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3076  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / La società è cambiata nella visione femminile perché era importante ... inserito:: Novembre 21, 2019, 11:43:08 am
Le pratiche di autogestione hanno modificato l’approccio dei singoli, sono state cioè uno strumento “educativo” verso una gestione equa delle risorse economiche, politiche, sociali?

La società è cambiata nella visione femminile perché era importante rappresentare equamente le donne e farle partecipare ai meccanismi decisionali. Questo processo ha reso più consapevole la donna della propria forza e capacità di agire. Grazie a questo cambiamento, oggi anche nei gruppi più lontani dalla mentalità democratica, i problemi vengono espressi e risolti con il dialogo. È cambiata anche la mentalità a proposito di giustizia sociale: la società trova le soluzioni dei propri problemi familiari, sociali e personali attraverso, appunto, metodi di dialogo. In questo modo oltre l’80 per cento delle dispute sono state risolte nei comitati territoriali per la pace.

L’economia è stata l’area di sviluppo che invece ha presentato maggiori difficoltà.

Dopo la rivoluzione le proprietà statali governative sono state distribuite alle comunità e sono state costituite cooperative agricole. Ma il problema era gestirle con la mentalità giusta: le cooperative infatti non sono solo imprese economiche, sono complessi sanitari, sociali, educativi. Ogni cooperativa è uno spazio vivente, uno spazio organizzativo.

L’attacco turco mette in pericolo (anche sul piano del consenso della base) il confederalismo democratico e la sua natura multietnica e multiculturale?

C’è un attacco totale al sistema del confederalismo democratico da parte delle grandi potenze, non solo della Turchia. È un sistema che ha prodotto ricerche nelle società arabe del Medio Oriente, potrebbe diffondersi in tutto il mondo. Il capitale globale vuole bloccarne la diffusione perché teme che metta in discussione il suo potere. Gli attacchi sono stati vari. Ad esempio, hanno voluto definire il sistema come Stato-nazione o ridurre i nuovi modelli di organizzazione etichettandoli come rapida via per la libertà, cercando di imitarli. Ognuno, dal proprio punto di vista, ha cercato di imporre il proprio sistema di valori, dimostrando la necessità di una lotta più elaborata e comune. Se vuoi mantenere vivo il confederalismo democratico hai bisogno non solo di difenderti sul piano militare e politico ma soprattutto di dare risposte culturali. L’invasione e gli attacchi feroci dello Stato turco hanno causato la morte di centinaia di persone e la fuga di centinaia di migliaia di civili. Ma la popolazione che si è formata con questa esperienza finirà per portare il proprio progetto politico fin sulla luna. È impossibile annientare solo con un attacco fisico un sistema che si è costruito sulla cultura.

Da - https://left.it/2019/10/18/nemmeno-le-bombe-turche-fermeranno-il-progetto-politico-e-culturale-del-rojava/?fbclid=IwAR0mMrXdf3ASNnyAtchTn_HoDKu4hRZ6D7QVAKEIuQRmLK8G24GQMQEQFng
3077  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / MILANO, ITALIA. LA POLITICA DEI DIVARI È NEL NOSTRO FUTURO. inserito:: Novembre 21, 2019, 11:38:57 am
MILANO, ITALIA. LA POLITICA DEI DIVARI È NEL NOSTRO FUTURO.
   
ALESSANDRO COPPOLA
17 novembre 2019

In tutto il mondo a capitalismo avanzato si discute dei nuovi divari territoriali determinati dalla più accentuata dinamica di agglomerazione metropolitana dell’economia osservabile negli ultimi decenni. Questi squilibri rappresentano la dimensione “spaziale” di processi di polarizzazione della ricchezza che, come noto, sono oggetto dell’attenzione scientifica e più ampiamente di quella pubblica da diversi anni.

Quindi le parole del Ministro Provenzano certo non possono stupire e anzi indicano la necessità che anche in Italia, come peraltro accade per l’appunto in qualsiasi paese avanzato, si discuta di questi nuovi divari. Che qui, oltre a prodursi nel contesto di un dualismo territoriale mai colmato, riguardano un’economia ed una società stagnanti dove la forte attrattività di pochissimi poli metropolitani (Milano, Bologna) è sicuramente funzione sia della loro effettiva attrattività (il fattore pull: “a Milano si trova lavoro”) sia, più che in altri paesi, della situazione di crisi profonda di molti territori e di molte città medie e piccole da cui i nuovi flussi migratori provengono (il fattore push: “vado a Milano che qui è comunque impossibile trovare lavoro”).

Tutti concordano – si vedano Richard Florida ed Enrico Moretti – sul fatto che i grandi poli metropolitani attraggano come mai prima un fattore produttivo decisivo come mai prima, il capitale umano. Un capitale che è formato attraverso politiche nazionali – si pensi al ruolo del sistema di istruzione – e anche attraverso gli investimenti delle famiglie.  Da questo punto di vista, non si può non sottolineare come se Milano rappresenta certo il nodo più internazionalizzato del capitalismo italiano in questa condizione di ritrovata attrattività Milano sia anche diventata “italiana” come mai prima.

Italiana perché per l’appunto attrae, a condizioni vantaggiose, un capitale umano prodotto nell’insieme del paese e in virtù degli investimenti citati. Ma anche perché se ad esempio crescono gli investimenti immobiliari internazionali – è questo uno degli indicatori del suo successo più di frequente citati – crescono anche quelli interni segno di un forte orientamento del risparmio nazionale verso la città. Un risparmio che è fatto di famiglie del resto del paese che, magari per sostenere il progetto migratorio dei figli già avviato con l’università (si vedano su questo tema i lavori di Granfranco Viesti), investono nell’immobiliare a Milano, portandovi capitali che fino a dieci anni fa si sarebbero orientati altrove, sebbene non necessariamente nella località d’origine. In questo senso non é appare quindi scorretto dire che Milano – come capita per altre grandi aree metropolitane in molti paesi – “assorbe” molto capitale, umano e non solo umano, che un tempo si allocava altrove, e che oggi permette alla città di concentrare una quota crescente della limitatissima crescita nazionale

Sarebbe ovviamente ingenuo pensare che in questo processo di divaricazione a pesare siano solo la maggiore efficacia e continuità amministrativa delle istituzioni locali (citato spesso come fattore decisivo a Milano, dove ad esempio le grandi scelte di valorizzazione immobiliare sono state confermate) e non anche alcuni caratteri propri all’attuale modello di sviluppo globale, alla lunghissima crisi italiana ed a scelte politiche nazionali non solo settoriali. Si pensi a città come Torino, che di efficacia e continuità amministrativa ne ha avuta molta, eppure, scommesse simili sull’economia della cultura, sui grandi eventi e sull’immobiliare non hanno avuto esiti paragonabili, tutt’altro (anzi, uno dei sintomi più macroscopici della politicizzazione del muovo divario é proprio il conflitto strisciante fra Milano e la vicina Torino).

Da questo punto di vista, il principale problema di Milano si chiama oggi Roma. Milano non sarebbe così “esposta” se Roma non fosse coinvolta in una crisi durevole e severa che la vede non più in grado di rappresentare l’altro robusto polo metropolitano capace, in particolare, di esercitare una forte attrattività nei confronti del Mezzogiorno. Oggi si parla del “modello Milano”, ma anche Roma – quando Milano sembrava incapace di riprendersi da Tangentopoli (ma era un sonno apparente) – aveva il suo “modello” fatto di crescita immobiliare, economia turistica, grandi eventi, economia della cultura e un certo dinamismo nell’ambito dei servizi alle imprese. Eppure quel modello che vedeva Roma crescere sia demograficamente sia economicamente più di Milano si è rapidamente convertito in un incubo che dura ormai da almeno un decennio (si veda qui un’analisi della crisi del cosiddetto “modello Roma” in tante delle sue dimensioni: http://www.planum.net/planum-magazine/planum-publisher-publication/roma-in-transizione_coppola_punziano). Se e fino a quando Roma non ritroverà una condizione di “normalità” forte sarà la percezione nel resto del paese di un eccessivo sbilanciamento, sbilanciamento che si rivelerà politicamente sempre più problematico per Milano, o quantomeno per alcuni dei suoi interessi egemoni. E da questo punto di vista Roma è certo un problema “nazionale”, cosa che si è ben lontani dal riconoscere, ma è anche un problema di Milano: il suo declino porta con se costi politici non solo per Roma, ma anche per Milano.

Più complessivamente, in un’Italia divaricata da tanti e contestuali divari, il discorso sul “chi resta” non potrà che rivelarsi centrale nella politica e nella società. Un discorso che non riguarderà solo territori periferici o città medie e piccole ma anche altre aree metropolitane se è vero, ad esempio, che sono i comuni di Roma e Napoli i principali contributori netti dei nuovi residenti. Il chi resta è fatto di generazioni di ceto medio che vedono i propri figli riprodurre un destino migratorio che loro erano riusciti ad interrompere, e che lo rinnovano proprio in virtù dell’investimento operato consapevolmente su di loro. Oppure, nel caso delle città medie e metropolitane , di famiglie che non immaginavano che l’investimento sui loro figli si sarebbe risolto non in una traiettoria ascendente a livello locale – i bei tempi dell’inserimento nelle borghesie locali sembrano passati per sempre –  ma in progetto migratorio, nel paese se non fuori dal paese ( a questo proposito, a proposito di “caduta delle aspettative sociali”, sarebbe interessante indagare quanto alcuni sommovimenti elettorali dipendano più che dall’immigrazione internazionale dall’emigrazione nazionale e internazionale vista con gli occhi di chi è restato).

Ed in effetti, sebbene in modo ancora immaturo, i nuovi divari sono un nuovo oggetto politico e come tali producono anche un nuovo discorso politico (come reso evidente dalla polemica nata attorno alle parole del Ministro). Nota è la componente territoriale del discorso “populista”, che poi è essenzialmente un discorso di estrema destra, che vede nelle città un bersaglio usuale delle polemiche contro il “cosmopolitismo” dei radical-chic o bobos (si veda qui per un ragionamento su Francia, Italia e Usa: https://aspeniaonline.it/41443-2/). Lo stesso Salvini ha sempre usato il ricorso alle “ztl” – dove risiederebbe gran parte dell’elettorato del Pd (e dove in effetti il Pd ha successo) – come dispositivo centrale del proprio discorso (e a un certo punto era diventato così preciso da parlare dei “salotti” all’interno delle “ztl”, passando dalla scala urbana a quella domestica). Contestualmente, non mancano spinte a un nuovo autonomismo “metropolitano” che si nutre di discorsi non solo economici ma anche sociali, di classe ed identitari (sebbene di un identitarismo “cosmopolita”) e che si fanno largo fra i ceti medi e superiori, anche al di là delle tradizionali appartenenze politiche. Da questo punto di vista è interessante osservare come questo neo-autonomismo – per ora un discorso molto poco strutturato – abbia più di una difficoltà a convivere con il tradizionale “nordismo” leghista che per la verità promette un universo di valori ed un centralismo regionalista poco in linea con le preferenze di componenti importanti delle classi dirigenti urbane. Egualmente, il movimento “si resti arrinesci” – che rivendica “il diritto a restare” per i giovani siciliani – segnala il fatto che da inevitabile destino individuale il tema migratorio sia diventato un oggetto politico dalle implicazioni potenzialmente rilevanti anche in alcune aree del Mezzogiorno.

Come si vede, il terreno della “politicizzazione” dei nuovi divari territoriali è quindi in pieno movimento. Egualmente, si tratta di un terreno che alle condizioni date ad oggi dissimula un aspetto decisivo che in altri contesti è invece ben evidente nel discorso pubblico: ovvero che non basta risiedere nei gran poli metropolitani per essere dei “vincitori”. E che la crescita in questi poli si manifesta ovviamente attraverso forti squilibri: Londra, Parigi, Milano, Barcellona, Madrid sono anche città con diseguaglianze non solo elevate ma anche crescenti e nelle quali i “costi di arrivo” di chi vi è attratto sono elevatissimi.

L’espansione immobiliare, che è comunemente considerata un indicatore del successo metropolitana in un’economia fortemente finanziarizzata, erige imponenti barriere d’accesso mentre contribuisce alla concentrazione di vaste ricchezze in chi la controlla. Il mondo delle “città globali” descritto da Saskia Sassen prima della grande crisi esiste tutt’ora ed il fatto che si discuta di divari territoriali ad una scala più elevata di quella urbana non può farci dimenticare che nelle grandi aree metropolitane continua ad esistere una grande questione sociale che sta creando una lunga serie di cleavage e conflitti che riguardano sopratutto l’abitare, ma anche e sempre di più il lavoro. Peraltro, questi cleavage possono riguardano la stessa proprietà immobiliare diffusa se è vero che nelle grandi aree metropolitane i processi di valorizzazione immobiliare seguono essi stessi geografie molto divaricate (si vedano ad esempio gli stessi andamenti dei valori nella periferia non solo metropolitana di Milano).

Per tutte queste ragioni è quindi del tutto evidente che il registro morale che tanto condiziona il discorso pubblico anche sui divari territoriali non sia né accettabile né tantomeno utile, se non a consolidare rappresentazioni identitarie che non faranno altro che ulteriormente rafforzare il discorso della destra. Non ci sono squilibri morali fra città e territori che meritano e città e territori che demeritano, ma ci sono squilibri strutturali determinati da un modello di sviluppo che intervengono su divari multi-dimensionali ereditati – e che riguardano l’economia, la società, l’amministrazione – acutizzandoli.

Inoltre questi divari territoriali hanno costi sociali, ma hanno anche costi politici. E solo una piena consapevolezza dei fattori che producono tali divari e della loro necessità nell’ambito del presente modello di sviluppo può rappresentare la precondizione di un discorso politico progressivo su di essi. Un discorso che parta dal riconoscimento dell’interdipendenza fra territori e popolazioni – i fattori impiegati hanno origine sempre ad una scala più ampia di quella dove si impiegano e la debolezza di qualcuno è sempre funzionale alla forza di un altro – senza il quale lo stesso processo di globalizzazione (e le relative gerarchie) non è pensabile.

Viceversa, la risposta più facile sarà l’arroccamento identitario nell’idea che si possa fare a meno degli altri oppure che altrove vi siano soltanto vincenti, in una pervasiva semplificazione ed essenzializzazione di interi territori e popolazioni. Che non farà altro che giustificare e cristallizzare i divari per come essi si presentano.

Da - https://www.glistatigenerali.com/milano_societa-societa/milano-italia-divari/
3078  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / CAPITALISMO dalla Treccani. inserito:: Novembre 21, 2019, 11:33:37 am
www.treccani.it/enciclopedia/capitalismo_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/
3079  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Ilva e Alitalia: statalisti, liberisti o, una volta tanto, aziendalisti? inserito:: Novembre 21, 2019, 11:28:23 am
CATEGORIA: VENDERE E COMPRARE

Ilva e Alitalia: statalisti, liberisti o, una volta tanto, aziendalisti?

 Scritto da Econopoly il 16 Novembre 2019

L’autore di questo post è Marco Gallone, investment manager attivo nel campo della finanza e delle valutazioni d’impresa dal 1989 –

Non se ne può più di sentir parlare di Ilva e di Alitalia, quanto meno nel modo in cui se ne sta parlando; per slogan, statalisti o liberisti che siano. Dicono in sostanza gli statalisti: dobbiamo statalizzare (o ristatalizzare) llva e Alitalia perché sono due aziende strategiche per il Paese. Nessuna grande industria al mondo può fare a meno dell’acciaio nazionale! Analogamente, un settore così determinante per la nostra crescita come quello turistico, non può essere privato della sua compagnia di bandiera!

Ribattono i liberisti: un’azienda pubblica che perde soldi va chiusa come si chiuderebbe un’azienda privata, altrimenti si falsano le regole della concorrenza e si finisce come al solito per far pagare il conto ai contribuenti. Guardate cosa succede negli altri Paesi: nel 2001, la Svizzera ha lasciato fallire la Swiss Air, un’autentica gloria nazionale, e la nuova compagnia – sorta sulle ceneri della prima per opera della Lufthansa – è tornata a conseguire lauti profitti. La British Steel, dal maggio scorso in bancarotta, ha attualmente in corso una trattativa per la sua acquisizione da parte di un gruppo cinese, senza però alcuna garanzia per la forza lavoro impiegata.

Ascoltando queste ed altre argomentazioni di tenore analogo, ci verrebbe da dar ragione o torto ora agli uni e ora agli altri.

Da un lato, infatti, è paradossale che l’Italia, seconda manifattura d’Europa – alla quale l’acciaio serve come l’aria che respiriamo – rischi di dover chiudere il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio a livello europeo. Ed è altrettanto paradossale che il “Paese più bello del mondo”, dove tutti vorrebbero venire almeno una volta nella vita, lasci fallire la sua compagnia di bandiera che, opportunamente coordinata nel sistema dei trasporti interni e internazionali, potrebbe senz’altro ricoprire un ruolo fondamentale nella valorizzazione del potenziale turistico del nostro Paese.

Dall’altro lato, anche quando riflettiamo sull’argomento più delicato, quello occupazionale, viene spontaneo domandarsi: ma scusate tanto, se fallisce una qualsiasi azienda di dimensioni medio-piccole, chi si fa carico dei suoi dipendenti? Prendiamo, ad esempio, un settore rilevante del nostro made in Italy come l’agroalimentare: negli ultimi 3 anni, sono 320.000 le aziende agricole che hanno chiuso i battenti. Ebbene, quante Ilva e Alitalia significavano in termini di persone che hanno perso il posto di lavoro? Qualcuno se n’è fatto carico? Qualcun altro per caso ha proposto di statalizzarle?

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Come si vede, non se ne esce se ragioniamo per slogan. E non se esce perché entrambi gli approcci – quello statalista e quello liberista – sono sbagliati, in quanto non affrontano il problema alla radice; problema che non è certamente quello di chi deve mettere i soldi, se lo Stato o i privati. Prova ne è che Ilva e Alitalia hanno perso una barca di soldi SEMPRE E COMUNQUE: come aziende pubbliche, semipubbliche, private, semiprivate e sono riuscite ad accumulare perdite record pure commissariate! Tutti noi ricordiamo che, dopo i pomposi proclami iniziali sul rilancio di Alitalia, Etihad – la compagnia araba che ne aveva acquisito il 49% – se n’è andata a gambe levate! Più o meno come sta facendo adesso ArcelorMittal, grazie al …grandioso assist del nostro Governo!

Il problema vero da affrontare è stabilire quali siano i motivi che non consentono a una data impresa di superare la crisi che l’ha colpita, quando e a quali condizioni tale crisi può essere superata e quando invece non resta altra strada che cessarne l’attività. Per far questo, non bisogna essere né statalisti né liberisti, ma – se proprio ci piace assegnare un’etichetta – occorrerebbe essere, una volta tanto, aziendalisti!

Ma cosa significa fare gli aziendalisti? Significa fare quello che finora non ha fatto la politica, quello che non ascoltiamo nei dibattiti televisivi o quello che non leggiamo su gran parte dei giornali. E cioè significa fare un’analisi di prodotti, di mercati, di tecnologia; significa capire se la crisi è riconducibile a un ristagno o a una flessione della domanda dei beni e servizi prodotti oppure ai costi troppo elevati di questa produzione; significa valutare in che termini e a che prezzo effettuare l’indilazionabile riconversione produttiva, ricercare nuovi mercati di sbocco, ecc.

Prendiamo il caso dell’ex Ilva. Quando abbiamo un Paese come la Cina che – facendo tra l’altro dumping di tutti i tipi, compreso quello ambientale – realizza la metà dell’intera produzione mondiale, 928 milioni di tonnellate contro gli 1,8 miliardi di produzione mondiale nel 2018, mentre noi riusciamo a coprirne solo una piccolissima quota (24 milioni), non sarebbe forse il caso di domandarsi se, per riuscire a sopravvivere in un settore in cui i costi fissi ti strangolano obbligandoti ad avere dimensioni minime sempre più cospicue, non occorra ultra-specializzarsi in prodotti di nicchia? E ciò tenuto anche conto che siamo in un contesto in cui la domanda mondiale d’acciaio è in calo (- 10% lo scorso anno), per via del rallentamento della crescita economica.

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Allo stesso modo su Alitalia: ci vogliamo chiedere come può continuare a stare sul mercato senza perdere altri quattrini? Deve comprare nuovi aerei? Nuovi slot? Fare accordi con altri vettori e tour operator internazionali per attrarre più passeggeri anche dalle tratte a lungo raggio? O, al contrario, deve ridimensionarsi concentrandosi solo sulle rotte domestiche o su quelle di feederaggio? Deve trasformarsi in una compagnia low-cost o diventare un carrier di lusso?

Ecco, queste sono le domande alle quali vorremmo sentire e trovare una risposta e rispetto alle quali ci piacerebbe ascoltare anche il parere del nostro mondo accademico, drammaticamente silente, a dispetto della nostra illustre tradizione di patria della ragioneria e, quindi, della moderna economia aziendale.

Il succo di quanto sopra esposto mi pare dunque evidente: bisogna evitare posizioni preconcette: sia quella di chi sostiene che ci si deve affidare unicamente agli “automatismi di mercato” (e quindi lasciar fallire anche una grande azienda, pubblica o privata che sia), sia quella di chi sostiene esattamente il contrario, e cioè che si rende sempre e comunque necessario un intervento dello stato, costi quel che costi.

Ed appare altrettanto evidente la differenza di valutazione tra la logica liberista e quella statalista: per la prima sarà conveniente risanare l’impresa in crisi quando l’investimento necessario allo scopo potrà essere adeguatamente remunerato; o almeno, come condizione minima, quando il risanamento consenta di recuperare più di quanto sarebbe possibile mediante la liquidazione o determini perdite minori rispetto all’ipotesi di liquidazione.

Per la logica statalista invece, e qui sta la differenza macroscopica che i liberisti purosangue non dovrebbero ignorare, il limite di convenienza che può giustificare la statalizzazione di un’azienda può andare ben oltre. In particolare, esso è rappresentato dall’entità degli oneri di cui lo Stato – che, come sappiamo, riscuote tributi derivanti dall’attività delle imprese, sostiene i costi per la protezione sociale, si trova a fronteggiare gli effetti che la chiusura di un’azienda provoca su tutto il suo “indotto”, ecc. – dovrebbe comunque farsi carico laddove l’azienda non venisse risanata. In altre parole, lo Stato potrà giudicare conveniente intervenire nel risanamento di un’impresa anche quando esso comporti un costo, purché non superi gli oneri che in ogni caso ricadrebbero nella sfera pubblica.

L’intervento diretto dei Pubblici Poteri nel salvataggio di un’impresa, però, deve essere l’estrema ratio, anche perché il più delle volte incapperebbe nei divieti imposti dalla normativa europea sui cosiddetti “aiuti di Stato”. Prima di inoltrarsi su questa strada, di fronte a un’impresa in crisi che i privati non hanno convenienza a risanare, lo Stato dovrebbe chiedersi:

a) se c’è qualcosa che non funziona nel quadro istituzionale di riferimento e che renda estremamente difficile a determinate imprese di ritrovare condizioni di economicità ed efficienza, fronteggiare la concorrenza internazionale, adattarsi al mutato andamento della congiuntura, ecc.;

b) quali azioni porre in essere per modificare il suddetto quadro istituzionale, ad esempio promuovendo un piano di riconversione produttiva che coinvolga tutte le imprese del settore interessato, concedendo incentivi fiscali che rimuovano i limiti che impedivano ad altre imprese private di intervenire, rilasciando apposite garanzie sui finanziamenti, ecc.

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Sapete come si chiama tutto questo? Si chiama “politica industriale”, quella cosa che lo Stato, in Italia, non fa più da decenni, a differenza di altri Paesi come Francia e Germania ad esempio e che, soprattutto per settori-base come quello dell’acciaio e dei trasporti (per ricondurci ai due casi dai quali abbiamo preso spunto), andrebbe sviluppata a livello non solo nazionale ma europeo.

Come si vede, l’argomento è complesso e non può essere compiutamente trattato in un articolo come questo, ma nemmeno affrontato con la retorica statalista e quella pro libero mercato che ci ammorbano ormai da troppi decenni!

Twitter @MarcoGallone_

Da - https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/11/16/ilva-alitalia-aziendalisti/?uuid=96_6yBNUsr2
3080  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / FireWall Cinese, tra curiosità e rischi non solo interni inserito:: Novembre 21, 2019, 11:26:37 am
18 novembre 2019

FireWall Cinese, tra curiosità e rischi non solo interni
“Se si aprono le finestre per far entrare dell’aria fresca, bisogna aspettarsi che entrino anche delle mosche “

Deng Xiaoping

L’espansione della Cina, secondo i dati della Word Bank, è la più veloce (in termini di crescita economica) di sempre tra le principali economie del globo. Alcuni tra autori e ricercatori hanno soprasseduto ad un’analisi approfondita, richiamando l’attenzione sul semplice fatto che la Cina non è una democrazia. In effetti, lo Stato è presente in ogni sfaccettatura della società, ed è proprio il controllo nazionale che permette di sviluppare e pianificare politiche di lungo termine. In particolare, l’emblema del controllo, ed al tempo stesso della propaganda, del Grande Fratello asiatico è il firewall digitale. Ovvero quella grande muraglia fatta di cavi e di byte che abbraccia un Paese grande quasi 32 volte l’Italia.

Tuttavia, quando gli occidentali analizzano la Cina, soprattutto i non addetti ai lavori, liquidano la questione cinese con una semplice affermazione: Ma la Cina non è una democrazia, ed i cinesi sono abituati alla censura.

A dire il vero le cose non stanno proprio così. Stiamo pure sempre parlando di un paese presente tra i primi 10 Stati più innovativi al mondo, innovazione che appunto presuppone una certa creatività condivisa. Come anche dimostra l’alta percentuale di aziende tecnologiche presente in Cina. Solo per citarne alcune delle più importanti al mondo: Tencent, Alibaba, Baidu e Xiamo.

Certo, è ufficiale che i media cinesi sono continuamente invitati dal Partito a seguire una visione marxista del giornalismo per guidare la propaganda in Cina. In particolar modo, attraverso il famoso racconto positivo sulla Cina, ovvero quella produzione di notizie alternative a quelle occidentali. Altrettanto risaputo è il divieto di discutere, anche per i media, delle tra T cioè Taiwan, Tibet, and Tiananmen. Uno stretto controllo dei mezzi d’informazione, anche della stampa, ha un ruolo centrale e cruciale per la diffusione della propaganda ed il mantenimento delle stabilità delle menti.

Ma i Social Network anche qui sono stati in qualche modo disruptive. Basti pensare che in Cina ci sono più di 700 milioni di users. E quindi potremmo domandarci com’è possibile che quasi un miliardo di persona soggiaccia alle imposizioni di pochi? Basta a spiegare cioè la pur vera affermazione che la Cina non è la più classica delle democrazie occidentali? Non basta affatto, anche perché sarebbe troppo facile, dato che i cinesi hanno superato da anni il problema dell’ideologia che ancora oggi attanagli invece la nostra realtà. Basto leggere l’articolo 1 delle Costituzione Popolare cinese che recita:

“La Repubblica popolare cinese (abbr. Rpc) è uno stato (guojia) socialista di dittatura democratica popolare, guidata dalla classe operaia e basata sull’alleanza operai-contadini. Il sistema (zhidu) socialista è il sistema fondamentale (jiben) della Rpc. È vietato a qualsiasi organizzazione o individuo di sabotare (pohuai) il sistema socialista”

Anche il problema della stabilità sembra essere oramai superato. Se già pareva evidente negli anni passati, il processo si è completato nel marzo del 2018. Ovvero, quando il Presidente Xi Jinping ha eliminato i limiti di mandato per il presidente e vicepresidente della Repubblica popolare cinese; per poi parlare di eventi e progetti con vista sul 2035. Per dovere di cronaca la durata media dei governi italiani negli anni è stata di 1 anno e 2 mesi circa, il che solitamente permette di avere un arco temporale di progettazione, attuazione e valutazione che difficilmente arrivi al prossimo venerdì.

Tornando al sistema del Firewall è singolare notarne il funzionamento, tutt’altro che di facile comprensione. Innanzitutto, la connessione qualche anno fa era stranamente lenta, cosa che era causa ed effetto del controllo a specchio del firewall cinese per monitorare il traffico nazionale. Altro non è che l’applicazione del Golden Shield Project chiamato anche National Information Security Work Informational Project.

Nel momento in cui si cerca di raggiungere un certo sito web o si digita un certo URL è possibile che il sito web sia accessibile; potrebbe apparire la classica dicitura “sito non trovato” quantunque esista ma non sia possibile visualizzarlo nel confine cinese; si riavvia la connessione dell’utente se l’URL era inserito nella lista dei siti vietati. Tuttavia, queste problematiche vengono agevolmente, si fa per dire, raggirate con l’uso di un VPN (ovvero un software che maschera il proprio IP per non apparire nei radar del vero luogo dal quale si navighi nel web). Ma la lista dei VPN intercettare dal regime si aggiorna di continuo, bloccandoli o rendendoli inefficaci, i cinesi devono a loro volta trovarne di nuove. Insomma, la classica storia del gatto e del toto.

L’aspetto più interessante del blocco cinese riguarda le singole parole, o comunque l’utilizzo cinese dei socia network in generale. Partiamo col dire che per i nostri social, che poi nostri non sono dato che sono tutti americani, ve ne sono altrettante cinesi che sostituiscono in maniera quasi totale quelle occidentali. Anziché Facebook e WhatsApp c’è WeChat, anzichè Twitter c’è Weibo ed al posto di Google c’è Baidu. Nota a parte merita WeChat poiché in una sola piattaforma il colosso di proprietà di Tencent Holdings Limited racchiude le funzioni di WhatsApp, Facebook, fin-tech, dating apps, game apps e Instagram.  Non esiste nessuna applicazione al mondo capace di convogliare così tanti dati in una sola piattaforma che, secondo i dati della stessa Tencent, ha un traffico giornaliero di 1 miliardo di utenti al giorno.

Il Grande Muro digitale che “difende” e controlla il traffico digitale è costituito da una struttura mista, tra controlli automatici ed altri posti in essere da persone in carne ed ossa. Sembrerebbe che questo esercito di “censori” sia principalmente concentrato a Tianjin, una vera e propria area dedicata alla censura. Questi soggetti hanno una portata minore rispetto all’algoritmo che controlla il grande occhio cinese, ma un’efficacia sicuramente migliore ed ancora più precisa. Ma, qualora qualcosa dovesse sfuggire anche a questo secondo livello di filtro entrerebbe in gioco il famigerato “esercito dei 50 centesimi”. Non si ha una posizione al riguardo del governo, ma numerose testimonianze parlano di centinaia di migliaia freelance che manipolano i post e commenti presenti sui social, a favore del governo. Cosi da indicizzare o de-indicizzare a seconda dei casi.

Ed è qui che la creatività cinese si scatena. Infatti, continuano ad esserci casi di critica al governo e presa in giro al regime al contrario di come molti pensano. Nella foto di seguito è possibile notare come la famosa foto “tank man” che richiama le proteste del 1989 di Tienanmen, sia stata trasformata in tre paperelle gialle (fonte: Twitter/Weibo) per superare i filtri della censura digitale. Inutile dire che dopo qualche tempo il termine “grande anatra gialla” sia stata bloccata dal sistema di monitoraggio.

Tuttavia, sembra esserci un fenomeno che al contrario non riesce a far sorridere ma anzi crea non poche preoccupazioni. Ed è la potenziale intromissione della censura cinese verso alcune realtà che cinesi non sono, superando quindi i propri confini. Lo ricorda bene Giada Messetti, nel suo bellissimo podcast in collaborazione con Simone Pieranni: Risciò. Stiamo parlando del caso Cambridge University press (CUP) e la sua review China Quarterly. Sembrerebbe che nel 21 agosto del 2017 la prestigiosa rivista accademica abbia rimosso, su richiesta dell’amministrazione cinese, 315 articoli legati in qualche modo alle tre T (vedi sopra), e che erano visualizzabili online sui siti cinesi. La CUP sembra aver affermato che, pur di rimanere nel mercato digitale cinese (che effettivamente ha un bacino di utenza di “appena” qualche milione di utenti), era pronta a rinunciare alla pubblicazione di qualche articolo.

Inutile dire che, complice una valanga di critiche da parte di accademici occidentali ma anche cinesi, la CUP ha effettuato un dietro front in nome della libertà accademica. Ma al netto delle decisioni della CUP, la questione è molto delicata. Poiché la Cina, pur non essendo ancora il primo mercato al mondo per consumi, rappresenta una meta ambita dalle imprese di qualsiasi prodotti o servizi. La domanda vera è quindi: Fino a che punto è lecito accettare le costrizioni del governo cinese, in nome del business?

Da - https://www.glistatigenerali.com/governo_partiti-politici/il-firewall-cinese-tra-mito-e-realta/
3081  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Paolo FLORES D´ARCAIS. Le Sardine di Piazza Maggiore e la sinistra sommersa inserito:: Novembre 21, 2019, 11:24:12 am
Le sardine di Piazza Maggiore e la sinistra sommersa
   
Di Paolo Flores d’Arcais

Quanto sarà effimero il movimento delle “sardine”? O fino a che punto si moltiplicherà per contagio e si radicherà per organizzazione? Lo vedremo presto con i prossimi flashmob di Modena e Firenze. Intanto l’exploit di Bologna ha dimostrato una verità politica, o meglio l’ha ribadita in forma perentoria: per dar vita a una mobilitazione democratica (di “sinistra”, insomma) bisogna prescindere dai partiti. Quattro amici e un appello progressista sul web possono creare un’iniziativa, se avessero voluto coinvolgere un partito (il Pd, ormai) immaginando di avere il valore aggiunto di una forza organizzata, si sarebbero assicurati un flop. Il Pd, per una mobilitazione democratica, non costituisce un valore aggiunto ma la macina al collo, un handicap che garantisce il fallimento.

Per un motivo assai semplice: il Pd, come insieme dei suoi dirigenti, anche locali, come apparato nel senso più ampio e articolato del termine (decine di miglia di persone) è totalmente screditato sotto un profilo democratico progressista, è vissuto (lucidamente o inconsciamente, ma comunque giustamente, esattamente) come parte integrante dell’establishment, come un “loro” estraneo alla cittadinanza attiva, un pezzo della Casta, insomma. Gettando un alone negativo e un’ombra di vituperio anche sugli eventuali quadri di base che magari vivono coerentemente l’impegno democratico progressista d’antan.

Il movimento delle “sardine” (d’ora in avanti senza virgolette), se anche Modena e Firenze saranno un successo (è una concreta speranza), costituiranno l’ultimo episodio di una lunga serie di protagonismo auto-organizzato della società civile progressista, quella che prende più che mai sul serio i valori della Costituzione repubblicana. Un fenomeno oramai quasi ventennale, dove ciascun episodio ha le sue assolute specificità, ma che evidenzia un filo rosso da analizzare. Anno Domini 2002, i Girotondi. A seguire “Il popolo viola” (due volte, se non ricordo male), poi le donne di “Se non ora quando”, poi le mobilitazioni anti legge bavaglio (e a inframmezzare, qualche ondata di lotte studentesche), solo per ricordare le tappe più rilevanti di grandi piazze gremite.

Nell’età dell’amnesia che è la nostra, queste vicende, che pure hanno avuto carattere di massa perfino grandioso (la manifestazione dei Girotondi a Roma, san Giovanni, il 14 settembre 2002 dilagò in un intero quartiere coinvolgendo quasi un milione di persone) vengono dimenticate già l’indomani. Oltre all’azzeramento dello spessore storico che il mondo dei social ha ormai nebulizzato nelle due generazioni più giovani, ha però giocato un altro elemento: nessuna di queste mobilitazioni ha lasciato traccia, è diventata movimento, ha sedimentato in presenza politica. Una fiammata, anche ciclopica, sempre entusiasmante, che un deposito lo lascia certamente negli animi dei partecipanti, ma politicamente parlando poi più nulla.

Tutte queste mobilitazioni della società civile, in sostanza, erano affette da un limite, che politicamente ha pesato come menomazione insormontabile e dissipativa. Hanno sempre oscillato tra l’idea di costituire un pungolo di rinnovamento (anche radicale, ma possibile) dei partiti della sinistra esistenti (in primis i Ds>Pd) o di doverne rappresentare un’alternativa, data l’irrecuperabilità degli apparati.

La prima ipotesi è stata sistematicamente vanificata dai Ds>Pd stessi, il cui apparato non hai mai tollerato innesti dalla società civile che intaccassero anche marginalmente il sistema interno di potere. La seconda ipotesi non ha potuto vedere la luce neppure in forma embrionalissima per la catafratta Nolontà di questi di partecipare in modo costruttivo e progettuale alla vita politica, che in una democrazia parlamentare significa dar vita a liste elettorali.

Il M5S è nato, e ha dominato per dieci anni la vita politica della protesta popolare, esattamente per quel vuoto, perché ha evitato di cadere nell’illusione di un rinnovamento/palingenesi del Pd, e perché molto rapidamente ha accompagnato le sue mobilitazioni di protesta con la presentazione di liste locali e infine nazionali nelle competizioni elettorali. Per questo, del resto, ha drenato in più occasioni milioni e milioni di voti del Pd (altri milioni sono finiti nell’astensione). Altri errori, però – anzi vera e propria tabe originaria bicorne – hanno segnato la fine del M5S, come ho ricordato nel mio precedente articolo: il rifiuto di riconoscere l’antagonismo (valoriale e di interessi sociali, non di schieramenti tutti ormai partitocratici) tra destra e sinistra, e la demenziale e avvilente selezione dei candidati attraverso provini da “reality” e voti-like da amici di facebook.

Due foto di piazza Maggiore a Bologna evidenziano plasticamente, carnalmente, il declino irreversibile del M5S: Beppe Grillo dentro un canotto sopra una folla debordante (2010), 15 mila cittadini in gioioso ritrovarsi progressista col tam tam digitale di quattro amici, e un M5S che in piazza non porterebbe nessuno e medita addirittura di disertare le urne.

L’inaspettato e galvanizzante esito di massa del flashmob delle sardine palesa perciò che esiste la SINISTRA SOMMERSA, una sinistra nella e della società civile, totalmente autonoma dal Pd. Magmatica, ma profondamente radicata nelle coscienze, nella capacità di indignazione, nella volontà e aspirazione ad un impegno concreto per “giustizia-e-libertà”, sempre più “giustizia-e-libertà”, per l’attuazione integrale della Costituzione, insomma.

Che spesso esercita questi valori quotidianamente, nel volontariato, nella serietà professionale, nel rigore della ricerca.

Magmatica, ma soprattutto carsica: sembra scomparire, ma sta semplicemente scorrendo sotto terra, custodita in milioni di coscienze, pronta a riemergere non appena si presenti l’occasione, quando in modo per lo più imprevisto un evento o un gruppo di amici fanno da catalizzatore a questa massa di energie egualitarie e libertarie diffuse, anche se troppo spesso frustrate. E quando una nuova generazione prende il testimone si ritrova accanto quelle scese in piazza dieci, venti, trent’anni prima.

Speriamo che le sardine dilaghino a macchia d’olio. Se accadrà, è sperabile che non commettano il duplice errore con cui, dai Girotondi in poi, le mobilitazioni della società civile si sono sempre esaurite: immaginare di trasformare i partiti della sinistra, rinunciare al momento della verità dell’alea elettorale. Che è un salto mortale, ovviamente, senza il quale, tuttavia, di una grande ondata di mobilitazione democratica, che a Bologna speriamo abbia avuto solo il suo esordio, non resterebbe nulla, una volta di più.

Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa non ameranno ricevere consigli, come quasi sempre accade a chi realizza una iniziativa politica inedita. In parte a ragione, perché la tentazione di “recuperare” una mobilitazione, “metterci il cappello”, e insomma farla lavorare per un proprio progetto, non solletica solo i partiti ma può albergare anche negli intellettuali.

E tuttavia qualche consiglio lo darò, perché in realtà è un auspicio, una speranza, o forse un wishful thinking, quello di vedere finalmente una mobilitazione progressista che non sia solo entusiasmo coinvolgente ma effimero, che metta invece radici e possa invertire la tendenza (non solo italiana) secondo cui ormai le masse vanno a destra (destra, cioè establishment, di cui molta “sinistra” è parte integrante).

Avete registrato il marchio, siete quindi consapevoli che può avere un valore, che in politica significa avere un futuro. Lo avete già concesso a chi sta promuovendo analoghe mobilitazioni a Modena e Firenze, e avete dichiarato che “siete subissati di richieste”. Arricchitelo con un progetto programmatico, almeno con il suo scheletro, perché non resti un movimento solo “contro” (identificare i nemici è importante, sia chiaro), ma anche “per”.

I materiali di analisi per un programma di sinistra non mancano, anzi abbondano. I più recenti sono quelli elaborati dal seminario contro le diseguaglianze coordinato da Fabrizio Barca. MicroMega vi ha dedicato due interi corposissimi volumi, nel 2011 e nel 2018, più una quantità di saggi sparsi lungo oltre trent’anni di vita (mediamente quella delle quattro Sardine, lo dico con ammirazione, il contrario del paternalismo).

L’abbondanza di analisi ha bisogno di tradursi in un programma politico. Per approssimazioni successive, ovviamente. Cominciate a realizzare questa traduzione. Parallelamente alla mobilitazione, coinvolgete quanti nelle varie città si dimostreranno, con l’azione, sulla vostra stessa lunghezza d’onda, anche nella comune elaborazione di un programma. Per punti essenziali, ma non generici (quali misure per combattere la diseguaglianza? Quali capisaldi per una riforma della giustizia? E per la guerra alla grande evasione? Ecc.). Naturalmente senza trasformarvi in professionisti della politica, che non solo vi muterebbe umanamente, esistenzialmente, ma vi impoverirebbe anche politicamente.

A enunciarla sembra la quadratura del cerchio, e invece fa parte dell’orizzonte del possibile. Auguri, allora, perché il vostro successo e il vostro futuro ci riguarda tutti.

(18 novembre 2019)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-sardine-di-piazza-maggiore-e-la-sinistra-sommersa/
3082  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Ce l’avevo qui, l’elettorato - 30 Ottobre 2019 inserito:: Novembre 21, 2019, 11:22:47 am
Ce l’avevo qui, l’elettorato
30 Ottobre 2019

Qualcuno mi ha fatto notare su Twitter che questo post di qualche mese fa è tornato attuale dopo i risultati delle elezioni in una piccola regione del centro Italia: a dimostrazione che si ripete sempre tutto sterilmente, sia le considerazioni superficiali sui risultati elettorali, che i lunghi post contro le considerazioni superficiali sui risultati elettorali, e siamo qui criceti nella ruota. Ma lo reincollo perchè a occuparci completamente d’altro alcuni di noi ancora non riescono, pur facendo progressi.

Ci sono due cose che si dicono spesso, intorno al generico e grossolano concetto di “elettorato”, che una volta ogni tanto è il caso di mettere in discussione: in realtà, quasi tutte le formulazioni che pretendano di attribuire tratti comuni a milioni di persone, vite, teste, sono un imbroglio, così come gli usi demagogici e superficiali del termine “popolo”, eccetera. Ma ne cito qui solo due, appunto.

Una è quella che va sostenendo che ci sia un esteso “elettorato di sinistra” che storicamente ha votato per il PCI e per le sue evoluzioni successive, fino al PD di Renzi: e che ora non lo vota più e si è “spostato” – l’elettorato di sinistra – su altri partiti, soprattutto il M5S e pure la Lega. Ora, sarebbe facile ribattere che un elettore “di sinistra” smette di essere di sinistra se vota un partito che ha poco di progressista e molto di destra, come i suddetti: e quindi quello non è “un elettorato di sinistra”. Ma non voglio spostare la discussione sul tema di cosa sia il M5S (sulla Lega mi pare che possiamo convenire).

Il punto è che non esiste, non in quelle dimensioni nelle quali vi si allude, “l’elettorato di sinistra”. Le persone che hanno pensieri progressisti, riformisti, non razzisti, democratici, non egoisti e che privilegiano un senso civico di appartenenza a una comunità in quanto tale e come mezzo di miglioramento della vita di tutti, sono e sono sempre state una quota esigua degli elettori dei partiti “di sinistra”. I milioni e milioni di persone che li hanno votati sono sempre state in gran parte persone che avevano un desiderio di cambiamento e di miglioramento delle proprie condizioni, per le quali persone i partiti di sinistra sono stati convincenti nel rappresentare questo desiderio. Non esiste paese al mondo in cui le maggioranze dei cittadini sentano dentro di sé i principi della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo o i valori delle costituzioni democratiche. Li impariamo a scuola o da qualche buon esempio e maestro, nel migliore dei casi ne registriamo alcuni, ma poi vogliamo ottenere il meglio per noi stessi, e quella resta la nostra priorità: almeno per le maggioranze di noi. A seconda di quanto facciano invece prevalere differenti principi progressisti e il bene di tutti sul nostro, alcuni possono – se proprio vogliono – definirsi o meno “di sinistra”.
Ma che votiamo partiti di sinistra non ci rende di sinistra, non è mai stato così. I partiti di sinistra hanno avuto la fortuna e l’intuizione – per decenni – di fare proprio il voto di tante persone non di sinistra: nei momenti migliori sapendolo usare per farle diventare un po’ più di sinistra.

Poi i tempi sono cambiati, le intuizioni sono calate, le fortune svanite, e quelle persone là sono andate a votare altri. A dirla completa, sono andate a votare partiti che hanno avuto un’intuizione nuova e più avanzata: somigliare a quelle persone, invece che rappresentarne i desideri. Rappresentare noi stessi come siamo invece che quello che potremmo essere: i nostri egoismi, i nostri razzismi, le nostre frustrazioni, le nostre mediocrità, i nostri bisogni di nemici, di capri espiatori, di sentirci vittime e incolpevoli dei nostri destini. Nei momenti peggiori aumentandole, tutte queste cose.

Perché sto dicendo tutto questo?, cosa ne facciamo? Perché sono sterili i discorsi sul “recuperare l’elettorato di sinistra” passato ad altri partiti, visto che non c’è l’elettorato di sinistra (quello di sinistra davvero è rimasto, o in parte non vota): la riflessione che andrebbe fatta è su come recuperare un elettorato che non è mai stato di sinistra e che si è dimostrato disponibile a muoversi, in tempi completamente cambiati – ma che molti pigri e stagionati osservatori trattano come il Novecento – senza smettere di essere un partito di sinistra.

E qui, benché l’abbia fatta già lunga, aggiungo una seconda ingannevole lettura sull’”elettorato”. C’è, tra chi fa politica e chi ne scrive, quest’idea rigida e monocorde dei rispettivi elettorati: salvo scoprire poi che se Trump diventa presidente non lo possono avere votato soltanto dei cowboy texani con gli stivaloni e il fucile. Tutte le analisi macchiettizzano enormi quote di una popolazione che non è mai stata tanto diversificata come oggi: le “periferie”, la “classe media”, i “giovani”, gli “anziani”, le “donne”, sono solo alcune delle macrocategorie a cui di volta in volta si decide che “bisogna rivolgersi a”. Ma queste macrocategorie sono molte cose diversissime al loro interno, oltre ad essere a loro volta minoranze, sempre. Un pensiero che sposta tutte le attenzioni su una soltanto a ogni fallimento dell’attenzione precedente (“bisogna tornare a parlare a quelli che prendono l’autobus” ho sentito dire a un aspirante segretario del PD di recente) è un pensiero cieco e superficiale, che ogni volta perde il pezzo precedente, conosce un solo registro, e poi li perde tutti. Prendete Renzi e la sua palese incapacità di conservare il consenso di una gran parte di elettori che si sentono esclusi dalla trasformazione del mondo contemporaneo e che non condividono le meravigliose sorti progressive del presente promosse da Renzi stesso: quella miopia è stata sconfitta, come si sa. Ma il risultato è che oggi viene sostituita da miopie nuove e da progetti di maggiori attenzioni “alle paure della gente” che stanno perdendo completamente di vista una cospicua parte di italiani che quel pensiero di contemporaneità, di trasformazione progressista e di prospettive promettenti lo condivideva (ricordo che il PD è stato ancora il secondo partito alle elezioni) e lo condividerebbe tuttora, ma lo vede sparito da qualunque idea di Italia circolante. Molti di quelli, si vede già, guardano con indifferenza ed estraneità alle primarie del PD. Persi anche loro (buona parte di loro, certo).
“Bisogna recuperare i giovani”, e però “bisogna pensare agli anziani”: ed è vero, sono vere entrambe. Il consenso si recupera recuperando “i consensi”, e lavorando su più fronti e con più progetti e visioni di un’Italia molto varia: molto varia. Non sarà “una soluzione” che salverà i partiti di sinistra in Italia – qualsiasi siano -, non sarà un deus ex machina: a meno che quel deus ex machina non abbia uno sguardo assai più mobile e duttile di quelli di noialtri persi a chiedere indicazioni nelle periferie.

 Luca Sofri  Wittgenstein  destra e sinistra, elezioni umbria, PD, sinistra
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Da - https://www.wittgenstein.it/2019/10/30/elettorato-di-sinistra/
3083  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Salvini mette all'angolo Di Maio: non puoi stare con il dittatore rosso inserito:: Novembre 21, 2019, 11:19:39 am
Salvini mette all'angolo Di Maio: non puoi stare con il dittatore rosso

Scontro nel vertice a Palazzo Chigi.
Per il leghista troppo morbida anche la posizione Ue
Pubblicato il 28/01/2019

AMEDEO LA MATTINA
ROMA
«Problemi loro, non del governo». Matteo Salvini sta prendendo le misure di Alessandro Di Battista, il front man dei 5 Stelle tornato dalle Americhe come Garibaldi per aiutare Luigi Di Maio, «amico fraterno», nella remuntada alle europee di maggio. Ma il leader leghista ha avvertito il vicepremier grillino, che fintantoché i problemi sono tutti interni al M5S, legati a dinamiche per ruoli e sensibilità diverse come quelle che esprime anche il presidente della Camera Roberto Fico, allora si va avanti. Attenzione a non farli diventare questioni di governo perché se si spezzasse il filo tra i due vicepremier ci sarebbe il cortocircuito e la fine dell’esperienza giallo verde. La stessa vicenda del Venezuela non può essere affrontata con le parole “terzomondiste” del Guevara grillino. Già la posizione presa dall’Unione europea a Salvini sembra troppo morbida e quella del premier Giuseppe Conte titubante, «poco coraggiosa».

Quattro giorni fa, quando i fatti di Caracas cominciavano ad impegnare l’agenda internazionale, c’è stato un vertice a Palazzo Chigi al quale hanno partecipato Conte e i suoi due vice. È stato Salvini a chiedere di prendere subito una posizione chiara e diretta contro Maduro, il «dittatore rosso», schierandosi con Washington. «Luigi, con chi stai?», ha chiesto a Di Maio, ben sapendo che dentro i 5 Stelle non mancano, anche su questo terreno, i problemi. «Ma a me delle loro fibrillazioni non interessa nulla: a me interessa continuare ad avere un buon rapporto con Di Maio», ripete sempre il capo del Carroccio ai colonnelli del suo partito. In quel vertice si è parlato di tante altre cose, della Tav ad esempio, ed è stata l’occasione in cui il leghista ha anticipato che avrebbe fatto dichiarazioni a favore della realizzazione della Lione-Torino, fregandosene delle analisi costi-benefici del ministro Toninelli. Per inciso: in quelle analisi tra i costi si parla di 8 miliardi di Iva, cosa che i leghisti definiscono fuori dal mondo. Ma tornando al Venezuela, e alla domanda «Luigi, con chi stai?», il sottinteso era: stai con Di Battista e il «dittatore rosso» di Caracas.

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La risposta del ministro del Lavoro è stata un né, né. Insomma non sapeva che pesci prendere. Per certi versi, ha detto Di Maio, Alessandro non ha torto quando dice che in Venezuela c’è il rischio di una guerra civile perché una parte dei venezuelani tifa per Maduro. E che quindi bisogna essere cauti nel lanciare ultimatum e dare l’impressione di stare dalla parte di Guaidó. Ma alla fine il governo si è trovato di fronte all’ultimatum di Bruxelles, sulla scia di Francia, Germania e Spagna, ed è rimasto un passetto indietro, un po’ defilato. Una soluzione che a Salvini non è piaciuta. L’importante è che non passi la logica di Di Battista. E ancora più importante per lui è che si sappia qual è la sua posizione. Questa volta non dalla parte della Russia di Putin, ma schierato con l’America di Donald Trump che spera di incontrare a fine mese a Washington.

L’occasione sarà il Cpac, il Conservative Political Action Conference, la conferenza annuale dei conservatori americani alla quale parteciperà il capo della Casa Bianca. Salvini ha già ricevuto l’invito attraverso Rudolph Giuliani, stretto collaboratore del presidente americano, dopo un incontro con il sottosegretario italiano agli Esteri Guglielmo Picchi. Al forum dei conservatori, che si svolgerà tra il 27 febbraio e il 2 marzo, è previsto l’intervento del leader della Lega: nei piani del Carroccio sarà già la consacrazione di Salvini in quel mondo, in ambienti politici statunitensi che contano davvero. Ma una stretta di mano e una photo opportunity con Trump sarebbe una chance mediatica eccezionale. I collaboratori del vicepremier ci stanno lavorando con gli amici americani. Intanto sul Venezuela e non solo non ci sono dubbi da che parte stare mentre i 5 Stelle sono sempre in bilico tra logiche di lotta e di governo.

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Da - https://www.lastampa.it/2019/01/28/italia/salvini-mette-allangolo-di-maio-non-puoi-stare-con-il-dittatore-rosso-l
3084  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / A. LA MATTINA. Bersani: “Non si capisce chi comanda nei Cinque Stelle... inserito:: Novembre 21, 2019, 11:17:19 am
Bersani: “Non si capisce chi comanda nei Cinque Stelle. Grillo fatti sentire”
L’ex segretario dem: «Avanti a oltranza con il governo. Un matto chi vuol farlo cadere»

Amedeo La Mattina
16 NOVEMBRE 2019
Roma. «Chi pensa solo per un secondo di far cadere il governo è un matto. Io sono per tenerlo in piedi ad oltranza. Nessuno sano di mente può essere rassegnato di fronte a una destra che vuole un’Italia più povera e autoritaria». Pierluigi Bersani si aggira per l’Hotel Radisson tra saluti e strette di mano, mentre in sala i “compagni” di Articolo Uno si pongono cento domande e provano a dare una risposta al significato di questa esperienza di governo con il loro leader, Roberto Speranza, a capo del ministero della Salute. Un dicastero che lo stesso Speranza definisce «il più sociale» di tutti, perché da lì passano competenze che entrano nella vita concreta delle famiglie.

Bersani è atteso al microfono. Una “compagna” gli dice che finalmente è possibile sentirlo dal vivo, qui all’assemblea nazionale di Articolo Uno, «e non solo in televisione». L’ex segretario del Pd dice che «la sinistra è a un bivio della storia», che ascoltare la piazza delle sardine a Bologna è molto più di una questione organizzativa, di una rifondazione, di «una prospettiva futura di un nuovo partito» che rimette insieme quello che «le politiche neoliberiste e suicide» di Renzi hanno diviso.

Certe volte sembra che il problema sia Matteo Renzi più che Matteo Salvini. Renzi non è comunque nel vostro campo contro la Lega e la destra? Bersani arriccia il naso e si fa una risata. «Per me Renzi con la sinistra non c’entra proprio nulla. Quello per me sta dall’altra parte. Chiaro? Ad essere più pericoloso è Salvini: da una parte abbiamo una destra forte e aggressiva, dall’altra un’armata Brancaleone. Ecco perché diventa vitale rifondare la sinistra, con una federazione o in qualunque altro modo, ma avendo la consapevolezza del rischio che corre l’Italia se dovesse prevalere una politica nazionalista e identitaria.  L’Italia da sempre importa dall’estero materie prime che non ha e le trasforma in prodotti da vendere all’estero. Se dovesse prevalere la politica dei dazi e della chiusura sovranista a pagarne le conseguenze saranno i lavoratori italiani e tutta l’economia italiana. Questo è un discorso che riguarda anche i 5 stelle, anche loro dovrebbero darsi una mossa».

Per la verità non si capisce chi comandi dentro M5S. «Esatto, non si capisce, loro dovrebbero dotarsi di un modo nuovo di prendere le decisioni, abbandonando modalità clandestine e subliminali. Caro Grillo, ci puoi pensare solo tu. Parla, fatti sentire». Non pensa che questo governo che si fonda sulla paura di Salvini non abbia vita lunga? «E infatti bisogna crederci, fare le cose giuste e molte abbiamo cominciato a farle. Roberto (Speranza ndr) sta lavorando benissimo sulla sanità, noi siamo gli unici che non rompiamo i coglioni, ma bisogna crederci. Invece vedo in giro rassegnazione, si aspettano gli errori di Salvini, si gioca in difesa. L’altro giorno ho letto in prima pagina su un quotidiano “La piazza che resiste”, ma resiste a cosa? Mica Salvini ha già vinto».

L’Emilia Romagna non può che essere in cima ai pensieri di Bersani. Dice che la situazione è in bilico, ma la strategia della Lega a suo avviso alla fine non pagherà. Non pagherà in quella Regione, come potrebbe accadere in altre, per il ciclone Salvini e la sua sovraesposizione che mette in ombra la candidata Lucia Borgonzoni. «Dobbiamo far emergere l’idea di Emilia-Romagna, quella che è stata, quella che ancora oggi è e sarà in termini di servizi, solidarietà, tolleranza. Certo, se avessimo difeso l’operaio dai licenziamenti, credo che oggi avrebbe meno problemi con i migranti, sarebbe più sereno. E invece che ha fatto il governo del Pd? Ha messo il Jobs act. Un capolavoro. Anche Bonaccini, che ora fa la battaglia contro le tasse sulla plastica, se avesse detto qualcosa contro il Jobs Act e certe politiche neoliberiste sarebbe stato utile anche a lui, oggi. Detto questo, noi ci batteremo pancia a terra per vincere».

Per rimanere nella sua Regione: crede che Salvini stia sbagliando campagna elettorale? Bersani si accalora. «Ma secondo voi deve venire Zaia dal Veneto o Fontana dalla Lombardia per insegnare agli emiliani romagnoli come si amministrano la sanità, i servizi pubblici, o come si aiutano le aziende a crescere e fare sistema? Siamo stati noi a importare in Italia gli asili nido dalla Svezia. Ma per favore, siamo seri. Se fosse vivo Guazzaloca (l’ex sindaco di Bologna voluto dal centrodestra) avrebbe mandato a sbattere Salvini, Zaia e Fontana in dialetto bolognese, quello verace».

Bersani ha ancora un briciolo di ottimismo a condizione che tutti si diano   «una mossa» e non pensino di rigenerare la sinistra all’ombra di «una destra illiberale, non fascista, che è capace di durare e mettersi il doppio petto». «È la stessa destra che mi rincorreva per strada quando da ministro dell’Industria ho introdotto la portabilità dei mutui».

Da - https://www.ilsecoloxix.it/
3085  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Le aziende che vincono sanno costruire esperienze memorabili inserito:: Novembre 21, 2019, 11:13:57 am
CATEGORIA: VENDERE E COMPRARE
Le aziende che vincono sanno costruire esperienze memorabili

 Scritto da Luca Foresti il 11 Novembre 2019
Ogni volta che proviamo un prodotto o un servizio, anche se non sempre ne siamo coscienti, arriviamo con delle aspettative abbastanza precise. Poi proviamo la novità e quello che proviamo, le nostre percezioni, possono essere inferiori, in linea o superiori alle aspettative. Nella fascia in cui la realtà batte le nostre aspettative può accadere che l’esperienza ci produca alcune emozioni. Ne elenco alcune:
– Stupore
– Simpatia
– Divertimento
– Forte empatia percepita
– Sensazioni di essere a casa propria, a proprio agio, con persone di cui possiamo fidarci

Quando proviamo queste emozioni nella nostra mente scatta un meccanismo preciso: ricorderemo da lì in avanti quell’evento in modo molto forte e probabilmente lo racconteremo ripetutamente ad altri per la sua eccezionalità. In questi casi si può parlare di esperienze di acquisto memorabili.

Oggi sul mercato vincono quelle aziende che sanno costruire esperienze memorabili, che non si accontentano di erogare servizi di buona qualità, con bassi tassi di errore, ma che lavorano incessantemente su:
– Selezione del personale con skills umane molto forti
– Formazione alla relazione
– Controllo del modo con cui il proprio personale tratta i clienti
– Raccolta maniacale di feedback da parte dei clienti e immediato intervento strutturale su tutto ciò che allontana l’esperienza dall’essere memorabile
– Creazione di una cultura ossessionata dalle percezioni del cliente e capace di considerarle come dei fatti in sé su cui lavorare

Il design di servizio costituisce le fondamenta su cui si innova costantemente, puntando l’attenzione non solo ai costi vivi ma a quelli “cognitivi” del cliente, semplificandogli la vita. Abbassare i costi cognitivi è quasi sempre la killer-action per un servizio.

Tutti noi abbiamo in mente alcuni ristoranti, negozi, acquisti online, in cui abbiamo provato questo tipo di esperienza. E se ci pensate la nostra fedeltà a queste aziende è molto forte. Con un rischio insito: da quel momento abbiamo spostato le nostre aspettative rispetto a quel servizio più in alto. Se in un’industria si presenta un operatore capace di erogare servizi memorabili, tutta l’industria cambia improvvisamente a causa delle nuove aspettative da parte dei clienti su quello che possono avere. E se i competitor non si adattano rapidamente il nuovo operatore cresce in modo sproporzionato sull’onda del passaparola tra clienti.
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Concedetemi per una volta di parlare della mia esperienza imprenditoriale diretta. Al Centro Medico Santagostino abbiamo analizzato attentamente quel che accadeva nel rapporto con i nostri clienti (pazienti, nel nostro caso, perché ci occupiamo di sanità) e abbiamo cercato di capire quali erano le regole sottostanti a questa relazione. Siamo partiti da un’idea di base semplice: la generazione di valore avviene quando nel dialogo c’è la comprensione reciproca. C’è differenza tra sentire e ascoltare. Il primo concetto fa riferimento a un processo legato ai sensi, è superficiale; il secondo si riferisce a un coinvolgimento interiore, a un “mettersi nei panni” dell’altro (e nel caso di un momento delicato come una visita medica o esame questo vale ancora di più). Il valore si crea quando c’è ascolto, che genera una condizione di empatia.

Osservando le buone pratiche già in essere, abbiamo creato un manuale di comunicazione rivolto a tutto il personale di front office che fornisce un elenco di comportamenti virtuosi, spinge ciascuno a individuarne altri e punta a rendere memorabile l’esperienza. Si parla di empatia, ascolto attivo, capacità di gestire la comunicazione in situazioni di conflitto, spirito di osservazione, capacità di mettere sempre l’utente al centro… Abbiamo individuato – all’interno del personale di front office – un gruppo di “champions” che ha il compito di formare tutti i loro colleghi su queste specifiche skills. Al termine del periodo di formazione altri “champions” subentrano e il processo è un costante work in progress che ha l’obiettivo del miglioramento continuo. Non pensiamo di aver già raggiunto l’obiettivo, ma abbiamo indicato chiaramente la direzione verso la quale vogliamo andare. Il manuale l’abbiamo messo online, è disponibile per chiunque lo voglia consultare.

Essere aziende capaci di erogare in modo sostenibile esperienze memorabili è oggi una assicurazione di forza e crescita nel mercato. È difficile farlo, ma è l’investimento più importante in termini strategici che un’azienda possa fare.

Da - Twitter @lforestihttps://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/11/11/aziende-esperienze-memorabili/?uuid=96_gHTeXRUL
3086  Forum Pubblico / LA CULTURA, IL MONDO DEL LAVORO, I GIOVANI, L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA. / Il calcolatore di Ivrea in America volle andar (rubato dagli USA) inserito:: Novembre 21, 2019, 11:12:35 am
Il calcolatore di Ivrea in America volle andar

Nuovo appuntamento settimanale con la Domenica, il supplemento culturale del Sole 24 Ore. Il viaggio questa volta è nella storia economica d’Italia, e prende le mosse dall’apertura degli archivi storici di Mediobanca. Sono stati infatti digitalizzati, e messi a disposizione degli studiosi, i verbali che raccontano i retroscena della cessione della divisione elettronica della Olivetti agli americani di General Electric. Siamo sulle tracce di un giallo, di un vero e proprio mistero storico” scrive Paolo Bricco sulla Domenica.  Si tratta della cessione della divisione elettronica della Olivetti. Che, nel tempo alterato dalla immaginazione, ha generato mitologie positive e negative, e ha acceso le fantasie di quanti, alimentandosi della riservatezza che si faceva segretezza nella Mediobanca di Enrico Cuccia, hanno per sessant’anni costruito sogni e ipotesi, illazioni e giudizi intorno a quello che a lungo è stato considerato – e per molti ancora è - uno dei principali passaggi mancati della storia italiana. Mediobanca apre ora alla comunità degli studiosi il suo archivio intitolato a Vincenzo Maranghi. E, dopo avere riordinato e digitalizzato tutte le carte dei suoi primi vent’anni (dal 1946 al 1966), compie una operazione culturale in grande stile. Andando, appunto, al cuore di una delle questioni che hanno interrogato le élite – quando ancora le élite esistevano – intellettuali ed economiche, politiche e sindacali del nostro Paese: è stato veramente necessario il sacrificio dei grandi calcolatori con il loro passaggio agli americani di General Electric? Le condizioni dell’impresa erano così prefallimentari da giustificare l’ingresso nel capitale del Gruppo di Intervento, imperniato su Mediobanca e costituito anche da Fiat e Pirelli, La Centrale e Imi? Intorno a tutte queste domande, ora, è possibile per ciascun lettore formulare un proprio giudizio, supportato dai documenti pubblicati nel volume Mediobanca e il salvataggio Olivetti. Verbali delle riunioni e documenti di lavoro 1964-1966, un testo di fonti curato da Giampietro Morreale. Il verbale del primo colloquio, avvenuto il 25 gennaio 1964, fra Enrico Cuccia, Silvio Salteri (capo del servizio crediti) e Roberto Olivetti, mostra l’atterrimento del figlio di Adriano di fronte alle condizioni dell’impresa e al disorientamento della sua famiglia, divisa e piena di debiti.

Nel menu della Domenica molti altri argomenti.
Dal Sole 24 Ore 17/11/2019
3087  Forum Pubblico / LA CULTURA, IL MONDO DEL LAVORO, I GIOVANI, L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA. / A piedi nudi nel parco sull'Arno inserito:: Novembre 21, 2019, 11:10:37 am
A piedi nudi nel parco sull'Arno

Nuovo appuntamento settimanale con la Domenica, il supplemento culturale del Sole 24 Ore. Questa volta, con la complicità di Carlo Ossola, ci avventuriamo in una piacevole passeggiata a ritroso nel tempo, alla scoperta dei giardini di Firenze, della loro storia, del loro stare al centro di un incontro virtuoso tra botanica, urbanistica, storia del costume, letteratura.

Tutto nasce dall’imponente lavoro di divulgazione di Angiolo Pucci (Firenze 1851-1934). Pucci proveniva da una famiglia di giardinieri granducali stabilitasi a Firenze nella seconda metà del Settecento. Ereditò la passione per l’orticoltura dal padre Attilio, capo giardiniere di Boboli, collaboratore con Poggi nelle realizzazioni del piano di ingrandimento di Firenze Capitale e primo soprintendente del servizio comunale dei Pubblici passeggi e dei giardini.

Dopo essere succeduto per pochi anni al padre nella soprintendenza, Angiolo si dedicò all’attività di studioso e di divulgatore della scienza orticola e dell’arte del giardinaggio. Fu autore di numerosi e squisiti manuali.

L’ultimo volume che raccoglie gli scritti di Pucci, il quinto della serie, pubblicato dalla fiorentina Olschki, presenta una “topografia della memoria” di straordinario e capillare fascino: di famiglie, di vie, di passaggi di proprietà, di gelose dimore e di esposizioni universali: si entra nella storia dalle svolte delle proprie passeggiate nei colli fiorentini, ripercorrendo a memoria i versi delle Grazie del Foscolo: «Date il rustico giglio, e se men alte / ha le forme fraterne, il manto veste / degli amaranti invïolato: unite / aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie / di Bellosguardo che all’amante suo / coglie Pomona…».

“Inoltrarsi”: tale è il vero senso di ogni paesaggio, che assorbe spaesando: una sorta di Arrière-pays - suggerirebbe Bonnefoy  - nel quale si comprende che  l’arte della natura fa del “qui” il “sempre”: «Consiste nel non dimenticare il qui nell’altrove: il tempo, l’umile tempo del vissuto quaggiù, tra le illusioni di laggiù, ombra dell’intemporale».

Nel menu della Domenica molti altri argomenti.
DA – ILSOLE24ORE.COM
3088  Forum Pubblico / LA CULTURA, IL MONDO DEL LAVORO, I GIOVANI, L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA. / COVER STORY L’emozione del tartufo inserito:: Novembre 21, 2019, 10:54:59 am
COVER STORY
L’emozione del tartufo
   
Oltre alle quattro tradizionali stagioni, ne esiste un’altra: inizia il 21 settembre e si chiude il 21 gennaio, e non possiede un nome, ma un profumo. Quello del tartufo bianco di Alba, che si raccoglie ufficialmente solo in questi quattro mesi. Un periodo in cui i gruppi di interesse più diversi si riuniscono in Piemonte, al richiamo della Fiera Internazionale del Tartufo, fra naturalisti che si avventurano nei boschi con i “trifulau”, gli esperti raccoglitori, e appassionati d’arte che visitano mostre di arte contemporanea aperte per l’occasione. A unire tutti è l’impazienza di farsi emozionare naso e palato dagli aromi di quel fungo ipogeo che muove intorno a sé mezzo miliardo di euro di giro d’affari. Ma non togliamo romanticismo con le cifre. Con Fernanda Roggero, nella cover story del nuovo numero di lifestyle, domani in edicola con Il Sole 24 Ore, parliamo invece di menù che lo abbinano a capesante e seppie, delle regole per scegliere il pezzo perfetto (anche perché costa 300 euro l’etto) e conservarlo al meglio (in frigo, ma niente riso!), di chef che progettano sofisticati tagliatartufi che regalano lamellature chirurgiche. E scoprirete anche come una passione gastronomica può contribuire a tutelare la biodiversità delle foreste.

Da ilsole24ore.com
3089  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / ITALIA VIVA. inserito:: Settembre 29, 2019, 06:42:39 pm
ITALIA VIVA.

Renzi: «Investimenti verdi ma senza alzare le tasse»

Domenica 22 Settembre 2019

Di Barbara Jerkov

Senatore Renzi, si chiude la prima settimana di Italia Viva. In che cosa la sua idea di Paese non era più compatibile con quella del Pd?
«Mandato a casa Salvini e portato il Pd al governo, dovevamo fare chiarezza in casa nostra. Zingaretti ha scelto per le riforme un deputato che era contro il referendum e per il lavoro chi ha sempre attaccato il Jobs Act: una radicale discontinuità, come se si vergognasse delle nostre politiche. E prima delle singole scelte c'è un dato di fatto: sette anni di litigi, discussioni, fuoco amico hanno stancato tutti, per primi gli italiani. Come nelle coppie che le hanno provate tutte a un certo punto è meglio dividersi che continuare a litigare. Noi avremo sempre rispetto per il Pd: anziché celebrare una finta unità, prendiamo semplicemente un'altra strada. Lasciamo la comodità e scegliamo la libertà. Lasciamo le correnti e scegliamo la chiarezza. Lasciamo le polemiche e scegliamo il coraggio».

Certo che ne ha fatto di clamore: di sicuro, ha spaventato un po' tutti, a sinistra come a destra. Le sue rassicurazioni sulla stabilità del governo non sembrano aver convinto Conte in primo luogo. Come mai?   
«Preoccupazione curiosa. Se non ci fossimo schierati noi questo governo non sarebbe mai nato e Conte oggi farebbe altro. Non chiediamo riconoscenza o riconoscimenti ma invitiamo tutti a lavorare. C'è da evitare l'aumento dell'Iva, da combattere l'evasione, da investire sull'ambiente senza ideologie: parliamo di cose serie, nessuno viva di paure. Questa legislatura arriverà al 2023 e questo governo deve sfruttare la tranquillità dei mercati e dell'Europa».

Il premier l'altro giorno si è dichiarato di sinistra. L'ha sorpresa? E lei come collocherebbe Italia Viva?
  «Come si definisca lui non mi riguarda. Quanto a me: quelli della Ditta non mi hanno mai considerato uno di loro. Adesso che torneranno tutti insieme e che io sono fuori («finito» come dice D'Alema alla festa di Leu) il problema non si pone più. Io sono quello dei diritti civili, del terzo settore, della legge sul dopo di noi, degli 80 al ceto medio, dell'abbassamento delle tasse, della fatturazione elettronica, di Industria 4.0, della cooperazione internazionale, dell'euro in cultura-euro in sicurezza. Per me parlano i fatti, per altri contano i convegni. Poi se non mi riconoscono la patente ufficiale di uomo di sinistra e la danno a Conte o alla Lorenzin va bene lo stesso. Canta Guccini: Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me cos'è la libertà. Spero che mi sia permesso di citare ancora Guccini».

In Umbria e in Emilia non correrete, condivide l'idea di un'alleanza del centrosinistra con M5S e sosterrà il loro candidato?
«Italia Viva non è un'operazione di palazzo. Certo: ci sono una quarantina di parlamentari. Ma ci sono soprattutto migliaia di persone che stanno riscoprendo il gusto di fare politica. C'è un entusiasmo simile a quello del 2012 quando partimmo in giro per l'Italia. Per questo non parteciperemo alle elezioni regionali: vogliamo strutturarci partendo dal basso, non dagli eletti. Io ovviamente fossi emiliano voterei Bonaccini, fossi umbro voterei il candidato civico che sarà individuato nei prossimi giorni».
 
Immagino che la sua delegazione nel governo intenda segnalarsi con proposte precise. In particolare, avanzerete richieste particolari in vista della manovra?
«Abbiamo un gruppo di parlamentari di grande qualità. Stiamo creando una bella squadra e daremo una mano sulla Legge di Bilancio. Il tutto senza polemiche. La nostra bandiera sarà il Family Act al quale sta lavorando la ministra Bonetti: partire dalla famiglia è la priorità. Siamo in una crisi demografica pazzesca: doveroso aiutare i figli, i genitori, gli asili nido. Ma sinceramente spero che questa proposta diventi una proposta di tutto il Parlamento, persino dell'opposizione. Elena Bonetti sta lavorando bene, giudicatela sui fatti».

Si prevedono già liti e tensioni, lo sa vero?
«Certo che ci saranno confronti. Le faccio un esempio: noi siamo per un grande piano di investimenti verdi sul modello di quello lanciato dalla Merkel e se possibile più ambizioso. Lo presenteremo alla Stazione Leopolda e sarà una nostra deputata esperta di economica circolare a presentarlo, Maria Chiara Gadda. Ma questo non significa che per essere verdi dobbiamo alzare le tasse agli agricoltori o ad altri: se lo facessimo faremmo un danno a chi cura il territorio come giustamente ha fatto notare la ministra Bellanova. Dunque ci faremo sentire non con spirito polemico ma costruttivo. Per difendere l'ambiente dobbiamo coinvolgere gli agricoltori, non tassarli. È solo un esempio. Per il nostro Piano Verde servono i contatori digitali e le nuove tecnologie, non la politica dei no alle metropolitane e alle tramvie. Come vede: noi staremo sul merito, sempre».

A primavera ci sarà una importante tornata di nomine: lei siederà a quel tavolo?
«No, io non sarò al tavolo come non sarò a nessun tavolo politico ai quali parteciperanno invece i nostri coordinatori. Non nutro alcuna rivincita e se ho fatto ciò che ho fatto è per dare una mano al Paese, non per rivendicare uno strapuntino. Io oggi sono a Pechino: continuerò a viaggiare per le mie conferenze. Il partito sarà guidato da un uomo e da una donna i leader provvisori sono Ettore Rosato e quella straordinaria donna che risponde al nome di Teresa Bellanova perché per noi è fondamentale riaffermare la diarchia e la presenza femminile. Le donne sono fondamentali nella società e dobbiamo coinvolgerle di più in politica. Saremo il partito più femminista della storia italiana e saremo d'esempio anche per gli altri partiti: dopo la nostra decisione spero aumenteranno le donne in prima fila. Intanto partiamo noi, gli altri seguiranno. Formalizzati i gruppi, Rosato e Bellanova chiederanno un appuntamento a Conte e agli altri leader: lo faranno loro, non io. Nessuno dovrà subire l'onta di sedersi al tavolo con Renzi, rassicuriamoli».

Mi permetta di dubitare che lei si disinteressi del tema delle partecipate...
«Io sono molto interessato al futuro delle grandi aziende. Ma a differenza del racconto volgare che viene fatto dai più mi interessano le strategie non un posto nel board. Le faccio un esempio: è assurdo continuare a tenere divise Fincantieri e ciò che si chiamava Finmeccanica e ora è Leonardo. Un assurdo perché paradossalmente espone entrambe a una possibile acquisizione straniera, probabilmente europea. Perché non metterle insieme facendone un leader di mercato? Di questa e di altre proposte parleremo alla Leopolda. Non mi troverete al tavolo delle nomine ma sarò in prima fila nella discussione sul futuro della nostra economia: perché questa è la politica. Spero che chi ha mire sulle poltrone punti a indicare i nomi migliori. E che poi tiri fuori anche qualche idea su cui discutere, come abbiamo fatto noi».

La giustizia è sempre stato un tema su cui lei ha avuto idee decisamente lontane da quelle dei 5Stelle: chiederete di ridiscutere la riforma Bonafede? Tra l'altro se non si interviene con un decreto, a gennaio entra in vigore anche la nuova prescrizione.
«Ascolteremo ciò che ci dirà il ministro e ci confronteremo pacatamente. L'obiettivo di ridurre i tempi della giustizia è sacrosanto. Introdurre elementi di novità nel funzionamento del Csm altrettanto: fosse per me abolirei le correnti anche nella magistratura, non solo in politica. Sono certo che troveremo un equilibrio nel rispetto del programma di governo».

L'inchiesta aperta dalla procura di Firenze sulla sua ex fondazione, Open, proprio nei giorni della nascita del nuovo partito l'ha sorpresa?
«Nessuna polemica. Non è la prima inchiesta che viene dal procuratore Luca Turco e dal suo capo Creazzo: sono certo che non sarà l'ultima. Che lavorino tranquilli sui numerosi dossier che hanno aperto: noi rispettiamo i magistrati e aspettiamo le sentenze della Cassazione, come prevede la Costituzione. Tutto il resto è polemica sterile. Stimo l'avvocato Bianchi e sono certo dell'assoluta correttezza di Open, che peraltro è già chiusa. Quanto alla Leopolda: la pagheremo a fatica, come tutti gli anni, ma senza pasticci. Consideri che solo negli ultimi quattro giorni la nostra piattaforma di raccolta fondi ha ricevuto più di diecimila euro al giorno di piccole donazioni: la Leopolda ce la pagheremo anche così. C'è un sacco di gente che ci vuol dare una mano, quando la sera vedo i risultati dalla piattaforma o leggo le email mi commuovo. Saremo una sorpresa, innanzitutto per noi stessi».

Suoi amici storici non l'hanno seguita in questa avventura. Da Guerini a Lotti hanno fatto scelte diverse. Rapporti finiti anche sul piano personale? C'è qualcuno che le dispiace più di altri di non avere più al suo fianco?
«È un tema molto delicato. Loro volevano che io facessi una corrente, io mi sono rifiutato perché penso che la balcanizzazione correntizia abbia ucciso il Pd. Abbiamo dunque idee diverse, da mesi. Da un lato c'è amarezza perché quando dividi la strada da un amico fraterno ti dispiace. Dall'altro c'è la consapevolezza quasi orgogliosa di chi si vede riconoscere una verità sempre negata: mi hanno detto che io mi circondavo solo di yesman. Non è così. Io mi circondo di persone libere che come tali mi abbandonano quando vogliono. È libero chi va, è libero chi resta: la nostra è serietà. E proprio per questo restiamo amici. Perché prima della politica c'è la vita, la qualità delle relazioni umane. E in settimana andrò a salutare il ministro Guerini nel suo ufficio, per abbracciarlo e per augurargli buon lavoro: sono orgoglioso di aver concorso alla sua scelta anche se ha deciso di non seguirci in Italia Viva».

Legge elettorale: si parla tanto di ritorno al proporzionale, la sua vocazione maggioritaria c'è ancora?
«Io sono per il maggioritario da sempre. Ho perso la guida del governo per garantire all'Italia un sistema più semplice collegato a una legge elettorale in cui si sapesse la sera il nome del vincitore. Tutti gli altri si sono messi insieme per dire no e mantenere un sistema diverso. Un mese fa il Pd e M5S hanno fatto un accordo: taglio dei parlamentari e proporzionale. Hanno detto che il proporzionale era un dovere per evitare un rischio democratico. Ora hanno cambiato idea perché noi abbiamo fatto Italia Viva? Va bene. Noi non faremo battaglie sulla legge elettorale: che si voti col Rosatellum, col doppio turno, col proporzionale Italia Viva ci sarà. E sarà molto radicata, lo vedrete. Abbiamo preso il passo della Maratona, non dei 100 metri».

Tra un paio di settimane saremo tutti davanti alla tv per seguire il suo duello con Salvini: un modo per certificare che è lei il vero leader anti-sovranisti, con buona pace di Conte, Di Maio e Zingaretti?
«Se il confronto tv si farà, se Salvini non si tirerà indietro come sempre in questi anni, sarà ordinaria amministrazione. Nei Paesi civili i leader politici si confrontano: solo da noi i talk sono la tribuna per interventi in solitaria o duelli con commentatori spesso schierati a prescindere. Quindi se ci sarà un confronto tv con Salvini, evviva. Vespa vuole me al confronto perché l'audience della mia puntata è stata molto alta, tutto qui. Sogno di vederne anche uno con Conte o con Zingaretti, magari saranno più convincenti di me».

Un'ultima domanda, presidente. Dicono che molti parlamentari, da destra e da sinistra, siano pronti a saltare a bordo di Italia Viva. Non vede il rischio di vecchie liturgie di palazzo?
«Italia Viva sarà una cosa totalmente nuova. Alla Leopolda partirà il tesseramento. Ma sarà possibile solo online così eviteremo i signori delle tessere che infestano il Pd in alcune realtà geografiche. E soprattutto per ogni tessera pianteremo un albero. Un albero vero. Oggi la sfida per un ambiente sostenibile passa anche da piccoli gesti come quello. Seminiamo e piantiamo, con lo sguardo sul lungo periodo. I millennials della scuola di formazione saranno in prima fila nella costruzione di questa Casa, le donne avranno presenza paritetica a cominciare dalla leadership di Teresa e a giugno del 2020 riuniremo gli amministratori per un nuovo Big Bang come otto anni fa a Firenze, quando iniziò la nostra avventura. A tutti quelli che ironizzano sul fatto che siamo piccoli e bassi nei sondaggi dico: bene così, no? Se non contiamo nulla, perché vi preoccupate? Ignorateci pure. Noi cresceremo nella società. E ci rivedremo alle elezioni: ci riconoscerete perché saremo quelli col sorriso, quelli che non fanno polemiche interne, quelli che non hanno correnti ma idee».

Ultimo aggiornamento: 09:24
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Da - https://www.ilmessaggero.it/pay/edicola/renzi_nuovo_partito_italia_viva_programma-4749143.html
3090  Forum Pubblico / LA COSTITUZIONE, la DEMOCRAZIA, la REPUBBLICA, vanno Difese! Anche da Noi Stessi. / CALABRÒ: CON L’IMPRESA RIFORMISTA L’ITALIA PUÒ RIPARTIRE, DA NORD A SUD. inserito:: Settembre 28, 2019, 05:31:04 pm
CALABRÒ: “CON L’IMPRESA RIFORMISTA L’ITALIA PUÒ RIPARTIRE, DA NORD A SUD”

GABRIELE CATANIA
11 marzo 2019

Papa Francesco. Colin Crouch. Antonio Genovesi. Zygmunt Bauman. Carlo Maria Cipolla. Adriano Olivetti. Norberto Bobbio. Sono questi i nomi di alcuni degli astri della costellazione culturale a cui guarda Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli, vicepresidente di Assolombarda, e autore di numerosi saggi sull’industria italiana.

L’ultimo, “L’impresa riformista – Lavoro, innovazione, benessere, inclusione” (Bocconi Editore), ha al centro uno dei pilastri dell’identità dell’Italia, nazione che il capitalismo lo ha inventato: l’impresa. O meglio, un particolare tipo di impresa. L’impresa che è sì competitiva, ma sa anche essere comunità, “luogo d’incontro, conflitto e sintesi di interessi diversi”; l’impresa coesiva, pronta a puntare sulla “fabbrica bella” e sul welfare aziendale, sulle tecnologie più dirompenti e complesse dell’Industria 4.0 ma pure sulla sostenibilità ambientale e sociale e sull’economia circolare.

Un’impresa utopica? Non proprio, perché in Italia – seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania Exportweltmeister – di imprese così ne esistono. Sono ad esempio le “fabbriche belle” che costellano il paese. A Milano e nel resto della Lombardia, certo, ma anche in Piemonte (gli stabilimenti sostenibili Pirelli, Lavazza e L’Oréal a Settimo Torinese, o l’Avio di GE a Cameri, nel novarese); in Veneto (per esempio la Zambon a Vicenza) e in Toscana (la “fabbrica giardino” di Prada a Valvigna, in quel di Arezzo); nell’Emilia-Romagna che dà lezioni al mondo quanto a capacità di coniugare manifattura hi-tech e sviluppo sociale; nell’Umbria degli stabilimenti di Brunello Cucinelli a Solomeo, nelle Marche delle aziende Della Valle; in Lazio, nel Mezzogiorno dei nuovi distretti tecnologici, nella Sicilia che impara a valorizzare il suo straordinario patrimonio agroalimentare.

Un’impresa, dunque, abile nel coniugare profitti e responsabilità, attenzione agli shareholders ma anche all’ambiente. Un’impresa dinamica, ma anche attenta ai tempi lunghi, paziente. Un’impresa dove il confronto tra capitale e sindacato c’è, a volte è anche duro, ma dove si riconosce l’apporto preziosissimo del lavoro, e dell’intelligenza. Perché come scriveva quel grande pensatore e patriota del Risorgimento che fu il milanese Carlo Cattaneo, “non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza”. Essere azienda riformista, secondo Calabrò, significa dunque essere fucina di intelligenza e progresso. Ed esserne consapevoli. In ogni parte d’Italia. Compreso il Sud, con il suo straordinario potenziale ancora da sfruttare.

Il saggio, che sarà presentato martedì 12 marzo alle ore 19 in Assolombarda (con Carlo Bonomi, Cristina Messa, Carla Parzani e Marco Tronchetti Provera), mira a far discutere. Sotto, alcuni estratti della conversazione con l’autore.

Calabrò, lei parla di “impresa riformista”. Tale concetto non potrebbe quasi suonare, a taluni, come un ossimoro?

Tutt’altro. È invece lo spostamento del ruolo dell’impresa da un terreno puramente economico a uno più sociale. Sia chiaro: le imprese, per loro natura, fanno profitti; tuttavia sono anche un grande motore di cambiamento, sociale e generale. Lo sono sempre state. E in questo momento storico è importante prenderne atto. In una fase di crisi della politica, dei riferimenti, delle relazioni, l’impresa riconferma non un altro ruolo, ma il suo ruolo. Che è quello di essere sì una struttura che produce ricchezza, ma riesce a farlo in quanto lavora sull’innovazione, sulle relazioni, sul rapporto col territorio, sull’inclusione sociale. Cose che ha sempre fatto, ma che oggi vanno ribadite.

Le imprese sono un grande motore di cambiamento, sociale e generale.
L’impresa come fucina d’intelligenza, innovazione, progresso, inclusione. Lei cita vari esempi; cita la Olivetti, la Pirelli, le “fabbriche belle” che si moltiplicano da un capo all’altro della penisola…

Ma le radici sono lontane. Ad esempio nel Costituto del 1309, norma fondante della città di Siena: una città di mercanti, d’imprenditori, che però si preoccupa del benessere generale. È questa la natura dell’impresa.

Nel suo libro lei cita spesso il grande storico dell’economia Carlo M. Cipolla, che ci ricorda come gli italiani, da secoli, sappiano fare, “all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Del resto sempre Cipolla ci insegna: “Se l’Italia vuole prosperare nelle condizioni naturali in cui si trova deve esportare”.

Esattamente…
Ecco perché le imprese protagoniste del suo libro, che innovano ed esportano in tutto il mondo, sono cruciali. Certo, gli imprenditori italiani queste cose le fanno ma…

Ma non le dicono, non le raccontano. Anzi, hanno quasi una sorta di pudore nel raccontare se stessi.

In questo libro, come pure in un saggio precedente, “La morale del tornio”, lei menziona spesso il pensiero del pontefice, Francesco. Ad esempio l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Perché?

Perché credo che la Chiesa sia una grande istituzione in grado di raccogliere e manifestare pensieri morali che incidono sulla società. E nella condizione di crisi dell’autorità, dei riferimenti culturali, dei pensieri profondi, la Chiesa continua a fare questo lavoro. D’altra parte, la costruzione dell’identità europea, se vogliamo fare alcuni passi indietro nel tempo, passa attraverso un luogo che è contemporaneamente religioso e sociale: le abbazie benedettine. L’Europa nasce nelle abbazie benedettine, e infatti San Benedetto è il patrono d’Europa. E quella capacità di pensiero e di lavoro, che oggi ispira le parole di Papa Francesco, è una straordinaria lezione di storia e di attualità.

E in effetti nei monasteri dell’alto, e dell’altissimo Medioevo, ci fu il salvataggio e il recupero del patrimonio culturale del mondo antico.

Un recupero fondamentale. Del resto quel patrimonio continua a darci delle grandi lezioni, dei riferimenti sui quali vale la pena riflettere.

In Italia ci sono imprenditori assai consapevoli di questo retaggio: come Brunello Cucinelli, per fare un esempio dall’Italia centrale. Ma senta: che cos’è un imprenditore?

Gli imprenditori sono dei soggetti che individuano un’esigenza ancora priva di risposte e lavorano per riuscire a darne, con un nuovo prodotto o un servizio. Un imprenditore è una specie di eretico della trasformazione.

L’Europa nasce nelle abbazie benedettine, e infatti San Benedetto è il patrono d’Europa.

Questa è una bella definizione. E senta, sempre restando nell’ambito della cultura antica, lei in questo libro ma anche in “La morale del tornio”, tesse gli elogi di tre lettere molto familiari ai latinisti, cum. Perché?

Perché credo che il cum sia dentro la natura dell’impresa. Come dimostra la parola stessa ‘competizione’: cum e petere, andare insieme verso un obiettivo comune. L’impresa è un soggetto in cui più forze convivono e collaborano. Le trasformazioni sociali sono agite dal mondo dell’impresa, anche nei momenti di conflitto più forte. Perché l’impresa sta dentro le dimensioni sociali e le modifica. È un soggetto della comunità, della collettività. Cum.

Non si può pensare a un’impresa “atomo”, a un’impresa sganciata dal suo contesto.
No. Un’impresa è ciò che fa, i suoi fornitori, i suoi clienti. L’impresa compra da qualcuno e vende a qualcun altro, è un soggetto di relazioni.

Quindi si contamina, appunto, con l’esterno.
Esattamente, un’impresa vive dentro la società. È quindi un animale sociale, se volessimo parafrasare Aristotele.

E nessun’impresa è un’isola, se volessimo parafrasare John Donne.

Assolutamente no. Neanche un supermercato lo è [ride], per citare quell’eccellente pubblicità.

Questo suo pensiero, che è il pensiero (consapevole o meno) di tanti imprenditori, da Bolzano a Siracusa, questa cultura del cum, è antitetica rispetto a una certa cultura dominante, che invece è una cultura del “collettivo ridotto”, del tribale.

Certo. Vede, nella natura dell’impresa c’è un elemento fortemente individuale. L’imprenditore, l’innovatore, è un soggetto singolo e per certi versi solitario, che però realizza la sua natura all’interno di una struttura sociale.

Struttura sociale che è portato, tendenzialmente, ad allargare, a estendere, ad ampliare.

Beh sì: quella cosa si chiama mercato, e il mercato è un soggetto sociale.

Un mercato che per le imprese italiane arriva sino alla Cina, al Sudafrica, al Canada, alla Norvegia.

Esattamente. Ma, per tornare alla lezione di Cipolla, le nostre imprese lo hanno sempre fatto. Hanno sempre esportato ovunque.

Perché l’Italia è un paese povero di materie prime, di risorse; quindi o trasforma le risorse di altri o non è niente.

Non è solo questo, è anche un tema geografico: il nostro è un paese sul mare. Quanto sono lunghe le coste italiane? Noi siamo un paese aperto sul Mediterraneo. Il momento in cui ha inizio la nostra modernità è quello delle repubbliche marinare, ancora prima della scoperta dell’America.

Assolutamente: Amalfi, Genova, Venezia, Pisa, ma anche Ancona, Gaeta…

Noi siamo un paese di realtà al contempo economiche, sociali, culturali, che stanno dentro il Mar Mediterraneo.

E questo se permette, è un errore che abbiamo compiuto: l’Italia si è un po’ dimenticata del Mediterraneo. Ha dimenticato la lezione di Braudel.

Sì, purtroppo. Lei cita Braudel, io non dimenticherei quel secondo, grande attore del racconto mediterraneo che è stato Predrag Matvejević, a lungo professore alla Sapienza di Roma, autore di “Breviario mediterraneo”. Se lei mette insieme questi due studiosi, che hanno avuto un fortissimo rapporto con l’Italia, capisce il senso, la natura profonda del nostro paese.

E perché ce ne siamo dimenticati, secondo lei?

Io non lo so se tutti ce ne siamo davvero dimenticati. Se ne è dimenticato il discorso pubblico, questo sì.

Certo, il discorso pubblico. Tanti imprenditori, a Padova come a Napoli, che aprono fabbriche in Marocco, in Tunisia o in Turchia, conoscono benissimo la natura mediterranea dell’Italia.

Il discorso pubblico si è dimenticato di moltissime cose, purtroppo, inclusa la nostra declinazione mediterranea. E oggi si focalizza sul conflitto nord-sud, un conflitto molto schematico. D’altra parte, secondo lei qual è la più grande città mediterranea d’Italia? È Milano. Perché è il luogo dove s’incrociano le grandi direttrici di cultura e di interessi, da nord a sud, da est a ovest, perché Milano è il baricentro accogliente di pensieri europei che guardano al Mediterraneo. Milano è città aperta. È la città in cui, nel tempo, centinaia di migliaia di meridionali hanno trovato casa senza mai rinnegare sé stessi, ma piuttosto essendo sé stessi: la parte migliore del Mezzogiorno; la più dinamica, la più attiva, la più curiosa, la più aperta.

Milano è la più grande città mediterranea d’Italia.

C’è oggi però anche un altro Mezzogiorno, che resta al suo posto e rilancia l’industria. Pensiamo alla Puglia, dove sta crescendo a livelli incredibili l’aerospaziale.

Sì, ma pensiamo anche a Napoli, con le sue nuove accademie tecnologiche.

La manifattura, ne “La morale del tornio”, è descritta come un antidoto sapiente contro “il feticismo del denaro”, e qui stiamo di nuovo citando il Papa.

Sì. Sempre con la consapevolezza, però, che naturalmente l’industria manifatturiera deve fare profitti, altrimenti non investe, non innova, non cresce. Ma tra fare profitti e avere l’ossessione del profitto di breve periodo ne corre…

Perché la manifattura ragiona sul lungo periodo?

Quanto ci mette un imprenditore per l’ammortamento di un macchinario che compra? E quanto a lungo deve vivere una nuova fabbrica per remunerare l’investimento?

E qui torniamo, se non alla longue durée di Braudel, almeno ai tempi medi…

Esattamente. Sono i tempi dei processi economici, ma anche dei processi commerciali: su che cosa è costruito un rapporto commerciale buono? Sulla fiducia, che è una dimensione del tempo lungo. L’operazione speculativa finanziaria è del tempo breve, non è costruita sulla fiducia, per certi versi è costruita sulla rapacità frettolosa.

Sull’asimmetria informativa, quanto meno.

Su una serie di alterazioni del rapporto di lungo periodo.

La manifattura ci fa anche un altro dono: ci insegna a superare gli steccati, artificiosi, tra scienza, tecnica e le discipline umanistiche. Io lo vedo qui tra le PMI del Nordest, lei l’avrà visto un po’ in tutta Italia.

Assolutamente sì, perché la manifattura è costituita da persone che fanno le cose in modo nuovo.

E senta, cosa rende la “fabbrica bella” una bella fabbrica? Lo può spiegare a chi fra i lettori non ha mai messo piede in uno di questi nuovi stabilimenti curati da grandi architetti, sapienti negli spazi, che conciliano bellezza e lavoro?

Una “fabbrica bella” è una fabbrica sicura, inclusiva, luminosa, una fabbrica che consuma pochissima energia, o addirittura lavora con l’energia rinnovabile. Il tetto della fabbrica Pirelli a Settimo Torinese è tutto quanto ricoperto di pannelli per l’energia solare. La “fabbrica bella” è una fabbrica con una bassa impronta ambientale, dove è piacevole andare a lavorare.

Non puoi fare prodotti belli, di alto valore, in siti brutti.

È la lezione di Adriano Olivetti. Lei nel libro cita il discorso che fece inaugurando, nel 1955, lo stabilimento di Pozzuoli, sullo splendido golfo di Napoli. Ma la “fabbrica bella” fa bene anche ai profitti…

Una fabbrica bella probabilmente è un po’ più costosa, da costruire, di una fabbrica tradizionale, ma si trasforma e crea profitto nel lungo periodo. E d’altra parte, su cosa compete l’Italia se non sull’alta qualità? E non puoi fare prodotti di eccellenza, di alto livello, con alto margine contributivo, in posti brutti. Non puoi fare i prodotti Cucinelli, i sistemi Loccioni, i freni Brembo o gli pneumatici Pirelli (per citare solo quattro prodotti di alto valore) in siti brutti, perché non può esserci una contraddizione tra il luogo in cui lavori e la qualità del prodotto che realizzi.

Lei ha citato due realtà del Nordovest e due realtà appartenenti a un’Italia un po’ più periferica, lontana dalle grandi capitali industriali del paese.

Si può costruire una “fabbrica bella” ovunque. Quando Adriano Olivetti, nel discorso d’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, dice “Questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi”, afferma due cose importanti. Primo, che il Mezzogiorno e l’industria non sono un’antinomia. Secondo, che la bellezza dei luoghi coinvolge positivamente la bellezza del lavorare e la bellezza del prodotto del lavoro.

A proposito di Sud. Come si può rilanciare in modo concreto il potenziale del Mezzogiorno e dei suoi talenti, che sono tanti ma che purtroppo tendono a emigrare al nord, in Germania, in America, in Australia e fanno grandi cose?

Credo sia necessaria una grande operazione di cesura. Un taglio netto della dipendenza del Mezzogiorno dalla spesa pubblica, cioè dall’idea che la spesa pubblica debba essere assistenziale. Rileggere l’esperienza della Cassa del Mezzogiorno da questo punto di vista è importante. C’è un libro recente che è appena uscito proprio sulla Cassa, di Laterza, “La Cassa per il Mezzogiorno e la politica 1950-1986” di Luigi Scoppola. La Cassa del Mezzogiorno su cosa investiva? Infrastrutture, nuove fabbriche, lavoro.

Ed era gestita da ingegneri, all’inizio.

Ingegneri che avevano anche una grande consapevolezza della responsabilità politica del lavorare bene. L’esperienza di quella Cassa del Mezzogiorno ci dice che il Sud non è il luogo dell’assistenza e delle clientele, ma dell’intelligenza produttiva.

Dobbiamo rileggere l’esperienza della Cassa del Mezzogiorno.

Se leggiamo la storia del Mezzogiorno, e della Sicilia, troviamo delle pagine straordinarie di capacità imprenditoriale che poi si sono perse nel tempo, addirittura annegate dalla cattiva politica. Per fare solo un nome, la storia dei Florio a Palermo: banchieri, industriali meccanici, imprenditori agricoli, armatori di flotte moderne.

Ma il declino dei Florio sarà responsabilità, almeno in parte, dei Florio stessi…

Certo, perché vollero vivere come aristocratici senza valorizzare la loro identità borghese, imprenditoriale. Tradirono, cioè, la loro stessa natura, una dimensione del fare impresa che invece è determinante. Se volessimo fare un paragone, potremmo guardare al declino dei Florio, e confrontarlo invece con la parabola dei Buddenbrook raccontati da Thomas Mann, di questi mercanti imprenditori fieri dell’essere tali.

Una fierezza che tra le PMI del Nordest, come tra le grandi aziende del Nordovest, si ritrova.

Assolutamente sì. Io credo che questi siano tempi in cui l’impresa deve ritrovare il suo orgoglio di essere motore sociale, della ricchezza e del cambiamento.

Una coscienza di classe insomma.

Non so se di classe, ma di ruolo e di responsabilità certamente sì.

Torniamo al Sud. Il suo rilancio dev’essere un investimento formativo; il tema dell’istruzione, che lei nel suo libro tratta, è fondamentale.

Senza dubbio. Cosa dovrebbe essere il Mezzogiorno? E la Sicilia? Una straordinaria università del Mediterraneo in grado di attirare intelligenze e competenze, e di lavorare sui temi del cambiamento, della società leggera e digitale, della società sostenibile.

E quindi, concretamente, lei cosa propone?

Io penso che il Mezzogiorno avrebbe bisogno di fortissimi investimenti pubblici, per far crescere le condizioni adatte a stimolare le capacità imprenditoriali – che ci sono. Il Mezzogiorno è pieno di belle storie d’impresa, pensi solo alla trasformazione dell’industria siciliana del vino quando sono finiti i contributi europei. Vede, quei contributi si traducevano in spreco, in produzione in eccesso, in speculazione mafiosa, rispetto a pochi bravi produttori che restavano marginali. Se oggi lei guarda all’industria nazionale del vino, tra i produttori migliori figurano i siciliani: bravi, intraprendenti, capaci di stare nel mondo. Non è che siano venuti da altre parti d’Italia a insegnare ai siciliani come si fa il vino; lo abbiamo imparato abbastanza da soli, e ora lo stiamo insegnando ad altri. La riscoperta dei vitigni autoctoni, la qualità, anche un buon senso del marketing, il gusto dello stare nel mondo… L’essere mediterranei è stare dentro a un pensiero aperto.

Il Mezzogiorno è pieno di belle storie d’impresa, pensi solo alla trasformazione dell’industria siciliana del vino quando sono finiti i contributi europei.

Dalle campagne siciliane andiamo un po’ più a nord. Lei nel libro parla di un fenomeno su cui i media – compresi Gli Stati Generali – si sono soffermati: il Nuovo Triangolo Industriale, tra Lombardia, Veneto e Emilia. Che cos’è? E perché potrebbe essere un potente incubatore di impresa riformista?

Perché lì c’è l’impresa che più severamente compete sul mercato. Quella cresciuta insistendo su mondi in evoluzione, operando in dimensioni dove competizione e collaborazione coesistono. Sono fornitori di qualità, prima di tutto per l’automotive, sono imprese che da piccole hanno imparato a diventare medie e poi grandi stando sui mercati internazionali. Che hanno animato distretti industriali innovativi e filiere d’impresa. Queste imprese hanno seguito la lezione delle multinazionali tascabili; che saranno pure uscite dai sottoscala moltissimi anni fa, ma poi sono state capaci di conquistare nicchie da primato, e di tenere insieme positivamente intraprendenza, competenza, innovazione, non solo sui prodotti ma sul modo di produrre, e cultura del mercato, del confronto, qualità. Il Triangolo Industriale si è spostato a est anche perché negli anni passati è entrato in crisi il Triangolo Industriale tradizionale, sono entrate in crisi Torino e Genova, per motivi diversi.

Però Genova ha delle prospettive infrastrutturali importanti, ad esempio verso la Svizzera e l’Europa del nord…

Speriamo. Genova sarebbe, è, il porto naturale che dal Mediterraneo conduce verso l’Europa; a patto di poter essere collegato.

In “La morale del tornio” lei teorizzava una nuova alleanza tra capitale e lavoro, un nuovo patto. Ma secondo lei questo patto è fattibile nell’Italia di oggi?

Le dico che questo patto è in corso, e la riprova sta nei nuovi contratti di lavoro.

Cioè?

Il contratto di lavoro dei metalmeccanici, dei chimici, dei farmaceutici… quei contratti, costruiti su formazione, welfare aziendale, rapporto con i territori, dicono che c’è una relazione nuova tra gli imprenditori e il mondo del lavoro. Quei contratti sono la riprova di una società in movimento. Che poi quasi nessuno del mondo politico li abbia valorizzati, la dice lunga sull’insensibilità di larga parte della politica. Ma i contratti sono lì, basta leggerli. E infatti Confindustria rilancia il Patto della Fabbrica e i sindacati si fanno sentire. Come confermano le recenti dichiarazioni di Maurizio Landini e Marco Bentivogli.

Ma se tanta politica non ascolta, non sarà magari anche un po’ colpa degli imprenditori?

Naturalmente sì.

Una cosa che mi ha colpito nel suo libro è il ruolo che riconosce alla biblioteca; è importante avere delle biblioteche nelle fabbriche.

Nella vita delle persone i libri sono importanti. E quindi anche i libri in fabbrica. Avessimo tutti una maggiore cura dei libri, vivremmo meglio.

Ma l’Italia non è un paese di lettori forti, purtroppo.

Purtroppo no. Però noto anche una parziale e comunque importante ripresa dell’attenzione per la lettura, la cultura, i riferimenti storici, anche da parte delle nuove generazioni.

Ora c’è un rallentamento evidente dell’economia mondiale, e c’è una situazione di incertezza in Italia. Lei è preoccupato?

Io sono molto preoccupato per le sorti di questo paese. Penso però che come sempre, come è successo anche nei momenti più drammatici della nostra storia, l’Italia sia in grado di riprendersi.

E lei in chi spera? Nelle donne, nei laureati?

Spero nelle nuove generazioni, in una maggiore partecipazione delle donne, nel senso di responsabilità di molti attori del mondo sociale, dell’impresa, del volontariato, di chi produce cultura, delle associazioni che si prendono cura dell’Italia. Spero nella ripresa di responsabilità da parte di alcune istituzioni. Spero molto pure in una ricostruzione della responsabilità europea. Non abbiamo perso la scommessa del futuro: è faticosissima da vincere, ma non l’abbiamo persa.

Non crede che in Italia la ricostruzione, ancor prima che culturale, dovrebbe essere morale? Educativa, ma in senso molto ampio?

I due aspetti stanno insieme. Se c’è un punto che suscita grande preoccupazione è la crescente disattenzione rispetto alla qualità dei processi educativi. La scuola è uno dei luoghi fondamentali in cui si acquisiscono civiltà e responsabilità.

Tuttavia la scuola è la grande bistrattata degli ultimi decenni di politica italiana: pensi solo alle mille riforme che si sono susseguite.

Purtroppo sì, mille riforme e scarsa attenzione al tempo lungo della formazione. Si tratta di una grande debolezza: bassi investimenti nella formazione e nella ricerca. E, aggiungo, una diffusa tendenza anti-scientifica, anti-culturale, e contro il senso di responsabilità. Tutti fenomeni molto preoccupanti.

 Suscita grande preoccupazione la crescente disattenzione rispetto alla qualità dei processi educativi.

Lei cita, nella parte conclusiva del suo saggio, Milano. Che ritiene essere il miglior esempio di città aperta e che guarda al mondo. Cita, in quel capitolo, un proverbio latino, caro ad Augusto e a Manuzio: festina lente. Perché? Cosa vuol dire?

Vuol dire che c’è da tenere il passo con le trasformazioni, ma senza la frettolosità dei rapporti. I cambiamenti sociali sono fenomeni lunghi e complessi. Come lo è il riformismo, per tornare al titolo: un’attitudine paziente alle trasformazioni, senza cedere alla tentazione delle scorciatoie veloci. Il senso di responsabilità richiede tempo, la mediazione richiede tempo, la composizione di interessi diversi richiede tempo. La democrazia stessa è un fenomeno lento.

Da - https://www.glistatigenerali.com/economia-circolare_milano/calabro-con-limpresa-riformista-litalia-puo-ripartire-da-nord-a-sud/
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