LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 12, 2012, 12:17:34 pm



Titolo: VITO LOPS.
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2012, 12:17:34 pm
Perché le Borse andranno bene nel 2012. Maya permettendo

di Vito Lops

11 gennaio 2011

In tempi di vacche magre per le Borse (nell'ultimo anno Piazza Affari ha bruciato un quarto del valore, seguito al -12% del 2010) c'è chi preferisce affidarsi alle statistiche. Per provare a intercettere l'eventuale ritorno di un trend positivo. Ebbene, proprio secondo le statistiche sembrerebbe che il 2012 dovrebbe essere un anno positivo per i mercati azionari. Maya permettendo.

Uno dei maggiori conoscitori di statistiche sul mercato azionario statunitense è Jeffrey Hirsch. Tra le statistiche da lui individuate - come segnala un'analisi di Nicolò Nunziata, di Jc&Associati - è interessante monitorare l'andamento dell'indice americano S&P500, che solitamente influenza anche l'andamento degli altri indici azionari, in tre momenti:

1) tra le ultime 5 e le prime 2 sedute dell'anno ("Santa Claus rally");

2) nei primi cinque giorni di gennaio;

3) nel mese di gennaio (il cosiddetto barometro di gennaio).

«Dal momento in cui l'S&P500 guida tutti gli altri indici azionari - spiega Nunziata - è a nostro avviso importante se non seguire pedissequamente l'andamento delle statistiche, almeno tenerle in seria considerazione. Da un lato perché una statistica ha una valenza probabilistica: se ad esempio in un arco temporale rilevante un evento ha una elevata probabilità di avverarsi, un investitore attento e acuto può non tenerne conto. Dall'altro, perché l'elevato numero di investitori che in ogni caso ne tiene conto finisce, almeno parzialmente, per influenzare il mercato».

«In base al "Santa Claus rally", in assenza di una performance positiva del periodo che comprende le ultime 5 sedute borsistiche dell'anno che si sta concludendo e le prime due del nuovo anno, esiste un elevato rischio che l'andamento dell'S&P500 nel nuovo anno possa essere negativo. Viceversa, se queste sedute chiudono con un bilancio in attivo, c'è da aspettarsi un buon anno sul versante dell'equity».

E così si scopre che le prime statistiche elaborate da Hirsch che si possono sin da ora monitorare, offrono uno slancio ottimistico sull'andamento dei listini azionari nel 2012. Perché sia il primo Santa Claus rally (dalle qunt'ultima seduta dell'anno precendente alla seconda del nuovo anno, in questo caso dal 22 dicembre 2011 al 3 gennaio 2012) che il secondo indicatore (prime cinque sedute del 2012) hanno superato il test.

Nel dettaglio, il primo indicatore (andamento dell'S&P 500 dalla quint'ultima seduta del 2011 alla seconda del 2012) ha evidenziato un rialzo dell'1,86% e il secondo (prime cinque sedute del 2012) dell'1,83%.

Si tratta di statistiche fine a se stesse? Ci si augura di no, dato che dal 1950 per l'84,6% dei casi in cui nelle prime sedute di Borsa dell'anno c'è stato un segno positivo si è avuta la conferma per l'intero anno.

Quindi, a conti fatti, due indicatori su tre hanno superato l'esame. Manca adesso la prova del nove del "barometro di gennaio". «Quest'ultimo - conclude Nunziata - negli ultimi cinquanta anni ha avuto una percentuale di errore davvero bassa, inferiore al 15% di probabilità. Ci sono a nostro avviso serie condizioni per cominciare ad essere maggiormente ottimisti sull'indice azionario statunitense».

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Il Sole 24 ORE - Finanza e Mercati (1 di 7 articoli)

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Titolo: Vito Lops. Perché il salvataggio spagnolo non basta.
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2012, 04:38:24 pm
Perché il salvataggio spagnolo non basta.

E perché banche italiane e BTp sono di nuovo in tensione

di Vito Lops

12 giugno 2012

Da inizio settimana, dopo l'annuncio nel week end del salvataggio da 100 miliardi alle banche spagnole, Piazza Affari, le banche italiane e i titoli di Stato italiani sono i più penalizzati dai mercati. Il listino milanese va peggio degli altri in Europa, trascinato al ribasso dai titoli bancari (che pesano per circa il 20% della capitalizzazione complessiva). Mentre lo spread BTp-Bund che viaggiava intorno ai 420 punti ha toccato oggi un picco fino a 486. Ma il salvataggio spagnolo non doveva essere una bella notizia tale da rasserenare gli investitori? Purtroppo così non è. Cerchiamo di capire perché.

Sulla stampa anglosassone è partito il walzer di articoli sul rischio contagio dell'Italia. Mentre questa mattina il direttore generale di Ftich, Ed Parker, ha gettato acqua sul fuoco dichiarando che «è improbabile che l'Italia chieda gli aiuti all'Ue» perché è in una situazione migliore rispetto alla Spagna, «ha un deficit molto basso, così come un deficit delle partite correnti e non ha problemi di banche».

Eppure, i titoli del credito italiani anche oggi procedono contrastati dopo il tonfo di ieri. Perché?

Il problema al momento risiede nella scarsa chiarezza sulle modalità del salvataggio delle banche spagnole. Si attingerà dal Fondo salva-Stati o dall'Esm (il nuovo meccanismo di stabilità permanente che dovrebbe partire a luglio dopo le ratifiche dei singoli Paesi)? La differenza, non specificata dalle autorità europee in una fase in cui i mercati (al netto delle componenti speculative) chiedono certezze, non è di poco conto.

Perché tutti i possessori di bond emessi dal fondo salva-Stati (Efsf) hanno lo stesso diritto di rimborso. Non esistono "senior" e "junior". I creditori sono tutti sullo stesso piano. In caso di default, totale o parziale, dello Stato destinatario degli aiuti la ristrutturazione del debito colpisce tutti in maniera uguale come è avvenuto con l'haircut del bond della Grecia. Mentre, una volta attivato il meccanismo permanente di stabilità i creditori non sono sullo stesso piano. Perché il Fondo Esm ha la statuto giuridico di creditore privilegiato. Quindi, soltanto dopo che è stato ripagato gli altri creditori possono aspirare a un rimborso dei crediti. Da ciò si deduce che nel caso il piano salva-banche spagnolo sia finanziato attraverso questo meccanismo, potrebbe esserci un chiaro disincentivo ad acquistare titoli spagnoli in quanto sarebbero rimborsati solo dopo i titoli "senior".

A questo punto veniamo all'Italia che ha una quota del 19,18% del Fondo salva-Stati e una del 17,3% nel nascituro fondo Esm. Percentuali che indicano che, in ogni caso, la sua partecipazione al salvataggio spagnolo non sarebbe irrilevante.

Ma ancora una volta le cose cambiano sensibilmente se si sceglie il Fondo salva-Stati o l'Ems. Perché nel primo caso il salvataggio fa lievitare il debito pubblico dei Paesi, nel secondo no perché i contributi all'Esm sono equiparati alle quote nel capitale dell'Fmi e quindi non vanno a pesare sull'indebitamento del Paese socio.

Se si decide di salvare le banche spagnole con il Fondo salva-Stati (opzione non gradita alla Germania) il debito pubblico dei Paesi è destinato a crescere, compreso quello italiano. Questo avrebbe un forte impatto sui bilanci delle banche italiane, molto esposti in BoT, BTp, CTz, ecc. Per l'esattezza esposte per 294 miliardi (a fine 2011 erano 209 miliardi) lievitati dopo che la Bce ha prestato 1.000 miliardi a condizioni agevolate alle banche europee nelle operazioni Ltro di dicembre e febbraio. Se il debito pubblico aumenta e si deteriora - a causa della crescente difficoltà nel ripagare gli interessi - il valore dei titoli di Stato italiani si deprezza e i bilanci bancari si svalutano.
E qui, nell'attesa di avere nuovi lumi dalle autorità europee, si chiude il cerchio.

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Titolo: Vito Lops. I 10 paradossi dell'Eurozona nella calda estate della finanza
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2012, 07:41:14 pm
I 10 paradossi dell'Eurozona nella calda estate della finanza

di Vito Lops

04 agosto 2012


La crisi dei debiti sovrani unita a un sistema finanziario internazionale ampiamente deregolamentato è una miscela esplosiva per la serenità dei mercati finanziari, mai come in questo momento simili a delle giostre, con violenti e quotidiani saliscendi. Resta il fatto che questi incresciosi movimenti di capitali da un asset all'altro stanno facendo allo stesso tempo fiorire dei paradossi. Ecco, in questa selezione, una raccolta dei 10 più eclatanti.

1) L'euro crollerà? E allora perché il Bund sprizza salute?
In molti hanno profetizzato seri rischi per la moneta unica europea negli ultimi tempi. A luglio, per citarne uno, il presidente del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde ha indicato che l'euro ha tre mesi di vita, in assenza di riforme sostenziali (così si è espresso anche il finanziere ungherese George Soros). Allora, se l'euro è davvero così messo male pare un controsenso rifugiarsi sul Bund tedesco (che infatti è intorno ai minimi storici) considerando che la Germania sarebbe pienamente invischiata in un'eventuale debacle dell'euro: alcuni studi indicano che con la rivalutazione del marco che ne conseguirebbe l'economia tedesca andrebbe immediatamente in profonda recessione con Pil in caduta di oltre cinque punti percentuali.

2) Spread su, Borse giù ma l'euro tiene
Se l'Eurozona è in crisi come mai la valuta che ne rappresenta l'area, pur avendo perso da inizio anno circa il 7% nei confronti del dollaro, tiene tutto sommato in questa fase di turbolenza finanziaria? Va certamente meglio di Borse (Piazza Affari è a -17% da marzo) e spread (che dai minimi di aprile sotto quota 300 viaggia ormai stabilmente sopra 450 punti).

3) Davvero In 15 mesi è cambiata la storia dell'Italia?
Ad aprile 2011 lo spread tra BTp e Bund era era di poco superiore a quota 100. Oggi, come visto è sopra 450 con frequenti escursioni oltre quota 500. Eppure nel frattempo, tra manovre lacrime e sangue, il governo Monti ha sinora applicato un mix di austerity da 65 miliardi di euro. È possibile che in appena poco più di un anno, e nonostante l'approvazione di riforme strutturali, il quadro dell'Italia sia così peggiorato rispetto a 15 mesi fa

4) L'Irlanda (salvata) sottrae imprese alla concorrenza
Come spiegare anche la gestione del salvataggio dell'Irlanda? Al pari di Portogallo e Grecia l'Irlanda ha ricevuto gli aiuti da parte della cosiddetta troika (Ue-Bce-Fmi): ovvero prestiti a tassi agevolati per oltre 70 miliardi di euro. Ma l'Irlanda ha ricevuto un altro straordinario aiuto: quello di poter applicare un'aliquota fiscale del 12,5% alle imprese. Un vantaggio non da poco che spinge naturalmente molte aziende dell'Eurozona a spostare la sede a Dublino penalizzando in questo modo gli altri Stati dell'area euro che non possono permettersi queste aliquote da semi-paradiso fiscale. Che Unione è quella che consente a uno dei Paesi di sfavorire gli alleati attraverso l'applicazione di una fiscalità di favore a uno dei suoi membri?

 5) La Bce è l'unica tra le big che non può stampare moneta
Le Banche centrali di Giappone, Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti hanno in comune la facoltà di poter stampare moneta ponendosi difatti come prestatori di ultima istanza. La Banca centrale europea non può farlo. Questa mancanza di potere, che spesso agisce come formidabile deterrente contro attacchi speculativi, è considerata da molti economisti il primo problema da risolvere per risolvere una volta per tutte la crisi dei debiti sovrani dell'Eurozona.

6) Euribor
Se è vero che l'Euribor è il tasso a cui una media di 43 banche, prevalentemente dell'area euro, si prestano denaro fra loro, non si capisce perché sia così basso in una fase, come quella attuale, caratterizzata da una crisi generalizzata del mercato interbancario e dalla scarsa fiducia tra i vari istituti che preferiscono rivolgersi direttamente presso lo sportello della Bce per chiedere soldi. Certo, sull'Euribor così come per il britannico Libor, incombono pesanti accuse di manipolazione. Resta il fatto che, al di là di quelli che saranno gli accertamenti della giustizia, un Euribor così basso (3 mesi allo 0,38% e un 1 mese allo 0,15%) non si è mai visto nella storia dell'euro.

7) Stati Uniti e Inghilterra hanno un deficit/Pil simile alla Grecia
Il rendimento dei Tresaury statunitensi e dei Gilt britannici è in linea con quello del Bund tedesco: ovvero i mercati attribuiscono a Inghilterra e Stati Uniti un alto livello di affidabilità. È paradossale però se si guarda al fortissimo indebitamento dei Paesi anglosassoni (comprendendo debito pubblico, di imprese e famiglie) e al deficit/Pil che viaggia intorno al 10%, lo stello livello della Grecia.

8) Le banche italiane valgono meno di McDonald's
Un altro paradosso di questa crisi finanziaria è che le banche italiane valgono in Borsa poco più di 50 miliardi di euro, un valore inferiore alla quotazione della sola McDonald's (74 miliardi) e di altre 84 aziende al mondo. La Apple, ad esempio, vale circa otto volte il sistema bancario italiano.

9) Indici di Borsa oscillano ormai come titoli derivati
Nelle ultime settimane gli indici di Borsa, in particolare quelli di Milano e Madrid, hanno subito violentissime oscillazioni al ribasso e al rialzo, con scostamenti anche superiori al 6%. Se in passato questi movimenti erano più rarefatti, adesso stanno diventando all'ordine del giorno. Avvicinando paradossalmente la volatilità di questi indici - e dei titoli a larga capitalizzazione che li compongono, molti dei quali nei portafogli di piccoli risparmiatori - a quella che si vede abitualmente nel mercato dei derivati (warrant, opzioni, ecc.).

10) Derivati ben oltre i livelli della crisi subprime
C'è chi ama ricordare che l'attuale crisi dei debiti sovrani è un'onda lunga della crisi dei derivati sui mutui subprime propagata nel mondo dagli Stati Uniti dall'estate del 2007. Da allora, secondo le indicazioni della Banca dei regolamenti internazionali, il mercato dei titoli derivati anziché diminuire, si è rafforzato. Tanto che oggi questi contratti valgono nove volte il Pil del pianeta. E questo, per dirla tutta, è il paradosso dei paradossi.

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Titolo: Vito Lops Euribor negativo, banche spiazzate.
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2015, 11:42:00 am
Euribor negativo, banche spiazzate.
Cosa cambia per i mutui? Occhio al contratto

Di Vito Lops
21 gennaio 2015

Alla fine è accaduto. L’Euribor a 1 mese, a cui sono agganciati molti mutui a tasso variabile stipulati e offerti in Italia (un’altra bella fetta è agganciata all’Euribor a 3 mesi) è sceso sottozero. Ieri questo tasso interbancario (che sintetizza il costo dei prestiti interbancari a 1 mese, anche se si basa su dichiarazioni delle banche e non su reali transazioni) è stato fissato a -0,002%. Briciole in termini numerici ma che ora pongono un importante interrogativo nei confronti delle banche che non erano attrezzate a questa evenienza.

Sì, perché il calcolo della rata di un mutuo a tasso variabile è effettuato di rata in rata (di mese in mese per la maggior parte dei contratti) sommando allo spread (la % fissa stabilita dalla banca a inizio del contratto che rappresenta il guadagno lordo degli istituti su un prestito) il tasso di indicizzazione scelto (il tasso Bce che in questo momento è positivo ed è pari allo 0,05% e per la maggior parte dei casi, Euribor a 1 e 3 mesi).

Dato che l’Euribor a 1 mese è sceso sottozero vorrà dire che tecnicamente il tasso finale dei mutui ad esso ancorati dovrebbe essere dalle prossime rate, seppur di 1 millesimo, inferiore allo spread. La domanda è: dato che il Tan (Tasso annuo nominale) del mutuo variabile è dato dallo somma tra spread ed Euribor, ora che questo indice è diventato negativo, le banche lo sottrarranno davvero?

È possibile? «La discesa dell'Euribor sotto lo zero era una eventualità probabilmente considerata poco realistica dalle banche, che adesso stanno valutando se e come gestire la cosa in termini di calcolo del tasso - spiega Roberto Anedda, direttore marketing di Mutuionline.it -. Difficile dire ora se davvero qualche banca prevedrà una pura somma algebrica tra un indice negativo e uno spread positivo, che in caso di Euribor sotto lo zero porterebbe ad un tasso finale inferiore allo spread previsto da contratto. Una opzione potrebbe essere quella di stabilire che il tasso non potrà scendere sotto il valore dello spread, ma si tratta di ipotesi che potremo verificare con i prossimi aggiornamenti dei contratti di mutuo o dai fogli informativi delle banche».

Certo, questo aggiornamento potrebbe essere fatto per i nuovi mutui, ma sui vecchi mutui le banche sono difatti spiazzate. A questo punto ai mutuatari non resta che porre personalmente il quesito allo sportello del proprio istituto per constatare se è pronto tecnicamente ad effettuare la somma algebrica (e quindi a sottrarre lo spread). In teoria, è sufficiente leggere il proprio contratto di mutuo. Se non è previsto diversamente, un Euribor negativo dovrebbe continuare ad essere sommato algebricamente (quindi sottratto) allo spread per ottenere il tasso finale del mese su cui calcolare la prossima rata.

In un basket di contratti visionati dal Sole 24 Ore non sono stati riscontrati “ombrelli sull'Euribor”, ovvero limiti oltre il quale l'Euribor non possa scendere per il calcolo della rata. Per cui in teoria questi contratti dovrebbero prevedere la sottrazione automatica dell'Euribor (quando negativo) allo spread fisso per ottenere il tasso su cui calcolare la nuova rata.

Lo stesso discorso vale per i mutui in franchi svizzeri concessi ai cittadini italiani (e tanto criticati in questi giorni dopo la decisione della Banca nazionale svizzera di lasciar liberamente rivalutare il franco sull’euro dopo aver bloccato il tasso di cambio per tre anni fino a 1,2, una decisione che costerà cara per i mutuatari italiani che devono rimborsare rate in franchi e percepiscono un reddito in euro). In questi giorni il Libor - il tasso interbancario svizzero utilizzato per indicizzare i mutui variabili elvetici - è sceso sotto 0, molto più pesantemente dell’Euribor. Il Libor a 3 mesi è addirittura sceso a -0,66%.

Al momento, visionando i fogli informativi delle banche italiane che propongono questi mutui in franchi, non si leggono indicazioni accessorie. Il che lascia pensare che anche in questo caso gli istituti siano stati spiazzati dalla rapida discesa sottozero degli indici interbancari e che, allo stesso tempo, non abbiano previsto un tetto sotto cui (a punto la soglia negativa) il tasso interbancario non possa scendere ai fini del calcolo della rata.

Del resto, la logica di un mutuo a tasso variabile, nell’era dei tassi negativi che stiamo vivendo in questo delicato momento di trappola della liquidità e deflazione nell’Eurozona, prevedrebbe appunto che i tassi interbancari negativi debbano essere sottratti (cioè sommati algebricamente) allo spread. Occhio quindi a come gestire questa fase in cui molti istituti potrebbero cercare di rinegoziare con il cliente in corsa il contratto, inserendo o praticando difatti quella clausola per essi tutelante che non hanno mai inserito perché non si sarebbero forse mai immaginati di operare in un mondo dove i tassi vanno al contrario.

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Titolo: Vito Lops La sfida del matematico Varoufakis tra la Teoria dei giochi e ...
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:11:12 pm
La sfida del matematico Varoufakis tra la Teoria dei giochi e Machiavelli

Di Vito Lops
05 luglio 2015

La settimana scorsa era seduto al tavolo delle trattative con Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, la cancelliera tedesca Angela Merkel e compagnia bella. Con quelli che il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, ieri ha definito in un’intervista «terroristi», parlando dei creditori che pretendono dalla Grecia fino all’ultimo centesimo di quanto prestato, con tanto di interessi agevolati.

Più volte l’economista Varoufakis, laureato in Matematica e Statistica, greco naturalizzato in Australia, prestato per l’occasione a fare il ministro delle Finanze del governo di Alexis Tsipras (alla guida del partito di estrema sinistra Syriza che dal 25 gennaio è alla guida del Paese ellenico) ha ricordato che dopo la Seconda Guerra Mondiale una buona parte del debito tedesco fu condonato dai creditori internazionali. Anche grazie a quel gesto dei Paesi europei, Grecia compresa - anche l’Italia che figurava tra i creditori - la Germania è ripartita.

Bene, il crollo del Pil greco, conseguenza della recessione dovuta ai piani di austerity e di risanamento imposti dai creditori internazionali, è tra i peggiori registrati dal 1870 ad oggi in un Paese attualmente ritenuto ad economia avanzata.

Il -25% fatto registrare dal prodotto interno lordo (reale) della Grecia tra il 2008 e oggi ha paragoni solamente con quanto avvenuto in altri Paesi a seguito della Grande Depressione del secolo scorso o delle due Guerre Mondiali.

Una tabella pubblicata dall'ufficio economico della Royal Bank of Scotland, su dati Maddison Database e Fmi, traccia una “classifica” delle recessioni più disastrose degli ultimi 145 anni.

Il Pil della Germania, tra il 1945 e il 1946, segnò un -66 per cento. Ancora la Grecia, nel 1938-1945, registrò un dato del -64 per cento. Il Pil dell'Italia, negli anni dal 1941 al 1945, crollò del 44%, mentre quello della Francia, tra il 1940 e il 1944, del 53%. Negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, nel periodo 1919-1921, sempre l'economia italiana risultò tra le peggiori d'Europa, con un dato di pil pari a -25%, lo stesso registrato in questi anni in Grecia.

Nel secolo scorso vi fu una recessione disastrosa anche per gli Stati Uniti, il cui Pil, negli anni tra il 1930 e il 1933, precedenti il New Deal rooseveltiano, si contrasse del 29 per cento.

Difficile, quindi, discostare dal punto di vista macroeconomico la situazione della Grecia di oggi da quelle dei Paesi in crisi post-bellica. Questo Varoufakis lo sa ed è un tasto che muove nel momento in cui cerca di applicare la Teoria dei giochi nelle trattative con i creditori (qui la mappa del debito greco). Di cosa si tratta? È la teoria elaborata dal matematico John Nash che a sua volta si è ispirato a Nicolò Machiavelli e alla sua più grande opera “Il Principe”, scrivendo con ammirazione: «Nelle pagine di quel capolavoro si ha l'impressione che Machiavelli cerchi di insegnare a dei mafiosi come operare in modo efficiente e spregiudicato. Fornisce consigli tattici a principi crudeli ed egoisti, e nella sua opera descrive effettivamente i “giochi di corte” che venivano praticati nelle stanze vaticane e nei palazzi fiorentini».

La teoria dei giochi analizza le decisioni di un soggetto prese in situazioni conflittuali o di interazione con due o più rivali al fine di portare il massimo beneficio per tutti. Ci sono quattro elementi: i giocatori, le loro azioni, una strategia e le vincite. Prima dell’avvento di Syriza in Grecia i giocatori nell’Eurozona si conoscevano molto bene fra loro, così come le loro strategie (ad esempio l’ortodossia tedesca e un atteggiamento più moderato della periferia).

Con l’arrivo di Tsipras e del suo alfiere Varoufakis i vecchi equilibri sono saltati. È entrato un nuovo giocatore che si dà il caso sia un matematico, un ammiratore del genio matematico John Nash (lo conosceva personalmente) ma anche un esperto di Teoria dei Giochi, coautore con Shaun P. Hargreaves-Heap, del testo “Game Theory: A Critical text” (2004).

Da quello che è successo nelle ultime due settimane di trattative deragliate fino al referendum di oggi (che ha colto di sorpresa perfino i mercati) e allo scontro finale (Varoufakis ha detto che se vince il «sì», cioè se vincono i «terroristi creditori» «mi dimetto») è evidente che il “nuovo giocatore” stia provando a spiazzare i “vecchi giocatori” lanciando con il referendum una sorta di “Gioco del coniglio” in cui in due lanciano simultaneamente le auto verso un burrone.

Chi sterza prima per evitare il burrone fa la figura del coniglio. Ma se nessuno sterza, entrambi muoiono. Nei prossimi giorni scopriremo se qualcuno deciderà di sterzare prima del burrone.
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Titolo: Vito Lops Mutui, le banche aprono la porta a chi ha già fatto la surroga.
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 05:47:03 pm
Mutui, le banche aprono la porta a chi ha già fatto la surroga.
Come fare

Di Vito Lops
21 ottobre 2015

La notizia c’è ed è che le banche hanno deciso di riaprire le porte al surrogatore seriale. Di chi si tratta? Di mutuatari che nel curriculum hanno già una surroga alle spalle, ovvero hanno già spostato il vecchio mutuo in un’altra banca per usufruire di condizioni migliori sul tasso e/o sulla durata.

Il 2015 sarà ricordato come l’anno del prepotente ritorno delle surroghe (hanno trainato la ripartenza generale del mercato delle erogazioni di mutui che nei primi sette mesi secondo l’Abi sono cresciute dell’82% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno). E sarà ricordato anche come l’anno in cui le banche sono tornate pimpanti sul prodotto mutui - riducendo gli spread e le spese complessive misurate dal Taeg (Tasso annuo effettivo globale) - anche perché i profitti delle banche sul trading sui titoli di Stato si sono affievoliti visto che i tassi di BoT e BTp sono in netto calo, anche per via della manovra di quantitative easing avviata lo scorso marzo dalla Banca centrale europea (attraverso la quale la Bce compra a prezzi alti i titoli di Stato che le banche private avevano comprato a prezzi più bassi negli anni della crisi favorendo discrete plusvalenze per l’universo degli istituti di credito).

I profitti sui titoli di Stato sono diminuiti e questo sta spingendo molte banche a riprendere l’antica vecchia via: generare margini dai prestiti, compresi quelli alle famiglie di cui i mutui ne sono l’eccellenza.

Di fronte però a un mercato immobiliare non ancora particolarmente reattivo le banche hanno spinto nella prima parte dell’anno sulle surroghe, cercando cioè di raccogliere con offerte più competitive clienti insoddisfatti che stavano pagando tassi più alti presso un’altra banca con il vecchio mutuo. Questo ha spinto molti a surrogare il mutuo, in prevalenza passando da fisso a variabile, ma anche da fisso a fisso, a condizioni più basse. C’è anche chi è passato dal variabile al fisso, approfittando della caduta dei tassi fissi che restano però decisamente più cari del variabile il cui costo è dato praticamente solo dallo spread perché l’indice Euribor a cui è agganciato è addirittura scivolato sotto zero e potrà continuare a scendere.

In questa prima tornata di surroghe sono stati però esclusi i “surrogatori seriali”, ovvero coloro che già hanno nel curriculum una surroga effettuata. Un pubblico non molto gradito dalle banche perché considerato “pericoloso” in termini di profittabilità. Quando una banca eroga un mutuo sostiene infatti una serie di costi fissi tra 1.500 e 2mila euro che riesce ad ammortizzare solo se il debitore resta tale per almeno 3-4 anni (anche per questo motivo nei piani di ammortamento si pagano nei primi anni molti più interessi che negli ultimi anni, in questo modo le banche si tutelano e incassano prima i profitti).

Se però il mutuatario si comporta come un adolescente che cambia operatore telefonico di mese in mese in base all’offerta più conveniente del momento e decide di surrogare il mutuo dopo 12-24 mesi le banche rischiano di non ammortizzare i costi fissi e di chiudere l’operazione in rosso. Per questo motivo finora hanno chiuso la porta a quello che viene definito “surrogatore seriale”, un cliente che ha già surrogato e, visto che lo ha già fatto, potrebbe farlo anche in seguito.

Ma adesso il quadro sta cambiando. Il mercato delle “prime surroghe” si sta un po’ affievolendo e a questo fenomeno non sta facendo da contraltare una ripartenza sprint delle vendite di immobili e di conseguenza di mutui d’acquisto. Così le banche pur di erogare mutui e cercare di raggiungere i budget che avevano fissato a inizio anno sono disposte a correre il rischio di erogare “mutui di surroga” a clienti che hanno già una surroga alle spalle, quindi potenzialmente “seriali”, nel quale caso non sarebbero profittevoli. Ma evidentemente il rischio vale la candela per delle banche improvvisamente vogliose di prestare la liquidità a tassi bassissimi (quando non negativi) che trovano sul mercato all’ingrosso dei capitali (come dimostrato dagli indici Euribor che da oltre 150 giorni sono negativi).

«La domanda di surroga sta lentamente sgonfiandosi. Dal nostro osservatorio rileviamo come questa sia passata dal 49% del totale richieste durante il secondo trimestre 2015 al 40% del terzo trimestre sino al 37% dell'attuale mese di ottobre- spiega Stefano Rossini, ad di MutuiSupermarket.it -. Parallelamente la domanda di mutui di acquisto si sta riprendendo ma non in maniera così rapida e decisa, con le compravendite residenziali cresciute nella prima metà dell'anno di un livello inferiore al 3% (e del 6% nel secondo trimestre, ndr). In questo scenario stiamo rilevando come alcune banche, con l'obiettivo di continuare ad alimentare la crescita delle proprie erogazioni di mutui sui prossimi mesi, inizino timidamente a considerare un segmento di potenziali mutuatari sino ad ora “abbandonato” e per certi versi “schivato”: il segmento dei mutuatari che hanno già surrogato una volta, magari qualche anno fa, e oggi intendono di nuovo surrogare il proprio mutuo approfittando di tassi ai minimi storici e spread vantaggiosi».

«Non dimentichiamo infatti che dall'introduzione della surroga nel 2007 post decreto Bersani, le surroghe hanno spiegato sempre da un minimo del 5% ad un massimo del 40% delle erogazioni a livello sistema e quindi stiamo parlando di un bacino di nuovi mutuatari sicuramente ampio e certamente interessante come profilo di rischio - prosegue Rossini -. Normalmente sono mutuatari che hanno sempre pagato regolarmente sia le rate del mutuo iniziale che del secondo mutuo di surroga, che hanno un livello di educazione finanziaria elevato e hanno una forte propensione al risparmio e che possono essere nuovi clienti con riferimento non solo al nuovo mutuo ma anche ad altri rapporti bancari e assicurativi correlati. Oltre a ciò, è necessario considerare che erogazioni di nuovi mutui ai tassi di oggi permetterebbero alle banche di avere una certa sicurezza sulla stabilità del nuovo mutuatario sui prossimi 4-5 anni, anni in cui i tassi variabili dovrebbero rimanere molto contenuti e i tassi fissi non dovrebbero ulteriormente ridursi. In altre parole, il rischio di una terza surroga potrebbe derivare solo dalla volontà del mutuatario di cambiare il proprio mutuo da tasso variabile a tasso fisso in un’eventuale situazione di rapido e deciso aumento dei tassi variabili, ma questo scenario di tassi Euribor in forte crescita appare quanto meno lontano nel tempo. Non sorprende quindi affatto registrare questi primi approcci del sistema bancario al cosiddetto segmento dei “surrogatori seriali».

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DA - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2015-10-20/mutui-banche-adesso-riaprono-porta-surrogatore-seriale-cosi-surroga-bis-e-possibile-174112.shtml?uuid=ACH502JB&p=2


Titolo: Vito Lops. In due mesi Piazza Affari ha perso un quarto del valore.
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2016, 11:23:15 pm
In due mesi Piazza Affari ha perso un quarto del valore.
Chi sta davvero vendendo e perché?


Di Vito Lops
4 febbraio 2016

In due mesi Piazza Affari ha perso un quarto del suo valore. Osservando la tempesta finanziaria di queste settimane i progressi fatti negli ultimi anni in termini di ritorno alla crescita (seppur molto timido) e di risanamento dei conti pubblici (con il deficit/Pil sotto il 3% nonostante in questo momento ci sia bisogno di riattivare la domanda potenziando spesa e investimenti) sembra che non siano mai stati fatti. Così come pare che il quantitative easing della Bce non sia servito a molto - al di là di tenere basso l’euro, che peraltro si tiene basso anche perché gli Stati Uniti sono stati i primi ad invertire la politica monetaria con l’effetto di un rafforzamento globale del dollaro. Lo stesso «Qe» che invece, fatto dalla Fed con largo anticipo e già nel 2009, ha fatto raddoppiare la capitalizzazione a Wall Street in cinque anni.

Fondi sovrani arabi tra i venditori
Appare peraltro assai improbabile spiegare la caduta delle Borse (Piazza Affari è la peggiore ma le vendite colpiscono tutti i listini) con la caduta del petrolio. Una correlazione forzata, che lascia il tempo che trova. Anche perché un petrolio basso, un euro debole e una Bce prodiga di manovre espansive per quanto ritardate, dovrebbero fornire obiettivamente slancio alle aziende europee. E allora perché questa burrasca?
«Sono vendite dovute, qualcuno scarica - spiega Davide Biocchi, vincitore del premio Top Trader di Borsa Italiana - le vendite partono da Etf, panieri e certicate e poi vanno a pioggia sui mercati. Non è da escludere che stiano vendendo massicciamente i fondi sovrani dei Paesi produttori di petrolio, per coprirsi dalle perdite innescate sui conti pubblici dal ribasso del greggio». I grandi investitori, quelli che muovono i mercati, starebbero quindi vendendo al di là delle notizie, al di là dei fondamentali.

Il grafico
Incertezze sulla crescita globale
«Non è però da escludere che una buona parte delle vendite rifletta aspettative di un ritorno della recessione», conclude Biocchi. Lo spettro di una nuova recessione comincia ad aleggiare tra le cause di queste vendite, rafforzato anche dai dati macro diffusi ieri dagli Usa, dove l’indice dei servizi ha registrato il terzo calo di fila. E se i servizi della prima economia del mondo frenano, non è un bel segnale. Il che, nel breve, sta innescando vendite sul dollaro come si può notare anche dall’apprezzamento dell’euro sul biglietto verde da 1,08 a 1,11 in poche sedute.

Eppure secondo l’Fmi il Pil globale crescerà nel 2016 del 3,4%, più del 2,5% dello scorso anno. Quindi dov’è questa paventata recessione? Dov’è il rallentamento globale? «Dopo le aspettative di una crescita più robusta che si erano manifestate nei primi sei mesi del 2015 - dice Emilio Rossi, senior advisor di Oxford Economics e presidente di EconPartners - l'economia mondiale è entrata nel 2016 in un clima di incertezza sui mercati finanziari e con la domanda globale in rallentamento rispetto alle attese». Nella seconda metà del 2015 le incertezze hanno progressivamente iniziato a fare capolino. Negli Stati Uniti la crescita è rallentata. Il quantitative easing nell’Eurozona e in Giappone si sta mostrando meno efficace di quanto preventivato dalle banche centrali. Sulla Cina sono cresciuti i timori relativi al rientro dalla bolla immobiliare, alla svalutazione del renminbi e al pianificato ribilanciamento tra investimenti e consumi privati.

Il grafico
«In sintesi - spiega il presidente di EconPartners - nella fase finale del 2015 l'economia reale globale mostrava segni di debolezza superiori alle attese. Tuttavia i dati relativi al quadro dell'economia reale non erano tali da giustificare l'allarmismo verificatosi tra gli operatori ed erano coerenti con i rischi già noti. Dopotutto per il 2016 si prevedono tassi di crescita Per i paesi avanzati mediamente attorno al 2%, mentre gli emergenti grazie a Cina e India continueranno a essere i motori dell'economia mondiale, nonostante i timori sulla stessa Cina e sui paesi produttori di petrolio e commodity. Non è azzardato pensare - continua Rossi - che i programmi di vendita automatici abbiano giocato un ruolo fondamentale nel crollo finanziario di inizio 2016 e nella perdurante volatilità successiva».

Il mondo non cresce più come prima del 2008
Oggi i mercati finanziari sono globalizzati e i flussi finanziari rappresentano un multiplo del commercio di merci e servizi: di conseguenza, piccoli cambiamenti nelle aspettative possono provocare enormi spostamenti di capitali e una volatilità non coerente con l'andamento dell'economia reale. «La decisione - continua Rossi - di avviare il rialzo dei tassi di interesse negli Usa è stata la miccia che ha ingenerato una «fuga verso la qualità» generalizzata. In realtà, la capacità di crescita dell'economia globale è da vari anni condizionata da alcuni fattori che sembrano sfuggire ad analisti e policy makers. È almeno dal 2011 che le previsioni di pressoché tutti gli analisti si dimostrano eccessivamente ottimistiche sull'andamento dell'economia, mentre nel passato tendevano a distribuirsi tra ottimistiche e pessimistiche». Il minimo comun denominatore dell' “ottimismo” degli ultimi anni è da ricercarsi in una serie di elementi probabilmente sottovalutati nei paradigmi analitici dei ricercatori economici. Il fattore più comunemente citato è l'effetto di trascinamento della crisi del 2007-08, sviluppatasi in un circolo vizioso di blocco del sistema bancario, mancanza di credito, difficoltà per le imprese e per i bilanci pubblici, con effetto di avvitamento sul settore bancario. “In realtà, a distanza di otto-nove anni dall'inizio della crisi è ora di fare i conti con una realtà più amara: i fattori di debolezza dell'economia mondiale sono strutturali e in quanto tali ci accompagneranno ancora per molti anni a venire».

«La performance attesa a livello globale per il prossimo decennio - conclude l’analista - è inferiore tra il mezzo punto e il punto percentuale rispetto alla crescita verificatasi nel decennio precedente alla crisi Lehman. A livello globale si tratta di cifre impressionanti, anche perché storicamente c'è sempre stata un'area del pianeta in grado di compensare le debolezze delle altre aree. Difficilmente l'Europa o l'area Ocse avranno questo ruolo. Se a questo si aggiunge la considerazione che molto probabilmente le previsioni attuali sono ancora basate su modelli e parametri distorti in direzione dell'ottimismo, sarà bene che i policy makers prendano atto della necessità di politiche più coraggiose e soprattutto orientate alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-02-04/in-due-mesi-piazza-affari-ha-perso-quarto-valore-chi-sta-davvero-vendendo-e-perche-094021.shtml?uuid=ACoLBSNC&p=2


Titolo: Vito LOPS. Borse, i segnali della tempesta perfetta: dal «rimbalzo del gatto...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 09, 2016, 06:58:36 pm
Borse, i segnali della tempesta perfetta: dal «rimbalzo del gatto morto» alla corsa all’oro
Di Vito Lops, con un articolo di Marco lo Conte

8 febbraio 2016

Parola d’ordine: liquidi. Il consiglio che gli addetti ai lavori danno ai risparmiatori in questa fase di turbolenza sui mercati finanziari è di assumere il più possibile posizioni liquide. Perché non è dato sapere al momento quando la tempesta si esaurirà. Ci sono infatti numerosi segnali che indicano che quello in corso (Piazza Affari -20% da inizio anno, ma vanno male tutti i listini su scala globale) non sia un ribasso giunto al capolinea.

Sale l’oro nonostante la bassa inflazione
Il primo segnale lo si può notare nell’andamento del prezzo dell’oro. Da inizio anno è salito del 10%. Anche oggi il metallo giallo viene comprato e torna a 1.170 dollari l’oncia, livelli che non vedeva dallo scorso autunno. «L'oro rimane un bene rifugio in momenti di elevata volatilità, ma non bisogna dimenticare che il dollar index (un basket di valute contro dollaro) si è deprezzato dell’1,8% e con l'euro del 2,9% da inizio anno, quindi l'effetto valuta ha contribuito in parte a questo trend positivo dell'oro - spiega Marco Aboav, macro portfolio manager di MoneyFarm -. Potremmo trovarci nel 2016 ad una guerra valutaria tra Paesi sviluppati tramite nuovi allentamenti monetari per importare inflazione: in Giappone è stato annunciato, in Europa potrebbe essere presentato a marzo, negli Stati Uniti gli stress test richiesti dalla Fed per le banche americane includono anche uno scenario con tassi negativi, ci si aspetta ulteriori svalutazioni della valuta cinese. Se la guerra valutaria fosse intrapresa da tutte le banche centrali dei paesi sviluppati, l'oro rimarrebbe l'unica valuta a beneficiarne». Certo, di mezzo c’è la svalutazione del dollaro che di per sé dà forza intrinseca all’oro e a tutte le materie prime quotate in dollari. Ma l’attuale guerra delle valute non è l’unico motivo che sta spingendo l’oro. «Quello che preoccupa - spiega Massimo Siano, capo per il Sud Europa di Etf Securities - è che il metallo giallo stia salendo pur in assenza di prospettive di aumento dell’inflazione». Si sa, infatti, che l’oro è un bene rifugio, ma lo è soprattutto nelle fasi che preludono a un’impennata dell’inflazione, dato che l’oro protegge dal rincaro del costo della vita.

Troppi rimbalzi “del gatto morto”
Un altro segnale da tempesta perfetta lo si legge osservando la prova di forza dei mercati azionari. Questa mattina nella prima mezz’ora di scambi Piazza Affari è arrivata a guadagnare oltre un punto percentuale. Ma il rimbalzo è durato pochissimo. Dopo un’ora l’indice perdeva già il 2% con un’escursione intraday di tre punti percentuali. Perché accade questo? «Sono i classici rimbalzi del gatto morto - spiega un esperto -. Quando cade da una grande altezza anche un gatto rimbalza ma questo non significa che non stia cadendo». Per spiegare lo stesso fenomeno si può usare anche la metafora del pescatore. «Durante le fasi ribassiste gli speculatori testano la forza del mercato e lo lasciano andare per un po’ - spiega un trader -. Se vedono che il mercato non ha una grande spinta, tornano di nuovo all’attacco. Un po’ come fa il pescatore con il pesce che ha abboccato all’amo. Dopo averlo acchiappato molla un po’ la presa per testarne la forza. Una volta scoperto che il pesce non ha grande forza per salvarsi con le proprie forze, il pescatore capisce che la presa è quella giusta e poi dà il colpo di grazia». I numerosi rimbalzi della prima mezz’ora delle ultime sedute non sarebbero quindi altro che dei test degli speculatori per testare la capacità del mercato di risollevarsi da solo. Ma se questo fa appena +1% dopo aver perso il 20% si capisce che non ha molta forza e quindi questo dà nuovo spazio agli speculatori per attaccare, per andare a mettere in risalto i punti di debolezza di un mercato.

Troppi punti deboli
E di punti di debolezza, in questo momento, ce ne sono fin troppi. Così come ci sono fin troppi capri espiatori che possono essere additati per giustificare le vendite. L’introduzione del bail-in (che sposta la responsabilità dei salvataggi bancari dagli Stati ai clienti della banca) in Europa e la mancanza di un’adeguata regolamentazione europea (non esiste al momento un fondo interbancario di salvataggio in Europa ma ogni Paese deve cavarsela da solo) offre un segnale di debolezza che gli speculatori stanno andando a scalfire. Un altro punto di debolezza riguarda il prezzo del petrolio. Si sa che c’è troppa offerta ma manca un accordo politico tra Paesi Opec e Paesi non Opec per ridurre la produzione. Questa, nella logica di uno speculatore, è manna dal cielo perché sa che fino a che non verrà trovata un’intesa in tal senso le probabilità di guadagnare andando all’attacco (con vendite allo scoperto) crescono.

La bolla dei Paesi emergenti
Altro elemento di incertezza, altro punto a vantaggio di volatilità e speculatori. La Federal Reserve avrebbe dovuto alzare i tassi a marzo. Ma non lo farà perché l’economia Usa rallenta e poi c’è una bolla nei Paesi emergenti (fortemente indebitati in dollari) che sta esplodendo lentamente ma è pronta ad esplodere con maggiore irruenza in caso di rialzo dei tassi.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-02-08/borse-ecco-segnali-tempesta-perfetta-rimbalzo-gatto-morto-corsa-all-oro-104102.shtml?uuid=ACXgelPC


Titolo: Vito LOPS. Perché l’effetto palla di neve ha colpito i mercati e quando potrà...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 10, 2016, 12:16:41 pm
Perché l’effetto palla di neve ha colpito i mercati e quando potrà tornare il sereno

Di Vito Lops
09 febbraio 2016

Sui mercati finanziari si sta creando quello che in gergo tecnico viene definito “effetto palla di neve”. Le proporzioni e la violenza del ribasso a cui stiamo assistendo - in particolare sulle Borse meno liquide - sono più che un segnale che sia scattato una sorta di effetto panico. L’aspetto più significativo che al momento non sta arrestando le vendite di breve periodo - al di là di ripetuti rimbalzini del “gatto morto” nella prima mezz’ora di scambi - è anche l’assenza di prese di posizioni da parte delle autorità monetarie e politiche. Stupisce in questo senso il silenzio dei banchieri centrali e da questo punto di vista il prossimo incontro della Bce previsto il 10 marzo pare lontano anni luce.

Da inizio anno Piazza Affari ha perso il 25,7% della capitalizzazione, superando addirittura il -23% della Borsa di Shanghai (che però questa settimana è chiusa per festività). È chiaro che per frenare il clima di incertezza sui mercati sarà necessaria qualche forte presa di posizione da parte dei banchieri centrali: oggi e domani potrebbe farlo Janet Yellen, che sarà in audizione al Congresso.

Così come per arrestare la tempesta sui bond governativi dell’Eurozona nell’estate 2012 ci volle (e bastò) una frase di Draghi, il famoso “whatever it takes”, ci vorrebbero in questo momento altri due “whatever it takes” per calmare le acque e far sì che gli investitori possano tornare a guardare con più serenità ai fondamentali: uno sulle banche europee e un altro sul petrolio.

Le banche europee stanno pagando ancora una volta l’incapacità decisionale (soprattutto nel momento in cui si devono mettere in atto dei meccanismi di solidarietà coordinati) dell’Europa. L’aver lanciato a gennaio il bail-in (un meccanismo che prevede che le banche in difficoltà non potranno chiedere aiuti statali ma rivolgersi in primo luogo ai propri azionisti, in seconda battuta agli obbligazionisti e al terzo giro ai correntisti per le somme oltre i 100mila euro) senza aver creato in parallelo un fondo europeo a garanzia dei depositi è una pecca grave. Che pesa chiaramente in questa fase in cui i mercati non hanno le idee chiare sulle entità delle sofferenze che le banche europee dovranno svalutare in bilancio.

Allo stesso tempo, il fatto che Paesi Opec e non Opec continuino a scontrarsi, piuttosto che creare un accordo sulla riduzione della produzione del petrolio, è un altro elemento di turbolenza che favorisce la speculazione al ribasso sul petrolio e che meriterebbe appunto un “whatever it takes”.

In assenza di ciò sui mercati finanziari sta andando in scena l’effetto «palla di neve». Perché i mercati hanno più paura di quello che non sanno. Preferiscono avere cattive notizie che navigare nel buio. All’effetto palla di neve contribuiscono in modo determinante dei fattori tecnici. Lo si capisce dal fatto che stanno scendendo paradossalmente più i titoli fino a poco tempo fa considerati solidi e a maggiore capitalizzazione rispetto a titoli di società meno solide. Come mai? «I fondi ricevono ordini di vendita dovuti e sono quindi costretti a ridurre, o addirittura a svuotare le posizioni - spiega un gestore del settore private banking - Dato che i fondi hanno in portafoglio i titoli migliori e più solidi, sono costretti a vendere proprio questi. Vendite slegate dai fondamentali delle singole aziende che obiettivamente in questa fase iniziano a quotare con degli sconti importanti».

Un altro motivo tecnico che alimenta l’effetto palla di neve è il Var, Value at risk. A molti clienti viene associata un Var, un livello massimo di rischio che può sopportare in portafoglio. Ad esempio può essere previsto che un determinato portafoglio non può perdere più del 5% in una settimana. Se questo livello viene sfondato il gestore è costretto a vendere, non tanto perché non crede nella solidità dei titoli in portafoglio, quanto perché è costretto a farlo automaticamente per il fatto che l’elevata volatilità dei mercati ha fatto scattare il limite del Var.

Questi fattori tecnici spiegano che una buona parte delle vendite è al momento slegata dai fondamentali e sarebbe solo in parte giustificata se i mercati andassero effettivamente a prezzare lo scenario peggiore: quello di un ritorno della recessione come accade nel 2009.

Ma al momento i dati macro che arrivano dagli Usa indicano un rallentamento della crescita e non una recessione. «Di conseguenza - conclude il gestore - gli investitori che non hanno posizioni farebbero bene a mantenersi liquidi e magari a valutare un piano di accumulo graduale a prezzi che iniziano a farsi interessanti. Chi invece è “dentro”, ovvero è investito in questa fase di tempesta, potrebbe valutare di ricalibrare l’orizzonte temporale, soprattutto se il portafoglio è costituito da titoli solidi, che sarebbero i primi a ripartire non appena i mercati dovessero tornare, ma solo dopo una forte presa di posizione da parte delle autorità, a concentrarsi sui fondamentali e fare nuovamente stock picking, ovvero a distinguere le singole società e a non fare, come accade in questo momento, di tutta l’erba un fascio».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-02-09/perche-l-effetto-palla-neve-ha-colpito-mercati-e-quando-potra-tornare-sereno-184408.shtml?uuid=ACFSWuQC


Titolo: Vito LOPS. Casa, meglio comprare con un mutuo o con il nuovo leasing agevolato?
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 26, 2016, 12:28:52 pm
Casa, meglio comprare con un mutuo o con il nuovo leasing agevolato?

Di Vito Lops
23 febbraio 2016

Nell’ultimo anno sono stati stipulati in Italia molti più mutui: il 97% in più stando agli ultimi dati dell’Abi. Un terzo di questi sono surroghe, cioè miglioramenti di vecchi mutui (modificando tasso e/o durata). Il tutto però a fronte di un mercato immobiliare che sta leggermente risalendo dopo anni di crisi. Cresce la domanda e crescono un po’ le compravendite ma non certo i prezzi. La legge della domanda e dell’offerta del resto è di limpida semplicità: i prezzi crescono solo quando la domanda supera l’offerta. In questo contesto che la domanda superi l’offerta è tecnicamente impossibile considerata la mole di immobili invenduti che circola.

In ogni caso dalla ripartenza del mercato immobiliare dipende anche buona parte della ripresa economica perché il real estate crea lavoro su ampia scala e favorisce un certo ottimismo che si autoalimenta. È anche per questo motivo che probabilmente il governo ha introdotto da gennaio delle importanti agevolazioni in tema di leasing immobiliare.

Finora il leasing è conosciuto prevalentemente dai privati per la macchina, l’obiettivo è agganciarlo anche al concetto della casa. È previsto in particolare che chi sceglie la formula del leasing, preferendola al mutuo, all’affitto o all’affitto con diritto di riscatto, abbia il fisco particolarmente amichevole. Cosa è il leasing? In due parole: la banca acquista l’immobile e il cliente prende possesso dell’immobile pagando un canone d’affitto (a tasso fisso o variabile) periodico fissando all’inizio dell’operazione anche il prezzo dell’eventuale riscatto, al termine del piano di leasing che solitamente dura 12 anni ma in questi casi può spingersi anche fino a 20.

Secondo la nuova legge di stabilità, gli under 35 con un reddito annuo non superiore a 55mila euro possono detrarre ogni anno dall’Irpef il 19% fino a un massimo di canoni pagati di 8mila euro (quindi 1.520 euro). Per gli over 35 anni invece l’agevolazione è identica a quella oggi prevista per il mutuo prima casa, si può detrarre il 19% ma fino a 4mila euro (quindi massimo 758 euro l’anno). La grande differenza con il mutuo però riguarda il fatto che nel leasing il montante su cui calcolare il 19% di esenzione fiscale è dato dall’intero importo del canone mentre sul mutuo riguarda solo la quota interessi della rata.

Ad esempio se in un anno ho pagato su un mutuo rate per 6mila euro ma di questi 6mila, 4mila rappresentano la quota capitale e 2mila la quota interessi, su un mutuo prima casa il 19% viene calcolato su 2mila. Mentre nel caso del leasing sarebbe calcolato su 6mila.

Inoltre per il leasing è prevista un’altra agevolazione. Chi decide di riscattare l’immobile al prezzo concordato inizialmente e quindi di passare dalla condizione di locatario a quella di proprietario, potrà detrarre dall’Irpef il 19% di un importo massimo di 20mila euro. Se quindi per riscattare la casa aggiungo 30mila euro, potrò detrarre dall’Irpef 3.600 euro (cioè il 19% di 20mila).

Dal punto di vista fiscale quindi, per un under 35, il leasing parte in deciso vantaggio. Perché se risparmio ogni anno fino a 1.520 euro (contro i 758 potenziali del mutuo) per 20 anni ho un tesoretto di circa 14mila euro. Se a questi poi aggiungo i potenziali 3.600 euro in caso di riscatto arriviamo oltre i 17mila euro.

Il mutuo invece di norma rosicchia qualcosa sul lato tassi. I tassi dei mutui (sia fisso che variabile) oggi a livello nominale (cioè senza considerare l’inflazione) sono ai minini storici. Si stipula un variabile anche sotto l’1,5% e un fisso anche al 2,5% (nelle migliori delle ipotesi). Mentre con il leasing i tassi dovrebbero essere mediamente un po’ più alti. Quindi quando si chiede un preventivo di leasing prima casa bisogna confrontarlo anche con gli interessi che si risparmierebbero invece con il mutuo. Se questi battono i 14-17mila euro di vantaggio base del leasing, a quel punto il mutuo torna in vantaggio.

Un altro vantaggio del mutuo è dato dal fatto che offre la possibilità di estinzione anticipata gratuita. Mentre con il leasing bisogna andare fino in fondo ed eventualmente decidere di non riscattare l’immobile.

Il mutuo poi si può spingere su durate fino a 30 anni mentre il leasing nella migliore delle ipotesi arriva a 20 anni. Il leasing prima casa però ha dalla sua il fatto che consente di prendere possesso dell’immobile anche avendo poca liquidità iniziale e per questo si rivolge ai giovani che fanno fatica ad accendere un mutuo (il maxi-canone d’anticipo di solito è pari al 10% del valore dell’operazione) mentre con un mutuo medio bisogna avere il 20% di contanti, considerato che la maggior parte delle banche non concedono oggi mutui superiori all’80% del valore dell’immobile.

Un’altra differenza riguarda la morosità. La banca può avviare la procedura di pignoramento dopo sette rate di mutuo non pagate. Mentre la misura è un po’ più rigida nel caso di leasing. Può bastare anche una rata non pagata (in assenza della perdita del posto di lavoro senza giusta casa) per essere sfrattati dalla banca.

Pro e contro da ambo le parti, in ogni caso, da valutare con attenzione. Un’ultima cosa, però. «Non è detto che le banche si strappino i capelli per concedere leasing immobiliari prima casa - spiega Luca Dondi, analista di Nomisma -. Con il leasing le banche infatti vanno ad acquistare - per conto del locatario e in attesa di un suo eventuale futuro riscatto - un immobile. Ma in questo momento le banche sono piene di immobili per effetto dei numerosi pignoramenti avvenuti durante gli ultimi anni di crisi. Quindi non sono portate ad aumentare la quota di immobili in pancia in un momento in cui gradirebbero anzi liberarsene in tempi brevi. Anche per questo motivo molti istituti oggi stanno creando delle agenzie immobiliari interne o dei network per liquidare più in fretta i propri asset immobiliari. Il leasing da questo punto di vista andrebbe nella direzione opposta».

Non c’è quindi un vero vincitore. L’importante è conoscere le differenze e adeguarle alle proprie necessità. Sempre con la calcolatrice in tasca.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-02-23/casa-meglio-comprare-un-mutuo-o-il-nuovo-leasing-agevolato-125708.shtml?uuid=ACd1TEaC&p=2


Titolo: Vito LOPS. Come capire se l’investimento è quello giusto: basta una domanda
Inserito da: Arlecchino - Marzo 04, 2016, 12:17:58 pm
Come capire se l’investimento è quello giusto: basta una domanda

Scritto da Vito Lops il 29 Febbraio 2016
Imprendiamo

Houston, abbiamo un problema. Secondo il World Economic Forum l’Italia figura al 46esimo nella classifica che misura il livello di cultura finanziaria, peggio ci sono solo Paesi come Messico e Venezuela. Gli altri Stati del G20, così come quelli del G8, sono nettamente in vantaggio. A quanto pare dalle nostre parti in pochi conoscono la differenza tra un’obbligazione e un’azione. Tra un fondo bilanciato e un fondo flessibile, eccetera. Ed è davvero un clamoroso peccato, considerato che da questi concetti non si scappa. Prima o poi tutti si trovano ad avere un gruzzolo, anche piccolo e di poche migliaia di euro, da dover investire. In totale assenza di cultura finanziaria vorrà dire che le decisioni sui nostri soldi le prenderanno altre persone. E non sempre è un bene perdere il controllo.

Per quanto riguarda l’universo femminile, poi, questo problema è amplificato. I temi finanziari sono considerati ostici in partenza e spesso vale il principio tanto poi ci pensa il mio compagno/marito. A questo livello il controllo sul denaro è davvero minimale. Gli italiani sono bravi a mantenere il controllo nella “fase 1”, quella dell’accumulo della ricchezza (abbiamo un patrimonio tra i più elevati in Europa, sei volte il reddito contro le 4 della Germania) ma nella “fase 2”, quella dell’investimento del patrimonio, si mostrano piuttosto impreparati. Non a caso siamo tra i Paesi che investono di più in fondi comuni di investimento. Il che è una buona cosa se non si hanno conoscenze finanziarie perché il fai-da-te è estremamente pericoloso. Ma è altrettanto vero che affidare totalmente ad altri il proprio patrimonio (la fase 2) vuol dire in un certo qual modo rinunciare al controllo.

In qualsiasi campo della vita più abbiamo controllo più abbiamo successo. Il controllo non lo si acquisisce in poco tempo, ma solo – come ricordo in questo post – investendo nel “fattore T”. Se non investiamo nell’educazione finanziaria rinunciamo ad avere il controllo nella “fase 2”. Ed è un peccato perché gli individui ricchi – quelli che hanno un reddito annuo superiore ai 300mila euro – mediamente riescono ad avere una certa forma di controllo anche nella “fase 2”, quella della creazione di redditi da investimento.

Il controllo può essere totale (fai-da-te) o parziale. Personalmente ritengo che il controllo parziale sia la strada ideale da perseguire per chi si procura il reddito primario (“fase 1”) in un ambito differente dal mondo della finanza. In questo caso è improbabile che si abbia la possibilità di acquisire un’esperienza sul campo tale da poter eguagliare le competenze di un professionista che lavora in quell’ambito e quindi di assumere il controllo totale nella “fase 2”. Ecco perché è bene avvalersi della consulenza di esperti nel campo degli investimenti se il nostro reddito primario (“fase 1”) è sganciato dal mondo della finanza e quindi non abbiamo il tempo materiale per pareggiare la cultura finanziaria di un consulente. Abbiamo quindi bisogno della consulenza. Ma allo stesso tempo dobbiamo dimostrare di essere competenti nel campo, per non essere totalmente in balìa.

Dobbiamo “investire nel fattore T” per mantenere una forma, seppur parziale, di controllo sulla gestione della propria ricchezza. Solo in questo caso abbiamo gli strumenti per testare la qualità dei consigli ricevuti. Se non conosciamo la differenza tra un’obbligazione e un’azione, un fondo flessibile o un fondo bilanciato, un fondo passivo e un fondo attivo e via dicendo, saremo totalmente vulnerabili alla eventuale buona fede del consulente finanziario. Il cui obiettivo è in ogni caso diverso dal nostro. Chi vende il prodotto punta sulle commissioni (un flusso costante e periodico di reddito) promettendo agli investitori un guadagno eventuale sul capitale (aumento del prezzo di mercato de prodotto). L’incasso delle commissioni è sicuro mentre il nostro guadagno no. E’ un rischio che non possiamo permetterci perché la “fase 2” deve potenziare la “fase 1”, non eroderla o metterla in pericolo.

A questo punto c’è una semplice regola da seguire, che è la stessa regola che ispira l’investitore che ha il pieno controllo della “fase 2”.

Questa regola è una domanda da porre al consulente e/o all’intermediario finanziario che ci propone di investire in un determinato strumento. “Bene, sono anche disposto ad investire una parte dei miei risparmi in questo prodotto finanziario. A una condizione, però: che lei sia disposto a prestarmi almeno l’80% dei soldi dell’operazione”.

Se il consulente, come accade nella maggior parte dei casi, risponde che non è possibile, non resta che commentare. “Mi scusi, lei mi sta dicendo che investire in questo prodotto sarebbe una grande opportunità, eppure non è disposto a prestarmi dei soldi e rinuncia ai relativi interessi. Non capisco. Ciò significa che lei stesso non crede in prima persona nelle potenzialità del prodotto che mi offre”.

E’ un modo per ribaltare le carte sul tavolo e per far uscire allo scoperto chi propone l’investimento. Se è un investimento davvero interessante e solido questo fungerà da garanzia sui soldi prestati. E il proponente non dovrebbe aver problemi a finanziare l’operazione. In caso contrario, avremo la riprova che non si tratta dell’occasione della vita. E che l’Eldorado sarà da qualche altra parte.

Da - http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/2016/02/29/come-capire-se-linvestimento-e-quello-giusto-basta-una-domanda/?uuid=guYtFBXP


Titolo: Vito LOPS. La Yellen ha spiazzato gli investitori.
Inserito da: Arlecchino - Aprile 01, 2016, 05:08:08 pm
La Yellen ha spiazzato gli investitori.
Ecco come andranno Borse, oro e dollaro da qui a fine anno

Di Vito Lops
31 marzo 2016

Nella prima parte del 2015 i mercati finanziari hanno dato una dimostrazione di quanto importante sia “azzeccare” l’area geografica: le Borse europee avevano messo a segno nei primi tre mesi un rialzo superiore al 20% contro una variazione neutra per Wall Street. Anche questo 2016 è un esempio di capitali che preferiscono un’area piuttosto che un’altra: con la differenza che però quest’anno è Wall Street a raccogliere più appeal tra gli investitori.

Oggi si chiude un trimestre complessivamente molto difficile per i mercati azionari, zavorrati da pesanti perdite fino all’11 febbraio. Dopodiché è tornato un po’ di sereno e c’è stato un buon rimbalzo. Nel complesso, però, la Borsa statunitense può esibire un bilancio migliore delle Borse europee. Da inizio anno l’indice S&P 500 è in rialzo (+1%) mentre le Borse europee hanno perso l’8%, con Piazza Affari maglia nera a -15%.

È evidente che le turbolenze sul settore bancario europeo - alle prese con la gestione di elevate sofferenze in rapporto agli impieghi e con le reazioni all’entrata in vigore da gennaio del bail-in, un meccanismo che sposta la responsabilità dei salvataggi bancari dagli Stati ad azionisti, obbligazionisti e correntisti della banca insolvente - stanno pesando.

Adesso c’è da chiedersi se questo divario tra Wall Street e l’Europa si ridurrà o si amplierà, soprattutto dopo che nei giorni scorsi il governatore della Federal Reserve, Janet Yellen, ha “sparso altre colombe” indicando «ci sarà un rialzo dei tassi graduali nei prossimi anni» lasciando immaginare che non è poi così sicuro che i tassi verranno alzati a giugno (dipenderà dai dati sulla disoccupazione). E nel caso dovesse saltare l’appuntamento di giugno sarebbe a quel punto difficile vedere un rialzo a settembre-ottobre, poco prima delle elezioni presidenziali quando con le strette (fiscali e monetarie) non ci conquistano certo voti.

Cosa ne pensano i gestori? Come si muoveranno nei prossimi mesi dollaro, euro e Borse?
«La Yellen, già dal meeting del 17 marzo, sta comunicando al mercato una lenta retromarcia da parte del Board della Fed sulle aspettative dei tassi di interesse. In dicembre le loro attese erano di ben quattro rialzi per il 2016, adesso se ne attendono (in media) intorno a due ed il mercato ne prezza (in media) poco più di uno. Cosa è cambiato? Di certo il prezzo del petrolio e di molti metalli è salito rispetto allo scorso dicembre, ed il mercato del lavoro americano ha continuato ad espandersi creando posti di lavoro. Questo va nella direzione opposta rispetto alle comunicazioni della Fed ma, fintanto che le politiche fiscali nei maggiori Paesi non diverranno espansive e si creerà un riequilibrio sul fronte della distribuzione dei redditi, l'inflazione non potrà essere un vero pericolo - spiega Alessandro Picchioni, presidente e direttore investimenti di WoodPecker Capital -. Possibili rialzi sarebbero del tutto temporanei. Inoltre le elezioni politiche americane del 2016 implicano tradizionalmente una Fed che non interferisce modificando i tassi nei tre-cinque mesi precedenti. Si sta creando uno scenario per cui potremmo assistere ad un ulteriore rialzo dei tassi in giugno (forse luglio) e poi ad uno stop per il resto dell'anno».

«I mercati azionari festeggeranno la buona notizia e noi prevediamo l'S&P500 che chiuda l'anno con rialzi del 10-15% dai livelli attuali - continua Picchioni -. L'Europa “sottoperformerà” gli Usa, stretta da un settore bancario pieno di problemi sul fronte reddituale ed un cambio che in estate potrebbe irrobustirsi fino alla fascia 1,17-1,20 contro dollaro. Il Ftse inglese ed il Dax tedesco saranno le alternative europee migliori. La Cina dovrà affrontare ancora molte fasi difficili nel processo di riforma del sistema finanziario nonché nella ridefinizione della propria economia a favore di una crescita strutturale dei consumi interni. Ma, in linea con quanto detto per Wall Street, difficilmente assisteremo a crolli del mercato azionario nel resto del 2016. Gran parte delle materie prime andranno tendenzialmente bene nel resto dell'anno, salvo nuovi indebolimenti dopo le elezioni Usa quando il dollaro dovrebbe tornare forte toccando la parità contro euro nella prima parte del 2017».

Secondo Martin Arnold Director, Fx & Macro Strategist per Etf Securities, invece crede che entro fine anno il dollaro possa tornare a rafforzarsi. «La natura reattiva della Fed è divenuta più chiara dopo la dichiarazione di Janet Yellen. Ciò aumenterà la volatilità valutaria e, se continuerà, sarà un fattore ribassista per il dollaro statunitense. Tassi di interesse a lungo bassi e un dollaro statunitense più debole sono entrambi elementi positivi per l'oro nelle prossime settimane. Gli investitori stanno puntando all'oro nel 2016 in risposta alle preoccupazioni sulla volatilità nelle altre asset class e ai bassi rendimenti cash. Riteniamo comunque che con l'attuale sviluppo nell'economia statunitense e i rischi per un'inflazione in risalita, il dollaro statunitense potrebbe rafforzarsi nel secondo trimestre, quando il mercato comprenderà che la Fed avrà necessità di attuare una politica più restrittiva, dovendo potenzialmente alzare i tassi in modo più aggressivo di quando il mercato si aspetti».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-03-31/la-yellen-ha-spiazzato-investitori-ecco-come-andranno-borse-oro-e-dollaro-qui-fine-anno-103458.shtml?uuid=AC7F2dxC


Titolo: Vito LOPS. Borse, «sell in may and go away». Gli investitori «scapperanno» ...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 30, 2016, 04:45:33 pm
Borse, «sell in may and go away». Gli investitori «scapperanno» anche quest’anno?

di Vito Lops
29 aprile 2016

Diciamocela francamente: questi primi mesi del 2016 sono stati da pure montagne russe sui listini azionari. Prendiamo Piazza Affari: fino all’11 febbraio ha accusato un ribasso di 30 punti percentuali. Dopodiché è rimbalzata vigorosamente riducendo il passivo all’11%. Nel bel mezzo c’è stato però spazio per un’altra altalena. Il quadro grafico che ne emerge è una clamorosa “W”, che ha fatto felici due volte gli investitori che sono stati bravi a entrare sui minimi e scontenti al doppio quelli che hanno fallito il timing dell’ingresso.

Le Borse europee si sono mosse in modo meno violento di Piazza Affari, replicando tuttavia lo stesso trend. Dal -16% accusato fino a febbraio hanno ricucito quasi tutto il gap archiviando in questo momento, nell’ultimo giorno di aprile e del quarto mese di contrattazioni dell’anno, un calo del 4%.

Mancano poche ore allo scoccare del mese di maggio. Non un mese qualunque per gli investitori azionari dato che nelle stanze dei trader vale l’antico adagio “Sell in may and go away”, ovvero “Vendi a maggio e allontanati dai mercati”. Il detto poi prosegue in .... “Buy in Halloween”, ovvero “ricompra a fine ottobre” per posizionarti in prossimità del rally di fine anno. Altri invece seguono il detto “Sell in may and go away, don't come back till St. Leger day”. Il Saint Leger day cade a settembre, nel giorno in cui si svolge l’omonima corsa di cavalli, una delle più antiche e famose al mondo.

Sono detti che in alcune annate si verificano quasi scientificamente mentre in altre gli investitori che li seguono prendono delle sbandante non da poco. Non c’è nulla di certo, quindi. Seppure è indubbio che questi detti possano contare alle spalle una serie statistica rilevante, che in un certo qual modo li giustifica e permette di non catalogarli nella serie “bufale”. Dal 1960, il mercato azionario statunitense ha guadagnato lo 0,3% in media tra maggio e ottobre e il 7,5% da novembre ad aprile. Ecco perché il detto ha sostanza.

Bene, come andranno le cose quest’anno? «La situazione sui mercati finanziari globali rimane fragile, in tutte le macro aree riscontriamo degli elementi di riflessione che non ci portano a sovrappesare l'azionario - spiega Marco Aboav, macro portfolio manager di Moneyfarm -. Le valutazioni in America sono tra le più elevate della storia, in Giappone la politica monetaria non sta fornendo i risultati sperati, in Europa un filotto politico (Portogallo, Spagna, Grecia, Uk) non + scontato, l'andamento dei Paesi emergenti è stato solo in parte motivato dai fondamentali».

»La chiave rimane la diversificazione - prosegue Aboav -. Un portafoglio bilanciato focalizzato su azioni con alti dividendi e bassa volatilità - che sovrappesa bond governativi a maggiore scadenza ed obbligazioni high yield, con una minima esposizione sull’oro per beneficiare dal rischio panico e inflazione (quest'ultimo più remoto) - può navigare con maggiore sicurezza il classico sell in may and go away».

A parere di James Butterfill, Head of Research and Investment Strategy per Etf Securities «Quest’anno potremmo avere un impatto minore della stagionalità sui mercati, e molto dipende dalle decisioni della Federal Reserve (alzerà o no i tassi a giugno? ndr)».

Favorevole all “sell in may” Filippo Diodovich, strategist di Ig. «Crediamo che a maggio vi siano elevati rischi di ribasso sui mercati azionari soprattutto statunitensi che hanno evidenziato un lungo movimento rialzista tra febbraio fino a fine aprile, arrivando a toccare i massimi di novembre 2015. La debolezza delle trimestrali Usa e una possibile correzione dei prezzi petroliferi in vista del meeting dell'Opec di Vienna dovrebbero portare a una discesa degli indici statunitensi. Per i mercati europei ci aspettiamo una forte volatilità legata all'incertezza degli operatori sulle prossime mosse della Bce (nuovi interventi sui tassi) e sull'andamento dei sondaggi relativi alla Brexit».

Secondo Philip Saunders, co-head of multi asset di Investec «l'espressione “sell in May and go away” presuppone che gli investitori abbiano acquistato azioni in primo luogo. Il comportamento dei prezzi del mercato azionario suggerisce che gli investitori sono ancora posizionati in modo relativamente difensivo, avendo ridotto i rischi delle turbolenze di mercato della scorsa estate e dell'inizio di quest'anno. il rimbalzo dall'inizio di febbraio è stato deciso e generalmente sostanziale, più dinamico rispetto al “relief rally” atteso dal consensus. Nel breve periodo numerosi mercati azionari, ma non tutti, hanno fatto overbuying, comunque questa condizione potrebbe essere corretta semplicemente attraverso un periodo di trading laterale o correzioni brevi ed essenzialmente non negoziabili. Ciò sarebbe coerente con il miglioramento graduale che stiamo osservando nelle condizioni a livello macro e micro. I prezzi delle commodities continuano a stabilizzarsi, le banche centrali hanno alleggerito le condizioni del credito, l'ampiezza del mercato continua ad aumentare e le dinamiche degli utili aziendali stanno mostrando segnali di stabilizzazione. Potremmo dunque ritenere che tali condizioni potrebbero continuare oltre maggio, con i mercati azionari in crescita».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-04-29/borse-sell-may-and-go-away-investitori-scapperanno-anche-quest-anno-110625.shtml?uuid=ACWu1xHD#


Titolo: Vito LOPS. Europa in piena deflazione, Giappone in trappola da 15 anni. ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 15, 2016, 12:20:22 am
Europa in piena deflazione, Giappone in trappola da 15 anni.
Come se ne esce?

Di Vito Lops
13 maggio 2016

Ad aprile, nonostante il balzo del prezzo del petrolio (che ha vissuto il miglior mese degli ultimi 12 anni) la deflazione non migliora. In Italia è peggiorata a -0,5% (rispetto alla stima preliminare di -0,4%). In Spagna siamo a -1,1% e nell’area euro in media a -0,2%. In Grecia a -1,3%, il dato peggiore al mondo. Non è un caso che nella classifica globale dei livelli di deflazione tra i primi sei posti tre siano occupati da Paesi del Sud dell’Eurozona (Grecia prima, Spagna seconda, Italia sesta preceduta da Polonia, Singapore e Israele). Quest’area sta infatti sperimentando una deflazione salariale rilevante, come meccanismo forzato di correzione degli squilibri commerciali con i Paesi del Nord, Germania in primis. E se la Germania continua a fare surplus a raffica, in aperta violazione delle regole europee, il quadro non migliora.

In ogni caso l’intera area valutaria procede con un calo dei prezzi. La deflazione è una malattia dell’economia. Primo perché è un sintomo (se c’è deflazione vuol dire che i consumi interni sono in calo e quindi l’unica leva per azionare il Pil è quella dell’export). Ma anche perché è una concausa. La deflazione infatti innesca il circolo vizioso di aspettative di prezzi calanti, e questo spinge a rimandare le scelte future (investimenti, consumi) che sono i più grandi motori propulsori della crescita.

L’Eurozona è in deflazione in compagnia di Svizzera (-0,4%) e Giappone (-0,1%). Il Giappone del resto ci ha ormai fatto il callo. Da anni ormai combatte (senza successo) con questa malattia. In media, tra il 1998 e il 2003 l’economia nipponica ha convissuto con una deflazione media dello 0,35%.

Visto che l’Eurozona pare entrata a pieno regime in questa spirale, viene da chiedersi se non si stia giapponesizzando, ovvero se non rischi un prolungato periodo di deflazione. Domanda che nasce dato che a partire dal 2011 il governatore della Bce Mario Draghi ha messo in piedi una serie di misure espansive (scudo anti-spread, finanziamenti agevolati alle banche tramite Ltro e T-Ltro, azzeramento del tasso di riferimento con tasso sui depositi a -0,4%, quantitative easing) che finora non sono riuscite a riportare l’inflazione nel sentiero sperato, ovvero vicina al 2%. E i mercati si aspettano che questo mix di politiche non basterà neppure da qui a 5 anni dato che il grafico 5y5y dell’Eurozona attualizza ad oggi un’inflazione dell’1,4% nel 2021.

Inefficaci sembrano al momento anche le varie misure della Bank of Japan che ha lanciato il quantitative easing a fine 2012 e che recentemente ha portato sottozero il tasso ufficiale. Questo non è bastato a far deprezzare lo yen che anzi si è rafforzato da inizio anno nei confronti del dollaro del 10%. Gli investitori comprano yen considerandolo un porto rifugio, e questo nonostante il Giappone abbia il più alto debito/Pil al mondo (229%), e questo la dice lunga sul qualunquismo che troppo spesso si fa ergendo il debito pubblico a spauracchio clamoroso. Soprattutto perché non si considerano le altre carte che sul tavolo ha da esibire un Paese. Nel caso del Giappone queste carte sono un credito internazionale (generato dai surplus commerciali) che ormai ha raggiunto il trilione di dollari.

«È chiaro che lo yen si è apprezzato perché la finanza mondiale ne apprezza ancora il ruolo di porto sicuro: ed infatti si è rafforzato insieme all'oro. Ruolo che invece al momento non viene assegnato al franco svizzero, che dopo i forti apprezzamenti degli ultimi anni ora è in una fase di stallo - spiega Alida Carcano, presidente di Valeur Investments -. Il Giappone del resto resta pur sempre una delle più grandi economie al mondo e si trova nella situazione più unica che rara di importante creditore a livello internazionale, con quasi 1 trilione di dollari di crediti!».

Ma ci stiamo giapponesizzando? Quali sono le differenze tra Eurozona e Giappone?
«A nostro giudizio esistono delle differenze fondamentali tra Europa e Giappone, ma anche un'allarmante similitudine - prosegue Carcano -. La più importante differenza tra il Giappone e l'Europa è il fenomeno immigratorio, che avrà conseguenze demografiche sociali ed economiche alquanto rilevanti nei prossimi 20 anni. Questo fenomeno è del tutto inesistente in Giappone. C'è però un elemento allarmante, legato alla fragilità del settore bancario europeo. La bassa crescita rallenta la possibilità di riduzione dei crediti inesigibili attualmente presenti nei bilanci delle banche, in un momento in cui tra l'altro i margini di interesse sono sotto pressione. Tutto ciò in un contesto in cui le banche rappresentano il fulcro del finanziamento dell'economia (in Europa e Giappone 300% del PIL, rispetto al 100% in Usa)».

Quindi, dalla sua l’Europa avrebbe il vantaggio dell’immigrazione mentre in Giappone la popolazione si sta progressivamente riducendo senza una compensazione immigratoria (la popolazione giapponese ha iniziato a diminuire intorno al 2010, una tendenza che in Europa, grazie al fenomeno migratorio, è prevista non prima del 2035). Ma Giappone ed Europa condividono un sistema finanziario estremamente sbilanciato sul settore bancario, e peraltro molto fragile in questa fase di bassa crescita e deleveraging privato.

Anche secondo un’indagine di Axa il settore bancario accomuna pericolosamente Giappone ed Europa. Anche «le banche dell'area euro solo con lentezza hanno riconosciuto la svalutazione della loro situazione patrimoniale e hanno preso misure adeguate per colmare questa mancanza di capitale. Come in Giappone, e a differenza degli Stati Uniti, gli strumenti che si sono svalutati sono principalmente prestiti, non titoli, pertanto è stato possibile evitare la trasparenza del mark-to-market».

Per cui, i rischi di che l’Europa cada nella “sindrome giapponese” non si possono oggi, purtroppo, del tutto escludere. In questa situazione il governatore dell BoJ Kuroda ha affermato che comunque non ricorrerà all' “helicopter money”, ovvero a mettere il denaro direttamente a disposizione dei cittadini affinché lo spendano e facciano ripartire l'economia; anzi ha addirittura definito tale prassi illegale; ma il Giappone è in una tale situazione che “mai dire mai”. Sarà così anche per l’Eurozona?»

twitter.com/vitolops
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-05-13/la-deflazione-europa-non-e-piu-novita-giappone-ci-combatte-senza-successo-15-anni-come-se-ne-esce-111751.shtml?uuid=ADYksBH&p=2


Titolo: Vito LOPS. Titoli di Stato mondiali sotto pressione
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 31, 2016, 06:55:10 pm
Titoli di Stato mondiali sotto pressione
    –di Vito Lops Giovedì 27 Ottobre 2016

Un terreno minato. Pur protetto dalla Banca centrale europea (attraverso il piano di acquisti mensili noto come quantitative easing) il mercato dei bond mostra giorno dopo giorno (e questo accade ormai da oltre un mese) segnali di crescente nervosismo. Lo si è visto chiaramente nell’ultima seduta quando, mentre le Borse viaggiavano poco mosse (Piazza Affari ha chiuso a +0,29% nonostante il -8,6% di Banca Mps e Francoforte a -0,44%) i bond sovrani europei facevano le bizze. Con vendite diffuse.

I rendimenti (che si muovono in direzione opposta ai prezzi e quindi salgono quando sui titoli prevalgono le vendite) sono aumentati dappertutto. Il tasso del Bund tedesco (considerato il titolo più affidabile dell’area euro) a 10 anni è risalito di 5 punti base allo 0,08%. Un po’ più marcato il rialzo del rendimento del decennale italiano (dall’1,45% all’1,54%) cosicché lo spread tra i due titoli si è ampliato a quota 145 punti, come non accadeva da fine luglio. Le vendite, in ogni caso, non hanno fatto distinzioni. All’interno dell’area euro si è difeso solo il Portogallo con i titoli governativi che hanno visto aumentare il rendimento di appena due punti base (al 3,21%): ma per Lisbona la storia è diversa. Continua a beneficiare della decisione annunciata venerdì scorso dall’agenzia di rating canadese Dbrs che ha mantenuto il giudizio sul debito lusitano appena sopra la soglia “investment grade”, quella che consente al Portogallo di beneficiare (a differenza della Grecia) degli acquisti della Bce sul mercato secondario.

Una protezione, quella della Bce, che tuttavia sta solo arginando ma non impedendo, l’attuale trend ribassista sui titoli governativi. Questo perché c’è più di un motivo che sta spingendo i gestori ad alleggerire la propria esposizione nel settore. A partire dall’ipotesi di un tapering, ovvero della riduzione del piano di acquisti e quindi di stimoli monetari da parte della Bce. «Al momento il mercato si attende che la Bce prolunghi la scadenza del Qe da marzo a dicembre 2017 - spiega Massimo Saitta, direttore investimenti di Intermonte advisory -. Ma è un mercato divenuto ipersensibile e volatile dopo le ipotesi, per quanto smentite, delle scorse settimane di un possibile tapering anticipato. Inoltre sono stati interessati livelli significativi, la cui rottura potrebbe innescare ulteriori vendite. Negli ultimi due giorni infatti sono state toccate due soglie tecniche critiche: 141 punti per i future sul BTp a 10 anni e 163 per i future sul Bund a 10 anni».

Non ci sono solo i timori del tapering a mettere pressione su un mercato che obiettivamente negli ultimi mesi è stato gonfiato dallo scudo della Bce che ha dato manica larga agli investitori per portarlo allo stremo anche in ottica di trading speculativo. L’altro punto chiave riguarda le prospettive di crescita dell’inflazione. Il grafico che sintetizza le aspettative dei mercati su come si muoverà fra cinque anni (e per i prossimi cinque) l’inflazione nell’area euro è salito a quota 1,45%, un livello molto più alto rispetto a inizio settembre quando era all’1,29%. «Come per il colesterolo anche per l’inflazione c’è una componente buona e una cattiva - continua Saitta-. Diciamo che in questo momento il mercato dei bond sta scontando un aumento dell’inflazione cattiva, ovvero quella derivante dalla crescita del prezzo del petrolio (che ieri ha chiuso in calo a 50 dollari ma quasi il doppio rispetto ai minimi annui toccati a febbraio, ndr), piuttosto che quella buona, determinata dall’aumento dei salari». Che sia buona o cattiva, si tratta in ogni caso di un altro ingrediente che innervosisce il mercato dei bond. E che impatta anche sui titoli della zona extra-euro dove l’inflazione sta risalendo più velocemente. Come ad esempio si può evincere dai Gilt britannici il cui rendimento decennale è passato dallo 0,7% di inizio ottobre all’1,15% di ieri. In rialzo anche i tassi negli Usa (decennale all’1,78%). E qui c’è un altro ingrediente. I mercati scontano un rialzo dei tassi negli States a dicembre (che si specchia anche nel recente rafforzamento del dollaro con l’euro che viaggia a quota 1,09) e questo a ruota, pur con un impatto al rallentatore, influenza anche i rendimenti in Europa.

C’è poi un quarto motivo. Una parte degli investitori si sta convincendo che nei prossimi mesi politiche fiscali più espansive potranno fare da staffetta alle politiche monetarie. «Siamo alla fine dei tassi a zero. E non perché le banche centrali si stiano preparando ad aumentare i tassi: Fed a parte, le altre non ne hanno intenzione. E nemmeno perché i mercati obbligazionari siano convinti che i governi possano generare crescita e inflazione - commenta Brad Tank, chief investment officer fixed income di Neuberger Berman -. Semplicemente perché i mercati avvertono lo spostamento verso un intreccio tra politiche monetarie e fiscali e sanno che questo implica un elevato premio per il rischio politico che va oltre quello indicato dalla curva dei rendimenti».

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Titolo: Vito LOPS. Via alla grande rotazione sui mercati. Cosa cambia per bond, azioni,
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2016, 02:44:04 pm
Via alla grande rotazione sui mercati.
Cosa cambia per bond, azioni, oro e valute

Di Vito Lops 15 dicembre 2016

La Federal Reserve ha alzato i tassi di interesse di 25 punti base portando il costo del denaro all’ingrosso negli Usa nel nuovo range compreso tra 0,5% e 0,75%. Questa notizia era ampiamente attesa e non ha “sconvolto” più di tanto gli investitori. Ciò che non era atteso era il programma che la banca centrale ha per il 2017: alzare i tassi altre tre volte, anziché due come atteso dai mercati. Tecnicamente quindi si tratta di una sorpresa che, non a caso, si è subito riverberata sulle quotazioni finanziarie dei vari asset.

Il rendimento dei Treasury a 10 anni è balzato dal 2,5% al 2,6%. È salito anche quello del Bund tedesco (da 0,32% a 0,37%) ma meno rispetto al tasso del “cugino” americano. Di conseguenza lo spread Usa-Germania (in questo momento certamente più interessante rispetto allo spread Italia-Germania) si è impennato sul territorio inesplorato di 221 punti base.

Seguendo il rialzo dei tassi il dollaro si è rafforzato su scala globale. Il dollar index - che ne confronta l’andamento con le altre sei più importanti valute globali - è balzato ai massimi da 13 anni. Il cambio euro/dollaro è sceso ampiamente sotto quota 1,05, come non accadeva dal 2015. Il rafforzamento del dollaro, unitamente alla ritrovata propensione al rischio degli investitori (accelerata come spesso accade dall’esigenza di fare cassa e quindi performance a fine anno) sta indebolendo l’oro che anche oggi cede quasi il 2% (negli ultimi due mesi ha perso quasi il 20% neutralizzando buona parte del guadagno che aveva messo a segno da inizio anno).

L’indebolimento dell’euro sta dando nuova linfa alle Borse europee che sono reduci da settimane spumeggiante. In 10 giorni Piazza Affari ha guadagnato il 16%. Wall Street resta su valori prossimi ai record storici. La Borsa statunitense - essendo gli Usa un’area più sicura della più prospetticamente turbolenta Eurozona - si è rivelata con un +8% da inizio anno finora la valvola di sfogo dell’abbondante liquidità che deriva dalle politiche espansionistiche tenute negli ultimi anni dalle banche centrale e dalla rotazioni tecniche di asset finanziari.

    Lo scenario 15 dicembre 2016
I tre motivi per cui la «stretta» Fed non allarma i mercati

In questo momento gli investitori stanno vendendo le obbligazioni - perché i tassi stanno salendo e di conseguenza i prezzi, che si muovono in maniera inversa, “devono” scendere - e comprando azioni. Un fenomeno noto come la “grande rotazione”. Dai bond all’equity.

La domanda è, a questo punto, fino a quanto potrà durare questo trend che, come ogni tendenza, ha un inizio e una fine. Soprattutto considerato che Wall Street viaggia con un rapporto prezzo/utili (secondo i calcoli dell’economista e premio Nobel Robert Shiller) oltre 28 volte. Un multiplo da bolla.

Secondo molti esperti c’è una soglia tecnica. Quando i Treasury Usa saranno venduti a tal punto da far sì che il nuovo rendimento (a parità di cedola) si impenni dal 2,6% al 3%, sarà il segnale che potrà partire la “rotazione reverse”. Ovvero gli investitori che oggi stanno vendendo bond e comprando azioni, potranno iniziare a fare l’opposto: vendere azioni (che rischiano l’effetto bolla) e ricomprare obbligazioni Usa a tassi di partenza molto più interessanti. Quale sarebbe appunto il 3%.

Qualora l’investitore europeo volesse replicare questa strategia è bene che sappia che è probabile che se il Treasury arriva al 3% probabilmente contestualmente il dollaro si sarà ancor più avvicinato alla parità con l’euro. A quel punto il rischio cambio (ovvero un eventuale recupero dell’euro sul dollaro) potrebbe mettere in difficoltà quel 3% di partenza che sarebbe, nell’ipotesi, garantito dai titoli di Stato Usa.

Il mercato è, come sempre, paragonabile a una fisarmonica. Le classi di investimento si muovono sempre con una certa logica che ne riflette armonie (o trend) del momento. Tenendo fede al vecchio adagio “nessuno ti regala mai niente”.

twitter.com/vitolops
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Titolo: VITO LOPS. Ecco perché la decisione di Dbrs sul rating è così importante
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 14, 2017, 06:41:25 pm
ATTESA PER LA DECISIONE
Ecco perché la decisione di Dbrs sul rating è così importante

    –di Vito Lops 13 gennaio 2017

Gli scaramantici possono aggiungere ai market mover del giorno - la pronuncia da parte dell’agenzia canadese Dbrs sul rating dell’Italia - il fatto che questa decisione sia arrivata di “venerdì 13”. Ma più della numerologia conta la sostanza dei fatti. Si tratta di una decisione non da poco perché da essa dipende quanto “costerà”, in termini di garanzie, alle banche chiedere in prestito liquidità alla Bce. Cerchiamo di capire perché.

    L’Analisi
Il voto Dbrs e le vere incognite sulle banche

Il primo punto da capire è che quando una banca commerciale europea chiede un prestito di liquidità alla banca delle banche, la Banca centrale europea, lo fa dando in pegno un collaterale. Una garanzia. Un po’ come quando una famiglia chiede un mutuo e dietro quel prestito la banca chiede in garanzia l’ipoteca sulla casa. I titoli di Stato italiani sono una delle garanzie che le banche possono dare alla Bce per chiedere la liquidità. Sono accettati dalla Bce e, in più, alle banche italiane può far comodo dato che in portafoglio ne detengono un controvalore superiore ai 400 miliardi di euro.

Ma quanto valgono i titoli di Stato italiani per la Bce? Quanta liquidità può prestare alle banche in cambio di un BoT o BTp? Il punto è questo. Perché dal valore attribuito dalla Bce dipende anche la trattenuta sul prestito, tecnicamente chiamata nelle stanze di Francoforte haircut. Il valore attribuito dalla Bce dipende a sua volta dal rating che il Paese che emette quel titolo governativo può esibire. Sebbene vi siano numerose agenzie di rating al mondo, la Bce prende in considerazione il giudizio di quattro agenzie: le americane S&Poor’s e Moody’s, la francese Fitch e la canadese Dbrs. Per la Bce non è importante che tutte e quattro le agenzie abbiano un giudizio “A” per applicare le condizioni di miglior favore, ovvero il minor taglio possibile sul prestito. È sufficiente una “A” tra le quattro agenzie.

Ecco perché il giudizio di Dbrs - il downgrade era prevedibile perché ad agosto l’agenzia aveva aperto una procedura di revisione del rating con outlook negativo - era molto atteso. Dbrs era rimasta l’unica agenzia (delle quattro monitorate dalla Bce) ad avere un giudizio mite sull’Italia: “A-low”. Bastava un notch, un solo gradino in giù, e anche Dbrs si sarebbe unita al giudizio delle altre tre sorelle del rating che da diverso tempo hanno fatto scendere l’Italia dal livello “A” in “Serie B”. E così è stato.

Questa bocciatura, quindi, aumenterà la trattenuta che la Bce chiederà sui titoli di Stato italiani dati in pegno dalle banche quando chiedono liquidità.

Se sei al piano “A” e dai un BoT come garanzia la Bce ne trattiene solo lo 0,5%. Ma se retrocedi in serie “B” la Bce ne trattiene il 6%. Così, se dai in garanzia un BTp nel primo caso la trattenuta è al 6%, mentre nel secondo più che raddoppia al 13%.

Ovviamente la decisione non riguarda teoricamente solo le banche italiane ma tutte quelle che hanno in portafoglio titoli governativi italiani e che intendono darli in garanzia per ottenere finanziamenti dalla Bce.

Secondo i calcoli di Rabobank- che risalgono allo scorso agosto - le banche italiane attualmente hanno prestiti presso la Bce per 142 miliardi di euro. Il downgrade da parte di Dbrs dovrebbe aumentare le garanzie necessarie per sostenere questo prestito di circa 10 miliardi.

    L’ANALISI 6 gennaio 2017
Primi esami per il BTp ma il vero test sarà «politico»
Gli esperti, comunque, sono divisi sull’impatto di un eventuale downgrade. Perché, come ci raccontiamo da tempo, le difficoltà che stanno affrontando le banche europee non sono legate a una mancanza di liquidità. Di questa ce n’è fin troppa. Ad esempio, come ricorda Bankitalia, il collaterale depositato in Bce dalle banche italiane eccede del 40% quanto necessario a ottenere i prestiti Bce.

Va poi detto che i titoli di Stato italiani sono solo una fetta di un’enorme lista di titoli eligible, quelli accettati in garanzia dalla Bce.

E allora dove sta il problema? Potrebbe essere più politico che tecnico. Un downgrade non fa piacere a nessuno. Lo scorso agosto, quando aveva appreso dell’apertura della procedura di revisione da parte di Dbrs, il Tesoro in una nota non aveva nascosto la sua irritazione: «La nostra opinione è che ci sia una violazione delle regole e stiamo valutando se ci sono le condizioni per contestare la decisione di rivedere il rating al di fuori del normale calendario di pre-annunciato».

Un downgrade non fa piacere a nessuno. Tanto meno all’Italia, che nonostante negli ultimi 10 anni di crisi sia stata “costretta” a generare record di avanzi primari (mentre la maggior parte degli altri Paesi reagiva alla crisi ampliando il deficit fiscale), resta ancora la terza economia dell’Eurozona.

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Titolo: VITO LOPS. Perché lo «spread dell’inflazione» penalizza l’Italia e il debito ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2017, 08:48:53 pm
Titoli di stato
Perché lo «spread dell’inflazione» penalizza l’Italia e il debito pubblico

    –di Vito Lops 27 gennaio 2017

Se c’è una cosa buona che fa l’inflazione è quella di abbattere il costo reale di un debito. Se però i tassi sul debito aumentano più dell’inflazione siamo punto e a capo. Il costo reale (depurato per l’inflazione) di quel debito anziché diminuire aumenta. Ed è quello che rischia di accadere in Italia se l’andazzo degli ultimi mesi diventerà (più o meno) strutturale.

Il rendimento del BTp a 10 anni è passato dall’1,2% della scorsa primavera agli attuali 2,23%. Questo aumento non impatta ovviamente sulle casse dello Stato in merito allo stock di titoli a cedola fissa già emessi ma sui nuovi titoli. E lunedì il Tesoro emetterà nuovi titoli in asta a medio-lungo termine (5 e 10 anni) per quasi 10 miliardi e qui le cedole (e di conseguenza il costo nominale del debito) saranno certamente più alte rispetto alle precedenti emissioni.

Questo perché sul mercato secondario dei titoli di Stato i BTp in circolazione già scontano (non potendo farlo sulla vecchia cedola che è fissa, lo fanno sul prezzo che si è allontanato a quota 91 rispetto ai 100 a cui verrà rimborsato il titolo a scadenza) un tasso del 2,23%. Ed è su questi livelli che dovrebbe attestarsi quindi il costo della nuova cedola a 10 anni che il Tesoro andrà a vendere lunedì.

Ciò che conta, però, non è il costo nominale debito ma quello reale. E questo dipende, come visto, dall’inflazione. Tanto più è alta l’inflazione tanto sarà nella sostanza meno costoso per il Tesoro rimborsare gli interessi sul debito. Viceversa più l’inflazione è bassa più sarà caro in termini reali il monte interessi da rimborsare.

In questa fase, a livello globale, stiamo assistendo a un generale aumento dei tassi di interesse. Perché gli investitori si aspettano un rialzo futuro del costo del denaro da parte delle banche centrali (a partire dagli Usa che già hanno avviato questo percorso con due strette negli ultimi 13 mesi a cui potrebbe aggiungersi un’altra a giugno e poi a ruota, fra 1-2 anni, nell’Eurozona). Le banche aumenteranno i tassi solo però se allo stesso tempo l’inflazione attesa continuerà a dare segnali di normalizzazione.

C’è un grafico che misura l’andamento delle stime nel medio termine dell’inflazione. Lo consulta tutti i giorni il governatore della Bce Mario Draghi. È l’indice “5y5y Eurozone inflation”: stima ad oggi come sarà l’inflazione fra 5 anni e per i prossimi 5 anni. Dato che l’obiettivo della Bce è quello di mantenere la stabilità dei prezzi su un livello «inferiore ma vicino al 2%» nel medio termine, è questo il grafico da prendere in considerazione per provare a intercettare le prossime mosse monetarie dell’istituto di Francoforte.
LE ASPETTATIVE DI INFLAZIONE FRA 5 ANNI (E PER I PROSSIMI 5) NELL'EUROZONA
Dati in percentuale
2012OttAprOttAprOttAprOttAprOtt1,01,21,41,61,82,02,22,42,62,8

Come dimostra il grafico, il tasso di inflazione atteso è aumentato di 50 punti base in pochi mesi. Ad agosto la stima “5y5y” era pari all’1,3%. Oggi siamo vicino all’1,8%: 50 punti base appunto. Questo ci aiuta a capire come mai il rendimento del Bund tedesco è passato da 0 allo 0,48% nello stesso arco temporale. Gli investitori stanno semplicemente adeguando il rendimento delle obbligazioni rispetto alle mutate previsioni inflative.

Al di là delle stime e dei dati che mediano fra più Paesi, però, il costo reale del debito si paga di anno in anno in base a quella che è stata l’inflazione generata dal singolo Paese.

Questi dati ci dicono che oggi l’Italia ha una spinta inflativa meno forte rispetto all’area euro nel suo complesso. A dicembre, su base annua, il livello generale dei prezzi è cresciuto dello 0,5%. Molto meno rispetto all’1,6% della Spagna, all’1,7% della Germania e all’1,1% medio dell’area euro.
IL CONFRONTO TRA L’INFLAZIONE IN ITALIA, SPAGNA ED EUROZONA
Dati in percentuale
Italia Eurozona Spagna
20092010Lug2011Lug2012Lug2013Lug2014Lug2015Lug2016Lug-2-101234

Se questo “spread tra le inflazioni dei diversi Paesi” proseguirà vorrà dire che nei prossimi mesi all’Italia costerà di più in termini reali, nel raffronto con gli altri Paesi, rimborsare il debito. E ancor di più se consideriamo anche che i tassi nominali sul debito stanno aumentando molto più in Italia che altrove. Basti pensare che a marzo il BTp a 10 anni esprimeva un tasso di interesse dell’ 1,25% mentre il corrispettivo Bonos spagnolo era considerato più rischioso e “pagava” l’1,51%. Oggi la situazione si è capovolta. Quel BTp è andato al 2,23% (quindi 100 punti base in più) mentre il Bonos è più o meno rimasto lì (1,57%). In 10 mesi l’Italia ha perso nei confronti della Spagna quasi 100 punti base nominali sul titolo decennale. Senza considerare la minor inflazione che sta generando. Il che vuol dire che in Spagna per quest’anno quel costo dell’1,5% verrà abbattutto dall’inflazione dell’1,6% mentre quel 2,23% italiano sarà limato solo di 50 punti base (se l’inflazione resterà sui livelli attuali).

A onor della “macro-cronaca” va poi detto che probabilmente le aspettative di inflazione nel medio-periodo probabilmente peccano di eccessivo “entusiasmo”. Se infatti osserviamo l’andamento dell’ “inflazione core” (quella che non conteggia i beni energetici e le materie prime agricole) notiamo una straordinaria stabilità: l’area euro pare imballata intorno allo 0,9%.
L’ANDAMENTO DELL'INFLAZIONE CORE
Sono esclusi i beni energetici e i prodotti agricoli non lavorati. Dati in percentuale
Italia Eurozona Spagna
20112012Lug2013Lug2014Lug2015Lug2016Lug-0,50,00,51,01,52,02,53,0

Questo ci dice che l’inflazione generale sta avendo una fiammata negli ultimi mesi in virtù dell’aumento del costo delle materie prime. Nell’ultimo anno infatti il prezzo del petrolio è praticamente raddoppiato: da 28 a 56 dollari al barile. Ma dato che l’inflazione si calcola anno su anno, è ragionevole ipotizzare che, salvo un nuovo raddoppio del prezzo del petrolio, la spinta inflativa delle materie prime tenderà a ridursi nei prossimi mesi/anni.

E allora perché gli investitori stanno comunque puntano su un aumento dell’inflazione anche nel medio-periodo (5y5y all’1,8%)? Molto semplicemente perché si aspettano che nei prossimi anni i governi dei Paesi europei (anche qui trascinati dagli Usa come first mover) adottino politiche fiscali più espansive che aumentino il potere d’acquisto della fascia medio-bassa della popolazione, l’unica in grado di impattare sull’ “inflazione core”.

Ma si tratta di una scommessa. Peraltro con ostacoli non semplici da superare: si veda il principio del pareggio di bilancio novellato nell’articolo 81 della Costituzione o le ritrosie di Bruxelles a derogare sul vincolo del deficit/Pil al 3%. Con questi paletti come potranno i Paesi europei adottare politiche fiscali aggressive nei prossimi anni a tal punto da stimolare l’inflazione?

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Titolo: VITO LOPS. Ecco lo spread che ci avvisa quando le azioni sono a rischio bolla
Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2017, 11:20:10 pm
Ecco lo spread che ci avvisa quando le azioni sono a rischio bolla

Di Vito Lops 03 marzo 2017

I mercati finanziari sono pieni di indicatori. Di dati ce ne sono fin troppi. Analisti e operatori ogni giorno si trovano di fronte a un overload di numeri e informazioni di fronte ai quali non sempre è facile capire quale direzione prenderà nelle ore successive il flusso di capitali.

Uno degli indicatori più utilizzati dai tecnici, ma che spesso resta nell’ombra ai più, è lo spread tra l’earning ratio yield (il rapporto tra l’utile per azione degli ultimi 12 mesi e il prezzo corrente di mercato) di una Borsa rispetto al rendimento dei titoli a 10 anni espresso dallo stesso Paese o area geografica.

È molto utile perché fotografa in tempo reale il costante duello tra azioni e titoli governativi. Se un Paese è affidabile, è giustificato che vi sia uno spread (un differenziale) tra azioni e bond, proprio perché le azioni sono tendenzialmente una classe di investimento più rischiosa rispetto ai titoli di Stato. E questo spread misura proprio il premio al rischio che un investitore “riceve” per il fatto di investire in un asset potenzialmente più pericoloso.

Quando questo spread si attenua, si riduce anche il premio al rischio e i titoli di Stato diventano di conseguenza più attraenti. Oppure, leggendo l’altro lato della medaglia, può voler dire che le azioni sono diventate un po’ carucce. In sostanza, il “gioco” di detenere azioni anziché bond inizia a valere meno della candela.

Bene, osservando oggi l’andamento di questo spread negli Usa si ricava un’indicazione interessante.
LA DIFFERENZA TRA GLI UTILI PER AZIONE A WALL STREET E IL RENDIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI USA A 10 ANNI
Earning ratio yield dell'S&P 500 versus Treasury a 10 anni

Man mano che le azioni a Wall Street stanno macinando record (mercoledì l’indice Dow Jones ha superato per la prima volta la soglia dei 21mila punti e il più corposo S&P 500 ha sorpassato per la prima volta nella storia i 2.400 punti) sta calando l’earning ratio yield delle stesse azioni (che si ottiene dividendo l’utile per azione degli ultimi 12 mesi per il valore corrente di Borsa dell’azione). L’earing ratio yield (che è l’inverso del price/earning, un altro multiplo molto utilizzato) dell’S&P 500 è sceso al 4,39 per cento. Un dato decisamente basso rispetto agli ultimi anni. Basti pensare che nel 2012 era al 7%, nel 2009 a 9% e lo scorso anno oltre il 5 per cento.

    L’Analisi
Listini Usa, se l’euforia irrazionale riempie il vuoto

Allo stesso tempo sta aumentando il rendimento dei Treasury (i titoli di Stato Usa) per via dell’aumento dell’inflazione. Il tasso decennale è salito al 2,5%, 100 punti base in più rispetto allo scorso settembre. Di conseguenza lo spread tra le due classi di investimento si sta riducendo. Siamo a 192 punti (1,92%).

Il premio al rischio di investire a Wall Street è sceso: ovvero le azioni, a fronte di una maggiore volatilità sul prezzo, “promettono” oggi “appena” l’1,92% annuo in più rispetto ai titoli di Stato Usa. Lo scorso anno il premio al rischio era superiore al 3 per cento. Nel 2011 oltre il 6 per cento.

Per trovare un livello così basso bisogna tornare indietro nel tempo, esattamente al 2010. Quell’anno, in cui lo questo speciale “spread” scese anche sotto l’1%, Wall Street perse il 13% in due mesi, segnando il peggior andamento bimestrale di sempre.

Questo non vuol dire che Wall Street - che continua ad apprezzarsi in scia alle promesse, per ora non corroborate nei fatti da piani sostanziali, del nuovo presidente Donald Trump - è inevitabilmente destinata a una forte correzione. Ma in ogni caso può offrire a risparmiatori e investitori uno spunto di riflessione in più. Prima di operare in un mercato che inizia, lo dicono i numeri, a surriscaldarsi.

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Titolo: VITO LOPS. Quanto manca alle Borse per rivedere i record? Alla Germania il 2%...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 28, 2017, 11:39:31 am
Quanto manca alle Borse per rivedere i record? Alla Germania il 2%, all’Italia il 150%, al Giappone 28 anni

    –di Vito Lops 17 marzo 2017

A giorni la Borsa tedesca potrebbe ritoccare il massimo storico raggiunto il 10 aprile 2015, a quota 12.390 punti. Grazie al +5% messo a segno da inizio anno il listino azionario principale in Germania, il Dax, è a soli 2 punti percentuali dal ritornare laddove il territorio che ne segue è inesplorato. Lo stesso vale per le Borse di Londra e New York che sono a meno di un punto percentuale dal top che però hanno già aggiornato in questo 2017, qualche seduta fa.

    La borsa di Milano 16 marzo 2017

Piazza Affari sfonda 20mila punti. Ai massimi da 14 mesi

Questi tre listini (Usa, Regno Unito e Germania) stanno vivendo il loro momento più alto. Ma non è così per tutte le Borse. Il Cac 40 di Parigi dovrebbe salire del 38% per riportarsi nella sua espressione più alta, quei 6.944 punti toccati il 4 settembre del 2000. Anche Piazza Affari dovrebbe fare un salto quantico nel tempo per respirare aria di record. Sono passati oltre 17 anni (era il 6 marzo del 2000) da quando il listino delle blue chip milanesi toccò 50.108 punti. Oggi naviga a quota 20.000: vuol dire che necessita di un balzo del 150% per mettersi in pace con la storia.

Ci sono poi casi ancor più eclatanti come quello della Borsa di Lisbona, a cui manca una performance del 226% per tornare in auge (o, se vogliamo, ha perso il 69% dai suoi momenti più felici) e quello della Borsa di Atene che dista il 905% dal picco che risale al 17 settembre del 1999.

A livello temporale c’è però chi batte la Grecia. L’indice Nikkei di Tokyo annovera la sua peak performance addirittura al 29 dicembre del 1989, 28 anni fa. Per riproporsi su quei livelli dovrebbe raddoppiare il proprio valore. Mentre alla Cina manca un +54% per riesplorare i massimi del 2015.
QUANTO MANCA ALLE BORSE PER RIVEDERE I MASSIMI STORICI

L’analisi dell’andamento delle Borse spesso aiuta a raccontare anche la storia economica e l’andamento dei singoli Paesi. Da questa speciale “classifica di distanza dei valori azionari dai picchi” possiamo ricavare che il Giappone sta pagando ancora la “giapponesizzazione” dell’economia, oppure che Stati Uniti e Germania sprizzano salute. Così come che Atene e Lisbona arrancano mentre l’Italia è ingessata, ancora lontana dal momento di massimo fulgore.

Non bisogna però commettere l’errore di associare algebricamente la Borsa di un Paese al cuore dell’economia di quel Paese. In un’economia sempre più globalizzata - dove le multinazionali dichiarano utili nei Paesi dove è più agevole ottenere risparmi fiscali - le carte si rimescolano un po’. E non sempre i listini sono rappresentativi dell’economia domestica. Ad esempio la maggior parte delle aziende quotate sul listino spagnolo hanno una forte connessione con l’economia brasiliana. Quindi se l’indice Ibex corre non è necessariamente detto che i cittadini spagnoli stiano, in quanto a standard di vita, correndo di pari passo.

    Scenari sui mercati 23 febbraio 2017

Perché (dopo Mosca) Milano è la Borsa peggiore da inizio anno

Un altro fattore che può distorcere il collegamento tra una Borsa e lo stato di salute generale delle imprese domestiche riguarda il sovrappeso che un settore può avere nella composizione di un indice. Ad esempio il Ftse Mib di Milano - che calcola l’andamento ponderato dei 40 titoli più importanti - è sbilanciato sui titoli finanziari che hanno un peso superiore al 30%. Quindi se le banche se la passano male, l’immagine dell’intero listino ne risulta oltremodo penalizzata.

Il fatto che un indice non sia necessariamente lo specchio di un Paese emerge chiaramente anche dal confronto del Ftse Mib con il Ftse-Italia All Stare. Al primo, come detto, manca un +150% per rivedere i massimi. Al secondo - che annovera anche imprese più piccole, di media capitalizzazione, ma più rappresentative del tessuto produttivo italiano, occorre “appena” un 17% per tornare al picco del 20 luglio 2015.

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Titolo: VITO LOPS. Il Bitcoin crolla del 24% in quattro giorni. Perché è sulle montagne
Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2017, 10:53:26 pm
Il Bitcoin crolla del 24% in quattro giorni. Perché è sulle montagne russe

•   –di Vito Lops
•   15 giugno 2017

Da inizio anno il Bitcoin vale il 140% in più. Se però si osserva la quotazione della scorsa settimana - quando negli scambi intraday la criptovaluta più gettonata è arrivata a toccare quota 3.000 dollari - e la si confronta con quella di oggi (2.283) si scopre che in quattro sedute il Bitcoin ha perso il 23,9% del proprio valore.
Un’escursione al ribasso talmente violenta che a questo punto chi ha deciso recentemente di acquistare nelle varie piattaforme elettroniche che lo consentono la moneta digitale più famosa del web comincia a chiedersi se abbia commesso un grosso errore. Se, come avviene quando si è nel bel mezzo di una tipica bolla finanziaria, sia rimasto con il cerino acceso in mano.
È presto per dirlo, così come è al momento francamente complesso tacciare il Bitcoin e il fenomeno generale delle cripto valute come una moda passeggera o una bolla destinata certamente a implodere.
Di certo bisogna dire che non si tratta della prima volta che il Bitcoin subisce i contraccolpi della volatilità. A fine 2013 valeva già oltre 1.100 dollari. Meno di un anno dopo era scesa sotto i 400 dollari. Dopodiché, a partire dal 2015, è iniziato un forte trend rialzista sfociato con la clamorosa accelerazione partita lo scorso autunno che ha portato la valuta da 700 a 3.000 dollari.
L’ANDAMENTO PAZZO DEL BITCOIN
La volatilità sulla criptovaluta più utilizzata al mondo
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Le ultime sedute però sono state particolarmente nefaste per la quotazione che, come detto, si è depressa in poche ore di quasi un quarto del valore. Non aiuta in tal senso un report di Morgan Stanley secondo cui il Bitcoin, e più in generale le cripto valute, non potranno affermarsi in futuro né come delle valide monete né come delle interessanti forme di investimento finanziario. Secondo la banca d’affari il Bitcoin è una modalità scomoda per i pagamenti di beni e servizi che non potrà reggere il confronto con la praticità e la solidità oggi garantita dalle carte di debito e credito.
Il peccato capitale di cui soffrirebbe il Bitcoin è la sua volatilità. Talmente elevata che lo rende troppo difficile per affermarsi come mezzo di pagamento.
Una secca bocciatura al Bitcoin e alla sua ascesa, così come - per estensione - alla seconda criptovaluta del pianeta, Ethereum. Del resto lo avevamo già detto: il Bitcoin ha degli innegabili punti di forza - che in parte giustificano la folle corsa negli ultimi mesi - ma anche una potenziale estrema fragilità.
Tra i punti di forza c’è la sua stessa natura di moneta limitata. Secondo le regole per l' “estrazione” fissate dall'ideatore (noto con lo pseudonimo Satoshi Nakamoto) il Bitcoin tende asintoticamente al limite di 21 milioni, limite che dovrebbe essere raggiunto a una trentina d'anni dalla nascita. Quindi stiamo parlando di una potenziale risorsa limitata. Che sia limitata è fuor di dubbio. Che diventi una risorsa dipende - e questo è il destino comune a tutte le valute, digitali o cartacee - da quanto verrà accettata come mezzo di scambio.
“Secondo Morgan Stanley il Bitcoin è una modalità scomoda per i pagamenti di beni e servizi che non potrà reggere il confronto con la praticità e la solidità oggi garantita dalle carte di debito e credito”
La scommessa è tutta qui: si rafforzerà come mezzo di pagamento? Quante piattaforme in futuro accetteranno Bitcoin nell’e-commerce? Per acquisire credibilità una criptovaluta ha bisogno di un andamento costante e poco volatile. Una qualità che nell’ultima settimana il Bitcoin ha dimostrato di non possedere ancora. Perché può bastare un report o una decisione politica di un Paese di non accettarlo per minarne le fondamenta e la crescita.
A conti fatti il Bitcoin non è quindi né promosso né bocciato al test dei mercati finanziari. Per ora è (solo) rimandata.
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Titolo: VITO LOPS IL BILANCIO DEI PRIMI SEI MESI Piazza Affari, mini-rally con le banche
Inserito da: Arlecchino - Luglio 02, 2017, 04:59:01 pm
IL BILANCIO DEI PRIMI SEI MESI
Piazza Affari, mini-rally con le banche
Di Vito Lops 01 luglio 2017

Un semestre così in Borsa mancava da diverso tempo. Dobbiamo tornare indietro al 2009, quindi otto anni fa, per incrociare performance simili a quelle messe a segno dall’azionario in questo 2017. In sei mesi la capitalizzazione globale delle Borse è lievitata di 9mila miliardi e viaggia oggi sui massimi di tutti i tempi a quota 75.770 miliardi di dollari.

Dei 30 indici delle più grandi Borse al mondo, soltanto quattro (Cina, Canada, Israele e Russia) hanno registrato una performance negativa. Per tutti gli altri listini big il leit motiv è stata la crescita. È stato il semestre della tecnologia: l’indice Nasdaq ha aggiornato per ben 38 sedute il massimo storico, chiudendo i primi sei mesi con un rialzo del 14% (+27% in 12 mesi). Va però detto che nelle ultime settimane sull’hi-tech Usa è aumentata la volatilità, il che lascia presupporre una possibile correzione alle porte.

SONDAGGIO ASSIOM FOREX-RADIOCOR 30 giugno 2017
Borse, più incertezza tra gli operatori. Pesano politica e inflazione
Tencent Holdings, il più importante produttore mondiale di videogiochi, e WeChat, il più popolare social network locale, sono balzati del 40%. Alibaba, il più grande mercato elettronico asiatico, è salito del 60%. Questi titoli hanno aiutato l’indice Msci Asia ex Japan ad archiviare una performance di metà anno superiore al 20%.

Più contenute ma comunque solide le performance degli indici che inglobano la “old economy”. L’S&P 500 e il Dow Jones hanno incamerato un apprezzamento dell’8% superando la media delle Borse europee (+6,5%) che in ogni caso hanno dimostrato una ritrovata verve grazie all’aumento degli utili societari. Il Ftse Mib di Piazza Affari - nonostante da metà maggio abbia perso il 5,5% - chiude il primo semestre con un rialzo del 7%, soprattutto grazie al recupero del settore bancario (+17%). In linea generale hanno sofferto i titoli del settore energetico. L’ “oil and gas” europeo è arretrato dell’11%, quello italiano del 16%. Un dato che fa il paio con l’andamento del petrolio: a inizio anno un barile costava 54 dollari mentre ieri (qualità Wti) non superava i 45 (-16%). Del resto il calo del petrolio ha stupito molti analisti che invece a gennaio si erano sbilanciati a favore delle quotazioni del greggio. Così come le previsioni ipotizzavano un ulteriore rafforzamento del dollaro e un rialzo dei tassi dei titoli di Stato Usa. Delle tre, nemmeno una. Il petrolio, come visto, ha subito un calo a doppia cifra con un ribasso massimo rispetto ai picchi dell’anno del 23%. Il dollaro, anziché rafforzarsi in funzione delle politiche monetarie restrittive della Fed (che in questa prima metà dell’anno ha alzato due volte i tassi di interesse) si è indebolito. Il dollar index - che sintetizza l’andamento del biglietto verde rispetto alle sei principali divise del pianeta - è arretrato del 7,5%.


DOPO L'ANNUNCIO DEL RIASSETTO  30 giugno 2017
Scatta Unipol e scende UnipolSai, per analisti aumentano chance M&A
Ancor più marcato il cross con l’euro che è passato da 1,05 a 1,14, segnando un corposo +8,5%. Quanto ai titoli di Stato Usa, il rendimento dei Treasury a 10 anni è sceso dal 2,45 al 2,26%, circa 20 punti base in meno. E questa non è una bella notizia perché, a fronte di una Fed impostata sul rialzo dei tassi (ne ha promesso un altro entro l’anno e tre nel 2018), il fatto che i tassi sulla parte lunga del debito vadano in controtendenza indica in un certo qual modo che gli investitori sono scettici sulla capacità da parte dell’economia Usa di assorbire, in termini di futura crescita economica, l’avviato percorso di normalizzazione dei tassi.

Nell’Eurozona invece, rispetto a inizio anno, oggi i tassi sono più alti. Il Bund a 10 anni si attesta allo 0,47 % (0,18% a gennaio) e il corrispettivo BTp al 2,16% (1,74% a gennaio). Ma gran parte di questo rialzo è arrivato nell’ultima settimana quando i principali esponenti della Bce hanno rilasciato dichiarazioni “vaghe” a proposito dell’avvio del tapering, il processo di riduzione degli stimoli che prima o poi l’istituto di Francoforte sarà chiamato ad annunciare. Molti investitori temono che l’abbrivo sia a settembre e quindi nelle ultime sedute hanno iniziato ad alleggerire le posizioni in bond governativi dell’area euro. Va detto che anche in questo caso gli analisti non ci hanno preso. A inizio anno era quasi unanime il parere sulle obbligazioni: dopo 35 anni di rialzi il mercato nel 2017 sarebbe sceso. Questa prima metà a livello globale ci dice il contrario: la capitalizzazione mondiale di bond è cresciuta di 3mila miliardi di dollari, vicinissima a quota 48mila miliardi.

LA GIORNATA DEI MERCATI  30 giugno 2017
Borse, semestre si chiude con Milano a +7%. Londra maglia nera con +2,4%
In ogni caso per il semestre che verrà non bisogna sottovalutare il fatto che le banche centrali più importanti- che più delle promesse per ora non realizzate di Trump hanno guidato gli investitori fino ad ora - difatti si avviano ad alzare quasi coralmente i tassi o a drenare gli stimoli. Oltre alla Fed (che dal 2015 ha alzato il costo del denaro quattro volte) anche la Bank of England e la Banca del Canada hanno comunicato che potrebbero a breve alzare i tassi. Senza dimenticare la Bce che, se non sarà a settembre, in ogni caso fra qualche trimestre probabilmente avvierà la riduzione degli acquisti di bond. Potrebbe quindi anche essere che nei prossimi mesi gli investitori inizino a dare ragione alle previsioni - fino a questo punto completamente sbagliate - fatte dagli analisti a inizio anno.

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Titolo: VITO LOPS. Perché Piazza Affari fa +15% da inizio anno ma i manager vendono
Inserito da: Arlecchino - Novembre 16, 2017, 08:43:24 pm
BORSA

Perché Piazza Affari fa +15% da inizio anno ma i manager vendono

Di Vito Lops
15 novembre 2017

Da inizio anno il FTSE MIB di Piazza Affari ha guadagnato circa il 15% riportandosi fino a 22.300 punti (anche se negli ultimi giorni ha frenato), livelli che non vedeva dall’estate 2015. Certo, l’indice che mostra l’andamento delle 40 blue chip del listino milanese è lontanissimo dal massimo storico, quei 50.108 punti toccati il 6 marzo del 2000. Ma la performance del 2o17 indica se non altro che da parte del mercato c’è una rinnovata fiducia sull’indice italiano delle large cap. Non dimentichiamo che a settembre l’agenzia di rating Standard and Poor’s ha addirittura promosso (per la prima volta dal 1988) il rating sull’Italia. Altra nota positiva.

Se però si spulciano gli internal dealing, le compravendite di azioni operate dagli “internal dealer” (ovvero da amministratori, manager, dipendenti e soci del gruppo) emerge un quadro meno solido. Nell’ultimo trimestre solo in quattro occasioni (Fineco Bank, Banco Bpm, Mediobanca e Bper Banca) sono stati registrati acquisti di azioni da parte degli internal dealer. Nella maggior parte dei casi le operazioni compiute ai piani alti sono state di segno opposto: vendite.

Ci sono poi case history che non t’aspetti, come quella di Intesa Sanpaolo dove negli ultimi 12 mesi non solo non si registrano acquisti, ma ci sono state ben 13 operazioni di vendita da parte degli azionisti di “primo pelo”. L’istituto di credito è accompagnato da altre 11 società in questa speciale classifica.

Dalle parti di Atlantia gli internal dealer non acquistano azioni da novembre 2016, così come per Enel e Telecom Italia. In quest’ultimo caso, a dir la verità, non si registrano neanche vendite in quello che pare un encefalogramma piatto ai vertici.

I rialzi di Borsa non si sposano quindi - stando al grado di fiducia che vi stanno ponendo i protagonisti che vivono “dall’interno” le aziende di Piazza Affari - con un livello di entusiasmante fiducia sul futuro.

I tempi in cui gli amministratori scendevano in campo con mega-investimenti - come quello del 2014 quando l’ad di Fca Sergio Marchionne annunciò l’acquisto di 335mila azioni per un controvalore di 2,6 milioni di euro - sembrano lontani anni luce.

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Titolo: VITO LOPS. Borse da record: ci sono 100mila miliardi di motivi per chiamarla ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 23, 2017, 09:28:00 pm
Borse da record: ci sono 100mila miliardi di motivi per chiamarla bolla o è tutto vero?

Di Vito Lops
05 dicembre 2017

La tanto attesa approvazione della riforma fiscale da parte di Donald Trump sta dando nelle ultime ore un nuovo impulso ai mercati azionari proiettando la valutazione globale delle Borse verso il record (fino a poco tempo fa difficilmente immaginabile) di 100mila miliardi di dollari. O 100 trilioni, per dirla come piace agli americani. In ogni caso siamo in un territorio inesplorato per i mercati azionari che a questo punto scatena il canonico dibattito tra gli addetti ai lavori: bolla o non bolla?

LA CAPITALIZZAZIONE GLOBALE DELLE BORSE

Dati in miliardi di dollari. (Fonte: Bloomberg)
2013Lug2014Lug2015Lug2016Lug2017Lug40.00050.00060.00070.00080.00090.000100.000110.000

Per molti esperti il 2017 avrebbe dovuto essere l’anno del “Cigno nero”. Invece rispetto a gennaio le Borse valgono 32mila miliardi in più, circa quanto il Pil di Usa ed Eurozona messi insieme. A questo rialzo hanno contribuito una serie di motivi. A partire dall'effetto Trump e dalla sua promessa (e ora anche approvata) riforma fiscale. Dall'elezione del magnate, lo scorso novembre Wall Street è salita del 15% (aggiornando costantemente nuovi record) e le Borse mondiali complessivamente si sono apprezzate di 35mila miliardi di dollari. L’altra grande spinta arriva dai tassi ultra bassi delle banche centrali che rendono poco competitivo il mercato obbligazionario rispetto ai dividendi offerti dalle azioni.

Ecco perché i tassi non possono né scendere né salire (troppo). «È la Goldilocks economy»
In questo scenario - che gli esperti definiscono Goldilocks economy, l’“economia dei Riccioli d’oro” dove l’inflazione è bassa e l’economia globale cresce oltre il 3% annuo senza intoppi - le Borse continuano a rappresentare l’ultimo miglio degli investitori. Le certezze di un tempo inziano ad essere obsolete. Su tutte, quella secondo cui i cicli rialzisti non durano oltre 8 anni. E invece per Wall Street, la Borsa faro, siamo già al nono anno consecutivo di espansione. E non è detto - con tutti i dubbi del caso - che il 2018 sia appannaggio delle Cassandre.
Per capire che direzione potranno seguire le azioni nei prossimi mesi bisogna analizzare le valutazioni. In questi casi - per quanto in passato in alcuni casi si sia rilevato insufficiente e lacunoso - il multiplo prezzo/utili attesi si rileva un buon termometro per misurare eventuali stati febbrili.

Le valutazioni delle Borse globali
Il multiplo prezzo/utili. (Nota:(*) Stime)

Indice   P/E 2017 *   P/E 2018*   Crescita utili 2017*   Crescita utili 2018*
Indice   P/E 2017 *   P/E 2018*   Crescita utili 2017*   Crescita utili 2018*
Italia   20,2x   13,9x   +22,6%   +45,3%
Stoxx 600   16,3x   15,0x   +20,5%   +8,8%
Stoxx50   16,0x   14,9x   +18,0%   +7,7%
Stati Uniti   20,1x   18,2x   +9,6%   +10,8%
Regno Unito14,8x   14,0x   +26,9%   +5,7%
Francia   15,5x   14,5x   +13,2%   +7,1%
Germania   14,5x   13,1x   +9,4%   +10,5%
Spagna   14,3x   13,3x   +20,0%   +7,5%
Media Ue+Usa   15,9x   14,7x   +16,8%   +8,3%
Brasile   16,0x   13,4x   +47,5%   +19,5%
Russia   7,4x   6,4x   +9,0%   +15,6%
India   23,2x   19,2x   +12,7%   +22,1%
Cina   20,4x   16,9x   +28,9%   +20,3%
Media emergenti   16,7x   14,0x   +24,5%   +19,4%
Fonte: Factset

Secondo le elaborazioni del consensus di Factset per il prossimo anno la media tra Borse europee e degli Stati Uniti indica delle valutazioni di Borsa inferiori a 15 volte gli utili attesi per fine 2018. Nel dettaglio gli analisti si aspettano una crescita degli utili societari in Europa e Usa dell’8,3% rispetto al 2017. Il che porterebbe le attuali valutazioni a 14,7 volte gli utili. Wall Street - che di solito quota a premio rispetto all’Europa - si proietta, ipotizzando un aumento degli utili del 10,8%, a 18,2 volte gli utili attesi. Prezzi non certo a buon mercato, ma che escluderebbero il pericolo di una bolla. Ancora più “con i piedi per terra” da questo punto di vista l’Europa. Se i profitti cresceranno dell’8,8% il prossimo anno i prezzi dello Stoxx 600 varrebbero 15 volte gli utili. Si tratta di livelli storicamente non pericolosi.
Perché i junk bond europei rendono quanto i titoli di Stato Usa
Il punto è però se le stime sugli utili per il 2018 siano credibili o no. «Se i tassi rimarranno bassi non c’è ragione per considerare eccessivo l’ottimismo attuale sugli utili attesi - spiega Guglielmo Manetti, vice direttore generale di Intermonte Advisory e gestione - . Così come se dovessero confermarsi le previsioni di una crescita globale del Pil del 3,8%, sui livelli del 2017. Se invece per svariati motivi le attuali proiezioni dovessero rivelarsi eccessive, l’ipotesi di una correzione non è da escludere. Ma al momento non possiamo usare la parola “bolla” nonostante l’equity globale sia al top di sempre».
Insomma, se tutto procederà come ci si aspetta le Borse potrebbero anche superare senza imbarazzo l’attuale soglia dei 100mila miliardi di dollari. Ma va detto che questo equilibrio - lo stesso su cui si poggia del resto la Goldilocks economy - è piuttosto fragile.
È infatti innegabile che i mercati finanziari stiano convivendo oggi con una bolla sul mercato obbligazionario. Gli acquisti, negli ultimi anni, di bond da parte delle banche centrali hanno portato i tassi dei governativi europei su livelli artificialmente bassi scatenando a cascata una bolla anche sulle obbligazioni private a basso rating (high yield). Mentre le azioni viaggiano sul velluto, il contorno (obbligazioni) è costellato da profonde incertezze.
È quindi sufficiente che qualcosa vada storto perché “Riccioli d’oro” - un equilibrio mai visto tra macroeconomia, Borsa, volatilità e ottimismo - assuma le sembianze di un Cigno nero.

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Titolo: Vito Lops “FANG” ECONOMY IN CRISI
Inserito da: Arlecchino - Marzo 29, 2018, 06:25:52 pm
“FANG” ECONOMY IN CRISI

I tre motivi per cui Facebook e gli altri big dell’hi-tech stanno mandando in tilt i mercati

Di Vito Lops 
28 marzo 2018

Il 12 marzo del 2000 scoppiava la bolla dei titoli Internet. Il 12 marzo del 2018 i titoli tecnologici più importanti del pianeta hanno avviato una scia ribassista che al momento non è dato sapere quando terminerà. Da allora, in appena due settimane di contrattazioni, Facebook ha perso il 17%, ovvero 75 miliardi di capitalizzazione. Amazon ha perso il 5% proprio mentre puntava dritto ai 1.000 miliardi di capitalizzazione. Le vendite non hanno risparmiato nessuno: Apple ha perso il 13%, Twitter il 21%, Netflix il 12%.

LA GIORNATA DEI MERCATI  28 marzo 2018
Tecnologici k.o. in Borsa. A Wall Street affondano Amazon e Tesla
Nel complesso il valore borsistico della cosiddetta Fang economy (un acronimo che comprende Facebook, Apple, Netflix e Google) è diminuito dal 12 marzo di 280 miliardi. È come se un sesto del Pil italiano fosse andato in fumo nel giro di poche sedute di Borsa.

Nell’era degli algoritmi finanziari - che oggi governano il 66% degli scambi sui mercati - il crollo dell’alta tecnologia della Silicon Valley è riverberato sulle altre classi di investimento. Così anche altri settori sono stati coinvolti e, nel complesso, le Borse globali dal 12 marzo hanno perso qualcosa come 3.500 miliardi di dollari.

L’EX SPIN DOCTOR DI TRUMP  23 marzo 2018
Cambridge Analytica, Bannon attacca Facebook: «Prende gratis le nostre vite e le rivende»
Come mai? Che cosa sta succedendo? Sono almeno tre i motivi per cui i titoli tech stanno soffrendo scatenando a cascata una fase di fragilità sui mercati. Tutto è partito dal caso Cambridge Analytica, la società di consulenza accusata di aver utilizzato dati prelevati da Facebook per influenzare la campagna elettorale delle ultime presidenziali Usa vinte da Donald Trump. Questa scoperta ha aperto il vaso di Pandora su temi molto complicati, come privacy, vendita dei dati a società esterne a fini di marketing da parte dei social network, e via discorrendo.

La questione è ora approdata al Congresso Usa. Si teme un giro di vite che possa limitare l’operatività dei social network che, a parte buone dichiarazioni di facciata e impegni filantropici, difatti hanno in mano il patrimonio del secolo, ovvero enormi banche dati sulla base delle quali noi utenti siamo tutti profilati e pertanto facilmente “vendibili” a fini di pubblicità mirate. I fatturati miliardari di Facebook e dei suoi concorrenti ruotano intorno ai big data di cui dispongono.

ATTUALITÀ  20 marzo 2018
Privacy e Social, i rischi nascosti in un click
Se la politica dovesse regolamentare e frenare questo settore è evidente che ci potrebbero essere delle ripercussioni sul giro d’affari. Ed ecco perché in questa fase gli investitori stanno alleggerendo, anche con una certa violenza (mentre oggi Facebook abbozza un timido recupero Netflix, per citarne uno, crolla del 12%).

Sempre la politica potrebbe intervenire per penalizzare un altro colosso del settore come Amazon. Il presidente Usa Donald Trump avrebbe detto di voler aumentare le tasse a carico della società di Jeff Bezos. Secondo un rapporto di Axios per il presidente americano il colosso dell'e-commerce «sta uccidendo» il business dei grandi centri commerciali e dei negozi tradizionali.

La politica e una maggiore disciplina regolamentare e fiscale sui colossi hi-tech non sono l’unica paura degli investitori.

LO SCANDALO DATI  27 marzo 2018
Apple, Ibm e Tesla contro Facebook. E la Silicon Valley si spacca sul datagate
La seconda è legata a singole storie di autogol societari giunti con un tempismo da legge di Murphy. Tra queste storie c’è quella di Tesla, la società più famosa al mondo nel campo delle auto elettriche di lusso. Il fondatore e numero uno Elon Musk non ha fatto in tempo a criticare Facebook annunciando di essersi cancellato e invitando gli altri a fare altrettanto (seguendo l’hashtag #deleteFacebook) che la sua azienda è stata colpita da una notizia pesantissima.

La reazione in Borsa è stata molto forte (ieri -8%, oggi -10%) dopo che la società ha comunicato di non essere in grado di fornire spiegazioni sull'incidente mortale di venerdì scorso, nel quale è deceduto il conducente della Model X andata a fuoco dopo una collisione. Intanto l’agenzia di rating Moody's ha abbassato il rating a “B3” da “B2” con outlook negativo anche a seguito dei ritardi nella produzione della berlina Model 3.

Questi due fattori ribassisti vengono peraltro accelerati da un terzo: la volatilità sui mercati in questo inizio d’anno si è impennata. Gli investitori sono consapevoli che sul mercato dei bond si è ormai gonfiata una bolla (alimentata dagli acquisti delle banche centrali degli ultimi anni) mentre le azioni vengono da nove anni di rialzi consecutivi e comprarle oggi costa caro. In questo senso le difficoltà del settore hi-tech potrebbero essere usate come l’occasione che molti aspettavano per dare il la alla stagione delle prese di profitto.
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Titolo: VITO LOPS. Ultima corsa ai mutui in saldo, tasso fisso all’1,4%
Inserito da: Arlecchino - Luglio 16, 2018, 10:25:25 am
FINANZA E MERCATI
15 Luglio 2018 Il Sole 24 Ore domenica

Le banche offrono ancora il variabile allo 0,5% per finanziamenti inferiori al 50% del valore dell’immobile Possibile negoziare il fisso con uno spread dello 0-0,1%, l’Euribor a tre mesi atteso sopra l’1% solo nel 2023

Ultima corsa ai mutui in saldo, tasso fisso all’1,4%

La Bce ha annunciato che la politica espansiva (quantitative easing) terminerà con il 2018. Ma se il Qe è stato la molla principale che ha spinto le banche ad allentare gli spread sui mutui e a praticare tassi nominali prima d’ora mai così bassi, la sua fine non sembra genererà l’effetto opposto. Almeno nell’immediato. Dalle ultime offerte si evince che i tassi da saldo proseguono e sono addirittura più bassi ora rispetto a quelli proposti in primavera. Oggi è possibile stipulare un tasso variabile, nelle migliori condizioni (quando il mutuo è inferiore alla metà del valore dell’immobile), allo 0,5%. I migliori fissi sono intorno all’1,4%. La cosa sorprendente è che sui fissi è ancora nutrito il numero di banche che – nonostante Draghi abbia annunciato la fine del piano espansivo – applica spread tra lo 0 e lo 0,1%. Essendo lo spread il margine lordo che la banca si prefigge di ottenere dal mutuo ed essendo in molti casi prossimo allo 0 significa: 1) che molte banche considerano oggi il mutuo un prodotto ponte per attirare clienti a cui vendere successivamente prodotti più profittevoli; 2) che nel futuro le banche immaginano di acquistare il denaro all’ingrosso a tassi più bassi rispetto a quelli attuali e di trasformare la differenza di questa operazione di “tesoreria” in un utile da agganciare indirettamente al mutuo. Comunque sia, vista dal lato dei mutuatari – tanto quelli che si apprestano a chiedere un nuovo finanziamento quanto quelli che giustamente valutano un cambio in corsa delle vecchie condizioni attraverso le modalità della rinegoziazione (con la stessa banca) o della surroga (con un’altra banca) – si tratta di ottime notizie. Perché se la fine del Qe può essere un segnale in apparenza restrittivo, ci sono altri fattori che allontanano il momento in cui i tassi torneranno a salire con forza e quindi a costituire una fonte di preoccupazione per la categoria dei debitori. A partire dalla politica monetaria. Il governatore della Bce ha fatto capire che resterà accomodante. Dal 2019 la Bce non acquisterà più nuovi titoli sui mercati aperti (è questo il Qe) ma continuerà a ricomprare quelli che detiene in portafoglio e che andranno in scadenza. L’operazione di reinvestimento (cedole comprese) indica che la liquidità finora immessa non sarà drenata ma, molto semplicemente, non sarà incrementata. La seconda “buona” notizia – che spiega perché la stagione dei saldi dei mutui prosegue – arriva dall’inflazione. Quella “core”, depurata dai prezzi dei beni più volatili, ovvero alimentari ed energetici, a giugno dovrebbe scendere all’1% rispetto all’1,1% di maggio. Questo livello di inflazione è molto lontano dal target della Bce (vicino al 2%) e pertanto rappresenta un freno a future manovre restrittive.
Tutto ciò si riflette nei valori dei contratti “future” degli indici Euribor. Un mese fa gli investitori ipotizzavano che l’Euribor a 3 mesi – a cui è agganciata la maggior parte dei mutui a tasso variabile – sarebbero tornati sopra la soglia dell’1% a dicembre 2022. A distanza di un mese invece lo scenario è cambiato a favore dei mutuatari. Le aspettative ora danno l’Euribor a dicembre 2022 allo 0,83% e solo a giugno 2023 oltre l’1%.
Le dichiarazioni di Draghi, il dato sull’inflazione e altri dati macro che evidenziano un rallentamento della crescita dell’economia dell’Eurozona (a luglio l’indice Zew che misura la fiducia degli investitori in Germania è crollato ai minimi dal 2012) hanno spostato di sei mesi l’asticella rialzista dell’Euribor. Questo non potrà che salire – da oltre 1.000 giorni viaggia sottozero e in settimana quotava a -0,32% - ma lo farà ancor più lentamente di quanto si ipotizzava appena un mese fa.
Lo stato di quiete riguarda anche l’universo del tasso fisso, soluzione oggi preferita dalle banche nel momento in cui erogano o surrogano (perché sono consapevoli che a questi tassi così bassi non rischiano più di perdere in futuro il cliente attraverso surroghe di primo livello o la oggi molto gettonata “surroga della surroga”). In questo caso dobbiamo osservare come si stanno muovendo gli indici Eurirs. In settimana l’indicatore a 20 anni è tornato all’1,39%, livello che non vedeva da fine maggio, ovvero da quando la crisi politica italiana (il “caso Savona”) aveva spinto gli investitori a rifugiarsi sul Bund tedesco facendone scendere il rendimento e indirettamente anche il valore degli Eurirs, ad esso collegati.
La notizia è che ora la crisi politica sembra in parte rientrata ma gli Irs sono su quei livelli. Per le stesse ragioni (Draghi accomodante, inflazione in calo e dati macro dell’Eurozona deludenti) che stanno allontanando rialzi significativi dell’Euribor. Le famiglie non sono indifferenti alla nuova fase di saldi. Secondo Crif, infatti, a giugno, dopo 15 mesi consecutivi di calo delle richieste, le domande di mutui (sia nuovi che surroghe) sono aumentate del 3,6%

L’unica incognita sul futuro riguarda lo spread deciso dalle banche. Se queste continueranno a tenerlo pressoché azzerato sui fissi e intorno allo 0,7% sul variabile (a cui però va sottratto l’Euribor se negativo, cosa che è sempre bene verificare) i saldi proseguiranno anche quando il Qe andrà in pensione.

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Vito Lops

Da - http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&edizione=SOLE&issue=20180715&startpage=1&displaypages=2


Titolo: Vito Lops. Piazza Affari dopo il Def perde 20 miliardi in un giorno
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 01, 2018, 09:03:01 pm
DOPO LA «MANOVRA DEL POPOLO»

Piazza Affari dopo il Def perde 20 miliardi in un giorno
–di Vito Lops 28 settembre 2018

La reazione a caldo dei mercati finanziari all’innalzamento del deficit/Pil dall’1,6% (proposta del ministro dell’Economia Giovanni Tria) al 2,4% (dato inserito nell’aggiornamento del Def ieri notte) è stata piuttosto violenta. Piazza Affari ha chiuso l’ultima seduta della settimana con un calo del 3,7% (dopo un picco intraday vicino a -5%). Lo spread BTp-Bund, che nel corso della giornata si era impennato fino a quota 280, ha terminato a quota 267, posizionandosi in ogni caso sui livelli di agosto. Il rendimento del decennale è salito al 3,25% rispetto al 2,9% della vigilia. Le tensioni sull’Italia trascinano al ribasso anche la moneta unica che torna sotto quota 1,16 (1,158) accusando un ribasso quotidiano superiore al mezzo punto percentuale.


DOPO L’ACCORDO SUL DEFICIT AL 2,4% 28 settembre 2018
Spread chiude a 267. Piazza Affari perde il 3,7% con le banche a picco
A conti fatti in una sola seduta la capitalizzazione di Piazza Affari è scesa di 20 miliardi, da 636 a 616 miliardi. Se il conteggio però parte dai massimi di maggio (701 miliardi) il passivo azionario attribuibile allo scarso gradimento degli investitori sulle politiche che il nuovo governo intende mettere in atto sfiora i 90 miliardi.

Ci sono però dei segnali che indicano che al momento non siamo di fronte al panic selling. In momenti come questo gli operatori si concentrano sulla curva dei rendimenti e osservano lo spread tra i titoli a 10 e quelli a 2 anni.

Oggi i BTp a 10 anni rendono il 3,2% e quelli a 2 anni l'1,15%. Il differenziale è quindi superiore ai 200 punti base. A maggio, nei momenti di tensione più alta quando i rendimenti dei biennali avevano superato il 3%, questo spread si era praticamente annullato. Quindi finché c'è spread (e almeno nell'orbita dei 200 punti base) tra questi due titoli, c'è speranza che il quadro non peggiori.


IL COMMISSARIO AGLI AFFARI MONETARI  28 settembre 2018
«Manovra del popolo», Moscovici avverte: «Quando un Paese si indebita si impoverisce»
Con questo “venerdì nero” - con le quotazioni che tuttavia nel finale sono un po’ risalite rispetto ai minimi di giornata - gli investitori hanno lanciato un chiaro messaggio al governo: bisogna evitare lo scenario peggiore (scontro con Bxuxelles) e trattare. Si apre quindi una delicata fase di trattative che potrebbe durare due mesi (entro fine novembre la Commisione europea dovrà dare il nullaosta alla legge di Bilancio). Ne è consapevole anche il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, che ha definito la manovra «fuori dai paletti Ue» sottolineando allo stesso tempo che «non abbiamo nessun interesse ad aprire una crisi tra la Commissione e l'Italia, nessuno ha interesse a farlo perché l'Italia è membro importante della zona euro». A confermare il dialogo anche il vicepremier Luigi Di Maio: «Ora parte l'interlocuzione».


twitter.com/vitolops

da - https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-09-28/piazza-affari-il-def-perde-un-giorno-20-miliardi-172451.shtml?uuid=AEoq04AG&cmpid=nl_morning24


Titolo: VITO LOPS. Ecco perché le Borse hanno perso 15mila miliardi nel 2018
Inserito da: Arlecchino - Novembre 23, 2018, 01:44:05 pm
Ecco perché le Borse hanno perso 15mila miliardi nel 2018

   Di Vito Lops 23 novembre 2018

Il grafico delle Borse globali parla chiaro. Da ottobre la capitalizzazione mondiale dei listini è scesa a 72mila miliardi di dollari. In meno di due mesi il valore di mercato delle aziende quotate è sceso di circa 8mila miliardi. Si tratta della seconda brusca correzione del 2018 dopo quella intercorsa nel range 26 gennaio/9 febbraio. Anche in quel caso il calo si è attestato intorno agli 8mila miliardi, da 87mila a 79mila miliardi. Nel complesso, tra alti e bassi, sommando la portata delle due correzioni la capitalizzazione delle Borse è scesa dai massimi dell’anno di circa 15mila miliardi di dollari.

PER SAPERNE DI PIÙ / Il «Black Friday» delle Borse

Con Wall Street (ieri chiusa per il Thanksgiving Day e oggi aperta metà giornata per il Black Friday) che ha praticamente azzerato i guadagni da inizio anno e le Borse europee che viaggiano mediamente con un ribasso dell’8% (ma Piazza Affari -15% e Francoforte -13% fanno peggio) senza dimenticare il calo di oltre il 20% delle Borse cinesi, tecnicamente in territorio “Orso”, il 2018 rischia di lasciare un brutto ricordo finanziario in qualsiasi area geografica.

    Dopo il voto usa 08 novembre 2018
Borse alla svolta, così traballano i quattro pilastri del grande rally
Eppure il 2018 è stato uno degli anni migliori dal punto di vista della crescita degli utili. Negli Usa gli eps (earnings sper share, in italiano utili per azione) sono aumentati di oltre il 20% grazie all’innesto delle politiche fiscali espansionistiche volute dal presidente Donald Trump. In Europa la crescita dovrebbe chiudersi intorno al 10%. Doppia cifra anche per Regno Unito, Giappone e Paesi emergenti.

E allora come mai le Borse, al di là dei dividendi, hanno perso terreno e sono tutt’ora all’interno di un trend debole che secondo alcuni analisti potrebbe mettere a repentaglio il canonico rally di fine anno?

La risposta è semplice: gli investitori si muovono in anticipo. E in questo momento, attraverso la brusca correzione partita ad ottobre (che ha portato titoli come Apple a perdere in qualche settimana un quarto del valore) i mercati stanno aggiornando nei prezzi il peggioramento delle stime degli utili. Come evidenzia il grafico elaborato dagli analisti di Columbia Threadneedle investments, nel 2019 la crescita degli utili per azione rallenterà vistosamente. Le aree più sviluppate (Usa, Europa, Giappone e Regno Unito) perderanno la doppia cifra e dovrebbero registrare un incremento tra il 6% e l’8%. L’unica area che dovrebbe mantenere una crescita degli utili a doppia cifra dovrebbe essere quella dei Paesi emergenti anche se anche da quelle parti è prevista una frenata rispetto al 2018.

LA CRESCITA DEGLI UTILI PER AZIONE
Le stime degli analisti. (Fonte: Columbia Threadneedle investments e Bloomberg)
Fino a poco tempo fa le Borse erano sintonizzate su prospettive migliori per il 2019 ma nelle ultime trimestrali c’è stata una raffica di revisioni al ribasso da parte delle società sui conti del quarto trimestre e sulle stime per il 2019 e questo ha portato gli investitori a vendere l’azionario, riposizionandolo su un quadro di espansione dei profitti decisamente più modesto.

La notizia buona quindi è che il 2019 sarà un altro anno di crescita globale (il Pil del pianeta dovrebbe aumentare del 3,6%) e di crescita degli utili per le aziende quotate nei principali listini. La notizia cattiva - che nelle ultime settimane i mercati stanno prezzando con vendite robuste - è però che i profitti cresceranno meno di quanto precedentemente previsto.

Piazza Affari in saldo del 20% è l’altra faccia dello spread
Come mai gli utili cresceranno meno? Innanzitutto perché ogni ciclo espansivo segue una curva e il picco è stato già toccato. E poi ci sono altri motivi, tra cui la guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Cina (che impatta anche sui grandi esportatori europei), le incognite legate alla Brexit. Alcuni gestori inseriscono nell’elenco dei market mover ribassisti anche il crescente “rischio Italia”. Anche se al momento questo rischio resta confinato a livello domestico, dato che è solo l’Italia - attraverso uno spread BTp-Bund più ampio di 200 punti base rispetto a maggio e valutazioni di Piazza Affari a sconto rispetto al resto d’Europa del 20% - a pagarlo.

Ovviamente vale anche il bicchiere mezzo pieno. Se uno di questi fattori depotenzianti dovesse perdere forza (ad esempio se la guerra commerciale tra Usa e Cina si attenuasse o se il governo italiano trovasse un accordo con Bruxelles sulla manovra di bilancio) ci sarebbe tecnicamente spazio per una revisione al rialzo delle stime. Perlomeno fino alla prossima recessione. Che in ogni caso ci sarà anche se non è dato al momento sapere quando. Con l’unica certezza che gli Stati Uniti (avendo iniziato ad alzare i tassi a fine 2015) sarebbero più preparati ad affrontarla rispetto all’Eurozona che sta facendo una fatica terribile a tirare il costo del denaro dalle sabbie mobili (è a quota 0 da 33 mesi).

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Titolo: VITO LOPS. Borse, è tornata la curva di Philips. E ora gli investitori hanno...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 01, 2018, 11:24:28 pm
Borse, è tornata la curva di Philips. E ora gli investitori hanno paura

  Di Vito Lops 28 novembre 2018

Per anni è stata data per spacciata. Morta e sepolta. Invece la curva di Phillips - quella teoria secondo cui tra tasso di disoccupazione e inflazione c’è una relazione forte e inversa - è tornata. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è scivolato a ottobre al 3,7%, il livello più basso degli ultimi 49 anni. Mentre il tasso di inflazione - che tra fine 2014 e inizio 2015 era sceso sottozero in scia a forti pressioni deflazionistiche - adesso è salito al 2,5% con punte nel corso dell’anno vicine al 3%.

Dati alla mano queste due grandezze macro sono tornate a muoversi in modo inversamente proporzionale. Ad influenzarsi in modo elastico l’un l’altra. E quando questo accade è per una semplice ragione: vuol dire che buona parte dell’inflazione viene alimentata dall'aumento dei salari. La crescita dei salari è infatti tipica delle fasi in cui la disoccupazione raggiunge il minimo fisiologico (solitamente tassi di disoccupazione tra il 3% e il 4% sono fisiologici perché fotografano la quota di lavoratori che si sposta per cambiare lavoro). In questi casi la forza lavoro ha più potere contrattuale e quindi i salari tendono ad aumentare.

Ecco perché le Borse hanno perso 15mila miliardi nel 2018
Viceversa quando il tasso di disoccupazione è alto i salari tendono a scendere (e con essi il tasso di inflazione) proprio perché è il datore di lavoro ad avere maggiore potere contrattuale, secondo la legge di equilibrio tra domanda e offerta. Questo secondo caso si è registrato nel 2009 - come si evince chiaramente dal grafico - quando l’economia statunitense stava pagando lo scotto della bolla dei derivati subprime. Così, mentre la disoccupazione raggiungeva il 10% l’inflazione scivolava nelle sabbie mobili della deflazione (- %).

Tra il 2014 e il 2015 invece gli Stati Uniti hanno sperimentato nuovamente la deflazione ma a differenza del 2009 il tasso di disoccupazione era sceso sotto il 6% in un trend che poi ha proseguito costantemente al ribasso. In questa parentesi la curva di Phillips è andata in testacoda e in molti hanno iniziato a scriverne i titoli di coda, mettendo in discussione quanto scritto nei manuali di economia.

EFFETTI INDESIDERATI 06 febbraio 2018
Quando le buone notizie in economia fanno male alle Borse
Anche perché nel frattempo il quadro economico globale è cambiato. C’è chi nel frattempo ha teorizzato la teoria “dell’Amazonification” per spiegare il fenomeno della pressione al ribasso sui prezzi esercitata dal commercio elettronico e, in generale, dall’innovazione tecnologica.

Ma quest’anno tanto negli Stati Uniti quanto in Germania (Paese dove disoccupazione e inflazione hanno seguito negli ultimi anni una tendenza simile agli Usa) i salari sono ripartiti.

Una buona notizia per molti ma che non piace affatto agli investitori. Così come accaduto lo scorso febbraio, anche le ultime proiezioni sull’inflazione (relativamente alla componente salari) hanno spaventato le Borse. Da ottobre è infatti in atto una correzione che ha portato i principali indici mondiali a cedere tra il 5% e il 10% e, a livello generale, ha ridimensionato la capitalizzazione globale dell’azionario di circa 8mila miliardi.

Francoforte DAX 30
Come mai? «Per diversi anni la curva di Phillips è stata smentita, perché in Usa e Germania, nonostante viaggiassero su livelli molti bassi di disoccupazione, non sono ripartiti i salari - spiega Andrea Carzana, fund manager european equities di Columbia Threadneedle - . Adesso invece stanno risalendo e questo è uno dei motivi per cui il mercato si aspetta una crescita più bassa dei profitti per il 2019».
LA CRESCITA DEGLI UTILI PER AZIONE
Le stime degli analisti. (Fonte: Columbia Threadneedle investments e Bloomberg)

Dietro quindi il forte calo delle Borse a partire da ottobre c’è anche questo. «Il rialzo dei salari è uno dei fattori più importanti - continua Carzana -. Ovviamente non è l’unico: non bisogna dimenticare infatti le tensioni geopolitche come la guerra commerciale tra Usa e Cina e gli effetti della Brexit così come il rallentamento dell’economia cinese. Per noi gestori è tuttavia un’opportunità. Perché ci saranno molte aziende che non saranno in grado di traghettare l'aumento dei salari sui prezzi al consumatore e saranno quindi costrette a ridurre i margini. E queste aziende sono da vendere».

«Dall'altro lato - prosegue il gestore - ci sono compagnie che hanno il cosiddetto pricing power, ovvero la capacità di aumentare il prezzo dei beni e servizi senza che questo penalizzi la domanda. Molte di queste aziende sono state penalizzate in Borsa nelle ultime settimane, colpite dal trend ribassista. Ma questo offre ai noi gestori l’occasione per accumulare posizioni in ottica selettiva e a prezzi più bassi proprio su queste aziende che si riveleranno resilienti all’aumento dei salari. Per questo motivo credo che il 2019 sarà un anno in cui la gestione attiva farà la differenza in termini di performance».

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Titolo: VITO LOPS. Oro, come lo scontro Usa-Cina sta cambiando la mappa dei beni rifugio
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 15, 2018, 11:21:33 pm
Oro, come lo scontro Usa-Cina sta cambiando la mappa dei beni rifugio

Di Vito Lops 11 dicembre 2014

È evidente che in questa fase gli investitori sono in tensione. Wall Street viaggia sui minimi da 8 mesi e - conti alla mano nella prima decade - rischia di vivere il peggior dicembre degli ultimi 16 anni. Non se la passano bene neppure le Borse europee, scivolate sui livelli più bassi degli ultimi due anni e neppure i listini asiatici con l’azionario cinese entrato a pieno regime in un clima “Orso”, considerato che da inizio anno Shenzen perde il 29% e Shanghai il 22%.

Dai massimi di gennaio (quando la capitalizzazione mondiale delle Borse aveva superato 87mila miliardi) l’azionario globale ha perso oltre 15 miliardi di dollari, quasi quanto il Pil dell’Eurozona per intenderci. In questi momenti gli investitori tendono a spostare i capitali su strumenti finanziari più difensivi, quelli meglio equipaggiati per affrontare le fasi di turbolenza. Tuttavia la mappa dei beni rifugio si sta modificando: dei cinque strumenti accreditati a svolgere questa funzione (oro, Bund, yen, franco svizzero e dollaro) solo tre stanno attraendo gli investitori. Tra questi, l’oro è tornato assoluto protagonista.

   RISPARMIO 10 agosto 2018
Ecco quali sono i beni rifugio in caso di tempesta sui mercati
Non è un caso che da inizio ottobre - quando è partita l’attuale fase di avversione al rischio che al momento non è dato sapere quando terminerà - l’oro è l’asset che si è apprezzato di più. Il metallo giallo ha messo a segno un rimbalzo del 5%, tornando sui livelli della scorsa estate. Il rialzo dell’oro conferma per due motivi che in questo momento gli investitori hanno paura e stanno visualizzando il futuro come rinchiuso in un bicchiere mezzo vuoto:

1) sia nella precedente correzione di febbraio (quando Wall Street e le Borse europee persero il 10% in tre settimane) che nello storno di agosto l’oro non era stato acquistato ma era addirittura sceso a riprova del fatto che quei ribassi non avevano preoccupato più di tanto gli investitori. L’oro è infatti considerato una sorta di rifugio di ultima istanza. Gli acquisti sul metallo giallo non partono in tutte le correzioni, ma solo in quelle più marcate;

2) a questo giro l’oro è il più comprato tra i beni rifugio nonostante si stia apprezzando anche un altro porto sicuro della finanza, ovvero il dollaro, con la cui quotazione l’oro è solitamente legato da un andamento inverso. Nella norma quando sale il dollaro l’oro tende a deprezzarsi e viceversa. Questo accade proprio perché l’oro è quotato in dollari. Il fatto che nelle ultime settimane l’oro stia salendo nonostante la forza del dollaro rafforza l’idea del pessimismo degli investitori;

Come visto, oltre all’oro sta salendo il dollaro. Il dollar index - un indice che ne sintetizza l’andamento ponderato con le altre principali valute globali - si è rafforzato di quasi due punti percentuali negli ultimi due mesi.

    “L’oro è il più comprato tra i beni rifugio nonostante si stia apprezzando anche un altro porto sicuro della finanza, ovvero il dollaro, con la cui quotazione l’oro è solitamente legato da un andamento inverso”

Il terzo asset che conquista la palma simbolica dei beni rifugio preferiti è il Bund. Il decennale governativo tedesco si è apprezzato del 2,2% da ottobre con il rendimento - che viaggia al contrario rispetto al prezzo - sceso allo 0,24%. Gli investitori comprano Bund nonostante la Germania rischi di entrare in recessione tecnica (dopo aver chiuso in calo il terzo trimestre il Pil potrebbe scendere anche nel quarto visto il -10% di vendite accusato dal settore auto a novembre). Evidentemente al momento questi fattori non interessano: conta di più la forza della Germania e il suo ruolo di roccaforte dell’Eurozona, con un avanzo commerciale clamoroso.

Mentre si conferma in fase calante come porto sicuro il franco svizzero che nelle ultime settimane, tanto nei confronti del dollaro quanto sull’euro, non si è apprezzato. Qualche anno fa sarebbe andata diversamente perché lo standing della divisa elvetica come bene rifugio era ai massimi.

    Scenari finanziari 25 settembre
Cambia il vento sui mercati. Ritorno sui beni rifugio in attesa della Fed
Novità assoluta poi di questa correzione è che anche lo yen non si stia comportando come bene rifugio. La divisa nipponica non solo non si è apprezzata, ma da ottobre ha perso un po’ di terreno tanto sul dollaro quanto sull’euro. Se la variazione negativa nei confronti del dollaro la si può spiegare con la straordinaria forza del biglietto verde - che sta beneficiando delle politiche di Trump tanto sul tema della guerra commerciale quanto sulla riforma fiscale che avvantaggia le imprese Usa che rimpatriano capitali e quindi “acquistano” dollari - la debolezza dello yen sull’euro in fasi di tensioni finanziarie è un’assoluta novità. Se non per il fatto che lo yen in questo momento sta riflettendo la debolezza dell’economia giapponese, il cui Pil nel terzo trimestre si è contratto dello 0,6%. Anche Tokyo sta pagando i rischi di un contagio in tutta l’Asia degli effetti dello scontro commerciale tra Usa e Cina. Quindi anche la divisa nipponica, per anni considerata il bancomat mondiale degli investitori, è scossa dagli effetti della guerra dei dazi innescata da Trump lo scorso aprile.
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    Vito Lops. Vito Lops, giornalista professionista, dal 2004 è redattore e social media editor al Sole 24 Ore. Segue i mercati finanziari, gli sviluppi macroeconomici internazionali e i prodotti di investimento. ...
       
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Titolo: VITO LOPS. Borsa, le 50 società che in 25 anni hanno sempre pagato dividendi
Inserito da: Arlecchino - Marzo 21, 2019, 11:46:21 pm
GrafinomiX
Borsa, le 50 società che in 25 anni hanno sempre pagato dividendi

Di Vito Lops 15 marzo 2019
Tra le varie strategie di investimento una delle più accreditate è quella di puntare sui dividendi. Quando si investe in Borsa, acquistando delle quote (azioni) di una società, teoricamente lo si fa perché si crede nel potenziale di crescita di quella azienda e pertanto la si finanzia con l’obiettivo primario di partecipare agli utili. È questa la strategia degli investitori cassettisti, quelli che puntano sul lungo periodo e si focalizzano pertanto sulle società che hanno una buona storia alle spalle (e buone prospettive per il futuro) in termini di cedole distribuite agli azionisti.

Non ragionano in questi termini i trader e, più in generale, gli investitori che si muovono solo in funzione del prezzo di un’azione. L’obiettivo in questo caso è vendere (anche presto) le azioni a un prezzo più alto rispetto a quello d’acquisto. Oppure, per chi punta a guadagnare sui futuri ribassi di un titolo, la strategia è opposta e consiste nel vendere allo scoperto: prima si vendono le azioni e poi le si ricomprano quando il prezzo è sceso. Anche in questo caso ci si muove nella logica della plusvalenza, puntando quindi sul capital gain.

Borsa, meno utili ma più cedole: dalle Blue chip 22 miliardi
Le oscillazioni del prezzo sono certo importanti, ma molto meno per chi invece punta sul lungo periodo e si orienta su società che hanno un elevato standing di dividendi. Se si aggiunge il dividendo alle variazioni di prezzo si ottiene il total return. Il Grafinomix di giornata dimostra quanto sia più elevata la performance storica dell’indice S&P 500 di Wall Street se si calcola il total return (ovvero plusvalenza da prezzo + dividendi).

In questo ambito può essere utile analizzare un multiplo di Borsa, tra i più seguiti dagli investitori: il rapporto prezzo/utili o price/earning. Indica in parole semplici quanti anni occorrono per recuperare, solo attraverso i dividendi, il valore dell’investimento iniziale (capitale).

Ovviamente il rapporto prezzo/utili può cambiare nel tempo (in base alle variazioni delle due variabili) ma offre una dimensione interessante per avere un’idea del ritorno dell’investiment0 e del tempo necessario con cui, solo attraverso la leva delle cedole incassate, si recupera il capitale impiegato. Per chi affitta un immobile vale lo stesso principio calcolando quanti anni di locazione occorrono per incamerare l’esborso iniziale.

Tornando alla Borsa e ai dividendi è bene sapere che non tutte le società li distribuiscono. Oppure non tutte li distribuiscono sempre. Anche per un’azienda ci possono essere nel tempo momenti belli e brutti e può capitare che in quelli brutti (magari in concomitanza con una recessione economica) un’azienda non faccia più utili, oppure ne faccia meno e/o decida di non distribuire i dividendi (che rappresentano la fetta di utili che un’azienda decide di non reinvestire nell’attività e di pagare agli azionisti; la percentuale che ne deriva si chiama payout) o di tagliarli rispetto all’anno precedente.

    “Nella classifica delle prime 50 società al mondo ci sono perlopiù multinazionali. In questo momento al primo posto, con un rendimento del dividendo superiore all’8% c’è la britannica Vodafone. Segue la svedese Hennes & Mauritz ”

Queste variabili confluiscono nella formula sulla base della quale il fondo Lapis Global Top 50 Dividend Yield List, di Valeur asset management, inserisce i titoli nel portafoglio. «La strategia del fondo è di investire solo sulle prime 50 società, tra quelle che hanno una capitalizzazione di almeno 25 miliardi di dollari, che negli ultimi 25 anni hanno sempre distribuito, e mai tagliato, cedole agli azionisti - spiega Fabiola Banfi, responsabile investimenti Valeur asset management -. Se una società, anche solida, per un anno non distribuisce oppure taglia la cedola, esce dal portafoglio. Per rientrare occorrerebbero altri 25 anni di cedole consecutive e mai riviste al ribasso. La nostra filosofia è che quando un’azienda riduce la cedola o non la distribuisce è probabile che stia attraversando un momento di difficoltà e pertanto preferiamo venderla dal paniere».

Nella classifica delle prime 50 società al mondo che rispondono a questi requisiti e che in questo momento hanno il più elevato dividend yield (il rendimento del dividendo effettivo, calcolato dal rapporto tra dividendo e prezzo dell’azione) ci sono perlopiù multinazionali. In questo momento al primo posto, con un rendimento del dividendo superiore all’8% c’è la britannica Vodafone. Segue (7,47%) la svedese Hennes & Mauritz. Sul podio anche la statunitense At&t (6,59%) tallonata da Philip Morris (6,46%).
LE PRIME 50 SOCIETÀ AL MONDO CHE DA 25 ANNI DISTRIBUISCONO DIVIDENDI CRESCENTI
Il paniere dei titoli selezionato da Lapis Global Top 50 Dividend Yield Index (Fonte: Valeur asset management)

Su 50 società oltre la metà (26) sono statunitensi. Al secondo posto - un po’ a sorpresa - c’è il Canada che annovera sette aziende in classifica, perlopiù banche. Giappone e Gran Bretagna sono appaiate al terzo posto con quattro colossi. Seguono Svizzera (3) e Germania (2).
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