmente fallito, funziona poco e male, comporta enormi costi ed enormi sprechi e non è servito a migliorare, anzi spesso ha peggiorato i rapporti tra le istituzioni e i cittadini. Ma da questo non si deve trarre spunto per passare ad un significato oltranzista del termine “federalismo” nel senso di interpretarlo come prospettiva di scomposizione dello Stato unitario. Persino Bossi sembra aver rinunciato ad insistere in questa interpretazione del federalismo come spinta verso il separatismo, verso una antistorica secessione. La parola “federalismo” resta e deve restare come un termine fortemente unificante, espressione di un foedus, di un patto che unisce coloro che vi partecipano un patto che, per quanto riguarda l’Italia, non può che essere nel senso di una “devolution” dei poteri nell’ambito di uno Stato la cui unitarietà non può essere rimessa in discussione. Ci sono riusciti altrove, per esempio in Spagna e nel Regno Unito, con l’ampia devolution attuata per la Scozia e per il Galles: e non vedo perché non dovremmo riuscirci noi. Mi si potrebbe chiedere, peraltro, perché dobbiamo incamminarci su questa strada. La risposta è molto semplice. Lo Stato, così com’è, in Italia non funziona più. Abbiamo provato in varie occasioni e in vari modi a modificarlo: l’esempio più recente sono le cosiddette “riforme Bassanini”, che hanno cercato di migliorare l’apparato amministrativo “a Costituzione invariata”, un altro fallimento, lo Stato continua a non funzionare. Va detto che funziona particolarmente male con un governo di sinistra, erede di una tradizione intrinsecamente illiberale ma è giocoforza riconoscere che senza sostanziali riforme non funzionerebbe bene neppure con altri al timone, considerato l’inestricabile viluppo di norme, di competenze, di strutture che si è venuto aggrovigliando negli anni e che ha prodotto un meccanismo burocratico-amministrativo inefficiente e del tutto incapace di affrontare i compiti che spettano alle pubbliche istituzioni nei tempi nuovi. 70 C’è poi da aggiungere che la situazione rischia di aggravarsi ancora, sacrificando ulteriormente le libertà dei cittadini, per il progressivo affermarsi di un fenomeno che sfugge al nostro controllo e che ormai può ritenersi inarrestabile il fenomeno della globalizzazione, che riduce gli spazi di autonomia dei singoli e delle formazioni sociali accentuando l’omogeneizzazione della società secondo modelli uniformi (che poi, per quanto riguarda noi italiani, sono in genere modelli derivanti da cuIture e tradizioni straniere). Il rapporto tra i cittadini e le istituzioni va allora ridefinito e ricostruito, e con urgenza, se vogliamo evitare di ritrovarci in una società “alla Orwell”. Da un punto di vista liberale questo va fatto partendo dal basso, non cioè intendendo il decentramento dei poteri quale concessione del centro verso la periferia, come tante volte è stato inteso in passato, ma al contrario edificando un “federalismo cooperativo” tra tutti i livelli istituzionali, a cominciare da quello comunale, che, secondo una felice definizione dell’on. Del Turco, rappresenta il primo piano dell’edificio delle pubbliche istituzioni, dal quale bisogna passare per accedere agli altri piani. Per ragioni anche dimensionali, nel mondo attuale le pubbliche istituzioni possono infatti ritrovare forza e vigore solo attraverso l’autogovemo delle comunità associate, a cominciare dalle più piccole, che sono le più vicine al cittadino, alle sue esigenze, alle sue volontà, ai suoi bisogni. Principio fondamentale di questa forma di federalismo dev’essere allora il principio di sussidiarietà, accolto anche in sede europea nel trattato di Maastricht. Del principio di sussidiarietà oggi si parla molto, anche se non sempre a proposito. Per i liberali, l’aspetto più qualificante del principio di sussidiarietà dev’essere quello espresso nella formula che era stata accolta nel primo progetto di riforma costituzionale della Commissione D’Alema, e che poi ne è stata rapidamente espunta, proprio perché troppo “liberale” la formula cioè secondo cui le istituzioni pubbliche debbono svolgere soltanto le funzioni che non possono essere più soddisfacentemente e utilmente espletate dalla società (dall’iniziativa privata, dal mercato, dal volontariato). Le funzioni comunque attribuite alle istituzioni pubbliche, poi, dovrebbero essere assegnate in linea generale ai Comuni - che sono l’espressione più “naturale” dei cittadini, e nel nostro paese la più ricca di tradizioni storiche democratiche - e solo quelle che i Comuni non sono in grado di svolgere dovrebbero essere devolute, in ordine crescente, alle province, alle regioni, allo Stato, all’Unione europea. Quello dell’autogovemo integrato dal principio di sussidiarietà è, qui ed ora, il “federalismo possibile”, cui il costituzionalismo liberale potrà utilmente collaborare quando, prima o poi, ci si dovrà avviare verso la necessaria e ormai improcrastinabile riforma della Costituzione, che ricostituisca la certezza del diritto e fissi le regole del gioco politico, per attuare un riordinamento della Stato e delle istituzioni che nella presente situazione italiana è anche il presupposto per promuovere la libertà e il buongoverno. 71 Una consolidata dottrina costituzionale vede in un preciso metodo di distribuzione decentrata delle competenze tra lo Stato centrale e le autonomie regionali e locali il principale elemento di differenziazione tra una forma di Stato che possa dirsi “federale” ed altre forme di Stato, di tipo regionale o semi-federale. Se così è, l’introduzione del federalismo in Italia potrebbe avvenire con un procedimento concordato di tipo cooperativo, tale da non determinare effetti traumatici o disgregativi e magari crisi di rigetto, come da taluno si paventa, ma attuando una razionalizzazione del sistema e una sperimentazione di nuovi modelli di amministrazione dei servizi pubblici in luogo di quelli che si sono dimostrati inefficienti. Credo che questa possa costituire una risposta adeguata e corretta alle domande della società civile, del mondo del lavoro e della produzione, degli stessi fermenti della cultura e delle professioni, in questo inizio degli “anni 2000” che è caratterizzato da una ampia e forse ormai generalizzata affermazione dei valori e degli ideali della libertà.
4274  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Gianni Gavioli Il ruolo di Arlecchino (mio nick name) da vent'anni nel web ... inserito:: Ottobre 29, 2017, 09:15:21 pm
Gianni Gavioli Il ruolo di Arlecchino (mio nick name) da vent'anni nel web (forum ulivo.it, ilforumista, forum.laudellulivo), è quello di fare comunicazione attraverso rassegne stampe e "provocazioni" di dialogo, stando sulle generali come è corretto agisca una persona qualunque, non colta ma curiosa di conoscere e far conoscere. Il rispetto e la pacatezza devono essere la normalità nello scambio di idee.

Gli approfondimenti li lascio a chi è in grado di farli correttamente, senza tifoserie deleterie.

ciaooo (questa è la mia firma sul web).

Da FB del 29/10/2017
4275  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MARCELLO SORGI. Il paradosso dell’alternativa a Cinque Stelle inserito:: Ottobre 29, 2017, 09:12:20 pm
Il paradosso dell’alternativa a Cinque Stelle

Pubblicato il 29/10/2017 - Ultima modifica il 29/10/2017 alle ore 07:12

MARCELLO SORGI

Può sembrare un paradosso che il declino della sindaca di Torino Chiara Appendino somigli straordinariamente a quello della sua collega romana Virginia Raggi. 

E come la seconda era stata costretta a far saltare il cerchio dei suoi collaboratori più stretti in Campidoglio, anche la prima ieri ha dovuto far fuori il suo capo di gabinetto Paolo Giordana, per un’assai poco esemplare richiesta all’azienda dei trasporti di far cancellare una multa presa su un autobus. 
 
Va detto che il personaggio Giordana, funzionario comunale collaboratore in passato sia di politici di centrodestra sia di centrosinistra, non somiglia per niente ai Morra, Frongia e Romeo che circondavano di attenzioni la Raggi, intestandole perfino delle polizze di assicurazione, prima di finire agli arresti domiciliari o sotto inchiesta per svariati reati. Ma allo stesso modo era stato lo chaperon nei meandri della politica torinese della giovane Appendino, approdata in Consiglio comunale quando era sindaco Piero Fassino, e subito distintasi per un’opposizione puntuale e pervicace, alla quale certo non erano estranei i consigli di quel suo collaboratore, divenuto poi amico e assurto al ruolo di capo di gabinetto e quasi alter ego della sindaca subito dopo la conquista del Palazzo di Città.
 
Eppure non potevano sembrare più diverse, agli inizi, le due sindache ora precipitate verso simili destini e simmetricamente imputate per falso in bilancio. Un’avvocatessa nata borgatara e professionalmente formatasi alla scuola dell’ex ministro e avvocato berlusconiano Cesare Previti, la Raggi. Una giovane signora borghese, figlia di imprenditore, poliglotta e educata nelle migliori scuole, l’Appendino. Una miracolata dal collasso per corruzione di entrambi gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra a Roma e dall’azzeramento della giunta Marino voluto da Renzi, la prima cittadina della Capitale. Una nata con la camicia che ereditava a sorpresa una delle amministrazioni più efficienti e una città vetrina in gran spolvero negli ultimi dieci anni dopo le Olimpiadi, quella di Torino. Tanto che mentre Raggi si dibatteva, puntellata giorno dopo giorno da Grillo e Casaleggio e via via commissariata da personale di fiducia dei vertici 5 Stelle, di Appendino si arrivava a parlare come volto-simbolo e possibile candidata-premier del Movimento al posto di Luigi Di Maio, oltre che interlocutrice rispettata di un Pd frastornato dalla sconfitta nella capitale industriale del Paese e deciso a insidiarne il successo affiancandola, invece che contestandola.
 
Altri tempi: dal tragico 3 giugno del panico, del morto innocente e delle centinaia di feriti a Piazza San Carlo, all’avviso di garanzia per falso in bilancio, la caduta d’immagine della sindaca e il suo progressivo avvitamento nelle difficoltà sembrano ormai irreversibili. Senza tuttavia - e anche questo è un punto di contatto tra le due vicende di Torino e Roma - che il consenso attorno a lei risulti significativamente intaccato o si affacci il benché minimo rimpianto delle amministrazioni passate. Hanno un bel dire, Chiamparino e Fassino, che l’aspetto nuovo della città, l’integrazione del suo tradizionale tessuto imprenditoriale con le nuove vocazioni culturali e turistiche è stato costruito da loro, con il paziente e duro lavoro ventennale delle amministrazioni di centrosinistra. È sicuramente vero, anche se non sempre è tutto oro quel che riluce, ma nell’opinione della maggioranza dei cittadini, l’ora del cambiamento era arrivata e ancora non è passata.
 
A ben vedere questo è ancora il problema, non solo di Torino, ma dell’Italia e degli italiani nel rapporto con i 5 Stelle: sebbene abbiano rivelato grandi e piccole incapacità in tutte le realtà in cui sono stati chiamati a governare, Grillo e i suoi (le sue, verrebbe da dire, pensando alle sindache che insieme nel 2016 portarono il Movimento alla vittoria più importante) appaiono ancora a una larga fetta di elettori come l’unica vera alternativa possibile alla sclerotizzata politica tradizionale, si tratti del ritorno in campo di Berlusconi e del centrodestra, seppure con l’iniezione di populismo di Salvini e Meloni, o delle pulsioni suicide del solito centrosinistra, con Renzi che non potendo più rottamare Bersani se la prende con il governatore della Banca d’Italia, il governo Gentiloni e alla fine, in un inspiegabile crescendo autolesionista, perfino con se stesso. Così se è difficile, forse impossibile, spingere M5S a essere diverso da quel che è, sarà almeno lecito, alla vigilia delle elezioni regionali siciliane di domenica prossima e delle politiche ormai prossime, chiedere agli altri di fare uno sforzo, finché c’è tempo, per tornare a essere affidabili. Anche se è molto difficile credere che ci riusciranno.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/29/cultura/opinioni/editoriali/il-paradosso-dellalternativa-a-cinque-stelle-ROExirQAsVSVWNjvFiSl8J/pagina.html
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