LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA-U STORICA 2 -Ante 12 maggio 2023 --ARCHIVIO ATTIVO, VITALE e AGGIORNABILE, DA OLTRE VENTANNI. => Discussione aperta da: Arlecchino - Maggio 17, 2007, 06:42:33 pm



Titolo: POLITICA E POLITICANTI
Inserito da: Arlecchino - Maggio 17, 2007, 06:42:33 pm
IL RETROSCENA.

Il premier teme il passaggio al Senato e l'ingorgo con la legge elettorale, la riforma Rai e il Ddl Gentiloni

Prodi pronto al confronto con la Cdl "Se parte il dialogo sarò io a trattare"

di CLAUDIO TITO
 

ROMA - "Se bisogna dialogare con l'opposizione, lo faccio io in prima persona". La Rai, il conflitto di interessi, la legge Gentiloni. E la riforma elettorale. Nelle prossime settimane il Parlamento e il governo rischiano un "ingorgo" di provvedimenti su cui si accenderà lo scontro tra maggioranza e opposizione. Una situazione che preoccupa Romano Prodi. E sulla quale il Professore vuole giocare le sue carte senza delegare la mediazione agli alleati. Nemmeno ai leader del futuro Partito Democratico. Sapendo anche che quei quattro temi difficilmente potranno essere affrontati separatamente: "Sono tutti legati da un filo invisibile".

"Ma - gli ha detto Clemente Mastella - stai attento agli accordi che fanno gli altri, soprattutto sulla legge elettorale. Perché se io esco, o ci sono le elezioni o al massimo le larghe intese. Ma tu comunque sei fottuto".
A Palazzo Chigi, allora, hanno iniziato a far partire i segnali di fumo. Niente di concreto ancora. Solo il tentativo di impostare il confronto. Con due priorità: la Rai (con la riforma della governance che sarà oggi all'esame del consiglio dei ministri) e la legge elettorale.

Non è un caso che ai leader dell'Unione abbia fatto sapere di voler mettere nella "pole position" dei calendari parlamentari il testo che modifica i criteri di nomina dei vertici di Viale Mazzini: "Deve essere la nostra urgenza". Un modo per far capire che sulla tv pubblica non accetterà più un accordo che passi sopra la sua testa come accaduto due anni fa. Ma anche per lanciare un segnale alla Cdl: la legge sul conflitto di interessi e la legge Gentiloni sul sistema radio-tv possono aspettare. "Il conflitto di interessi insomma - spiega un centrista esperto come Bruno Tabacci - è solo merce di scambio. Non me ne occupo per questo".

E che sia stato aperto un canale di dialogo su questo terreno, ne sono convinti soprattutto gli uomini della sinistra radicale che accusano l'Ulivo e l'esecutivo di voler "ammorbidire" eccessivamente la normativa sul conflitto di interessi. "Non c'è l'ineleggibilità, non c'è l'incompatibilità, non c'è quasi più niente in questo testo - si lamenta Orazio Licandro, il deputato che segue la materia per conto di Oliviero Diliberto - e da quello che sta succedendo è evidente che il governo vuole aprire la porta a Berlusconi eliminando persino il blind trust. Di fatto, stiamo tornando al testo Frattini".

Al di là dei sospetti di Prc, Pdci e Verdi, Prodi vuole prendere tempo. Teme un'accelerazione che porti rapidamente il ddl al Senato. Ha paura che equivalga a mettere a rischio la maggioranza. I suoi dubbi riguardano la tenuta della coalizione a Palazzo Madama, il rischio che non tutti i senatori a vita siano pronti a votare il provvedimento e poi l'Udeur di Mastella che già si è astenuta a Montecitorio. "Non si può usare Berlusconi come un amico quando c'è da spaventare noi - ammonisce appunto il ministro della Giustizia - e poi come nemico sul conflitto di interessi".

L'accelerazione per riformare la Rai corre poi parallela al tentativo di imbastire un'intesa anche sul nuovo Cda. L'Unione sta andando dritta verso la sostituzione di Angelo Petroni. Ma sia il premier che il ministro dell'Economia non escludono di nominare per intero un nuovo vertice. "In caso di stallo - ripetono - sarebbe inevitabile". Non è un caso che nelle ultime ore, Silvio Berlusconi abbia iniziato a prendere in considerazione questa possibilità. Indicando come possibili nuovi "presidenti di garanzia" Clemente Mimun e Carlo Rossella.

E forse non è nemmeno un caso che ieri Forza Italia abbia chiesto al ministro delle riforme, Vannino Chiti, un incontro sulla riforma elettorale. Ossia l'altro elemento del grande "ingorgo". Gli ambasciatori del Cavaliere hanno concesso una possibile via d'uscita alla maggioranza: il Provincellum. La delegazione forzista, infatti, ha dato la sua disponibilità a studiare un sistema che ricalchi il modello delle provinciali e eviti così il referendum. Esattamente l'obiettivo inseguito da una parte dalla Lega e dall'altra da Mastella. "Voglio la verifica per essere tranquillo - ripete il Guardasigilli - perché il Partito Democratico sta trescando troppo con Berlusconi per tagliare via i piccoli partiti. E allora deve essere Prodi a trovare una soluzione. Se non vuole la crisi di governo". Un messaggio che evidentemente negli ultimi giorni a Palazzo Chigi ha iniziato a fare breccia.


(17 maggio 2007) 
da repubblica.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 20, 2007, 12:53:19 am
Il signor B. si prepara al ritiro dalla politica... per malattia?

ciaooooooo

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19 maggio 2007
 Berlusconi, nuovo malore a L'Aquila. «Ora sto bene» . Confermati gli impegni a Olbia e Vicenza

Un malessere passeggero, dopo quello di Montecatini, sei mesi fa, a L'Aquila. Sempre durante un comizio, questa volta per la campagna delle amministrative del 27 e 28 maggio che lo porterà già in giornata a Vicenza e Olbia. Forse ci si è messa un'eccessiva fiducia nella vigoria del fisico. «Ho fatto troppe cose tutte insieme, ma ora sto benissimo». È stato lo stesso Silvio Berlusconi, rientrando nel cuore della notte a Roma, a svelare le reali condizioni dopo il malore di venerdì notte. L'ex premier ha ammesso qualche responsabilita circa le cause della sua defaillance: «Ho fatto troppe cose tutte insieme. Ho parlato per più di un'ora e alla fine avevo una gran sete. Per cui ho chiesto "datemi da bere altrimenti non resisto" e tutti si sono preoccupati. Da qui è nato il parapiglia».

Bonaiuti: «Niente realtà romanzesche, ora sta bene». Quanto alla conferma dell'impegnativo programma elettorale che lo dovrebbe portare già nelle prossime ore prima a Vicenza poi a Olbia, è arrivata sabato di buon mattino dal portavoce Paolo Bonaiuti. «Silvio Berlusconi sta bene, non è successo niente di serio» e non cambia l'agenda dei suoi appuntamenti elettorali. Bonaiuti alle 7,30 si è recato a Palazzo Grazioli per incontrare il leader di Forza Italia. «Ha già parlato con un sacco di persone, sta bene e quindi cerchiamo di non costruire la solita realtà romanzesca», ha aggiunto Bonaiuti. E poco dopo le 10 lo stesso Berlusconi ha confermato il pieno recupero.

«Vado a Vicenza». «Sto bene, sto bene», ha detto il tycoon e capo dell'opposizione lasciando la sua residenza romana. Ai giornalisti che gli hanno chiesto se si sente pronto ad affrontare i due impegni elettorali di oggi, Berlusconi ha risposto: «Sì, sì. Infatti sto andando a Vicenza». Dopo la vittoria delle amministrative in Sicilia, il leader di Forza Italia crede fermamente che il centro-sinistra perderà anche alla prossima tornata di fine mese. «Sono convinto - ha dichiarato Berlusconi in una lunga intervista concessa al Giornale di Vicenza - che se, dopo il nostro trionfo in Sicilia, anche nel resto dell'Italia la sinistra uscirà sconfitta, per questo governo sarà davvero giunta l'ora di farsi da parte. Non si può governare contro la maggioranza degli italiani».

La cronaca del malore. «Sorreggimi»: sono passate da poco le 23 di venerdì 18 maggio e Silvio Berlusconi, pallido, si appoggia al sindaco dell'Aquila, Biagio Tempesta, sul palco dal quale per oltre un'ora, al freddo e senza capotto o impermeabile, ha tenuto un comizio. Qualche istante di apprensione, quasi nessuno si accorge di quanto accade; Tempesta, terrorizzato, riesce a richiamare l'attenzione della sicurezza e subito l'ex premier, barcollante, viene fatto scendere dal palco. Dopo avere bevuto un pò d'acqua torna in albergo dove pochi minuti più tardi arriveranno i medici.

Un nuovo malore, quindi, a sei mesi da quel 26 novembre, quando a Montecatini (Pistoia), venne sorretto sul palco. Questa volta, però, nessuno siè accorto di nulla, anche per il sangue freddo di Tempesta al quale - dirà poi più tardi Berlusconi - «occorre fare una statua». Per il cardiochirugo aquilano Gerardo Di Carlo - che assieme al medico Di Luzio lo ha curato per due ore nella suite dell'Hotel Sole - si è trattato di un insieme di fattori: stress, stanchezza accumulata negli ultimi giorni, freddo della serata aquilana (c'erano circa 10 gradi) susseguente a un pomeriggio di sole a Rieti (da dove Berlusconi proveniva), una leggera ipoglicemia, perchè dal mattino il leader di Forza Italia non aveva né mangiato né bevuto.

In albergo, tra un un prelievo di sangue e elettrocardiogramma, l'ex premier non ha perso il buonumore ed ha raccontato anche alcune barzellette ai medici. A tarda notte, prima di partire per Roma, alle molte persone che lo attendevano nella hall Berlusconi ha confessato la propria stanchezza: «Ho avuto una giornata molto intensa. Non ho bevuto e non ho mangiato. Sono arrivato all'Aquila, non mi sono accorto che era tardi, non ho preso nulla e subito sono andato a fare il comizio. Non si possono fare queste cose insieme». E tra gli applausi è ripartito.

da ilsole24ore.com


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2007, 10:26:24 pm
Ferrara e Trombadori, omaggio alla Roma del Pci
Bruno Gravagnuolo


Stavolta guerre toponomastiche non ce ne dovrebbero essere. E per ora non si registrano reazioni o proteste della destra capitolina. Almeno si spera. Ma la decisione del Comune di Roma di intitolare due luoghi con targhe a due famiglie politiche chiave della storia recente di Roma, non è banale o impolitica. La prima targa verrà scoperta martedì 29 maggio nel giardino di Piazza Brin a Garbatella, nel cuore di quella che fu un dì «zona rossa» del Pci romano. In onore di Maurizio e Marcella Ferrara, scomparsi nel 2000 e 2002 e alla presenza del figlio Giuliano.

La seconda e la terza, lunedì 4 giugno, anniversario della Liberazione di Roma, lungo il viale del Museo Borghese, in ricordo del grande pittore «scuola romana» Francesco Trombadori, e del figlio Antonello, critico d’arte, partigiano, deputato, poeta e tante altre cose. Intanto Maurizio e Antonello, che i più giovani non conoscono. Due amici fraterni, due comunisti romani e figure decisive dell’egemonia togliattiana, tra gli ultimi anni del fascismo e il dopoguerra. Entrambi anime della resistenza romana, cospiratori e antifascisti. Si conobbero nel 1940 al Palazzaccio, quando Mario Ferrara grande avvocato liberale e padre di Maurizio, difendeva un altro cospiratore: Pietro Amendola. Fu allora che Antonello diviene «fratello» di Maurizio ed entrambi radicalizzano la loro opposizione al regime.

Intellettuali borghesi, sanguigni e passionali però, coinvolti in quel gruppo di antifascisti romani da cui venne fuori anche Pietro Ingrao. Con Bufalini, Barca, Alicata, Natoli e più a distanza Giame Pintor. E con alle spalle Bruno Sanguineti e Antonio Amendola.

Maurizio sarà giornalista cardine de l’Unità di Ingrao, poi corrispondente da Mosca al tempo di Krusciov, e infine direttore del giornale, tra metà anni 60 e i primi anni 70. Aveva sposato Marcella Di Francesco, anch’essa resistente, segretaria di Togliatti e poi segretaria di Redazione di Rinascita. Maurizio sarà anche presidente della regione Lazio, ma troverà anche il modo di essere poeta dialettale e raffinato pamphlettista nel 1956, contro Italo Calvino (il «little Bald» dissidente sull’Ungheria, da lui satireggiato). Un’impronta indelebile la sua su l’Unità. Di giornalismo, polemica, passione, visceralità, apertura, simpatia. Antonello invece, scomparso nel 1993, era più «eccentrico», più «mondano» ma non meno passionale e togliattiano. Fu un ponte straordinario tra il partito e gli intellettuali, non solo italiani. E tra il partito e gli artisti, i cineasti, gli sceneggiatori. Non è vero intanto che fosse un ideologo «ortodosso» in arte. Infatti rivendicava l’autonomia del fatto artistico, da crociano di sinistra e figlio di pittore raffinato qual era. E poi era audace, travolgente. Un vero tormento da gappista armato contro i tedeschi, che ebbe il coraggio di affrontare armi in pugno più volte nella «Roma città aperta» occupata, in cui iscrisse il suo nome con onore. Visconti e Fellini lo ebbero come collaboratore alle sceneggiature, e Togliatti lo teneva in gran conto, pur moderandolo a volte. E però, malgrado la passione, Maurizio e Antonello erano aperti, curiosi, coinvolgenti. Uno spettacolo sentirli parlare romanesco. E imparare da loro l’antisettarismo, lo sbriciolamento dei luoghi comuni estremisti.

Ma Ferrara e Trombadori sono anche due «dinasty». Con Giorgio Ferrara, il fratello repubblicano, Marcella, e Giorgio jr, Giuliano Ferrara, Duccio Trombadori, Fulvia moglie di Antonello. Due case storiche, ospitali, crocevia di amicizie, affetti, politica e cultura, arte. Ci andavamo anche noi e ci hanno aperto un mondo. Che non c’è più ma ci ha fatti. E che ha fatto l’Italia più civile.

Pubblicato il: 26.05.07
Modificato il: 26.05.07 alle ore 9.45   
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Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2007, 10:27:05 pm
Io, la casta e il Pd
Gianni Cuperlo


Faccio il deputato da poco meno di un anno. Godo i privilegi della carica, stipendio, viaggi, rimborsi. Non è che tutto si riduce a quello. Per dire, passo le giornate tra persone perbene e che vivono la politica con passione sincera. Ciò non toglie che nel mio piccolo appartenga anch'io a quella «casta» che dovrebbe rapidamente metter mano a se stessa. E non solo per il clima montante nel paese. Quello sdegno che proietta il saggio di Stella in cima alle classifiche e suggerisce a D'Alema paragoni storici allarmanti. Ma per una scelta di merito. O se preferite di principio. Non puoi chiedere agli altri di remare mentre stai a prendere il sole. Se va bene smettono di remare tutti, ma è più probabile che ti rovescino dalla barca.

E non senza ragione. Ora, la campagna sui costi della politica, su privilegi e vantaggi troppe volte ingiustificati, non è nuova. Diciamo che si presenta con frequenza periodica anche se l'intensità è variabile. Pure i ruoli tendono a riproporsi. Ci sono quelli che denunciano insipienza e corrutela del ceto politico. E poi gli analisti che di quell'insofferenza cercano la causa scatenante. Non sono tipi da sorprendersi se l'Italia, e il suo sistema politico e la sua classe dirigente, sono la roba che sono. Lo sanno da sempre. A loro preme spiegare perché proprio adesso la gente reagisce. Cos'è che fa traboccare il vaso e che espone la democrazia a rischi seri. La politica, da parte sua, gioca di rimessa. Attende che la burrasca si plachi. O si dissocia (la politica che protesta contro se stessa sfiora vette di surrealismo).

Quel che non si coglie, almeno a parer mio, è il groviglio di effetti e cause coi quali siamo chiamati a misurarci. Li riassumo così. Siamo un paese che declina la politica «a tema». Ora è il turno della nuova questione morale e del pericolo di un collasso democratico. Ieri era la volta del ricambio generazionale e di una società bloccata. Domani potrebbe tornare in auge il rinnovamento dei partiti e la voglia di partecipare. In parallelo, ma separata, avanza la riflessione sui nuovi modelli di governo (da Zapatero e Sarkozy passando per l'epilogo di Blair). Mentre sullo sfondo c'è sempre qualcuno a ricordare le incertezze della politica quando vi sia da maneggiare patate bollentissime (si tratti di pensioni, sicurezza o diritti di cittadinanza). La difficoltà è farsi carico dell'insieme. Cioè capire che ciascuno di questi nodi, preso a sé, non ha soluzione né sbocco. Perché c'è qualcosa (più che qualcuno) che li tiene saldamente ancorati l'uno all'altro. Insomma c'è una ragione, e un filo unificante, se in questo benedetto paese abbiamo la politica meno attraente e più privilegiata, il mercato più corporativo e meno liberale, le élite più vecchie e meno dinamiche, i partiti più spenti e arroccati, l'innovazione più incerta e contraddittoria. In una parola sola c'è una ragione, e un filo, se la nostra è una società illiberale, iniqua e pigra. Dove, dal vertice alla base, la retorica dei principi (merito, talento, giovani e donne…) lascia il passo a una prassi consolidata (di cordata, potere e consenso).

Con intelligenza, Alfredo Reichlin su questo giornale e Ezio Mauro su Repubblica, hanno avanzato una lettura del problema. Hanno scritto, con accenti diversi, che il Partito Democratico in questo panorama può essere (e c'è da sperare che sia) la risorsa provvidenziale, o estrema, per una politica e una sinistra che vogliano opporsi a una possibile nuova crisi di sistema. Hanno entrambi ragione da vendere. Se il più ambizioso disegno politico dell'ultimo decennio non dovesse fondarsi su questo - su una riforma civile e morale del paese, oltre che sul rinnovamento delle culture democratiche e riformatrici - molti non ne coglierebbero il senso e l'approdo. Ma allora? Dov'è, se c'è, il limite di questo passaggio? La difficoltà, nonostante i passi avanti compiuti, a far decollare il Partito Democratico con più slancio e certezza dei propri mezzi? La mia impressione è che questo limite coincida con quel filo unificante della crisi italiana a cui ho fatto cenno. E lo riassumerei in questo. Noi - intendo la sinistra e il centrosinistra - soffriamo da tempo, da parecchio tempo, di un deficit profondo di elaborazione politica e di guida.

È un deficit di idee, coraggio, coerenze. Ma non è solo un problema del «ceto politico». Anzi declinato così rischia di apparire un tormentone fasullo e ingeneroso verso i meriti, che sono tanti, di una classe dirigente impegnata a governare oggi il paese e tanta parte del suo territorio. No, quel problema allude a uno scenario più complesso.

Ne accenno con un esempio. Come tanti scorro volentieri gli inserti letterari dei giornali. Ci trovi novità, recensioni, classifiche. Di queste ultime in particolare sono curioso. C'è la narrativa italiana, quella straniera e poi la saggistica. Ora, in Italia - si sa - non siamo gran divoratori di libri. Ma l'elenco dei saggi più venduti è indicativo. Se uno guarda all'andamento di quella classifica negli ultimi anni misurerà il successo, rinnovato nel tempo, di autori amati e dal seguito diffuso. Li annoto un po' a caso. Terzani, Travaglio, Vespa, Pansa o Augias. E più di recente il pluricitato Stella. Tradotto, l'umanità intima di un grande giornalista, il radicalismo intransigente, la politica declinata in cronaca, un revisionismo storico puntuto. E poi il saggio d'inchiesta o lo j'accuse verso una politica maramalda.

Naturalmente estremizzo. Perché ci sono anche i volumi di Sofri, Magris e Canfora. Ma se ci fermiamo ai grandi numeri cosa colpisce? Colpisce, tra le altre cose, il fatto che in quella graduatoria da tempo è quasi assente una visione alta, forte, moderna, di una politica riformatrice. Manca una lettura di parte (la nostra parte) del mondo e dell'Italia. E un movimento intellettuale, e delle coscienze, che di fronte alle rivoluzioni del mondo, della società, e della vita privata degli individui (fosse solo per il capitolo della vita, della morte e dei diritti) si misura col tempo presente. Anzi, tenta di interpretare lo spirito del tempo. E lo rovescia nella politica. Nelle culture politiche.

Chiedo: come si fa a fondare il primo partito del nuovo secolo - una forza a vocazione maggioritaria che dovrebbe condurre a sintesi le migliori tradizioni culturali dell'Italia repubblicana - se alla fonte di questo progetto non si alimenta, per mille rivoli, un pensiero originale? Ho sentito dire che il dramma della sinistra italiana negli ultimi anni sarebbe stato non avere a disposizione un Tony Blair. Mi permetto di dissentire. E comincio a pensare che il vero problema, se vogliamo restare in tono, è stato piuttosto non avere Giddens o altri come lui e migliori di lui. Perché ciò che ha distinto la sinistra di governo a Londra come a Madrid è stato anche - non dico solo, ma anche - la scelta di prendere il toro per le corna. Di metter mano alla carta d'identità di quelle forze e ricollocarle nella società contemporanea. Pagando dei prezzi per questo, ma accettando la sfida. E spesso vincendola. Non è solo questione di programmi elettorali. I programmi li scrivono le coalizioni e li realizzano i governi. Il problema è quale «pensiero» i partiti mettono in campo e come quella visione ispira e condiziona i programmi. Li plasma. Il tema - questo provo a dire - è come la sinistra rinnova se stessa nelle gerarchie dei valori, nelle priorità, nei soggetti che vuole rappresentare, nelle politiche pubbliche che persegue.

Tutto questo, insieme, fa una visione e un progetto. Se questa dimensione latita, o appare carente, prevale chi ha il timbro di voce più tonante o chi pesta sul tasto sacrosanto della riduzione dei costi della politica. Ben venga quella riduzione, sia chiaro. Ma temo che non basterà a rigenerare un organismo fiaccato. Sarebbe come dire a un malato grave che deve mettersi a dieta. Magari lo aiuta, ma senza la terapia giusta quello mica guarisce. Ecco perché spero che il comitato nazionale del Pd, e le regole che lì verranno messe a punto, ci spingano tutti nella direzione giusta. Perché ne va delle sorti dell'impresa, certo. Ma ne va pure del destino della sinistra per ciò che essa è stata. Per ciò che oggi è divenuta in questo paese e per quel che potrebbe tornare a essere in forme, contenuti e contenitori diversi. Per quel che conta, nel mio caso è stata questa la molla che mi ha convinto a credere nella fondazione di un partito nuovo. Adesso vorrei che provassimo a farlo.

Pubblicato il: 26.05.07
Modificato il: 26.05.07 alle ore 9.43   
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Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2007, 10:27:48 pm
La politica dell’antipolitica
Antonio Padellaro


L’antipolitica è antica come la politica. Così come parlare male dei partiti è il nostro sport nazionale. Salvo che ad ogni elezione regolarmente le piazze si riempiono e ai seggi si registra la più alta affluenza. Niente però è immutabile, e vedremo se all’importante test amministrativo di domani le urne cominceranno ad essere disertate dai cittadini inferociti oppure no. Dei costi della politica i più anziani giornalisti parlamentari sentono parlare dai tempi di Sandro Pertini presidente della Camera che molto s’indignò per le spese ingiustificate del palazzo. Sono passati trent’anni, altri hanno protestato, altri hanno promesso ma non risulta che la massa di emolumenti e privilegi percepiti dagli eletti del popolo sia mai calata. Anzi.

Ciò non significa affatto sottovalutare i segnali di protesta che salgono dal Paese nei confronti della politica quando essa, oltre a essere costosa oltre ogni limite non risolve i problemi. O per inettitudine o perché paralizzata dai veti incrociati. Onestamente però, non riuscivamo lo stesso a capire le ragioni profonde della improvvisa e rumorosa esplosione di accuse contro la politica e i politici, al cui apogeo si è posto con il suo j’accuse il presidente di Confindustria Luca di Montezemolo. Ma quando abbiamo letto la bella intervista rilasciata dal direttore del Corriere della Sera al direttore di Liberazione (ogni tanto gli opposti si toccano), qualcosa in più cominciamo ad afferrare.

Innanzitutto, davanti al direttore del più grande quotidiano italiano che dice «siamo vicini all’implosione del sistema politico», c’è seriamente da preoccuparsi. Poiché conosciamo Paolo Mieli come giornalista equilibrato e assai cauto nell’uso delle parole dobbiamo pensare che abbia i suoi buoni motivi per manifestare tanto pessimismo. Per la verità, a Piero Sansonetti egli ha spiegato che non ci sono analogie con la crisi politica del ’92-’93, originata dalla meritoria (questo lo diciamo noi) azione dei giudici di Mani Pulite. La differenza è che anche oggi siamo afflitti da una vasta e vorace tangentopoli; solo che nessuno l’ha ancora scoperchiata. Sostiene però Mieli che rispetto ad allora un punto di contatto c’è: il referendum. Quello che nel 1991 ridusse il numero delle preferenze nelle schede elettorali, colpendo il potere di alcuni partiti, e quello che dal ’93 cambiò completamente il sistema elettorale introducendo in Italia il maggioritario. E siccome, spiega il direttore del Corriere, so che bastano due punti per definire una retta, non posso non vedere questi due punti: lo sfaldamento della credibilità politica e l’appuntamento referendario che inesorabilmente si avvicina.

Però, restando nel campo della geometria euclidea mentre uno dei punti è ben visibile a occhio nudo (il referendum), sull’altro (il discredito della classe politica) ci sarebbe comunque da discutere. Soprattutto perché prendere la politica e liquidarla in blocco come categoria di brutti, sporchi e cattivi si chiama qualunquismo, tentazione da cui tutti quanti dovremmo guardarci. E allora, può venire il sospetto che da una parte ci sia un problema reale e anche grave nelle sue dimensioni (i 200 milioni di euro, per esempio, che si spendono ogni anno per mantenere il sistema dei partiti, contro i 73 della Francia) e sul quale la politica deve saper accettare tutte le critiche utili. E che da un’altra parte ci sia chi voglia cavalcare il problema ma per ragioni strumentali e di potere.

Prendiamo, appunto, il referendum sulla legge elettorale. In sé un’iniziativa lodevole per scuotere l’immobilismo di maggioranza e opposizione che tra veti e controveti rischia di lasciarci, chissà ancora per quanto, alla mercé del «Porcellum» di Calderoli e soci, il peggior sistema di voto che si ricordi. I primi due quesiti prevedono che il premio di maggioranza,anziché alla coalizione venga attribuito al partito che ha preso più voti. Con la conseguenza di semplificare il sistema politico, fino a una sorta di bipolarismo imperfetto. Il terzo referendum elimina invece la possibilità delle candidature multiple e il conseguente giochetto delle rinunce che attribuisce ai partiti un successivo potere di scelta sugli eletti. È chiaro che se manovrato dalle più potenti lobbies industriali, finanziarie ed editoriali quello che è un legittimo strumento di democrazia diretta può trasformarsi in un grimaldello per destrutturare l’attuale sistema politico. Infatti, una vittoria dei referendari l’anno prossimo (nel primo dei tre mesi utili alla raccolta delle firme raggiunta quota 153mila, ne servono ancora 347mila) aprirebbe una crisi immediata tra i partiti minori dell’Unione. Un minuto dopo mi dimetto, ha già annunciato Mastella.

Da quel momento potrebbe succedere di tutto: dalle elezioni anticipate, alla formazione di nuovi schieramenti con il taglio delle ali a sinistra come a destra. Fino alla discesa in campo di quegli stessi personaggi che oggi criticano giocatori e partita standosene comodamente seduti in tribuna d’onore.

Uno sconquasso, insomma, che potrebbe trovare impreparato e in una situazione di oggettiva debolezza il Partito Democratico appena costituito. Con una posta del genere potremmo presto assistere a nuove, vigorose campagne contro la brutta politica. All’aumento di pugnali e veleni; e di intercettazioni da destinare in busta chiusa ai giornali amici. Ad altri drammatici annunci sull’imminente implosione del sistema. È la politica dell’antipolitica, bellezza.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 26.05.07
Modificato il: 26.05.07 alle ore 9.43   
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Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2007, 10:29:46 pm
«Premier e capo dell'opposizione devono sapere anche lavorare insieme»

Veltroni: «Il Paese è in crisi democratica»

Il sindaco di Roma: non ci sono rischi autoritari ma non funziona il meccanismo decisionale.

«Vorrei un sistema di voto alla francese» 

 

LA BAGNAIA (Siena) - «Il Paese è in una crisi democratica, non per un rischio autoritario, ma perchè è in crisi il meccanismo decisionale e il rapporto tra decisioni e partecipazione». Lo ha detto il sindaco di Roma Walter Veltroni durante il convegno sull'editoria «Crescere fra le righe» in corso a La Bagnaia. Per Veltroni da questa crisi si può uscire con un sistema che sia davvero bipolare, e non un «bipolarismo tribale come quello italiano».

SISTEMA ALLA FRANCESE - Veltroni, rispondendo alle domande di Enrico Mentana e dei giovani presenti alla convention, non nasconde di guardare con attenzione ad un sistema alla francese: «Ma mi accontenterei di un'indicazione sulla scheda». L'ex segretario dei Ds sembra convinto che molti problemi attuali «siano legati proprio al sistema elettorale e alla legge fatta nella passata legislatura, con i partiti che nascono e muoiono in pochissimo tempo proprio in funzione di questa legge» ed è sempre più convinto che serva una politica diversa, «lieve» dove il leader dell'opposizione possa telefonare al vincitore delle elezioni, come è successo in Francia per fargli i complimenti.

DIALOGO TRA I POLI - È quasi un manifesto di ciò che lui vorrebbe dalla politica dei prossimi anni: «Com'è possibile - si domanda Veltroni - che i leader dell'opposizione non possano telefonarsi e confrontarsi su alcune delle gravi crisi che attraversano il Paese?». Ricorda, e chiede conferma al senatore a vita Giulio Andreotti, seduto in prima fila, che ciò avveniva «quando governava la Dc e il Pci era all'opposizione» (e dallo stesso Andreotti riceverà poi un complimento indiretto: «E' un bravo politico che può fare il leader» ha detto di lui il senatore a vita parlando con i giornalisti).

PIU' INTERNET, MENO TV - Il sindaco di Roma, quindi, torna a criticare coloro che si «illudono» di fare politica in televisione, un mezzo che invece «mangia, logora, consuma e divora tutto». «Non è la Tv il luogo in cui si formano le opinioni degli italiani», osserva sostenendo che occorre tornare ad un «rapporto diretto dei leader con i cittadini», magari usando anche più Internet per sentire le loro opinioni. Veltroni non esclude del tutto che in Italia si possa arrivare anche ad una terza Repubblica, perchè «quando c'è un vuoto può sempre arrivare qualcuno a colmarlo con soluzioni tecnocratiche-populiste», un rischio che va evitato attraverso «una presenza culturale democratica».

26 maggio 2007
 
da corriere.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2007, 09:56:06 pm
POLITICA

L'INTERVISTA. Il leader della Quercia: non sottovalutiamo i segnali che arrivano dalla parte dinamica del Paese, il risultato non ci soddisfa

Fassino: "Il paese chiede una politica che decida"

di GOFFREDO DE MARCHIS

 ROMA - Lui dice centrosinistra. Mai governo.

Eppure il "campanello d'allarme" che viene dal Nord suona anche per Romano Prodi e la sua squadra.

Segretario Fassino, nella maggioranza non si canta vittoria, ma ci si accontenta del pareggio. È contento anche lei?
"No. È vero che la spallata non c'è stata, ma il voto non ci può soddisfare. Per carità, la nostra coalizione segna parecchi punti a favore. Penso al risultato di Agrigento e di tanti comuni siciliani importanti come Alcamo, Niscemi ed Erice strappati alla destra. C'è il risultato positivo de L'Aquila da anni città moderata, e di molte città abruzzesi. Guardo all'esito davvero sorprendente di Parma dove si va a un ballottaggio del tutto aperto, a Taranto, alla conferma di Frosinone. Sfioriamo la vittoria al primo turno a Piacenza e a Cuneo ci confermiamo in una piazza non semplice. E sottolineo i successi di Ancona, Carrara e delle città toscane. Dati significativi: dicono che l'Unione è in grado di intercettare esigenze e domande dell'opinione pubblica".

Allora da dove nasce la sua insoddisfazione?
"Il voto manifesta, senza dubbio, una criticità nel Nord del paese. Sono positivi i risultati della Vincenzi a Genova e di La Spezia, ma quando si perde ad Alessandria, Asti, Verona, Monza e Crema non si può vederlo soltanto come un campanello d'allarme di natura locale".

Quello che diceva il Cavaliere alla vigilia, subito smentito da Prodi.
"Diciamo che la politicizzazione del voto voluta da Berlusconi ha fatto presa soprattutto al Nord".

Perché?
"Perché nel Nord è più forte la crisi di fiducia dei cittadini nei confronti della politica. Il Nord è la parte più dinamica del Paese, è abituata a competere sui mercati esteri, a paragonare la propria vita con quella delle società con cui si confronta quotidianamente. È anche la parte più sensibile alle esigenze di modernizzazione e proprio per questo misura con maggior senso critico una politica che appare lenta, distante e sorda. E che soprattutto non sa decidere. Quegli elettori hanno visto che in Francia in tre settimane si è votato due volte, chi ha vinto ha fatto il governo in 48 ore con soli 15 ministri, metà dei quali donne. E confronta tutto questo con una politica italiana che dai Dico al tesoretto si divide su tutto. Lei non ha idea di che impatto negativo abbiano avuto nelle città settentrionali le immagini dei cumuli di immondizia di Napoli. Paradossalmente, più che a Napoli stessa. Quella massa di spazzatura è, agli occhi dei cittadini del Nord, incomprensibile. Ed è, soprattutto, la dimostrazione di uno stato incapace ed imbelle".

È il caso di ricordare che la Campania è governata da voi, dal centrosinistra. Come il Paese.
"Il punto è questo: le aree in cui si è manifestato lo spostamento a destra sono quelle dove è più diffuso quel tessuto di piccole e medie imprese, di lavoro autonomo, di professioni nuove e vecchie che in questi anni non si sono sentite riconosciute e rappresentate dalla politica. E continuano a sentirsi così perché neanche l'Unione è riuscita a dare segnali che dimostrassero la sua capacità di raccogliere le domande di quei mondi e di dare risposte".

E i risultati sbandierati dal governo Prodi in questi dodici mesi?
"Ci sono. C'è una politica economica che nei suoi indirizzi fondamentali è giusta. Tanto è vero che il deficit scende, il debito pubblico si riduce e la crescita è sostenuta. Alcuni ceti questa politica giusta l'hanno condivisa. Ma pensano di averla pagata in prima persona senza che a un risanamento oneroso seguisse immediatamente una politica d'investimenti, di innovazione, di riforme capace di giustificare quegli sforzi. I terreni su cui matura la questione settentrionale sono sempre gli stessi: fiscalità, autogoverno locale e federalismo, modernità delle infrastrutture e qualità di una pubblica amministrazione che viene spesso percepita come opprimente e parassitaria. E il grande tema della sicurezza. Nodi su cui la politica, anche la nostra, non ha fin qui dimostrato di avere il coraggio e la determinazione necessari".

Lei vuole risposte per i settori della società che secondo la sinistra radicale hanno già avuto troppo.
"Io dico che il voto pone l'esigenza di ascoltare queste domande. Intendiamoci, c'è anche un altro aspetto da valutare, di segno diverso. Riguarda il lavoro dipendente, soprattutto operaio, che in questi anni ha vissuto sulla propria pelle la precarizzazione, anche dei redditi, e che vive con angoscia la discussione sulle pensioni. È un nodo leggibile nel voto della provincia di Genova dove il centrosinistra va al ballottaggio dopo tanti anni di successi al primo turno. Insomma, le amministrative sono un campanello d'allarme per l'Unione. Che va ascoltato e analizzato con grande lucidità".

Berlusconi vi propone la via più semplice: le dimissioni del governo.
"Questo voto non chiede al governo di andare a casa. Piuttosto gli elettori vogliono che chi guida il Paese si rimbocchi le maniche. Se l'esito delle amministrative fosse l'apertura di una crisi la gente si allontanerebbe ancora di più dalla politica".

Con questi risultati quindi il centrosinistra non smorza la denuncia di Montezemolo?
"No. Anzi. Credo che abbia pesato ciò che Montezemolo ha detto all'assemblea di Confindustria. Non a caso lo smottamento è avvenuto in quelle aree dove la presenza imprenditoriale è forte. A maggior ragione confermo il mio commento alle sue parole: guai a fare spallucce, a girare la testa dall'altra parte. Esprimevano lo stato d'animo di una parte del Paese che ieri ha scelto a destra, ma in altri momenti ha votato per noi".

Il Partito democratico è una risposta?
"Il voto è un'ulteriore sollecitazione a fare il Pd. A patto che sia all'altezza della domanda di cambiamento, di innovazione e di modernità".

E non serve subito un leader per dare un profilo al Partito democratico, come chiedono in molti?
"Se pensiamo di risolvere le questioni aperte dai risultati di ieri con un dibattito sulla guida del Pd, siamo fritti. Perché i cittadini di Varese vogliono sapere quando facciamo la Pedemontana e gli imprenditori del Nord Est quando gli riduciamo le tasse. Non rispondiamo al Nord in modo "romano" pensando che tutto si risolve nel politicismo di un confronto sulla leadership. Parliamo delle domande vere e dei problemi veri che la società settentrionale ci pone. E diamo delle risposte. In fretta, per favore".

(29 maggio 2007) 
da repubblica.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2007, 09:56:45 pm
Pd, Pezzotta: «Non entro, non c'è posto per i cattolici»


Nel Pd non c'è posto per i cattolici. Lo dice Savino Pezzotta, ex segretario generale della Cisl e ora portavoce del Family day, in una intervista al Corriere della Sera. In Italia, osserva, «l'esigenza che ci sia una presenza organizzata dei cattolici in politica esiste, eccome» e «mi pare proprio che il Partito democratico, per come si sta costituendo, non dia una risposta». Pezzotta guarda con preoccupazione alla fine del cattolicesimo democratico di marca sturziana e degasperiana. Teme, lo dice «senza volersi contrapporre a nessuno» che le tradizioni dei popolari finiscano nello stesso "baule" con Antonio Gramsci. E invita i suoi amici "teodem" alla «prudenza», avendo trovato «sorprendenti» gli interventi di Barbara Pollastrini e Giuliano Amato alla conferenza sulla famiglia a Firenze. Lui con quest'anima laica non ha intenzione di "convivere" e si siede «sulla riva del fiume». Non entrerà nel Pd, un partito che a Pezzotta sarebbe piaciuto più come contenitore di tradizioni culturali diverse, ma che invece vede ora troppo venato di «intransigenza» laicista.

Quasi all'unisono sullo stesso argomento interviene anche Giuseppe Fioroni, membro del comitatone che promuoverà la costituente del Pd oltre che cattolico vicino all'area "teodem" e al Forum Famiglie di Pezzotta. Fioroni in una intervista al La Stampa sostiene che «nel Partito democratico i cattolici dovranno sentirsi a casa loro e non essere trattati come ospiti indesiderati». Insomma, anche lui la mette al futuro. E non è l'unica, indiretta ma chiara critica. Sulla leadership del nuovo partito Fioroni usa una metafora enogastronomica: «È l'ora di scoprire la qualità dei vini novelli e non soltando quella dei vini stagionati». O invecchiati, per dir meglio.

Per Fioroni «occorre meno tattica e più strategia, meno formule, regolamenti, meccanismi elettorali che non appassionano nessuno». Quanto al leader «sono d'accordo con Franceschini, occorre un leader e presto», che sia «espressione di una classe dirigente plurale». Fioroni vorrebbe dunque un leader "novello", «primus inter pares». E sul come arrivare all'assemblea costituente -che lui stesso insieme agli altri 44 del comitato promotore dovrà organizzare a cominciare dalle regole - annuncia: «Dovranno essere presentate liste legate a un leader e a un programma». Insomma, vere primarie. L'assemblea costituente del Pd è fissata per il 14 ottobre ma entro il 30 giugno il comitatone dovrà definire le regole. La proposta di agenda dettata da Dario Franceschini, vorrebbe che il 14 ottobre- appunto -ci fosse un vero "election day", che riguardasse anche la leadership, insomma. E su questa linea si sono trovati anche la dalemiana Anna Finocchiaro e Walter Veltroni. Ma non altrettanto il prodiano Giulio Santagata, che a Veltroni manda una risposta di sette righe, domenica, in cui scrive: «Sono certo che Walter Veltroni concorda sul fatto che spetta all'Assemblea Costituente decidere le modalità migliori per assicurare al partito gli organi capaci di garantire ad esso il più efficace coordinamento operativo sino al primo congresso». Come dire, il leader c'è e non c'è nessuna fretta di cambiarlo.

Nel frattempo il Pd acquista anche dei punti. Mauro Zani ex cofirmatario insieme a Gavino Angius della terza mozione al congresso Ds, non lascia per il momento la Quercia. L'europarlamentare bolognese ha infatti scelto di entrare nell'ufficio di presidenza dei Ds dell'Emilia. Farà parte dunque di in un organismo politico, non esecutivo. Ma la sua disponibilità a seguire il percorso di nascita del Pd, viene salutata dal segretario regionale Roberto Montanari come un «ritorno a casa», una «disponibilità ad accettare, pur con accenni critici, un percorso comune».

A tre giorni dal varo del «comitatone», Montanari raccoglie poi l'invito del sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, e proclama: «costruiamo subito i comitati per il Pd al livello comunale, provinciale, regionale». organismi che il segretario delinea con il 50% di volti «rosa».

Pubblicato il: 28.05.07
Modificato il: 29.05.07 alle ore 8.46   
© l'Unità.


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2007, 11:00:33 pm
30/5/2007 (7:22)

Di Pietro, siluro a Visco

Mozione al premier: il governo gli ritiri la delega sulla Guardia di Finanza


GUIDO RUOTOLO
ROMA

Otto di sera. Si è appena conclusa la riunione dei senatori di Italia dei Valori con Antonio Di Pietro. Il ministro annuncia che stamani sarà depositata una mozione con la quale (anche) Italia dei Valori chiede al presidente del Consiglio, Romano Prodi, di ritirare («temporaneamente») la delega al vice ministro all’Economia, Vincenzo Visco, e la legge al telefono: «Sia Visco che il comandante generale della Guardia di finanza, Roberto Speciale, sono, per il ruolo che ricoprono, di per sé credibili ma le loro versioni dei fatti sono diametralmente opposte. Su questa vicenda - spiega Di Pietro - sono in corso inchieste della magistratura per cui è inopportuno che il viceministro Visco continui a mantenere la delega sulla Finanza, anche per non dare spazio a sospetti di interferenza. E’ questa la ragione che ci porta a chiedere al presidente Prodi la sospensione temporanea delle sue deleghe, in attesa degli esiti delle indagini della magistratura».

Si complica ancora di più l’«affaire» Visco-Speciale. Proprio ieri mattina la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama aveva fissato per mercoledì prossimo il dibattito sulla mozione presentata dall’opposizione, che chiede al governo di ritirare la delega sulla Guardia di finanza al vice ministro Vincenzo Visco. Proprio perché nella stessa maggioranza, in questi giorni, erano arrivati segnali di insofferenza e di perplessità sull’operato di Visco, Cesare Salvi (Sinistra democratica) e Giovanni Russo Spena (Rifondazione) avevano chiesto che, prima del dibattito in aula, il governo si riunisse con la maggioranza. «La posizione assunta da Italia dei Valori - commenta il capogruppo di Rifondazione, Russo Spena - rende ancora più urgente la riunione della maggioranza, per evitare che la vicenda possa destabilizzare la stessa tenuta e struttura del governo». Il vice ministro Visco per il momento tace. Sta lavorando a una memoria «difensiva» per chiarire ogni dubbio sul suo operato. Agli atti delle inchieste della magistratura, c’è anche la lettera datata 24 luglio 2006, e inviata al comandante generale della Finanza, Roberto Speciale. Nella lettera, Visco ricorda il primo incontro del 26 giugno, nel quale il generale annunciò diversi cambiamenti ai vertici della Finanza: «Il 13 luglio ho parlato della questione con i generali Pappa e Favaro e da questi incontri emerse l’opportunità di coinvolgere nei movimenti anche Milano». Visco, dunque, riconosce che il fascicolo Milano viene aperto con i suoi colloqui con i due generali.

Lo stesso giorno, Visco incontrò anche Speciale: «(La) invitai a procedere nei trasferimenti - ricorda il viceministro - inserendo anche Milano e decidendo, previa consultazione con i generali Pappa e Favaro, una proposta di avvicendamento che vi trovasse tutti d’accordo». Da quel momento esplode la polemica. La notizia di avvicendamenti a Milano viene lanciata dall’Ansa, monta la polemica politica perché gli annunciati trasferimenti vengono presentati come punitivi nei confronti della squadra che ha indagato su Unipol. Visco ricorda il 24 luglio al generale Speciale: «Dal Comando Generale non ho ricevuto più alcuna proposta, salvo quella relativa ai soli spostamenti di Milano, inviatami il 14 luglio e che è rimasta di fatto sospesa». Ecco il punto. La lista degli «epurandi», sembra di capire dalle parole di Visco, arriva dal Comando.

Chi ha ragione? Visco o Speciale? Ieri, intanto, il Cocer della Finanza, l’organismo di rappresentanza militare, è sceso pesantemente in campo, per difendere il «suo» comandante, il generale Speciale. Il Cocer ricorda che i movimenti interni furono stabiliti nel marzo del 2006, e Milano non c’era. Fino al 13 luglio scorso: «Nella vita pubblica l'unica cosa di rilievo tra marzo e luglio dello scorso anno è stata la nascita di un nuovo Parlamento e di un nuovo governo. Gli avvicendamenti sono allora la conseguenza del nuovo scenario istituzionale e politico?».

da lastampa.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2007, 12:19:59 am
Prodi e l’ultimatum dopo la sconfitta elettorale

Un partito e la sua guida

di Sergio Romano

 
Dall’intervista di Prodi a la Repubblica emerge un quadro impietoso della situazione politica italiana. La maggioranza è divisa e litigiosa. Gli alleati sono inaffidabili. Il premier non ha il potere di imporre la propria linea. Il Paese rifiuta di comprendere le proprie reali esigenze e di accettare i sacrifici necessari al futuro della nazione. L’opposizione, quando era al potere, ha fatto solo disastri e non ha il diritto di proporsi come «alternativa di governo». Il presidente di Confindustria ha dato prova di scarso equilibrio. I sindacati non hanno compreso che il Paese deve cambiare. Si direbbe il messaggio d’addio di un uomo politico deluso, amareggiato, incompreso, ormai convinto che i suoi connazionali non meritino il suo impegno e la sua dedizione alla cosa pubblica.

Ma da questo quadro, così drammaticamente negativo, Prodi trae conclusioni opposte. Sostiene che «così non si può andare avanti», ma rifiuta di farsi da parte. Quando dichiara che è pronto ad andarsene, lo fa con toni e argomenti da cui emerge la convinzione che soltanto lui, Romano Prodi, sia l’uomo adatto a salvare l’Italia. Non so se questa combinazione di pessimismo e fiducia in se stesso possa servire a recuperare consenso. Forse sarebbe stato preferibile prendere atto del voto, ammettere gli errori fatti, spiegare pacatamente al Paese che i tempi esigono decisioni impopolari, chiamare gli alleati a un maggiore senso di responsabilità. Dopo tutto Prodi non ha torto quando sostiene che un voto amministrativo non può segnare la fine di un governo espresso da una maggioranza parlamentare, sia pure modesta. Se i suoi giorni sono contati è meglio che cada in Parlamento con un voto da cui possano trarsi conclusioni utili per il futuro.

Se il presidente del Consiglio, con la sua intervista, voleva dire che il governo ha il diritto di governare, non rimane che prenderne atto e aspettare il seguito. Ma l’intervista non concerne soltanto il governo e le condizioni del Paese. Nell’ultima parte Prodi affronta il problema del Partito democratico e dell’uomo che dovrà guidarlo. Non approva coloro che vogliono eleggere subito, insieme alla costituente, anche il leader. Prodi sa che la scelta cadrebbe in questo momento su un’altra persona e sostiene che «l’idea di scindere il leader dal premier è assolutamente inaccettabile». E’ meglio quindi nominare un coordinatore o un reggente, destinato a farsi da parte quando, in prossimità delle prossime elezioni, i Democratici saranno chiamati a scegliere una persona che sia contemporaneamente leader del partito e candidato premier.

E’ probabile che Prodi non voglia avere di fronte a sé, di qui ad allora, un interlocutore forte e spesso scomodo. Ma sembra dimenticare che un partito nuovo ha bisogno, sin dal primo giorno della sua esistenza, di una guida entusiasta ed energica. I prossimi mesi saranno quelli in cui occorrerà disegnare gli apparati, scegliere i segretari locali, conciliare ambizioni contrastanti, creare le condizioni per una vita unitaria. E’ difficile immaginare che questo compito possa essere svolto da un reggente privo di autorità e di futuro.

E, francamente, è ancora più difficile comprendere perché le esigenze del partito debbano essere sacrificate a quelle di un uomo politico imbronciato e deluso che finirebbe per scaricare sulla formazione appena nata, insieme ai suoi personali malumori, le difficoltà del governo. Prodi ha avuto grandi meriti nella nascita del Partito democratico. Ne avrà ancora di più se lascerà che cammini con le sue gambe.

31 maggio 2007
 
da corriere.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2007, 11:52:00 am
Il prete politico aveva parlato dell´ex moglie del sindaco.

Dopo questa gaffe ha bloccato anche la "Costituente"

"Chiedo perdono a Cofferati"

Silvia Bignami


Il mea culpa di don Nicolini: riconosco di aver sbagliato  «Viviamo in una società che è più portata ad accusare che a chiedere scusa. Per me è il momento di chiedere umilmente scusa».

Fa pubblica ammenda, Don Giovanni Nicolini. Contrito, addolorato, il parroco della Dozza china il capo e domanda perdono all´amico Sergio Cofferati per quell´infelice riferimento alla ex-moglie e al fatto che «quando un uomo perde la donna della sua vita può incontrare difficoltà». Un accenno alla vita privata del primo cittadino - la cui nuova compagna aspetta un bambino - culminata in una lite al telefono e nel gelo tra i due. Una ferita non ancora sanata. Una pace non ancora fatta. «Sono ore difficili - dice Nicolini a occhi bassi - bisogna lasciarle passare. Certamente farò qualcosa per rimediare, ma la situazione è delicata, e va lasciata nell´ambito della riservatezza».

Parla a margine della Festa della Cgil, al Parco di Cà Bura, il parroco «politico» della Dozza, dove è intervenuto su un dibattito sull´immigrazione. Prima uscita pubblica, dopo lo scontro con il sindaco. «Io riconosco di avere sbagliato - esordisce - e mi assumo tutta la colpa di una ferita e di una offesa. Qui il fatto è che una persona è stata colpita al di là della mia volontà. Per questo è giusto che ora ci si fermi a riflettere, che ci sia una pausa». Pausa per tutto, compreso il battesimo della «Costituente per Bologna», l´iniziativa-movimento promossa dal parroco insieme alla rete solidale Bandiera Gialla della Cgil, che era fissata per sabato in parrocchia e che dopo la lite con il sindaco è saltata.
Per scelta di Don Nicolini, preoccupato che venisse interpretata come un ulteriore attacco al sindaco. Scelta definitiva? «Non lo so - dice Nicolini - ma per ora non si fa. Per me al primo posto c´è sempre il rapporto personale. Senza questo, non c´è nulla. Il resto passa in secondo piano».
Priorità assoluta, insomma, ricucire con il Cinese. Come, Don Nicolini non lo dice - «è riservato» - ma lascia intendere che tenterà, a voce o per iscritto, di ricomporre il rapporto, «con pazienza, perché quando si ha il sospetto di aver generato conflitto bisogna avere l´umiltà di cercare di recuperare». Posto che, conclude, «se non riusciamo a volerci bene, non si va da nessuna parte».

Resta dunque in stand-by il tavolo su «pace, solidarietà e lavoro» che avrebbe dovuto aprirsi sabato alla Dozza. Forse rinviato, forse cancellato. «In questo momento il clima non ci permette di continuare» ammette Fausto Viviani, della rete Bandiera Gialla della Cgil. Troppo grosso il rischio di essere «strumentalizzati» in funzione anti-Cofferati. Di passare per «l´ennesimo gruppo di dissidenti». «Noi non siamo come i 43 di Bonaga. Non ci poniamo sul piano politico. Il nostro era un semplice forum di discussione, un contributo alla città». Ma certe dichiarazioni di Don Nicolini, fanno capire quelli di Bandiera Gialla, hanno passato il segno: «Rifondazione parla di primarie, noi abbiamo parlato di sindaco donna. Siamo andati oltre». E allora indietro tutta. Anche se, aggiunge Cesare Melloni, segretario della Cgil bolognese «è un peccato, perché la Costituente non era un nuovo partito, ma una semplice riunione di cittadini. Una cena tra amici per parlare di lavoro». (31 maggio 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2007, 11:53:17 am
Intervista a Fabio Mussi pubblicata su La Stampa il 31 maggio 2007

Rimpasto subito, dimezzare i ministri

di Riccardo Barenghi


«E' una sconfitta elettorale brutta e seria, un colpo durissimo per tutta l'Unione e il governo.  Al Nord e non solo al Nord.  Bisogna reagire subito, reagire con un colpo di reni».   
<Mussi, ministro dell'Università e Ricerca, nonché leader della Sinistra democratica che ha appena abbandonato i Ds, non fa sconti.

E quale sarebbe il colpo di reni?

«Non possiamo stare fermi sulle gambe come il pugile che ha appena preso un cazzotto in faccia.  Dobbiamo muoverci.  E allora io chiedo un'immediata riunione di tutta l'Unione, insomma un vertice di maggioranza che lanci un forte messaggio al Paese».

Di messaggi ne parlano tutti i leader tutti i giorni, il suo quale sarebbe?

«Il mio è molto, molto concreto. propongo una ristrutturazione del governo, un vero e proprio rimpasto.  Ma con l'obiettivo di ridurre drasticamente il numero di ministri e sottosegretari.  Una pletora da vergognarsi mentre in Francia Sarkozy ha formato un esecutivo di 15 ministri, con dentro sette donne.  Questo è il modello che dobbiamo seguire.  Ma subito».

E lei sarebbe disposto a lasciare il suo ministero?

«Assolutamente sì, sono a disposizione.  Il lavoro che faccio mi piace, ma bisogna che ognuno di noi si metta in gioco se vogliamo reagire».

E questo sul piano dell'immagine, invece sulla sostanza politica cosa cambierebbe?

«Intanto si tratta di un'immagine piuttosto sostanziosa.  In ogni caso, mi pare che il governo abbia i motori fermi, trova grandi difficoltà a tenere aperto il dialogo con la società, a sollevare consensi e energie.  Penso allora che dovremmo cambiare radicalmente la linea di politica economica e sociale.  Contrastando la povertà, sostenendo il lavoro in tutte le sue forme (gli operai hanno salari da fame e i giovani sono tutti precari, ancor di più le donne), spingere sull'innovazione, cioè scuola, ricerca, tecnologia, e riformare la politica, dai suoi costi alla legge elettorale».

Lei parla di cambiamento radicale della politica economica, in altre parole il ministro Padoa-Schioppa deve lasciare?

«Io penso che lui abbia fatto un eccellente lavoro per risanare il bilancio del Paese, è la cosa migliore del nostro governo.  Ma non si può restare piantati a custodire il tesoretto, è un esercizio deprimente.  Il bilancio risanato non è un feticcio che sta lì e tutti lo guardiamo incantati.  Serve a fare altro, aiutare il lavoro, l'impresa, risarcire chi ha di meno, investire sulla formazione...  Dopo di che io non faccio questioni di uomini e di nomi, parlo di scelte politiche da compiere.  E che devono essere molto diverse da quelle compiute finora».

A proposito di scelte e di uomini, il premier Prodi nell'intervista di ieri a «Repubblica» accusa gli alleati di non lasciarlo governare e avverte: o decido io o me ne vado.

«Questa sua sfida agli alleati mi turba.  Il braccio di ferro non mi pare fertile, piuttosto cerchiamo di ritrovare una coesione ridefinendo il Programma, il Progetto che oggi non sono affatto chiari.  Io non so chi abbia impedito a Prodi di decidere, ma penso che per evitare mille voci che si sovrappongono dopo aver preso le decisioni, ne occorrono cento che parlino prima di prenderle, le decisioni.  Non esistono governi monocolore a voce unica, neanche negli Stati Uniti.  Governare significa comunque governare il pluralismo».

A proposito di pluralismo, lei e i suoi compagni ex diessini, abbandonata l'avventura del Partito democratico, avete già stampato 150 mila tessere della vostra Sinistra democratica.  Dica la verità: volete fare un altro partito?

«Premetto che i risultati elettorali ci danno ragione, il nascente Partito democratico proprio non attira.  Anzi perde.  Ma a me un altro Partito proprio non interessa, vogliamo misurare la nostra forza - e i primi segnali, anche elettorali, sono piuttosto incoraggianti - con l'obiettivo di unire la sinistra radicale.  Il vertice di domani (oggi, ndr) con Giordano, Pecoraro Scanio e Diliberto serve intanto a mettere giù un'agenda di questioni, soprattutto sociali, sulle quali muoversi uniti.  Ma il mio progetto è di arrivare a un'aggregazione di queste forze e di altre, penso anche ai socialisti di Boselli, che possa presentarsi insieme agli elettori già alle amministrative dell'anno prossimo».

 
31 Maggio 2007


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2007, 11:55:54 am
Le Considerazioni Finali di Bankitalia

Un programma per il governo

di Dario Di Vico


 
Nelle Considerazioni Finali che ieri Mario Draghi ha letto davanti a banchieri e imprenditori e a un ospite inatteso come il Governatore inglese Marvyn King, non compare mai la parola «tesoretto». E già questo è un titolo di merito, un contributo alla riqualificazione del lessico della vita pubblica italiana pericolosamente votato all'opacità. Siamo reduci da un voto popolare e invece di impiegare tempo e risorse a decrittare i messaggi che l'elettorato ha voluto mandare a chi lo governa, la maggioranza è in preda ai più vieti personalismi. Discetta sulle procedure per scegliere il leader o lo speaker del Partito democratico, ma in che direzione si debba guidare o cosa si voglia comunicare è tutto sommato un optional.

Draghi ha fatto l'opposto.

In una Roma fibrillante, che almanacca sulle evoluzioni del quadro politico e si interroga se una mozione di sfiducia presentata da un ministro (Di Pietro) nei confronti di un altro (Visco) possa mettere in mora il presidente del Consiglio che ha dato le deleghe ad entrambi, da Palazzo Koch è arrivato un severo richiamo al primato dei contenuti. Quello che il Governatore ha sciorinato è un vero programma, l'individuazione di alcune priorità di intervento valide per questo governo o per qualsiasi esecutivo dovesse presto o tardi succedergli. Meno tasse e meno spesa corrente, nuove regole per scuola e università (non più soldi), meccanismi di controllo e merito nelle amministrazioni pubbliche, riforma della previdenza e rilancio delle infrastrutture, riduzione del debito e robuste liberalizzazioni. È questa l'agenda Draghi, scelte sulle quali volenti o nolenti saremo giudicati dalla comunità internazionale e che, se ci fossero su piazza dei politici lungimiranti, potrebbero servire a costruire consenso stabile nel Paese.

Il giudizio implicito nelle parole del Governatore — che a scapito di equivoci su discese in campo presenti o future ha invitato ciascuno a restare «nel proprio ruolo» — è che queste priorità non fanno parte dell'agenda del governo Prodi e che ben poco di strutturale è presente nell'azione dell'esecutivo. È vero — e Draghi lo ha riconosciuto — che il centrosinistra ha avviato con successo il risanamento della finanza pubblica ma ciò è avvenuto soprattutto per effetto di un aumento della pressione fiscale, mentre l'ottica di medio periodo è completamente assente. Ha fatto impressione sentire denunciare dal banchiere centrale di un grande Paese industriale che un quindicenne meridionale vive oggi in condizione di «povertà di conoscenze» e stia così programmando per sé un futuro di indigenza economica. Non è la prima volta che il Governatore pone al centro della sua riflessione il ritardo di competitività della scuola italiana, ieri lo ha fatto con particolare convinzione. Così come è stato sicuramente efficace nel sostenere che un Paese che nel 2020 avrà 53 ultrasessantenni su 100 cittadini in età di lavoro (destinati a salire a 83 nel 2040) dovrà giocoforza spendere tantissimo in pensioni, sanità e assistenza. Potrà permetterselo solo se nel frattempo avrà abbattuto il peso del debito, altrimenti a pagare gli inevitabili tagli di prestazioni saranno proprio le fasce più deboli. Con tanti saluti a quella sinistra che in nome del risarcimento del proprio elettorato oggi si batte per non aggredire il debito e così finisce per consegnare un futuro a tinte fosche proprio agli outsider che dice di rappresentare. P.S. Draghi non ha eluso il nodo della proprietà di Bankitalia, definita «obsoleta» e quindi da superare. Il disegno di legge di riforma delle autorità che doveva essere una priorità del governo giace però da mesi in Parlamento.

01 giugno 2007
 
da corriere.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2007, 10:20:02 pm
Diario di una lunga notte

Agazio Loiero


All’inizio, quando Prodi si siede con quella faccia «un po’ così» solitamente corrucciata e piovorna che ogni tanto, nel corso della serata, s’illumina di un sorriso largo e irreale, l’atmosfera non promette nulla di buono. Ad appesantirla ancora di più ci prova la bassissima voce del premier che non arriva a coloro che non sono seduti intorno allo stretto tavolo nel «cerchio primaio». Non sarebbe una brutta cosa munirsi la prossima volta di un impianto d’amplificazione. Non risolverà i problemi politici che sono sul tavolo del Partito democratico ma aiuterebbe il clima della serata. Il primo incontro del comitato delle regole, si consuma come inizia, nella sostanza senza liti ma senza feste, con puntigliose delimitazioni di campo e di posizioni, idee e strategie ampiamente anticipate negli ultimi giorni e affinate nelle ultime ore, con un tentativo responsabile di mediazione fatto da Piero Fassino che intende contribuire a costruire un partito nuovo, europeo, moderno nei contenuti e nel modo di agire e di interloquire con la gente. Entrano le polemiche e le tensioni per le vicende elettorali recenti che hanno ringalluzzito la Casa delle Libertà, ma le liti restano fuori dalla porta.

In tanti sembrano preoccupati, in verità, più delle conseguenze che di quanto avvenuto. Mi chiedo se si può avviare una avventura politica destinata a innovare anche modelli di comportamento e di idee di governanti e governati, arrivando all’incontro come prigionieri impauriti di un risultato elettorale di sicuro negativo per il centrosinistra.

Nessuno l’altra sera ha negato la pesantezza del risultato elettorale ma qualcuno ha saggiamente ricordato che la vittoria dell’anno scorso aveva un margine esiguo: solo 24000 voti. E, comunque, pur tra le tante contraddizioni, la sconfitta di oggi ha a che fare più con le liti che si sono consumate nella coalizione che con l’azione di governo.

Mi viene in mente - e quando ho preso la parola l’ho pure ricordato - che la leggendaria legislatura 1948-1953, in cui Alcide De Gasperi pose mano ad un ampio programma di riforme, ricostruendo, insieme ai suoi alleati, il paese distrutto dalla guerra, si concluse con una sconfitta per il leader trentino nettissima: meno sette per cento. Il prezzo non fu pagato all’epoca a causa della cosiddetta «legge truffa» ma per alcune scelte radicali, di quelle che incidono nel tessuto economico e sociale di un paese. Ma le riforme, ieri come oggi, bisogna avere il coraggio di farle. Se però le riforme sono ampie e scuotono le viscere di una società, bisogna mettere in conto che chi le fa ne può pagare un prezzo alto. Non è sempre cosi ma spesso capita perché esse rompono incrostazioni, equilibri, nell’immediato bruciano attese e il loro profilo si vede, come nella pittura divisionista, mano mano che ci si allontana dal «quadro». Chi governa lo sa.

Inizia, comunque, il cammino del Pd. Circolano insistentemente verbi riflessivi come attrezzarsi, correggersi, prepararsi. L’obiettivo di un grande partito riformista è vicino, ma la strada da fare, insomma, si presenta faticosa. Si parla di speaker e si parla di leader. Di angustie contingenti e di orizzonti immensi. È dunque importante la difesa che il premier fa dell’azione di governo che dovrebbe appartenere a tutti. Non arriva qui - fa intendere il premier - a mani vuote.

È puntiglioso Prodi? Può essere. Il fatto è che diventa un disastro se di questo anno fossimo costretti a ricordare solo le liti tra partiti e nei partiti. Peccato che nessuno abbia fatto cenno a un’ipotesi di riforma costituzionale che insieme alla legge elettorale dovrebbe necessariamente riguardare i poteri del premier che oggi, fatte le dovute proporzioni, impallidiscono di fronte a quelle di un sindaco e di un presidente di una regione. E, comunque, quelle liti che peso hanno avuto sul risultato elettorale? Si sente, eccome, Franceschini che s’incarica di non mandare a dire all’opinione pubblica che l’Unione sta mostrando la sua faccia negativa ed ha bisogno di uno smalto nuovo. Ci vuole, dice, un leader di partito che non sia il capo del governo. Veltroni vorrebbe eleggerlo alla costituente. Parla Amato e sulla scia Morando, portano ossigeno alle ragioni di Prodi, mentre Rutelli dice «stiamo attenti», non dimenticare né sottovalutare quel che domenica è avvenuto.

Sì, c’è un colloquio difficile tra il governo e parte del Paese. Spesso la difficoltà diventa incomunicabilità. E qualche incomprensione si registra all’interno dell’Unione. Per il Pd sono entrambi un campanello d’allarme. Di certo sono un problema da affrontare. Il partito nuovo trovi le risposte, parli e faccia parlare la gente. Il 14 ottobre, data fondativa, non è poi così lontano e la road map lentamente si delinea. Parlano le donne. Rosy Bindi è d’accordo con Fassino. La Capirossi porta al tavolo le aspirazioni delle donne. La Finocchiaro non parla, sembra acquattata come in attesa di un sortilegio che potrebbe tra non molto mostrarsi in forma luminosa. L’eterna logica dell’Italia duale spinge a puntare su di lei. In conclusione il Pd non deve immolarsi al premier, ma non si può neanche pensare di poter disarticolare Prodi dalla creatura che ha immaginato e difeso a oltranza. Sarebbe un gioco che sa d’antico e che il paese non capirebbe.

Credo che alla fine dalla prima riunione dei 45 è arrivato un messaggio positivo: il futuro partito sarà rigorosamente federale. Lo hanno detto in forma chiara Prodi e Fassino e con loro tutti quelli che hanno preso la parola. Non è un risultato da niente.

Pubblicato il: 01.06.07
Modificato il: 01.06.07 alle ore 8.37   
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Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2007, 10:21:00 pm
Draghi non è Montezemolo

Angelo De Mattia


Non è vero che dalle Considerazioni Finali emerga, come ha detto il presidente della Confindustria, «un paese da molti anni bloccato». L’analisi è molto più articolata di come potrebbe immaginare o desiderare il presunto partito degli Ottimati, o dei sostenitori (inconsapevoli) della distinzione, cara a Platone, tra il sapere e il fare. Certamente, non è un paese che sta correndo sulla strada della crescita; eppure, dopo l’uscita dal ristagno, la risalita è stata imboccata. È il ritmo che ora è insoddisfacente. La trattazione - che non si traduce in una visione da complesso di Atlante con la pretesa di fornire le ricette solutorie di tutti i problemi della società civile e politica - non è semplificabile.

Blocchi, ritardi, manchevolezze e inefficienze sono argomentatamente segnalati. Permeano l'istruzione, l'organizzazione della giustizia civile, la pubblica amministrazione, e ostacolano la trasformazione produttiva. Ma del contesto istituzionale Draghi non tace i progressi compiuti, soprattutto con le liberalizzazioni e la decisione di affrontare il punto eternamente dolente della produttività della pubblica amministrazione.

Si registra un miglioramento dei conti pubblici, notano le Considerazioni finali. Esso, però, è dovuto al forte aumento delle entrate. Fino a quando ciò sarà sostenibile? Il livello eccessivo del prelievo - si sottolinea - scoraggia l'investimento in capitale fisico e umano. Occorre ridurre la spesa corrente: così si comprime il disavanzo e si abbatte il debito senza gravare sul carico fiscale. Il riequilibrio richiede un intervento deciso anche sul sistema previdenziale - finora mai affrontato in maniera definitiva - da attuare secondo la vigente normativa.

Un passaggio, questo, sul quale non mancheranno le riflessioni e anche una sana dialettica, alimentare la quale è anche tradizionalmente uno degli scopi di un documento organico e complesso qual è la relazione del Governatore: che ricorda comunque che le forme di flessibilità introdotte per l'utilizzo del risparmio previdenziale accumulato vanno nella giusta direzione. La crescita del debito pubblico non ha aiutato lo sviluppo del paese e lo ha privato di una adeguata dotazione di infrastrutture. Ma - anche qui i toni sono chiaroscuri - nonostante non siamo stati finora capaci di ridurre il debito, abbiamo almeno smesso di accumularlo.

A questo punto ciò che occorre non è rimuovere un blocco che non c'è, ma dare prova di una maggiore determinazione nel porre mano alle debolezze strutturali. Ritorna la sottolineatura delle riforme di struttura che già Guido Carli, circa 40 anni fa, propugnava per tagliare «lacci e lacciuoli». E tuttavia il paese non è fermo. Non è il «tornare a crescere» o il «paolino» «il tempo si è fatto breve» che fotografano una situazione come quella che stiamo vivendo. Siamo invece all'agostiniano «inizio dell'inizio», che esige una fortissima volontà perché si produca la necessaria accelerazione dello sviluppo.

Ma nel quadro del Governatore non è solo il «pubblico» che corre il rischio, mentre si è messo in cammino, che «le mort saisit le vif»; c'è un'ampia analisi destinata al «privato», di cui si avvertiva non poco il bisogno dopo la sostanziale assenza rimarcata nella relazione confindustriale. I ritardi gravi dell'adeguamento del sistema produttivo italiano ai mutamenti del contesto tecnologico e competitivo, la crucialità della dimensione delle imprese, oggi inadeguata ad affrontare i costi dell'innovazione continua, una crisi della produttività e della competitività che non può dirsi ormai alle spalle, i rischi dell'immobilismo della proprietà familiare che caratterizza ampie aree del nostro capitalismo, i conflitti di interesse sempre incombenti nella «terra degli incroci azionari»: sono, questi, i nodi anch'essi strutturali del nostro sistema economico.

In mezzo c'è il sistema bancario che ha segnato evidenti progressi, che ha operato due straordinarie, lodate operazioni di aggregazione (oltre quelle delle banche popolari) e che ora deve dimostrare che le concentrazioni si traducono in maggiore valore per gli azionisti e maggiore efficienza a servizio dei clienti. Accrescere la propria reputazione, migliorare la fiducia del pubblico, rispondere efficacemente alle innovazioni normative anche di origine europea, monitorare attentamente l'evoluzione degli hedge fund, prevenire i conflitti di interesse: sono i punti attraverso i quali passa la sfida del mercato e della regolazione che le banche devono accogliere puntando alla crescita e a un più avanzato rapporto con famiglie e imprese. Dal canto suo, la politica monetaria è rimasta favorevole alla crescita.

Ma della stessa Banca d'Italia Draghi, dopo aver esposto le innovazioni istituzionali e organizzative progettate e/o attuate, dice che la sua autonomia, pur protetta dall'ordinamento, può essere fragile se non sorretta dall'autorevolezza dell'analisi, ma anche dall'azione conseguente. Ognuno deve fare la propria parte.

È, dunque, un paese in transizione quello che si ricava dalle Considerazioni Finali, che sta trasformando le banche, che ha iniziato a rimettere ordine nella finanza, che sta tornando a crescere, tra non pochi problemi. Non interessa, qui, un rimpallo di carenze e manchevolezze tra «pubblico» e «privato»: e non s'intende «giocare» l'esigenza di riforme di struttura per l'uno contro l'analoga esigenza per l'altro, essendo strettamente connesse le responsabilità, le attribuzioni e le prospettive di deciso rilancio di entrambi. Simul stant, simul cadent. Non è la logica accusatoria-rivendicativa di questa o di quella componente che può fare accelerare il percorso di crescita. Mai come ora vale l'apologo di Menenio Agrippa. La relazione di Draghi ha fatto chiarezza. Le risposte ora le deve dare la Politica, con la maiuscola, e l'economia.

Vi è un bisogno di coralità, di coesione, del «fare» per definitivamente decollare. Si deve, soprattutto, rispondere all'imperativo, che ognuno dovrebbe avvertire, di accrescere il tasso di occupazione, specie delle donne, come sottolineato nella relazione. Riformare e al tempo stesso introdurre fattori di equità e di giustizia retributiva è ineludibile.

Pubblicato il: 01.06.07
Modificato il: 01.06.07 alle ore 8.38   
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Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 04, 2007, 12:22:00 am
3/6/2007 (8:9) - RETROSCENA

Cdl delusa: Quirinale sempre contro
 
«Alla fine l'incontro non ci sarà, tanto è inutile»

UGO MAGRI


Chiunque venga interpellato, tra i personaggi più in vista del centrodestra, si confessa deluso da Giorgio Napolitano. «Troppo comodo», è lo sfogo collettivo, «cavarsela alla Pilato dicendo: la rimozione del generale Speciale l’ha decisa il governo, io non c’entro». Da Berlusconi in giù, sono invece tutti convinti che il Presidente della Repubblica c’entri, eccome.Omeglio: c’entrerebbe, come sostengono apertis verbis i leghisti Calderoli e Castelli, se non fosse «a sovranità limitata» e volesse interpretare con equità il suo ruolo super partes. Ma «siccome Napolitano stesso chiede di non essere tirato in ballo, e scambia il Quirinale per un pensionato, allora non ha più nemmeno significato insistere per ricevere udienza».

Già, perché l’orientamento che sta maturando ai vertici della Cdl, dopo la tensione di ieri col Quirinale, è quello di lasciar perdere Napolitano. Di rinunciare cioè a chiedere un incontro solenne con il Presidente della Repubblica sul caso Visco-Speciale, «perché con queste premesse sarebbe solo una reciproca perdita di tempo». L’Udc è contraria, come ha detto il segretario Cesa. Addirittura, argomentano ad Alleanza nazionale, «tornare dal Colle a mani vuote darebbe alla battaglia di opposizione un senso di inutilità. Meglio dunque evitare». Berlusconi sembrava ieri mattina più dubbioso, anche perché tra i suoi c’è chi gli dice «vai» e chi «non andare », cosicché lui muta opinione a seconda degli interlocutori. Macon gli alleati che frenano, e l’unità del centrodestra da ricostruire, impossibile che il Cavaliere voglia salire al Colle da solo.

Di certo, almeno agli occhi di Berlusconi e dei più fidi scudieri, il Capo dello Stato non ha fatto una gran figura. Confida Schifani, presidente dei deputati azzurri, che «Napolitano è calato di alcuni punti nella nostra considerazione. Ogni giorno non perde occasione per esternare su argomenti come la riforma della legge elettorale. Come può chiamarsi fuori di punto in bianco?». Nonostante il prodigarsi di Gianni Letta per «oliare» i rapporti con il Colle, permane un senso di diffidenza quasi insuperabile. Chissà se è vero lo sfogo attribuito a Berlusconi: «Comunque la giri, da Scalfaro a Ciampi a Napolitano, il Quirinale finiamo per ritrovarcelo sempre contro. E pure stavolta è andata così...». Però gli umori sono questi. Accusa Cicchitto, numero due del partito: «Qui è accaduto un fatto che forse qualche consigliere del Colle sottovaluta: l’opposizione tutta insieme ha parlato di emergenza democratica. E-mer-gen-za! Dinanzi a un’accusa di tale gravità, sostenuta da un fronte compatto, un garante della Costituzione non può girarsi dall’altra parte». Perfino un portavoce misurato come Paolo Bonaiuti osserva secco che «d’ora in avanti agli appelli al dialogo, da qualunque parte provengano, risponderemo: non si può dialogare con chi taglia impunemente la testa al comandante della Guardia di Finanza».

La prima conseguenza si avrà al Senato. «A questo punto bloccheremo tutto, non faremo passare più niente», annuncia il leghista Roberto Calderoli. Che già mercoledì prossimo, quando il «caso Speciale» arriverà nell’aula di Palazzo Madama, conta di esibirsi in una delle sue celebrate «trappole». In pratica la mozione del centrodestra che punta a sfiduciare Visco verrà ritirata e sostituita da un’altra mozione, di fiducia alla Guardia di Finanza e ai suoi vertici. «Se la votano è un colpo al governo», si frega le mani soddisfatto Calderoli, «se la bocciano dichiarano guerra alla Finanza. A quel punto le Fiamme Gialle dovrebbero dimettersi in blocco...». Verrà contestata la destituzione del comandante generale pure sul piano della legittimità giuridica, in attesa dei ricorsi che già si annunciano. E quel vecchio navigatore di Pisanu sta operando dietro le linee per spingere qualche «malpancista» dell’Unione a passare il fronte.

Ma il vero fine stavolta non sarà la «spallata ». Ammette Schifani: «Mi sembra difficile, a sinistra si sono ricompattati». L’obiettivo reale è tenere alto il livello dello scontro in vista dei ballottaggi, tra 10 giorni. Non per niente il braccio di ferro con la maggioranza si annuncia sulla richiesta di diretta televisiva e sullo spostamento d’orario del dibattito: dalla mattina, quando in tivù ti guardano solo le massaie, a poco prima dei tigì, con il massimo dell’audience.

da lastampa.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 04, 2007, 10:53:34 pm
Un caso Speciale

Furio Colombo


Chi ha buona memoria e non ha mai smesso - come è giusto in ogni Paese libero - di avere a cuore le sorti della democrazia, dovrà oggi aggiungere alle stagioni di rischio attraversate da questa Repubblica e note con i nomi del principe Borghese e del generale De Lorenzo, il nome del generale Speciale. Si tratta infatti della terza prova di forza e inizio (o progetto calcolato) di scontro tra potere politico e settori militari della Repubblica. Una differenza allarmante, è che la Repubblica ha affrontato i primi due rischi di minaccia militare contro la politica in un clima di solida e vasta presenza popolare nei partiti protagonisti della vita in Parlamento, con una parte della stampa capace di avvertire tempestivamente del pericolo, e senza che vi fossero legami evidenti e clamorosi (come questa volta) fra alcuni militari ribelli e una parte consistente della politica. Questa volta il generale che ha deliberatamente ignorato gli ordini ricevuti, ha compiuto, anche in modi deliberatamente maleducati, un atto di insubordinazione insieme, si deve credere, ad un gruppo di altri alti ufficiali, si è presentato di fronte all’ex primo ministro Berlusconi durante la parata del 2 giugno e ha esclamato, con intenzionale teatralità «sempre agli ordini, presidente». In quel momento pezzi importanti del piano P2 si sono saldati. Berlusconi tiene ancora sotto intimidazione la parte di media che non possiede direttamente (ma è difficile dire, data l’estensione dell’azionariato che controlla, di quello che "persuade" e delle infinite "scatole cinesi" attraverso cui circola la sua ricchezza), usa senza finzioni le sue televisioni, fonda, attraverso una signora ricca, petulante e - a parte i capelli - del tutto inesistente, detta "l’erede", un nuovo "giornale della libertà" foglio del regime che verrà se l’esempio golpista dovesse diffondersi.

Annuncia clamorosamente, il proprietario di tutti i media privati italiani, l’arrivo della «tv della libertà», «la tv della gente fatta dalla gente», niente di più sudamericano, lungo un percorso che va da Peron a Chavez, sempre al di fuori di ogni regola democratica e costituzionale.

È evidente quello che è accaduto, e sta ancora accadendo. Poiché nonostante l’incapacità espressiva e comunicativa del legittimo governo Prodi, la spallata non c’è stata e la forza della opposizione distruttiva lanciata da Berlusconi paralizza le Camere ma non è riuscito ad affondarle, poiché la formula esclusiva della piazza, benché tentata due volte, con e senza vescovi, non ha rovesciato il Paese, occorrevano i militari.

Chi scrive crede fermamente che tutti gli altri vertici militari italiani che hanno giurato fedeltà alla Costituzione, non si uniranno alla mossa illegale, incostituzionale e - rispetto alle regole democratiche - estrema del generale Speciale. Ma il generale Speciale, «sempre agli ordini», ha dato il via al suo piano ben preparato, che appare in curiosa e interessante sintonia con il piano «Peron-Chavez-Brambilla» di Silvio Berlusconi.

Purtroppo, nonostante l’evidente striatura di ridicolo che attraversa la vita e le opere (quelle pubbliche, politiche) di Silvio Berlusconi, la vicenda non fa ridere. Ricorda i film di Tognazzi, quando Berlusconi, il 2 giugno, si fa circondare da «ali di folla» mentre va alla parata (famiglie di militari appostate per l’evento, ci dicono alcuni giornali, ma certo non c’erano i familiari dei morti di Nassiriya). E l’effetto Monicelli scatta in pieno quando l’ex comandante della Guardia di Finanza si fa deliberatamente sentire da tutti mentre grida «sempre agli ordini». Ma in quella frase il generale ci dice a quali ordini si ubbidisce (quelli di Silvio Berlusconi) e a quali ordini si disubbidisce, marcando il tono di ribellione e disprezzo: quelli del vice ministro Visco, notoriamente uno dei personaggi da umiliare e da abbattere, nella visione berlusconiana di un mondo di liberi ricchi possibilmente fuori da ogni legalità e sgombro di tasse.

Che cosa sia accaduto e di quanti gradi ciò che è accaduto, protagonista il gen. Speciale, si separi dalla legge e dalle regole democratiche, lo ha raccontato in modo incontestabile Eugenio Scalfari su La Repubblica di domenica. Il generale Speciale, nega, resiste, si oppone, non risponde, fa ascoltare in viva voce le telefonate del suo legittimo superiore, per poi passare i materiali direttamente al Giornale di Berlusconi («sempre agli ordini»). E quando il dissenso è clamoroso e inaccettabile per il legittimo capo e responsabile politico (il ministro) il generale mostra di non vedere il solo onorevole percorso a disposizione di un militare che rifiuta gli ordini: dimettersi.

Invece oppone ribellione, si arruola apertamente nella politica della parte avversa al governo (ovvero rivela i veri legami) pretendendo di restare generale comandante di una delle tre forze di polizia del Paese.
La destituzione che segue è inevitabile e legittima. Già il presidente emerito Cossiga aveva chiaramente ammonito: «Un generale può dimettersi ma non può disobbedire». Il caso dunque è tra i più gravi nella storia della Repubblica, anche perché alcune delle conseguenze avvelenate e perverse possono ancora verificarsi.
Il mondo di Berlusconi è fittamente popolato di personaggi stravaganti, di una tipologia non disponibile fuori dal mondo del realismo magico sud americano. Ma quando uno di questi personaggi è generale, è armato, è circondato da altri generali, comanda una parte delle forze armate del Paese e si esprime come se fosse doppiato da Bondi, Baget Bozzo e (nei suoi giorni peggiori) da Tremonti (si veda l’intervista sul Corriere della Sera del 3 giugno) il gioco cambia e la farsa si avvicina bruscamente al dramma.

Tutto ciò non sottintende che, nel confronto fra un politico e un militare, il politico abbia per forza ragione. Ripeto Cossiga: «Il militare obbedisce o si dimette. Non gli è consentita la sfida». Ma il politico risponde senza rete al Parlamento e, se del caso alla autorità giudiziaria. Mai attraverso la ribellione concertata fra militari e partiti politici avversi. Mai facendosi rappresentare dalla furente dichiarazione di guerra dell’ex ministro degli Esteri Fini, che, a Santa Margherita Ligure, di fronte all’assemblea dei giovani industriali, rifiuta in modo insultante un dibattito col ministro Bersani, accusato di essere complice di Visco. Evidentemente per Fini si possono liberamente licenziare sui due piedi giornalisti e autori di libera satira. Ma non si può nemmeno parlare con il membro di un legittimo governo che ha dimesso un generale. Perché dei giornalisti e dei civili in genere - ci dice, con un curioso automatismo del passato - Gianfranco Fini puoi fare quello che vuoi. Ma se tocchi un generale «è una porcata».

È bene dirlo. È un linguaggio golpista. Per fortuna a quel linguaggio il presidente della Repubblica ha risposto con fermezza.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 04.06.07
Modificato il: 04.06.07 alle ore 8.35   
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Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 06, 2007, 04:24:47 pm
Se la politica diventa giovane

Giovanni Berlinguer


Caro Direttore,

leggendo i commenti sulla politica d’oggi, sento dire spesso che i giovani non la frequentano, anzi la respingono. Avrei voglia di rispondere, in questi casi, che la colpa è della politica, perché essa allontana i giovani, non essendo i suoi metodi molto esaltanti ed i suoi spazi molto accessibili.

Vorrei anche aggiungere che essi hanno qualche ragione per diffidarne, a causa dell’incuria, delle omissioni e delle distorsioni, perpetrate nei confronti delle loro esigenze, che hanno caratterizzato quasi tutti i recenti governi, dalle carenze del sistema scolastico alla moltiplicazione del lavorio precario e a un sistema pensionistico che rischia di escluderli.

Malgrado ciò, vedo crescere rapidamente, tra giovani e giovanissimi, col contributo di buone volontà o di istituzioni locali, un interesse diffuso per la cultura. Solo negli ultimi mesi vi sono state originali manifestazioni nei campi più disparati, presentate con rigoroso livello congiunto a forme spettacolari, che sono state seguite in modo attento e appassionato da migliaia di giovani. Mi riferisco al festival delle letterature di Mantova, alle lezioni di economia e finanza svolte a Trento, alle scuole aperte di matematica, alle lezioni di storia di Roma, dalla nascita ad oggi, presentate nel grande Auditorium, insufficiente a raccogliere tutti. Mi riferisco anche al nascere di “scuole politiche”, avviate da associazioni o da partiti, e a personalità politiche che svolgono conferenze itineranti con temi e toni che vanno oltre le polemiche quotidiane e che possono costituire un antidoto alle invadenti, devastanti e scoraggianti esibizioni televisive dei soliti noti.

Da questi eventi maggiori, e da molteplici notizie e sensazioni minori, traggo l’impressione che il divorzio tra cultura e politica, durato ormai un ventina d’anni, possa avviarsi a una qualche ricomposizione; e ne vorrei dare una personale e recente testimonianza.

Mi riferisco al Progetto Gutemberg della città di Catanzaro, quinta edizione, intitolato «Fiera del libro, della Multimedialità e della Musica».

Avviato nel 2003 dal Liceo classico Galluppi e dal suo preside Armando Vitali, esteso poi a molte scuole della Calabria e ai ragazzi delle media, ha compreso concerti e spettacoli, mostre di pittura, di fotografia, attività medianiche e multimediali, mostre didattiche, e soprattutto libri e libri da leggere e da commentare. La formula è stata molto semplice: proporre libri meritevoli di attenzione alla discussione degli alunni (o accogliere le loro proposte), per poi lavorarci insieme nelle classi, studenti e insegnanti, e arrivare infine al confronto diretto con gli autori e con altri interlocutori.

Dal 28 maggio al 1° giugno la città è stata animata dalle scuole, e le aule sono state terreno delle molteplici domande, contestazioni, proposte dei giovani, sugli argomenti più disparati: la Palestina e il Medio Oriente, l’incontro tra civiltà, i codici matematici, il futuro del clima, la bioetica, la democrazia che non c’è, la Costituzione fra memoria e futuro, le città della Magna Grecia, il rapporto fra musica e letteratura, la memoria critica del comunismo, l’etica e la politica in Platone, e così via per cinque giorni, seguito ogni sera da concerti e spettacoli.

Tutto ciò mentre sentiamo ripetere come una filastrocca per i bambini che «si allarga la frattura tra i cittadini e i palazzi». Ma vorrei dire che ci sono palazzi e palazzi. Questione di contenuti e di contenitori, di valori e di persone, di pratiche partitiche e canali di partecipazione. La scuola, il suo essere momento fondamentale della costruzione della coscienza e del saper stare insieme come cittadini, torna ad essere un avamposto decisivo per sedimentare un comune senso civico fatto di diritti e doveri, di libertà e rigore. Nel mondo dell’educazione e della cultura, ma potrei dire le stesse cose per la sanità, situazioni ed esperienze come quella di Catanzaro sono meno isolate di quanto possa apparire a prima vista.

Davanti agli studenti e ai loro insegnanti ho sentito quanto sia insieme urgente e possibile ristabilire legami di fiducia tra lo Stato e i cittadini. Non è vero e non è giusto affermare che le istituzioni sono popolate solo di inquisiti e di sfaccendati, mentre le persone libere e perbene - la società civile per capirci - vengono emarginate, oppure preferiscono starsene alla larga. La legge elettorale del centrodestra, con i suoi meccanismi di “nomina degli eletti” da parte dei vertici di partito, è stata come il sale sulle piaghe. I partiti si sono ancor più arroccati, chiusi al dialogo, sordi alle richieste di pulizia, trasparenza ed efficacia che vengono in particolare dai lavoratori, dai giovani e dalle donne.

I “costi della casta”, per dirla con la fortunata espressione del libro di Rizzo e Stella, sono sotto gli occhi di tutti, e ben vengano tutte le misure per tagliare sprechi e ridurne il peso sui bilanci pubblici. Ma penso, e mi auguro, che si debba innanzitutto cambiare il clima di questo nostro paese diviso e arrabbiato. Un clima che premi la passione, la voglia di far bene, che restituisca il gusto di dire la propria, di contare, di esserci. Che dia senso e futuro all’entusiasmo che ho colto in quei giovani che si sono appassionati a leggere un libro, vedere uno spettacolo, discuterne tra loro e confrontarsi con gli autori e gli attori, che erano lì, a portata di mano e di voce, e non freddi e distanti come i leader dei partiti ospiti in questo o quel salotto televisivo.

Pubblicato il: 06.06.07
Modificato il: 06.06.07 alle ore 8.50   
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Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 07, 2007, 10:22:45 am
POLITICA
IL COMMENTO

Il sintomo dell'infezione
di GIUSEPPE D'AVANZO


LO SPETTACOLO andato in scena al Senato è una danza macabra per il Paese, autolesionista per il Palazzo. Il governo salva la ghirba. La maggioranza c'è e si mostra compatta nell'approvare il comportamento dell'Esecutivo nell'"affare Speciale".

Tirato il sospiro di sollievo, appare difficile tirare avanti come se non fosse successo niente o poco. Perché quel che è accaduto, in questi giorni, è ben più grave di una indecorosa rissa politica. È uno scricchiolio della nostra democrazia. Un comandante generale della Guardia di Finanza - appena ieri "sempre agli ordini" della discrezionalità di Giulio Tremonti e oggi scorretto, sleale, opaco con il nuovo governo, come sostiene il ministro Padoa-Schioppa - scatena un conflitto contro l'Esecutivo in carica.

E collabora, laboriosissimo, alla preparazione di una trappola politica, favorita da qualche mossa grossolana del vice-ministro Visco e soprattutto, diciamo così, dall'amore per il quieto vivere del governo.

L'interesse pubblico di questo affare non è nel cinismo del generale - fin troppo tardi rimandato a casa - né nella sua spregiudicata affezione alle fortune della destra a cui ha piegato la funzione pubblica e la dignità di soldato. Quel che più conta e preoccupa è che l'opposizione ritiene di usare questo imprudente ferro di bottega per manomettere l'equilibrio politico e disarcionare il governo eletto appena un anno fa.

Che il centro-destra di Silvio Berlusconi ci riproverà è, purtroppo, una facile previsione. Il programma immediato dell'opposizione, a giudicare questo "caso Speciale", sembra prevedere la sostituzione del confronto politico con una "guerra" di rivelazioni scandalistiche, notizie manipolate, campagne di stampa alimentate da segmenti di apparati dello stato che si mettono al servizio di un interesse politico.

Questa strategia l'abbiamo sotto gli occhi da anni. Le bufale Telekom Srbija e Mitrokhin non sono state altro. Altre bufale possono venire. Sono in giro nel sottosuolo del "mercato della politica" muffe e tossine che basta raccattare e gettare in faccia all'avversario accompagnando il gesto con un'adeguata grancassa mediatica. L'alambicco può distillare umori maligni a ogni passaggio critico del dibattito pubblico. Se ne è avuta una conferma, appena ieri, con il frammento di un dossier calunnioso per Massimo D'Alema.

Organizzato da una grande agenzia di investigazione americana (Kroll) sulla base di "informazioni" raccolte dall'intelligence italiana, è stato diffuso dagli spioni della Telecom e consegnato - accreditato e ingrassato a dovere - di nuovo alla nostra intelligence. Dio solo sa che ci ha fatto o intendeva farne. Un test in più (come se ce ne fosse bisogno) della presenza nel sottosuolo del Palazzo di un network legale/clandestino incardinato in ambienti del Sismi di Nicolò Pollari, nella Security della Telecom, in agenzie d'investigazione private, disponibile a un lavoro di pressione, condizionamento e ricatto.

Gattino cieco ieri mentre il network prosperava, il centro-sinistra oggi guarda al dito e non vede la luna. Indeciso a tutto, tentato dal compromesso, diviso al suo interno, debilitato dal tarlo ossessivo della sua debolezza, confonde l'allarme pubblico per quella presenza illegittima con una critica ai suoi passi. Vede fantasmi ad ogni angolo. Non si risolve ad intervenire con decisione, come dovrebbe, là dove si addensano le ombre e le propaggini di quella minaccia che ha lasciato colpevolmente incubare. Non si accorge che l'"affare Speciale" è un sintomo. Quanto meno della paralisi in cui può essere precipitato il governo e il Paese.

Ma, più probabilmente - e peggio - è l'annuncio di una stagione infetta che soltanto una decisione irresponsabile può consentire all'opposizione di sposare e soltanto alle timidezze della maggioranza di non prevenire con energia.

Il sistema politico - l'intero sistema politico, il centro-sinistra come il centro-destra - appare sordo e cieco dinanzi al pericolo, prigioniero di una litigiosità autoreferenziale, che non sembra mai incontrare il bene pubblico e l'interesse generale. Nessuno attore politico - se non qualche mosca bianca - sembra comprendere che la radicalità del conflitto ingaggiato non avrà un solo vincitore, ma tutti perdenti.

La crisi di credibilità verso le élite di governo - ha ragione D'Alema - può spingere il Paese verso una deriva dove le quote di sfiducia per la politica (oggi, sette italiani su dieci) non possono che aumentare. Non si può che essere scoraggiati e preoccupati. La qualità del dibattito, vissuto quotidianamente come uno "scontro tra civiltà", spinge gli uni contro gli altri a testa bassa. Persuade i due schieramenti a ritenersi e a proporsi come il solo luogo abitato da opinioni politiche compatibili con il quadro democratico. Una convinzione che lascia immaginare la propria sconfitta come un evento catastrofico.

Questa contesa che non prevede prigionieri caccia in un canto la politica, le responsabilità pubbliche, le sfide e le urgenze del Paese. Lascia emergere soltanto il peggio. Fino a lasciarsi tentare - come è avvenuto al centro-destra di Silvio Berlusconi - di servirsi delle rivelazioni truccate di un generale per abbattere un governo. Ci fermeremo qui? Nell'interesse di tutti, dei cittadini e di chi li governa, conviene fermarsi qui. Le mura di una democrazia così giovane non sono indistruttibili.


(7 giugno 2007) 

da repubblica.it


Titolo: Re: POLITICA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 07, 2007, 03:34:54 pm
Il retroscena

Tra i dalemiani spuntano i sospetti «Qualcuno trama contro di noi»


ROMA — D'Alema è da Prodi a Palazzo Chigi, quando al Senato si riunisce una sorta di comitato d'emergenza dei Ds. Nelle stanze della capogruppo dell'Ulivo Finocchiaro, Fassino è a colloquio con il tesoriere del partito Sposetti e con il senatore Calvi, che è l'avvocato storico del partito. La giornata più drammatica per la Quercia è appena iniziata: sulla Stampa i dirigenti diessini hanno appena letto di un dossier in cui si parla di presunti conti segreti di D'Alema in Brasile, mentre dal Corriere sono venuti a sapere che a Milano il gip Forleo — a cui è affidata l'inchiesta sulle scalate bancarie, compresa quella di Unipol a Bnl — intende togliere il segreto sulle intercettazioni telefoniche che riguardano molti politici, compresi i vertici del Botteghino: da Fassino a D'Alema a Latorre.

Sposetti non c'è più quando Mastella entra nel salottino della Finocchiaro. Il ministro della Giustizia scorge la maschera terrea del leader ds, ma è solo Calvi a parlare. Nel mirino dell'avvocato c'è la Forleo: «Lei non può mettere le intercettazioni a disposizione, senza aver ottenuta una preventiva autorizzazione dalle Camere. Questa è una grave lesione delle prerogative parlamentari». Il Guardasigilli ascolta, poi vede che gli sguardi si concentrano tutti su di lui, e ne intuisce il motivo. «Sia chiaro — dice Mastella — che non muoverò un dito finché non verrò investito dai vertici istituzionali della faccenda. Allora, solo allora, eserciterò i miei poteri di ministro della Giustizia per verificare cosa sta accadendo a Milano». Arriva Latorre, il vice capogruppo dell'Ulivo al Senato chiede di appartarsi con Fassino, e Mastella si congeda: «Siamo intesi. Aspetto che intervengano i presidenti delle Camere, non mi metto a fare ispezioni».

Il leader della Quercia assicura che sarà così. Il comunicato congiunto di Marini e Bertinotti verrà diramato a tarda ora, ponendo fine alla giornata particolare dei Ds. È chiara la priorità della Quercia, preoccupata dalla mossa del gip di Milano sulle intercettazioni, più che dal dossier sul presunto conto segreto di D'Alema in Brasile. Ma ciò che mette davvero in allarme il Botteghino è l'offensiva dietro cui intravvede una manovra politica contro il ministro degli Esteri. Da quale parte venga l'attacco lo spiega Cossiga, che racconta di aver «parlato con i Ds»: «Tranne quel comunicato striminzito della Margherita, non è uscita una sola parola di solidarietà verso D'Alema. Perciò i diessini sono furibondi. Solo che non possono protestare. E contro chi? Potrebbero mai protestare contro Prodi, Rutelli e Parisi? Potrebbero mai protestare contro la magistratura che negli anni di Mani Pulite aveva "sempre ragione"? È evidente chi ha montato la campagna contro D'Alema, perché sanno che lui è l'unico a poter dialogare con l'altra parte».

La parole dell'ex capo dello Stato s'incrociano con le voci secondo cui sarebbe dovuto intervenire Fassino per ottenere da Rutelli un comunicato di solidarietà. Ed è un fatto che per tutto il giorno Prodi non abbia rivolto attestati pubblici di vicinanza a D'Alema. Paradossalmente più sincero e solidale è sembrato Berlusconi, che — commentando con i suoi la vicenda — ha detto: «Un conto è la scontro politico, altra cosa sono i veleni, i dossier, il killeraggio. Io l'ho vissuto sulla mia pelle e non lo auguro a nessuno». C'è nei Ds e in principal luogo nei dalemiani quel sospetto che Buttiglione arriva a denunciare nell'Aula del Senato, durante il dibattito sul caso Visco: «Stia attento D'Alema, perché questa è una manovra che viene dall'interno del Pd, per rendere più forti i prodiani e più debole la Quercia». Ed è lunga la lista degli oppositori che solidarizzano con il titolare della Farnesina, puntando l'indice su palazzo Chigi: «Siccome D'Alema è il più bravo — spiega il forzista Dell'Utri — siccome è l'unico con cui si possa dialogare, l'unico che potrebbe aiutare a risolvere i problemi del Paese, viene tenuto sotto stress. L'attacco è portato dai suoi alleati. Lo dico perché lo so per certo».

Latorre si limita a raccogliere il gesto dell'opposizione, ma non si avventura a condividerne le spiegazioni: «È chiaro che l'offensiva fatta di veleni contro i Ds, produce un ulteriore indebolimento del quadro politico- istituzionale, che rischia di far collassare il sistema. Perciò tutti — ed è qui che lascia trasparire il fastidio — ripeto tutti, si devono far carico del problema». Ma mentre il braccio destro di D'Alema calibra le parole, l'ala della Quercia vicina al ministro degli Esteri ribolle. «Arriva il fango e provano a farci fuori così», sussurra il potentissimo deputato siciliano Crisafulli: «Utilizzano falsi dossier e le intercettazioni inutili, dove c'è qualche battuta e qualche malaparola ma niente di più. Il fatto è che questa situazione politica non possiamo reggerla a lungo. Magari un paio di mesi, non oltre. C'è chi parla già di un governo con pochi ministri, con Prodi o senza Prodi non si sa. No, non c'è Berlusconi dietro questa manovra. C'è chi vale più di lui e di tutti i suoi alleati messi insieme: c'è la Chiesa che si è rotta con 'sta storia dei Dico; gli ex dei servizi che vogliono farcela pagare; gli americani che sono stanchi di dover scendere a patti. Eppoi c'è quella testa... lucida di Visco, che ha dato un alibi a Speciale per fare la parte della vittima, mentre bisognerebbe ripulire quel covo che è la Guardia di Finanza. Il bello è che tutto viene messo in conto a D'Alema invece che a Prodi».

Crucianelli, che alla Farnesina lavora gomito a gomito con il ministro degli Esteri, spiega che «c'è un clima devastante, con il rischio che l'Italia precipiti in uno stato da Paese dell'Est. E qui, se arriva la valanga, travolge tutti. Chiaro?». Il messaggio è rivolto certo al Cavaliere, ma c'è da scommetterci che fa fischiare le orecchie al Professore. D'altronde, Pisanu lo ricorda bene cosa accadde alla Dc, «me li ricordo i tempi in cui qualcuno nel partito pensava di potersi salvare gettando in mare qualcun altro. Alla fine non si salvò nessuno. Perciò va salvaguardata la politica». Ma oggi come allora manca per ora nella maggioranza un sussulto garantista, e i sospetti reciproci tra Prodi e D'Alema di manovre avverse, offrono un'immagine da ultimi giorni di Pompei. Caldarola — che di «Massimo» resta «amico, specie in giorni come questi» — dice che «per fermare la deriva del '92 servirebbe uno spirito garantista. Bisogna però ridare autorevolezza alla politica, e l'unico modo è che maggioranza e opposizione agiscano all'unisono. L'unica via d'uscita è un governo di larghe intese. Il centrosinistra ormai è finito».

Francesco Verderami
07 giugno 2007
 
da corriere.it


Titolo: La replica delle Regioni alla denuncia di Gian Antonio Stella
Inserito da: Arlecchino - Agosto 02, 2007, 11:20:41 pm
La replica delle Regioni alla denuncia di Gian Antonio Stella

Sprechi e rimborsi, i politici si dividono Il governatore toscano Martini al giornalista: «Alcuni paragoni inattendibili».

Gariglio, Piemonte: «Ognuno si è fatto le sue leggi» 
 

MILANO - Stipendi d’oro o retribuzioni tutto sommato ordinarie. Il mestiere di consigliere può rendere parecchio o molto poco. A seconda della Regione di appartenenza. Così, come evidenziato dall’articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere, il presidente del consiglio regionale pugliese guadagna quasi il triplo del suo omologo umbro. Mentre un consigliere marchigiano può contare su un pacchetto di diarie e rimborsi - esentasse - tre volte più basso d'un pari grado piemontese. Ma perché queste difformità? Perché esistono Regioni virtuose che tengono i costi sotto controllo e altre meno attente e scrupolose?

AUTONOMIA - «In teoria - spiega Davide Gariglio, presidente del Consiglio regionale del Piemonte - le difformità esistono perché esiste un'autonomia prevista dalla Costituzione e ogni Regione si è fatta le proprie leggi in materia. L'importante è che i dati sulle retribuzioni dei consiglieri e dei presidenti siano stati resi pubblici: finora solo il Piemonte l'aveva fatto». Fino a quando la Conferenza dei consigli regionali, nei giorni scorsi, non ha optato per la trasparenza, pubblicando i dati sul sito www.parlamentiregionali.it. «Le differenze tra le regioni sono evidenti, anche se sotto la voce "stipendio massimo” è una cifra puramente teorica, relativa alla retribuzione un consigliere che abita nel luogo più lontano, viaggia ogni giorno e svolge attività istituzionale che comporta il massimo dei rimborsi. E comunque ritengo che i cittadini abbiano tutto il diritto di conoscere queste cifre perché ognuno possa giudicare…». Come dire che la pubblicità e la trasparenza può convincere i meno virtuosi a fare un passo indietro. «Ogni consiglio regionale prenderà le decisioni che vuole prendere. Noi in Piemonte abbiamo avviato da tempo un processo di contentimento della spesa. E presto pubblicheremo anche i dati sulle consulenze e poltrone nei consigli delle società partecipate», compresi i gettoni di presenza e gli emolumenti.
 
MARTINI - E proprio questo genere di autonomia è quella che rivendica anche il presidente della Regione Toscana, Claudio Martini. Perchè se è vero che essa «non deve essere usata per creare discrepanze dalle Regioni» è anche vero, dichiara Martini, che «in molte Regioni le iniziative per ridurre i costi sono già in essere, sono da tempo state assunte. Come presidente - spiega Martini - ho presentato un piano di riorganizzazione della macchina regionale che prevede, già dal prossimo autunno, il taglio di trenta enti». Ma dal governatore della Toscana arriva anche un affondo sulle valutazioni fatte da Stella sul Corriere. «Alcune sono inattendibili - dice Martini -. E spiega: si mette in croce ad la Valle d’Aosta sul rapporto abitante consigliere. Ma è normale la Valle d’Aosta è piccolissima».

DISPARITA' - Alle critiche di Martini si aggiunge la «sorpresa» del presidente del Consiglio regionale della Toscana, Riccardo Nencini per il tenore di alcune indennità. Facciamo dei nomi? «Per esempio Puglia, Abruzzo Val d'Aosta - spiega Nencini - sinceramente non mi aspettavo certi valori». Ma come si possono livellare - possibilmente verso il basso - i costi della politica nei parlamentini delle Regioni? «Abbiamo già fatto una proposta - dice Nencini - parametrare tutte le indennità e retribuzioni sulla Regione che adotta i parametri più bassi: ovvero la Toscana». Senza diarie, rimborsi spese e sprechi che gonfiano i costi della politica regionale. «Abbiamo calcolato che si risparmierebbero tra 30 e 40 milioni di euro all'anno. E - puntualizza il presidente - daremmo anche un bellissimo segnale al Paese». Perché queste difformità? Ci sono due ragioni – spiega Nencini - La prima è che nel 1970, quando le Regioni nacquero, tutti i consigli regionali si diedero un parametro comune per l’indennità da consigliere regionale, che era il 65% di quella parlamentare. Poi, nel tempo, molte Regioni lo hanno modificato, alzandolo. Alcune addirittura sono arrivate al 100%. Un’altra ragione sono i benefit collaterali: alcune ne hanno moltissime, altri di meno.

SARDEGNA - La Sardegna, in base ai dati forniti dalla Conferenza dei consigli regionali, si gode il bilancio più alto. Ma il presidente del consiglio sardo Giacomo Spissu mette in chiaro che la cifra record (quasi 95 milioni di euro, ndr) è la diretta conseguenza della «lunga vita » della Regione. «Il bilancio - dice Spissu - è quello di una Regione a statuto speciale dal 1948, che ha quindi una vita, un numero di dipendenti e di consiglieri che portano nel bilancio costi non paragonabili a quelli di Regioni nate trent'anni fa. Va male - prosegue ironico - sommare le mele con le pere».

VIRTUOSI - L’Umbria contende alla Toscana la palma di Regione più virtuosa, almeno in termini di indennità attribuita ai consiglieri regionali: «Non ci sono né gettoni né benefit oltre all’indennità – spiega Mauro Tippolotti, presidente del consiglio regionale dell’Umbria – Anzi chi è assente ingiustificato dai lavori istituzionali vede calare l’indennità, che in Umbria abbiamo commisurato a un ventesimo della retribuzione dei magistrati di Cassazione». Ma la riduzione dei costi della politica passa anche da altre misure: «Abbiamo già operato importanti razionalizzazioni nella struttura delle agenzie e della partecipate regionali».

SOCIETA' PARTECIPATE - «Ridurre gli emolumenti ai consiglieri regionali? Facciamo pure, ma allora riduciamo anche quelle dei parlamentari», alle cui retribuzioni gran parte delle indennità regionali sono commisurate. E' la proposta di Andrea Buquicchio, capogruppo del l'Italia dei Valori nel parlamentino del Piemonte. D'altra parte «anche le Regioni fanno leggi, e si lavora sodo». Ma Buquicchio resta scettico circa gli effetti della misura: «Non penso che lo sperpero si riduca in questo modo, è un po' demagogico». Più utile sarebbe intervenire sugli «apparati di sottogoverno», enti e società partecipate dal pubblico. «In Piemonte la holding regionale, la FinPiemonte, controlla 70-80 società, in ognuna di esse c’è una pletora di rappresentanti dei partiti - presidente, vice presidente e consiglieri - nelle società energetiche, dello smaltimento dei rifiuti, dell’acquedotto e via dicendo. E’ quello il livello, che non ha nulla a che vedere con la democrazia, dove si deve intervenire».

Cristina Argento
Paolo Ligammari

02 agosto 2007
 


Titolo: Epifani: «Vogliono delegittimarci, ma reagiremo» (autocritica seria quando ??)
Inserito da: Arlecchino - Agosto 05, 2007, 11:24:45 pm
Epifani: «Vogliono delegittimarci, ma reagiremo»

Oreste Pivetta


Caro Epifani, ci sentiamo accerchiati? La firma sotto il protocollo, le riserve a proposito del protocollo, Fassino che non comprende le riserve, la sinistra e i riformisti, i metalmeccanici e Bonanni.

Rifaccio la domanda, sfogliando l’ultimo numero dell’Espresso, quello con la copertina dedicata a Epifani, appunto, ad Angeletti e a Bonanni...

Accuse. Sotto il volto dei tre segretari il titolo è «L’altra casta». E ancora «Privilegi. Carriere. Stipendi. E fatturati da multinazionale. I conti in tasca ai sindacati». Nelle pagine interne, poi, un lungo elenco di malefatte, una somma di delitti sotto il segno del potere.

Che dire del titolo, “L’altra casta”. Senza dimenticare quello all’interno, “Così potenti, così arroganti”... Vi sentite percorsi da un brivido di indignazione?

«Sì, siamo indignati. Siamo indignati per un’operazione a freddo, senza argomenti, senza nessuna indagine, tra distorsioni intollerabili. Come se il proposito fosse: abbiamo fatto i conti con la politica, adesso tocca al sindacato. In un’altra intervista all’Unità, avevo accennato al rischio di un diciannovismo di ritorno... ».

Spieghiamo “diciannovismo”. Come novant’anni fa.

«Cioè, il tentativo di mettere alla gogna le istituzioni: prima si pensa alla politica e ai partiti, poi si passa al sindacato. Che senso vuole avere la sistemazione dentro una casta di sindacalisti e sindacati? Perché piegare a questo disegno la storia? Cito l’intollerabile dimenticanza che sta all’origine di quanto si scrive a proposito di patrimoni immobiliari. Una dimenticanza che rimuove la nostra storia e il fascismo, perché si cancella il fatto che il cosiddetto regalo delle sedi fasciste ai sindacati fu un risarcimento minimo di quanto i sindacati patirono dal punto di vista politico, umano e materiale nel ventennio. Vogliamo ricordare quante sedi sindacali vennero incendiate, devastate, distrutte? Occultare o dimenticare sono procedimenti che dovrebbero impensierire chiunque abbia coscienza democratica e quindi anche un settimanale come l’Espresso che nella costruzione di quella coscienza ha avuto sicuramente parte. Se tutto si rimuove, se tutto si azzera, si finisce con lo smarrire il senso di tante parole come “storia”, come “diritti”, come “solidarietà”... E naturalmente come “sinistra”... ».

Con argomenti che abbiamo letto e riletto sui fogli del centrodestra: i soldi dei Caf...

«Come se li avessimo cercati noi, i Caf, come se comunque non rappresentassero un servizio pubblico, utile a tanti. Un calderone inaccettabile, per concludere che il sindacato gode di un eccesso di potere. Se penso a questa accusa in rapporto al ruolo che abbiamo esercitato durante la complicata trattativa di questi mesi, devo dedurre che proprio questa forza espressa nel confronto con il governo e con le altre parti sociali si vuole colpire. Questa forza e questa autonomia... È evidente che qualcuno coltiva l’idea di una società semplificata, dentro la quale i poteri forti si contrappongono agli individui, senza più corpi di mezzo, senza più partiti o sindacati a mediare, fornendo alla affermazione del più forte sul più debole un modello tecnocratico, secondo un’ideologia liberista che riduce il mondo al mercato, spazzando via regole e rappresentanze, considerate un impiccio, un intralcio».

Se questa è la dimensione dello scontro, mi pare che la miopia non faccia difetto alla nostra sinistra, molto critica soprattutto dentro casa...

«C’è il vizio di cercare gli avversari tra i vicini, mentre probabilmente gli avversari stanno da un’altra parte. Ma in questo modo si smarrisce il senso di un’appartenenza e questo dovrebbe far riflettere la sinistra...»

Quando litigare diventa una malattia...

«Lo chiarisce Bersani...»

Quando sostiene che la parola sinistra non deve essere lasciata incustodita. È una raccomandazione che rivolge al nuovo Partito democratico...

«E a ragione. Sembra passare uno slogan: quello della contrapposizione tra sinistra riformista e sinistra radicale. Mentre dovrebbe finire in primo piano ciò che nella diversità delle posizioni comunque significa “sinistra”: e cioè solidarietà, senso della giustizia, difesa dei più deboli, concezione del lavoro. Valori, che mi auguro possano appartenere a un campo più vasto, ma che sono ancora il tratto della sinistra attraverso il quale ricostruire un linguaggio comune che sia libero da chiusure, schematismi, ideologismi. Ne dovrebbero discendere programmi e scelte, che, al di là delle articolazioni, riconducono a questo linguaggio. Dovrebbe valere anche per il futuro Pd».

Speriamo. Veniamo al presente del protocollo e della firma. Firma con riserve. Fassino ha detto di non capire. Non c’è il rischio che siano in molti a non capire, di fronte a un accordo giudicato comunque “buono”?

«Prima viene il dispiacere perché con poco sforzo si sarebbe potuto garantire un profilo riformatore più alto... Se penso a quei quattro punti che abbiamo indicato... Lo staff leasing: c’era l’impegno del governo a cancellarlo. La previdenza agricola: un progetto pronto è stato accantonato. Il lavoro a tempo determinato: si deve capire che bisogna affrontare il problema del “termine”, altrimenti si apre la strada a tutti gli abusi... Sono obiettivi importanti, ma non sono una montagna insuperabile per il governo. Spero che una risposta serena alle nostre domande comunque arrivi e mi pare che la discussione nel corso del consiglio dei ministri sia stata interessante, dal nostro punto di vista».

Queste le critiche. Anche la decontribuzione degli straordinari. Poi viene il buono... Sulle pensioni siamo tutti sensibili.

«Guai a sminuire il valore di questa intesa. L’aumento delle pensioni, l’aggancio al costo della vita... Cose note. Soprattutto bisogna ricordare che è il primo accordo che pensa ai giovani, dal riscatto della laurea alla misura dei coefficienti di rivalutazione. Per questo mi chiedo perché rinunciare a un passo avanti sui contratti a termine. Per questo, per tutte queste buone cose, malgrado le critiche, abbiamo firmato, assumendoci una responsabilità di fronte ai nostri iscritti, ai lavoratori, al paese. Come non hanno fatto tante altre grandi associazioni di interessi... Il sindacato ha cercato la difesa di un interesse collettivo, che riguarda il paese nella sua complessità, con un’attenzione che dovrebbe essere di tutti. Il senso della concertazione dovrebbe vivere in questa attenzione comune».

Che pensa allora del sì di Montezemolo, a condizione che non si tocchi nulla?

«Mi fa piacere, anche se non capisco il vincolo della immodificabilità. È assurdo pensare che non si possa più toccar nulla... Anche nel merito di questioni molto particolari. Ad esempio: non capisco perché Confindustria debba difendere lo staff leasing, non capisco perché non debba mirare ad una soluzione legislativa per il lavoro a termine, argomento che si ritroverà di fronte ad ogni discussione contrattuale, perché si capisce che non accetteremo mai situazione in cui il contratto a termine non torni alla sostanza chiara di contratto a termine».

Con la firma e con le riserve, andrete a chiedere il voto di lavoratori e pensionati...

«Il voto di tutti, insieme con Cisl e Uil. Vogliamo che la consultazione sia un momento di grande democrazia, di partecipazione, di coinvolgimento, perché non chiediamo soltanto un voto. Chiediamo di parlare e di spiegare, ma anche di ascoltare: vogliamo ascoltare le ragioni del malessere...».

Ma la Cisl si vorrebbe rivolgere solo agli iscritti.

«Legittimo che chieda un voto per sé. Del resto si devono riconoscere sensibilità diverse. Noi, unitariamente, vorremmo qualche cosa di più di un semplice voto. E torno da capo. Torno agli attacchi rivolti ai sindacati, ai tentativi di delegittimazione. Ai quali si deve rispondere».

A ridar forza al sindacato sarà anche la battaglia d’autunno. Si parla di iniziative diffuse, di una manifestazione a Roma...

«Vogliamo riproporre il tema dei migranti. In Parlamento stazionano quattro disegni di legge. Tutti fermi, mentre mi pare che non si possa attendere di fronte a un fenomeno sempre più vistoso, sempre più presente nella realtà italiana. Poi ci sono i giovani, poi c’è il lavoro precario. Tante iniziative locali, una grande iniziativa unitaria, la manifestazione... Queste sono le mie proposte».

Leggendo i giornali, al di là della “casta”, si scoprono contrasti dentro la Cgil, trame tra un sindacato e l’altro. Immagine non proprio di solidarietà.

«Ogni qualvolta la politica è scossa da un terremoto, anche il sindacato ne risente. Ma è sbagliato raccontare la discussione all’interno dei sindacati e della Cgil come fosse una trasposizione banale della discussione politica. La Cgil ha dentro di sé una forte convinzione della propria autonomia».

Ma della divisione tra cosiddetta “sinistra” e “riformisti” sapete qualche cosa anche voi.

«Ricordiamo che c’è stato un voto e che non è stato unanime. Una parte del direttivo ha votato contro. Rinaldini si è astenuto. Penso che questi compagni sbaglino, ma è legittimo sbagliare. La linea è però quella indicata dal voto».

Qualcuno, però, scrive che le parti si sono rovesciate: la Cgil in balia di questa insinuante e pervasiva sinistra, che pare il demonio e ha messo nell’angolo i riformisti. E rimpiange i tempi di Cofferati, quando le distinzioni erano nette.

«Mi sembra un’analisi profondamente sbagliata. che fa torto anche a Cofferati. Il pluralismo è un bene».

E comunque, si vedrà in autunno.

«Da una grande consultazione ci aspettiamo una grande legittimazione del sindacato, proprio quando il sindacato è sotto schiaffo. Recuperare una grande convalidazione democratica: questa è la sfida».

Pubblicato il: 05.08.07
Modificato il: 05.08.07 alle ore 9.08   
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Titolo: Alfredo Reichlin La congiura del silenzio
Inserito da: Arlecchino - Agosto 07, 2007, 11:29:34 pm
La congiura del silenzio
Alfredo Reichlin


I complicati patteggiamenti tra i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita volti a condizionare la composizione della futura Assemblea Costituente del Partito Democratico non mi piacciono ma non mi stupiscono più di tanto. Ciò che invece mi preoccupa, e molto, è altro. È il silenzio. La impressionante mancanza di un qualsiasi dibattito sulle idee, sulla sostanza del nuovo partito, sui suoi fondamentali. Eppure l’abbiamo avuta la prova che le idee contano e di queste c’è bisogno come il pane. Si è visto quale boccata d’ossigeno ha rappresentato il discorso di Veltroni al Lingotto.

È incredibile. Ciò a cui stiamo assistendo non è riducibile a un episodio, sia pure importante, della cronaca politica italiana. È un passaggio della storia repubblicana. E, aggiungerei, anche della storia di molti di noi come persone, di quelli almeno che la politica l’hanno vissuta come milizia e come passione. Proprio chi ha molto ragionato sulla necessità di questa scelta cruciale non può non sentire tutta la responsabilità che ci assumiamo. Io non so se la sinistra è sottorappresentata. So però che questo non è solo un problema di numeri. Ciò che è preoccupante è che non si stanno facendo i conti con qualcosa che non è riducibile a una lista di ecologisti o di ex gruppettari ma è una forza che è stata così importante non solo per il cammino che ha fatto compiere alle classi subalterne ma per il segno profondo impresso sulla vicenda della nazione: la difficile costruzione dell’Italia Repubblicana.

La forma partitica e la cultura politica che avevano caratterizzato questa sinistra si erano andate esaurendo? Penso di sì. E penso che ne dovevamo prendere atto. Ma ciò (per piacere, basta con i pentimenti) non per rassegnazione bensì per l’idea stessa storicista e laica che il meglio del Pci ci aveva insegnato: secondo cui un partito non è una categoria dello spirito e la sua identità è la sua funzione storica. Per cui il solo modo perché questa forza possa rivivere non come semplice nome ma come fattore politico culturale determinante è che resti al centro della lotta di oggi tra progresso e reazione. Questo è il punto. Non ridursi a una piccola fetta di nostalgici ma ricollocarsi in una formazione politica nuova, più capace di rappresentare l’Italia moderna e di tenere aperta la prospettiva riformista di governo, ben inteso il governo come ricambio della classe dirigente del Paese non dei titolari delle poltrone. Ecco perché mi colpiscono certi silenzi. Questa non è una pratica burocratica che si chiude, né una conta tra capi corrente. È un passaggio storico. E se io sento la necessità di salvaguardare ciò che si chiama sinistra non è per una qualche nostalgia del passato ma perché penso che proprio la novità e la grandezza delle sfide del presente ci spingono a ripensare il «che cosa sono» gli italiani per chiederci se ci sia in essi qualcosa che ci consente di guardare con più fiducia a un futuro così carico di interrogativi.

Ecco la necessità che sento di dare un contributo alla nascita del Partito Democratico con uno scritto più ampio di cui questo è solo un anticipo. Ma un contributo vero, non verticista, il contributo di chi cerca di ragionare su una nuova sintesi e non su una annessione. E perciò si chiede in che modo una sinistra nuova possa essere parte integrante del Partito Democratico. Lo è - io credo - per una ragione che non appartiene al passato ma al presente. Sono le «cose», le grandi cose che chiedono un soggetto politico nuovo una forza che non può essere moderata per la semplice ragione che la sua stessa esistenza dipende dalla capacità di compiere una «rivoluzione democratica». E ciò per un fatto essenziale. Perché il Paese non può più essere governato dall’alto e dal sistema politico e dal tipo di organizzazione della cosa pubblica ereditato dalla Prima Repubblica. Questo è il punto a cui siamo arrivati, il solo modo di evitare una risposta autoritaria è affrontare il fatto dominante (che poi è il problema posto da Veltroni) che consiste nella circostanza che il Paese si sta disarticolando. E ciò, sia nel senso che la distanza tra Nord e Sud sta diventando abissale, sia nel senso che il capitale sociale fisico ed umano si sta impoverendo. Sembriamo ricchi perché una società di vecchi ha difeso corporativismi, rendite e privilegi ponendo sulle spalle delle nuove generazioni il pagamento di un debito immenso (il secondo del mondo) che si è accumulato senza costruire scuole, laboratori scientifici, servizi moderni, ferrovie, interventi per salvaguardare l’ambiente, la cultura, la bellezza del Paese.

Prevedere il futuro dell’Italia non è semplice. Ma le cifre e i dati obiettivi sono impietosi. L’Italia negli ultimi anni è scivolata da un livello del reddito per persona superiore del 10% a quello europeo a un livello che è già caduto sotto quella media. Non ce ne siamo accorti ma è impressionante come ci siamo impoveriti. La Spagna sta per superarci. La Francia, l’Inghilterra e la Germania si allontanano sempre più da noi. Non basta quindi la ripresa in atto. La nostra crescita è infatti del 2% ma la loro è del 2,5%. Per riagganciarli dovremmo produrre il 3% e questo per la bellezza di almeno 20 anni consecutivi se volessimo tornare allo standard di 10 anni fa quando marciavamo in testa. Questa è la dimensione del problema. L’alternativa è scivolare in una condizione di esclusione dai grandi circuiti dello sviluppo moderno, condannando i nostri figli a non contare niente. Oppure per i migliori (come già avviene) a crescere e studiare all’estero, a cercare di affermarsi altrove. Come nel Seicento.

Il fatto davvero drammatico è che la politica (in concreto questa architettura della politica, la cultura di fondo del ceto politico, gli strumenti e i linguaggi con cui comunica con la gente, il modo di essere dei partiti) non è in grado di riorganizzare le forze del Paese e di guidarle nel futuro. Per tante ragioni ma essenzialmente niente affatto per quelle che continuano ad alimentare le nostre dispute (perché ci siamo spostati troppo a destra oppure troppo a sinistra oppure perché non parliamo al centro). La verità, mi sembra, è che la politica dovrebbe collocarsi altrove: là dove sia possibile rappresentare i nuovi bisogni e i nuovi diritti della gente cessando di essere come ora un sottosistema provinciale di una economia globalizzata.

Si dirà che non è realistico porre tematiche di questo genere nel dibattito sul nuovo partito, io penso il contrario. A me non sembra realistico che un partito possa nascere senza aprire un dibattito sulla necessità di un nuovo pensiero il quale comincia a rispondere a quel vasto mondo soprattutto giovanile al quale non interessa tanto difendere un grande passato quanto ritrovare la ragione stessa per cui ci si schiera a sinistra, che dopotutto è quella di credere che è possibile e giusto lottare per un mondo migliore.

Il Partito Democratico deve quindi essere, direi che è costretto ad essere (pena l’irrilevanza) un partito nuovo. Dice Scoppola: una realtà diversa. E perché diversa? Perché si pone problemi, affronta sfide così diverse da quelle su cui si modellarono e si combatterono tra loro le grandi forze politiche del passato così da motivare le ragioni di un nuovo riformismo e di un nuovo processo unitario. Di questo stiamo parlando. Di una svolta rispetto alla vecchia storia, non di rimettere insieme i cocci di ciò che resta del Pci e della Dc.

Pubblicato il: 07.08.07
Modificato il: 07.08.07 alle ore 10.13   
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Titolo: Di Pietro e l’inglese maccheronico (SEMPRE MEGLIO DI DROGA E... ALTROOOO)
Inserito da: Arlecchino - Agosto 09, 2007, 05:03:13 pm
«Mi serve per le donne»

Di Pietro e l’inglese maccheronico «Se mi danno dell'ignorante mica mi offendo.

In vacanza non ho portato libri»   


ROMA — «To break the eggs in the basket». «Chi parla con il pizzo fa lo sputo storto». Scalfarotto lo punzecchia con l’inglese, «rompendo le uova nel paniere» al sito bilingue del ministro, lui risponde con un proverbio in molisano, qui riprodotto in un tentativo di traduzione. Non è facile stare dietro ai sintagmi e alle articolazioni linguistiche di Tonino Di Pietro, soprattutto ora che è tornato per le vacanze nella sua terra, a Montenero di Bisaccia, e si abbevera alla lingua madre. Il telefonino squilla a vuoto per ore e del resto non dev’essere facile sentirlo, stando appollaiati su un trattore. «È stata una giornata importante oggi, sono riuscito a falciar via le cannucce infestanti». Cannucce? «Sì, quelle piccole canne, le pianticelle invasive che si attaccano al terreno, finiscono nei fossi e fregano la terra al contadino. Oggi sono in piedi dalle sei, ma sono soddisfatto. Anche se ho fatto il furbo: mio padre lavorava di roncola, io me ne sono stato comodo sul trattore».

Inutile dire che le critiche all’inglese maccheronico non sono arrivate fino a qui. Ivan Scalfarotto ha collezionato alcune perle: it doesn’t exist (non esiste), to reflect (riflettere) e, appunto, to break the eggs in the basket (rompere le uova nel paniere). I blog ci si sono divertiti, come già fece Massimo Mantellini (manteblog) che tradusse il celebre «che c’azzecca» con «what is the connection with». Qualcuno, per spiegare gli errori, ha ipotizzato l’uso di un traduttore automatico, ma Di Pietro nega: «Ma no, è una ragazza del mio staff che se ne occupa». Il ministro confessa di non avere grande dimestichezza con l’inglese: «A mio tempo ho imparato qualcosa, il necessario: per parlare, viaggiare e ammiccare alle ragazze». Come si ammicchi in inglese non è facile da intuire, ma Di Pietro è così e la sua forza è anche nel dipietrese, impasto linguistico di nuovissimo conio.

Qualcuno sospetta che con i «che c’azzecca» e i «mannaggia a san Pucicchio» lui ci marci un po’: «E ci marciassero pure gli altri se ne sono capaci» ribatte. Tutta questa smania di coglierlo in fallo non fa che stimolare nuove arditezze linguistiche: «Questi Scalfarotti non hanno altro a cui pensare? È gente supponente, arrogante, convinta di sapere tutto, che parla in questo italiano fluido, perfetto, con un intersecarsi di belle frasi. Che dici bravo, ma poi ti fermi e pensi: emo’, che ha detto?». Lui invece no, lui parla chiaro: «Non sarà un italiano perfetto, ma si capisce. Io mi spiego con il ceppetto». Ecco. «Il piccolo ceppo, la parte finale della quercia, netta, chiara». C’è un metodo, anche: «Quando mi trovo davanti un concetto, utilizzo sempre la stessa tecnica: dico esattamente il fatto, senza interlocuzioni». Non come i «saccentoni», e qui si torna al proverbio molisano, che «parlano con la punta della lingua, tra i denti, fanno il muso a pizzo e poi gli esce fuori uno sputo storto.

Provi lei a parlare così e se ne accorge. E’ gente che alla fine della giornata deve riempirsi d’aria, sennò non sente nessun suono». Nell’universo linguistico di Di Pietro c’è spazio per il dialetto—«lo parlo ancora con i miei» — e per il latinorum: «Me ne hanno riempito la testa, in seminario. Ma è utile, eh. Senta qui: mater certa est pater numquam. Vallo a spiegare in italiano». Ma c’è spazio anche per qualche neologismo: «Ogni tanto le parole le invento, mi diverto pure». Le accuse di ignoranza non lo infastidiscono: «Ma no, ci scherzo sopra, solo chi è davvero ignorante si offende».

Del resto, ha molto sgobbato nella vita: «Non ho avuto tempo e modo di imparare tutto. Ho fatto il perito industriale, metà serale e metà no, ero in Germania. Poi mi sono iscritto all’università a 25 anni, con un figlio di tre anni. Ho cercato di recuperare, ma più di così non potevo fare». Però, invece di «sputare storto», Di Pietro ascolta e impara: «Sono una spugna, assorbo tutto. Come i giapponesi. Sono straordinari. Si sono messi a studiare le Fiat, le Bmw, e guarda cosa ti hanno combinato». Quanto ai libri, non è che abbia molta familiarità: «L’ultimo che ho letto? Mi faccia pensare...ah ecco, La casta di Rizzo e Stella. Un libro che fa riflettere». E quest’estate? Prodi si è portato Harry Potter eBertinotti il Capitale: «Mah, tutta questa gente che ha bisogno di acculturarsi leggendo tre paginette al giorno d’estate...non contesto eh...io mi sono portato una valigia piena di faldoni dal ministero. E poi, altro che Capitale: io ho conme la falce e ilmartello,ma quelli veri, per lavorare nei campi».

Alessandro Trocino
09 agosto 2007
 
da corriere.it


Titolo: Intervista a Michela Brambilla, fondatrice dei Circoli della libertà
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2007, 11:59:29 pm
POLITICA

Intervista a Michela Brambilla, fondatrice dei Circoli della libertà

Ha depositato e ceduto a Berlusconi il marchio Pdl: "Tra un mese il primo meeting"

"Così ho vinto l'esame di Silvio e a ottobre rilancio la mia sfida"

di CONCITA DE GREGORIO

 

"NIENTE domande personali. Basta parlare della mia vita privata. Tanto si sa già tutto e poi a chi interessa?".

Basta con le calze autoreggenti, sì. Domande politiche. Michela Vittoria Brambilla, da quattro anni presidente dei giovani di Confcommercio e da pochi giorni titolare del marchio "Partito della Libertà". Lei come ha conosciuto Berlusconi e quando?
"Molti anni fa lavoravo a Mediaset, allora si chiamava Videonews. Facevo la giornalista. L'ho incontrato per la prima volta nella sua veste di imprenditore tv. Conoscersi però è un'altra cosa. È successo molto tempo dopo, un anno fa scarso".

Berlusconi a Telese ha raccontato che lei è stata scelta per guidare i Circoli della libertà essendo risultata la migliore tra i candidati. Di che tipo di selezione si è trattato?
"Non la definirei una selezione. L'autunno scorso mi stavo occupando di una Finanziaria molto punitiva per la categoria che rappresento. Lei sa che questo governo ha escluso la Confcommercio dal tavolo della concertazione per un pregiudizio ideologico contro i commercianti. Sono diventata catalizzatore di un malcontento diffusissimo e radicato. Al meeting di Rimini Berlusconi aveva parlato per la prima volta della sua intuizione: i Circoli della libertà. Alla prima occasione l'ho avvicinato e gli ho detto: i Circoli esistono già nella realtà, basta dargli forma. Così mi sono offerta di costituire l'associazione nazionale per coordinarli. Oggi sono oltre cinquemila".

Gira voce che siano venti, invece. Chi li cerca non li trova.
"Se si riferisce all'articolo pubblicato da Diario le rispondo che mi fa molto piacere: ci attaccano perché ci temono. Entro l'anno avremo un circolo in ciascuno dei novemila comuni d'Italia. Ad ottobre faremo a Roma il meeting nazionale".

Quanti delegati?
"Ancora non posso essere precisa, ci stiamo lavorando".

C'è una struttura di vertice? Lei presidente. Poi?
"No, non è una organizzazione piramidale. Io sono il presidente nel senso che rispondo personalmente alle centinaia di mail quotidiane che mi arrivano da ogni genere di persona, giovani e anziani, elettori del centrodestra e delusi del centrosinistra. Coordino, tengo i contatti coi presidenti di circolo".

Che sono? Può dare qualche indicazione sulle persone?
"Ma sono nomi che non vi dicono niente: pensionati e studenti, imprenditori e lavoratori autonomi. Gente non famosa".

Disillusi dalla politica, voti da recuperare.
"Non è disamore per la politica. È disinganno per questa politica. Per le bugie di questo governo. L'antipolitica è figlia delle promesse non mantenute. Crescono le tasse, aumenta la spesa pubblica, peggiorano i servizi. Ecco che monta l'impotenza".

Berlusconi dice che lei è una "brava figlia". Dice che le darà un sottosegretariato all'Ambiente.
"Ci ho parlato poco fa. Non ha detto così, ha smentito. A me comunque non interessano le poltrone. Nella mia azienda ne ho di più solide di quelle che potrebbero offrirmi".

Al principio dicono tutti così, poi cambiano idea.
"Cambiare idea non è un delitto. Comunque io non considero il tema".

Ha detto che non s'interessava di politica, in un'intervista del 2004, e che aveva votato scheda bianca. E' stato Berlusconi a redimerla?
"Rettifico quell'intervista: non ho mai votato scheda bianca. Sono sempre stata vicina al centrodestra".

Cattolica?
"Sì"

Non è sposata col padre di suo figlio. E' favorevole ai Dico?
"Abbiamo detto niente vita privata".

Vorrei sapere cosa pensa dell'opportunità di regolare le unioni di fatto da politica, da cattolica e da persona che ne costituisce una.
"I diritti individuali sono già garantiti. L'unica cosa che i Dico avrebbero portato sarebbe stata la pensione di reversibilità per i conviventi, che d'altra parte il sistema pensionistico nazionale non sarebbe stato in grado di sostenere. I figli, il diritto alla visita in ospedale: tutto questo già c'è e quel che non c'è si può correggere caso per caso. Esistono le scritture private. Stiamo parlando di una questione che riguarda una minoranza del paese, non sono queste le priorità di un governo".

Che sono invece?
"Sicurezza, riduzione della spesa pubblica, politica fiscale"

Pensa che la legge sull'aborto, la 194, sia da cambiare?
"Non è materia da dare in pasto alle logiche di schieramento. E' un tema delicato, bisogna rispettare la libertà di coscienza".

Ma la legge è da cambiare o no?
"Riprendere in mano un testo datato ed approfondire i temi può essere positivo".

Come risolverebbe la crisi Alitalia?
"Bisognava fare un piano industriale e vendere un anno fa. Il rinvio ha fatto crollare il mercato azionario a danno dei poveretti che ci avevano investito e fatto aumentare i debiti inutilmente".

Come riformerebbe le pensioni?
"Non si può abolire lo scalone. E' una misura che il sistema non sostiene ed è inoltre a vantaggio dei soliti noti. Bisogna pensare alle nuove generazioni. Le revisioni dei coefficienti vanno a danno dei giovani".

Uomini e donne devono andare in pensione ad età diverse?
"In teoria no, ma nella pratica le condizioni di vita e lavoro di uomini e donne sono ancora molto diverse. Riparliamone quando la parità sul lavoro sarà effettiva".

Cioè tra parecchio. Oggi Forbes fornisce una classifica in cui Marina Berlusconi è la donna più potente d'Italia. Lei a che posto è?
"Non credo nella differenza di genere e mi fanno ridere le classifiche. S'immagini l'effetto che mi fa una graduatoria delle donne potenti".

Come si fa a non credere alla differenza di genere? Non è un dato di fatto?
"Intendo che non m'interessa sapere se una persona capace è uomo o donna. Se poi vogliamo proprio parlare di donne non sarò io a stupirmi che ce ne siano di competenti e preparate. A destra come a sinistra".

Lei disse che apprezzava Finocchiaro, Melandri e Prestigiacomo...
"Di donne preparate e capaci in politica ce ne sono moltissime".

Queste le apprezza?
"Non mi faccia fare elenchi di nomi".

Diciamone uno alla volta. Chi le piace al Governo? Emma Bonino?
"Ha una storia importante, è coerente. Ha dignità".

Melandri, Turco?
"Basta. Apprezzo Sarkozy che ha voluto al governo molte donne e giovani e che chiama a lavorare con lui gente di sinistra. Lo farei anch'io".

Se votasse alle primarie del Pd il 14 ottobre sceglierebbe Letta Bindi Veltroni o chi altro?
"Per fortuna non voto. Rispetto chi ha avuto la voglia di cimentarsi, tuttavia".

Intende dire cimentarsi in gara contro Veltroni?
"Ho letto giusto ieri La nuova stagione, il libretto sul programma di Veltroni. Berlusconi e Sarkozy dovrebbero fargli causa per plagio. Lo slogan è suggestivo, purtroppo c'è solo quello di suo. Chi vuol piacere a tutti finisce per non piacere a nessuno".

Non è il suo caso. Si dice che dentro Forza Italia il suo unico sostenitore sia Berlusconi.
"L'epoca dei sospetti e delle gelosie mi pare superata.
Accade sempre che si attivino diffidenze quando compare in scena qualcuno di nuovo. Io aspetto che siano i fatti a parlare e non serbo rancore".

Vediamo. Tremonti è stato un buon ministro?
"Non ha aumentato la spesa pubblica né le tasse, ha lasciato i conti in ordine. Di nuovo: sono fatti".

I numeri ballano molto, come lei sa, dipende dalla mano che li esibisce. Fini è un buon leader?
"Ancora nomi? Non ne faccio".

Scusi: Fini è il suo principale alleato, per il momento An è l'unico partito che sembra disposto a formare con voi il Partito delle Libertà. Bossi non entra, Casini non ci sta...
"Casini e Mastella inseguono un progetto che non ha nessun fondamento nella realtà, il partito moderato di centro è Forza Italia".

Si diceva di Fini. L'ha mai votato prima di aderire a Forza Italia?
"Non rispondo. Quel che ho fatto io in passato non importa. Conta che nei circoli i partiti della coalizione sono già fusi".

Cosa pensa del rapporto di Bossi con le armi?
"Ciascuno ha diritto di rappresentare come crede lo scontento che sente attorno a se. Mi creda, al Nord il livello di irritazione verso la politica fiscale è altissimo. La protesta non va sottovalutata".

Al contrario. Parliamo si inviti ad imbracciare il fucile.
"Intemperanze verbali. Il terrorismo politico è un'altra cosa".

(1 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIANNI VATTIMO Con questa sinistra meglio lasciar perdere
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2007, 11:56:33 pm
5/9/2007
 
Con questa sinistra meglio lasciar perdere
 
GIANNI VATTIMO
 

Non so se valga la pena, come ha suggerito qualcuno (Alberto Asor Rosa), dimettersi da intellettuale di sinistra a causa dei provvedimenti che alcune amministrazioni comunali, anche uliviste, hanno annunciato contro i lavavetri - questi lavoratori abusivi che sembrano costituire una delle più gravi minacce per la sicurezza collettiva nelle città. Non che la cosa non meriti attenzione; ma se c'era da dimettersi, le occasioni in questi ultimi mesi, da quando la sinistra è diventata «di governo» erano ben altre e anche più gravi. Più che di dimettersi, nei confronti di questo ultimo sussulto di tipo «law and order» della cosiddetta sinistra nostrana, vien voglia semplicemente di «lasciar perdere» o, evangelicamente, lasciare che i morti seppelliscano i loro morti, continuando l'epocale dibattito sulle elezioni primarie del non ancora nato partito democratico, o sulla presenza di ministri alla manifestazione del 20 (dicesi 20!) ottobre prossimo. E, a proposito di morti, per fortuna solo feriti, non varrebbe la pena dedicare un pensiero ai militari italiani feriti in Afghanistan in una delle varie «missioni di pace» in cui il governo ci ha impegnati? O ricordare che tra i temi della manifestazione (eventuale) del 20 ottobre non c'è solo il protocollo sul welfare, ma anche il problema della base Usa a Vicenza, i diritti civili (Dico, fecondazione assistita), e altre quisquilie che pure fanno parte del programma di governo?

Di lasciar perdere viene voglia perché il nostro dibattito politico, compresa questa ultima fiammata di legalitarismo - tolleranza zero, Firenze come la New York di Giuliani - mostra emblematicamente la povertà intellettuale (si può ancora dire?) a cui si è ridotta la retorica «riformista» della ex sinistra italiana. Certo che la sicurezza delle strade cittadine è un'esigenza sacrosanta, e del tutto bi-partisan; ma persino il riformista-capo, Romano Prodi, trova che ha poco senso partire dai lavavetri, ultima misera ruota di un carro che trasporta ben altre clamorose illegalità. Niente «benaltrismo», d'accordo; niente «ma la colpa è della società ingiusta in cui viviamo». Ma un pensierino anche a questo aspetto della faccenda, una sinistra non del tutto immemore della propria storia dovrebbe pur farlo. Si ammette da tutti che la legalità non può essere assicurata solo dalla presenza di un carabiniere a ogni angolo di strada, che è invece, anzitutto, una questione di educazione civica. Ma quale senso collettivo della legalità può sussistere in un Paese dove la giustizia penale e soprattutto civile non garantisce più niente, dove se violi una norma devi solo: a) usare i soldi illegalmente guadagnati per pagarti un grande avvocato che trascini la tua causa fino alla prescrizione; b) o comunque aspettare fino al prossimo condono che ti ridarà la tua verginità giuridica in attesa di una nuova violenza ? Il «riformismo» e la concretezza «bersaniana» dei nostri governanti hanno di sicuro le loro ragioni. Ma, come molti dicono, non scaldano i cuori. Nessuno è disposto a farsi in quattro per le liberalizzazioni bersaniane.

Alla indispensabile retorica politica che dovrebbe scaldare i cuori, la fu sinistra italiana sostituisce quest'altra retorica molto più vacua e ideologicamente neutra: la sicurezza, la famiglia, il valore della «vita», qualunque essa sia, anche con gravi handicap che una bioetica meno bigotta potrebbe aiutarci a evitare. Ma intanto persino i nostri «alleati» - Usa, Nato - ci prendono sempre meno sul serio, nonostante lo sforzo e i soldi che buttiamo nelle cosiddette missioni di pace. Se qualcuno dice che l'Italia non ha una politica non ha probabilmente tutti i torti. E il civismo è anzitutto un affare politico. Un paese dove non si discute di pace e di guerra (residui ideologici del passato!) ma solo di lavavetri e di (imminente) persecuzione legale di chi va a prostitute non ha, e non avrà per molto, cittadini amanti, o anche solo rispettosi, delle leggi.
 
da lastampa.it


Titolo: Il silenzio dopo Grillo e... il parlare a vanvera.
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2007, 05:43:51 pm
Il silenzio dopo Grillo

Giuseppe Tamburrano


Si sta esaurendo il fenomeno Grillo? Apparentemente sì: certo, se ne parla di meno. Io sarei però cauto nei giudizi. Dopo l’esplosione sui mass-media e nel dibattito politico era inevitabile che il polverone si posasse. Ma le cose non sono cambiate. Voglio dire che il successo del comico è dovuto al fatto che egli interpreta uno stato d’animo della pubblica opinione, è la spia di un forte malessere, è il sismografo di un moto tellurico della società italiana e può diventare un «detonatore», come egli si è definito. Perciò discutere di Grillo è discutere di tale malessere, dei suoi aspetti, delle cause, dei rimedi.

Vi è una forte protesta per le condizioni sociali in cui vivono vasti strati di ceto basso e medio. Vi è la rivolta contro gli sperperi e gli abusi della «casta» che è tanto più aspra a ragione dell’immobilismo dei partiti; vi è infine la critica dei cittadini del centro-sinistra per l’incapacità del governo, paralizzato dalle divisioni, di dare attuazione al suo programma.
Grillo ha drammatizzato e spettacolarizzato questa situazione rivelata dalle folle che lo acclamavano, ma anche dai sondaggi che rivelano lo scollamento tra opinione pubblica e partiti e spostamenti significativi nelle preferenze del voto a favore della destra e ancor più significativi aumenti delle propensioni all’astensione. Mi pare che anche questo giornale abbia colto il processo con i risultati del suo recente appello ai lettori.

Visto in questa luce il caso Grillo è cosa molto seria. Non per nulla il paragone con il primo fascismo ricorre sempre più spesso. Certo la storia non si ripete, e nessuno può prevedere il futuro; ma è certo che Grillo tornerà a fare il mestiere di comico se e quando la politica - e soprattutto quella di centro-sinistra - tornerà a fare il suo dovere. Altrimenti la protesta degli shows si consoliderà in iniziative politiche come le «liste civiche».
In proposito, mi sembra molto pericolosa l’alleanza tra demagogia e «legalità», tra Grillo che arringa le folle e Di Pietro che lo sponsorizza con il suo giustizialismo. I partiti presi di mira, e specie quelli di centro-sinistra che hanno la responsabilità del governo, debbono reagire e presto: il fattore tempo è importante allo scopo di evitare che la situazione si incancrenisca e la protesta esca fuori dei confini della democrazia.

Molta fiducia si nutre nel Partito democratico ed in particolare in Veltroni. Ma il modo col quale si costruisce il nuovo partito è ancora deludente: tuttora non si sa qual è il suo progetto, la sua identità. E non si sa nulla sulla sua struttura, la forma-partito: ad esempio, saranno ammesse le correnti? Leggo risposte negative di Bettini. E che, si torna al «centralismo democratico» del Pci? Ve la immaginate Rosy Bindi che non fa una corrente?
Le attese per la leadership di Veltroni sono grandi, ma il suo cammino è difficile e lungo. Sostiene il governo Prodi - e non potrebbe fare diversamente. Ma fin quando Prodi resta in sella la sua successione eventuale (può vincere il centro-destra!) si proietta nel tempo fino al 2011: e in questi anni il vuoto nel paese si può allargare. Farà in tempo Veltroni a riempirlo? E come? Oppure il tempo lungo esaurirà le attese «salvifiche» della sua leadership?

Veltroni sostiene che non si può tornare a votare con questa legge elettorale. Si capisce perché: con questa legge si va al voto con le attuali traballanti e paralizzanti alleanze e sicuramente vince Berlusconi. Ma come si cambia la legge? Tutti i tentativi di concordare un nuovo testo con l’opposizione sono andati a vuoto. Potrebbe farlo il centro-sinistra a maggioranza - come ha fatto la destra - ma nel centro-sinistra non vi è accordo su questo tema.
Insomma non si muove nulla, nemmeno un rimpasto per la riduzione dei ministeri. Ma questo irresponsabile immobilismi al vertice è un potente esplosivo nella società. Ed è questo il vero caso.

P.S. Veltroni insiste su un aspetto del Pd. Riporto la frase da l'Unità del 30 settembre ’07: «Quando mai è successo nella nostra storia... che un partito nascesse non per scissione, non dopo una spaccatura, ma per unione?... Il Pd nasce così!». Voglio correggere Veltroni non per pignoleria di storico, ma per scaramanzia: i socialisti e i socialdemocratici divisisi nel 1947 si sono riunificati nel 1966. Ma quell’unione è durata poco.

Pubblicato il: 02.10.07
Modificato il: 02.10.07 alle ore 8.17   
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Titolo: POLITICA E POLITICANTI - L’audace colpo del blogger Adinolfi
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2007, 11:49:53 pm
L’audace colpo del blogger Adinolfi

Enzo Costa


E dunque l’importante - ancora oggi - è partecipare, alla faccia della variante «furbetti del quartierino», che recita «ma l’ideale è avere la maggioranza azionaria». Lo dimostrano i tre milioni quattrocentomila «e fischia» (come dice Fassino, non chiedetemi perché) che hanno osato fare politica mettendo una croce sulla scheda, invece di disfarla gridando vaffanculo a destra e a manca (con la destra che sotto sotto gradisce, così ci si sbarazza della manca). Lo dimostrano racconti e fotografie della più multietnica delle comunità: quella delle primarie, una spettacolare accozzaglia umana fatta di vip (scusate la parola) e immigrati, immigrati vip, banchieri e precari, atei praticanti e suore militanti, sedicenni e partigiani, operai e registi, milanisti e Moratti, cittadini politicamente impegnati e cittadini casualmente transitati nei pressi di un gazebo sprigionante l’irresistibile profumo della democrazia.

E lo dimostra - l’imperitura valenza del motto decoubertiniano - un’immagine emblematica, disponibile in versione fotografica e video: ritrae i candidati alle primarie a risultati proclamati, nella sede del partito di piazza Santi Apostoli. Sono lì, quattro dei cinque aspiranti alla segreteria (manca Gawronski, economista prestatosi alla campagna elettorale e forse appartatosi - al momento dello scatto e delle riprese - a calcolare i costi della competizione), più Romano Prodi. E sono lì, nel seguente ordine, da sinistra a destra (per chi guarda la scena, non per come la pensano politicamente): Letta, Bindi, Prodi, Veltroni, Adinolfi. Nella più classica delle pose teatral-unitarie: disposti a semicerchio, braccio teso a mezz’aria in avanti verso il centro, le mani una sull’altra a mo’ di «uno per tutti, tutti per uno».

Partecipazione palpitante, specie del quinto dei moschettieri democratici: si staglia su tutte le altre, e non solo fisicamente, la figura del valoroso Adinolfi. Eccolo, a suggellare in forma plastica il proprio far parte del collettivo vittorioso, forte del suo 0,1%, ma vicinissimo, spalla a spalla con Veltroni, accreditato di un appena più robusto 75,2. Prova vivente e tripudiante - per l’appunto - dell’importanza della partecipazione, che annulla le differenze. O meglio, le enfatizza alla rovescia: in quella scena di gruppo, il vero vincitore - per entusiasmo sprizzato dai pori - parrebbe lui, lo straripato blogger Mario, e non quello accanto, il misurato sindaco Walter. Impressione confermata ed accentuata dalle sequenze dei tiggì: sì, perché le immagini girate prima, durante e dopo quella messa in posa per gli obbiettivi, immortalano il blogger Mario che - impugnata con la mano sinistra una macchina o videocamera digitale - immortala fotografi e cameramen che lo immortalano con gli altri moschettieri progressisti, per poi passare ad immortalare (per la serie «io c’ero e gioivo») i quattro omologhi impegnati come lui ad inscenare quel quadretto dumasiano. Nel quale, non a caso, la mano suprema, che copre, domina e protegge le altre, è la sua. La manona del blogger Mario. Che è lì, insieme agli altri, ad esultare più degli altri, galvanizzato dai suoi tremila «e fischia» voti (è un calcolo a spanne, Gawronski mi correggerà). Simpatica e gradevole icona di una partecipazione virtuale, (anche) nel senso del web. Un paladino della rete, entusiasta e gentile. Se non dovesse gradire questo pezzo, sul suo blog - ci scommetto - al più mi indirizzerebbe un «Vaffanbagno!».

enzo@enzocosta.net

www.enzocosta.net



Pubblicato il: 16.10.07
Modificato il: 16.10.07 alle ore 12.58   
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