LA-U dell'OLIVO
Marzo 29, 2024, 11:38:11 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
  Home Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
  Visualizza messaggi
Pagine: 1 ... 282 283 [284] 285 286 ... 529
4246  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Giuseppe Oddo Sicilia, nel Pd è corsa a scaricare Micari: i renziani vanno... inserito:: Novembre 05, 2017, 10:54:33 am
Sicilia, nel Pd è corsa a scaricare Micari: i renziani vanno con Musumeci e Crocetta con i 5Stelle

Giuseppe Oddo   

Il sistema del voto disgiunto, che permette di esprimere un voto per la lista che si è scelta e un altro per il candidato presidente di una lista o di un insieme di liste avversarie, potrebbe avere effetti parossistici alle elezioni regionali siciliane di domenica 5 novembre. Il partito che potrebbe praticarlo maggiormente, riferiscono le fonti consultate da Business Insider Italia, è il Pd. La parte dei democratici siciliani già favorevole alle larghe intese con Forza Italia starebbe orientandosi – secondo le indiscrezioni – a non votare per Fabrizio Micari (designato dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando), ma a cedere la preferenza al candidato avversario del centrodestra, Nello Musumeci.

Lo scopo di questa realpolitik in salsa sicula sarebbe di impedire in tutti i modi, anche con i meno ortodossi, la vittoria dei 5 Stelle, che con queste elezioni stanno giocandosi a loro volta il tutto per tutto. Un’affermazione del Movimento in campo regionale, con la macchina delle politiche di marzo già in movimento, potrebbe infatti fare da traino ai grillini anche in campo nazionale, spingendo la massa degli indecisi a sciogliere ogni riserva nei loro confronti. Per il segretario del Pd, Matteo Renzi, che vuol ritornare a Palazzo Chigi, questa sarebbe la peggiore iattura.

L’idea di scaricare Micari – secondo queste fonti – starebbe dunque maturando nella consapevolezza che tanto ormai per i dem non c’è più partita e che è meglio sostenere chi può sconfiggere i 5 Stelle, cioè Musumeci, piuttosto che battersi per una causa persa.

D’altro canto, che le larghe intese siano già in marcia e che i dibattiti elettorali siano un gioco tra le parti lo ha fatto capire in una recente intervista a Repubblica Gianfranco Micciché, responsabile di Forza Italia in Sicilia. Sul fatto che Musumeci, in caso di successo, potrebbe non disporre del 51% dei seggi, Miccichè ha infatti ammesso: “Ci manca la maggioranza”. Ed ha aggiunto, qui sta il punto: “Non dispero che dal gruppo di Salvatore Cardinale mi arrivi un aiuto”. Cardinale fa parte dell’area renziana più moderata del Pd e se Miccichè lo chiama in causa in pubblico di certo non lo fa per caso.

Commenta un’altra fonte che chiede di restare anonima: “Se larghe intese dovranno essere, tanto vale votare direttamente per Musumeci e scongiurare che i 5 Stelle mettano Renzi e il Pd nell’angolo. Il vero obiettivo dei democratici, a queste elezioni regionali, è combattere i 5 Stelle. E allora perché avversare l’unico candidato che può veramente contrastarli? E’ il ragionamento che circola all’interno del partito”.

Gli stessi grillini giudicati una sciagura dai renziani suscitano invece sentimenti opposti nel presidente della Regione uscente, Rosario Crocetta, e nel senatore Giuseppe Lumia, suo mentore. Attilio Bolzoni ha scritto a questo proposito su Repubblica, senza essere smentito, che Crocetta e Lumia, “hanno già fatto capire che molti dei loro non voteranno per il centrosinistra ma per i 5 Stelle”.

Il perché ce lo spiega un’altra fonte, sempre in modo anonimo: “Crocetta ha tutto l’interesse a far perdere Micari, perché così può dimostrare quanto sia centrale la sua figura e quale errore abbia commesso il Pd a chiedergli di non ricandidarsi. Prima si è fatto da parte nella corsa alla presidenza, lasciando campo libero a Micari in cambio di un posto sicuro per sé al Senato, promessogli da Renzi. Ora gioca a indebolire Micari, perché cerca di far valere di più il 2-3% di voti che presumibilmente raccoglierà la sua lista, Il Megafono”. E dietro le quinte suggerisce di votare in modo disgiunto il candidato dei 5 Stelle, Giancarlo Cancelleri, anche se il crollo d’immagine deve averne compromesso il seguito elettorale di cinque anni fa.

Siamo di fonte a un Pd lacerato dai conflitti tra correnti, che potrebbe essere superato a sinistra dalla lista dei Cento passi di Claudio Fava e che corre il pericolo di un crollo elettorale e di una conseguente frantumazione. Una campagna costruita, a destra come a sinistra, soprattutto in funzione delle alchimie nazionali, che lascia senza risposte i grandi temi dello sviluppo e dell’occupazione. Una Sicilia sempre più distante dal resto del paese, sempre più abbandonata a se stessa.

Da - https://it.businessinsider.com/sicilia-nel-pd-e-corsa-a-scaricare-micari-i-renziani-vanno-con-musumeci-e-crocetta-con-i-5stelle/
4247  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Magda Lekiashvili - La rivoluzione che trasformò le speranze in tirannia inserito:: Novembre 05, 2017, 10:51:54 am
La rivoluzione che trasformò le speranze in tirannia

Pubblicato il 26-10-2017

Lenin Il vento della rivoluzione in Russia tirò cent’anni fa. Ci furono due rivoluzioni nel 1917, quella liberale di febbraio, che liberò la Russia dall’assolutismo e comportò la caduta dello Zar e quella bolscevica, che alimentò all’inizio le speranze di milioni di sfruttati per approdare, poi, progressivamente e inesorabilmente al totalitarismo. Una sollevazione di popolo provocò la sconfitta dell’imperatore Nicola II, la fine della dinastia Romanov. Nel giro di pochi giorni si formò un nuovo governo. Alcune misure adottate furono un passo avanti verso la democrazia, tra quali l’amnistia per i reati politico-religiosi, la libertà di parola e di espressione. E soprattutto, “la convocazione di un’Assemblea costituente da eleggersi a suffragio universale”, così da abbandonare il regime feudale e avviare un nuovo sistema politico costituzionale. Sia per il breve periodo di tempo a disposizione che per l’incapacità del nuovo governo, l’obiettivo non venne raggiunto. Anzi, la prolungata partecipazione della Russia alla guerra mondiale e l’abbandono delle politiche agrarie portarono il paese verso la fame. Tutto ciò rafforzò la posizione di Lenin e del partito rivoluzionario dei Bolscevichi, formato e guidato da lui. Lenin decise che le condizioni nel 1917 fossero mature per la rivoluzione. Anche se all’inizio del 1917 i bolscevichi erano ancora un’organizzazione di minoranza all’interno della Russia.

Lenin fu attivamente sostenuto da Leon Trotsky, che creò le guardie rosse, una milizia bolscevica formata da lavoratori armati, soldati e marinai. Trotsky assunse la responsabilità della pianificazione dettagliata della rivoluzione bolscevica alla fine di ottobre e cercò di assicurarsi che tutte le aree vitali di Pietrogrado fossero in mani bolsceviche.

La maggior parte dei loro leader, incluso Lenin, era in esilio in Svizzera e le probabilità che i bolscevichi potessero mai ottenere il potere in Russia sembravano abbastanza remote. Ma alcuni fattori importanti misero “benzina sul fuoco” della rivoluzione.

Il governo provvisorio – come implicava il nome stesso, sarebbe dovuto essere un passaggio temporaneo. Dopo la caduta dello Zar, la Russia aveva bisogno di un governo efficiente per mandare avanti la politica, fino allo svolgersi delle elezioni. Queste ultime furono ritardate. Al tempo stesso, il governo provvisorio prese decisioni importanti, come la continuazione della prima guerra mondiale e il rinvio delle riforme territoriali, che influenzarono notevolmente il popolo russo. Ciò rese il governo sempre più impopolare e permise a Lenin di arrivare alla vittoria.

I soviet: dopo la rivoluzione di febbraio, apparvero a Pietrogrado il primo soviet. Presto, a Mosca e in altra città venero eletti altri soviet. Fondamentalmente i soviet furono assemblee elette da lavoratori, soldati e marinai. Lenin dichiarò la sua volontà che i soviet governassero effettivamente la Russia (sotto il controllo dei Bolscevichi). “Tutto il potere ai soviet”, divenne un grido Bolscevico.

Le difficoltà economiche avevano avuto un ruolo importante nella caduta di Nicholas II. E neanche il governo provvisorio riuscì a risolvere questi problemi. I prezzi aumentavano, la fame diventava sempre più insopportabile e nel frattempo non veniva rispettato il desiderio dei contadini di controllare la terra.

La guerra: il popolo russo voleva che la guerra finisse. Il paese era allo stremo e nonostante ciò il governo provvisorio proseguiva con le campagne militari.

Fu soprattutto quest’ultima scelta che diede a Lenin e ai bolscevichi un grande vantaggio politico e morale. “La guerra è stata provocata dalle classi dominanti, solo la rivoluzione della classe operaia potrà metterle fine. E la rapidità con cui avrete la pace dipenderà soltanto dallo sviluppo della rivoluzione. Non basta dire frasi sentimentali, non basta dichiarare: forza, smettiamo subito questa guerra! Per farlo è necessario lo sviluppo della rivoluzione” – scrisse Lenin nel maggio 1917 e creò lo slogan rivoluzionario “pace, pane e terra”.

L’effettiva conquista di Pietrogrado è stata organizzata da Trotsky. Il 24 ottobre unità di guardie rosse hanno preso il controllo della città. La rivoluzione ha avuto uno sviluppo rapido. Tutti gli edifici chiave, stazione ferroviaria, ponti significativi caddero nelle mani bolsceviche. Nella notte del 25/26 ottobre, i bolscevichi assaltarono il Palazzo d’inverno (Winter Palace), dove era localizzato il governo provvisorio. Successivamente vennero arrestati anche i membri del governo. La rivoluzione bolscevica ormai era una realtà che portò Vladimir Lenin a prendere in mano il potere.

Magda Lekiashvili
Blog Fondazione Nenni

Da - http://www.avantionline.it/2017/10/100-anni-dalla-rivoluzione-russa-quella-rivoluzione-che-trasformo-le-speranze-in-tirannia/#.Wf380mjWyUk
4248  Forum Pubblico / ICR Studio. / Il RICETTO delle PAROLE - non deve essere un Ricettàcolo ... inserito:: Novembre 04, 2017, 12:59:44 pm
Ricettàcolo

Ricettàcolo (ant. recettàcolo) s. m. [dal lat. receptacŭlum, der. di receptare: v. ricettare1]. –

1. Luogo, spazio o anche oggetto dove si raccoglie, o è contenuto, qualcosa. Raro e letter. o elevato in senso proprio, materiale, è più com. nel sign. estens. di ricetto, rifugio: la cantina è diventata il r. dei topi; quell’osteria era il r. di tutti gli sfaccendati del paese; ambienti malfamati, r. di prostitute e sfruttatori; la zona del porto è un r. di spacciatori di droga e di contrabbandieri.

2. Con sign. specifici: a. In botanica, parte del fiore (detta anche talamo, o asse fiorale) conica, piana o concava, sulla quale sono inseriti i varî organi fiorali (se il fiore è peduncolato, è la porzione superiore del peduncolo). R. del capolino, la parte, di solito estesa, sulla quale sono inseriti i fiori in questo tipo di infiorescenza. R. dei funghi, la parte che reca gli organi riproduttivi (sinon. di corpo fruttifero). b. In zoologia, nome di alcune formazioni cave destinate a raccogliere un liquido: r. seminale, annesso dell’apparato riproduttore femminile di alcuni metazoi, di solito in forma di piccola vescica, dove si raccoglie lo sperma che viene poi utilizzato per la fecondazione delle uova; r. chilifero, sinon. di cisterna (v.) chilifera.

Da treccani.it
4249  Forum Pubblico / SCRIPTORIUM 2017 - (SUI IURIS). / Albert Einstein - Sinceramente suo, Albert Einstein inserito:: Novembre 04, 2017, 12:07:44 pm
Perché viviamo? La straordinaria risposta di Einstein

Nel 1951, una giovane donna, Marion Block Anderson, all’epoca matricola all’Oberlin College, scrisse una breve lettera ad Albert Einstein per chiedergli: «Perché viviamo?»

In seguito la donna raccontò a suo figlio Dave le ragioni che la spinsero a inviare la lettera: passavamo da una guerra all’altra, prima ci fu la prima guerra mondiale, poi la seconda e non riuscivo a vedere a cosa servisse tutto questo.

Così gli scrissi una lettera e gli dissi: «A che serve vivere con quello che stiamo passando qui, da una guerra all’altra?»


Ed ecco la risposta di Einstein:

Gentile Miss Bloch, la domanda “Perché?” nella sfera umana è facile da rispondere: per creare soddisfazione per noi stessi e per gli altri. Nella sfera extra-umana, la domanda non ha senso. Anche credere in Dio non è una via d’uscita perché in questo caso ci si potrebbe chiedere “Perché Dio?”

Sinceramente suo,
Albert Einstein

Da - La Redazione - http://www.sulromanzo.it/blog/perche-viviamo-la-straordinaria-risposta-di-einstein
da FB - Gio, 02/11/2017 - 14:31
4250  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / E' in atto una operazione di falsificazione della realtà, ... inserito:: Novembre 04, 2017, 11:20:01 am
E' in atto una operazione di falsificazione della realtà, che pre-tende che noi si confonda una sistematica e protratta azione di violenza sessuale sotto ricatto, con una serie di "palpatine e strusciamenti alla ricerca di momenti di trasgressione non violenta.

I Media ci sguazzano convinti da sempre che i lettori siano micro-umani sciocchi e influenzabili … sbagliano.
 
Sbagliano, avendo ragione … ma soltanto per una parte (non piccola) di persone da recuperare al genere umano normale.

Da La Collina dei Curiosi su FB del 3 novembre 2017. 
4251  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Mauro Del Bue. All’Ergife: dall'Europa all’Italia inserito:: Novembre 04, 2017, 11:17:43 am
All’Ergife: dall'Europa all’Italia

Pubblicato il 29-10-2017

Gli Stati uniti d’Europa sono stati il tema della convention di Radicali italiani e di Emma Bonino. Una sollecitazione politica di fondo che offre contenuti ineludibili ad un’iniziativa, probabilmente anche elettorale, in vista della prossima Primavera. Enrico Letta, tra i relatori con Saviano, Pisapia, lo stesso Prodi presente in video, lo ha sottolineato con particolare efficacia. La nostra generazione é nata quando il mondo contava tre miliardi di esseri umani, quando moriremo ne lasceremo dieci. Il problema é che di questi sette non uno sarà europeo. Così l’Europa che contava un sesto degli abitanti del pianeta, ne risulterà un ventesimo. Dunque l’unità diventa obbligata se si vuol contare. Nel G7 c’erano tre paesi europei, tra poco anche la Germania risulterà l’ottava. Erano tutti paesi retti da democrazia liberali. Tra poco una parte cospicua di essi sarà di dubbia democrazia.

Ha ragione Della Vedova, leader di Forza Europa, a considerare il fatto che quando si parla di Europa se ne parla sempre male. Perché conosciamo solo quella che finora é stata costruita. L’Europa monetaria, quella dei vincoli, non l’Europa politica, gli Stati uniti d’Europa che dovrebbero godere di un’unica politica economica, di un’unica politica estera, di un esercito comune. Macron e la Merkel pare l’abbiano capito. E dunque si marci verso quest’obiettivo se é vero che il tema di fondo é ritornato ad essere quello dell’identità. L’Europa di domani non potrà essere quella di oggi. E non sarà con meno Europa che si potranno risolvere i problemi dei singoli stati nazionali, a cominciare da quello dell’emigrazione. Che si fronteggino dunque, come ha proposto Letta, magari a cominciare dalla sostituzione dei 73 seggi che i britannici hanno abbandonato, con elezioni comuni, le tre grandi opzioni di Europa: gli Stati uniti, la politica del rigore e dei vincoli, quella sovranista degli stati.

Mercoledì il congresso dei Radicali italiani lancerà una proposta per le prossime elezioni. I verdi di Bonelli hanno già manifestato consenso e disponibilità. Il segretario del Psi Nencini anche. Vedremo cosa diranno Pisapia e Prodi. Le ipotesi a questo punto sono due. O quella di una lista Bonino, diciamo laico-socialista per intenderci, una sorta di Rosa nel pugno aperta ai Verdi, o una lista più grande e ambiziosa, con la presenza o l’esplicito appoggio di personalità non necessariamente di quest’area, che possono concepire la lista come un’ottima occasione per smarcarsi dal Pd. Le conseguenze del voto siciliano offriranno ulteriori elementi per valutare le opportunità politiche e il cantiere del centro-sinistra.

Mauro Del Bue

Da - http://www.avantionline.it/2017/10/allergife-dalleuropa-allitalia/#.WfhY8WjWyUk
4252  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. Ora e sempre The Donald. inserito:: Novembre 04, 2017, 11:15:54 am
Ora e sempre The Donald
Viaggio negli Stati che hanno scelto il loro presidente, per rispondere a una domanda: che cosa pensano oggi? La risposta: lo rivoterebbero. E le promesse mancate? Colpa dei politici L’inquilino della Casa Bianca è malconcio nell’immagine all’estero, ma la sua base tiene

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI, FOTOGRAFIE DI LUCA MARFÉ
27 ottobre 2017

Ho fatto novemila chilometri, a tappe, per trovare risposte a questa domanda: che cosa pensano di Donald Trump quelli che lo hanno votato, un anno dopo? Degli altri sappiamo tutto. La maggioranza degli americani lo boccia, i sondaggi lo danno sotto il 40% dei consensi. La sinistra lo accusa di avere sdoganato il Ku Klux Klan, di aizzare xenofobia e islamofobia, di sguazzare nei conflitti d’interessi, di sabotare le indagini sulle manovre di Vladimir Putin in campagna elettorale. Come dimostrano due ex presidenti (Barack Obama e George W. Bush) uscendo dal riserbo tradizionale, cresce il timore che l’ex tycoon e showman televisivo stia infliggendo ferite gravi al costume democratico, alla civiltà del dibattito pubblico, al rispetto delle istituzioni. Tutto questo però non scalfisce lo zoccolo duro della sua base elettorale. Non ancora. È il verdetto che riporto da questo lungo viaggio nell’America che lo ha voluto presidente un anno fa. Ho traversato Stati industriali dal Michigan alla Pennsylvania, dall’Ohio alla West Virginia. Ho ascoltato le loro paure, le sofferenze, l’angoscia e la rabbia. Se sono delusi per le promesse finora disattese – il Muro con il Messico, il protezionismo contro la Cina, l’abolizione del sistema sanitario di Obama – danno la colpa ai politici di mestiere, al Congresso. La rinuncia agli accordi di Parigi sul cambiamento climatico piace alla sua base. Applaude il linguaggio bellicoso contro la Corea del Nord e l’Iran. La mia puntata al confine con il Messico, mette a dura prova un teorema della sinistra: che l’ispanizzazione etnica conduca inevitabilmente verso un declino dei repubblicani anche nella roccaforte del Texas. Se l’immagine di Trump è sempre più malconcia all’estero e fra quelli che gli erano già contrari un anno fa, non bisogna sottovalutare il suo fiuto: tutto ciò che lui fa, punta a rendere possibile una rielezione “di minoranza”, seguendo la stessa geografia elettorale dell’8 novembre 2016. Trump non fa nulla per conquistare gli altri, lavora a consolidare quella minoranza fedele che – con queste regole elettorali – gli è bastata già una volta.

DETROIT, MICHIGAN: GLI OPERAI
TOLEDO, OHIO: LA CRISI
WEIRTON, WEST VIRGINIA: LE DISEGUAGLIANZE
LAREDO, TEXAS: I MIGRANTI

Detroit, Michigan: gli operai
A che punto è la notte? Un anno dopo l’elezione-shock di Donald Trump, l’America liberal non ha dubbi sul bilancio di una presidenza mostruosa: fallimento totale, tante offese ai valori della democrazia e della Costituzione, pochissimi risultati concreti (e brutti pure quelli). Ma gli elettori di destra, che cosa ne pensano? Sono delusi? Pentiti? Se le promesse non vengono mantenute, con chi se la prendono? Questo viaggio in Trumplandia percorre gli Stati-chiave dove si è giocata la sua “rapina” di collegi elettorali e la beffa ai danni di Hillary Clinton. La mia traversata inizia dal Midwest nella regione dei Grandi Laghi al confine col Canada e si conclude al Sud sulla linea di frontiera Texas-Messico lungo il Rio Grande. In tutto 9.000 km a tappe, fra autostrade e tratte in aereo. Parto da Detroit, Michigan. Dove mi ricongiungo anche ad alcuni personaggi che avevo già incontrato dopo i primi cento giorni dall’Inauguration Day.
 
Super 8, Rampini tra gli elettori di Trump un anno dopo
Classe operaia di destra. Talvolta ex-democratici convertiti. Metalmeccanici, per lo più. Uomini e donne, bianchi di mezza età. L’elettorato decisivo che un anno fa ha spostato per pochi millimetri l’ago della bilancia è in quest’area del Paese. Lo ritrovo in un’occasione molto speciale. Brian Pannebecker, 57 anni, operaio della Fiat Chrysler, mi dà appuntamento a metà ottobre una domenica mattina davanti allo stadio cittadino di football: il Ford Field dove gioca la squadra locale dei Detroit Lions. Brian è un agnostico del football, infatti mi promette uno spettacolo di tutt’altra natura. Prima della partita, fuori dal campo di gioco. Vuole che io sia testimone di una protesta contro la protesta. “Boycott Nfl!” è la parola d’ordine. Coi suoi compagni di lavoro e altri amici repubblicani, lui contesta i campioni afroamericani di football che in tutta l’America inginocchiandosi all’inizio delle partite hanno inscenato una clamorosa protesta. Quando tutti gli altri stanno in piedi sull’attenti e cantano l’inno nazionale, alcuni giocatori si dissociano. È una ribellione nata all’origine per solidarietà con BlackLivesMatter, il movimento che denuncia le violenze della polizia sui neri. Le immagini di quei gesti di sfida hanno fatto il giro del mondo, è intervenuto Trump a dire che i padroni delle squadre della National Football League (Nfl) dovrebbero punire o licenziare i sediziosi. È una bella mattinata di sole a Detroit, quando all’incrocio tra la Brush Street e la Madison si rovesciano fiumane di spettatori diretti allo stadio. I Detroit Lions ricevono in casa i Carolina Panthers. Le due tifoserie si mescolano bonariamente, fra canti e risate. Le partite di football qui sono uno happening gioioso e pacifico, grandi mangiate e tifo sportivo radunano un pubblico familiare per l’intera domenica.
 
Tra gli amici di Brian, il baffuto Trucker Randy accoglie i tifosi al passaggio con una bandiera americana e uno striscione: “Stand By The Anthem, Kneel To The Cross”. In piedi per l’inno, in ginocchio davanti alla croce. Così deve comportarsi un vero americano. «Che c’è di male — mi dice — se una volta alla settimana per due minuti ci raccogliamo davanti alla bandiera nazionale? Non possiamo unirci almeno per cantare l’inno, e smetterla per un attimo di essere faziosi?». Pannebecker aggiunge: «Sono un reduce dell’esercito, ho servito la patria sotto le armi e adesso è mio figlio che fa il militare. Quelli che rifiutano l’omaggio alla bandiera ci offendono, è una mancanza di rispetto». Interviene un terzo contro-manifestante, il più pittoresco: Rob Cortis, che nel tempo libero gira l’America con un camion-rimorchio intitolato “TrumpUnity- Bridge”. Sembra un carro di carnevale, ma carico di foto e slogan pro-Trump, tipo “Una Bandiera Una Nazione Un Dio”, “Legge e Ordine”, e il classico “MAGA” che sta per Make America Great Again. Madre tedesca, padre siciliano, Rob ha osato sfidare col suo camion di propaganda repubblicana la manifestazione oceanica delle donne anti- Trump a Washington il giorno dopo l’Inaugurazione presidenziale. A Detroit è venuto pure lui per l’anti-protesta contro i campioni neri del football: «Quegli atleti sono dei multimilionari, delle star che guadagnano cento volte più di noi comuni cittadini. E osano mancare di rispetto ai simboli dell’unità nazionale, dissacrano una bandiera che avvolge le bare dei nostri caduti in guerra». Sono solo un manipolo, forse una dozzina, questi protagonisti della contro-manifestazione. In un momento in cui tanti media nazionali santificano le gesta degli atleti neri contestatori, l’impressione che hai leggendo il New York Times o guardando la Cnn è che la gente stia con i campioni sportivi. Pannebecker, a scanso di rischi, è arrivato allo stadio con un giubbotto antiproiettile. «Mia moglie è preoccupata — dice — e allora ho preso questa precauzione.

Comunque la maglia anti-pallottole non mi proteggerà dai cazzotti, se qualcuno mi aggredisce. Non sono un picchiatore, malgrado l’addestramento militare non ho mai fatto a botte in vita mia». Timori infondati. Non solo l’atmosfera nella folla che affluisce allo stadio è scanzonata e gentile, ma molti simpatizzano proprio con questi contro- manifestanti di destra. La scena si ripete più volte: quando un gruppetto di spettatori bianchi intravede questi operai ed ex-militari coi loro striscioni in difesa dell’inno e della bandiera, gli si avvicinano e li applaudono, li salutano con le cinque dita alzate, o pugno contro pugno: “God bless our veterans”, che Dio benedica i nostri reduci. No, da questo spicchio di tifoseria da stadio che vedo nella capitale dell’automobile, nella città più operaia d’America, la Cnn e il New York Times e il partito democratico non hanno capito cosa sta succedendo. Ancora una volta, l’istinto viscerale di Trump è più in sintonia con gli umori profondi della classe operaia. «Milionari viziati che insultano la bandiera e l’inno», è la frase che sento ripetere da tanti. Quelli che tv e stampa liberal hanno osannato come eroi, nella middle class bianca suscitano solo repulsione. Trump ha capito subito da che parte stare, twittando furiosamente contro i campioni contestatori ha cavalcato e ingigantito una polemica che sembra fatta su misura per lui. (In Europa, con tutte le differenze del caso, immaginatevi se Cristiano Ronaldo entrando in campo indossasse una maglietta con slogan in favore degli immigrati: forse toglierebbe voti alle destre xenofobe? O confermerebbe che il buonismo è un lusso delle élite?).
 
La sinistra americana a volte sembra credere che le elezioni le vince chi ha l’appoggio dello star-system, chi ha più celebrity dalla sua parte. Ma su quel conteggio Hillary vinceva mille a uno. Diversioni, distrazioni. Quando le cose gli vanno male, Trump è un maestro nel cambiare discorso, inventare polemiche, distogliere l’attenzione. E gli avversari ci cascano sempre. La sua polemica sulla National Football League è da manuale, lui ci si è infilato quando la sua agenda di governo stava girando a vuoto, dopo molteplici tentativi falliti di varare una contro-riforma sanitaria, che cancelli Obamacare e lo sostituisca con qualcos’altro. Dunque, parliamo di cose serie. A fine partita — persa dai padroni di casa, i Lions sono stati sgominati dai Carolina Panthers — raduno alcuni di quei contro-manifestanti trumpiani attorno a un hamburger, nella piazza dello Eastern Market di Detroit. Gli cito un sondaggio nazionale di Usa Today secondo cui per il 57% degli americani Trump “non sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale”. Un anno dopo il voto, non vi sembra che il bilancio sia poverissimo, che tra le intenzioni e le cose fatte il divario sia spaventoso? Sheri Townsend, 55 anni, è un’ex operaia che si è messa in proprio come artigiana. «Il nostro problema è il Congresso — dice — non il presidente. Per sette anni i repubblicani ci hanno promesso che avrebbero cancellato la pessima riforma sanitaria di Obama, che ci avrebbero dato una sanità meno statalista, meno costosa.

Ora hanno tutto il potere in mano: Casa Bianca, Congresso, Corte suprema. E non riescono a mettersi d’accordo fra loro sulla nuova sanità. Questi parlamentari tradiscono Trump. Alle prossime primarie, per le legislative del 2018, dovremo mobilitarci per eleggere tra i repubblicani solo quelli leali, fedeli al presidente». Attorno al tavolo approvano tutti. Interviene Gary Frank, 49 anni, ex-metalmeccanico che ora si occupa di formazione: «Senatori e deputati, politici di professione, vogliono che Trump fallisca perché non è uno di loro. Lui è una minaccia per l’establishment, non segue le loro regole». Delle promesse finora mancate, la non-distruzione di Obamacare è cocente. La sanità in questo paese è un problema enorme nella vita di tutti i giorni; è anche un simbolo potente, un discrimine ideologico fra le tribù della politica. Il revival del populismo di destra che preparò il fenomeno Trump, viene da lontano e ha inizio dal Tea Party: quel movimento nasce nel 2009 per protestare contro i salvataggi delle banche di Wall Street, s’ingigantisce nel 2010 quando la battaglia numero uno diventa demolire l’odiata riforma sanitaria. In ambedue i casi il populismo di destra semplifica delle cose molto complicate. Il salvataggio delle banche fu gestito abbastanza bene dall’Amministrazione Obama, alla fine il Tesoro recuperò le spese, per i contribuenti l’operazione finì in pareggio. Il Tea Party campa di rendita denunciando un gigantesco regalo a Wall Street da una parte, e ai debitori poveri dall’altra: cioè neri o altre minoranze etniche. Tra gli atti fondatori del Tea Party nel 2009 c’è una memorabile sfuriata dell’anchorman Rick Santelli sulla tv Cnbc, contro «i vicini di casa irresponsabili, quelli che vivono al di sopra dei loro mezzi, a cui dobbiamo ripagare i mutui noi». L’idea di una sanatoria generalizzata dei mutui insolventi per le famiglie troppo indebitate, che fu accarezzata a sinistra, in realtà non si è mai materializzata. Milioni di famiglie dopo il crack del 2008 subirono pignoramenti giudiziari e perdettero le case. Ma nel popolo di destra la convinzione è tenace: quando la sinistra è al governo, il ceto medio paga, i poveri (soprattutto se di colore) vivono a sbafo, rovesciano sulla collettività il costo dei loro errori. Lo schema si ripete su Obamacare.

Quella riforma è piena di difetti gravi; non cura il vizio originario di un sistema troppo privatistico, dove dettano legge le compagnie assicurative e Big Pharma. Però Obamacare ha esteso l’assistenza medica a venti milioni di americani che ne erano sprovvisti, dandogli delle sovvenzioni perché si possano comprare le polizze private. Questo ha coinciso — come Trump denuncia — con tremendi rincari delle tariffe assicurative: un po’ pagati dal contribuente, un po’ dai pazienti del ceto medio. Ecco, di nuovo, la semplificazione: Obamacare è statalismo che aiuta neri, minoranze etniche, immigrati, “gli altri”. Il conto lo paghiamo “noi”. «Mille dollari al mese di assicurazione sanitaria sono troppi — dice Sheri — sono soldi che una famiglia del ceto medio deve togliere da altre spese, rinunciare all’università del figlio, non comprare la macchina nuova». La parola d’ordine “abrogare Obamacare” è irresistibile, unificante, una di quelle bandiere identitarie su cui la tribù della destra si compatta. Salvo scoprire, quando il Congresso si mette a votare un progetto alternativo, che la maggioranza repubblicana si sfascia. È accaduto tre, quattro, cinque volte in un anno di presidenza Trump. Non è colpa sua, mi ripetono i suoi elettori del Michigan. Quando usciamo dal bar-ristorante delle interviste con hamburger, si avvicina un’altra fan del presidente. Attirata dal taccuino del cronista e dalla videocamera del fotografo, la bionda platinata Cheryl Hadzik ha un diploma d’ingegneria e insegna matematica all’università. Non si chiede l’età a una signora, ma lei dichiara tre figlie ventenni e ha l’aria di essere una mia coetanea.

Ha votato Trump e non è pentita neanche un po’. Semmai ce l’ha con la sinistra che vuole «cambiare la demografia, inondare l’America di stranieri che voteranno per sempre democratico, per vivere di Welfare». I fan del presidente ripetono gli argomenti che sento nei talkshow dell’unica tv che «non calunnia Trump, non semina zizzania, non diffonde fake news»: la Fox. Sulla Corea del Nord «lui cerca di risolvere un problema che gli hanno scaricato addosso i tre presidenti venuti prima». Sull’Iran e su Cuba? «Finalmente un leader che si fa rispettare, non cede alle dittature». Si discute in piazza, l’Eastern Market è pieno di bancarelle, affluiscono famiglie di tifosi nel dopo-partita. Se dentro la cinta dello stadio non si vende birra, qui il tasso alcolico è salito. Cadono freni inibitori, al camion “TrumpUnityBridge” di Rob Cortis si avvicina un gruppetto di afroamericani. Scherzando, s’inginocchiano proprio lì di fronte, esigono di essere fotografati mentre imitano il gesto dei “loro” campioni di football. Uno mi si avvicina, si chiama Vince Butler, chiede una sorta di par condicio: visto che sto intervistando dei repubblicani, devo sentire anche lui. «Sono un operaio metalmeccanico come alcuni di loro — dice Butler — e credo che sotto sotto siano delusi. Si aspettavano che il loro presidente gli rivoltasse l’America. Capisco anche alcuni dei loro risentimenti. Noi afroamericani negli ultimi decenni abbiamo lottato, abbiamo avuto le nostre conquiste, loro si sono sentiti sotto pressione. Ma gli stereotipi sono sbagliati. Io vivo in un quartiere di Detroit prevalentemente nero. Il luogo comune su noi afroamericani che viviamo di welfare non è quello che vedo tutti i giorni. Io e i miei vicini di casa ci alziamo ogni mattina per andare al lavoro, come loro. Se la facciata di casa ha bisogno di riparazioni, ci rimbocchiamo le maniche e passiamo il weekend ad aggiustarla, proprio come loro». Un intellettuale nero radicale, Ta-Nehisi Coates, ha sintetizzato lo stato della questione razziale in America con una definizione provocatoria. Lui chiama Trump “il primo presidente bianco”. Cioè la cui elezione è segnata in modo determinante dal colore della pelle.
 
Toledo, Ohio: la crisi
Un grupp di tifosi afroamericani allo stadio di Detroit: loro sono contro Trump e scelgono provocatoriamente un furgone di supporter del presidente per inscenare una protesta come quella dei giocatori della Nfl: in ginocchio all’inno nazionale
«Sì, certo, sarebbe bello se Amazon venisse a costruire la sua nuova sede qui, porterebbe lavoro e soldi, ce n’è un gran bisogno». Sue Depew ha cinquant’anni e ne mostra dieci di più. Ha occhi celesti chiarissimi che le vengono dai genitori di origine polacca. Sono occhi affettuosi, tristi e rassegnati, circondati di rughe, comunicano pazienza e sottomissione. Questa storia di Toledo che sogna di attirare il nuovo quartier generale di Amazon l’avevo letta prima di arrivare. Qui nella Rust Belt — “cintura della ruggine” — gli anni d’oro sono lontani, quando l’economia prosperava grazie al trio carbone-acciaio-auto. Tante fabbriche, tanti operai, sindacati forti. Un ricordo lontano. Adesso nel centro di Toledo lungo il fiume Maumee il grattacielo più appariscente ospita Blue Shield-Blue Cross, compagnia di assicurazione sanitaria. La speranza è che un gigante dell’economia digitale voglia rianimare questa città decaduta. Speranza o miraggio, perché tra i cinquantamila posti promessi da Amazon nel futuro quartier generale-bis ci saranno anche fattorini che guadagnano metà di un metalmeccanico. E poi sono molte le città in gara, in tutti gli Stati Uniti, che stendono tappeti rossi di esenzioni fiscali per attirare Jeff Bezos. Qui vicino anche Cleveland si è candidata come sede Amazon.
 
Con maggiori chance, presumo, perché Cleveland è più grande (390.000 abitanti contro i 280.000 di Toledo), ha buone università e un aeroporto internazionale. Ho buttato lì una domanda sul tema del giorno in città, per spezzare il ghiaccio e fare un po’ di conversazione. Sue ha tutto il tempo per parlare. Anche se su Amazon ha idee vaghe, non vuole deludermi. Risponderà a tutto, volentieri. D’altronde Luca ed io oggi siamo gli unici clienti che deve servire a mezzogiorno, al bancone del Mad Dog Saloon. Periferia di Toledo, squallore e solitudine. Mi vengono in mente altri saloon immaginari situati in qualche deserto americano, quelli dei film “Paris, Texas” di Wim Wenders e “Bagdad Cafe” di Percy Adlon, ma questo è reale ed è in un deserto urbano. L’ingresso del saloon è poco invitante. Dalla strada l’insegna al neon si nota a stento. La finestra del locale è protetta da assi di legno inchiodato. Dentro, in pieno giorno è quasi buio, non fosse un grande schermo tv sempre acceso. A mezzogiorno l’unica altra presenza al bancone è quella di John Gyuras, fratellastro di Sue che le dà una mano nella gestione del bar e a quest’ora ha già l’aria di aver bevuto parecchio. Proprietaria è l’anziana madre, che non si vede. Ordiniamo scegliendo tra le specialità del posto, che sono esattamente due. Per me ali di pollo fritte, per Luca un hot dog “impanato” in una farina di mais e molto fritto pure quello. Sue si occupa di tutto, è cameriera al bar e anche cuoca. L’olio della friggitrice deve avere anni di carriera alle spalle. Rischiamo l’avvelenamento, ma bisogna pur dare un po’ di lavoro a questo Mad Dog Saloon così vuoto e deprimente malgrado il juke-box, il biliardo, perfino un mini-bowling. Sue faceva la baby-sitter — lo sguardo dolce tradisce una gran nostalgia quando ricorda il contatto coi bambini — prima di venire a lavorare nel bar comprato dalla mamma tre anni fa. «Quelli che glielo hanno venduto non ce la facevano più a tirare avanti. Usciva più denaro di quanto ne entrasse.

Qua attorno la gente ha poco da spendere. Altri tre locali come questo hanno chiuso, sono in vendita da mesi e non trovano compratori». Mentre consumiamo e le teniamo compagnia, passa velocemente un ragazzo alto e bruno, un bel mulatto dai capelli ricci e neri. Lo sguardo di Sue è tutto tenerezza: «Mio figlio Ronald». Appena lui esce e scompare dalla vista, lei racconta la sua storia. «Il padre è sparito, è in prigione da quando Ronald aveva due anni. Il ragazzo aveva un buon lavoro come taglialegna, ben pagato. Poi c’è stato l’incidente: la caduta di un tronco d’albero lo ha ferito. Ha cominciato a prendere pillole contro il dolore. Da lì è passato all’eroina. Si è spaventato quando ha avuto un’overdose ed è arrivata l’ambulanza, credeva di morire. Sono riuscita a convincerlo di entrare in terapia, in un gruppo di disintossicazione. Adesso è pulito, da tre mesi. È un bravo ragazzo davvero, mi creda, altrimenti io da sola non sarei riuscita a tirarlo fuori con le mie forze. Ci ha messo del suo, per ritrovare la retta via». Qui attorno al bar, Sue mi descrive un quartiere-fantasma di giorno, dove al tramonto cominciano ad affluire «prostitute drogate ad ogni angolo, quelle si fanno soprattutto di oppioidi». Racconta una rapina a mano armata, e la sua paura che facessero del male a Ronald, che era dentro il Saloon quella sera. Parlare di politica con uno sconosciuto non la disturba affatto, è solo stupita che possa interessarmi il suo parere. Trumpiana? «No di certo. Quando lo vedo penso che la politica non è il suo mestiere. È come se mia madre si candidasse alla presidenza». Da un anno in qua lei non ha visto miglioramenti nell’economia locale, ma non ha idea se il presidente possa fare qualcosa. Non ha idea, per la verità, se stia facendo qualcosa.

E comunque si sente lontanissima da tutto questo. Anti-trumpiana? Boh. «Né io né mio fratello abbiamo votato. Mai. Non ci siamo neppure iscritti (in America non è automatico essere sui registri degli elettori, ndr). Nessuno mi ha mai convinto». Le chiedo: ricorda se Trump un anno fa ha vinto qui nell’Ohio? La vedo incerta. Guarda il fratello, smarrito quanto lei. «Non sono sicura. Forse sì». (Trump vinse in questo Stato col 52% e otto punti di vantaggio su Hillary). Non vede perché la politica dovrebbe riguardarla. È una cosa che ogni tanto appare sullo schermo tv del bar, quelle rare volte in cui non è sintonizzato sul canale tutto- sport della Espn. I suoi clienti, quando ne ha, non parlano di politica. Probabilmente non votano neanche loro. Perfino all’elezione presidenziale — un appuntamento che attira molta più attenzione e affluenza rispetto alle legislative o alle amministrative — qui nell’Ohio si è astenuto quasi un terzo degli elettori già iscritti al registro dei votanti (e molti altri come la Depew non s’iscrivono neppure). Sue non si è mai occupata di politica perché dà per scontato che la politica non si occupa di quelli come lei. Sue ha problemi più pressanti. «Mia madre si è presa un bel rischio comprando questo bar. Non può permettersi di pagarmi più del salario minimo legale, che qui a Toledo è otto dollari e dieci centesimi l’ora. E io ho bisogno di traslocare, sto cercando un appartamento in un quartiere diverso, lontano da qui. Non posso lasciare che mio figlio abiti in una zona dove tutti gli spacciatori lo conoscono. Ma il minimo che riesco a trovare è un affitto da 675 dollari al mese. Sono troppi per quel che guadagno».

Dopo un’ora lasciamo il Mad Dog Saloon con l’odore di frittura che aleggia nell’aria. Sue e il fratello escono e si siedono sul marciapiedi a fumare, ci salutano mentre partiamo in macchina. La strada è sempre vuota, come il loro bar. L’intermezzo in questa no man’s land desolata alla periferia di Toledo mi porta un po’ fuori tema: il mio viaggio nel Midwest è dedicato a tastare il polso di quelli che un anno fa votarono Trump. Al Mad Dog Saloon ho incontrato un paio di americani che non lo amano né lo stimano neanche un po’, se costretti a pronunciarsi su di lui alternano scetticismo, sarcasmo, diffidenza, ostilità. Ma la sinistra non è riuscita neppure a catturare la loro attenzione; per non parlare di fiducia.

Weirton, West Virginia: le diseguaglianze
«Non ho mai sparato un solo colpo in vita mia, neanche al tiro a segno. Sei mesi fa, all’età di 48 anni, per la prima volta da quando sono nato ho deciso di entrare in un’armeria. Per 900 dollari ho comprato un AR-15, un fucile semi-automatico, simile a quello che i nostri soldati hanno al fronte. Più 500 pallottole. Non avrei mai creduto di arrivare a tanto». Chi parla non è un fanatico, non ha l’identikit del paranoico. Tutt’altro. Louie Retton, in realtà si chiamerebbe Luigi Redondo, «ma quando immigravano qui i nostri genitori italiani, dovevano cambiarsi i nomi per non farsi riconoscere, per sembrare come gli altri, farsi accettare, perché all’inizio gli italiani non li assumevano neppure in miniera». Di mestiere fa il preside di liceo, sente sulle spalle la responsabilità per il futuro di tanti giovani.

È sinceramente preoccupato, addolorato, perché attorno a sé vede «una società sempre più diseguale», nella sua cittadina di Weirton «pochi benestanti come me abitano qui in cima alla collina, tutti gli altri sono a fondo valle e stanno male, molto male». A differenza di certi militanti dell’ultra-destra che hanno il culto delle armi, che vaneggiano nostalgie assurde di milizie popolari contro i “federali”, lui si è rassegnato a comprare quell’AR-15 solo per paura. «Non ho certo incubi sull’arrivo di un invasore straniero, tantomeno che il governo venga a disarmarmi. Se un giorno scoppia la guerra sarà tra noi, americani contro americani. Quelli che non hanno niente contro quelli che hanno qualcosa. Guarda le immagini in tv dopo ogni uragano, da Katrina all’ultima inondazione di Houston o di Tampa: appena la forza dello Stato scompare dalle strade cominciano gli assalti ai supermercati, i saccheggi, le rapine di massa. Un giorno potrebbe succedere qui. E c’è una sola via di fuga. Se quelli che stanno giù a fondo valle salgono per prenderci la roba nelle nostre case, l’unica uscita è questa strada che porta verso di loro.

Per loro siamo i ricchi, perché le nostre case valgono mezzo milione. Quando verrà il giorno in cui vorranno prendersi la nostra roba, io devo essere pronto a difendermi». Prima di arrivare fino a questo angolo della West Virginia dove Trump ha stravinto col più ampio margine della storia (68,5% contro il 26,4% di Hillary), prima di raggiungere la casa del suo elettore Louie Retton, ho attraversato il paese del carbone e dell’acciaio. Ho fatto avanti e indietro tra Pittsburgh, capitale decaduta degli altiforni e delle dinastie industriali che dominarono la Pennsylvania e l’America un secolo fa (i Carnegie, Mellon, Frick), e Steubenville nella valle dell’Ohio, città siderurgica che diede i natali a un altro immigrato italiano, il cantante Dean Martin. Ho già raccontato in un altro reportage su Repubblica la mia visita a un porto del carbone, Bellaire sul fiume Ohio, che benedice Trump e la sua deregulation anti-ambientalista. Ed Spiker, un manager dell’azienda carbonifera Westmoreland Resources, mi ha dato una valutazione realistica sull’effetto-Trump. «Per la prima volta dopo otto anni di Obama, c’è un presidente che rivaluta il carbone, e per l’economia di questa zona è importante. Annunciando l’uscita dagli accordi di Parigi, lui ha mantenuto le promesse che fece ai minatori in campagna elettorale, mentre Hillary parlava di un futuro fatto solo di energie rinnovabili, e a noi in sostanza prometteva disoccupazione.

Però non ci facciamo illusioni. Il 2018 sarà un anno eccezionale, il carbone tornerà a sorpassare il gas naturale come energia per le centrali elettriche. Ma molte utility hanno già avviato una riconversione, le grandi aziende elettriche cominciarono anni fa i piani di lungo termine per abbandonare il carbone, è solo questione di tempo». Qualche anno in più, per tanti minatori significa arrivare alla pensione. Hanno votato Trump, in massa. A loro è andata bene, per adesso. Disfacendo le regole di Obama, questo presidente ha tolto tutti i limiti alle emissioni carboniche delle centrali. “Coal country”, il paese del carbone, vede allontanarsi il giorno del giudizio. Viaggiando lungo la valle del fiume Ohio, la vera sorpresa non è trovare ancora le chiatte cariche di carbone, le miniere, gli impianti siderurgici e le centrali fumanti. La sorpresa sono i boschi. Com’è verde questa vallata! A perdita d’occhio. Un manto di foreste quasi ininterrotto copre le colline intorno al fiume. Questa stagione regala lo spettacolo autunnale del “foliage”, l’esplosione di colori giallo arancione oro rosso verde delle foglie. È questo che frega l’America, in un certo senso.

È questa la maledizione paradossale che colpisce tanti americani, li rende ciechi di fronte al disastro ambientale che avanza, ai danni del cambiamento climatico, all’inquinamento che uccide. Hanno ancora “troppa natura” in casa, perfino in aree di antica industrializzazione come Pennsylvania, Ohio, West Virginia. Tanti spazi disabitati o quasi, le distese infinite di verde, danno la falsa impressione che le risorse siano illimitate, che guidare Suv energivori o tenere l’aria condizionata a temperature polari o surriscaldare le case d’inverno siano comodità innocue, lussi legittimi. È in mezzo al verde anche la villetta di Michael Arlia, amico e vicino di Louie Retton. Sua moglie sta potando gli alberi in giardino, mentre noi ci riuniamo attorno al tavolo della cucina e a un bicchiere di vino. Italo-americano pure lui, Michael incarna l’American Dream di una volta, quando le cose in questo paese andavano per il verso giusto. «I miei genitori immigrarono qui da Belmonte, Calabria. Mio padre si è fatto strada da solo, in un’epoca in cui non era facile essere italiani qui. Ha lavorato sodo, miniere e acciaierie. Ha pagato gli studi a due figli. In confronto ai suoi tempi, l’America di oggi è piena di bambini viziati, che pretendono tutto, si offendono per qualsiasi cosa. Mio padre ci insultava, proprio come Trump insulta tanti connazionali oggi. Mi piace la sua retorica dura, aggressiva. Questa nazione si è adagiata, ha bisogno di essere presa a calci nel sedere, per darsi una svegliata». Michael era stato democratico per tutta la vita, solo un anno fa ha deciso di cambiare e ha votato per Trump. La ragione? Per disperazione. «Non disperazione per me stesso, no, tutt’altro. Io ce l’ho fatta. Mi hanno licenziato, ho perso il lavoro, mi sono messo in proprio e oggi possiedo tre imprese. In confronto alla gente che abita qui vicino, appaio perfino straricco. Ma non mi godo questo benessere solitario. La cittadina intorno a me è irriconoscibile.

Negli anni Quaranta, quando questo posto a furia d’immigrazione si conquistò il nome di Little Calabria, c’era un acciaieria a fondo valle che dava lavoro a 27.000 operai, mio padre incluso. Lavoro sicuro e ben pagato. Oggi lo sai quanti ne sono rimasti? 800. Ot-to-cen-to! La middle class non esiste più. Il benessere lo abbiamo lasciato fuggire con le fabbriche, verso il Messico o la Cina». Il preside Louie racconta la stessa storia vista attraverso il mondo della scuola: «Quando eravamo ragazzi noi, figli d’immigrati dal Mezzogiorno, avevamo delle famiglie solide che puntavano sui nostri studi. Oggi nel liceo che dirigo gli insegnanti non possono dare compiti a casa. Le famiglie sono sfasciate, i ragazzi quando tornano a casa non hanno genitori che li aiutano o li sorvegliano. Il 75% ha diritto alla mensa gratuita per povertà, roba che ai nostri tempi non ricordo. Eroina e spaccio dilagano. Quella di oggi non ha più niente in comune con la cittadina in cui eravamo cresciuti noi». Trump per loro è l’elettroshock che potrebbe smuovere un pezzo d’America condannato al declino. Qui in questo triangolo fra West Virginia, Ohio e Pennsylvania, siamo nel cuore di un mistero. L’economia americana cresce da otto anni, la ripresa trumpiana prolunga quella obamiana. Dalla fine della crisi nel 2009, a livello nazionale sono stati creati 16 milioni di nuovi posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione, che aveva raggiunto livelli europei superando il 10% nel 2009, è ricaduto vicino al 4%. Se continua così potrebbe riavvicinarsi a quel 3% che gli esperti definiscono “pieno impiego”. Però, però. Quest’America operaia che compra armi per proteggersi dalla rabbia del vicino troppo povero, non è in preda ad allucinazioni. Le statistiche ufficiali non descrivono quel che accade qui. Il tasso di disoccupazione è ai minimi, tuttavia sono spariti dagli schermi radar un milione e mezzo di ex-lavoratori. Dispersi, “missing in action”. Hanno smesso di cercarsi un lavoro, e quindi sono stati cancellati dalle rilevazioni: non fanno più parte della popolazione attiva. Il nuovo mondo del lavoro non li vuole, non sa che farsene, e loro ne prendono atto. Una ricerca di Alan Krueger, economista dell’università di Princeton, rivela che metà di quegli uomini spariti dalle statistiche, stanno prendendo quotidianamente medicinali anti- dolorifici. In mezzo a loro si è infilata un’epidemia di massa, la tossicodipendenza da oppioidi. I più “fortunati” ne escono per poi sopravvivere con pensioni d’invalidità. I più deboli vanno ad aumentare le statistiche dei suicidi. In quel buco nero che è la condanna all’inutilità sociale, gli ultimi minatori del carbone erano convinti che ci sarebbero finiti anche loro: se avesse vinto Hillary Clinton. Anche per chi il lavoro lo ha conservato, o ritrovato, l’American Dream non è più quello dei genitori di Louie e Michael.

Quando chiude un’acciaieria che i padroni spostano in Cina, qui scompaiono posti di lavoro che pagavano dai 18 ai 25 dollari l’ora. Quando al suo posto apre un ipermercato discount, assume per 13 dollari all’ora. Trump ha promesso di riportare le fabbriche qui, di rinegoziare trattati commerciali, di combattere la concorrenza sleale del Messico o della Cina. Risultati, per ora: quasi nulla. Qualche segnale di reindustrializzazione degli Stati Uniti c’è, ma bisogna sapere di cosa si parla. Anzitutto, un principio di rinascita manifatturiera c’era stato già sotto Obama, aiutato dai bassi costi dell’energia e da una strisciante svalutazione del dollaro. Piccole cose in termini di occupazione, perché le fabbriche che riaprono oggi hanno tanti robot (comprese le stampanti 3D) e pochissimi operai. In quanto alle buste paga, l’aumento medio del 2,9% in un anno è davvero mediocre in un paese vicino al pieno impiego. Con la quasi-scomparsa dei sindacati, gli aumenti salariali di una volta sono introvabili. Un calcolo fatto dall’Economic Policy Institute rivela questo: il salario medio per l’80% della forza lavoro americana nel 1972 era di 739 dollari a settimana; fatti i dovuti adattamenti per l’inflazione e il potere d’acquisto, oggi quel salario medio vale solo 724 dollari di allora. L’80% degli americani, in sostanza, guadagna meno di 45 anni fa. I figli guadagnano meno dei genitori. E in questi 45 anni si sono alternati a parità repubblicani e democratici, alla Casa Bianca abbiamo avuto tre presidenze di destra (Nixon e due Bush) e tre di sinistra (Carter, Clinton, Obama).

Nessuno ha invertito la tendenza. «Non so se Trump ce la farà — dice Michael — e non so se gli lasceranno il tempo. Ma è da tanto che non avevamo un leader così, uno che pensa fuori dagli schemi. È diverso da tutti gli altri». Le élite delle due coste non possono capire cosa sta succedendo qui, dice Louie. Le élite non capiscono tante cose, insiste, su Trump hanno detto sciocchezze enormi. «I media liberal, i cosiddetti esperti, hanno detto che se vinceva lui sarebbe crollata la Borsa e sarebbero fuggiti i capitali. Invece a un anno dal voto la Borsa è ai massimi storici, l’economia cresce, l’occupazione pure. Hanno previsto che avrebbe fatto cose orrende, per esempio deportazioni di massa, e neanche questo è successo. Non è presidenziale? Certo che no. È un populista. Lo sapevamo quando lo abbiamo eletto. A me piace quando va alla Nato e dice agli europei che non possono sempre dipendere da noi per difendersi dalla Russia. Mi piace quando dice che il nostro confine meridionale va rispettato. Non è possibile che entrino qui sei milioni di clandestini, che vengano a profittare del nostro welfare, e noi stiamo a guardare. Se io voglio andare in Canada a farmi curare, quelli mica me lo lasciano fare». Michael: «Lo sai perché io non so parlare l’italiano? Perché a casa mia era proibito. Dovevamo passare il test d’inglese per la cittadinanza. E quindi mio padre ci costringeva tutti a parlare inglese, la sera a cena. Quella era l’America dove l’immigrazione funzionava, era regolata». Louie mi congeda con questa osservazione, sull’8 novembre di un anno fa: «Sai che ti dico? Che se i democratici avessero candidato Bernie Sanders, io lo votavo».

Un cantiere a Laredo, Texas, al confine con il Messico
Volo da New York a San Antonio, poi tre ore di autostrada, ed ecco il confine col Messico. Laredo-Texas da una parte, Nuevo Laredo dall’altra. In mezzo: il Rio Grande. Dopo una lunghissima estate calda prolungata fino a fine ottobre, è un fiumiciattolo poco impressionante. Eccoci di fronte al Muro. Cioè: il non-Muro, la madre di tutte le promesse mancate. Perché di Muro qui non c’è l’ombra. Eppure poche cose scatenavano le urla di entusiasmo nei comizi elettorali, quanto questo annuncio ripetuto a oltranza: «Costruirò un Muro e lo farò pagare ai messicani, perché una nazione non è una nazione se non riesce a controllare i suoi confini». Seguendo le vie ufficiali, il mio primo contatto a Laredo è con la Border Patrol-South Laredo Station. La polizia di frontiera (specializzata nella caccia ai clandestini) è abituata ai giornalisti, e ci considera una seccatura: sa di essere al centro dell’attenzione, noi veniamo a sfrugugliare, il tema è rovente. Hanno procedure lunghe e tortuose per le interviste, bisognare passare dai loro uffici centrali di Washington, che insabbiano le nostre richieste. La South Laredo Station è circondata da un alto recinto di filo spinato. L’unico Muro visibile: sembra rinchiudere loro, i poliziotti a guardia del confine. Dopo un lungo negoziato via interfono, mi viene incontro l’agente W. Taylor. Resta di là dalla barriera, non mi apre, il colloquio è breve ma cordiale. Sorprendente, anzi. Perché l’agente W. Taylor tra sorrisi e ammiccamenti mi fa capire di non essere davvero trumpiano. «Muro? Ma quale muro? Giusto qualche cinta, qua e là, in alcuni tratti del confine.
 
L’ingresso degli uffici della Border Patrol-South Laredo la stazione della polizia di frontiera (specializzata nella caccia ai clandestini) della cittadina texana
Una recinzione l’abbiamo dovuta costruire vicino al Rio Grande perché qualche clandestino fu visto passare sotto le finestre di un college, disturbava le lezioni, distraeva gli studenti. No, mi creda, qui siamo tranquilli. Tutto bene, insomma. Non so come la pensiate voi…». In realtà lo sa benissimo, un giornalista che arriva da New York è automaticamente classificato liberal, simpatizzante dei democratici, sta dalla parte degli immigrati. Il mio breve colloquio con l’agente in divisa verde sembra confermare una teoria del complotto molto in voga alla Casa Bianca e in tutti gli ambienti della destra radicale: contro Trump è in azione il Deep State, lo “Stato profondo”, una sorta di cupola dell’Amministrazione federale infarcita di obamiani, una burocrazia che boicotta ostinatamente questo presidente. Qualcosa di vero c’è, le burocrazie sono sempre in favore dello status quo, il “rivoluzionario” Trump ha già scatenato contro di sé tanti giudici che lo considerano un nemico della Costituzione. Gli hanno bocciato, forse perfino con un eccesso di zelo, tutte le versioni dei suoi Muslim Ban, anche l’ultimo decreto in cui lui bloccava gli ingressi da Paesi non solo islamici, con l’inclusione di Corea del Nord e Venezuela. C’è un pezzo delle istituzioni che si mobilita a oltranza, crede nei “checks and balance”, poteri e contropoteri che impediscono una prevaricazione dell’esecutivo. Se tornano in campo due ex presidenti, non solo Obama ma anche George Bush, per mettere in guardia gli americani contro il “nazionalismo becero”, vuol dire che l’allarme è diffuso e il Deep State lo ha raccolto. L’altra sorpresa, di segno opposto, mi aspetta nel centro di Laredo. A poche centinaia di metri da quell’International Bridge dove scorre un flusso continuo di passaggio tra Stati Uniti e Messico, con tanti transfrontalieri che vanno avanti e indietro dalla sera alla mattina. A fianco alla stazione degli autobus Greyhound, entro nel ristorante Juano’s. Il proprietario è Juan Alonso, 54 anni, nato a Monterrey in Messico. «Sono entrato negli Stati Uniti nel 1989 — racconta — e ho vissuto un po’ dappertutto, ho fatto ogni mestiere. Laureato in ingegneria, ho lavorato nelle fonderie dell’Indiana, nell’industria tessile del Michigan.

Qualche anno fa mi sono trasferito qui, e ho cominciato questa nuova carriera da ristoratore». Nel suo ristorante non c’è una sola scritta in inglese, anche il menù è solo in spagnolo. Si avvicina Halloween, ma qui le maschere sono quelle tradizionali della Festa dei Morti, antichissimo rito messicano. Le statistiche federali dell’Immigration and Customs Enforcement dicono che dall’insediamento di Trump è scattato il pugno duro verso l’immigrazione illegale, le retate e le espulsioni sono in forte aumento rispetto agli anni di Obama, da pochi giorni la Homeland Security ha annunciato la costruzione di nuove carceri speciali. Gli arresti di clandestini da gennaio a settembre sono stati 97.482, in aumento del 43% rispetto all’Amministrazione Obama. Ma Juan Alonso racconta un’altra storia, più simile alla realtà sonnacchiosa che ho osservato a poca distanza dal suo ristorante, lungo il Rio Grande: placido fiumiciattolo, facile da attraversare, dove le pattuglie su motoscafo passano raramente. «Qui da noi niente retate, niente espulsioni di massa. C’è un po’ di Muro tecnologico, fatto di droni e raggi infrarossi. Ma c’era anche prima». Questa storia del Muro è una commedia degli equivoci che dura da anni. I democratici denunciano la promessa di Trump come un’infamia, eppure fu uno di loro (Bill Clinton) a costruire l’unica fortificazione davvero imponente, al confine californiano tra San Diego e Tijuana. La destra dice di volerlo, ma qui nel Texas sono i proprietari terrieri di fede repubblicana l’ostacolo maggiore. Il Muro andrebbe costruito espropriando dei loro appezzamenti. Orrore: l’esproprio è statalismo, socialismo, i ricorsi in tribunale dei latifondisti bloccano continuamente i progetti di Trump. In quanto a Juan Alonso, lui di questo presidente si è innamorato. Il colpo di fulmine è accaduto per una ragione molto semplice. Il ristoratore ha ottenuto la cittadinanza americana.

È una procedura automatica, per chi la richiede dopo cinque anni di Green Card. Ma il caso ha voluto che per lui il diritto sia maturato proprio pochi mesi fa, sotto questa Amministrazione. «E tutti i miei amici mi dicevano: povero illuso, non hai capito che è cambiato tutto? Trump non vuole messicani. Quando ti presenterai per la cittadinanza ti tratteranno male, ti cacceranno. E invece no! Sono stati gentilissimi, mi hanno dato il passaporto». Forse Alonso non ha le idee chiare sullo Stato di diritto, sul fatto che questa cittadinanza ormai gli spettava, e neppure un presidente può commettere l’arbitrio di cancellare la legge. Ma Trump gli piace, e non solo per questo. Quando gli dico che voglio percorrere il fatidico ponte e passare a Nuevo Laredo, Messico, inorridisce: «Non ci andate. Vi riconoscono subito, vi prendono di mira. Rapiscono gli americani, per ottenere un riscatto immediato». (Il mio sospetto che lui stia esagerando viene contraddetto dal sito del Dipartimento di Stato: mette in guardia i turisti americani, sconsiglia di mettere piede a Nuevo Laredo, i rapimenti ci sono stati davvero). Strana frontiera. Da una parte e dall’altra sono tutti messicani. È come se la guerra del 1846-48 tra Stati Uniti e Messico, che sancì l’appartenenza del Texas alla potenza settentrionale, fosse stata lentamente ribaltata. Un’attrazione etnica più profonda, una forza d’inerzia demografica restituisce al Messico i suoi ex-territori a Nord del Rio Grande. È di origine messicana la capa della Border Patrol che incrocio per tentare un’ennesima intervista (negata), Sarah Melendez; sono di origini messicane i due agenti in divisa che la scortano. La città Usa, Laredo- Texas, ha il 95,61% di ispanici nel censimento ufficiale della sua popolazione. Nuevo Laredo è la sua gemella siamese, l’International Bridge tiene incollate le due metà. «Ma gli stessi messicani che a Nuevo Laredo sono dei delinquenti — dice Juan Alonso — appena passano di qua rigano dritto, stanno attenti a non violare le leggi americane.

Di qua c’è l’ordine, di là dalla frontiera in Messico c’è corruzione e violenza. Questa è la differenza. Ha ragione Trump a volere imporre il rispetto delle regole. A me mi hanno dato la cittadinanza perché pago le tasse. Quelli che non lo amano, sono di un’altra categoria. Quelli bisogna tenerli fuori».

© Riproduzione riservata 27 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/super8/2017/10/27/news/ora_e_sempre_the_donald-179461879/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S3.4-T1
4253  Forum Pubblico / ARTE - Letteratura - Poesia - Teatro - Cinema e altre Muse. / Dario BERTINI - A Frank O'Hara. inserito:: Novembre 04, 2017, 08:02:18 am

Dario Bertini

Dario Bertini, nato a Legnano (MI) nel 1988, abita a Pavia, dove frequenta la facoltà di Lettere moderne. Ha pubblicato una raccolta dal titolo Distilleria di contrabbando (Cardano, Pavia, 2009, prefazione di Claudio Lolli) e un omonimo disco di canzoni e poesia nato dalla collaborazione con Renato Franchi e l’Orchestrina del Suonatore Jones.
Suoi versi sono apparsi sulle riviste Il Foglio Clandestino, FarePoesia, La Mosca, La Gru e sul sito Le parole e le cose.
Con Sigismundus Editrice, nel 2012, ha pubblicato la raccolta Frequenze clandestine.

È presente nel foglietto Metamorfosi del paesaggio italico (AA.VV, a cura di Dario Borso).
Organizza numerosi reading ed eventi culturali.

E-mail: bertini.d.i@alice.it

----

a Frank O'Hara
 

l'estate si è schiantata all'improvviso come un vagone merci

e l'aria è troppo calda, spessa da respirare

 i semafori

gialli lampeggiano come tizzoni ardenti

negli occhi di chi resta ad osservare,

ma non c'è tempo di sfuggire al tempo

 così ogni notte si succede al giorno

da millenni

 io per esempio vago più o meno da vent'anni

come un filmato in bianco e nero con pochi spettatori


una macchina passa troppo in fretta

seguita dalla  polizia

 ed è la vita perchè da sempre

un'ombra scura ci viene dietro inesorabile

 ma all'angolo

si scontra con un'altra generando una cometa

e migliaia  di stelle a illuminare il grigio dell'asfalto

 come un assolo di john coltrane



(da Frequenze clandestine, Sigismundus 2012)
4254  Forum Pubblico / ARTE - Letteratura - Poesia - Teatro - Cinema e altre Muse. / Dario Bertini. Antonio Porta - Questa lettura deve avvenire tutta al buio, ... inserito:: Novembre 04, 2017, 07:56:09 am
Dario Bertini
 
Questa lettura deve avvenire tutta al buio,
le parole le ripeto tutte a mente, segno
la carta con l'indice e ripeto quello che ho sentito
riproduco a braccio quello che ho capito, perché
amare significa questo: mutare
la repulsione dell'amata, la repulsione dell'amato
mutare una bocca laida in cespuglio fiorito
un ventre rigato in campo aperto
una passera sigillata in labbra di pesce
fino a che le tenebre e il nero soffitto
precipitano sulle parole

Antonio Porta
4255  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Pablo NERUDA. Paolo Rabissi e Franco Romanò inserito:: Novembre 04, 2017, 07:37:40 am
Blog di poesie, poetica e pensieri critici intorno all'epica e al multiverso della poesia contemporanea, italiana e non.

A cura di Paolo Rabissi e Franco Romanò.
(Nelle sezioni Riflessioni, Testi Manifesti, Coralia, Multiverso e Contemporanea si entra scorrendo la home page o cliccando sulle intestazioni nella colonna a destra).

Giovedì 26 ottobre 2017

Pablo Neruda.

Evidenziamo anche in questa prima pagina, il nuovo contributo che pubblicheremo anche nella sezione TESTI MANIFESTI del blog, dove abbiamo già pubblicato Cesare Pavese, Vittorio Sereni e Derek Walcott. A loro si aggiunge adesso Pablo Neruda.

La recentinchiesta da parte di una commissione internazionale avvalora il sospetto, sempre avanzato dalla famiglia, di un suo avvelenamento da parte della dittatura di Pinochet. La verità si sta facendo strada e tanto più, allora, tenere viva l’attenzione su di lui e sulla sua grande poesia è necessario nei nostri tempi a rischio costante di deprivazione della memoria.

Dal Canto General: Alturas de Machu Picchu.
VI

Entonces en la escala de la tierra he subido
entre la atroz maraña de las selvas perdidas
hasta ti, Macchu Picchu.
Alta ciudad de piedras escalares,
por fin morada del que lo terrestre
no escondió en las dormidas vestiduras.
En ti, como dos líneas paralelas,
la cuna del relámpago y del hombre
se mecían en un viento de espinas.
Madre de piedra, espuma de los cóndores.
Alto arrecife de la aurora humana.
Pala perdida en la primera arena.
Ésta fue la morada, éste es el sitio:
aquí los anchos granos del maíz ascendieron
y bajaron de nuevo como granizo rojo.
Aquí la hebra dorada salió de la vicuña
a vestir los amores, los túmulos, las madres,
el rey, las oraciones, los guerreros.
Aquí los pies del hombre descansaron de noche
junto a los pies del águila, en las altas guaridas
carniceras, y en la aurora
pisaron con los pies del trueno la niebla enrarecida,
y tocaron las tierras y las piedras
hasta reconocerlas en la noche o la muerte.
Miro las vestiduras y las manos,
el vestigio del agua en la oquedad sonora,
la pared suavizada por el tacto de un rostro
que miró con mis ojos las lámparas terrestres,
que aceitó con mis manos las desaparecidas
maderas: porque todo, ropaje, piel, vasijas,
palabras, vino, panes,
se fue, cayó a la tierra.
Y el aire entró con dedos
de azahar sobre todos los dormidos:
mil años de aire, meses, semanas de aire,
de viento azul, de cordillera férrea,
que fueron como suaves huracanes de pasos
lustrando el solitario recinto de la piedra.
X.
Piedra en la piedra, el hombre, dónde estuvo?
Aire en el aire, el hombre, dónde estuvo?
Tiempo en el tiempo, el hombre, dónde estuvo?
Fuiste también el pedacito roto
de hombre inconcluso, de águila vacía
que por las calles de hoy, que por las huellas,
que por las hojas del otoño muerto
va machacando el alma hasta la tumba?
La pobre mano, el pie, la pobre vida...
Los días de la luz deshilachada
en ti, como la lluvia
sobre las banderillas de la fiesta,
dieron pétalo a pétalo de su alimento oscuro
en la boca vacía?
Hambre, coral del hombre,
hambre, planta secreta, raíz de los leñadores,
hambre, subió tu raya de arrecife
hasta estas altas torres desprendidas?

Yo te interrogo, sal de los caminos,
muéstrame la cuchara, déjame, arquitectura,
roer con un palito los estambres de piedra,
subir todos los escalones del aire hasta el vacío,
rascar la entraña hasta tocar el hombre.
Macchu Picchu, pusiste
piedra en la piedra, y en la base, harapos?
Carbón sobre carbón, y en el fondo la lágrima?
Fuego en el oro, y en él, temblando el rojo
goterón de la sangre?
Devuélveme el esclavo que enterraste!
Sacude de las tierras el pan duro
del miserable, muéstrame los vestidos
del siervo y su ventana.
Dime cómo durmió cuando vivía.
Dime si fue su sueño
ronco, entreabierto, como un hoyo negro
hecho por la fatiga sobre el muro.
El muro, el muro! Si sobre su sueño
gravitó cada piso de piedra, y si cayó bajo ella
como bajo una luna, con el sueño!
Antigua América, novia sumergida,
también tus dedos,
al salir de la selva hacia el alto vacío de los dioses,
bajo los estandartes nupciales de la luz y el decoro,
mezclándose al trueno de los tambores y de las lanzas,
también, también tus dedos,
los que la rosa abstracta y la línea del frío, los
que el pecho sangriento del nuevo cereal trasladaron
hasta la tela de materia radiante, hasta las duras cavidades,
también, también, América enterrada, guardaste en lo más bajo
en el amargo intestino, como un águila, el hambre?
VI

Allora sulla scala della terra sono salito,
tra gli atroci meandri delle selve perdute,
fino a te, Machu Picchu.
Alta città di pietra scalinata,
dimora  degli esseri che il terrestre
non poté celare nelle vesti assonnate.
In te, come due linee parallele,
la culla del tempo e quella dell’uomo
si dondolano in un vento di rovi.

Madre di pietra, schiuma dei condor.
Alta scogliera dell’aurora umana.
Pala sperduta nella prima spiaggia.
Questa fu la dimora, questo è il luogo:
qui salirono i grossi chicchi del granoturco
e scesero di nuovo come grandine rossa.

Qui la gugliata sfuggì dalla vigogna
per vestire gli amori, i sepolcri, le madri,
il re, le preghiere, i guerrieri.

Qui i piedi dell’uomo riposarono la notte
accanto ai piedi dell’aquila, nelle alte tane
carnivore, e all’alba
calpestarono con i piedi del tuono la nebbia rarefatta,
e toccarono le terre e le pietre
per poi riconoscerle nella notte e nella morte.
Guardo i vestimenti e le mani,
la traccia dell’acqua nella cavità sonora,
la parete addolcita al contatto d'un volto
che guardò con i miei occhi le lampade terrene,
che unse con le mie mani gli scomparsi legni:
perché tutto, vesti, pelle, vasi,
parole, vino, pani,
tutto scomparve e ritornò alla terra.

E l’aria calò con dita
di zagara sui dormienti:
mille anni di aria, mesi, settimane di aria,
di vento azzurro, di ferrea cordigliera,
trascorsi come soavi uragani di passi
a levigare il remoto recinto della pietra.

X.

Pietra sulla pietra, e l’uomo dov’era?
Aria nell’aria, e l’uomo dov’era?
Tempo nel tempo, e l’uomo dov’era?
Forse la particella infranta fosti
dell’uomo incompiuto, dell’aquila vuota
che sulle strade d’oggi, sulle orme,
che sulle foglie dell’autunno morto
si stritola l’anima fino alla tomba?
Povera la mano, il piede, la vita...
Forse i giorni di luce sfilacciata
in te, come la pioggia
sopra le banderillas della fiesta,
diedero, petalo a petalo, il loro cibo
oscuro alla bocca vuota?
Fame, corallo dell’uomo,
fame, pianta segreta, radice dei taglialegna,
fame, è salita la tua linea di scogli
sino a queste alte torri distaccate?

Io t'interrogo, sale delle strade,
mostrami il cucchiaio, lasciami, architettura,
raschiare con uno stecco gli stami di pietra,
salire tutti i gradini dell’aria fino al vuoto,
grattare le viscere fino a toccare l’uomo.

Macchu Picchu, posasti tu
pietra su pietra, e, alla base, stracci?
Carbone su carbone, e, al fondo, pianto?
Fuoco nell’oro, e, in esso, tremante,
il rosso grondare del sangue?
Ridammi lo schiavo che hai seppellito!
Rimuovi dalle terre il duro pane
dell’infelice,  mostrami le vesti
del servo, la sua finestra.
Dimmi come dormì quando viveva.
Dimmi se fu il suo sonno
rauco, socchiuso, come un buco nero
scavato dalla fatica sul muro.
Il muro! Dimmi se sopra il suo sonno
gravò ogni strato di pietra, e s’egli vi cadde sotto
come sotto una luna, col suo sonno!
Antica America, sposa sommersa,
anche le tue dita,
nell’uscire dalla selva verso l’alto vuoto degli dei,
sotto gli stendardi nuziali della luce e del decoro,
mischiandosi al tuono dei tamburi e delle lance,
anche, anche le tue dita,
quelle che la rosa astratta e la linea del freddo,
quelle che il petto sanguigno
del nuovo cereale trasportarono
fine alla tela di materia radiosa,
fino alle dure cavità,
anche, anche tu, America sepolta,
conservasti nel più profondo,
giù nell’amaro intestino,
come un’aquila, la fame?

*** 

Io sono il pellegrino
dell’Isola di Pasqua, il cavaliere
strano, a bussare vengo alle porte del silenzio:
uno in più di quelli che porta l’aria
saltando in un volo tutto il mare:
son qui, come gli altri pesanti pellegrini
che in inglese allattano e innalzano rovine:
egregi commensali del turismo, uguali a Simbad
e a Colombo, senza altra scoperta
che il conto del bar…»
da Gli uomini
                                                                                                  ***
Il Dittatore.
È rimasto un odore tra i canneti:
un misto di sangue e carne,
un penetrante
petalo nauseabondo.
Tra le palme da cocco le tombe sono piene
di ossa demolite, di ammutoliti rantoli.
Il delicato satrapo conversa
tra coppe, colletti e cordoni d'oro.
Il piccolo palazzo luccica come un orologio
e le felpate e rapide risate
attraversano a volte i corridoi
e si riuniscono alle voci morte
e alle bocche azzurre sotterrate di fresco.
Il dolore è celato, simile ad una pianta
il cui seme cade senza tregua sul suolo
e fa crescere al buio le grandi foglie cieche.
L'odio si è formato squama su squama,
colpo su colpo, nell'acqua terribile della palude,
con un muso pieno di melma e silenzio.
                                                         ***
Il Canto General è l’opera più importante di Pablo Neruda, un lunghissimo poema di cui sono riportate qui sopra la parte sesta e la decima della sezione Alturas de Macchu Picchu: la traduzione italiana è di Giuseppe Bellini. A queste due sezioni del poema aggiungiamo due brevi ma assai significative poesie. Lo riproponiamo oggi nella convinzione che in Italia il nome di Neruda sia ora caduto in oblio, come fu invece maggiormente celebrato proprio a cavallo degli anni sessanta e settanta per i Cento Sonetti d’amore e una canzone disperata, opera che – pur importante – ci sembra tuttavia più scontata e datata.
Originale nella sua ispirazione, il Canto si discosta dai modelli precedenti ed europei nel modo di considerare la natura come un soggetto ed un oggetto di poesia epica che precede la storia umana e che poi la incontra e la interroga. Per un europeo è un testo sorprendente, affascinante per la sua lontananza e tuttavia capace di toccare corde profonde, le cui radici si perdono in una memoria arcaica. Lo sguardo di Neruda è rivolto in due direzioni per noi fuori dal comune: le altezze vertiginose della catena andina e le estensioni altrettanto vertiginose dell’Oceano Pacifico. Non è un caso che la sua poesia si estenda e arrivi a comprendere nel suo abbraccio l’Isola di Pasqua, quel punto estremo del mondo, cui sono legati miti diversi dai nostri: Rapa Nui e le avventure ancestrali di un popolo che, imbarcatosi sulle canoe per quelle lontane isole, non poté tornare indietro per via delle correnti avverse. Il nostro oceano è quello Atlantico, che da Colombo in poi è lo è per modo dire, con il suo vai e vieni continuo; abitatissimo, nonostante la distanza e con il continente europeo che si espone molto in là verso il nord di quello americano. Il Pacifico è un’altra cosa. Da quelle altezze e lontananze che ispirano naturalmente anche alla devozione, Neruda sa tuttavia tornare al lavoro, alla terra che offre il suo cibo, quello povero in particolare, come avviene in un testo straordinario come l’Ode alla cipolla. 
Vi è però una seconda ragione che fa di Neruda un poeta diverso anche dagli altri del continente latino americano. Nonostante il suo rapporto d’amore viscerale con la Spagna della Repubblica, che lo vide fra i protagonisti di quella vicenda tragica, nel 1936, egli resta comunque meno europeo e più sudamericano di molti altri, forse di tutti, nonostante alcuni critici lo associno in qualche modo alla poetica surrealista; il solo che gli si può accostare, forse è il brasiliano Joao Guimaraes Rosa. Altri scrittori e poeti importanti di quel continente, hanno nell’Europa un punti di riferimento spesso decisivo, simile alla relazione che i primi poeti e narratori statunitensi avevano con l’Inghilterra o con Parigi agli inizi del ‘900 e che nel caso dei latino americani, gli argentini in particolare, è vivo ancora oggi. Neruda, invece, guarda il mondo dal suo continente e ne fa materia di una grande poesia epica. Anche la sua ostilità nei confronti del nord statunitense è diversa da quella di altri, a volte dettata da una rabbia subalterna, piuttosto che dalla sprezzatura di chi sa coltivare le proprie grandezze. La distanza dal mondo anglo-statunitense è, per queste ragioni, culturale prima che politica e precede la sua militanza comunista, che fu altrettanto intransigente. Lo testimonia il primo dei due brevi testi finali. Pellegrino umile e devoto verso l’isola di Pasqua, guarda di uno sguardo sprezzante i pesanti pellegrini inglesi che allattano e innalzano rovine   e i commensali del turismo. Infine la poesia di chiusura ci riporta alla tragedia della dittatura di Pinochet.

Segnalato da Franco Romanò (che ringrazio).
ggiannig

Da - https://diepicanuova.blogspot.it/2017/10/pablo-neruda.html?spref=fb
4256  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI No a politica e religione, per i giovani è l’era delle passioni... inserito:: Novembre 04, 2017, 07:33:33 am
No a politica e religione, per i giovani è l’era delle passioni tiepide
Osservatorio Demos-Coop: si assottigliano le differenze tra generazioni e cresce la dipendenza dalla famiglia. Italiani sempre più incapaci di accettare le responsabilità della vita adulta.
La vecchiaia è l’unica paura comune e la gioventù dura fino a 52 anni

Di ILVO DIAMANTI
30 ottobre 2017

PARAFRASANDO il titolo di un noto libro, potremmo dire che viviamo in un'epoca di "passioni tiepide". Non "tristi", come quelle evocate da Miguel Benasayag e Gérard Schmit nel loro saggio (pubblicato nel 2004 da Feltrinelli). Piuttosto: "disincantate". Interpretate con realismo. In particolare dai giovani. Abituati a proiettare il futuro nel loro sguardo. E a orientare il nostro. Perché i giovani "sono" il futuro.

È l'immagine suggerita dal sondaggio dell'Osservatorio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi e proposto oggi su Repubblica.

D'altronde, la società, e soprattutto i giovani, si sono abituati al clima di sfiducia che grava su di noi. Ormai da troppi anni. Così, lo attraversano senza troppa paura. In particolare, i "giovani-adulti" (secondo i demografi), la "generazione del millennio", secondo l'Istat.

Insomma, coloro che hanno fra 25 e 36 anni e stanno a metà fra giovinezza ed età adulta. E cumulano l'insicurezza di chi ha di fronte un futuro carico di incognite e la sicurezza di chi i problemi del futuro ha iniziato a sperimentarli. È la metafora di una società che non accetta di invecchiare. Dove tanti, quasi tutti, vorrebbero restare "per sempre giovani". A costo di protrarre all'infinito le incertezze degli adolescenti. È un aspetto che avevamo già osservato altre volte, in passato. Ma oggi si ripropone, in modo, se possibile, più marcato. La giovinezza, secondo gli italiani, si allunga sempre più. Quanto più gli anni passano. Fra coloro che non superano i 36 anni, la giovinezza finisce poco più avanti: a 42 anni. Poi, via via che gli anni passano, anche la giovinezza si allunga. Fino a 62 anni, per coloro che hanno superato 71 anni. La "generazione della ricostruzione". Parallelamente, si allontana anche la soglia della vecchiaia. Tanto che, secondo i più anziani, pardon, i "meno giovani", si diventa "vecchi" solo dopo aver compiuto 80 anni. Non è una novità. La nostalgia della giovinezza spinge a negare la vecchiaia. E induce ad accettare di essere vecchi... solo dopo la morte. Eppure, ogni volta mi stupisco. Non riesco a farmene una ragione. La vecchiaia come dis-valore: significa negare l'importanza dell'esperienza. La maturità. D'altra parte, l'età adulta si restringe sempre di più. Così, la nostra biografia accosta e oppone gioventù e vecchiaia. Una accanto all'altra. E riduce l'età adulta a un passaggio rapido. Quasi occasionale. "Diventare grandi", una promessa attesa, quando ero bambino, oggi appare quasi una minaccia. Al più ci è concessa la condizione di "adulti con riserva" (per citare un bel libro di Edmondo Berselli).

Le fratture generazionali, così, appaiono meno evidenti e meno marcate di un tempo. Io stesso, alla fine degli anni Novanta, avevo definito i giovani una "Generazione invisibile" (Ed. Il Sole 24ore, 1999). Per sottolineare la progressiva marginalità dei giovani, ma, ancor più, la loro coerenza con gli orientamenti degli... adulti. Meglio, dei genitori. Al punto da non coglierne più le distanze. Cioè: le specificità generazionali. D'altronde, gli anni delle contestazioni sociali, ma prima ancora, familiari - dei figli contro i genitori - erano lontani. In seguito, non si sono più riproposte. Anzi: i genitori, la famiglia, sono divenuti l'appiglio che permette ai figli di condurre la loro transizione infinita all'età adulta. Si spiega soprattutto così l'importanza attribuita dai più giovani ai rapporti con la famiglia. Ma soprattutto all'indipendenza e all'autonomia. Tre su quattro, fra quanti hanno fino a 24 anni, li considerano molto importanti. Nel 2003 erano poco più di uno su due. Segno evidente che il sostegno della famiglia è necessario, ma, al tempo stesso, aumenta, la domanda di in-dipendenza. Di crescere e auto- realizzarsi. Di affermarsi e "fare carriera". Obiettivo ambito dal 41% dei più giovani: quasi 10 punti in più rispetto ai primi anni 2000. Una speranza che, per essere realizzata, li spinge a guardare - e andare - altrove.

I più giovani, insieme ai giovani-adulti, i millennials, sono la generazione della rete, la generazione più globalizzata. Abituati a comunicare a distanza. E a orientarsi verso "altrove", sostenuti dai genitori. E dai nonni. Per questo non riescono a sfuggire al senso di solitudine, che grava su tutta la società. Certo, i giovani-più-giovani sono sostenuti e aiutati da reti amicali più fitte. Ma i loro fratelli maggiori, i giovani-adulti, la "generazione del millennio", ne soffrono più degli altri. Nel sondaggio di Demos-Coop, il 39% di essi, quasi 4 su 10, ammettono di "sentirsi soli". D'altra parte, internet e i social media permettono di restare sempre in contatto con gli altri. Gli amici. Ma sei tu, davanti al tuo schermo. Da solo. Oppure in mezzo agli altri. A comunicare. Da solo. Con il tuo smartphone.

Così, le passioni non diventano "tristi", ma più tiepide. Perché le stesse "fedi" sbiadiscono. E si perdono. La politica: non interessa più quasi a nessuno. Anche fra i più giovani. Presso i quali la componente che considera importante la politica non va oltre il 14%. Poco sopra alla media generale. Sono lontani i tempi della "contestazione". La stessa "generazione dell'impegno" - del '68 - appare disillusa. Elisa Lello, in una ricerca pubblicata alcuni anni fa, ha parlato di una "triste gioventù", (Maggioli, 2015). Insomma, non c'è più fede. Soprattutto fra i più giovani. Lo ha spiegato Franco Garelli, studioso delle religioni giustamente ri-conosciuto, in un testo dal titolo esplicito: "Piccoli atei crescono" (Il Mulino, 2016). L'indagine di Demos- Coop lo conferma, visto che la religione è ritenuta importante solo dal 7% della "generazione della rete". Un quarto, rispetto alla popolazione nell'insieme. Meno di un terzo rispetto al 2003.

In altri termini, "non c'è più religione". Soprattutto fra i più giovani. Così, diventa difficile provare "passioni". Accese e perfino tristi. Prevale il disincanto.
E le passioni si raffreddano. Divengono tiepide. Eppure conviene "credere" nei giovani. Perché, comunque, più di tutti gli altri, "credono" nell'Europa. Perché sono il nostro futuro. E più di tutti gli altri, "credono" nel futuro.

© Riproduzione riservata 30 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/30/news/no_a_politica_e_religione_per_i_giovani_e_l_era_delle_passioni_tiepide-179732808/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
4257  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / PIERA MATTEUCCI. Renzi: "Pronti a discutere senza veti a centro e a sinistra ... inserito:: Novembre 04, 2017, 07:31:58 am
Renzi: "Pronti a discutere senza veti a centro e a sinistra, ma non rinuncio a nostre idee".
Ius soli: "Se fiducia, voteremo “Renzi: "Pronti a discutere senza veti a centro e a sinistra, ma non rinuncio a nostre idee". Ius soli: "Se fiducia, voteremo"
Nell'intervento conclusivo alla Conferenza Pd a Portici, il segretario Dem rivendica i risultati conseguiti dal Paese grazie all'impegno del Partito democratico: "Niente arroganza, ma dovere"

Di PIERA MATTEUCCI
29 ottobre 2017

È SALITO sul palco per chiudere la Conferenza del Pd e per fare il punto sul suo viaggio attraverso l'Italia. Ma soprattutto per rivendicare che "chi ha portato l'Italia fuori dalla crisi ha un nome e cognome. Partito democratico". Lo stesso Pd che è pronto a lavorare con tutti a una coalizione, senza veti, ma anche senza rinunciare alle proprie idee.

Matteo Renzi, nell'intervento conclusivo della kermesse, spiega l'importanza simbolica del percorso intrapreso: "O c'è il viaggio, o non c'è futuro. Chi pensa di fermarsi nell'ambito delle proprie certezze, ha già perso". Poi precisa: "Chi dice che sono tutti uguali vuole farvi credere che la politica non serve, che tutti sono uguali e vi vogliono far credere a una tecnocrazia senz'anima".

Con forza ribadisce l'impegno del suo partito che, sottolinea, non è "una società privata o un partito di plastica", ma un partito pronto ad andare tra la gente, per ascoltarne i problemi e toccarne da vicino le difficoltà: "Noi siamo quelli che mentre gli altri continuano a insultarci non abbiamo paura di andare nel fondo del dolore della nostra società". Poi, rispondendo alle critiche: "A quelli che tutti giorni si lamentano dico ok cambiamo quello che c'è da cambiare, ma rivendichiamo quanto fatto".

Sottolineare i successi non deve apparire, ci tiene a precisare Renzi, una manifestazione di arroganza, ma "è un nostro dovere. Nel 2014 c'era chi voleva portare il Paese fuori dall'euro e chi lo ha portato fuori dalla crisi. Chi lo ha fatto si chiama Partito democratico, non altri. Dirlo non è arroganza ma consapevolezza di quel che abbiamo fatto. A chi ogni giorno dice di dimenticarcene rispondo: partiamo dall'orgoglio di ciò che siamo altrimenti non siamo seri verso la politica".

Il segretario ha colto l'occasione per ringraziare Napoli "perché ci ha fatto un regalo. Al tramonto, ieri, ciascuno ha fotografato e tenuto la foto come salva schermo sul cellulare. Dimostra la bellezza che ci circonda e alla quale siamo ormai abituati". Ma non solo: "Mi viene in mente lo straordinario lavoro fatto a Bagnoli, dove abbiamo messo fine alle polemiche", ha aggiunto, dopo le recenti vicende (ultima delle quali quella di Bankitalia) che hanno creato non poche tensioni all'interno del Partito democratico.

• AMPIA COALIZIONE
Ricordando le parole pronunciate ieri da Gentiloni, che ha definito il Pd l'unico perno possibile per il futuro governo, il segretario ha ribadito che il Partito democratico è pronto a lavorare con tutti a una coalizione, senza veti, ma anche senza rinunciare alle proprie idee. "È evidente che la legge elettorale approvata impone le coalizioni. Io i veti non li metto, chiedo al Pd di non mettere i veti nei confronti di nessuno, di superare gli insulti che abbiamo ricevuto, perché non si vive di rancori". E aggiunge: "Per le prossime elezioni sono molto più importanti i voti, che i veti. Non possiamo permetterci di chiudere a un'alleanza al centro. E non possiamo chiudere a sinistra".  Lancia quindi un invito: "Giochiamo pulito: più voti prende il Pd più lontane saranno le larghe intese. Meno voti prende il Pd meno sarà possibile scongiurare un governo di larghe intese".

Dunque, "noi siamo pronti a discutere e a ragionare insieme. Io credo che senza il Pd non ci sia la rivoluzione socialista, ma Salvini o Di Maio. Se c'è la volontà di discutere di contenuti, ci siamo. Non rinunciamo alle nostre idee".

Addolorato, si è detto l'ex premier, per la decisione di Piero Grasso di uscire dal partito: "Ho vissuto con grande dolore che il presidente del Senato abbia lasciato il Pd e noi non facciamo polemiche con la seconda carica dello Stato, ma non è per noi condivisibile che la fiducia è un atto di violenza. Non possiamo accettare che si dica che un atto parlamentare è un atto di violenza. La fiducia non è un atto di violenza".

Come Gentiloni, poi, ha richiamato all'unità e al gioco di squadra: “Serve unità, non possiamo permetterci liti o baruffe. Abbiamo una responsabilità istituzionale, sapere che il Pd ha un compito enorme, scommettere su un modello che non è polemica tutti i giorni", ha detto, ribadendo che alle prossime elezioni "il problema non è chi di noi sarà al governo, ma se ci saremo noi o ci saranno gli altri. L'unica cosa ce mi interessa è riportare il Pd al governo del Paese".

• BANCHE E VITALIZI
Proprio su Bankitalia, Renzi ha voluto smorzare i toni: "Non entro nelle dinamiche di questa settimana, perché siamo un Partito democratico, abbiamo discusso, le istituzioni hanno deciso e ieri abbiamo accolto Gentiloni con un abbraccio, oggi gli facciamo un applauso. Quella vicenda è chiusa, finita".

Però non risparmia critiche a quanti accusano il Pd di populismo: "Quando sento dire che certe prese di posizioni nostre sono ispirate dal populismo, lasciate che vi dica che l'unica alternativa al populismo è la politica. E ve lo dico partendo dalle banche e dai vitalizi".

Capita, ha aggiunto, che "i populisti ti attacchino, mentre l'unica cosa che abbiamo salvato sono stati i conti correnti dei cittadini. Insistere nel dirlo è per me un elemento di libertà personale, un fatto personale di forza - non abbiamo scheletri nell'armadio. Opinionisti e commentatori che sembrano ignorare che per vent'anni c'è stato un conflitto di interessi e intrecci nella vigilanza bancaria. Io rivendico il diritto della signora che sta alle cucine della Festa dell'Unità di non sentirsi chiamare amica delle banche. Non è populismo, è politica. Lo stesso vale per i vitalizi, è Grillo che sta inseguendo Richetti", aggiunge. "Io sono convinto che in Senato la legge verrà votata senza modifiche perché ne va della dignità del Pd. Sono i grillini che votano la legge Richetti", conclude.

• LE PROPOSTE PROGRAMMATICHE
Dal palco, poi, l'ex premier elenca i due pilastri programmatici: il primo è quello di "abbassare ancora le tasse sul lavoro. O noi abbiamo la forza di dire che la soluzione non è il reddito di cittadinanza, ma creare posti di lavoro per tutti, oppure non siamo un partito di sinistra. Ridurre le tasse a chi crea posti di lavoro".

Il secondo: "ottanta euro per ogni figlio sotto i 18 anni". "Come si finanzia?", domanda il segretario Dem. "Con l'operazione back to Maastricht - è la risposta - che vale 50 miliardi".

Per quanto riguarda il salario minimo, invece, non fa parte delle proposte del Pd, ma l'ex premier non lo esclude: "Perché no? Non è una proposta del Pd, ma parliamone".

• IUS SOLI
A differenza di quanto fatto ieri dal premier Paolo Gentiloni e dal ministro dell'Interno, Marco Minniti, nessun riferimento, dal palco, è arrivato da Renzi alla legge sullo ius soli ma, ammette più tardi l'ex premier, per una banale dimenticanza: "Ce lo avevo anche scritto - ha ammesso parlando con i cronisti sul treno Pd diretto da Pietrasanta a Roma - ma mi sono dimenticato di farne riferimento" nell'intervento. Però non ha dubbi: "Lo ius soli è una proposta del Pd da sempre e se ci sarà la fiducia il Pd la voterà convintamente. La decisione se metterla o no è nelle mani del presidente del Consiglio e siamo dalla parte del presidente del Consiglio", ha detto.

© Riproduzione riservata 29 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/29/news/renzi_conferenza_pd-179661342/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
4258  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / FRANCESCA SCHIANCHI. Matteo e Gentiloni firmano la tregua. inserito:: Novembre 04, 2017, 07:30:07 am
Matteo e Gentiloni firmano la tregua.
Il segretario: “Non metto veti a Mdp”
“Pronti alla coalizione, anche se non era il mio sogno segreto”. Il premier lo punge: non dissipiamo i nostri risultati

Pubblicato il 29/10/2017 - Ultima modifica il 29/10/2017 alle ore 07:06

FRANCESCA SCHIANCHI
INVIATA A PORTICI (NAPOLI)

«Parliamo con tutti, siamo pronti alla coalizione anche se non era il mio sogno segreto. Aver fatto una legge che obbliga alla coalizione, tiene insieme Salvini e Berlusconi, che avrei preferito tenere divisi, ma ormai è andata. Noi non mettiamo veti, nemmeno su Mdp che ci insulta tutti i giorni: cosa vogliono ancora da noi?». A sera, quando ormai la sala del grande deposito treni di Pietrarsa si è svuotata e il presidente del consiglio Paolo Gentiloni è già in viaggio verso l’aeroporto per un viaggio istituzionale in India, Matteo Renzi è soddisfatto. «È andata molto bene», commenta coi collaboratori più stretti: una giornata complicata iniziata con la lettura delle critiche dei giornali è girata come sperava, la tregua con il premier è stata siglata sotto gli occhi di giornalisti e telecamere, tra sorrisi e battute. Dopo i giorni della tempesta e degli scontri su Bankitalia, è il momento di ricucire: e Renzi tenta di farlo platealmente, dal palco della conferenza programmatica del Pd. 

«C’è stata in queste settimane qualche differenza di vedute», ammette Renzi introducendo il premier a una visita guidata sul treno Pd con cui sta girando l’Italia, «ma questa è casa tua». E il premier si concede all’abbraccio: chiedendo unità, ma anche con una puntura di spillo, chiedendo aiuto a chiudere il mandato in modo ordinato, pur sottolineando la leadership di Renzi. «Spalle larghe, poche chiacchiere, gioco di squadra e discussione aperta», invita tutti parlando dal palco, occhi negli occhi con Renzi in prima fila, «gli ultrà delle nostre divisioni sono la famiglia più numerosa d’Italia», e invece bisogna lavorarci perché «il primo punto del mio programma siamo noi», e «De Coubertin non è nel nostro Pantheon»: cioè «giochiamo per vincere». E in quel noi c’è la richiesta, che suona polemica al modo felpato di Gentiloni, di «prendere l’impegno solenne a una fine ordinata della legislatura» e a «non dissipare i risultati raggiunti in questi anni». E a fare una campagna elettorale «per l’Europa» non contro l’Europa.
 
Dalla prima fila Renzi applaude, poi lo accompagna all’uscita scherzando sul calcio, una battuta anche per Bankitalia, ma solo per ricordare insieme sorridendo quando Berlusconi al nome di Visco, sei anni fa, pensò al «comunista» Vincenzo anziché a Ignazio. Il saluto con il premier è solo l’ultima fotografia di una giornata passata a incontrare il suo sfidante alle primarie Michele Emiliano e a scherzare sul treno tra il ministro Marco Minniti e il collega Graziano Delrio («sono tra l’ala destra e l’ala sinistra del partito», dice in una diretta via Facebook). Delrio è tra i ministri che erano assenti al Consiglio dei ministri di venerdì che ha confermato Visco: un’influenza presa «nella galleria della Agrigento-Caltanissetta», si giustifica, ma ieri era presente. «Avevo parlato a lungo il giorno prima con Paolo - garantisce - sapeva che non sarei andato, tanto la scelta era già fatta. Io la penso come Matteo, ma è una decisione che ha preso Paolo e va bene così», tenta di tagliare corto sull’argomento: «Basta fare pettegolezzi sulle istituzioni».
 
Così, con l’abbraccio tra premier e segretario, si chiude il caso Visco. Con tutto il partito riunito, oppositori inclusi, dal ministro Orlando che ha parlato il primo giorno di lavori ma torna ad ascoltare, a Emiliano. Manca Franceschini. Sono tra i sospettati di poter ordire un agguato a Renzi, dopo le elezioni siciliane, se i risultati dovessero essere pessimi come si temono. «Mi spiace per la Sicilia, non per il Pd. Cosa volete che succeda? - sbotta coi suoi il segretario -. Vi immaginate se qualcuno avrà la forza di venire in direzione a contestare? E per cosa, poi? Non credo: sarebbe una mossa azzardata». Anche perché, aggiunge malizioso qualcuno dei suoi, a chiedere primarie avrebbero paura di una sua vittoria. «Andiamo avanti», ripete. La tregua è siglata. Quanto durerà, si scoprirà a breve.

 Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati

Da - http://www.lastampa.it/2017/10/29/italia/politica/matteo-e-gentiloni-firmano-la-tregua-il-segretario-non-metto-veti-a-mdp-pKekLjAvTOgKtP6P4dgl4M/pagina.html
4259  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / CATERINA BONVICINI "Cosa significa essere il traduttore di un grande scrittore.. inserito:: Novembre 04, 2017, 07:28:55 am
CULTURA

"Cosa significa essere il traduttore di un grande scrittore internazionale"
Franzen. Sepúlveda. O’Brien. Sarebbero gli stessi senza i professionisti che ne traducono le opere in italiano? Gli alter ego dei grandi si raccontano. «Ogni autore, anche se è un amico, va trattato come fosse morto. Non deve diventare troppo umano»

DI CATERINA BONVICINI
31 ottobre 2017

Jonathan Franzen sta viaggiando sulla Salerno-Reggio Calabria con la sua traduttrice italiana di Einaudi, Silvia Pareschi, per scrivere un reportage sul bracconaggio nell’Europa meridionale. È il 2012. «Franzen è un appassionato birdwatcher e a furia di seguirlo mi sono appassionata anch’io», racconta Pareschi. Partono da Napoli e arrivano fino a Messina per visitare alcune oasi Lipu e Wwf, intervistando ornitologi e guardie forestali.

«Ci svegliavamo molto presto, ma ci davamo appuntamento per dopo la colazione perché nessuno dei due amava parlare al mattino. Al volante c’era sempre lui, che si divertiva a tenere testa all’aggressività dei guidatori italiani, ma io mi guadagnai il suo rispetto quando fui la prima ad accorgermi che avevamo forato. Un mattino uscimmo in cerca di cacciatori di frodo accompagnati da due finanzieri armati di mitraglietta, ma non trovammo nessun bracconiere, solo dei tizi che giocavano alla guerra e un raccoglitore di asparagi selvatici che si spaventò tantissimo alla vista dei finanzieri armati».

A Messina «Franzen vide un paio di uccelli che non aveva mai visto, e secondo la tradizione locale dovette offrire due gelati ai membri della squadra (il gelato non gli piaceva, ma lo mangiò lo stesso perché la sua impeccabile educazione da Midwestern gli impediva di rifiutarlo)».

Oltre all’interesse ornitologico, Franzen e Pareschi condividono l’intolleranza al rumore. Lo scrittore lavora spesso al buio con un paio di cuffie cancella-rumori e ha regalato a Silvia «un file mp3 contenente un’ora e venti minuti di “rumore rosa”, un tipo di rumore statico usato per bloccare i suoni di sottofondo», di cui lei ormai non può più fare a meno.

Siamo abituati a leggere i grandi scrittori stranieri attraverso le parole dei loro traduttori, ma non ci chiediamo mai quale rapporto c’è fra queste due voci. Umano, per esempio. Se si va a scavare un po’, si scoprono storie di grande amicizia. L’affiatamento spesso va ben oltre il testo, è qualcosa di molto personale.

«Il rapporto fra traduttore e autore è un matrimonio combinato dall’editore», dice Ilide Carmignani: «Non è detto che funzioni». E quando le arriva una telefonata da Guanda e le dicono che Luis Sepúlveda vuole conoscerla, lei resta sorpresa. «Non mi era mai successo che un autore volesse incontrarmi». Immaginiamo una ragazza che viaggia in treno da Lucca a Milano, anche un po’ spaventata: «Il mio spagnolo gli sembrerà abbastanza elegante? Conoscerò gli autori di cui mi parlerà? Ero in ansia come per un esame», racconta: «Pensavo che mi avesse convocata per capire se ero la persona giusta o no. Il traduttore deve intervenire nella carne del testo: non è sicuro che lo scrittore condivida le sue scelte».

Appena entra in albergo, non c’è nessuno della casa editrice ad aspettarla. Si trova semplicemente Sepúlveda davanti, che sbuca dall’ascensore. E qui arriva la seconda sorpresa: Sepúlveda l’abbraccia. «È famoso per questi abbracci da orso, non dico che mi sollevò da terra, ma quasi. Era la prima volta che uno sconosciuto mi abbracciava con tanto trasporto. “Ti voglio ringraziare perché sei la mia voce italiana”, mi ha detto. Per me sei una compañera de camino». Saranno davvero compañeros, da allora. Ilide va a casa di Lucho - così lo chiamano gli amici - nel Nord delle Asturie, a Gijón («È bravissimo a cucinare, in particolare l’asado»), Lucho va a trovarla in toscana («è capace di mangiare pasta al ragù per primo e per secondo»), viaggiano insieme, parlano di tutto. «Un traduttore può essere molto solo», dice Ilide, «ma con lui non è stato così. È un uomo generoso, a suo agio ovunque. È se stesso con tutti».

Un altro rapporto intenso è quello fra Edna O’Brien e Giovanna Granato. «È come quando ti innamori», dice la sua traduttrice per Einaudi. Il correlativo oggettivo di questo legame è una borsetta da sera di raso nero che Edna compra a Milano per Giovanna, un regalo molto femminile, complice, di grande eleganza.

Si conoscono a Dublino. Quando Giovanna incontra Edna, venuta apposta per lei, ha già preso un tè con sua sorella e con suo nipote a Tuamgraney, il paese d’origine. Era andata lì per vedere casa sua. «Ci siamo volute bene subito», dice. «Lei è di una gentilezza esasperante», racconta, «eppure senti il leopardo che ha dentro, tira certe zampate. La guardavo con un occhio deformato dal mio lavoro, come un entomologo: cercavo di capire se la sua voce assomigliava alla sua scrittura». Edna trova bella la camicia di Giovanna. Un attimo dopo discutono di Joyce e di Beckett. Poi la conversazione si fa più calda, più umana («quando tocchi le corde intime») e capiscono che diventeranno amiche. «È una persona molto sincera, anche su stessa. Una donna che ha una grande forza - senti il felino - ma anche di un’estrema fragilità. Ha avuto una vita difficile, ha dovuto affrontare il rifiuto di sua madre e del suo paese. È curiosa nei confronti degli altri: voleva sapere di me, della mia vita. È meravigliosa. Io prendo energia da lei».

Marisa Caramella, che ha avuto rapporti stretti con molti autori, soprattutto come editore, ricorda ancora l’emozione che ha provato quando ha incontrato Patricia Highsmith, di cui ha tradotto tutta l’opera (ora in corso di pubblicazione per La nave di Teseo). «È stato il punto più alto della mia carriera per la corrispondenza mentale e intellettuale», dice. Patricia Highsmith non era certo un tipo amichevole. «Quando firmava le copie stava sempre in silenzio. I giornalisti non le piacevano, ma qualcosa doveva pur dire, ogni tanto. Non era timida, era scontrosa, misantropa. Comunque, se proprio doveva parlare, preferiva farlo con le donne».

Marisa si presenta a casa sua in Canton Ticino negli anni Novanta, una casa post-hippy, circondata da un giardino. Sul tavolo, il caffè, una bottiglia di vino e un gatto. Patricia ha addosso un maglione, dei pantaloni, delle scarpe comode. «È stata gentilissima con me, sapendo che avevo tradotto tutta quella roba. Però capivi che non gliene fregava niente. Non era una che aveva voglia di socializzare, era una solitaria». Ma chi non avrebbe desiderato trovarsi di fronte a una delle più grandi scrittrici del Novecento, pazienza se poco loquace.

Ha fama di essere una persona difficile anche Antonia Byatt che però ha dedicato vari romanzi ai suoi traduttori e, quando ha ricevuto la laurea Honoris Causa dall’Università di Leiden, ha chiesto di organizzare un seminario internazionale con tutti i suoi traduttori. «Certamente si irrigidisce ma è una difesa dalla banalità che io condivido», spiega Anna Nadotti che la traduce per Einaudi: «Ama parlare delle cose seriamente». Insieme vanno in giro per musei. «È bellissimo il modo in cui lei guarda. Ha uno sguardo narrativo. Vede una cosa, te ne parla, ed è già racconto», dice. «È una donna colta, erudita, un’osservatrice impressionante. Non sopporta le superficialità, vuole sempre andare a fondo».

Diversi ancora sono i rapporti di Bruno Arpaia con gli autori che traduce: è più che altro amicizia fra scrittori, quasi mai lui fa domande sul testo. Con Javier Cercas l’amicizia nasce nel 2001, quando pubblica “Soldati di Salamina”. Nello stesso anno Arpaia pubblica “L’angelo della storia”, sempre per Guanda. «Era come se ci avessero assegnato lo stesso compito e ognuno lo avesse svolto con le sue caratteristiche», racconta. «Oltre a essere uno stupendo scrittore, Javier mi piace sul piano umano. Non sempre siamo d’accordo. Quando ci vediamo, discutiamo molto. Cosa abbiamo in comune? Siamo due persone che tentano di non accontentarsi della versione più scontata dei fatti, abbiamo un atteggiamento dubbioso sul mondo, cauto e non urlato. Anche su questioni brucianti come la Catalogna, Javier dice cose che tentano di mantenere il buon senso e andare oltre gli schemi, sempre invitando alla riflessione complessa. Non ci piace questa tendenza comune a semplificare, a ridurre».

Molto stretto è anche il rapporto con Arturo Pérez-Reverte che Arpaia traduce per Rizzoli: «Ammiro Arturo perché dice sempre quello che pensa con molta libertà e senza peli sulla lingua. In questo mondo che si basa sulle apparenze, è raro. Molti non lo amano per questo motivo. Ha delle diffidenze ma, quando superi le sue trincee, è generoso, amabile. È un uomo che ha veramente vissuto, ha fatto il corrispondente di guerra sul serio, non chiuso negli alberghi. E poi ha una cultura enorme, è un vero hidalgo».

Solleva un problema diverso Elena Kostioukovitch, traduttrice storica in russo di Umberto Eco. «C’erano almeno cinque traduttori storici che con Eco avevano un rapporto stretto, non ero la sola. Ma un bravo traduttore non deve far diventare il suo autore troppo umano. Ne va della sua professionalità. Ogni scrittore, anche quello con cui magari hai un legame affettivo, va trattato come un autore morto. Più diventavo amica di Umberto, più mi vergognavo a fargli delle domande». L’altro rischio, da cui vuole mettere in guardia, è l’identificazione eccessiva.

Racconta che una volta, a San Pietroburgo, la folla era così enorme che si era presentata la polizia a cavallo, e Umberto Eco era svenuto. Appena si era ripreso, aveva chiesto a Elena di affrontare le domande del pubblico al posto suo. «Perché sapevo bene cosa avrebbe risposto. Un traduttore a volte conosce così a fondo il suo autore, la sua biografia, il suo pensiero politico, il background culturale, da sapere addirittura cosa succederà nella pagina successiva, prima di voltarla. Devi avere i suoi ingredienti nella testa per cucinare la stessa minestra in un’altra lingua. Ma non devi commettere l’errore di crederti lui. Umberto era una persona di enorme fascino, a cui sono grata e a cui ho voluto davvero bene. Abbiamo viaggiato tanto insieme, lui amava appartarsi, era molto concentrato su se stesso. Però, appena andavamo in scena diventavamo come due acrobati al circo: uno va in aria e l’altro lo deve ricevere quando atterra. E se mi vedeva in difficoltà, mi suggeriva la risposta sussurrando».

SCRITTORI LUIS SEPULVEDA EDITORIA
© Riproduzione riservata 31 ottobre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2017/10/30/news/cosa-significa-essere-la-persona-che-traduce-i-grandi-scrittori-internazionali-1.313120?ref=fbpe
4260  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Nicola Zoller Quando la lotta politica sfruttò la religione inserito:: Novembre 04, 2017, 07:27:19 am
Quando la lotta politica sfruttò la religione

Pubblicato il 30-10-2017

Si narra che cinquecento anni orsono alla vigilia di Ognissanti, il 31 ottobre 1517, Martin Lutero abbia affisso sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg le sue Tesi teologiche. «Nelle intenzioni di Lutero doveva trattarsi di una riforma, non di uno scisma» sostiene l’autorevole storico tedesco Hubert Jedin. Ma la ‘conciliazione’ nel mondo cristiano si rese impossibile, gli Stati europei per motivi politici «scelsero una confessione contro le altre per conformare i sudditi all’obbedienza» applicando a partire dalla Pace di Augusta del 1555 la norma del cuius regio, eius religio, per cui tutti erano obbligati a seguire la religione del proprio principe; poi tra Cinquecento e Seicento si precipitò nelle guerre di religione sfruttando – sempre per preponderanti questioni di potere – le divisioni religiose. Solo dopo la Guerra dei Trent’anni (che – come annota lo storico Paolo Mieli sul “Corriere della Sera” del 24 marzo 2016 – «fu in realtà una lotta per l’egemonia tra la monarchia dei Borbone e quella degli Asburgo») e la Pace di Vestfalia del 1648, le guerre tra cristiani ebbero termine e si aprì faticosamente l’epoca della tolleranza religiosa.

Dunque la lotta politica sfruttò la religione. Ai principi tedeschi – e poi anche ad altri principi europei – non piaceva che i propri sudditi fossero costretti a versare somme alla fin fine ingenti agli ecclesiastici cattolici (a vescovadi, conventi, papato romano) per acquistare indulgenze ‘vendute’ come passaporti di salvezza dell’anima grazie alla creazione del Purgatorio: un passaggio penitenziale inventato a partire dal XII secolo per accrescere il potere di intermediazione della Chiesa e dei prelati, un sistema, quello ‘purgatoriale’, che lo storico Jacques Le Goff definirà piuttosto come ‘infernale’ nella sua opera La nascita del Purgatorio.

Lutero ebbe buon gioco a sostenere che questo «terzo luogo» non figurava nella Scrittura, e da qui partì ad elaborare il suo trattato sul De servo arbitrio per contestare che con le opere buone, caritatevoli e religiose – e quindi anche con le offerte in denaro alla Chiesa – si potesse acquisire la salvezza. Per il teologo tedesco quest’ultima non era assolutamente raggiungibile attraverso il contributo della libera azione umana (come sostenuto da Erasmo da Rotterdam nel suo De libero arbitrio) ma poteva essere ottenuta solo per fede «che è una grazia gratuita, resa possibile dal sacrificio di Cristo».

In quanto alle opere umane, esse non avrebbero mai potuto «avvicinare l’uomo alla grazia divina, poiché la malvagità è insita nell’essere umano»: semmai – spiega il filosofo Mario Miegge – «il senso religioso» che molti gruppi protestanti (soprattutto i calvinisti) diedero al successo ottenuto con il lavoro umano, poteva essere «segno della elezione e della grazia» accordata unilateralmente da Dio a determinate persone rientranti nel «numero degli eletti». Dunque solo la misericordia di Dio può salvarci ed essa non può essere amministrata da intermediazioni umane, in quanto la ragione dell’uomo – servo del peccato originale – è completamente cieca. Un passaggio arditamente avvilente – pur suffragato da precisi rimandi a S. Paolo e S. Agostino – se non pensassimo che grazie a questa credo si faceva venir  meno la ragion d’essere della Chiesa e della struttura ecclesiastica quale ‘ponte’ tra l’uomo e Dio: ognuno poteva essere prete di se stesso, affidandosi direttamente alla Scrittura, non servivano tanti apparati, papi e indulgenze; quanto ai sacerdoti, essi non erano niente di più di persone che coadiuvano i fedeli, per cui potevano vivere come tutti gli altri uomini e anche sposarsi. In ogni luogo dove attecchì la riforma antipapista si poteva quindi passare all’incasso, incamerando – nei forzieri dei principi – i beni ecclesiastici cattolici, dalla Germania luterana, alla Svizzera calvinista, all’Inghilterra anglicana, con contromosse cattoliche altrettanto invasive. Per questa ingordigia di potere, si insanguinò l’Europa ma le effettive distinzione teologiche tra le confessioni cristiane restarono sottili: per le Tesi che Lutero la salvezza era giustificata solo per fede; secondo il Concilio di Trento (1545-1563) per la fede e… per le opere: ma in questa relativa distinzione si inserì mano a mano un solco sempre più profondo fino a considerarsi rispettivamente fra cristiani separati come i peggiori irriducibili nemici.

Per il resto, all’unisono o quasi, tutte le confessioni cristiane non si risparmiarono contro i dissenzienti interni o attigui al proprio campo: nel fronte cattolico, ricordiamo le persecuzioni di Galileo, Campanella e Giordano Bruno; Lutero, «rivoluzionario e conservatore al tempo stesso», si distinse nella difesa dei poteri costituiti condannando la rivolta dei contadini guidata «dal suo antico seguace Thomas Müntzer, contro cui scrisse nel 1525 uno del libelli più violenti, Contro le orde ladre e assassine dei contadini» (per non parlare della sua collera antisemita che condensò  nel «furioso opuscolo» Degli ebrei e delle loro menzogne); non fu da meno l’algido Calvino che fece di Ginevra «un faro dell’intolleranza», tetramente illuminata dai bagliori del rogo del medico e riformatore religioso Michele Servèto. Arriverà finalmente nel Seicento la laica Riforma scientifica a proporre una «interpretazione matematica del Creato», coprendo con il velo della tolleranza le contese teologiche.

Nicola Zoller

Da - http://www.avantionline.it/2017/10/lutero-cinquecento-anni-fa-quando-la-lotta-politica-sfrutto-la-religione/#.WfhYhGjWyUk
Pagine: 1 ... 282 283 [284] 285 286 ... 529
Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!