E’ particolare il rapporto che le donne hanno con il dolore.
Probabilmente per una sorta di memoria atavica, che ha sempre voluto le donne mogli, madri, sorelle, figlie: una passetto indietro rispetto ai maschi di casa, ma reali colonne portanti della famiglia.
Alle donne la gestione della casa, alle donne l'educazione dei figli, alle donne il compito di mantenere la pace familiare, di preservare le tradizioni dai cambiamenti. Alle donne il compito di andare avanti nonostante stanchezza e difficoltà… anzi. E’ proprio quello il momento in cui la loro forza deve venir fuori maggiormente. Per la sopravvivenza della famiglia.
Nel dolore la reazione, la forza di andare avanti, senza lasciarsi schiacciare.
E questa particolare attitudine al dolore, questo ruolo imposto e accettato con sopportazione, è tanto più forte quanto più la vita diventa tradizione, quanto più siamo prossimi ai paesi del sud... quanto più ci avviciniamo alla cultura mafiosa.
Ed in fondo si tratta di uno stereotipo difficile da far morire, se non è solo la cultura che circonda le donne del sud, ma anche “lo Stato” a relegarle in tale ruolo: la responsabilità della donna è sempre stata considerata di tipo morale più che penale. Lo stesso punto di vista delle famiglie mafiose in fondo: la donna non può raggiungere posizioni di spicco, al massimo può favorire le pratiche illecite del congiunto... e quindi non è punibile. Nel 1983 viene proposto per Francesca Citarda, moglie di Giovanni Bontate il soggiorno obbligato e la confisca dei beni, in base alla legge La Torre che estende a familiari e prestanome dei mafiosi le indagini patrimoniali, allo scopo di confiscare quei beni di cui non sia provata la legittima provenienza. Il Tribunale di Palermo respinge tale richiesta: nella sentenza è specificato
"… pur nel mutevole evolversi dei costumi sociali, non ritiene il Collegio di poter con tutta tranquillità affermare che la donna appartenente ad una famiglia di mafiosi abbia assunto ai giorni nostri una tale emancipazione ed autorevolezza da svincolarsi dal ruolo subalterno e passivo che in passato aveva sempre svolto nei riguardi del proprio "uomo", sì da partecipare alla pari o comunque con una propria autonoma determinazione e scelta alle vicende che coinvolgono il "clan" familiare maschile.
Troppo lontane per ideologia, mentalità e costumanza sono le cosiddette "donne di mafia" dalle "terroriste" che purtroppo hanno avuto un ruolo di attiva partecipazione alle bande armate che tuttora attentano alla sicurezza dello Stato e all'ordine democratico" (Tribunale di Palermo, 1983)
Le terroriste… donne del nord, e come tali emancipate.
Le donne abituate a crescere nell’accettazione del dolore, dunque.
E dal dolore la rabbia. Dalla rabbia l’esigenza di verità e giustizia… una forma di vendetta che può avere risvolti simili ma diametralmente opposti: l’impegno civile e la rottura del muro di silenzio da una parte, il pieno coinvolgimento nelle attività della famiglia, fino al punto di diventare vere e proprie “madrine”, dall’altra.
In fondo quasi sempre sono storie che nascono dall'amore: per un compagno, per il padre, per un fratello, per un figlio.
Dal dolore di Maria Eleonora Fais, sorella della giovane Angela, giornalista siciliana, deceduta nel 1972 nella sciagura di Montagna Longa, nasce un bisogno di verità, un desiderio di giustizia, che si tramuta in impegno civile: la battaglia contro la base missilistica a Comiso al fianco di Pio La Torre, il movimento antimafia nato all'indomani della morte del deputato, compagno e amico.
La ricerca della verità diventa il filo conduttore dell'impegno di Maria Eleonora, al punto da renderla importante teste al processo sull'omicidio La Torre. Al punto da non renderla cieca di fronte alla realtà, consentendole per quella morte di puntare il dito anche contro esponenti del suo stesso partito, dai cui principi peraltro non ha mai preso le distanze, essendo per lei radice culturale e principio morale.
Ma la storia di Maria Eleonora non è tra le più note, probabilmente per come è nata: una sciagura aerea, su cui pesano più ombre che luci, liquidata come incidente i cui unici colpevoli sono risultati essere i due piloti, morti anche loro… e poi l’oblio. Pochi sono i giornalisti che l’hanno raccontata, e raramente fuori dai confini siciliani.
Il contesto in cui questa storia si è sviluppato è molto diverso da quelli di storie più note: non è la mafia a fargli da sfondo, quanto piuttosto gli anni di piombo della strategia della tensione. Non la consapevolezza dell’omertà, ma la percezione del depistaggio. La conclusione è analoga: dolore… un dolore da incanalare, da convogliare verso qualcosa di costruttivo: si è trasformata in detective, per indagare sulla morte della sorella, nella speranza di trovare delle prove che consentissero di riaprire il caso.
Una mente lucida, attiva, che si fa memoria storica delle vicende che riguardano l’intero paese, non solo la Sicilia. La sua esigenza di portare alla luce quelle verità che non si raccontano, la salvano dall’apparire solo una donna di mezza età, che dopo 35 anni ancora non si da pace.
La sua lingua non conosce omertà, e quando può raccontare lo fa a ruota libera: pur non essendo una storia di mafia la sua, è comunque avvolta in quel mantello di silenzio che sembra voler avvolgere preventivamente i fatti, perché “non si sappia”. La sua esigenza che la verità venga a galla, è battaglia culturale, civile e politica.
Sono molte le donne che si sono impegnate in questa battaglia: quegli atteggiamenti omertosi, che sono propri delle culture mafiose, ma anche di certi ambienti politici, troppo strettamente a queste legati, in questi anni sono stati spesso battuti proprio grazie all’impegno collettivo di donne che a questa cultura si sono ribellate.
Quella di Felicia Impastato è una storia molto diversa da quella di Maria Eleonora Fais, ma per certi versi ha molte similitudini: Maria Eleonora ha sempre combattuto la mafia e la sua cultura, grazie ad una estrazione sociale e politica ben lontana da quegli ambienti. Felicia invece vi è stata immersa!
Figlia, moglie e cognata di uomini d’onore, ha contribuito a infondere in migliaia di persone, giovani soprattutto, quella cultura alternativa in cui ha avuto la fortuna di crescere Maria Eleonora. La denuncia esplicita, aperta, il rifiuto dei compromessi che ha divulgato sembrerebbero nascere dall’esperienza vissuta, conseguenza della tragica morte del figlio Peppino Impastato, ucciso dalla mafia per la sua attività di denuncia e opposizione , anche contro il suo stesso padre, i suoi amici… ma soprattutto contro il boss: Tano Badalamenti.
Peppino ha sfidato apertamente la mafia, ponendosi contro la sua stessa famiglia, che abbandona per proseguire la sua attività: la voce della verità diffusa per tutto il paese, attraverso le onde di Radio Aut.
In realtà in fondo è Felicia stessa l’involontaria fautrice della tragica fine di Peppino. Perché se Peppino è stato quel simbolo di rottura, familiare e sociale, è proprio grazie agli insegnamenti della madre, alle loro lunghe chiacchierate, all’amore per la letteratura, per la cultura. Un insegnamento diverso: lei per prima spezza quella perversa catena che avrebbe destinato i suoi figli (Peppino ha un fratello, Giovanni, che sarà al fianco di Felicia dopo la morte di Peppino, nella sua lotta contro l’omertà) ad un futuro di mafia, rompendo con quella classica educazione impartita ai propri figli dalle altre madri cresciute immerse nell’ambiente di Cosa Nostra,
Una responsabilità silenziosa e importante quella di Felicia:
“(…) Altro che lo stereotipo della donna che nella famiglia di mafia riproduce i valori mafiosi educandovi i figli sin dall’allattamento. Lei fu l’esempio contrario. Senza rompere la famiglia, senza infrangere le “regole dell’ubbidienza”, allevò i due figli ai valori della democrazia e li protesse nel loro cammino” (da Le Ribelli, di Nando Dalla Chiesa).
E’ stata lei, con la sua educazione a fare si che i suoi figli potessero intravedere la possibilità di una vita, una realtà diversa da quella mafiosa cui erano destinati.
Una responsabilità forte, che si traduce in una vera e propria rivoluzione all’indomani della morte di Peppino: non la vendetta, ma la ricerca della verità, che senza la sua presenza vigile non sarebbe mai arrivata. La morte di Peppino Impastato sarebbe stata destinata all’oblio: è il 9 maggio1978… lo stesso giorno della morte di Aldo Moro. Ucciso con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia: secondo la stampa, le forze dell’ordine e la magistratura, Peppino è un terrorista, rimasto vittima di un attentato da lui stesso organizzato. La scoperta di una lettera scritta molti mesi prima ne fa un suicida.
Se Felicia e Giovanni non si fossero trasformati in poliziotti e magistrati, se non avessero in questo modo sollecitato le giuste indagini tralasciate da chi ne aveva il dovere, oggi la verità sulla morte di Peppino sarebbe una altra: “fallito e terrorista”.
Felicia, dopo 20 anni di attesa attiva, raggiunge quindi il suo scopo, ma non basta: la mafia non si sconfigge con la vendetta, ma con la verità, la parola, la legalità. La mafia è fatta di mafiosi e di chi li sostiene. Di chi li protegge e di chi finge che non esistano. Di chi non vede e di chi se ne serve.
L’unica strada: continuare a parlarne. Ed è quello che ha fatto Felicia, fino all’ultimo istante della sua vita. E questa è l’eredità che ha lasciato.
Come Felicia Impastato, e prima di lei, Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale: quel figlio per il quale ha inutilmente per 10 anni chiesto giustizia. Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia nel 1955. Sindacalista a Sciara, sconosciuto paesino del Palermitano. Colpevole del suo impegno a favore dei poveri, di avere fondato a Sciara la prima sezione del sindacato, e la prima sezione del partito socialista.
Rompendo per prima lo schema dell’omertà, Francesca parlò, fece i nomi degli assassini. Francesca mostrò che si può denunciare la violenza mafiosa.
“Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te. […] noi donne siamo, anzi dobbiamo essere le più forti. Le donne devono reggere la situazione (…)”.” (da Le Ribelli, di Nando Dalla Chiesa)
E’ Saveria che parla, madre di Roberto Antiochia, poliziotto, ucciso nell’85 insieme con il capo della Squadra Mobile Ninni Cassarà.
Dopo avere denunciato in una lettera aperta all’allora ministro degli interni, Oscar Luigi Scalfaro, le condizioni precarie e difficili in cui erano costretti a lavorare gli agenti della Squadra Mobile, che come il figlio rischiavano ogni giorno la vita, qualcuno disse che quella lettera era troppo ben scritta perché ne fosse autrice la madre di un poliziotto, e che si trattava soltanto di un basso attacco politico. Saveria, invece, era persona colta e sensibile, che ha fatto della parola la sua arma: la sua battaglia è stata l’affermazione della verità su quel delitto, denunciando la complicità che esisteva tra mafia e istituzioni.
Saveria ha parlato, ha parlato tanto, portando la sua testimonianza ed il suo ricordo di Roberto nelle scuole, le parrocchie, le biblioteche, i circoli di tutta Italia. Raccontando i fatti scevri da qualsiasi forma di retorica, trasmettendo, nonostante tutto la sua fiducia nelle parole, che anche se disarmate possono essere arma efficace per combattere la mafia.
La parola, girando in lungo e in largo per il paese: stessa scelta di un’altra figura di donna, diventata ormai emblematica. Rita Borsellino, la sorella del giudice “dai baffetti gentili”.
Rita, che all’indomani della strage di Via D’Amelio, cessa di essere farmacista e diventa testimone civile.
Viaggia, parla, racconta… accende le coscienze andando oltre: il suo impegno civile rompe gli schemi, per entrare nella politica, avviando un nuovo impegnativo percorso nel grande cammino di liberazione delle donne siciliane dalla mafia: si candida alla presidenza della Regione.
E di fianco a donne di simile forza, personaggi, fragili, piccoli, ma di immenso coraggio. Al punto da entrare nel mito: come Rita Atria.
Rita, sorella di Nicola Atria, figlia di don Vito Atria. Mafiosi, uccisi da mafiosi. Per amore del fratello e del padre, piegata dalla violenza mafiosa, stanca del peso di un dolore troppo grande per i suoi 17 anni, angosciata e combattiva, decide di ribellarsi alla mafia, rompendo il cerchio dell’omertà.
Una scelta difficile, pesante da reggere da sola, visto che la madre la allontana, considerandola una infame. La sua vita da collaboratore di giustizia non è per nulla facile: unico conforto, essere in compagnia di una ragazza altrettanto coraggiosa, Paola Aiello, la moglie di Nicola. E la consapevolezza di stare facendo qualcosa di giusto, di importante, e di avere vicino a se la figura rassicurante di Paolo Borsellino. All'indomani della strage di Capaci, Rita non regge:
“Rita vide crollare il nuovo mondo ‘fatto di cose semplici’ che aveva appena fatto in tempo a respirare grazie a quel giudice dai baffetti gentili (…) D’improvviso si sentì sola. (…). Sette giorni dopo la strage di via D’Amelio, Rita si affacciò sul terrazzo (…) Si gettò dal settimo piano”. (da Le Ribelli, di Nando Dalla Chiesa)
Al suo funerale ci fu una larga partecipazione. Soprattutto giovani. Soprattutto donne. Meno che sua madre.
Una figura tragica quella di Rita. Ma probabilmente l'immagine che ha più della tragedia greca è quella di Vincenzina Marchese: moglie di Leoluca Bagarella e sorella di Pino Marchese. Il suo matrimonio è un momento importante, in quanto segna l'avvicinamento dei corleonesi alla famiglia di Palermo.
Il pentimento di Pino è un momento di profonda lacerazione per lei: potere e onorabilità del marito Bagarella sono pregiudicate. Ma peggio ancora della vergogna è il dolore per la consapevolezza delle azioni del marito. Da sempre desiderosa di diventare madre, perde il figlio durante la gravidanza. Considera questo un segno del divino: colpe troppo grandi gravano sul marito, e la consapevolezza di queste la rendono non meno responsabile. Il peso è troppo grande... si impicca.
Un pentito racconta che nel vedere in televisione e sui giornali le immagini dei crimini, delle stragi che vedevano coinvolto il marito, e che andavano ben oltre il semplice delinquere per la crudeltà di tali gesti, tra cui l'omicidio del piccolo Di Matteo Vincenzina urlò alla volta del marito “Come può il signore darci un figlio se tu ammazzi i bambini?!”
Donne: madri, sorelle, figlie. E i loro sentimenti, che hanno rappresentato l'inizio di una rivoluzione che ha in qualche modo cambiato un piccolo frammento di mondo.
La manifestazione del dolore e della volontà di ribellione ad un universo che da sempre massacra la Sicilia, con il suo carico di false tradizioni e valori sbagliati: le lenzuola... un simbolo al femminile!
Le lenzuola del corredo da sposa. Le lenzuola insanguinate stese alla finestra a testimonianza della deflorazione... il matrimonio è stato consumato.
E lenzuola bianche, pulite, fresche, esposte ancora una volta alle finestre, ma a testimoniare la ribellione, la rottura, il rifiuto di quel mondo. Quante lenzuola sono state ai balconi per manifestare il no della Sicilia alla mafia!
E quante continuano a sventolare oggi sugli stessi balconi? Sempre meno. Quasi una rinuncia a lottare.
Mentre sempre più frequentemente la mafia diventa donna. Non semplici complici ma parte attiva, pur se non con il diritto all'affiliazione: non serve.
Nel tempo sono diventate sempre di più le donne di mafia, che si sono trovate a gestire gli affari di famiglia, dall'estorsione alla riscossione del pizzo, al traffico di droga, fino ad incarnare la figura di vere e proprie “madrine”. Già dal 1995 il fenomeno si è reso evidente: 89 donne denunciate per il 416bis... associazione mafiosa!
Sempre meno lenzuola bianche...
Nel suo diario, dopo aver appreso la morte di Paolo Borsellino, Rita lascia queste parole:
“Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.“
Ha ragione Rita, perché la mafia è soprattutto un fatto culturale.
Abbiamo iniziato parlando di donne, del loro ruolo, di come siano le depositarie di questa cultura che tramandano quasi inconsapevolmente da anni. Ed è per questo che vorremmo concludere con l’ultima storia di donna: la storia di Carmela.
Carmela Iaculano, moglie di Pino Rizzo boss legato ai corleonesi di Provenzano. Arrestato per associazione mafiosa nel 2002, Rizzo continua dal carcere la sua attività, dettando i suoi doveri attraverso dei bigliettini, che anche Carmela contribuisce a portare fuori dal carcere e consegnare a destinazione.
Il 3 maggio viene arrestata e liberata dopo poco perché le vengono concessi gli arresti domiciliari. E al suo rientro, la sorpresa: “Mamma questa è vita secondo te?”
Le figlie la esortano a collaborare, a raccontare la verità, tradire il marito e la famiglia: grazie a lei il Consiglio Comunale di Cerda viene sciolto per infiltrazioni mafiose, e il Pubblico Ministero mette le mani su un filmato girato in parlatorio nel Carcere di Palermo, che mostra come fanno i boss a comunicare con l’esterno.
La testimonianza di Carmela:
“Mi manca la mia terra, il mare, il sole, ma mi piace questa nuova Carmela: mi sento pulita, libera, sono una persona normale come tutti, non sono più impigliata in quella ragnatela che è la mafia che ti stringe fino a non farti più respirare. La mafia non finirà mai, fino a quando la gente, i commercianti, gli imprenditori e i politici continuano ad abbassare la testa e ad aver paura di dire no e di denunciare...allora sì che la mafia non finirà mai”
Siamo partite parlando di donne, del loro ruolo, di come siano depositarie di questa cultura. E vi abbiamo parlato di loro, donne che hanno deciso di interrompere questa catena, perché siano di esempio ad una nuova generazione di donne: perché siano depositarie di una cultura nuova, diversa.
Perché la gente, i commercianti, gli imprenditori e i politici smettano di abbassare la testa.
Perché comincino a denunciare.
Perché il silenzio schiaccia, è complice, uccide quanto la lupara.
E allora noi vogliamo cominciare a raccontare…