LA-U dell'OLIVO
Aprile 26, 2024, 07:13:35 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
  Home Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
  Visualizza messaggi
Pagine: 1 ... 256 257 [258] 259 260 ... 529
3856  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Antonella De Gregorio. Cuneo, gli industriali ai giovani: «Se volete lavorare... inserito:: Febbraio 04, 2018, 10:48:23 pm
CONFINDUSTRIA

Cuneo, gli industriali ai giovani: «Se volete lavorare non studiate troppo»

È polemica dopo la lettera aperta del presidente degli industriali di Cuneo alle famiglie in vista dell’iscrizione dei figli alle Superiori: «A noi servono operai»

Di Antonella De Gregorio

Altro che astrofisici e glottologi. Ragazzi, «studiate» da operai. Niente università, niente liceo, per carità: percorsi di studio che alla fine, oltre al «pezzo di carta» e al titolo di «dottore», vi daranno poco o nulla. Se volete trovare lavoro, puntate su mestieri sicuri: operai specializzati, tecnici esperti nei servizi alle aziende, addetti agli impianti e ai macchinari. Il consiglio «orientativo» arriva ai ragazzi nientemeno che da Confindustria. È stato Mauro Gola, presidente della sezione di Cuneo dell’associazione degli industriali, a scrivere nei giorni scorsi una lettera aperta ai genitori che in queste ore sono alle prese con le iscrizioni dei propri figli alle scuole superiori. Suscitando polemiche a livello nazionale. La scelta giusta, suggerisce Confindustria ai ragazzi che stanno cercando di capire che cosa faranno, chi saranno da «grandi», non può essere frutto di voli pindarici che «danno più importanza ad aspetti emotivi e ideali piuttosto che all’esame obiettivo della realtà». Inutile seguire sogni e passioni.

IL MINISTRO POLETTI: MANDARE IL CURRICULUM NON SERVE, MEGLIO GIOCARE A CALCETTO di Claudia Voltattorni

Le professioni richieste
«Qualsiasi percorso scolastico individuerete, avrete fatto una buona scelta» - concede il presidente Gola -; ma, aggiunge, «è nostro dovere, come imprenditori, segnalarvi le esigenze delle nostre imprese». Meglio affrontare la realtà, quindi, «che si imporrà in tutta la sua crudezza negli anni in cui il vostro ragazzo cercherà lavoro ed incontrerà le difficoltà che purtroppo toccano i giovani che vogliono inserirsi nel mondo produttivo». Nel messaggio alle famiglie, ci sono anche i numeri: «Nel 2017 le aziende cuneesi nel loro complesso, hanno manifestato l’intenzione di inserire circa 40.000 nuovi lavoratori. Di questi, il 38% sono addetti agli impianti e ai macchinari, il 36% operai specializzati, il 30% tecnici specializzati (con evidente confusione di cifre: la somma dei tre dati supera il 100%, ndr). Queste sono le persone che troveranno subito lavoro una volta terminato il periodo di studi, di cui le nostre imprese hanno estremo bisogno e che spesso faticano a reperire». Professionalità, e richieste, precise. Le discipline umanistiche, le scuole d’arte, non vi rientrano. Ragazzi (e famiglie) sono avvertiti, con buona pace delle passioni e delle inclinazioni dei ragazzi.

ITALIA: POCHI LAUREATI, MAL PREPARATI E BISTRATTATI

Manager senza titolo
Gola (un figlio che frequenta il liceo Scientifico), ha poi precisato di non aver mai detto che i ragazzi non debbano andare al liceo e poi all’università. Ma, come ha scritto nella lettera, «riteniamo che la cosa più giusta da fare sia capire quali sono le figure che le nostre aziende hanno intenzione di assumere nei prossimi anni e intraprendere un percorso di studi che sbocchi in quel tipo di professionalità». E anche se il consiglio è mosso da «senso di responsabilità nei confronti dei nostri figli e del benessere sociale e del nostro territorio», come scrive l’autore del messaggio, non è certo risolutivo di uno dei principali difetti delle imprese italiane, guidate (fonte Almalaurea, ndr) da manager che per il 75% non sono laureati (50% in Germania). Anzi, per il 28%, non hanno titoli di studio che vadano oltre la scuola dell’obbligo. Non spingere i giovani a superare questo limite suona un po’ «di parte». E, soprattutto, rischia di condizionare in negativo le loro prospettive di lavoro per i prossimi lunghi anni.

«Meglio Gramsci»
Innumerevoli, in rete, le reazioni. A rappresentarle tutte basterebbe il tweet di @CarmineTomeo: « In un mondo di #precarietà ci dicono di studiare per un #lavoro, ma non per emancipazione sociale. Per #Confindustria si deve studiare per diventate operai o rischiare la #disoccupazione. Preferiamo #Gramsci: “Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”», scrive. Mentre qualcuno ricorda il suggerimento di Flavio Briatore in un intervento all’università Bocconi di Milano: «Fate un lavoro normale, magari apritevi una pizzeria. Così se fallisce almeno vi mangiate una pizza. Se fallisce la start up non vi rimane neppure quello».

Fake news
Quella che i laureati non trovino lavoro, però, sembra una «fake news», a leggere le analisi di Almalaurea. Che nell’ultimo rapporto ha spiegato i vantaggi occupazionali dei laureati rispetto ai diplomati: il tasso di occupazione della fascia d’età 20-64 è il 78% tra i laureati, contro il 65% di chi è in possesso di un diploma. Inoltre, nel 2012 un laureato guadagnava il 42% in più rispetto ad un diplomato di scuola secondaria superiore. Certo, il premio salariale della laurea rispetto al diploma, in Italia, non è elevato come in altri Paesi europei (+52% per l’Ue22, +58% per la Germania e +48% per la Gran Bretagna), ma è comunque significativo e simile a quello rilevato in Francia (+41%).

30 gennaio 2018 (modifica il 30 gennaio 2018 | 15:36)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/scuola/secondaria/18_gennaio_30/confindustria-ragazzi-se-volete-lavorare-non-studiate-polemica-44568774-05b1-11e8-b2bd-b642cbae90d8.shtml
3857  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Lorenzo Sassoli de Bianchi (Upa): anche sul web vincerà la qualità inserito:: Febbraio 04, 2018, 09:06:45 pm
INTERVISTA

Lorenzo Sassoli de Bianchi (Upa): anche sul web vincerà la qualità

Di Luca Orlando 31 gennaio 2018

Il nemico è l’incertezza. Quella politica. Che in Italia, come peraltro ovunque nel mondo, rallenta o congela le scelte di investimento alla vigilia di una tornata elettorale. Ma anche quella “tecnica”, legata alla struttura del web, che impedisce spesso una visibilità chiara e trasparente degli esiti delle strategie di comunicazione.

Eppure, nonostante tutto, Lorenzo Sassoli de Bianchi guarda con fiducia all’anno in corso, visto dal presidente di Upa (Utenti pubblicità associati) ancora in crescita, così come in progresso sono stati i tre anni precedenti. A sostenere il mercato - spiega - è anche la scelta del governo di varare il credito di imposta sugli investimenti incrementali in pubblicità, permettendo alle aziende di recuperare il 75% dell’esborso. «Proposta che abbiamo elaborato e avanzato insieme a Fieg - spiega - e che il governo ha recepito. Il ritorno per l’investitore è particolarmente vantaggioso e mi aspetto che sul mercato questo intervento produca effetti positivi: anche se per l’attuazione operativa manca ancora qualche dettaglio, vedo tra gli associati un ritrovato interesse, anche per la stampa». Prodotti cartacei certamente meno congeniali ai più giovani e che tuttavia per Sassoli de Bianchi possono agire in sinergia con il web, puntando sull’approfondimento e offrendo un servizio aggiuntivo rispetto alle breaking news in tempo reale.

«Il ruolo del giornalismo serio resta vitale - spiega -, direi irrinunciabile. Le nostre indagini tra i fruitori dei mezzi evidenziano la grande domanda di autorevolezza, di un racconto in prima persona di ciò che si vede e si conosce, di inquadramento delle notizie all’interno di un contesto articolato, in modo da offrire un valore aggiunto rispetto a ciò che si trova sul web».

Un mondo dai due volti, quello di internet. Strumento che da un lato ha avvicinato interi Paesi e classi sociali in tutto il mondo a informazioni prima inaccessibili, e d’altro canto caratterizzato da scarsa trasparenza e mancanza di punti di riferimento certi in termini di responsabilità. Un primo tema riguarda le fake news, notizie non verificabili rimbalzate e amplificate sui social network, in grado di avere un impatto anche su temi chiave, come elezioni nazionali o referendum epocali, come quello su Brexit. Altro nodo è quello della scarsa trasparenza dell’intera filiera, che separa investitore pubblicitario ed editore finale attraverso una serie di passaggi non del tutto tracciabili, con esiti imprevedibili nonostante l’acquisto iniziale di uno spazio correttamente profilato. «Tema per nulla marginale se guardiamo ai volumi in campo - spiega - perché ormai i player over the top, non regolamentati, intermediano volumi giganteschi, rispetto a editori sottoposti alle regole».

Effetti indesiderati che nella forma più blanda possono concretizzarsi nella visualizzazione all’interno della stessa pagina web della pubblicità di due prodotti concorrenti, ad esempio due auto. O indurre l’utente ad attivare l’ad block in presenza di un affollamento eccessivo. Ma che possono finire per proiettare il brand verso destinazioni del tutto indesiderate, ad esempio siti pedo-pornografici.

«Il web è un mare magnum - scandisce - ed è un mondo che dobbiamo governare: perché non vogliamo fare pubblicità dove manca chiarezza e dove non c’è qualità di informazione. Mi pare che questa percezione stia “passando”, e che l’azione congiunta di Upa, Fieg, dell’autorità di controllo e dello stesso Governo stia producendo risultati concreti, aumentando la consapevolezza dell’importanza del ruolo dei giornalisti».

La misurazione chiara e inequivoca delle performance del proprio investimento è un primo obiettivo chiave per gli investitori sul web, tema che il Gruppo 24 Ore affronta affidandosi a un ente terzo, (Ias, Integral Ad Science) per certificare e garantire i risultati dei principali indicatori monitorati dal mercato (Kpi), come visibilità, affollamento in pagina, brand image e ad fraud.

Un modo per riaffermare la responsabilità verso il lettore, sempre più inondato di messaggi, dirottato spesso verso siti del tutto indesiderati.

«Una scelta - aggiunge Sassoli de Bianchi - che va nella direzione auspicata dal nostro Libro Bianco e che in Italia vi pone all’avanguardia, così come positiva e per nulla frequente è la certificazione oggettiva dall’esterno, da parte di un ente terzo. È una decisione che valutiamo con grande interesse, è importante che a fare da apripista su questi temi sia il giornale più sensibile ai temi economici del Paese».

Paese che in generale risolleva la testa dal lato dell’export, dei consumi e degli investimenti, permettendo a Upa di inquadrare anche per l’anno in corso un progresso di almeno un punto percentuale per le pianificazioni sui vari media. Guadagno modesto, che tuttavia deve tenere conto di due variabili “depressive”, come la mancata partecipazione dell’Italia ai Mondiali di calcio in Russia (impatto stimato in un punto di crescita mancata per gli investimenti) e l’imminente tornata elettorale.

«Per i media sportivi l’addio dell’Italia è un danno certamente superiore - spiega - e del resto l’aggiudicazione dei diritti a un valore pari a un quinto del normale già dice molto dell’appeal pubblicitario ridotto. Quanto alle elezioni, è chiaro che da qui al voto affronteremo un periodo di incertezza. Che non è mai elemento positivo, è in effetti il “nemico” degli investimenti pubblicitari». Ma a dispetto della turbolenza di breve periodo Sassoli de Bianchi resta fiducioso, guardando a un Paese ai primi posti al mondo per ricchezza prodotta, con una grande massa di risparmi privati non investiti, enormi potenzialità inespresse ad esempio nell’e-commerce. «E anche per i media - conclude - vedo una traversata del deserto quasi completata. Per gli editori credo che lo sviluppo digitale sia l’unica strada possibile ma a vincere sarà sempre la qualità. Anche perché noi, quelli che investono, ai consumatori vendiamo anzitutto responsabilità».

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-01-30/lorenzo-sassoli-de-bianchi-upa-anche-web-vincera-qualita-214815.shtml?uuid=AEWCBWrD
3858  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Anche la parte migliore di una certa elite, impone alla massa, sue convinzioni.. inserito:: Febbraio 04, 2018, 09:03:36 pm
Anche la parte migliore di una certa elite, impone alla massa, sue convinzioni ancora da valutare.

Molto esteso l'effetto 68, ma una gran parte della popolazione non l'ha partecipato e in seguito l'ha codificato come un mondo permissivo, riguardo al sesso, notandolo come aumento dei tossici (anche di valore), scoprendolo come l'inizio dei disordini sociali e in fondo del terrorismo.

Dacia Maraini ha ragione, fu una grande rivoluzione ma anche la dimostrazione che il progresso sociale non si ha con le rivoluzioni. Più libertà di consumare e consumarsi di più e male, non ha migliorato la civiltà nel vivere sociale di oggi. Anzi!

ggiannig
3859  Forum Pubblico / AUTORI - Firme scelte da Admin. / EMILIANO FITTIPALDI. Perché Matteo Renzi è il più odiato d'Italia. inserito:: Febbraio 04, 2018, 09:01:36 pm
ANALISI

Perché Matteo Renzi è il più odiato d'Italia
Aveva promesso la rivoluzione.
E invece hanno prevalso i vecchi metodi: raccomandazioni, conflitti d'interesse, rapporti con i poteri forti.
Così l'ex golden boy affonda nei sondaggi. Insieme al Pd. Diagnosi di una parabola

DI EMILIANO FITTIPALDI
30 gennaio 2018

Quando Matteo Renzi ha mostrato alle telecamere di Matrix l’estratto conto da 15.859 euro per dimostrare che non si è arricchito durante il premierato, alcuni suoi collaboratori si sono messi le mani davanti agli occhi. «Non sono un traffichino», ha aggiunto il segretario del Pd sventolando i fogli. «Se vuoi fare soldi vai nelle banche d’affari, non fai politica».

L’excusatio non petita ha mostrato con chiarezza, a poco più di un mese dalle elezioni del 4 marzo, qual è il timore maggiore di Renzi: quello di essere ormai percepito da una fetta crescente dell’opinione pubblica come un “traffichino” appunto, il capo di una banda intenta, più che a governare il Paese, a curare i propri interessi e quelli degli amici degli amici. E così, nonostante le precisazioni e i distinguo, se negli ultimi rilevamenti il partito è precipitato intorno a un terrificante 22 per cento (ben sotto la quota della non-vittoria che nel 2013 costò a Pier Luigi Bersani la poltrona al Nazareno), anche il consenso personale di Renzi è sceso a un misero 23 per cento. E il sondaggista Nicola Piepoli sostiene che oltre due terzi degli italiani non lo vogliono vedere neanche dipinto.

Matteo è diventato in pochi mesi il leader politico meno amato d’Italia, dietro pure a Salvini e a Di Maio, più odiato persino del pregiudicato e redivivo Silvio Berlusconi. Dato ancor più significativo se confrontato con quello del premier Paolo Gentiloni che, pur a capo di un governo identico a quello di Renzi, oggi gode dall’alto di un gradimento del 100 per cento più alto rispetto a quello del suo segretario.

Risalire la china non sarà facile. Perché le promesse e gli elenchi delle cose fatte (che pure non sono poche) non sembrano scalfire il convincimento negativo dell’elettorato. Nell’ultimo mese la “questione renziana” è sbucata fuori un giorno sì e un giorno anche. Prima con l’audizione dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni dello scorso 20 dicembre su Banca Etruria. Poi per colpa di un’imbarazzante mail al banchiere da parte dell’amico fraterno di Matteo Marco Carrai. Infine con la pubblicazione di un’intercettazione di Carlo De Benedetti (presidente onorario del Gruppo Gedi, di cui L’Espresso fa parte), in cui Renzi sembrava agevolare gli investimenti - la procura di Roma ha già chiesto l’archiviazione - di un editore di primissimo piano.
«I renziani sono supini alle lobby e all’establishment», cantano in coro le opposizioni e gli antipatizzanti sui social. L’ansia, al Nazareno, è aumentata a dismisura dopo l’analisi approfondita degli ultimi trend sui collegi uninominali: il Pd rischia di venire massacrato al Nord dalla destra e al Sud dai grillini.

Renzi aveva promesso rottamazione e «l'arrivo dei migliori». Invece nelle Spa pubbliche ha nominato raccomandati di ferro, amici senza curriculum, manager privi di laurea. Spuntano anche i rapporti tra il nuovo presidente della Cassa Depositi e Prestiti con Luigi Bisignani. E l'incarico a uno dei finanziatori della fondazione del premier
Solo Toscana ed Emilia (e il listino proporzionale bloccato) garantiranno un posto al sole nel prossimo Parlamento. Nella guerra civile per le candidature tra correnti nel Pd, per il segretario piazzare i suoi non è stato affatto un’operazione semplice: fino all’ultimo Luca Lotti e altri fedelissimi (come Giuliano Da Empoli, l’economista Tommaso Nannicini, il tesoriere Francesco Bonifazi, i parlamentari Ernesto Carbone e Gennaro Migliore) hanno ballato tra un collegio sicuro e i listini bloccati. E soprattutto il destino di una big come Maria Elena Boschi, la preferita di Matteo, è stato a lungo incerto. La vicenda Etruria l’ha costretta a girovagare tra la Toscana, Ercolano (che è un collegio amico) e l’Alto Adige. «Il problema», sospirano dal Pd, «è che non la vuole nessuno. Con lei in lista si perdono un sacco di voti».

Cos’è dunque successo al giovin rottamatore che meno di quattro anni fa portava il Pd a superare il 40 per cento alle europee e da meno di un anno trionfatore delle primarie? Come mai i successi indiscutibili sui diritti civili e la ripresa economica certificata dall’Istat e dall’Ocse non hanno fatto breccia nell’opinione pubblica, nemmeno tra chi ha sempre votato centrosinistra? Com’è possibile che persino il decreto sui sacchetti biodegradabili a pagamento abbia generato tonnellate di indignazione popolare contro il segretario dem, costretto a difendersi per giorni dalla fake news secondo cui la decisione sarebbe stata presa «per favorire una produttrice di bioplastiche cugina di Renzi»?

L’origine dello scontento anti-Matteo ha radici profonde. E poggia sulla sfilza di errori imputabili alla sua leadership. Che ha deluso non solo Sergio Marchionne, ma anche tanti altri supporter stanchi dello spread crescente tra le parole e i fatti.

L’ex sindaco fiorentino aveva conquistato prima il Pd e poi i palazzi romani con la promessa di una rivoluzione radicale, di una rottamazione non solo degli anziani leader del partito ma anche dei vecchi metodi della politica italiana. «Metteremo sulle poltrone di comando i più bravi in modo da far ripartire il paese. L’Italia con me sarà un posto dove trovi lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno!», s’impegnò Renzi nel 2012. E poi: «La meritocrazia è l’unica medicina per la politica, per l’impresa, per la ricerca, per la pubblica amministrazione. Gli amici degli amici se ne faranno una ragione», proclamò nel 2014, appena scippata la poltrona ad Enrico Letta.
Ma, evidenze alla mano, il toscano il rinnovamento non l’ha mai davvero realizzato. Al contrario. Invece di basarsi sul merito ha selezionato la nuova classe dirigente del partito e della sua amministrazione con i soliti metodi. Fondati sulla cooptazione, sulle relazioni personali e amicali, sulle spartizioni partitocratiche e la mediazione - ça va sans dire - con gli immarcescibili potentati.

Non solo Tiziano Renzi, papà dell’ex premier, e il fedele Luca Lotti. C’è anche Denis Verdini nel sodalizio di pressioni e ricatti che puntava agli appalti di Stato
Appena arrivato al vertice, Renzi ha in primis occupato molte poltrone con leopoldini, fiorentini e vecchi sodali. La lista è lunghissima, possiamo solo riassumerla: l’amico tributarista Ernesto Ruffini è diventato prima ad di Equitalia e poi, qualche mese fa, numero uno dell’Agenzia delle Entrate. Marco Seracini, commercialista di Matteo, già revisore del comune di Rignano e presidente del collegio sindacale della Leopolda, è stato preso nel collegio sindacale dell’Eni. Lapo Pistelli è stato mandato alla vicepresidenza del colosso energetico mentre era viceministro degli Esteri. Il coordinatore della campagna delle primarie del 2012, l’ingegnere elettrotecnico Roberto Reggi, piazzato inizialmente come sottosegretario all’Istruzione, è stato poi deviato all’agenzia del Demanio, dove non si occupa né di scuola né di elettronica, ma di patrimonio immobiliare. Ma il suo stipendio è lievitato a 240 mila euro l’anno.

Anche nei palazzi romani la strategia è stata identica: invece del merito, Renzi ha prediletto il rapporto personale. Giovanni Palumbo, ad esempio, è stato assunto nella segreteria tecnica. Seguiva Renzi dai tempi della Provincia di Firenze, quando era stato chiamato dal suo capo senza avere i titoli necessari (cioè una laurea). Anche Antonella Manzione è stata prelevata, a 207 mila euro l’anno, dal gruppo dei compagni toscani: ex capo dei vigili urbani di Firenze, autrice del romanzo “Martina va alla guerra” e seminarista sul tema “Disturbo della quiete pubblica”, Matteo ha voluto lei, e solo lei, nel delicatissimo ruolo di capo del dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio. Non c’era nessun altro in grado di affrontare decreti e provvedimenti di legge? Pare di no. Prima di andar via da Palazzo Chigi nel dicembre 2016, Renzi le ha fatto l’ultimo regalo, nominandola consigliere di Stato.

Un paracadute che Maria Elena Boschi ha offerto anche al suo collaboratore (indubbiamente preparato, ma sconfitto con lei nella battaglia referendaria), il segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti. Una nomina prestigiosa e remunerativa che, secondo accuse recenti del M5S, potrebbe ora ottenere anche un’altra strettissima collaboratrice di Boschi, il dirigente del dipartimento per le Riforme Carla Ciuffetti.
Delle polemiche politiche il capo del Pd se n’è sempre infischiato. Spiegando che “così fan tutti”, e che lui sceglieva «sempre tra i più bravi». Il leader però ha sottovalutato l’impatto mediatico di promozioni discutibili, come quella del suo spin doctor personale Guelfo Guelfi a membro del cda Rai. O come quella di Gabriele Beni, produttore di scarpe e soprattutto finanziatore della fondazione renziana Open con 45 mila euro, diventato vicepresidente di Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare controllato dal ministro piddino Maurizio Martina.

Tutti gli affari dell’avvocato di Renzi
Sconosciuto e riservato, Alberto Bianchi è diventato uno degli uomini più potenti d'Italia. Ecco le sue consulenze da centinaia di migliaia di euro con aziende pubbliche controllate dal governo
Ma ad aver causato i danni politici e d’immagine più gravi sono state proprio le mosse dei membri di Open, cuore del potere renziano. Dove siedono Boschi, Lotti e Carrai. Oltre al presidente, Alberto Bianchi, avvocato personale e consigliere di Renzi. Tutti originari della Toscana: tra Laterina, Empoli, Pistoia e Rignano sull’Arno. Tutti coinvolti in scandali politici e giudiziari. Tutti, nonostante tutto, ancora oggi tenacemente difesi da Matteo.

Boschi, anche se non è mai stata indagata, è colei che ha creato maggior imbarazzo al partito e contribuito in modo determinante al buco nero nel consenso. Per gli osservatori le sue responsabilità sono due. Da un lato la disastrosa sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016 (il ministro per le Riforme, architetta del riordino costituzionale bocciato dagli italiani, invece di uscire di scena come aveva giurato è stata addirittura promossa nel nuovo governo Gentiloni). Dall’altro, Boschi e Renzi pagano il comportamento della ministra durante la crisi di Banca Etruria.

E le ultime settimane, a causa delle clamorose audizioni alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche voluta dallo stesso Pd, sono state fatali. Gli italiani già sapevano che il padre della Boschi era indagato e che quando era vicepresidente dell’istituto usava frequentare massoni e faccendieri come Flavio Carboni per chiedere consigli e pareri. Ma - come accennato sopra - lo scorso 20 dicembre hanno avuto anche conferma definitiva dall’ex amministratore di Unicredit Federico Ghizzoni che Maria Elena le aveva davvero chiesto di «valutare, nel 2014, l’acquisizione o un intervento su Banca Etruria». Esattamente come aveva scritto Ferruccio De Bortoli lo scorso maggio, notizia smentita da Maria Elena con forza e sprezzo. «La richiesta avvenne durante un colloquio cordiale», ha aggiunto Ghizzoni, «non avvertii pressioni da parte della Boschi». De Bortoli, però mai aveva parlato di «pressioni», ma solo dell’evidente conflitto di interessi di un ministro potente ma non competente (le banche sono questioni riguardanti il dicastero dell’Economia) di chiedere «una possibile acquisizione» dell’istituto tanto caro alla famiglia dell’allora ministra. Oltre al fatto in sé, è stata la gestione mediatica della vicenda a lasciare sbigottiti pezzi del partito e del popolo della sinistra: la Boschi, evidenze alla mano, sembra infatti aver pubblicamente mentito. O, quanto meno, sembra essere stata reticente. La volontà di Renzi di proteggerla ad ogni costo, prima impuntandosi per la sua promozione nel governo Gentiloni poi ricandidandola alle politiche, non sembra aiutare il recupero del consenso smarrito. E neppure candidare nel centrosinistra il capo della commissione banche, l’ex alleato di Berlusconi Pier Ferdinando Casini, è sembrata un’idea geniale.

Anche il rapporto personale con Marco Carrai ha creato più di un problema al segretario. Sponsorizzato a fine nel 2015 dall’ex premier per un incarico a Palazzo Chigi come responsabile della cyber sicurezza, s’è presto scoperto che “Marchino” qualche mese prima aveva fondato la Cys4. Una spa che avrebbe potuto mirare ai futuri appalti banditi dal governo dopo la creazione del nucleo per la sicurezza cibernetica.
Il trasferimento di Carrai a Roma è stato così stoppato dalle polemiche sui conflitti di interessi. Ma l’amico ventennale è tornato sulle prime pagine dei giornali un mese fa, quando Ghizzoni ha rivelato che anche lui, attraverso una email, aveva chiesto delucidazioni su Etruria. «Ciao Federico», aveva scritto l’imprenditore nel gennaio 2015, «solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti, se possibile e nel rispetto dei ruoli, per una risposta». A che titolo il renziano “sollecitava” l’ad di Unicredit? «Ero solo consulente di un cliente privato interessato a Banca Del Vecchio, controllata da Etruria», s’è giustificato Carrai, «Renzi non sapeva niente, e se in quella banca c’era il padre della Boschi a me non interessava nulla. Non sono un politico e non appartengo a nessun partito. Non mi cibo di questi banchetti mediatici».

Sarà. Ma se Carrai sembra spesso dimenticare di essere seduto nel board dell’ente che raccoglie denaro per Renzi e la Leopolda, qualcuno ha pure notato, forse con malizia, che le aziende dell’imprenditore di Greve in Chianti abbiano preso il volo proprio durante l’ascesa politica di Renzi. In primis la Cmc Labs, società che tra il 2013 e il 2015 ha in effetti quadruplicato il fatturato e aumentato l’utile di 30 volte.

Tra i business del 2015, come risulta a L’Espresso, spunta anche un affare tra un’altra azienda di Carrai e di suo fratello Stefano, la Cgnal spa, e l’Unicredit di Ghizzoni. A febbraio di quell’anno, qualche settimana dopo aver mandato la mail su Etruria, la banca milanese firmò con la spa di Marchino una ricca commessa per “profilare” al meglio i big data dei clienti dell’istituto. La collaborazione tra Ghizzoni e l’amico dell’allora premier è durata solo otto mesi, e non fu rinnovata. Anche perché Unicredit è proprietaria al 100 per cento di Ubis, una delle più grandi realtà europee di information management: non si capisce come mai Ghizzoni abbia affidato un contratto alla piccola società di Carrai, nata appena due mesi prima.

La sensazione di parte dell’elettorato è che Renzi e parte del Giglio magico abbiano dunque creato a Palazzo Chigi, come ai tempi di D’Alema e dei capitani coraggiosi di Roberto Colaninno, una specie di merchant bank: che forse parla anche un po’ d’inglese, ma con un forte accento fiorentino. Una percezione forse eccessiva, ma che di certo si è diffusa anche per colpa delle scelte di Matteo. Se ogni politico ha il diritto di chiamare al suo fianco uomini fidati, Renzi ha scelto troppo spesso non tra i più capaci d’Italia, come ha sottolineato Ezio Mauro su Repubblica, ma «tra i più bravi di Rignano». La speranza di proteggere la sua leadership attraverso una rete di fedelissimi s’è così trasformata in un groviglio di relazioni, in cui ora la sua leadership rischia di rimanere impiccata.

Il caso Consip ha cementato questa impressione diffusa: al netto delle gravissime accuse che la procura rivolge ai carabinieri del Noe sui falsi fabbricati ad hoc per incastrare il babbo di Matteo, il manager - anche lui toscano - Luigi Marroni (chiamato dal governo Renzi a guidare la stazione appaltante dello Stato) ha parlato ai pm di «pressioni e ricatti» da parte di Tiziano Renzi e del suo sodale Carlo Russo. Obiettivo: condizionare l’assegnazione di alcune ricchissime commesse pubbliche. I pm romani hanno iscritto l’illustre parente per traffico di influenze illecite. E anche Lotti, l’altro “fratello gemello” di Matteo, è indagato nella stessa inchiesta: l’accusa dei magistrati è quella di aver rivelato l’esistenza dell’inchiesta allo stesso Marroni, complicando il lavoro degli inquirenti.

La Consip non ha portato fortuna nemmeno al presidente di Open, l’avvocato Alberto Bianchi (piazzato anche nel cda dell’Enel): L’Espresso ha scoperto che ha ottenuto dalla società pubblica consulenze per quasi 350 mila euro.

«Addosso a me pm e giornalisti possono indagare all’infinito, non mi troveranno attaccato nemmeno un centesimo», ribadisce Renzi, che si sente ingiustamente accerchiato. Eppure, ai più sembra che le congreghe amicali e familistiche interessate al potere, agli appalti e al denaro e non al bene del Paese abbiano davvero azzoppato una carriera politica che aveva il vento in poppa. Alle critiche il segretario resta allergico. E nemmeno di fronte al rischio imminente di un disastro elettorale sembra voler cambiare passo.
© Riproduzione riservata 30 gennaio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/01/25/news/perche-matteo-renzi-e-il-piu-odiato-d-italia-1.317543?ref=RHRR-BE
3860  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Dipendenti e benessere: in azienda arriva il Direttore della felicità. inserito:: Febbraio 04, 2018, 08:59:22 pm
Dipendenti e benessere: in azienda arriva il Direttore della felicità
Prende piede una nuova figura, studiata per non far scappare i migliori talenti: "Il suo compito è curare i lavoratori, interpretarne i bisogni, fare in modo che ognuno di loro sia soddisfatto del posto dove lavora"

Di BARBARA ARDU'
01 febbraio 2018

ROMA - Gente brava a lavorare con programmi informatici, data base e quant'altro gira intorno alle nuove tecnologie, se ne trova poca. Trovarla è già un successo per le imprese, ma trattenerla è un passo ancora più difficile, fino a diventare complicato se si tratta di Millennials, che a differenza dei padri se sono qualificati, non si accontentano solo di una buona retribuzione e prendono la fuga verso lidi più attraenti, tanto sanno che il posto garantito a vita non ce l'hanno più.

E' nata così una nuova figura professionale, che in Italia sta facendo i primi passi e negli Usa ha già un nome, Chief happiness officer, che tradotto letteralmente altro non è che manager della felicità. D'altra parte la felicità o almeno la libertà di raggiungerla è nella stessa Costituzione Usa. E chi non vorrebbe vedere un manager della felicità aggirarsi tra i corridoi, magari grigi e tristi, dell'azienda in cui lavora. La domanda però è: ma che cosa farà mai per rendere felici i dipendenti? E' nello staff della direzione del personale e il suo compito è ottenere il benessere dei dipendenti, interpretarne i bisogni, fare in modo che ognuno di loro sia soddisfatto del posto dove lavora. "E' anche così che si trattengono i migliori talenti in azienda - spiega Francesca Contardi, managing director di EasyHunter - anche perché nel mondo dei colletti bianchi è iniziato il turnover e nelle grandi imprese, parliamo di quelle con circa 500 dipendenti, stanno iniziando a entrare il Millennials - e avere a bordo persone motivate e serene diminuisce l'assenteismo, favorisce la collaborazione tra i colleghi, migliorando così anche le performance dei singoli. E di conseguenza, dell'intera struttura".

Ciò che offre il manager delle felicità dunque non si conta in termini di vile di denaro, non si monetizza insomma, come avviene al contrario con i benefits, né fa parte propriamente di quei pacchetti di welfare che sempre più stanno entrando nelle imprese. "Il manager della felicità deve prima di tutto saper ascoltare, così da capire cosa desiderano i dipendenti - aggiunge Francesca Contardi - ma anche saper organizzare al meglio gli spazi di lavoro in relazione al fatto che i nuovi dipendenti e i trentenni in particolare, sono più attenti agli aspetti legati al benessere del corpo e del Pianeta. Pensi al cibo biologico, ma anche dell'ecologia in senso lato, spazi verdi, ambienti illuminati con luce più naturale possibile. Ci sono poi oggetti capaci di spezzare il tempo di lavoro in modo attivo, pensi a un calcio balilla vecchio stampo in un ufficio, a un servizio di lavanderia o a una palestra, anche minima, richiesta soprattutto dei maschi. E perché no un servizio di counseling, qualcuno con cui potersi confrontare liberamente". Negli Stati Uniti sembra stia funzionando. Ci sono ricerche che ne misurano anche la bontà. In Italia, al momento, alcune grandi aziende lo stanno chiedendo, ma siamo all'inizio.

C'è però tutto il settore pubblico e chissà se lì potrebbe funzionare. "Certo farebbe bene - sostiene Francesca Contardi - mi vengono in mente i grandi ospedali come il San Camillo a Roma o il Niguarda a Milano, luoghi di lavoro stressanti. Si vedrà". Di figure così oggi se ne trovano ancora poche, e a cercarle bisogna trovarle sempre tra chi ha lavorato nelle risorse umane, tra chi ha fatto selezione di personale e dunque ha già un po' la capacità di comprendere chi ha davanti. E anche gli psicologi sarebbero ottimi manager della felicità.     

© Riproduzione riservata 01 febbraio 2018

Da - http://www.repubblica.it/economia/miojob/2018/02/01/news/dipendenti_e_benessere_in_azienda_arriva_il_direttore_della_felicita_-187706183/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_01-02-2018
3861  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / 4 uomini più forti, più soli inserito:: Febbraio 04, 2018, 08:57:28 pm
IL BLOG
4 uomini più forti, più soli

 03/02/2018 10:39 CET | Aggiornato 3 ore fa

Dopo cinque anni di bla-bla sulla caduta di credibilità della politica e sul distacco fra cittadini e istituzioni, il numero degli aspiranti candidati presentatisi al soglio dei segretari di partito per essere nominati è stato (almeno per me) sorprendente. In particolare mi hanno sorpreso le richieste arrivate proprio dalle aree in cui la politica è stata più disprezzata in questi anni: i giornalisti, i giovani e i pentastellati - il cui assalto alla piattaforma ha mandato in tilt l'intero sistema.

Il clima da ultima spiaggia, tuttavia, non è casuale. Grazie a un mix unico di formule politiche – la combinazione fra maggioritario e proporzionale con listino bloccato (cioè senza preferenze, dunque in mano al leader) e la tendenza al partito personale – le liste sono servite a cambiare i rapporti di forza in ogni partito e fra tutti i partiti. Al punto da aver funzionato quasi come un primo turno.

La campagna elettorale partita poche settimane fa con una spinta coalizionale, si presenta infatti oggi come una sostanziale sfida fra quattro uomini, ognuno alla guida di una organizzazione a forte impronta "personale".

Una semplice osservazione di ciascuno dei raggruppamenti in campo chiarisce bene questo passaggio.

Matteo Renzi. Partiamo dal Pd, che come sempre in questi ultimi anni ha funzionato da partito leader delle sorprese e della trasformazione. Plateale il cambiamento delle carte in tavola: il segretario ha ridimensionato molti dei suoi ex ministri, e quasi tutti i dissidenti interni con cui pure si era accordato al momento della scissione dell'ala bersaniana. Il risultato è che sia la nuova organizzazione, sia i futuri gruppi parlamentari, sono a questo punto sotto il controllo del segretario, come è stato già ampiamente scritto. Quello che pare non sia stato ancora notato è che con questa svolta vengono meno anche le condizioni iniziali della campagna del Pd: la disparità fra il potere del segretario, in Parlamento e fuori, è a questo punto tale da ridurre drasticamente il ruolo di minoranze interne e di apporti esterni. La debolezza di +Europa di Emma Bonino e di Insieme, e sia pur all'esterno, di Liberi e Uguali, si è trasformata oggi in irrilevanza. Con buona pace di chi come Romano Prodi pensa ancora di poterne ricreare le condizioni, lo spirito coalizionale è fallito prima ancora di avviarsi. Il Pd è oggi in una condizione politica molto diversa da poche settimane fa, quando generosamente il segretario si poneva come il miglior sostenitore di Paolo Gentiloni futuro premier, e il più grande ammiratore di ministri del suo governo come Marco Minniti, Dario Franceschini, Carlo Calenda, additati come "simboli". È evidente che nel forno dei sacrifici per le liste è rimasta bruciata la tanto celebrata idea di una continuità del governo Gentiloni. Sempre che qualcuno vi abbia mai creduto.

Luigi Di Maio. Anche le liste pentastellate hanno bruciato il furore e l'idea di una forza politica in cui il cittadino conti più delle ambizioni individuali. La mancanza di trasparenza - qualunque ragione ne venga oggi fornita, privacy o non privacy - dei criteri con cui sono stati prima selezionati e poi riselezionati i candidati dei 5 Stelle, ha sottolineato una sola cosa: che le scelte del deus di questa machina hanno coinciso anche con la investitura di un uomo solo al comando, cioè Luigi Di Maio. La sua presa sulle liste ha sottolineato il più o meno silenzioso allargarsi dello spazio intorno al candidato premier: la separazione di Beppe Grillo e l'allontanarsi dell'ala più radicale. M5S non è una coalizione, ma ugualmente il diversificato e paritario gruppo che ne guidava il vertice fino a solo poche settimane fa in una forma che avremmo potuto considerare coalizionale interna, si è disfatto.

Matteo Salvini. Per essere un uomo molto rumoroso, il segretario della Lega ha ottenuto l'obiettivo di un suo controllo personale sulla sua organizzazione in maniera curiosamente accorta e quasi silenziosa. Anzi, potremmo avanzare l'ipotesi che la sua ingombrante presenza pubblica sia stata la perfetta copertura del cambiamento che ha attuato. Dopo molti mesi di tensioni, la battaglia interna alla Lega si è fatta intensa in queste ultime settimane. Le ricandidature sono state, non a caso, anche qui, ragione e mezzo di scontro. La non candidatura di Roberto Maroni è stata la materializzazione del conflitto, nonché la semplificazione della esistenza di due linee dentro la Lega e dentro la coalizione del centrodestra – con Maroni scelto come uomo dei moderati e Salvini indicato come leader dei populisti. Incompatibilità fra i due suggerita per altro dalle numerose pressioni delle elite del paese e dell'Europa. Salvini ha fatto fuori i maroniani senza nemmeno farsene accorgere più di tanto. Il suo capolavoro è stato quello di registrare un diverso stato legale per la Lega - mettendosi al riparo legalmente da "rapine" future, e al contempo diventandone il capo padrone. Anche lui dunque un uomo solo al comando. La coalizione con cui anche formalmente si era partiti a destra si è svuotata ancora prima di cominciare ad operare.

Silvio Berlusconi. Solo Silvio sembra si sia sprecato pochissimo in questa tornata delle liste. Ha infatti generosamente – anche se molto infastidito e affaticato dalle pressioni, raccontano – confermato tutti. È stato così generoso che, pare, Gianni Letta sia un po' risentito perché avrebbe dato troppo a chi non è di Forza Italia. Se fosse vero, sarebbe un esempio di generosità in un mare di leader che vogliono solo i propri uomini! D'altra parte Silvio è l'unico che non ha bisogno di combattere per formare un partito tutto per sè, dal momento che è una formula che ha inventato lui. E quel partito è letteralmente suo, cioè sostenuto dai suoi soldi e la sua azienda. La formulazione delle liste gli ha portato comunque un vantaggio: il suo scarso interventismo e la "generosità" hanno confermato il ruolo che Berlusconi intende giocare in queste elezioni: Silvio è oggi il moderato che tutti vogliono che sia, il vecchio sparviero diventato un pacato interlocutore del mondo politico italiano e internazionale.

La corsa elettorale, dopo questa sorta di primo turno, è ora nelle mani di 4 personaggi e 4 organizzazioni. Ma nessuno di loro però può vincere da solo. Ci troviamo di fronte dunque a quattro uomini che sono tutti più forti di prima, ma anche più isolati. Un elemento, questo, che introduce nel futuro delle alleanze necessarie dopo voto un gioco molto più imprevedibile e spregiudicato.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/piu-forti-piu-soli_a_23351048/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P7-S1.8-L
3862  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Luigi Dell’Olio Kilometro Rosso: come può essere utile alle imprese inserito:: Febbraio 04, 2018, 08:56:01 pm
Kilometro Rosso: come può essere utile alle imprese
29 gennaio 2018

Di Luigi Dell’Olio

Cinquanta aziende, 1600 ricercatori, 45 laboratori. Localizzato in un territorio tradizionalmente vocato alla manifattura, il parco tecnologico – fondato dal presidente di Brembo Alberto Bombassei – da quasi dieci anni offre servizi a valore aggiunto per R&S all’ insegna dell’open innovation
«Quello che grande industria, Pmi e centri di ricerca universitari possono fare se lavorano insieme è di gran lunga superiore alla somma delle singole capacità». Salvatore Majorana, direttore di Kilometro Rosso, spiega così il successo del parco scientifico tecnologico. Localizzato a breve distanza dall’aeroporto bergamasco di Orio al Serio è diventato un caso di studio a livello internazionale per la sua capacità di produrre conoscenza e innovazione partendo dal tessuto tradizionale di un territorio storicamente vocato alla manifattura. «Non dimentichiamo che la provincia di Bergamo è la seconda per valore aggiunto della produzione manifatturiera in Europa, dietro alla vicina Brescia. Le basi per far bene, sfruttando la leva delle tecnologie per sviluppare tutto il potenziale industriale, della componentistica e della ricerca ci sono tutte».

La chiave della prossimità
Il 47enne pronipote del fisico Ettore Majorana è alla guida della struttura dallo scorso autunno. A lui spetta il compito di guidare parco scientifico tecnologico verso il decennale, che si festeggerà nel 2019. «Kilometro Rosso (nome che deriva dalla lunghezza della struttura, ndr) è nata dall’intuizione di uno dei massimi esponenti dell’imprenditoria locale, quella troppo spesso si definisce “tradizionale”, racconta il direttore. Il riferimento è ad Alberto Bombassei, presidente della Brembo, leader mondiale della tecnologia degli impianti frenanti a disco per veicoli. Pochi anni dopo la fondazione del Parco, un’altra famiglia di industriali bergamaschi ha creduto nel progetto: i Pesenti di Italcementi, società poi rilevata da Heidelberg Cement Group, una realtà tedesca che – dopo l’acquisizione – ha confermato di voler mantenere nel distretto tecnologico tutta la ricerca, un riconoscimento dell’eccellenza raggiunta su questo versante.

Il Progetto Cobra
Due colossi, ma attivi in ambiti molto distanti tra loro, ai quali si è aggiunto l’istituto di ricerca farmacologica Mario Negri, che pur mantenendo l’Headquarters a Milano, ha concentrato in questo distretto l’attività di ricerca pre-clinica. «Mondi diversi, che hanno trovato un terreno comune di ricerca nel Progetto Cobra, finanziato dall’Unione europea, il cui obiettivo è disegnare il futuro dei freni delle nostre automobili affinché siano il più possibile performanti e riducano il più possibile le emissioni inquinanti».

A livello industriale questo ha comportato lo studio prima e la sperimentazione di una soluzione innovativa nel processo di produzione di pastiglie freno. «La novità principale è costituita dalla sostituzione in questo processo della resina fenolica, il componente organico fino ad oggi maggiormente utilizzato nella produzione di pastiglie, con un materiale innovativo a base cementizia, che assicura minori risorse impiegate nelle fasi di lavorazione, con significativi risparmi di energia e di acqua utilizzata», spiega Majorana. Il progetto di ricerca che durerà complessivamente quattro anni e vede impegnati una quarantina di ricercatori con know-how differenti rappresenta un esempio di come, a differenza di quel che si sostiene di solito, cioè che le nuove tecnologie abbattono le distanze, ci sia la possibilità di lavorare gomito a gomito, e soprattutto di collaborare partendo da posizioni differenti. Con una struttura a fare da collante per amplificare le possibilità di innovazione.

L’iniziativa
Kilometro Rosso è un progetto interamente privato che attualmente vede insediate una cinquantina di aziende, con oltre 1.600 ricercatori, tecnici e addetti, e 45 laboratori di ricerca. I progetti di ricerca e sviluppo che hanno beneficiato di finanziamenti (nazionali o europei) sono 21 per un valore di circa 80 milioni di euro. I brevetti depositati nel 2016 (ultimo consuntivo disponibile) ammontano a 48, e sono circa 10mila le persone, tra visitatori e delegazioni, che vengono ospitati ogni anno nel corso di incontri ad hoc e attraverso un centinaio di eventi organizzati e co-promossi. Detto dei numeri, qual è in concreto il ruolo svolto da Kilometro Rosso? «La nostra funzione è offrire servizi a valore aggiunto per aggregare imprese dalla forte propensione innovativa, istituzioni scientifiche e centri di ricerca», spiega Majorana.

Vince chi adotta il principio collaborativo
L’obiettivo, sottolinea l’esperto, è trovare terreni comuni di collaborazione. Ma le opportunità di ricerca non bastano se non sono supportate da un approccio costruttivo da parte di tutti. «Tradizionalmente siamo un Paese di piccole e medie imprese in concorrenza tra loro e orientate a diffidare l’una delle altre», sottolinea Majorana. «Questo modello non è più sostenibile nell’era dell’economia globale. Così, pur non rinunciando alle ridotte dimensioni, è indispensabile mettersi in gioco, condividere esperienze e proposte con chi lavora fianco a fianco per progettare soluzioni condivise capaci di affermarsi sul mercato».

In sintesi, il principio che anima la struttura è la cosiddetta Open Innovation: in un contesto globalizzato è opportuno condividere le attività di ricerca e innovazione per ottimizzarne i risultati e rimanere competitivi. Questo spiega i grandi investimenti sulle strutture (laboratori, uffici e spazi multifunzionali occupano circa 82mila metri quadrati) all’interno di una superficie fondiaria che sfiora i 40 ettari. La connessione è garantita da un anello in fibra ottica di 3 km.

                                                                    Itema
Il successo di Kilometro Rosso è anche dato dal know-how e dalla creatività diffusa nel nostro Paese, che emerge in alcune delle imprese ubicate nel parco tecnologico. E’ il caso di Itema, multinazionale attiva nella fornitura di soluzioni per la tessitura. L’azienda è l’unico produttore al mondo a fornire telai con le tre migliori tecnologie di inserzione della trama: pinza, aria e proiettile, con un ampio portfolio prodotti e un costante impegno nel ricercare innovazioni e avanzamenti tecnologici per i suoi telai. Con 10 sedi, 4 siti produttivi e più di 800 addetti nel mondo, Itema è oggi portabandiera a livello globale della capacità imprenditoriale, dell’alto contenuto tecnologico e dell’eccellenza del made in Italy.

Il focus principale è orientato al contenuto tecnologico delle sue macchine per la tessitura. Inaugurato nella primavera del 2014, ItemaLab rappresenta per l’azienda la volontà di creare un vero e proprio incubatore di ricerca avanzata orientato al raggiungimento di nuove frontiere in ambito scientifico e tecnologico. Da questo punto di vista è strategica la sua collocazione all’interno di un distretto dell’innovazione dedicato alla crescita delle idee, alla sperimentazione e al dialogo tra gli innovatori provenienti dal mondo accademico, dell’azienda e della scienza, in un proficuo incontro tra realtà differenti con in comune la tensione all’innovazione e al progresso tecnologico.

                                                               Intellimech
Da segnalare anche la storia di Intellimech, nata nel 2007 per mettere in pratica i principi della fabbrica intelligente che solo di recente sono divenuti obiettivo condiviso sia a livello delle aziende, che delle istituzioni. Si tratta di un consorzio privato di aziende finalizzato alla ricerca interdisciplinare nell’ambito della meccatronica per applicazioni in settori industriali differenti. Supportato dalla Camera di Commercio di Bergamo e promosso da Kilometro Rosso e Confindustria Bergamo, è per le sue dimensioni una tra le più importanti iniziative private italiane nel settore. Offre ricerca e consulenza sui processi e prodotti, fa sperimentazioni per applicazioni future, attiva collaborazioni con le università e gli enti di ricerca, si occupa della formazione e dell’aggiornamento costante dei tecnici.

Da - https://www.industriaitaliana.it/il-chilometro-dellinnovazione/


3863  Forum Pubblico / LEGA VALORI e DISVALORI prima di marzo 2018 / GIANLUCA LUZI. Il patto col diavolo Tormento a 5Stelle inserito:: Febbraio 04, 2018, 08:53:54 pm
Il patto col diavolo

Tormento a 5Stelle

Di GIANLUCA LUZI

Hanno provocato un certo trambusto le frasi riportate dalla Reuters, che Di Maio avrebbe pronunciato a Londra nel corso d un incontro per illustrare alla City il programma dei Cinquestelle. Secondo quanto ha riferito l’agenzia di stampa internazionale, il candidato premier del Movimento avrebbe manifestato la disponibilità a partecipare a un governo di larghe intese, anzi di larghissime intese perfino con il Pd, nel caso in cui alle elezioni si creasse una situazione di ingovernabilità. Di Maio ha poi smentito. Lo stesso candidato grillino ha precisato di non aver parlato in inglese nel corso dell’incontro. Quindi o la Reuters ha inventato o c’è stato un misunderstanding. Cosa possibile, ma invece la cosa più probabile è che Di Maio abbia espresso un concetto che da tempo va dicendo. E che non è altro che l’intenzione di proporre un programma dopo il voto a tutti i partiti. E chi ci sta governa con loro. Insomma un governo, appunto, di larghe intese, senza chiamarlo di larghe intese. Equilibrismi della politica che nel caso dei Cinquestelle devono essere particolarmente arditi. Perché va bene che si dichiarano a-ideologici, ma far digerire ai militanti una collaborazione al governo con, poniamo, Forza Italia o Pd, anche in nome della governabilità per non gettare l’Italia nel caos, sarebbe un compito impossibile. Grillo sarebbe li pronto a scatenare Di Battista contro i “governativi” che pur di arrivare a Palazzo Chigi sarebbero disposti a fare il patto con il diavolo. Siamo solo alle prime battute di una campagna elettorale che per ora procede stancamente. Un po’ perché Berlusconi si è dovuto prendere qualche giorno di riposo causa affaticamento. Un po’ perché tutti sanno che non ci sarà un vincitore e quindi tutti pensano al dopo. Anche il centrodestra, che è l’unica coalizione che può vincere, quasi certamente non avrà i numeri per governare da solo. Quindi Renzi punta ad avere il più forte gruppo parlamentare, blindato attorno al capo, Di Maio a guidare il partito più votato e Berlusconi a vincere le elezioni come coalizione per scegliere tra due opzioni: tenere unito il centrodestra e mandare un nome fidato al governo, oppure rompere con Salvini e rifare un Patto del Nazareno con Renzi. Scenario complicato e di difficilissima attuazione.

Da - http://www.repubblica.it/politica/?ref=RHHD-M
3864  Forum Pubblico / AMBIENTE & NATURA / MARIO DI CIOMMO. Elisabeth Revol, in ospedale, racconta la drammatica discesa... inserito:: Febbraio 04, 2018, 08:50:52 pm
Elisabeth Revol, in ospedale, racconta la drammatica discesa dal Nanga Parbat: "Voglio guarire per vedere i figli di Tomek"
L'alpinista 37enne è rientrata in Francia. Non ce l'ha fatta il compagno di cordata, colpito da edema cerebrale dopo aver conquistato la vetta

Di MARIO DI CIOMMO
01 febbraio 2018

Elisabeth Revol è in ospedale, con le mani e i piedi fasciati. Sta tentando di recuperare il più possibile per evitare l'amputazione degli arti, ma è viva e per la prima volta racconta la sua discesa disperata dal Nanga Parbat, la nona montagna più alta al mondo che con i suoi 8.126 metri si staglia nell'Himalaya pachistano. È stata la 'montagna del destino' per Reinhold Messner, che lì perse suo fratello Günther, ed è stata la montagna dove Tomek Mackiewicz, alpinista polacco 43enne, ha vissuto le sue ultime ore, prima di spegnersi a 7.200 metri di altezza.

Per comprendere cosa voglia dire riuscire a divincolarsi da un colosso delle proporzioni del Nanga Parbat in pieno inverno, bisogna partire dalla fine. Da quella "grande emozione" descritta da Elisabeth nel vedere i soccorritori andarle incontro, a 6.300 metri di altitudine, dopo aver passato due notti senza equipaggiamento, sfidando il "freddo vivo" della montagna. "Mi sono detta 'Va bene' e l'emozione ha preso il sopravvento", ricorda l'alpinista francese parlando del momento in cui ha capito di avercela fatta, di essere sopravvissuta e di poter continuare a immaginare un futuro. Il suo compagno di cordata invece, non ce l'ha fatta.
Elisabeth Revol, in ospedale, racconta la drammatica discesa dal Nanga Parbat: "Voglio guarire per vedere i figli di Tomek"

LA VETTA E LA DISCESA - Il racconto della francese all'agenzia AFP è drammatico. "Siamo arrivati in vetta tardi, intorno alle 18. Lì però Tomek mi ha detto di non vedere più nulla. Immediatamente abbiamo cominciato a scendere". L'alpinista polacco si aggrappa a una spalla di Elisabeth, il terreno e il buio rendono difficile lo spostamento. “A un certo punto, non riusciva più a respirare, ha rimosso la protezione che aveva sulla bocca e ha cominciato a congelare. Il suo naso diventava bianco e poi le mani, i piedi”, racconta la francese.  A quel punto lei decide di chiamare i soccorsi. Lo scambio di messaggi è frenetico e molte richieste non arrivano ai destinatari. "Mi hanno detto: se scendi a 6.000 metri puoi essere recuperata. Tomek invece può essere raggiunto a 7.200 metri". Elisabeth segue le istruzioni e comincia a scendere. Al suo compagno dice semplicemente: "Arrivano gli elicotteri nel pomeriggio, devo scendere, ma verranno a prenderti".

L'ALLUCINAZIONE - Passa la notte senza tenda. Mentre tenta di conservare più calore possibile ha un'allucinazione. Le portano del tè caldo e lei per ringraziare si toglie uno scarpone. Passa così cinque ore con il piede sinistro senza protezione e l'arto si congela. Quando sorge il sole, a 6.800 metri, decide di non muoversi, per mantenere il calore corporeo. Sente le eliche dell'elicottero che si muovono in basso, ma il vento sta aumentando e decide di restare ferma. Quando le comunicano però che il mezzo di soccorso sarebbe potuto arrivare solo il giorno dopo, con la prospettiva di trascorrere un'altra notte al freddo, decide di scendere. "Stava diventando una questione di sopravvivenza", dice, e ricorda il dolore, il gelo e una calma difficile da comprendere in una situazione simile. Alle 3:30 del mattino raggiunge il campo a 6.300 metri, i soccorritori le si fanno incontro. L'emozione. La trasportano prima a Islamabad, poi il ritorno in Francia e il ricovero a Sallanches, in Alta Savoia.

Tomek non ce l'ha fatta, impossibile l'arrivo dell'elicottero a 7.200 metri. I suoi figli riceveranno presto la visita della persona con cui ha condiviso le ultime ore della sua vita. "Devo recuperare per andare da loro", racconta Elisabeth, gli occhi lucidi e una convinzione estrema: "Tornerò in montagna, ne ho bisogno".

© Riproduzione riservata 01 febbraio 2018

Da -http://www.repubblica.it/esteri/2018/02/01/news/elisabeth_revol_tomek_mackiewicz_nanga_parbat_montagna_alpinismo_francia-187824013/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_02-02-2018
3865  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / LA RIVOLUZIONE IRANIANA IL VICARIATO DEI GIURECONSULTI inserito:: Febbraio 04, 2018, 08:46:17 pm
N. 15 - Marzo 2009 (XLVI)

LA RIVOLUZIONE IRANIANA
IL VICARIATO DEI GIURECONSULTI

Di Cristiano Zepponi

La rivoluzione iraniana del 1979 trovò linfa e vigore abbeverandosi alla fonte dello scontento popolare generato dalle contraddizioni acute dello Stato, nei decenni precedenti.

Il Paese, allora conosciuto col nome di Persia, visse – tra 1906 e 1911 – la sconfitta del moto costituzionale che sembrava poter imprimere una svolta nella vita politica locale. Durante la prima guerra mondiale rimase formalmente neutrale, ma Gran Bretagna e Russia condussero operazioni militari all’interno dei confini persiani, rivelando lo stato di sostanziale subalternità della monarchia dei Qājār.

Al termine del conflitto, dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi (che avrebbero presto portato alla fondazione dell’Anglo-Persian Oil Company), la politica persiana risultò sempre più soggiogata ai voleri britannici. Nel 1919, in particolare, la Gran Bretagna – in cambio del riconoscimento dell’indipendenza del Paese mediorientale – ottenne rilevanti privilegi di natura militare, fiscale ed economica.

Ne derivò un golpe, attuato nella notte del 21 febbraio del 1921 ad opera di un ufficiale della brigata cosacca, Ridā (Reza) Shāh, che inizialmente strappò il ministero della guerra, e quattro anni dopo completò l’opera liquidando la dinastia regnante, prima di essere riconosciuto nuovo scià di Persia.

Reza Shāh governò sulla scia di quanto Mustafà Kemàl stava realizzando in Turchia, ed al contempo sulla base della massiccia tradizione dei tiranni locali: alternò istanze modernizzatrici a spietate repressioni, impose alle donne di togliersi il velo senza concedergli il voto, le ammise all’università di Teheran senza abolire i privilegi maschili in fatto di diritto matrimoniale e familiare, sostenne le moderne scuole laiche senza imporre la chiusura delle madrase del Paese, a partire dalla città santa di Qomm.

Quest’ambivalente politica si espresse quindi in una modernizzazione appena abbozzata, superficiale e soprattutto ristretta ad una fascia molto limitata della popolazione.
A guadagnarne fu l’esercito, veicolo d’istruzione ed alfabetizzazione, rafforzato e riorganizzato per assumere il ruolo di sostegno della politica del sovrano.

L’autocrazia e la modernizzazione, lo statalismo e la repressione, quindi; ma anche la secolarizzazione. Reza Shāh, infatti, depose il simbolismo religioso ed assunse il titolo “laico” di “Pahlavi”, ereditato dall’antica tradizione culturale persiana; al contempo, per le stesse ragioni, decise di cambiare il nome del Paese in Iran.

Fu la politica estera, a causarne la caduta; nel 1941, in pieno conflitto, i due abituali “padrini” del Paese - Gran Bretagna e URSS – allarmati per le ambiguità e le simpatie mostrate da Teheran nei confronti della Germania, intervennero per detronizzarlo, sostituendogli il figlio Muhammad Reza.

Il nuovo sovrano dovette barcamenarsi per tutta la guerra tra le velleità indipendentistiche dell’Azerbaigian (dichiaratosi autonomo con l’appoggio sovietico) e del Kurdistan (dove era stato proclamato uno Stato indipendente, la repubblica di Mahabad), tra le rivolte causate dalla penuria di grano e l’ingombrante presenza di truppe sovietiche nel territorio nazionale, tra i gruppi di guerriglia di vario orientamento politico che proliferavano nella clandestinità e la crescita del Tudeh, il partito comunista.

Il problema più grave, una volta sconfitte le forze centrifughe che minacciavano l’integrità territoriale, era quello economico.
La ricchezza petrolifera, principale fonte di reddito del Paese, divenne oggetto di vivaci discussioni.

Le voci, sempre più forti, che avrebbero auspicato una nazionalizzazione dell’Anglo-Iranian Oil Company accolsero con entusiasmo la nomina a primo ministro, avvenuta il 30 aprile del 1951, del nazionalista Muhammad Musaddiq (noto come ‘Mossadeq’); e non dovettero attendere granchè, dato che il giorno successivo alla nomina il primo ministro firmò il decreto che sfidava gli interessi economici ed il ruolo stesso di potenza egemone della Gran Bretagna.

Per quanto in declino, i britannici reagirono chiedendo prima l’intervento del tribunale internazionale dell’Aia e poi delle Nazioni Unite, ma entrambi rifiutarono d’intervenire legittimando in forma indiretta la pratica iraniana. Decisero allora di dare il via ad un boicottaggio commerciale del Paese, la cui situazione economica peggiorò rapidamente.

La politica di Mossadeq, inizialmente orientata a limitare l’autorità dello scià trasformando l’Iran in una monarchia costituzionale ed a promuovere una serie di riforme sociali di stampo populista, andò sempre più sfumando verso un personalismo autoritario e repressivo, ostile ad ogni tentativo di riforma popolare e perfino ad ogni velleità repubblicana delle folle.

Ciò non bastò a salvarlo dall’intervento anglo-americano, dettato dal timore che i disordini polari provocassero la caduta di un regime amico in un punto strategico del Medio Oriente, ed al contempo dalla volontà di rispondere alla sfida lanciata da Mossadeq all’ordine internazionale. Tra luglio ed agosto del 1953, un golpe occidentale spazzò via il nazionalismo di Mossadeq senza peraltro intervenire sul suo frutto principale, la nazionalizzazione petrolifera; Mohammed Reza potè riassumere la sua carica, virando rapidamente verso un regime dittatoriale abbondantemente foraggiato dal rubinetto petrolifero: tutto, all’apparenza, sembrava rientrato nella normalità.

Sotto la cenere, tuttavia, covava il risentimento delle popolazioni mediorientali verso gli occidentali: l’allontanamento di Mossadeq era considerato solo l’ultimo di una lunga serie di torti ed ingerenze, e non sarebbe stato superato così in fretta.

Ciò non toglie, comunque, che negli anni seguenti affluissero nelle casse dello Stato ricchezze notevoli, in proporzione crescente: il 16 ottobre del 1973, in riposta alla politica israeliana, i paesi dell’OPEC (Organization of Petroleum Exporting Company), tra cui l’Iran, decisero di aumentare il prezzo del barile dell’” Arabian Light” da 2,90 a 5,11 dollari; in dicembre, il prezzo raggiunse gli 11,65 dollari, ed in alcuni casi perfino i 17. La ricchezza era quadruplicata.

La massa di denaro che si riversò sull’Iran eccitò l’immaginazione dello scià, che si diede ad ogni sorta di spesa superflua, festa imperiale, sfarzo di corte e villeggiatura chic. L’improbabile discendente di Dario e Ciro, allora, sostenne seriamente che gli iraniani, di lì a dieci anni, avrebbero goduto dello stesso tenore di vita tedeschi, francesi e inglesi (settimanale Spiegel, gennaio 1974), promulgò centinaia di decreti ed ordinò di raddoppiare gli investimenti, importare prodotti d’alta tecnologia, costruire mezzi militari ed infrastrutture. Teheran cominciò allora a comprare di tutto, dai brevetti agli elicotteri, scatenando gli appetiti famelici degli operatori finanziari di mezzo mondo.

Lo scià, al contempo, fu anche l’unico a non capire che questa valanga di denaro, improvvisamente piovuta su un Paese nel complesso sottosviluppato, e privo della rete (infrastrutturale, burocratica, educativa) necessaria ad accoglierla e ripartirla, avrebbe causato un mare di problemi; inflazione, disoccupazione e povertà cominciarono allora a pesare sensibilmente in uno Stato che contemporaneamente viveva un’indigestione di ricchezza capace di sottolinearne ulteriormente la distribuzione ineguale tra le varie fasce della popolazione.

A ciò si aggiunse la vocazione militarista e poliziesca che lo scià, al pari del padre, mostrò di possedere organizzando una potente polizia politica (la SAVAK) ed assumendo il ruolo di “gendarme dell’America” nell’area, specie durante la presidenza Nixon.

L’occidentalizzazione e la militarizzazione a marce forzate entrarono quindi in contrasto con un substrato tradizionale – rappresentato in prevalenza dagli ‘ulamā’ – capace di ridurre drasticamente le simpatie per il regime, nonostante il complesso di riforme agrarie, educative ed economiche attuate negli anni ’60 e note come ‘rivoluzione bianca’.

Le proteste, le manifestazioni, gli scioperi, i proclami di intellettuali, ‘ulamā’ e dissidenti s’intrecciarono allora con i malumori del ceto mercantile dei bazari, scatenando la foga repressiva delle forze di polizia.

Alla rivoluzione serviva un capo carismatico, e fu trovato nella persona dell’ayatollāh Rūhollāh Khumaynī (Khomeini), vecchio professore di teologia a Qomm protagonista di numerose proteste contro il regime negli anni ’60, quando aveva denunciato il servilismo nei confronti degli USA e rifiutato il servizio militare.

Dopo una campagna contro la riforma agraria (sgradita al clero sciita, che perdeva d’un colpo i beni religiosi di manomorta), nel 1963, Khomeini – che dei religiosi iraniani non era né il più famoso né il più autorevole – fu costretto all’esilio: dapprima in Turchia e poi a Najaf, in Iraq.

Dall’estero il vecchio teologo seppe diventare il portavoce delle rivendicazioni popolari, e per questo la stampa governativa prese ad attaccarlo con ferocia; dopo 14 anni d’esilio, nel gennaio del ’78, un quotidiano lo accusò di essere una spia inglese e addirittura “un omosessuale”.

Raramente intento fu così mal perseguito: se si voleva screditarne l’immagine, si ottenne l’effetto contrario. Lungi dal tollerare l’offesa, tutto il clero – anche quella parte che più si distanziava dal rigore dottrinale di Khomeini – scese in piazza a Qomm.

Su pressione di uno scià angosciato dagli eventi il governo iracheno cacciò l’ayatollāh dal suo territorio, ma neanche questo bastò: Khomeini, infatti, era ancora più pericoloso a Parigi – dove arrivò il 12 ottobre di quello stesso 1978 – che in Iraq.

Lo scià, a quel punto, fece marcia indietro annunciando nuove elezioni, la revoca della legge marziale, la cancellazione di alcune commesse, si affidò dapprima ad un governo militare e poi ad un riformatore: corse ai ripari quando l’intero edificio minacciava di crollare come un castello di carte, ed era ormai troppo tardi.

Pensò anche di far intervenire l’esercito, prima che Carter gli negasse l’appoggio politico necessario. In dicembre però, in occasione delle celebrazioni religiose sciite della ‘āshūrā’ (la commemorazione del martirio di Husayn), gli scontri si fecero ancora più sanguinosi, e diversi morti restarono sul terreno.

Tra il 5 ed il 13 gennaio del 1979, allora, milioni di persone scesero in strada per reclamare la caduta dello scià ed il ritorno di Khomeini; tre giorni dopo, Muhammed Reza fuggì dall’Iran.

Il 19 del mese Khomeini atterrò da trionfatore, tra milioni di connazionali deliranti di gioia.
A marzo, un referendum sancì la nascita della Repubblica islamica con il 98% dei consensi.
Il vicariato dei giureconsulti (velayat-e faqih), la dottrina secondo la quale gli ‘ulamā’ hanno il diritto d’intervenire nella legislazione in attesa del ritorno dell'imam nascosto della tradizione, era realtà; nasceva allora lo stato islamico.

Da - http://www.instoria.it/home/rivoluzione_iraniana.htm


3866  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FABIO MARTINI. Gara di testimonial per lanciare Bonino. La sfida è superare il 3 inserito:: Febbraio 04, 2018, 02:03:49 pm

Gara di testimonial per lanciare Bonino. La sfida è superare il 3 per cento
Da Calenda a Gentiloni. E arriva Staino: “Compagni delusi dal Pd, votate Emma”

Pubblicato il 04/02/2018 - Ultima modifica il 04/02/2018 alle ore 10:15

Fabio Martini
Roma

La speaker della “kermesse Bonino” lo annuncia come fosse uno di quegli intermezzi simpatici, di solito immaginati per scaldare le platee: «E ora una piccola sorpresa, un graditissimo fuori programma, un intervento di Sergio Staino…». Lui, uno degli ultimi simboli di una certa tradizione comunista italiana, si avvia lentamente verso il palco, poggiandosi su un bastone e sul braccio del radicale Riccardo Magi e una volta conquistato il microfono, si prende la scena, facendo due cose che nessuno si aspetta. Si produce in una raffica di battute irriverenti e penetranti su Matteo Renzi, Maria Elena Boschi ma soprattutto si rivolge agli elettori del Pd incerti se votare il partito guidato da Renzi: «Tanti mi dicono, il Pd non lo voto più… Bene, io farò di tutto perché possano votare “Più Europa”. Perché sono sicuro che più cresce “Più Europa” e più si fa bene al Pd!». E al culmine di un applaudito show, Staino ha aggiunto: «Qualcuno mi chiede: e tu perché stai ancora nel Pd? Perché se c’è uno che deve andar via, quello non sono io!».

Un discorso per iperboli eppure insidioso, quello di Staino, perché sul fronte Pd il nervo scoperto dei prossimi 26 giorni di campagna elettorale è esattamente questo: evitare che i tantissimi elettori delusi o incerti (si calcola siano circa due milioni e mezzo) possano votare liste concorrenti, anziché tornare sulla via di casa. Ecco perché proprio l’intervento del toscanaccio Staino ha finito per diventare il momento paradossalmente più significativo, in una Convention, quella che ha aperto la campagna di “Più Europa”, che pure ha fatto segnare altri momenti importanti. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro Carlo Calenda (di fatto diventato la “seconda punta” della lista Bonino) hanno tracciato un messaggio controcorrente: una parte del governo tifa per la leader radicale e perché la sua lista superi il 3 per cento. Anche se Paolo Gentiloni si è “limitato” a simpatizzare per la leader radicale: «Con Emma cammineremo insieme e possiamo vincere». 

Eppure l’intervento che, allo “Spazio Novecento” dell’Eur ha fatto la differenza, è stato quello di Staino. Incipit bruciante: «Avevo appena promesso ad Emma di venire qui, mezzora dopo mi ha telefonato il segretario Pd di Scandicci: sabato viene Renzi, mi raccomando! E io, da ipocrita, come sappiamo essere noi fiorentini, ne avete molti esempi..., gli ho risposto: come fò? Ho già un impegno... Dentro di me ho pensato: che culo!». E ancora: «Se me lo chiede Emma, sarei venuto pure a “Più Alto Adige” e il riferimento a Maria Elena è voluto! Vi sembra di buon gusto candidarsi in 5 posti blindati? È significativo del kitsch che ci affoga». Battute per D’Alema («c’è chi distribuisce mele avvelenate»), per Bersani («romanticismo patologico») e per Renzi: «Ha detto del suo programma “Cento passettini” ... Nell’Italia di Impastato e dei 100 passi, tu mi parli dei cento passettini? Ma come ti permetti?». 


Dopo il “salvatore” Bruno Tabacci (anche lui ha alluso al "voto utile”) i saluti di Anna Fendi, Stefania Sandrelli, Paolo Gentiloni e prima della chiusura della Bonino, il più applaudito è stato Carlo Calenda. Ha annunciato che sosterrà «in tutti i modi» «Più Europa» con una motivazione semplice: «La sfida è tra un’Italia seria e una cialtrona». E ha aggiunto una chiosa inusuale nella politica attuale: «Voterò nel mio collegio per Gentiloni ed Emma con entusiasmo: sono dei signori e nella vita questo conta».

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservata.

http://www.lastampa.it/2018/02/04/italia/cronache/lo-show-di-staino-compagni-delusi-dal-pd-votate-per-emma-Wxaa7bMY9q1eFrf6FDcj6J/pagina.html
3867  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / L'Italia dei fetenti. Palermo, in fila dall'alba per pagare tributi: spuntano... inserito:: Febbraio 02, 2018, 11:04:17 pm
31 GENNAIO 2018
Palermo, in fila dall'alba per pagare tributi: spuntano i bagarini

Ore 24, comincia la “prevendita” dei biglietti davanti ai cancelli chiusi di via Enrico Albanese. Ore 4, la lista di carta compilata a mano contiene già una ventina di nominativi. Ore 8,20, il vigilante apre le porte e gli spicciafaccende si precipitano davanti al totem facendo incetta di ticket. Ore 8,30, i primi quaranta sono tutti “assegnati”. Costo dell'operazione: “due-tre euro a numeretto”, allarga la braccia una donna in fila dall'alba per chiedere la rottamazione di una cartella esattoriale. E' il bagarinaggio dei turni, un business che non si può chiamare truffa, in scena all'ufficio tributi di Riscossione Sicilia a Palermo, preso d'assalto da un esercito di 200 persone al giorno a fronte di soli 10 sportelli attivi. L'articolo completo sul giornale in edicola.

(Giada Lo Porto e Giusi Spica)

Da - https://video.repubblica.it/edizione/palermo/palermo-in-fila-dall-alba-per-pagare-tributi-spuntano-i-bagarini/295928/296545?video
3868  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / ENRICO FRANCESCHINI. L'intervento della premier, pochi giorni dopo che la Ue... inserito:: Febbraio 02, 2018, 11:00:35 pm
L'intervento della premier, pochi giorni dopo che la Ue ha indicato che durante la transizione nulla dovrà cambiare nello status dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna, suona come una problematica presa di distanza da Bruxelles.
Ma anche come la risposta di Theresa all'attacco dell'ala più anti-Brexit del Partito conservatore, che l'accusa di fare troppe concessioni

Dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI
01 febbraio 2018

LONDRA - Marcia indietro sostanziale contro la Ue o mossa tattica contro i suoi avversari all'interno del Partito conservatore? Come quasi tutto nel negoziato sulla Brexit, anche l'annuncio di Theresa May che nella fase di transizione gli immigrati europei non potranno godere degli stessi diritti di cui godranno finché la Gran Bretagna farà parte dell'Unione europea si presta una duplice interpretazione.
 
Quando nel dicembre scorso è stato raggiunto l'accordo sulle condizioni del "divorzio", inclusi i diritti dei cittadini Ue residenti nel Regno Unito, Londra aveva già indicato che qualcosa sarebbe cambiato dopo il 31 marzo 2019, data in cui il negoziato dovrebbe concludersi, con l'uscita formale della Gran Bretagna dalla Ue. Si era detto allora, per esempio, che dalll'1 aprile 2019, inizio di una fase di transizione di circa due anni, gli immigrati europei dovranno "registrare" la propria presenza in Inghilterra e nelle altre regioni del Paese. Se poi gli arrivati durante la transizione avranno o non avranno il diritto di restare a tempo indeterminato è una questione che - come ha spiegato off the record a Repubblica una fonte del ministero per la Brexit - dovrà essere discussa nella seconda fase del negoziato, nel quadro dei "do ut des" sui futuri rapporti fra Gran Bretagna e Ue. E bisogna inoltre aggiungere che la possibilità di chiedere la registrazione degli immigrati europei esiste in teoria anche ora, per il Regno Unito come per ogni altro Paese della Ue, anche se non è mai stata utilizzata. Si tratta dunque di una differenza più formale che sostanziale rispetto al presente, le cui implicazioni concrete devono ancora essere definite dalle due parti.
 
E tuttavia, venendo dopo che la Ue ha fissato nei giorni scorsi le norme per la fase di transizione, specificando fra l'altro che nulla dovrà cambiare nel trattamento e nei diritti dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna, l'intervento della premier conservatrice suona come una presa di distanza, ovvero un ostacolo sulla via della trattativa che potrebbe anche diventare insormontabile e fare franare tutto. Sotto attacco da parte dell'ala più anti-brexitiana dei Tories, May potrebbe avere fatto questa mossa più che altro per ragioni tattiche, di politica interna: respingere l'accusa di essere troppo debole nel negoziato con Bruxelles, di fare concessioni eccessive. Ed evitare così che i suoi avversari nel partito cerchino di defenestrarla in tempi brevi: 40 delle 48 firme necessarie a innescare un voto di sfiducia tra i deputati Tories sarebbero già state depositate. Insomma, la leader britannica è sempre più debole e deve pensare innanzi tutto a restare al potere: il negoziato sulla Brexit verrà dopo.
 
Ma ogni tattica, in questo negoziato dagli obiettivi ancora incerti, può diventare strategia: sottolineare il diverso trattamento degli europei durante la transizione riapre il vaso di Pandora delle difficoltà di un'intesa. Del resto la transizione contiene di per sé una contraddizione di fondo, dal punto di vista britannico. Il Regno Unito dovrebbe uscire ufficialmente dalla Ue a fine marzo 2019. Ma nei due anni successivi tutto dovrebbe restare com'è ora. Cambiare tutto per non cambiare niente, per dirla con il Gattopardo: è questo il dilemma che si delinea all'orizzonte. E che, dopo il rapporto segreto governativo sui danni economici dell'uscita dalla Ue, spinge sempre più inglesi a chiedersi: ma questa Brexit vale davvero la pena di farla?

Riproduzione riservata 01 febbraio 2018

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2018/02/01/news/gb_may_su_cittadini_ue_retromarcia_o_mossa_tattica-187778172/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P7-S1.8-T2
3869  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / L'ingiustizia «Eredità: due anni persi a causa della burocrazia» inserito:: Febbraio 02, 2018, 10:58:24 pm
L'ingiustizia

«Eredità: due anni persi a causa della burocrazia»

Scomparsa mia madre, ho dovuto attendere ben 2 anni e 4 mesi per ottenere la quota di pensione spettante per successione. Affidata immediatamente la pratica al Caf, dopo sei mesi l’Inps aveva spedito l’avviso di ritiro presso l’ufficio postale all’indirizzo di residenza registrato nei propri archivi. La residenza, tuttavia, era cambiata da oltre 30 anni. La tragedia è che, nel 2017, non esiste interazione tra Inps e anagrafe del comune di Genova, a dimostrazione delle negligenze e delle incompetenze di entrambe le strutture. Presentatomi all’ufficio Inps di Genova Sampierdarena, mi sono sentito dire dagli impiegati che non davano informazioni di persona e avrei dovuto prendere un appuntamento solo attraverso un fantomatico numero verde, al quale non ha risposto mai nessuno! Solo dopo avere minacciato una denuncia ai carabinieri, ho ottenuto finalmente l’attenzione degli addetti e, alla fine, il dovuto. Stipendiati da noi, sicuri nel loro guscio protetto, troppi impiegati pubblici si rifugiano costantemente dietro innumerevoli «non so, non è di nostra competenza». I loro errori, la loro arroganza e inefficienza è sotto gli occhi di tutti. La riforma delle pensioni, non dovrebbe partire dall’età, ma dal licenziamento degli «intoccabili» che hanno tra le mani i destini delle persone oneste.

Fabio Traverso, Genova

Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/01-02-2018/index.shtml
3870  Forum Pubblico / MOVIMENTO 5STELLE: Valori e Disvalori / Di Battista: "Agenti provocatori per battere la corruzione" inserito:: Febbraio 02, 2018, 10:56:31 pm
Di Battista: "Agenti provocatori per battere la corruzione"
Per l'esponente Cinquestelle è la prima legge che Di Maio dovrebbe varare come eventuale presidente del Consiglio, insieme alla creazione di una "Banca pubblica di investimenti sul modello tedesco" per stimolare l'economia
02 febbraio 2018

ROMA. "Serve la reintroduzione di un agente provocatore per la sconfiggere la corruzione". Alessandro Di Battista lo ha detto stamattina a Massimo Giannini nella puntata di Circo Massimo, trasmessa in diretta da Radio Capital.

Il leader nobile dei Cinque stelle, che ha rinunciato a candidarsi ed esclude un suo ruolo come ministro in un ipotetico governo guidato da Movimento, ha indicato la reintroduzione dell'agente provocatore come una dei primi due provvedimenti di legge che Luigi Di Maio dovrebbe portare in Consiglio dei ministri se ricevesse l'incarico di formare un governo e riuscisse a realizzarlo.

"In questo paese in cui la corruzione ha raggiunto livelli impressionanti - ha detto Di Battista - serve una legge durissima per combatterla. Per me è necessario prevedere la figura dell'agente corruttore, che tenta il politico offrendogli una mazzetta. Se il politico la prende, va in galera".

L'altra legge che Di Maio dovrebbe realizzare come primo provvedimento, dice ancora Di Battista, è la creazione di "una Banca pubblica per l'investimento sul modello tedesco, non indirizzata al profitto ma al sostegno alle imprese".

Caustico il suo parere sul fronte del centrodestra: "Salvini è tenuto per gli attributi da Berlusconi. Lì comanda totalmente Berlusconi. Ma dove va Salvini? Non farà mai, mai, il presidente del Consiglio".

Quanto
al suo futuro immediato, invece, Di Battista ha ribadito che non sarà ministro di un eventuale governo pentastellato: "L'ho già detto, a luglio partirò per la California e poi andrò in America Latina".

© Riproduzione riservata 02 febbraio 2018

Da - http://www.repubblica.it/politica/2018/02/02/news/di_battista_a_circo_massimo-187857658/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S2.4-T1
Pagine: 1 ... 256 257 [258] 259 260 ... 529
Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!