LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:16:04 am



Titolo: Roberto GALULLO.
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:16:04 am
05/03/09


Prodi, l'entourage e la Loggia di San Marino/1^ parte: arrese, contraddizioni, dimenticanze e...rogatorie sparite!

Romano Prodi, uscito dalla porta dell’inchiesta Why Not, potrebbe rientrarci dalla finestra.

La richiesta di archiviazione presentata al Gip il 23 febbraio dalla Procura di Catanzaro nei confronti dell’ex Presidente del Consiglio e di altri 9 indagati (tra i quali gli amici Piero Scarpellini e l’onorevole Sandro Gozi) difficilmente sarà lasciata cadere nel vuoto da alcuni (ex) co-indagati nella vicenda seguita dalla stessa Procura dopo l’avocazione effettuata nei confronti di Luigi De Magistris.

Per Prodi – ha detto la procura – può escludersi l’appartenenza a quel gruppo di persone indicate quale “Comitato di San Marino”. Quelle persone erano solo di area politica a lui riconducibile. Nessun coinvolgimento diretto dell’ex premier.

Facile prevedere l’opposizione al futuro decreto di archiviazione anche perché nel leggere le motivazioni della richiesta si intuisce o si capisce che i magistrati si sono – per il momento - arresi di fronte al segreto opposto dal potentissimo sistema bancario della Repubblica del Titano. Attendiamo il decreto per capirne di più anche se la sensazione che ho è che Why Not si sta sgonfiando come un palloncino sfiatato e – uno dopo l’altro – usciranno tutti dalla scena. Tutti i tasselli legati alla comunanza a logge massoniche coperte si stanno infatti scollando e – mi gioco un petardo di fine anno – le accuse di violazioni alla legge Anselmi cadranno presto anche per il re degli indagati, Antonio Saladino. A quel punto addio inchiesta. La nuova P2 (nera e bianca) su cui stava indagando De Magistris (e di cui tanto ho scritto sul Sole e in questo blog) avrà vinto.

Oltre al danno segnalo una beffa, su cui i giornali (frettolosamente o per scelta?) hanno sorvolato: la Procura di Catanzaro, attenzione attenzione, non ha escluso che a San Marino viva e vegeti una Loggia massonica al centro di affari poco chiari, così come sostenuto da De Magistris, ma semplicemente “è nell’impossibilità di dimostrarne l’esistenza”. La differenza – converrete – è enorme!


CASSADONTE: LA LOGGIA DI SAN MARINO NON E’ CON NOI.

E CON CHI ALLORA?


Del resto una persona, come definirla, ben informata dei fatti come Vincenzo Cassadonte, ci ha dato, in tempi non sopetti, una mano a capire alcune cose.

E voi direte: chi è Vincenzo Cassadonte? E’ un arzillo 83enne calabrese di Squillace nientepopodimenoche “Gran Sovrano Commendatore della Loggia del Rito scozzese antico ed accettato per l’Italia, l’Europa e le loro dipendenze”. Bum! A confronto, la “supercazzola brematurata con scappellamento a destra e a sinistra per due come se fosse antani” del mitico Ugo Tognazzi nel mitico film dell’82 di Mario Monicelli, “Amici Miei”, è uno scioglilingua per principianti. Niente, come scioglilingua,  neppure a confonto del superiore di Fantozzi, appellato il Grand.Uff. Lup. Mann. Figl. di Putt. Grand.Farabut.

Principianti, dilettanti allo sbaraglio, di fronte a quest’uomo con 50 anni vantati al servizio della massoneria. E non solo: è stato assessore provinciale, dirigente del Psdi, un partito scomparso da una vita, che poteva tenere le assemblee nazionali in un condominio, fondamentale però per la vecchia politica, al punto che espresse anche un Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat (dal 64 al ’71), di cui Cassadonte era segretario particolare. Il Gran Maestro aggiunto della Loggia degli scozzesi smutandati (permettemi di scherzare altrimenti me viè da piagne) è Rocco Mercurio. Anche per lui, dopo 3 anni di attesa, non luogo a procedere come per Cassadonte: nessuna appartenenza a logge segrete e nessuna violazione della Legge Anselmi (rispolverata da De Magistris come collante per l’inchiesta Why Not). Un etichetta di verginità in più per questo ex sindaco di Vallefiorita, fiabesco nome di un paesino nel catanzarese, strettissimo collaboratore dell’indagato Governatore della Calabria Loiero Agazio, responsabile del programma-quadro “Mediterritage”.

Ebbene il Gran Sovrano eccetera eccetera eccetera, intervistato per “L’Opinione” a novembre 2008 da Emilio Grimaldi, alla precisa domanda: “E’ esistita una Loggia di San Marino oppure anche questa è un’invenzione del pm Luigi De Magistris?” risponde: “Penso che esiste. Però non è con noi”.

Ora si badi bene: il tempo della risposta del Gran Sovr Calabr è al presente, mentre la domanda dava per scontato un passato (alle spalle?). Non solo: Cassadonte ha avuto non pochi guai con De Magistris ma ne è uscito indenne. Infine: “non è con noi”. Cosa vuol dire: la Loggia, per quanto ne sa, non è regolare o cosa?

Reato non è, comunque, tornando alla richiesta di archiviazione della Procura di Catanzaro, usufruire delle agevolazioni offerte agli investimenti dal sistema bancario sanmarinese alle società e agli uomini, chiamati in causa da De Magistris, che li vi hanno fatto affari.

Ma non è stata questa l’unica porta in faccia – in modo legittimo ma opinabile, come dire, dal punto di vista della trasparenza politica e finanziaria – chiusa in faccia dalla piccola ma in realtà grande Repubblica agli investigatori e ai magistrati italiani.

E questo umile blog – fedele alla tradizione del non guardare in faccia a nessuno nonostante – darà conto di alcuni nuovi episodi della fantastica telenovela “Why Not”, pubblicando notizie e documenti esclusivi e cercando di capire – aldilà dell’archiviazione e dell’imminente fallimento dell’intera inchiesta – se ci sono cose che non quadrano e magari decisioni affrettate. O indotte. Questa volta – però - farò come nelle soap opera: scriverò a puntate. Per non annoiarvi e per non farvi perdere il filo di una vicenda che, lo capisco, è davvero intricata.


LE ROGATORIE INTERNAZIONALI: PRIMA Sì E DOPO NO

Ormai nessuno ricorda più che De Magistris avanzò subito richiesta di rogatoria internazionale per scavare a fondo sulla società Pragmata, con sede a San Marino e su Piero Scarpellini. A rivelarlo fu Fiorenzo Stolfi, ex segretario di Stato degli Affari Esteri, in un’intervista pubblicata da  "Opinione.it. L’Opinione delle libertà", puntualmente riportata il 24 luglio 2007 (e mai smentita) dal sito sanmarinese www.libertas.sm (guardare per credere).
Le rogatorie sono partite certamente dalla Procura della Repubblica di Catanzaro e indirizzate a San Marino – dirà Stolfi – che seraficamente aggiungerà: “credo che saranno evase nel minor tempo possibile. Non abbiamo alcunché da nascondere”.

Bene, bravo, bis verrebbe da dire. Senonchè…Senonchè nell’indifferenza generale – a partire da noi giornalisti – Stolfi, sullo stesso sito, il 16 febbraio, candido come una palombella vergine, rimangerà tutto con un triplo salto mortale carpiato con coefficiente di difficoltà 10 (che non credo neppure esista nei tuffi olimpici).

Ecco cosa dirà (riconsultare il sito per credere): “al di là di quanto appreso dalla stampa non sappiamo nulla. Neanche dell’esistenza o meno di rogatorie. Possiamo solo dire, come già fatto a suo tempo quando filtrarono le prime informazioni sull’inchiesta Why not, che siamo a disposizione. Se la Procura avesse bisogno di informazioni ci sono tutti gli strumenti utili per ottenerle come ad esempio le rogatorie.”
Infine sul “Corriere di Romagna-San Marino” Stolfi conclude parlando di Pragmata, la società con sede nella Repubblica di San Marino di cui Scarpellini sarebbe stato dipendente: “sulla Pragmata non è mai emerso nulla di negativo. Per quanto ci riguarda controlli ne sono stati fatti già la prima volta, ma al momento non possiamo dire niente di più perché non abbiamo alcun elemento”.
Sconcertata, la stessa redazione di www.libertas.sm sarà costretta a chiosare: “In un’altra occasione Stolfi si era dichiarato a conoscenza di rogatorie arivate a San Marino da Why Not”.

La domanda è: che fine hanno fatto le richieste di rogatoria?


DE MAGISTRIS: LA ROGATORIA ERA VICINA


Fine delle trasmissioni? Manco per idea. Perché per indagare, investigare e rompere gli zebedei alla Repubblica di San Marino, gli zebedei deve averli anche chi fa le richieste. E allora leggete cosa dichiarerà De Magistris il 9 ottobre 2008 ai colleghi di Salerno, autori del famoso decreto di sequestro nei confronti della Procura di Catanzaro. “…il filone investigativo che stavo seguendo al momento della illecita avocazione da parte del dr, Favi della Procura generale di Catanzaro conduceva da Macrì, attraverso un reticolo di società, direttamente all’entourage del Presidente Prodi. Avevo anche preso contatti in quei giorni per procedere a una rogatoria presso la Repubblica di San Marino”.


DE MAGISTRIS AI COLLEGHI DI SALERNO:

CON L’AVOCAZIONE CIAO CIAO ROGATORIA


Ricapitoliamo please!: 1) a De Magistris l’inchiesta è stata avocata il 20 ottobre 2007; 2) a luglio, cioè circa 3 mesi prima, Stolfi dirà che era a conoscenza di richieste di rogatorie anche se successivamente cadrà dal pero. Anche se vollesi giocare anche io a cadere dal pero, posso però spingermi a dire che – quantomeno – il contatto tra Italia e San Marino c’era stato; 3) De Magistris dice di più ai colleghi di Salerno: intorno a metà ottobre 2007 aveva preso contatti per procedere alla rogatoria.


LE MOSSE DELLA PROCURA DI CATANZARO: ADDIO ROGATORIA


Ora – da umile curioso – mi sarei aspettato che chi ha preso in mano l’indagine Why Not si fosse, come dire, peritato di capire a che punto fosse quella rogatoria che, come apprendiamo ora, era lì lì per quagliare. E – poffarbacco – avrei anche messo in evidenza le contraddizioni di Stolfi. Quantomeno ne avrei chiesto conto e – appurato eventualmente il fatto che la richiesta per misteriosi motivi non fosse giunta o per meno misteriosi motivi non fosse stata presa in considerazione – mi sarei precipitato ad avanzare una nuova richiesta.

E invece? E invece niente. Silenzio tombale. Solo un telex, spedito il 15 luglio 2008, con il quale la Procura di Catanzaro chiede a un collegio di 6 consulenti torinesi che, esattamente 15 giorni dopo, sforna una fatica di Sisifo (!?) scopiazzatra per metà da Internet, che contiene comunque elementi interessanti… Non potendo svolgere controlli a San Marino – dunque - la Procura di Catanzaro aveva dato mandato ai “savoiardi” (mi si permetta la battuta, anche mia moglie è italo-savoiarda-calabrese) di effettuare accertamenti su alcune società chiamate in causa dai testi di accusa.

Oltretutto – in mezzo a tanta confusione – a San Marino accadeva anche qualcos altro. Stolfi diceva addio alla mega-carica ministeriale e il suo posto veniva preso  - il 3 dicembre 2008, da Antonella Mularoni, di Alleanza Popolare, laddove Stolfi era del Partito socialista.


ROGATORIA ADDIO? AVANTI SAVOIA

Volete saperne di più? E allora a lunedì 9 marzo – puntuali come sempre su questo blog – con una nuova puntata delle mirabolanti avventure di Why Not

E come scrivono gli americani nelle soap opera: “1 – to be continued”

roberto.galullo@ilsole24ore.com   



Titolo: Prodi, l'entourage e la Loggia di San Marino/2a parte...
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2009, 02:15:32 pm
09/03/09


Prodi, l’entorurage e la Loggia di San Marino/2^ parte: superteste contro l’archiviazione e il Titano si arrocca nel silenzio e nei segreti
Eccomi di nuovo a voi amici di blog. Dove eravamo rimasti con la fantastica avventura di  Why Not, dedicata da alcuni giorni alla richiesta di archiviazione per Romano Prodi e altri 9 (ex) indagati?

Ho scritto nella prima puntata, 4 giorni fa su questo blog, della rogatoria internazionale – inoltrata da Luigi De Magistris a San Marino su alcune società calabresi e personaggi politici che gravitano intorno a Romano Prodi -  lasciata cadere dai magistrati catanzaresi che hanno preso in mano l’inchiesta Why Not (che si sta squagliando come neve al primo sole). Di quella rogatoria non si sa più nulla.

Avevo anche scritto che era facile prevedere che a quella richiesta di archiviazione ci sarebbe stata l’opposizione di alcuni (ex) co-indagati.

 

ARCHIVIAZIONE DI PRODI: LA SUPERTESTE SI OPPONE

 

Detto, fatto. Come leggerete nella lettera che mi è giunta e che riprodurrò fedelmente, il legale di Caterina Merante, superteste dell’inchiesta Why Not insieme a Daniela Marsili, ha depositato l’opposizione.

Potrete leggere le motivazioni che vi riassumo: la denunzia-querela presentata nell’agosto 2007 contro l’impugnazione del Governo Prodi della legge regionale calabrese che prorogava l’attività lavorativa, tra quelle riconducibili al Consorzio Brutium, anche della società Whynot outsourcing, prevedeva l’informativa nei confronti della società stessa dell’eventuale richiesta di archiviazione. A quanto scrive Caterina Merante, così non è stato.

 

CHE FINE HA FATTO LA ROGATORIA?  LE NON RISPOSTE

DI SAN MARINO

 

Voi direte, stra-mega-iper-adoratissimi “4-lettori- 4” del mio umile blog: ma chi meglio del Segretario di Stato agli Affari esteri della Repubblica di San Marino può sapere che fine ha fatto la richiesta di rogatoria internazionale sul team di persone vicine-vicine a Prodi e sulle società vicine-vicine a personaggi che a quell’area politica si rifacevano?

E a me lo dite?

Anche perché volevo che il Segretario sanmarinese Antonella Mularoni rispondesse di un curioso caso di omonimia: Mularoni, Claudia, si chiama anche la proprietaria di Pragmata, società di diritto sanmarinese su cui De Magistris in primis voleva vederci chiaro.

Lesto come un leprotto in primavera non ancora raggiunto dalla schioppettata di un cacciatore, ho scritto a Mularoni. Oh yes! In calce a questo articolo troverete la mia “straziante” mail (pensate che mi commuovo io stesso nel rileggerla) spedita alla segreteria del Segretario. Oh yes!

Non ricevendo risposta alla mail ho prima educatamente sollecitato la segreteria ricordando a diverse persone che si alternavano al telefono il motivo della chiamata e della mail e poi – accorgendomi del silenzio, come dire, sospetto – ho cambiato strategia: ho tempestato di telefonate (0549/ 88 23 12) la segreteria del Segretario. Straordinarie, amici, le risposte. Anzi, come si dice da quelle parti: “straordinerie”.

Dapprima la solita, vecchia risposta che qualcuno ancora crede che i giornalisti siano disposti a bere: “Il Segretario è molto impegnato”. E a me lo dice che è impegnato? Sapesse quante cose ho da fare io! Pensate, amorevoli lettori del blog che, tra le tante, debbo perfino rincorrere la segreteria del Segretario di Stato agli Affari esteri della Repubblica di San Marino!

Poi cambio di tattica, et voilà: “Il Segretario sta partendo e comunque non ha nulla da rispondere alla sua mail”. Ah ecco, così si capisce tutto meglio: non ha niente da rispondere. Ma – insisto – sul cognome qualcosa deve pur dire qualcosa! “Deve? Lei dice deve?” si infuria come un furetto infuriato la segretaria della segreteria del Segretario (non è uno scioglilingua). “Si, deve, per levare ogni sospetto da quello che sarà, ne sono certo, solo un caso di omonimia”, rispondo arzillo come una pillola blu.

Non lo avessi mai detto: urla concitate tra la segretaria e il Segretario, con simpatiche eco di eterno amore e amicizia rivolte alla mia umile persona che rimbombano confusamente nella cornetta del telefono ma, qualche secondo dopo, la segretaria del Segretario riprende pienamente il controllo delle situazione. Prenda carta e penna, mi intima gagliarda e tosta. Yawhol, fraulein segretarien del Segretario, c’aggia a scrive? Scriva testualmente: “Gli obblighi istituzionali del Segretario sono solo nei confronti dei cittadini sanmarinesi e non delle testate italiane”. Testaten italianen, raus! Tomante scomote: raus! Telefono chiuso: clic, tu tu tu tu tu tu…

E io aggiungo: trasparenza: raus!

Sulla parentela con Claudia Mularoni, dunque, zero carbonella. Da parte del direttore del sito sanmarinese www.libertas.sm, Marino Cecchetti, che ringrazio per il fatto di essersi prodigato per darmi una mano, vengo però a sapere che gradi di parentela diretta tra le due Mularoni sono da escludere. Bene. “Sarebbe però  meglio che lo chiedesse direttamente a Mularoni” mi dice seraficamente Cecchetti, professore di rigore e valore. “Di solito – aggiunge Cecchetti – è così gentile e disponibile”. Ecco, appunto, di solito….

Se avesse accettato di parlare con me, sarebbe stato bello capire da Mularoni perchè la rogatoria internazionale avanzata da Luigi De Magistris è sparita nel nulla e sarebbe stato bello chiederle delle contraddittorie risposte del suo predecessore a quella richiesta. Avrei chiesto anche se la Repubblica di San Marino fosse disponibile a prendere in considerazione una nuova richiesta di rogatoria, qualora i magistrati di Catanzaro la avanzassero e a consentire ai consulenti tecnici della Procura di avere accesso a contabilità e conti, anche bancari, delle società inizialmente coinvolte nella vicenda Why Not.

Ma sarebbe stato anche bello sapere perché la Repubblica del Titano continua a rendere praticamente impossibili gli approfondimenti di natura creditizia e finanziaria delle società che operano con l’Italia. Oh quante belle cose avrei potuto chiedere, madama dorè, oh quante belle cose…

 

I SEGRETI BANCARI INVIOLABILI DI SAN MARINO:

UN MURO DI GOMMA ANCHE PER LE PROCURE

 

La Procura di Catanzaro, come abbiamo visto nel precedente post, ha infatti preso atto che scalfire il muro delle società sanmarinesi in affari con quelle italiane è praticamente impossibile.

È dal 2002 che la Repubblica di San Marino tenta di avere un accordo di cooperazione economica con l’Italia.

Nella conferenza stampa di fine 2007, Fiorenzo Stolfi, ex Segretario di Stato per gli Affari esteri, dichiarò che era imminente la fine della trattativa annunciando che era stato risolto il problema dei problemi: “abbiamo definito la parte che riguarda le banche e la parte finanziaria”.
Invece sarà proprio la parte finanziaria a far slittare tutto con il governo Prodi e con il Governo Berlusconi, anche se a entrare pesantemente in gioco è stata recentemente la Banca d’Italia, per effetto dell’indagine “Re nero” o vicenda Asset Banca, che scoppierà il 5 gennaio 2008.
Antonella Mularoni, che quando vuole parla, ah se parla, dichiarerà alla “Voce di Romagna San Marino” che “la gestione della vicenda Asset Banca con il reintegro dei vertici e le pressioni fatte sui giudici da un esponente del precedente Governo hanno dato a Bankitalia la prova provata che delle istituzioni di San Marino non ci si può fidare”. Per cui, nella trattativa fra San Marino e Italia, aggiungerà, “se c’è in questo momento un osso duro è Bankitalia, non la parte politica”. Che “ossonen duronen” Bankitalia! Sono molto più “morbidonen” i “politiconen italianen” ya!
Non è un caso che il 15 gennaio 2008 una circolare di Bankitalia imporrà alle banche italiane di considerare i soggetti sammarinesi (banche, finanziarie, società, aziende, privati) come residenti in un Paese extra Ue.

L’onorevole Gianluca Pini ( “morbidonen” della Lega Nord) parlando a febbraio scorso con “L’Informazione di San Marino” si lancerà in una nuova previsione sui tempi dell’accordo: “La vostra Repubblica – dichiarerà il “morbidonen” -  non deve cantare vittoria, visto che è ancora tutto da negoziare: ora è il momento che la diplomazia sammarinese e quella italiana, che i vostri e i nostri tecnici, si siedano a un tavolo per stilare un documento che possa soddisfare entrambe le parti…Contiamo di firmare il documento prima dell’estate”.
Sarà anche vero ma il mio collega “ossonen duronen” Paolo Zucca sul Sole-24 Ore del 7 marzo scriverà testualmente “il contenzioso di queste settimane riguarda le segnalazioni antiriciclaggio girate a Bankitalia attraverso le banche italiane. Il Titano è fra i Paesi extra Ue che praticano il segreto bancario. Le autorità stanno cercando di modificare la legislazione per evitare l’isolamento”.

Per ora mi fermo qui e vi do appuntamento su questo blog a giovedì 12 marzo, con una nuova e appassionante puntata delle fantastiche avventure di Why Not, che scaverà proprio sulle difficoltà e sui risultati (a mio giudizio miserrimi) che hanno ottenuto i consulenti della Procura di Catanzaro, chiamati a ficcare il naso sugli affari tra alcune società calabresi e San Marino. Arrivederci con nuovi ed esclusivi documenti….E come dicono gli americani “2.to be continued”.

 

IL TESTO DELLA MAIL DI CATERINA MERANTE


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Da: caterinamerantexxx@xxxxxx.it
Inviato: giovedì 05/03/2009 15.29
A: Galullo Roberto
Oggetto:

 

Gentile Giornalista Roberto Galullo,
ha ragione, noi (non so se lo abbiano fatto anche altri) abbiamo depositato formale istanza per essere avvisati della richiesta di archiviazione del procedimento contro Romano Prodi,  onde proporre opposizione.
Siamo stati costretti a farlo.
Nel lontano agosto 2007, infatti, il nostro legale Alessandro Diddi depositò esposto per la storia, che brevemente racconto:
- il consiglio regionale calabrese varò una legge di proroga, che consentiva al consorzio Brutium e quindi anche a Why Not di continuare a lavorare. Ciò accadeva circa 1 mese prima che fosse noto il mio ruolo nell’inchiesta del dr. De Magistris.

Prodi e il suo governo, più o meno un mese dopo, lo dico solo per scandire temporalmente i fatti,  impugnarono tale legge e così noi (Why Not), ovviamente ci affrettammo a depositare “denunzia-querela” per quella che ci appariva un’ingiustizia, ed effettivamente la Corte Costituzionale dopo qualche tempo diede torto al governo. Nella denunzia scriveva il nostro legale, che “qualora ci fosse stata richiesta di archiviazione  volevamo essere avvisati”, cosa non avvenuta, ed ecco perché “formalmente” ci opponiamo.



Caterina Merante



IL TESTO DELLA MAIL SENZA RISPOSTA INVIATA A SAN MARINO

PRESSO LA “SEGRETARIA DELLA SEGRETERIA DEL SEGRETARIO”

(IN PRATICA  IL "CHA-CHA-CHA MAIL-MAIL-MAIL DELLA SEGRETA-A-A-A-RIA”

 

 -----Messaggio originale-----

Da:                          Galullo Roberto 

Inviato:                 martedì 3 marzo 2009 15.58

A:                            'segretario.mularoni.esteri@gov.sm'

Cc:                           'lidia.serra.esteri@gov.sm'

Oggetto:                da roberto galullo sole 24 ore

 

Egregio Segretario di Stato,

mi presento brevemente prima di inoltrare le mie due richieste.

Sono un inviato del Sole 24 Ore che - da tempo - tra Sole, Radio24 e blog, sta seguendo la vicenda Why Not.

 

E vengo alle domande alle quali Le chiedo (sperando di non abusare della Sua pazienza) di rispondere via mail in modo da garantirne la fedele riproduzione.

 

1) Il Suo predecessore, Fiorenzo Stolfi, in un primo momento dichiarò di essere disponibile a ricevere la rogatoria internazionale richiesta da Luigi De Magistris per le parti che competevano un coinvolgimento di alcune società e personaggi operanti a San Marino poi, da ultimo, ha dichiarato di non saperne nulla.

 

Questo è quanto sono riuscito ad apprendere dalla stampa locale e navigando su Internet.

 

Le Vorrei chiedere se la richiesta è stata inoltrata (se Le risulta intendo dire) ed eventualmente a che punto è la richiesta. Dall'ultima intervista (17 febbraio 2008 su newssanmarino.it) di Stolfi, infatti, non se ne è saputo più nulla. Nel frattempo però c'è stata la richiesta di archiviazione da parte della Procura di Catanzaro per la parte che avrebbe coinvolto Romano Prodi e altre 9 persone.

 

Se lei volesse aggiungere qualche considerazione alla vicenda - oltre a quanto espressamente chiesto - può scrivermi in modo che io possa riportare fedelmente e per intero le sue dichiarazioni ma le lascio anche il mio cellulare: 33x/ xxxxxxxxx

 

2) Mi rendo conto che Mularoni è un cognome diffuso nella Vostra Repubblica ma - per scrupolo - Le chiedo se Lei ha gradi di parentela (ed eventualmente quali) con Claudia Mularoni (Teresy Foundation e società Pragmata).

 

Nel ringraziarLa Le auguro buon lavoro e buona giornata

 

Dott. Roberto Galullo

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ripreso DA robertogalullo.blog.ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. Prodi, l'entourage e la Loggia di San Marino 3a parte
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 12:30:33 am
12/03/09

Prodi, l’entourage e la Loggia di San Marino/3^ parte: gli affari sull’asse Lamezia-Monte Titano e il Laboratorio democratico europeo

Eccoci alla terza puntata relativa alla richiesta di archiviazione – presentata il 23 febbraio dalla Procura della Repubblica di Catanzaro – nei confronti dell’ex premier Romano Prodi e di altri – a questo punto – ex indagati dell’inchiesta Why Not avocata a Luigi De Magistris.
Per i magistrati non esiste reato nel fare affari con San Marino (che scoperta eh!) e comunque Prodi non c’entra assolutamente nulla. Per Prodi – ha detto la Procura – può escludersi l’appartenenza a quel gruppo di persone indicate quale “Comitato di San Marino”. Quelle persone erano solo di area politica a lui riconducibile. Nessun coinvolgimento diretto dell’ex premier.

I magistrati si sono – per il momento - arresi anche a fronte del segreto opposto dal potentissimo sistema politico e bancario della Repubblica del Titano. La Procura di Catanzaro, aprite bene gli occhi, non ha escluso che a San Marino proliferi una  Loggia massonica al centro di affari, (poco chiari sostiene De Magistris), ma semplicemente “è nell’impossibilità di dimostrarne l’esistenza”.

E abbiamo anche visto – nel primo post scritto su questo blog – come un massone calabrese di lunghissima militanza e grande peso specifico, Vincenzo Cassadonte, non abbia affatto escluso l’esistenza di una Loggia coperta a San Marino che però, parrebbe di capire, non appartiene all’ufficialità. E a cosa allora? Ce lo siamo domandati non ricevendo alcuna risposta in questi giorni. Caspita: proprio ciò che voleva capire De Magistris che, tapin tapello, non potrà più scoprirlo!

Attendiamo il decreto di archiviazione per capirne di più anche se la sensazione che vi ho già comunicato attraverso i miei articoli, è che di Why Not, presto non resterà che un pallido ricordo.

Questo umile blog – prendendo atto della richiesta della Procura e delle sue decisioni – in attesa del decreto dal quale qualcosa in più si apprenderà, vuole però continuare a scavare sui rapporti tra l’entourage politico riconducibile a Romano Prodi, alcune società sanmarinesi in affari con società calabresi e il ruolo di alcuni misteriosi personaggi. E’ il puro gusto di approfondire – sotto il profilo sociale e giornalistico – una vicenda che presenta ancora lati oscuri, conti che non tornano e cose da chiarire, aldilà del profilo penale che non mi compete e che spetta alla sola magistratura. Il gusto di capire e interrogarsi – in altre parole – oltre ciò che è e appare. Il gusto – sempre più raro – di fare informazione. E gusterò il piacere del mio mestiere anche pubblicando  - a partire da lunedì prossimo, 16 marzo - alcuni documenti esclusivi dei consulenti chiamati a collaborare dalla Procura di Catanzaro.

Metto, infine, il dito su due ferite aperte che non hanno certo facilitato il compito della Procura di Catanzaro: 1) la rogatoria internazionale avanzata da Luigi De Magistris di cui non si sa più nulla e 2) il feroce segreto bancario e finanziario che oppone la Repubblica di San Marino. Argomenti che avrei voluto affrontare con il Segretario di Stato agli Affari esteri,  Antonella Mularoni, che però ha cose più importanti da fare che parlare con un inviato del Sole 24 Ore che da anni scrive di Why Not. Me ne farò una ragione anche se – dal dispiacere – ho perso il gusto dell’appetito. In due settimane dalla richiesta inoltrata (e inevasa bruscamente come avete avuto modo di leggere nel penultimo post) ho perso ben…17 grammi! 

GLI AFFARI TRA LA CALABRIA E SAN MARINO

E veniamo ai piemontesi e alle loro consulenze sulle società oggetto di indagine della Procura di Catanzaro – Adepta srl e Met sviluppo srl – e i rapporti con la società Pragmata, quest’ultima società di diritto straniero, con sede a San Marino: ironia della sorte in località…Dogana!.

Si badi bene: ai consulenti la Procura di Catanzaro ricorderà espressamente che “si vorrà altresi verificare, anche attraverso l’escussione di persone informate sui fatti o indagati, se Macrì Pietro, Mariangela De Grano e Francesco De Grano abbiano in qualche modo contribuito anche attraverso la campagna elettorale ovvero attraverso finanziamenti o altre modalità ad appoggiare Romano Prodi, Sandro Gozi e/o altri esponenti del Partito democratico in occasione delle tornate elettorali dell’anno 2006”.

La relazione dei consulenti piemontesi – sulla cui base poi la Procura verosimilmente si sarà appoggiata per affermare che non c’è evidenza di ipotesi di reato – svela diverse cose che cercherò sommariamente di riportare.

La prima cosa è che Pragmata srl è una società che appartiene “verosimilmente” (così si esprimono testualmente i consulenti), a tale Sinogma Group. E’ la prima volta che spunta fuori questo nome di cui – navigando su Internet perché l’accesso alle banche dati di San Marino è precluso e blindato come la virtù di una vergine nel Medioevo – non si sa assolutamente nulla. Al punto che gli stessi consulenti dicono “verosimilmente”.

Tra Met sviluppo (badate perché poi torna utile: del Gruppo Met), Adepta e Pragmata, intercorrono rapporti economici: contratti stipulati per decine di migliaia di euro.

I consulenti rivelano anche che alcune fatture risultano non pagate e che una scrittura privata che avrebbe dovuto portare ad un lavoro retribuito con 100mila euro non ebbe poi seguito. Insomma: un affare sfumato per Met sviluppo che avrebbe dovuto fornire servizi Internet alla Wcn, che altro non è se non il network delle Camere di commercio a livello mondiale. Da notare che un amico vicino-vicino a Prodi – Piero Scarpellini – è uno dei 12 manager mondiali del network mondiale delle Camere di commercio.

L’affare sfumò ma sul banner del network ancora oggi compaiono le pubblicità della Repubblica di San Marino e di Laboratorio Democratico europeo. Tra i fondatori di questo Laboratorio, associazione politico culturale, c’è Sandro Gozi, membro di Gabinetto dell’ex Presidente della Commissione europea, Romano Prodi, di cui è intimo amico.

Tra i fondatori del Laboratorio c’è anche Claudia Mularoni, amministratore unico di Pragmata, società per la quale lavora(va) anche Giulia Righetti. Insieme, le due, hanno preparato – secondo quanto scrivono i consulenti – il “Calabria Report” nell’ambito di un progetto Ue da 107 milioni di euro.


IL PARTNER “FANTASMA”: IL LABORATORIO DEMOCRATICO EUROPEO


La pubblicità del Laboratorio sul banner del Wcn è una cosa oggi (apparentemente) inspiegabile. Ho stampato la videata del banner del Wcn alle ore 11.11 del 25 febbraio del 2009 in  cui ancora compariva la pubblicità (è a disposizione dei vari san Tommaso in circolazione). La domanda è: ma cosa pubblicizzano? Provate a entrarci nel sito.
Una prima videata vi dirà: sito in aggiornamento. Se poi andate su un motore di ricerca google e riuscite miracolosamente a entrare (come sono riuscito a fare) trovate aggiornamenti fermi al 26 gennaio 2008, notizie su Prodi & C. e  - tra le altre cose - l’organigramma. Ebbene ci compaiono ancora, tra gli altri Francesco, Marinella e Alessio De Grano, (vicinissimi a Prodi). Francesco e Marinella furono indagati da De Magistris e sono anche vicini-vicini all’indagato Governatore della Regione Calabria, Agazio Loiero, a sua volta vicino-vicino a Romano Prodi.  Il presidente del Laboratorio è Sandro Gozi, campione di squash con eterno sorriso a “32-denti-32”e capogruppo del Pd alla Camera nella Commissione per le politiche comunitare. La mail – indicata sul sito del Laboratorio - presso la quale contattarlo è gozi_s@camera.it. Io l’ho fatto alle ore 14.40 del 4 marzo. Il telefono è 06/67608663, che poi è il suo diretto alla Camera. Una perfetta adesione tra cariche pubbliche e interessi politici privati. Da quel primo contatto telefonico sortirà un’intervista che leggerete la prossima settimana.

Il coordinatore del Laboratorio è il palermitano Riccardo Hopps. Il primo dubbio che ti assale è che possa essere parente del ramo della famiglia siciliana Hopps in affari con Totò Cuffaro e i suoi fratelli (per la cronaca: gli imprenditori  Giacomo e Fabio Hopps, 61 e 53 anni, il 18 dicembre 2008 passarono uno “splendido” Natale, riconosciuti colpevoli di truffa ai danni dello Stato dal Tribunale di Palermo. Non so se è stato proposto appello e, per correttezza dell’informazione, prego chiunque lo sapesse di integrare o rettificare questa notizia).

Ho chiesto lumi sull’eventuale parentela direttamente a Riccardo Hopps via mail e questa è stata la sua risposta testuale di cui prendo atto: “Per quanto riguarda i legami di parentela con Giacomo e Fabio Hopps, posso confermarle che in comune abbiamo solo il cognome, e non vi sono attualmente - e nemmeno vi sono mai stati - contatti e rapporti diretti, indiretti o per interposta persona, di natura professionale o di qualsiasi altro genere, tra me e le persone da Lei menzionate, e men che meno tra queste e l’associazione della quale sono Segretario”.

In una seconda mail aggiungerà e preciserà: “ Come Le ho già detto l’unico legame che può essere riscontrato, tra me e le persone da lei mensionate, è l'origine comune. L'unico Hopps che dall'Inghilterra, nei primi dell'800, si trasferì in Sicilia iniziando una attività vitivinicola in proprio. Siamo, pertanto, discendenti - come sottolineato da Lei - di due rami dell'unico ceppo comune (quindi, come detto nella precedente email abbiamo solo il cognome in comune). Del resto dopo 200 anni e passa, capisce bene, che non intercorre nessun grado di parentela diretto”.

Tra i tanti soci del Laboratorio Democratico Europeo compare anche Pietro Macrì, che se vi andate a rileggere le prime righe di questo post è quell’uomo sul quale la Procura di Catanzaro (o, molto meglio, De Magistris) voleva scavare per sapere se e come, con la famiglia De Grano, avesse contribuito a supportare la campagna elettorale di Prodi e Gozi. Ma sul nome di quest’uomo mi fermo e continuerò, come promesso, lunedì prossimo, 16 marzo, con tutte le novità su questo personaggio e le misteriose “commesse investimento”, oltre a documenti esclusivi. Curiosi eh….Bene e allora seguitemi.

E come dicono sempre gli americani 3.  to be continued

DA robertogalullo.blog.ilsole24ore.com


Titolo: Prodi, l’entourage e la Loggia di San Marino/4^ parte...
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2009, 08:20:34 am
16/03/09

Prodi, l’entourage e la Loggia di San Marino/4^ parte: Pietro Macrì, i De Grano’s , “commesse investimento” e madonne pellegrine
Bentornati cari amici di blog con una nuova e appassionante puntata di Why Not. Da due settimane sto ricostruendo i retroscena dell’archiviazione chiesta dalla Procura di Catanzaro nei confronti di Romano Prodi e altri 9 indagati nell’ambito dell’inchiesta stessa, tra cui Sandro Gozi, Piero Scarpellini, Luigi Bisignani, Antonio Acri, Vincenzo Bifano, Gerardo Carnevale.

La Procura, semplicemente, non è in grado di dimostrare l’esistenza di una Loggia segreta a San Marino e, oltretutto, ha alzato bandiera bianca di fronte all’invalicabile segreto bancario e politico della Repubblica del Titano. Fare affari a San Marino non è un reato ha decretato: ci voleva un genio per scoprirlo!

Abbiamo visto, però, che la Procura stessa ha chiesto nel luglio 2008 una consulenza a una società piemontese, che hanno indagato sui rapporti tra alcune società calabresi e la sanmarinese Pragmata. Lo scopo ultimo era capire se fossero intercorsi rapporti tra alcuni esponenti di quelle società e Romano Prodi e Sandro Gozi anche al fine – dichiara la Procura - di finanziare le loro campagne elettorali.

Abbiamo scoperto che i rapporti di natura economica tra le società calabresi e Pragmata (di cui era dipendente Scarpellini) c’erano eccome. In Pragmata, inoltre, c’erano uomini vicini-vicini a Prodi, al punto da contribuire al Laboratorio democratico europeo come soci: tra questi Claudia Mularoni e l’onorevole Sandro Gozi, vicino-vicino a Prodi, al punto da esserne stato il braccio destro quando era Presidente della Commissione Europea. Gozi è il presidente del Laboratorio. E lo stesso Laboratorio, unitamente alla Repubblica di San Marino sono pubblicizzati nel banner del Wcn (il network delle camere di commercio mondiali), di cui sono partner. I servizi Internet del network avrebbero dovuto essere effettuati dalla società Met sviluppo. Ma così non fu.

Ma non è questa l’unica stranezza che chiama in causa il ruolo di Pietro Macrì, indagato da Luigi De Magistris nell’inchiesta Why Not. L’uomo sul quale la Procura di Catanzaro (ma sarebbe meglio dire Luigi De Magistris) tra le altre cose voleva sapere se e come contribuiva alle campagne elettorali di Prodi e Gozi. E per lasciare anche traccia, come dire, inoppugnabile, al post di oggi ho deciso di allegare documenti esclusivi a firma del collegio di consulenti piemontesi chiamati dalla Procura di Catanzaro. I documenti li troverete allegati in fondo all'articolo.

 


IL RUOLO IMPRENDITORIALE DI PIETRO MACRì,

IL “SIGNOR DE GRANO”

 


“L’attenzione del collegio scrivente – vergano testualmente i tecnici chiamati in causa dalla Procura nella memoria consegnata il 30 luglio 2007 – è stata particolarmente attratta dalla sottoscrizione di Pietro Macrì in verosimile rappresentanza del Gruppo Met e non già della Met sviluppo srl”. Il riferimento del collegio è a due scritture privata del 2002 tra Fipa (acronimo di Foreign investment promotion agency of Bosnia and Erzegovina) e Met Group. “La condizione su esposta – scrivono i consulenti – potrebbe significare che, per tali intese, il Macrì si sia mosso in funzione del Gruppo italiano di appartenenza ma di cui, sulla base degli atti a mani del collegio, non risulterebbe avere la legale rappresentanza”. Disinvoltura? Senso di impunità? Leggerezza? Sbadataggine? Consapevolezza di essere nel giusto? O certezza di avere le spalle coperte?

E qui veniamo a due filoni interessantissimi, senza dimenticare che – espressamente – De Magistris a pagina 269 del decreto Why Not scriverà che “Pietro Macrì è rappresentante della cosiddetta Loggia di San Marino in Calabria”. Più chiaro di così!

Ebbene: quali erano i rapporti tra Prodi e ‘sto Macrì, ad di Met sviluppo srl, in amministrazione straordinaria dal 27 aprile 2006,  già vice presidente di Confindustria a Vibo Valentia? E quali i rapporti tra i De Grano (Mariangela, detta Marinella e Francesco) e Prodi? Così stretti – magari – da ipotizzare anche finanziamenti in campagna elettorale 2006 a lui e all’amico Gozi? Ed eventualmente – perché questa è la domanda vera – in quali contesti e in cambio di cosa?

Ebbene le sorprese non mancano, senza entrare nel merito della richiesta di archiviazione proposta per l’ex premier e di cui abbiamo spiegato finora in ben tre post le motivazioni (le decisioni della magistratura si rispettano anche quando appare arduo).

 


IL RUOLO POLITICO DI PIETRO MACRì…IN “DE GRANO”

 


Quel che conta – infatti – non sono tanto o solo le dichiarazioni rese da De Magistris ai colleghi di Salerno ma anche – assolutamente e a maggior ragione – quelle rese da stretti collaboratori di Macrì ai magistrati della Procura di Salerno.

E qui intanto possiamo cominciare a svelare una cosa nota solo a qualche calabrese che legge i giornali locali (cioè 4 gatti) e a qualche malato (quale io sono) della lettura delle carte delle Procure: Pietro Macrì è il marito di Mariangela De Grano, sorella di Alessio e Francesco, quest’ultimo potentissimo dirigente della Regione Calabria e vicino-vicino al Governatore Loiero Agazio, il Governatore che vive nello spazio (politico, come sapete, e anche lui indagato in Why Not).

L’11 aprile 2007 Antonio La Chimia, ex presidente della Whynot outsourcing, socio imprenditoriale di fatto (secondo De Magistris) dell’impero di Antonio Saladino, principale indagato dell’inchiesta Why Not, dichiarerà a De Magistris stesso che “il Saladino sostenne, a tutti i costi, che l’azienda doveva acquistare un software da tale Pietro Macrì, ad di Met Sviluppo. Tale proposta, da parte di tutti i soci, venne considerata in maniera negativa…una bufala colossale…una vera e propria truffa. Anche sul conto del Macrì le opinioni erano concordi nel considerarlo una persona poco affidabile”.

Giudizi personali, certo, ma arricchiti, con sfumature, da più persone. A esempio da Pasquale Caruso, ex fornitore di Met sviluppo. Interrogato dai Ros di Catanzaro il 23 gennaio 2007, sentì la necessità di “rappresentare alcune vicende sintomatiche delle modalità con le quali la cassa della Met veniva svuotata. In primo luogo con consulenze che non ho difficoltà a ritenere fittizie poiché riguardanti prestazioni già eseguite da parte di lavoratori facenti parte dell’organico della Met sviluppo stessa”.

E più avanti: “con riferimento al Francesco De Grano riferisco che Pietro Macrì ci chiese di realizzare, per conto del De Grano stesso ed a sua richiesta, il sito del Laboratorio democratico Europeo con risorse della Met sviluppo e, quantomeno fino a settembre 2005, senza retribuzione. Noi definivamo questo tipo di prestazioni gratuite a favore di movimenti politici come “commesse investimento”. Pietro Macrì e Francesco De Grano erano promotori in loco dell’attività politica di Romano Prodi, in quanto vantavano stretta amicizia”, con tanto di foto nell’ufficio di Macrì: cheeeeeeeeeeese!

Altra cosa strana si scopre nella relazione datata 23 gennaio 2008 da parte dei Ros di Catanzaro: il sito del Laboratorio democratico europeo è stato registrato per conto del Laboratorio stesso ubicato a Vibo Valentia in via Olivarella 35, “quando è noto – scrivono i Carabinieri – che tale Laboratorio ha sede a Roma”. E – guarda caso – via Olivarella è la medesima via nella quale abita Giuseppe De Grano, padre del magico trio Francesco, Alessio e Maria Angela.

Le stranezze finiscono qua? Nossignori. Nella data in cui i Ros effettuano la visura, poco più di un anno fa dunque, la mail di riferimento per il Laboratorio Democratico europeo è adegrano@gmail.com e il numero di fax di Gozi, presidente, è lo 0963/991824. “Ma questa – scrivono sconsolati i Carabineri – è un’ utenza telefonica di Vibo Valentia e attestata alla Met sviluppo, come rilevato dal sito della stessa”. Nel sito del Laboratorio democratico europeo ogni riferimento alla mail “adegrano@gmail.com” è sparito: gli unici riferimenti contattabile, come già scritto nello scorso post, sono quelli di Sandro Gozi (ma alla Camera) e di Riccardo Hopps.

 


LA CAMPAGNA ELETTORALE, PRODI

E LA “MADONNA PELLEGRINA”

 


Il 23 gennaio 2007 alle 19.10, i Ros ascolteranno anche un altro personaggio, Antonio Aversano, anch’egli in rapporti di lavoro con Met sviluppo. Oltre a confermare l’investimento per fini politici e gratuito e gli scontri con Macrì, si intratterrà sui rapporti Macrì-Gozi-Prodi. “Devo innanzitutto dire – precisa Aversano – che Macrì mi propose di entrare a far parte del Laboratorio democratico Europeo…Francesco De Grano era, a dire del Macrì, uomo molto vicino a Prodi. In proposito riferisco un episodio avvenuto quando Prodi si recò a Lamezia per promuovere la campagna elettorale del candidato sindaco Gianni Speranza. In quella occasione Macrì mi invito ad avvicinarmi all’uscita del Teatro Grandinetti perché alla fine della manifestazione di sostegno avremmo salutato Prodi. In effetti Prodi era accompagnato, verso l’uscita, da Francesco De Grano il quale indicò Macrì a Prodi e i due si salutarono”. Come una Madonna Pellegrina.

 


MARIELLA DE GRANO E’ ANCORA IN PISTA



Prima di concludere questo post, un piccolo aggiornamento. A testimonianza che in Calabria il potere è sempre in mano alle stesse persone, vi informo del fatto che Mariella De Grano, come abbiamo visto moglie di Macrì, è consigliere di uno degli innumerevoli enti che vivono in questa regione: Vibo sviluppo spa. La sua nomina-promozione è recentissima: 20 maggio 2008. Uno dei componenti del trio De Grano’s è ancora in pista, dunque, e ci mancherebbe altro! In questa spa che dal 1997 ha il compito di gestione e pianificazione aziendale, con un utile a fine 2007 di ben…27.662 euro,  un Roi (il ritorno sugli investimenti) pari a -47,3% e un indice di sviluppo che parla da solo, con un -97,8% del fatturato 2007 sull’anno precedente, De Grano è in buona compagnia. Con lei, nel board ci sono o ci sono stati, bei noni della Calabria che conta ma che non ama apparire.

Alla prossima puntata, amici di blog, che metterò in linea giovedì 19 marzo con un’intervista esclusiva a Sandro Gozi sulla Loggia di San Marino. E come stradicono gli americani 4. to be continued

roberto.galullo@ilsole24ore.com

da robertogalullo.blog.ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. LA DENUNCIA DI VINCENZI, SINDACHESSA “SPLINDENTE”
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 11:00:05 pm
Esclusivo/La relazione Dna/2: Le mani delle mafie su Genova e Liguria ma sindaco, questore e prefetto…


Genova strega, ammalia e confonde. A partire dai politici. Non ne parliamo, poi, delle politiche (nel senso di donne). Animali – amministrativamente parlando – affascinanti. Genova strega, ammalia e confonde anche chi vi transita. Come, a esempio, questori e prefetti.

Protagonisti in settimana – amministratori locali e rappresentanti dello Stato – di uno sketch tragico-comico intorno a un tema serio: la mafia.

 

LA DENUNCIA DI VINCENZI,  SINDACHESSA “SPLINDENTE”

 

Prendiamo il sindaco di Genova, Marta Vincenzi. Sulla “Stampa” del 22 marzo 2009 tuona – svegliata dall’amorevole e caldo sole del primo giorno di primavera – contro le mafie nel capoluogo e, giustamente, il giornale diretto da Giulio Anselmi titola: “Le mani della mafia nel cuore di Genova”.

La “nostra”, il giorno dopo, ancora abbracciata ai tiepidi raggi, il  23 marzo rilancerà il suo pensiero attraverso le colonne della “Gazzetta del Lunedi” che titola: “Rischio mafia anche nei vicoli a Genova”. E li dichiarerà: “L’ultimo rapporto della Commissione antimafia è preoccupante, perché individua l’espansione delle mafie nelle aree più ricche dell’Italia del nord e indica la tendenza dello spaccio di eroina in aumento, perciò ho lanciato un allarme a favore della legalità”.

Benfatto. Che se ne parli. Sempre. Ma…
Ma qualcosa non mi tornava e allora sono andato a ripescare due miei articoli sul Sole-24 Ore del 27 e 28 maggio 2008 allorchè il direttore Ferruccio de Bortoli mi mandò come inviato a seguire in quella città il caso “mensopoli”.

Ebbene cosa titolava il mio giornale il 27 maggio? Ve lo dico subito: “Genova, l’ombra della ‘ndrangheta”. Per gli amanti dell’approfondimento, in calce a questo post, potrete leggere il pezzo che scrissi quasi un anno fa.

 

E’ PRIMAVERA SVEGLIATEVI BAMBINE (E BAMBINI)
 

Ebbene, dopo quell’articolo mi sarei aspettato una reazione – mi sarei anche accontentato dell’inarcamento sospetto di un sopracciglio – da parte della sindachessa Vincenzi Marta. Ohibo, pensavo tapino e meschino, scrivo di mafia a Genova, Vincenzi reagirà. E che diamine!

La incontro il giorno dopo in un ristorante: distesa e con un sorriso smagliante a 48 denti. Tra me e me penso (ari-meschino e ari-tapino): delle due l’una, o mi sputa in faccia o mi chiede di replicare all’inchiesta. Zero carbonella. Stretta di mano veloce e imbarazzo. “Se vuole - mi dice – possiamo vederci domani in Comune, ma avrò una giornata convulsa. Eventualmente si faccia sentire”. Se vuole? Una giornata convulsa? Eventualmente? Guardi sindaco - replico – forse non è chiaro: è interesse (anche) suo incontrarci. Sorriso che raddoppia e diventa a “96-denti-96” e arrivederci. E via – io, non lei – tra gli affascinanti carrugi.

Ora io dico: ma può un amministratore comunale di lunghissimo corso -  Vincenzi è stata consigliere comunale, assessore negli anni 90, presidente della Provincia, eurodeputato e infine sindaco – accorgersi solo il 22 marzo 20009 dell’esistenza delle mafie a Genova?

La risposta è: no, non può. Ma poi ti assale il dubbio. E così mi sono andato a prendere – e leggere – le “100 pagine 100” del programma con la quale Vincenzi si è candidata a sindaco della sua città: non “una volta una” è citata la parola mafia. Il tema semplicemente non e-si-ste. Si parla genericamente di sicurezza con tante belle parole ma ne-ssu-na denuncia diretta e tosta del fenomeno mafioso. Con quel programma è stata eletta sindaco il 27/5/2007. Dei tre numeri due sono ricorrenti: Vincenzi è infatti nata il 27/5/47, 62 anni fa.

 

LA PAROLA MAGICA: SICUREZZA!
ED ECCO A VOI…PINOCCHIO
 

La sicurezza, già. Bella parola che ricomprende tutto. O meglio: i politici ci fanno rientrare tutto. E così – visto che sono odioso anche a me stesso, figurarsi al potere – sono andato a spulciarmi anche il sito Internet del Comune: gli ultimi 32 comunicati stampa emessi dall’amministrazione (gli altri non sono visibili). Bene.

Il Comune ci informa che ieri, 25 marzo, a Genova ha fatto tappa un Pinocchio da primato (per nobili cause legate all’infanzia, premetto). Notizione condito da dettagli. “Si tratta – riporto testualmente - di un Pinocchio di legno alto 16 metri, una dimensione che dà a questa statua del celebre burattino il primato di Pinocchio più alto del mondo”. E giù con altri dettagli di cui i genovesi non potevano fare a meno (non lo dite in giro ma qualcuno si era anche vestito da Geppetto con i trampoli pur di incontrarlo tra i carrugi). “La statua di Pinocchio – trascrivo ancora - arriva dalla Svizzera dove è stata interamente realizzata in legno, con un abete bianco di 120 anni, proveniente dalla foresta di Burtigny, alto 46 metri e con un diametro alla base di 150 cm. La statua, costruita dall’Atelier Volet, carpenteria svizzera di St. Légier,  partirà da Montreux, passerà il confine al San Bernardo e dopo Genova proseguirà il viaggio per Collodi”.  Dite la verità: state pensando di rincorrere il Pinocchione per le valli svizzere, lassù tra prati e fior…

Negli altri 31 comunicati non c’è n’è uno che affronti il tema della criminalità organizzata. Ma il 24 marzo – in compenso – ancora al Secolo XIX, Vincenzi riporterà le dichiarazioni rese a Novara nel corso di un convegno dell’Anci (l’Associazione dei Comuni): “Bisogna valorizzare la sicurezza partecipata che viene dall’aggregazione dei cittadini, evitando le squadre di volontari mercenari . Non è vero che i reati sono diminuiti, non servono le ordinanze dei sindaci ma le politiche integrate”.

 

LE REAZIONI DI QUESTORE E PREFETO:

SENZA PAROLE…

 

Finora ho messo a nudo parecchie contraddizioni ma al sindaco Vincenzi va riconosciuto, comunque, il merito di aver risuonato l’allarme sulle mafie. Giù il cappello!

Mi sarei aspettato che – suonata la carica – la cavalleria (cioè lo Stato al quale comunque tocca garantire Giustizia e sicurezza) avrebbe attaccato lancia in resta.

E invece accade l’imponderabile. In sintesi ecco le straordinarie dichiarazioni rese nell’ordine a varie testate e agenzie dal prefetto e dal questore. Annamaria Cancellieri (prefetto): “Non ci risultano infiltrazioni mafiose, al contrario di quanto avviene nel Ponente”. E vai col tango! Mafia a Genova? “A noi non risulta” afferma il questore Salvatore Presenti. E vai col liscio!

Evidentemente hanno ragione loro e torto anche i responsabili di Sos-Impresa Confesercenti. Il leader Andrea Dameri – riporta il sito di Radio Babboleo – testualmente dichiara: “Tutti sanno tutto ma il problema non è mai stato risolto. La zona della Maddalena, a esempio, è da anni nelle mani di alcune famiglie vicine alla ‘ndrangheta”.

 
FORGIONE E LA SUA RELAZIONE? IN CAVALLERIA
 

E dire che – come ricorda Francesco Forgione nella relazione sulla ‘ndrangheta approvata dalla Commissione parlamentare antimafia nella scorsa legislatura, di cui Forgione è stato presidente – la ‘ndrangheta (e non solo) “sverna” in Liguria fin dagli anni 70.

Di fronte alla lettura del programma elettorale non capisco ma mi adeguo: devo prendere atto che effettivamente il sindaco Vincenzi non pensava che in Liguria e a Genova ci fosse un tale livello di penetrazione delle mafie – a partire dalla ‘ndrangheta – e così capisco perché il sindaco di lungo corso politico lo scopre solo il 21 marzo, mentre a Napoli sfilava nella Giornata della memoria contro le vittime della mafia (quasi 900 morti acclarati).

Allora, per non rischiare che un domani anche quell’ingenuone del Governatore della Regione Liguria, Claudio Burlando, scopra che in Liguria ci sono le mafie e per dare qualche elemento in più agli “sprovveduti” amministratori liguri (e a quelli al confine regionale), oltre che ai rappresentanti dello Stato, ecco che cosa si legge nella Relazione 2009 della Direzione nazionale antimafia. Ovviamente ve lo dico in sintesi. Come promesso, cari lettori, continuo nella “vivisezione” della relazione della Dna.

 

ANCHE LE TOMBE FANNO GOLA
ALLA ‘NDRANGHETA
 

I magistrati della Dna scrivono che nel Ponente ligure si riscontra la presenza più numerosa di esponenti delle cosche della Piana di Gioia Tauro e delle cosche della città di Reggio, mentre nella Riviera di Levante e nella zona (confinante) di Carrara, il dato prevalente è la presenza di cosche originarie della zona jonica e del catanzarese. Anche il settore lapideo (si insomma, il marmo, che freddo come il ghiaccio si posa anche sulle nostre tombe) è a rischio di infiltrazione.

E’ fantastico scoprire quanto i magistrati della Dda di Milano hanno già scoperto in Lombardia: cosche che in Calabria si scannano, in Liguria fanno l’amore in nome degli affari. Quali? Semplice: narcotraffico innanzitutto (e come ti sbagli con la presenza di tutti quei porti), gioco d’azzardo, appalti pubblici e servizi.

 

UN’ORGANIZZAZIONE METICOLOSA
 

Quale sorpresa – lo dico a quelli che ancora credono alla Befana o al fatto che la Padania e l’Insubria esistano davvero – scoprire che in Liguria ci sono “locali” di ‘ndrangheta.

I “locali” sono la struttura organizzativa di base della ‘ndrangheta (non si può prescindere dalla loro esistenza) e la Liguria ne conta ben nove: Ventimiglia, Lavagna, Sanremo, Rapallo, Imperia, Savona, Sarzana, Taggia e Genova. Il più importante – è al confine e dunque è ovvio – è il “locale” di Ventimiglia. Ma non perdetevi Sanremo: sapete com è…c’è il Casinò!

Per le cosche il riciclaggio va alla grande e così il reinvestimento speculativo, ma fa male leggere degli interessi in attività economiche legali controllate (riporto testualmente) “attraverso una fitta rete di partecipazioni societarie nel campo dell’edilizia, soprattutto, ma anche dello smaltimento dei rifiuti e del commercio e una spregiudicata pressione usuraria su operatori economici locali funzionale a obiettivi di sostituzione nell’esercizio di imprese in crisi finanziaria”.

 

COSA NOSTRA E’ VIVA E LOTTA…
…NEI CANTIERI NAVALI
 

Per chi credesse che Cosa Nostra è sparita dalla Liguria e dal suo capoluogo, eccovi serviti. Bisogna tener conto – si legge testualmente nella relazione a pagina 508 – “della perdurante operatività nella città di Genova e in altre zone del territorio regionale”. Perdurante: chiaro sindaco? Chiaro Burlando? Chiaro amministratori e rappresentanti dello Stato di ogni ordine e grado, sesso e religione?

E anche qui è inquietante scoprire che le indagini investigative stanno portando alla luce  proiezioni finanziarie e imprenditoriali nel settore della cantieristica navale con collegamenti tra gli impianti produttivi di Palermo e quelli della Spezia.

 

PERCHE’ LA MAFIA SI (RI)SCOPRE SOLO ORA?

 

A questa domanda è difficile rispondere e si può andare dunque solo per ipotesi. La prima è che la sindachessa dai denti “splindenti” si sia allarmata dal fatto che un bando comunale riservato alle imprese che volevano insediarsi nel quartiere della Maddalena e sviluppare lì la propria attività sia andato deserto. In tutto 1,3 milioni di euro che incredibilmente – in periodo di crisi – non fanno gola e che ora la sindachessa teme che vadano a finire nelle mani della criminalità organizzata. Ma perché, scusi sindachessa, non le risulta che la Magistratura stia da tempo mettendo (o abbia messo) sotto la lente decine e decine di milioni di euro stanziati per la bonifica dei siti industriali? A me risulta, l’ho anche scritto e nessuno lo ha smentito, così come nessuno ha mai smentito che Magistratura e Forze dell’Ordine starebbero indagando (o abbiano indagato) su alcune “famiglie” imprenditoriali a tutti – e ripeto, tutti – note. Che poi la magistratura si svegli, anch’essa, dopo anni di indagini , al primo sole di primavera, è un altro discorso.

Questo improvviso “risveglio” della sindachessa potrebbe spiegarsi proprio con la scoperta che le imprese sane hanno paura di entrare in alcuni business perché temono di rompere equilibri delicati.

Un’altra  interpretazione plausibile è che una valanga di milioni di euro – che ogni anno piove su Genova e sulla Liguria tra fondi pubblici, europei e degli enti locali – rischia di non essere più gestibile alla luce dell’alzo zero, da parte della criminalità, con il quale ormai le amministrazioni devono confrontarsi.

Certo è che a Genova c’è chi si è accorto da tempo che la mafia non è una parola vuota. A esempio la onlus “Sicurezza sociale” ( www.casadellalegalita.org ) che per il 4 aprile ha dato appuntamento a tutti gli uomini di buona volontà alle 15.30 in Piazza Senarega, nel cuore del centro storico. Una manifestazione contro l’illegalità, organizzata quando le dichiarazioni ai media non erano state ancora rese.

E’ bene prendere subito il toro per le corna anche perché in tempo di crisi economica le mafie godono. Come dimostra il titolo del Secolo XIX del 24 marzo a pagina 25: “Usura: il fenomeno cresce, l’osservatorio non decolla – Nato con il patto frimato nel 2007 in Prefettura, non si è mai riunito”. Meglio che si riunisca. E in fretta. Magari anche alla presenza della sindachessa, del questore e del prefetto.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

 

 

IL TESTO DELL’INCHIESTA PUBBLICATA IL 27 MAGGIO 2008 SUL SOLE-24 ORE

 

 

Inchiesta. Interrogato l'imprenditore Alessio sugli appalti mense, le indagini si allargano alle bonifiche
 
Genova, l'ombra della 'ndrangheta
 
Oggi Consiglio comunale, il sindaco Vincenzi prepara il rimpasto - GLI SVILUPPI INVESTIGATIVI La Procura sta valutando i progetti per le aree Stoppani e Cornigliano mentre la Dia cerca di fare luce sulle attività della famiglia Mamone
 
 
 

 
Roberto Galullo

GENOVA. Dal nostro inviato



Oggi Consiglio comunale decisivo a Genova, durante il quale il sindaco Marta Vincenzi potrebbe annunciare un ampio rimpasto della Giunta. Sempre oggi il gip Roberto Fucigna deciderà sulle richieste di revoca degli arresti degli indagati finiti in manette (ieri l'imprenditore Roberto Alessio, accusato di aver pagato tangenti, è stato interrogato per 5 ore e il resoconto è stato secretato).
La mini-tangentopoli esplosa a Genova per ora è un avviso ai naviganti. Una sirena urlata nelle orecchie dei poteri che hanno abbandonato la vecchia rotta e non trovano la nuova in grado di far navigare tutti. Incrinato l'equilibrio di potere politico – che ruotava fino a pochi mesi fa intorno all'asse Pericu-Scajola-Burlando, messo momentaneamente in discussione dal sindaco Marta Vincenzi nonostante gli schizzi di fango che la toccano attraverso il coinvolgimento del marito in alcune intercettazioni – sembrano per ora rimasti in piedi i centri di potere inossidabili: Opus Dei e massoneria.
L'asse di potere è stato messo in discussione quando Vincenzi ha sparigliato le carte sui fronti più caldi. A partire da quello del Porto dove al posto di Giovanni Novi (già ai domiciliari per concussione, turbativa d'asta e truffa in un'inchiesta sulle concessioni dei terminal) presso l'Authority ha voluto Luigi Merlo. Altro giocattolo incrinato è quello delle 33 partecipate del Comune, rifugio di centinaia di presidenti (tra cui un ex piduista), amministratori delegati e consiglieri che costavano oltre un milione all'anno. Ora sono in tutto 46 e costano 702mila euro. L'urbanistica infine – con tutto quel che ne consegue, compresa la delega trattenuta dal sindaco – che sarà terreno di battaglie in cui qualche politico rischia la faccia (e non solo).
In pochi qui credono che una Procura – lacerata da anni di guerre intesine – si muova solo per qualche appalto nella ristorazione, alcune raccomandazioni, due o tre favori e poco più. In molti ricordano che qui – prima di questi passi che stanno facendo tanto rumore – la magistratura ordinaria si è girata spesso dall'altra parte e quella contabile ha fatto le pulci a tutti tranne che al Comune di Genova.
No. Sotto c'è altro e i ben informati che non possono uscire allo scoperto raccontano che affari, inchieste e indagini – quelle pericolose davvero – ruotano intorno agli appalti della Regione (attraverso la finanziaria Filse) e per le bonifiche delle aree industriali. Qui girano i soldi: quelli che cambiano la vita anche agli amministratori disonesti. Appalti milionari, alcuni dei quali già affidati. Altri da bandire. Altri ancora in fase di stallo. Se le carte in mano a investigatori e magistrati si concretizzeranno in provvedimenti e sviluppi processuali, molto dipenderà da come i pezzi del potere genovese cercheranno di rimettere in sesto l'equilibrio che in questa città – dopo l'addio delle partecipazioni statali – era stato faticosamente trovato.
Sotto la lente della magistratura ci sarebbero, da tempo, innanzitutto gli appalti delle bonifiche delle aree di Cornigliano e Stoppani (fra Arenzano e Cogoleto). Le cifre a disposizione sono milionarie ma nessuno è in grado di quantificarle. Neppure il sindacato. «Abbiamo provato a chiedere i numeri – dichiara Sergio Migliorini, segretario generale della Cisl Liguria – ma niente da fare. L'accordo di programma per bonifica, risanamento, riconversione e sviluppo del polo siderurgico di Cornigliano rimanda, per le risorse, a leggi e norme. Di fatto la sola Cornigliano spa è in grado di saperne di più, ma dalla partecipata del Comune non esce nulla. Quanto alla riqualificazione dell'area Stoppani la situazione è critica. Sono in corso alcune opere di mantenimento ma nulla più». Nel frattempo sarebbero stati (solo) imbrigliati dal cemento fiumi di cromo, veleno allo stato puro.
Migliorini non lo dice ma forse lo sa: gli spezzoni di indagine di queste settimane sono figli di un filone molto più ampio che parte con le denunce alla Dia nel dicembre 2005 di Asia Ostertag, moglie separata di Vincenzo Mamone, imprenditore nel ramo bonifiche e smaltimento, che con la famiglia in Liguria ha creato un impero ed è impegnato nel recupero sia di Cornigliano che dell'area Stoppani. Mamone entra nell'indagine della Procura sugli appalti nelle mense ma il nome della famiglia compare soprattutto in un rapporto della Dia (Direzione investigativa antimafia) del 2002. Per la Dia la famiglia Mamone è legata alla cosca Mammoliti di Oppido Mamertina. E all'Ecoge – tra le società leader dei Mamone – e alle ditte ad essa collegata, la Procura di Genova chiederà il 1° febbraio 2008 la copia di tutti gli atti di concessione o lavori ottenuti anche dall'Autorità portuale.
Asia Ostertag, 41 anni, torinese, sposata con Vincenzo Mamone dall'85 al '99, accetta per la prima volta di parlare con un giornalista. Da febbraio 2006 all'estate dello stesso anno ha vissuto in regime di protezione, che ha poi lasciato perché delusa. «Alla Dia – racconta – ho detto tutto quello che sapevo della famiglia. A partire dal fatto che risultavo intestataria di decine di conti correnti, società, negozi e attività di cui non sapevo nulla. Un bel giorno ho detto basta a questo sistema folle che mi vedeva coinvolta anche in società estere». Di legami con la 'ndrangheta non parla ma i fatti che racconta dicono più delle parole. «Ho fatto da madrina ai figli di Carmelo Gullace – dice – e lui ha fatto da padrino ai miei». E i legami con la massoneria? «Mio marito era iscritto ad una loggia credo prima a Roma e poi Sanremo – dichiara d'un fiato – mentre io sono stata iscritta a una loggia di Genova dalla quale sono uscita quattro anni fa».
Asia si è ricostruita una vita che manda a gambe all'aria ogni regola di sangue delle famiglie calabresi. «Organizzo eventi erotici – svela – in cui sono protagonista. Non c'è nulla che può distruggerli più di questo mio atteggiamento». Prima di ritornare a casa fa una considerazione e una previsione. «Per uscire dalla famiglia, dalle società, dai legami e dalla massoneria – dice – ho impiegato anni. Credo, però, che quello che sta uscendo è solo la punta di un iceberg. Ancora non è stato scandagliato il pozzo nero degli affari. Quel giorno potrebbe arrivare e allora avrò paura».
Tutte e attività dei Mamone sarebbero sotto la lente della magistratura, ma senza dubbio lo sono della società civile. «Lo vado ripetendo da tempo – dichiara Christian Abbondanza presidente dell'onlus "La casa della legalità" – che Genova è lo specchio in cui si affaccia e si rifà il trucco la parte peggiore della Calabria».
L'inchiesta genovese ha avuto eco anche in Vaticano, dove prevale la «sorpresa» per la citazione in alcune intercettazioni dei nomi del segretario di Stato ed arcivescovo emerito di Genova Tarcisio Bertone e dell'attuale arcivescovo, Angelo Bagnasco. «È stata certamente una sorpresa – ha detto mons. Domenico Calcagno, ex vescovo di Savona e oggi segretario dell'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica – che nessuno di noi poteva immaginare e ci auguriamo che l'inchiesta confermi che i nomi di Bagnasco e Bertone siano stati solo abusati».
 

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da robertogalullo.blog.ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. Nel Sud il cemento della legalità contro il vento ...
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2009, 11:29:48 am
Roberto GALULLO


30/03/09

Nel Sud il cemento della legalità contro il vento dell’illegalità che soffia con l’energia eolica nelle mani di cosche e ‘ndrine
Dice il saggio: “vento e cemento, mafioso contento (e sconfitto)”.

Vi piace il motto che ho appena coniato? So già che qualcuna tra le “famiglie” amiche (sapete a cosa mi riferisco) dirà: ma ‘sto Galullo – che da anni ci spacca gli zibidei da mane a dì tra blog, Radio24 e Sole – non ha niente di meglio da fare che inventarsi nuovi slogan per svillaneggiarci e farci sentire quello che siamo, cioè vermi?

Ebbene sì: ho di meglio da fare, come ad esempio le due inchieste che saranno pubblicate domani, martedì 31 marzo, nell’inserto che il Sole-24 Ore dedica allo sviluppo sostenibile (curato da uno dei migliori giornalisti del Sole-24 Ore, Marco Mancini).

E in quell’inserto troverete due storie straordinarie che vengono dalla Sicilia e guardano, in particolare, al Sud. Entrambe le inchieste hanno una matrice comune: le mani delle cosche sul cemento e sull’energia eolica.

L’una è andata a buon fine. L’altra…Beh l’altra dipende dal grado con il quale Istituzioni, politica e opinione pubblica capiranno che le mafie sono più avanti dello Stato e della politica parolaia. Loro parlano. Gli altri (clan e cosche) si sono già tuffati a pesce in un business – quello dell’eolico . che di qui al 2015 vedrà circa 50 miliardi di euro investiti in Europa. E le mafie – si sa – non conoscono confini geografici.

Ma andiamo con ordine e vediamo innanzitutto cosa succede – di nuovo – nel ciclo del cemento a Trapani e che domani racconterò con dovizia sul Sole.


LA NUOVA ERICINA TORNA PER IMPASTARE LEGALITA’

 Siamo a Trapani, provincia nella quale le cosche dominano e condizionano tutto. Anzi si “cementano” con molti politici locali e nazionali grazie all’onnipotenza di Matteo Messina Denaro, boss (tossicodipendente e amante della bella vita giurano in molti) che fa e disfa ciò che vuole. Latitante certo. Ma una latitanza agevolata da troppe connivenze. Una latitante braccato da uomini dello Stato straordinari, a partire dai magistrati della Dda di Palermo (con delega su Trapani) e dal capo della squadra mobile Giuseppe Linares che vive a sua volta da braccato, nell’incuranza di un’Italia fatta a immagine e somiglianza di nani e ballerine, che raggiunge l’orgasmo con la tv e getta alle ortiche la legalità. E dimentica Uomini come Linares che vive scortato da anni 24 ore su 24 senza uscire praticamente mai dalla sua fortezza blindata.

Fuori, la fuori, per noi c’è la vita. Per lui (e per altri) la morte, sancita con il sorriso sulle labbra dai quaquaraqua di Cosa Nostra e dai loro insospettabili (!?) conniventi. Dovremmo chiedere scusa tutti a persone come Linares. Non si vive, infatti, di soli Saviano (a cui va, sia ben chiaro, il mio rispetto e il mio grazie più volte espresso in questo blog).

Ebbene a Trapani c’è un impianto – strappato alle mani del boss Vincenzo Virga – che dopo anni torna a produrre con un sistema innovativo: ingoia residui edili e sputa fuori materia prima per l’edilizia. Una delizia per il corpo (è un sistema ecocompatibile) e per la mente (che bello sapere che quegli uomini lavorano in proprietà, un tempo, di un mafioso).

Questo stabilimento produttivo è stato vissuto nell’indifferenza della città e della provincia (salvo poche eccezioni a partire dall’ex prefetto Fulvio Sodano e da Don Luigi Ciotti). E oggi? Oggi come viene vissuto?

Per capirlo ho fatto tre domande identiche all’attuale sindaco di Trapani, Girolamo Fazio e al politico per eccellenza che qui ha praticamente solo un nome e un doppio cognome: Antonio D’Alì Solina. (In calce a ogni domanda troverete mie brevissimi commenti contraddistinti da n.d.r, cioè note del redattore).

 
INTERVISTA DOPPIA: FAZIO E D’ALI’ SOLINA


Domanda. Qual è il suo giudizio sul "passaggio" del testimone dalla famiglia Virga a una cooperativa di lavoratori.


Risposta del sindaco Fazio: Non comprendo, sinceramente, la domanda (e dire che era facile facile n.d.r). Pensa che qualcuno in questo territorio possa esprimere un giudizio negativo sul fatto che sia stato sottratta ad un capomafia una sua proprietà? Qui non siamo tutti mafiosi…(excusatio non petita n.d.r.)


Risposta del senatore D’Ali Solina: Il problema della gestione delle imprese sequestrate ad organizzazioni criminali è estremamente complesso. Se da un lato la legge è chiarissima nei suoi fini sociali ed è stata puntualmente applicata in modo particolare nella provincia di Trapani, occorre anche, per il futuro, studiare forme più appropriate di gestione di tali imprese. In termini generali - la questione riguarda tutto il Mezzogiorno - e prescindendo dai casi singoli, occorre evitare a) che nel reinserimento delle aziende nell'ordinario circuito economico si possano aprire varchi a possibili nuovi momenti di infiltrazione b) che in qualsivoglia comparto, dove certamente pure opera una imprenditoria onesta e laboriosa, si vengano a creare attività fortemente assistite dallo Stato anche oltre la fase di avviamento, il che rischierebbe di alterare quel regime di competitività al cui rispetto sempre le associazioni di categoria, Confindustria in testa, sempre ci richiamano. (Il paradosso sarebbe che "conviene" essere sequestrati.)  (Io avevo fatto una domanda che non ha avuto risposta, ma pazienza, sarà per la prossima volta n.d.r)

 

Domanda: E’ ancora viva la polemica, anche molto forte, che l'ha contrapposta all'ex prefetto Sodano?

 
Risposta del sindaco Fazio: Non mi risulta di avere mai avuto alcuna contrapposizione (salvo contraddirsi, a mio umile e modesto giudizio, tra qualche riga n.d.r) con l’ex prefetto Sodano, cui ho riconosciuto sempre – anche quando non andava di moda – capacità e competenza per il ruolo coperto. Ho semplicemente espresso una mia idea e parlato di fatti e vicende vissuti direttamente e non per sentito dire, perché, mi dispiace per molti, ho sempre l’abitudine di dire quello che penso e soprattutto la verità. Da queste parti, però, capita spesso che se qualcuno dice quello che pensa e quello che pensa non corrisponde a ciò che è gradito è accusato di essere mafioso, colluso e quant’altro. La polemica non l’ho fatta io, ma chi, non si sa bene come, ha deciso di divulgare, peraltro solo in alcune parti che evidentemente interessavano, occultandone altre, una lettera riservata e personale che avevo inviato all’ex Prefetto.

 

Risposta del senatore D’Alì Solina: La questione è sub iudice e non ritengo - a differenza di altri - che i processi si debbano fare sui giornali. Se sono stato costretto ad agire giudizialmente è perchè le accuse che mi sono state mosse sono sprovviste del benchè minimo fondamento fattuale (infatti la cosa è finita nell’aula di un Tribunale e, ma sicuramente mi sbaglio, spetta solo ai giudici decidere se ci sia o meno fondamento, n.d.r.). Osserverò solo che: a) il Prefetto Sodano manifestò il suo disappunto per quel che era un normale avvicendamento di sede solo tre anni dopo lo stesso (il trasferimento è del 2003, la prima lettera di Sodano è del 2006), alla vigilia del suo collocamento a riposo. È a dir poco incredibile che non abbia sentito il dovere di denunciare subito - se davvero lo fosse stato - il sopruso filo-mafioso di cui ora dichiara di essere vittima; b) come potranno confermare tutti i responsabili del Viminale, a cominciare dall'allora Ministro Pisanu, non esercitai alcun ruolo - diretto o indiretto - sul trasferimento del Prefetto Sodano. Non era fra le mie competenze. La proposta di nomina dei Prefetti è, storicamente, una delle prerogative più gelosamente riservate al Ministro dell'Interno; c) i Prefetti che sono stati nominati successivamente al dr. Sodano hanno conseguito - senza vanterie e clamori - risultati ben superiori nella lotta alla criminalità organizzata. Segno evidente che le scelte effettuate dal vertice del Ministero sono state opportune e certamente l'avvicendamento non ha in alcun modo fiaccato l'azione di contrasto dello Stato (e voilà, con due parti di non chalance e un pizzico di eleganza ecco servito il cocktail che liquida un servitore dello Stato, Sodano, di cui a Trapani ancora molti piangono l’addio senza per questo non riconoscere la bravura di quanti lo hanno poi sostituito n.d.r.).

 

Domanda: Ha presenziato all'inaugurazione della "nuova" Ericina?

 

Risposta del sindaco Fazio: Certamente ho partecipato all’inaugurazione della nuova Calcestruzzi Ericina. Se non avessi partecipato, mi avrebbero accusato di essere mafioso o vicino ai mafiosi. Purtroppo, così funziona dalle nostre parti…La invito a venire nella nostra città, ma non solo per qualche ora o per qualche giorno e potrà rendersi conto personalmente di molte cose che, forse, possono apparirle come provocazioni (cari amici di blog, se c’è qualcuno tra voi che ha capito qualcosa di questa risposta alzi la mano e me la spieghi ma prima si vada a leggere la risposta che domani sul Sole darà Messina. Anche lui, come me, è abbastanza confuso n.d.r.)

 
Risposta del senatore D’Alì Solina: Non mi è pervenuto invito e comunque non avrei ritenuto opportuno andare dato che l'iniziativa si presentava in termini antagonistici nei miei confronti e per carattere rifuggo dalle risse politiche in cui chi urla di più crede di avere ragione (ma chi era antagonista nei confronti di D’Alì Solina? Ripeto la domanda agli amici del blog: se c’è qualcuno tra voi che ha capito qualcosa di questa risposta alzi la mano e me la spieghi via mail).

 

DAL CEMENTO AL VENTO…DELL’ILLEGALITA’

 

Ora lascio a voi, cari amici di blog, cogliere ogni sfumatura che vorrete nelle risposte dei due interlocutori. Io vi invito a leggere le risposte del responsabile della cooperativa, Gaetano Messina, domani sul Sole, ma vi posso anticipare la sintesi che ho già espresso sopra: “nessuno ci ha dato una mano, salvo noi stessi, Don Ciotti e l’ex Prefetto Sodano”. Ma sicuramente non è così!

Vi prometto amici di blog che continuerò a tenere i riflettori accesi sulla vicenda (sapete com è, la mafia assicurava e imponeva commesse all’impresa quando era nelle mani di Virga, ma adesso cosa accadrà?) anche perché i  nostri amici onesti di Trapani (la maggioranza ovviamente caro sindaco, lo so bene, senza che lei lo ricordi) lo meritano.

Così come occhi aperti bisognerà tenere sul nuovo business dell’energia eolica che fa troppo gola ai clan, come dimostra la recente inchiesta della magistratura che – ma guarda tu sempre a Trapani – il 17 febbraio 2009 ha portato all’arresti di otto tra imprenditori, funzionari e politici riconducibili a Messina Denaro si arricchivano con il business dell’eolico. Non erano imprese solo del Sud ma anche del Nord, anzi: del Trentino. Meditate gente, meditate.

Un allarme lanciato anche – negli ultimi tempi – da Legambiente, Coldiretti e persino da quel simpaticone di Vittorio Sgarbi, sindaco di Salemi. Tutti in coda al sindaco di Gela, Rosario Crocetta, che dal 2008 – tra l’indifferenza generale – aveva denunciato il rischio di infiltrazioni perché, dove ci sono affari lì c’è Cosa Nostra.

Un impianto in grado di generare 40 Mw di energia frutta infatti 8 milioni di euro all’anno (a fronte di investimenti modesti). Secondo la stima effettuata da Nomisma Energia per il Sole-24 Ore, dal 2002 al 2008 sono stati investiti complessivamente oltre 4,1 miliardi, di cui 1,6 nel 2008. Falck Renewables, società del Gruppo Falck, tanto per dare un’idea, ha messo in agenda ,5 miliardi per i prossimi tre anni.

E allora occhi aperti sull’energia eolica, visto che già la “Gazzetta del Sud” il 17 maggio 2008 titolava: “Le mani della ‘ndrangheta sui parchi eolici – Un arresto e cinque fermi della Dda di Catanzaro per le ripetute estorsioni a un imprenditore – C’era anche un balzello sul calcestruzzo” Il blitz della polizia in un cantiere a Curinga aveva svelato gli interessi i questo campo delle cosche Anello e Cerra-Torcasio-Gualtieri. E novità – sempre in Calabria – sono attese anche dall’indagine che la Procura  di Paola sta conducendo e che vede potenzialmente coinvolti personaggi di alto livello (politici, ma di politico non hanno nulla).

Occhi aperti – in generale - sugli sporchi business della criminalità organizzata sull’energia. Per rendersene conto basti un titolo, della “Gazzetta del Mezzogiorno” del 6 febbraio 2009: “A Bari il racket del black out: fuori uso 30 cabine, vendetta per l’appalto?” Un business che nella sola città di Bari – per soli appalti – vale 15 milioni di euro all’anno.

Eolo soffia tra le pale gigantesche dell’energia ma sta a tutti noi – politici e opinione pubblica - dirgli verso quale parte spirare: legalità o illegalità. La differenza non è da poco, come non è da poco scegliere quale impresa tutelare tra chi impasta mafia e cemento e chi dà nuova forma ad ambiente e legalità.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

 
Scritto alle 08:08
DA ILSOLE24ORE.COM   


Titolo: Roberto GALULLO. Le mani di mafie e Casalesi su Parma ma non dite al prefetto...
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2009, 11:13:58 pm
02/04/09

Relazione Dna/3: Le mani di mafie e Casalesi su Parma ma non dite al prefetto Scarpis che Saviano ha ragione…


«Lanciare per l’Italia questi delinquenti ha significato fecondare zone ancora estranee al fenomeno mafioso». Correva il 1974 quando il giudice istruttore di Palermo Cesare Terranova – assassinato da Cosa Nostra nel capoluogo siciliano con la sua guardia del corpo il 25 settembre 1979 – lasciò cadere questa frase in un incontro a Milano.

Terranova – dunque – non aveva in mente l’Emilia-Romagna e Parma quando pronunciò quelle parole, che però a questa regione e alle sue città calzano come un paio di scarpe nuove.

Ricordo a voi, cari amici di blog, queste frasi dopo aver letto le penose (e lo dico in senso cristiano) dichiarazioni del prefetto di Parma dopo la splendida denuncia in tv di Roberto Saviano. Lo scrittore campano – credo lo sappiate – il 27 marzo è andato da Fabio Fazio su Rai3 per tenere una lezione di civiltà, democrazia, tolleranza e denuncia. Tra le argomentazioni usate – ricorderete – anche la presenza della camorra a Parma.

Apriti cielo! Il prefetto della città – Paolo Scarpis – tuona contro Saviano e nega la presenza della Camorra usando un linguaggio (a mio avviso) scomposto e ironico. Le fonti – dice Scarpis - sono sicure: dalla Dda di Bologna alla Dia di Firenze.

A nulla serve che proprio il procuratore a capo della Dda di Bologna, Silverio Piro, testualmente dichiari: “Saviano non solo ha le idee chiare e riesce ad attaccare con assoluta indifferenza chiunque ma è una delle stelle che brillano nel buio della lotta alle grandi organizzazioni criminali. Per quanto riguarda Parma è evidente che è stata ed è interessata da infiltrazioni di organizzazioni criminali'. E lo dimostra il fatto che la Dda di Bologna e Napoli hanno indagini aperte di cui ovviamente non si può parlare''.

Touchè! Alcuni sindacati di polizia si sono persino spinti a chiedere le dimissioni di Scarpis.

 

IL TENERO SCARPIS VI RIMANDA ALL’ULTIMA PAGINA…DEL CURRICULUM

 

Forse un’attenuante per Scarpis c’è: l’inesperienza. Ma come – direte voi – è un servitore dello Stato di lungo corso: questore da Brindisi a Milano, passando per Brescia e La Spezia! Certo, però è diventato prefetto solo il 26 marzo 2008. Prima sede: Parma. “Sparate di uno che vice a 800 km di distanza da Parma “ ricama dolcemente Scarpis su Saviano. Il prefetto, evidentemente, conosce cose che nessuno può sapere: vale a dire dove abita o risiede Saviano, costretto ad una vita errabonda essendo nel mirino dei Casalesi di anni.

Benedico questa polemica perché permette di parlare di temi – le mafie in Emilia-Romagna – che altrimenti sarebbero confinati nelle stanze e nei pc dei soliti noti: i 4 gatti (tra i quali indegnamente mi infilo come “micio di riserva”) che gridano da anni contro la presenza delle mafie al Nord.

E dunque – anche a Scarpis, che oggi è a Parma e magari domani si potrebbe trovare a Reggio, Forlì, Modena o Bologna – ho deciso di dedicare un’inchiesta a puntate sulla presenza e sul radicamento delle mafie (tutte le mafie) nella ricca (o non più?) ex regione rossa (ormai i comunisti se li sono mangiati gli altri!)

Un’ultima avvertenza: fino a qualche anno fa a Roma e a Milano c’erano prefetti che negavano l’esistenza delle mafie nelle due capitali (politica e morale). C’è bisogno di aggiungere altro? Il prefetto Scarpis è in buona compagnia.

 

LA RELAZIONE DELLA DNA 2008 (E…2007)

 

Per capire come stanno le cose ho fatto la cosa più semplice – e oggettiva – del mondo: ho letto la parte scritta dal sostituto procuratore nazionale antimafia Carmelo Petralia nella relazione 2008 della Dna (della quale ho già scritto diversi post in questo blog ai quali rimando).

Ebbene, stenterete a crederlo, Petralia mette nero su bianco le ragioni di Saviano. Leggere a pagina 383 e seguenti per credere.

“…Occorre al contempo sottolienare -  scrive Petralia che evidentemente non deve essersi consultato con Scarpis e che fa riferimento ai tanti sodalizi criminali in Emilia-Romagna e, vedremo, anche a Parma - come il consolidamento di quella rassicurante tendenza, che in sé, in larga misura, dipende dalla continua rinnovazione della capacità di razionale

organizzazione delle attività di contrasto, sia sempre più gravemente minacciato dal continuo affiorare dei segnali di pericolose contaminazioni criminali del territorio regionale (con precipuo riferimento, soprattutto, alle province di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza e all’influenza sia di gruppi mafiosi originari del crotonese e della provincia di Palermo sia, soprattutto, del potente cartello camorristico dei Casalesi).

Che impunito ‘sto Petralia: ha il coraggio di parlare dei Casalesi in regione. E financo a Parma!

Ma impunito era stato nel 2007 anche il sostituto procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo che nella relazione della Dna aveva scritto – non ci crederete – le stesse identiche cose!

 

L’INFLUENZA DEI CASALESI

 

Ma il magistrato Petralia ha anche il coraggio di scendere nel dettaglio ed ecco cosa scrive nel capitolo chiamato: “L’influenza di gruppi camorristici e, in particolare, del cartello dei “Casalesi”.

“In particolare – scrive il magistrato - soggetti camorristici riconducibili alla detta organizzazione criminale risultano stabilmente residenti soprattutto nell’area che abbraccia i comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola, Bomporto, Soliera, S. Prospero, Bastiglia e Mirandola, dove hanno dato vita ad articolazioni operative che - originariamente create ai fini di supporto logistico tipicamente inerenti all’esigenza di assicurare rifugio e protezione a pericolosi latitanti collocati in posizioni di rilievo nell’organizzazione di riferimento - sono ormai programmaticamente votate soprattutto a sostenere ed alimentare un’azione di penetrazione finanziaria nei mercati immobiliari e delle imprese della regione emiliana, che, per dimensioni obiettive e registrata sofisticazione dei canali operativi adoperati (anche attraverso l’impiego di società di costruzioni e finanziarie direttamente riconducibili ai fini speculativi dei vertici dell’organizzazione mafiosa in parola e la complicità di soggetti d’impresa locali), ha ormai raggiunto livelli grandemente allarmanti.

E scende ancora più nel dettaglio Petralia.

Innanzitutto – scrive a pagina 387 e seguenti -  ai protagonisti di tali insediamenti criminosi, attivi soprattutto nella zona di Modena, Reggio Emilia e Parma (ma ormai anche in quelle di Bologna, Rimini e Ferrara) è risultata riconducibile la pressione estorsiva esercitata sul mercato dell’edilizia privata, attraverso l’esportazione dei moduli operativi tipici delle zone camorristiche, ormai non soltanto nei confronti di imprenditori edili provenienti dalla medesima area geografica (nella evidente supposizione che le vittime si astengano da ogni denuncia all’autorità, per timore di ritorsioni dirette o trasversali), ma anche locali. L’obiettivo rilievo di tale pressione estorsiva di matrice mafiosa appare in sé dimostrato in plurimi ambiti investigativi, segnalandosi, in particolare, le risultanze delle indagini direttamente condotte,in ragione della loro obiettiva connessione con la struttura originaria dell’associazione criminosa dei Casalesi coinvolta, dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli con riguardo al nucleo camorristico organizzato in Emilia da Caterino Giuseppe e, più di recente, dal grave episodio dell’8 maggio 2007 in cui un commando proveniente dall’agro aversano, gambizzava con colpi di arma da fuoco l’imprenditore edile Pagano Giuseppe, di San Cipriano D’Aversa, in tal caso consentendo le investigazioni l’immediata cattura e l’arresto dei responsabili del delitto, individuati negli affiliati al clan dei “Casalesi”Diana Enrico (nipote del boss Diana Raffaele), Spatarella Rodolfo, Virgilio Claudio Giuseppe e Novello Antonio (quest’ultimo da tempo abitante in provincia di Modena), allo stato tutti detenuti.

L’intero episodio delittuoso ha infine acquisito più complete connotazioni

anche in esito al proficuo collegamento investigativo con la Dda di Napoli,consentendo l’emissione di un ordinanza di custodia cautelare a carico di tutti gli altri soggetti a vario titolo coinvolti nel delitto. Il 1° aprile 2008 il provvedimento – emesso nell’ambito del procedimento n. 5697/08 Rgnr – è stato eseguito nei confronti di Abatiello Armando, Abatiello Enzo, Diana Mario, Natale Nicola, Noviello Luigi, Noviello Vincenzo e Pagano Felice, rimanendo latitante il solo Diana Raffaele, anch’egli destinatario della misura.

 

OLTRE AI CASALESI ALTRI 11 CLAN

 

Peraltro, finalità delittuose di estorsione ed usura risultano connotare anche l’azione nel territorio del distretto di altri gruppi camorristici, come dimostrato dalla grave vicenda estorsiva della quale sono stati protagonisti uomini del clan D’Alessandro di Castellamare di Stabia ai danni di un loro concittadino che aveva aperto un locale pubblico-ristorante in Salsomaggiore (in tal caso, peraltro, la denuncia della vittima è valsa a consentire un efficace intervento repressivo),

culminato con la sentenza con la quale il Tribunale di Parma ha condannato i cinque imputati - tutti appartenenti al “Clan D’Alessandro”, compresi i due fratelli D’Alessandro, uno dei quali per lungo tempo latitante e solo di recente arrestato – a pene severe, riconoscendo la sussistenza dell’aggravante di aver agito avvalendosi della forza intimidatrice dell’organizzazione camorristica facente capo alla stessa famiglia D’Alessandro”.

E ora chi glielo dice a Scarpis e a chi pensa che le mafie in questa regione non sono pervasive, che il sottoscritto – umilmente – è riuscito a contare le  12 principali famiglie di camorra presenti in Emilia Romagna? Ecco la “top 12”: Belforte, Casalesi (area privilegiata: Castelfranco Emilia, Nonantola, Bomporto, Soliera, San Prospero, Bastiglia e Mirandola), Esposito, D’Alessandro, Schiavone, Zagaria, Panico, Mazzarella, Falanga, Bardellino, Pellegrino e Diana.

E a proposito di Zagaria ecco cosa scrive Papalia: “Ulteriori, assai emblematiche risultanze, sempre originate dalle indagini della Dda. di Napoli complessivamente riferite alla struttura associativa originaria, sono emerse con riguardo alle attività delittuose delle articolazioni delle organizzazioni camorristiche casertane facenti capo al latitante Zagaria  Michele ed all’ancor più noto Schiavone Francesco, detto Sandokan”.

E ora chi glielo dice a Scarpis che il 28 marzo Conchita Sannino su Repubblica ricordava che il boss Pasquale Zagaria “è imparentato con imprenditori di Parma già condannati per associazione mafiosa: Aldo e Andrea Bazzini, che avrebbero avuto anche un ruolo di mediazione tra la camorra e alcuni politici locali e nazionali”?

 

NON DI SOLA CAMORRA VIVE PARMA…

 

Ma per chi credesse che in Emilia Romagna e a Parma viva e vegeti solo la camorra, niente di più sbagliato. Ecco cosa scrive il solito Petralia a pagina 383 e 384, allorchè rileva “…non secondarie presenze nelle province di Parma e Piacenza (i cui territori sono contigui alle province della bassa Lombardia nelle quali sono attive, come noto,dirette articolazioni strutturali di alcune delle più pericolose cosche calabresi) ed in quella di Rimini (ove pure operano cellule di cosche crotonesi e reggine attirate dai ricchi mercati locali del gioco d’azzardo e del traffico di stupefacenti)”.

E per chi ancora crede alla Befana eccovi fresca fresca un’agenzia Apcom del 31 marzo (cioè di due giorni fa). “Con l'accusa, a vario titolo, di spaccio di sostanze stupefacenti e clonazione di carte di credito e
bancomat – si legge nel lancio delle 14.20 - i Carabinieri di Parma hanno arrestato quattro persone, a conclusione di una complessa indagine
convenzionalmente denominata gratta e vinci coordinata dalla Procura della Repubblica-Dda di Bologna. L'inchiesta, chiamata operazione 'Gratta e vinci', era partita da numerose denunce per clonazioni di carte di credito tra le province di Parma, Verona e Reggio Emilia”.

E come titola il giorno dopo la Repubblica, nelle pagine di Parma, questa notizia? “Spaccio e bancomat clonati: la mano della 'Ndrangheta su Parma”. E poi commenta: “ Sei arresti e diversi grammi di coca sequestrati. Ai domiciliari il gestore dell'Agip di via Emilia Est accusato di spaccio e di aver inserito, con la complicità dei calabresi, un microchip nel suo Pos bancomat. Migliaia i parmigiani truffati e i soldi andavano nelle casse della cosca”.

Chissà cosa ne penserà il prefetto di Parma di questa “provocazione giornalistica”!

Nel frattempo io penso di fermarmi qui – lasciandovi con un’ultima annotazione: oltre alle famiglie palermitane, Cosa Nostra a Parma e in Emilia-Romagna è presente anche con quelle di Caltanissetta - e vi rimando a lunedì 6 aprile per la seconda puntata delle mafie in Emilia-Romagna.

1. to be continued

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 07:54
 
da ilsole24ore.com


Titolo: Mafie in Emilia-Romagna/2
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2009, 10:14:10 am
06/04/09

Mafie in Emilia-Romagna/2

Il prefetto di Parma “amico” di Saviano punta a Milano? Da Cesena a Modena la criminalità…sciala
Cari amici di blog eccoci alla seconda puntata sulle mafie in Emilia-Romagna.

Chi ha seguito la prima puntata  - pubblicata su questo blog giovedì scorso – sa che siamo partiti dalle avventate dichiarazioni del prefetto di Parma, Paolo Scarpis il quale, in polemica con Roberto Saviano, ha dichiarato che nella città ducale la Camorra non c’è.

Beata spensieratezza! Beata gioventù! E così – armato di dati oggettivi come dovrebbe fare ogni buon giornalista – giovedì scorso, 2 aprile, ho cominciato la mia inchiesta sulla penetrazione devastante delle mafie in questa splendida regione, partendo proprio da Parma dove Camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra operano da anni. Oggi proseguiamo con altri dati e testimonianze. Con buona pace di Scarpis, del resto zittito dalle stesse fonti giudiziarie che aveva chiamato in causa.


L’UCCELLINO DICE CHE …

 
Accade però che un uccellino (di solito molto ben informato) mi dice che Scarpis punti a diventare prefetto di Milano, atteso che l’attuale prefetto, il mio amico Gian Valerio Lombardi (quando ero responsabile delle pagine degli enti locali del Sole, 15 anni fa, cominciò la nostra collaborazione che lui prosegue con grande seguito) sarebbe in procinto di prendere il posto di Mauro Masi, ex segretario generale della Presidenza del consiglio dei ministri, ora volato alla direzione generale della Rai.

Sia ben chiaro: auguro a Scarpis (che magari smentirà questa voce dall’uccellin sortita) una carriera fulminante visto che quella di Parma è la sua prima nomina ma – da umile osservatore critico quale sono – spero che se dovesse arrivare dalle parti di Letizia Moratti, ripassi prima la storia della criminalità organizzata (passata ma soprattutto presente) di Milano e della Lombardia. Chi segue questo blog sa che ne ho già scritto in abbondanza (a rimorchio delle mie inchieste sul Sole). Cosche, clan e ‘ndrine stanno già apparecchiando la mensa della spartizione miliardaria in vista di Expo 2015. Non dovrebbe essere difficile cadere in nuove cadute come quelle di Parma, visto che Scarpis a Milano c’è già stato come questore.

 
COSA NOSTRA ARRIVA E CORREVA L’ANNO….

 
La legge sul soggiorno obbligato portò a Castel Guelfo – già nel 1958 come ricorda lo storico Enzo Ciconte nelle sue ricerche sulla penetrazione delle mafie in Emilia-Romagna – Procopio Di Maggio, capo mandamento di Cinisi. «Per volere dei Corleonesi di Totò Riina – racconta Ciconte – Di Maggio era componente della commissione provinciale di Cosa Nostra, condannato al maxi processo di Palermo e successivamente imputato per l’omicidio di Salvo Lima».

Da allora fu un’ondata inarrestabile di mafiosi, camorristi e ’ndranghetisti che hanno invaso ogni provincia dell’Emilia-Romagna, facendo affari d’oro dapprima con l’usura e poi, sempre più velocemente, penetrando i mercati del commercio, degli appalti, dell’edilizia, del gioco d’azzardo, della prostituzione e dei locali notturni che ben si prestano al business principale: il traffico di droga.

Per chi non volesse (a dispetto delle evidenze e della logica) credere che l’Emilia-Romagna è un eldorado per le mafie, basta muoversi tra passato e presente. Un viaggio nella memoria verso l’attualità che parte da un arco temporale ben preciso e un dato approssimato per difetto: tra il 1961 e il 1995 i sorvegliati speciali e con obbligo di soggiorno sono stati almeno 3.562, con una prevalenza nelle province di Forlì, Rimini, Parma e Modena.

Altra tappa-flash nel tempo: tra il ’74 e il ’76 don Tano Badalamenti "sverna" a Sassuolo a spese dello Stato. Secondo un rapporto della Criminalpol del 1979 «manovrava ogni attività illecita di Modena».

Non solo Cosa Nostra ovviamente. Camorra e ’ndrangheta – per non essere da meno - sposteranno armi, bagagli e affari a Budrio, Rimini, Fiorano Modenese e Cesenatico (solo per citare i primi nomi, di una lunga lista, che vengono in mente). E l’opposizione dei sindaci? Zittita: con le buone o con le cattive. Gianfranco Micucci, sindaco di Cattolica nel 1993 gridò in faccia alla Commissione parlamentare antimafia che la sua città sarebbe entrata nel guinness dei primati per il più alto numero di sorvegliati e soggiorni obbligati. Risposte: zero. Attenzione: sottozero.

 
IN EMILIA ROMAGNA ALMENO 63 “FAMIGLIE”

 
Atterrando ai giorni nostri con questo viaggio-lampo nella memoria, eccoci in un presente fatto di almeno 63 tra famiglie, cosche e clan, da me calcolate senza dubbio per difetto (37 di ‘ndrangheta, 12 di camorra, 12 di Cosa Nostra e 1 della Sacra Corona Unita).

Nell’ultimo Rapporto di Sos-Impresa Confesercenti, si scopre anche che il 5% dei commercianti emiliano romagnoli (soprattutto tra Modena, Bologna e la Riviera) è sottoposto a pizzo. E non siamo a Palermo si badi bene!

Non è una sorpresa scoprire che oggi sono le ’ndrine a dettare legge. Sono 37 le principali famiglie da me censite e scorrendo l’elenco la ’ndrangheta non fa sconti: ci sono le ’ndrine di Platì, della Piana di Gioia, di Reggio Calabria, di Isola di Capo Rizzuto, via via fino ai cutresi. Talmente forti questi ultimi – presenti a decine di migliaia soprattutto nella provincia di Reggio – da obbligare molti candidati sindaci del paese natio a salire fino in Emilia per fare la propria campagna elettorale. Cutresi capaci di lavorare onestamente nell’edilizia ma, anche, di diventare all’occasione teste di ponte per il riciclaggio del denaro o per la costituzione di società nuove di zecca nel settore dei lavori pubblici, ma con capitali sporchi alle spalle.

La ’ndrangheta, come ricordava lo scorso anno il magistrato della Direzione nazionale antimafia Giovanni Melillo, sta progressivamente occupando il mercato del gioco d’azzardo. «Segnatamente – dichiarava – a Rimini, Riccione e Ravenna». Ma non solo: appaiono sempre più evidenti i fenomeni di riciclaggio, soprattutto nel Forlivese, attraverso imprese con sede a San Marino.

Le cosche calabresi – insomma – spaziano a tutto campo e vestono il doppio petto quando si presentano come professionisti o imprenditori. «La ’ndrangheta calabrese – dichiara Mario Spagnuolo, della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro – gestisce in termini monopolistici il mercato delle costruzioni in alcune zone dell’Emilia Romagna. Nell’indagine Omnia si parla della realizzazione di un complesso edilizio di 500 appartamenti».

La ’ndrangheta imprenditrice, insomma, che nasconde e protegge calibri insospettabili come Pasquale Condello, il "supremo", boss di Reggio Calabria, paragonabile per il suo potere a Bernardo Provenzano. Condello, arrestato il 19 febbraio 2008, aveva il cuore in Calabria e il portafoglio a Cesena dove – attraverso una fitta rete di prestanome – era titolare di conti correnti, fondi, gestioni patrimoniali, società immobiliari, uffici, depositi, autosaloni, terreni. Tutto sequestrato, per un valore a Cesena di almeno 15 milioni.

Camorra e Cosa Nostra hanno dovuto lasciare spazio allo strapotere delle famiglie calabresi ma non sono rimaste a bocca asciutta. I Casalesi – come avrete letto nello scorso post - dettano la propria legge tra Castelfranco, Nonantola, Bomporto, Soliera, San Prospero, Bastiglia e Mirandola. Immobili e finanziarie il loro cavallo di battaglia, senza perdere d’occhio traffico di droga, locali notturni, pizzo e racket. Non è un caso, dunque, che proprio a Castelfranco due anni fa fu gambizzato un imprenditore edile campano. Regolamento di conti? In attesa degli sviluppi, il 1° aprile 2008 i Carabinieri hanno offerto in dono al clan dei Casalesi nel modenese un bel pesce d’aprile, arrestando sei affiliati ritenuti responsabili dell’agguato. Alcuni giorni dopo, il 7 aprile, altro pesce di aprile in ritardo: 5 Casalesi arrestati, tra Bastiglia e Modena, accusati di imporre pizzo, tangenti a imprenditori della zona.

E Cosa Nostra? Non gambizza come i camorristi e non compie attentati come la ’ndrangheta. Abile a mimetizzarsi e scaltra come poche anche a seguito della primogenitura degli affari sporchi in questa terra, è attiva soprattutto nel Modenese, con una penetrazione profonda nel settore delle opere e degli appalti pubblici. Abili – in particolare – i Corleonesi, che puntano senza riserve sulla ricca torta dell’Alta velocità. Troppo furbi per prendere direttamente appalti, si buttano nei sub-appalti, nella movimentazione della terra e nel noleggio di macchinari e personale. Qui, però, la cronaca si ferma: le indagini sono in corso e si spera che corrano più speditamente di un treno ad alta velocità.

E qui mi fermo anche io, dandovi appuntamento a giovedì prossimo, 9 aprile, con l’ultima puntata

2. to be continued


roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 08:38


Titolo: Roberto GALULLO. Le mafie in Emilia Romagna/3
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 10:45:08 am
Le mafie in Emilia Romagna/3:


Reggio Emilia in provincia di…Cutro e i capitali russi arrivano e riciclano.


Ed eccoci all’ultima puntata della nostra inchiesta sulle mafie in Emilia-Romagna, partita a seguito di un’improvvida uscita del prefetto di Parma Paolo Scarpis secondo il quale in città la camorra non esiste (rimando alle altre due puntate).

Questa uscita – criticata da tutti – mi ha dato la possibilità di fare l’inchiesta a puntate, grazie anche ad un altro “gancio”: la relazione 2008 della Direzione nazionale antimafia (Dna), da poco resa nota e che da settimane sto sviscerando (e continuerò anche nelle prossime, statene certi).

 

I CAPITALI DALLA RUSSIA

 

 Una valigetta e tanta voglia di stupire al rientro in Patria. È cominciata così – come in un affresco del neorealismo cinematografico italiano in cui l’emigrato partito povero tornava a casa in estate con la fuoriserie da sfoggiare per l’invidia dei compaesani – la penetrazione dei capitali russi in Emilia-Romagna.

La spocchia dei nuovi ricchi – che atterravano all’inizio degli anni Novanta a Rimini e ripartivano con le valigie piene di prodotti made in Italy da rivendere a casa – durò poco e lo "shopping tour" (come veniva chiamato) si tramutò presto in senso degli affari. Con un’altra parola: riciclaggio.

Già in un rapporto del 1997 si legge che le autorità di polizia informavano il ministero dell’Interno che «dietro la costituzione di agenzie turistiche a capitale misto italo-russo si potessero celare affari illeciti di varia natura, non ultimo l’immigrazione clandestina di donne da avviare alla prostituzione».

“In quegli anni – ricorda Luigi De Ficchy, fino allo scorso anno sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia – tutti i tour operator venivano tenuti d’occhio, perchè c’era il rischio concreto che tra tanti viaggiatori, ci fossero non pochi riciclatori”. “Ricordo che a Forlì – mi disse De Ficchy poco prima di lasciare la sua stanza nella sede della Dna a Roma con destinazione Procura della Repubblica di Tivoli, che oggi guida – molte di queste attività di viaggio dubbie erano nelle mani dei fratelli Petrosian. Credo che ora siano scomparsi dalla circolazione».

La mafia russa ha trovato una propria collocazione colmando gli spazi vuoti lasciati dalle mafie italiane. «Gli unici accordi con le consorelle nostrane, almeno per la fase più recente – ha scritto uno studioso come Enzo Ciconte – hanno riguardato il traffico di armi e le opere d’arte. Non ci sono stati finora attriti o scontri degni di nota tra mafie italiane e mafia russa. Quest’ultima è molto attenta ad agire su territori non occupati, interessandosi di segmenti di mercati criminali non coperti da altri».

 

IL CASO “RUSSIAGATE”

 

L’appetito vien mangiando e non è un caso che nel 2002 esploderà il filone italiano del “Russiagate”, che ha inizialmente coinvolto Usa ed Ex Unione Sovietica. E dove esplode? Proprio in Emilia-Romagna, dove si sospettava che la mafia russa riciclasse miliardi di provenienza illecita. Il meccanismo era semplice: si costituivano diverse società di facciata e si aprivano conti correnti bancari presso banche estere (in particolare statunitensi). Infine si falsificavano documenti ad arte che nascondevano la vera natura delle transazioni commerciali. Il giro d’affari stimato si aggirava intorno ai 500 milioni di euro (in meno di tre anni). Prove e indizi non ressero però al vaglio giudiziale e qualcuno disse che non furono poche le lacune e le mancanze dovute, forse, alla sorpresa di trovarsi di fronte a un fenomeno nuovo.

Vero o no, un fatto è assodato: è difficile cogliere con le mani nel sacco i mafiosi russi. «Si muovono bene – racconta ancora De Ficchy – e in passato hanno utilizzato la potente e oliata macchina del Kgb, il servizio di spionaggio, per la fuoriuscita di capitali. Non dimentichiamo, inoltre, che almeno il 70% delle attività imprenditoriali in madrepatria è in mano alla criminalità organizzata. Infine una riflessione che può indurre a capire come si muove la mafia russa. Loro hanno una rete unica al mondo, formata da professori universitari di alto livello, imprenditori che parlano più lingue e, soprattutto, una diretta competenza economica e finanziaria. Non è come in Italia dove i mafiosi sono costretti ad appoggiarsi a chi conosce mercati e finanza».

Giramondo, giovane, motivato, insospettabile: eccolo dunque il profilo del mafioso delle ex repubbliche sovietiche che secondo molte indiscrezioni (al vaglio di indagini complesse che, però, camminano lentamente) oggi investe anche in catene alberghiere e attività turistiche, così contigue ai viaggi di piacere in Riviera con i quali tutto ebbe inizio.

Indagini, vale la pena di sottolineare, difficili anche perchè la collaborazione oltre l’ex cortina di ferro è spesso impossibile. «L’interesse a collaborare – conclude De Ficchy – e il sistema di relazioni sono scarsi e il contributo è spesso formale».

 

REGGIO E’ IL SALVADANAIO DELLA ‘NDRANGHETA

 

Parole scontate se non fosse che Reggio non è quella di Calabria ma quella nell’Emilia (come recitano i vecchi atlanti geografici). E se non fosse che a pronunciarle non fosse un magistrato calabrese ma Italo Materia, procuratore capo della Repubblica a Reggio Emilia, nel corso di un colloquio riportato dalla «Gazzetta di Reggio» il 22 ottobre 2005.

Da allora a oggi qualcosa è cambiato ma solo perchè i metodi si sono affinati e gli uomini della ’ndrangheta girano in doppiopetto, sono sempre più iscritti negli Albi e negli Ordini dei professionisti e sono entrati a pieno titolo nel mondo dell’impresa e dell’economia (apparentemente) legale attraverso il riciclaggio del denaro sporco.

Reggio e la sua provincia non sono, dunque, quelle di quasi 40 anni fa, quando un intenso flusso migratorio comincio a portare in quest’area e nelle vicine province di Mantova e Cremona, decine di migliaia di cutresi. E proprio in quegli anni la cosca dominante a Cutro (Kr) – la famiglia Dragone – allungò a Reggio i suoi tentacoli cominciando un’attività di pesante vessazione nei confronti dei corregionali che nel frattempo avevano cominciato a farsi onore soprattutto nel campo del commercio e dell’edilizia.

Pizzo, racket e usura furono i primi gradini, fino a salire la gerarchia del crimine organizzato con il traffico (in grande stile) della droga e l’infiltrazione nell’economia legale attraverso acquisizioni e prestanomi. Per non parlare del vortice delle false fatturazioni e triangolazioni fiscali elusive.

A Reggio, come scrive Enzo Ciconte nel suo rapporto dell’11 gennaio 2008 sulle dinamiche criminali in provincia, «non c’è alcun controllo del territorio. Non c’è stato nel passato e non c’è ora».

La città esce da un periodo – dal 22 agosto 1999 all’11 dicembre 2004 – che ha sancito, con l’uccisione di 12 persone e la supremazia della famiglia di ’ndrangheta Grande Aracri, che regna senza far troppo rumore.

Reggio può farcela a dare un calcio alla criminalità organizzata? Forse sì, perchè sono i reggiani, a partire da quelli di origine cutrese, ad alzare il muro della legalità.

Una per tutte: la ribellione dell’imprenditore Giuseppe Ruggeri, natio di Cutro, che il 19 ottobre 2007 confermò al Tribunale di Crotone i tentativi di estorsione subiti a Reggio Emilia dai Dragone. La sua denuncia e la morte del vecchio boss Antonio posero fine ai tentativi.

 

E’ LA STAMPA (DA BRIVIDI) BELLEZZA…

 

Molti di voi ricorderanno che Roberto Saviano, nella sua apparizione su Rai2 da Fabio Fazio, proiettò e lesse i titolo di alcuni giornali campani che trattavano in modo quantomeno discutibile le “fantastiche” avventure dei Casalesi e dei camorristi in genere.

Nonostante abbia (appena compiuto) 46 anni sono già 25 anni che faccio questo mestiere e ho il vecchio viziaccio di ritagliare e conservare da anni articoli dei giornali più disparati. Leggo e divoro di tutto. E conservo.

Allora faccio con voi un gioco semplice semplice a testimonianza della bontà della testimonianza di Saviano: vi riporto in ordine temporale alcuni (solo alcuni) titoli di giornali e agenzie del 2002, 2006, 2007, 2008 e dei primi mesi 2009 (calabresi, campani e emiliano-romagnoli) in modo tale che le persone che ancora credono che le mafie siano un problema del Sud quantomeno riflettano. Non vi sfuggiranno alcune differenze tra i titoli visti da Sud (in genere più allarmisti e realistici) e visti dal Nord (in genere più scetticci e dubbiosi oppure sorpresi).

“Mafia russa, milioni di euro lavati in Romagna” (Corriere della Sera, pag. 18, 11 giugno 2002); “Una spa del pizzo a Modena – Estorsioni agli imprenditori edili: arrestati dai Carabinieri 5 esponenti del clan dei Casalesi” (Il Resto del Carlino, pag, 1, 7 aprile 2006); “In una scuola di Bologna Libera spiega la mafia ai bambini” (Agenzia Dire ore 17.09 del 2 febbraio 2007); “ Le lunghe mani dell’Est sulla nostra Riviera” (Il Resto del Carlino, pagg. 2 e 3, 16 marzo 2007); “Un pentito di mafia ai vertici di Doro Group – Ricostruito il management della coop che gestiva in subappalto i servizi di terra dell’aeroporto Marconi di Bologna” (Il Resto del Carlino, pagg. 4 e 5, 11 gennaio 2008); “Cutrese arrestato a Reggio Emilia per omicidio” (Gazzetta del Sud, pag. 28, 1° aprile 2008); “Scatenati nel Modenese con i metodi della camorra – In manette sei affiliati a un clan” (Il Resto del Carlino, pag. 17, 2 aprile 2008) “La ‘ndrangheta colonizza l’Emilia-Romagna” (Gazzetta del Sud, pag.26, 19 aprile 2008); “La ‘ndrangheta ha messo piede in Romagna” (Il Resto del Carlino, pag.18, 23 aprile 2008); “Preso a Imola il boss emergente di Papanice – Fermati anche due fedelissimi” (Gazzetta del Sud, pag. 26, 30 luglio 2008); “Anziana vedova minacciata dalla mafia – La cosca Calabrò la costrinse a vendere un terreno a Bologna” (Il Resto del Carlino, pag. 9, 17 ottobre 2008);  “Blitz antidroga, mafia al tappeto in Emilia-Romagna” (Il Resto del Carlino, pag. 16, 6 marzo 2009); “Spari al portone del candidato sindaco – In un paese del reggiano – Mai ricevuto minacce prima” (Il Resto del Carlino, pag. 14, 30 marzo 2009)

E gran finale (rullo di tamburi): “Arresti in carcere a 5 boss camorristi “modenesi” (La Gazzetta di Modena, 8 aprile 2009, cioè ieri, fantastico no!)

3. The end e...Buona Pasqua a tutti voi e alle vostre famiglie. Io tornerò con un nuovo post martedì 14 aprile

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 09:19


Titolo: Roberto GALULLO. Bonifica: questa volta dalle mafie e dalla malapolitica.
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 10:52:37 pm
14/04/09

Dopo 80 anni la provincia di Latina ha bisogno di una nuova bonifica: questa volta dalle mafie e dalla malapolitica.

Il costo? 30 miliardi

Eccomi tornato a voi dopo le vacanze pasquali cari amici. Scusate se ho pubblicato i vostri commenti con giorni di ritardo ma un misterioso virus – sul quale in questo preciso momento stanno lavorando i tecnici del Sole – per giorni ha bloccato il mio accesso al mio blog dal mio pc. Nei giorni di festa è stato impossibile riparare il danno. Ora spero di sì. Intanto sto scrivendo dal pc del giornale.

Ma veniamo a noi e – neppure a farlo apposta – all’inconsapevole input di un lettore che ha lasciato in questi giorni un commento da Latina ricordando i bei tempi in cui il sindaco di Fondi mi attaccava per ciò che scrivevo sulla sua città e i dintorni. Che bello essere attaccati quando si svolge il proprio ruolo di cane da guardia della democrazia! 

E dunque…E dunque c’è un’oasi felice per Cosa Nostra, Camorra e ‘ndrangheta a pochi passi da Roma: Latina.

Paradossi della storia. Questa provincia che ruota intorno a una città dove fondamentale è stato il contributo alla bonifica dell’agro pontino dei popoli veneti, friulani ed emiliano-romagnoli, estranei per secoli alle logiche mafiose, oggi è soffocata da logiche affaristico-politico-mafiose.

Sia ben chiaro: il Dna degli abitanti è rimasto lo stesso. Laboriosità e sacrificio ma il gene degli affari sporchi ha invaso politica e imprenditoria e un gruppo di criminali immigrati – come lo furono allora i coloni -  riesce oggi a sottomettere la Latina onesta.

A oltre 80 dalla bonifica del Duce – che tanti nostalgici ha lasciato nell’area anche tra i giovani che non sanno neppure cosa sia stato il Ventennio – ci sarebbe bisogno di una nuova bonifica: questa volta dalla politica marcia, dai clan e dalle cosche che invadono il territorio. “A partire dal 1927 flussi di circa 60mila coloni liberarono dalle acque putride e stagnanti – riporto testualmente dal sito del Comune di Latina – un territorio di circa 134 mila ettari”. Al cambio d’oggi l’operazione costò circa 30 miliardi di euro: ne valse la pena, era nata una nuova città e con essa una nuova economia per l’Italia che stava nascendo a dispetto di una maledetta dittatura fascista.

Oggi la provincia di Latina ha un punto debole, debolissimo che è un nervo scoperto per l’Italia tutta che sogna inebetita dalle tv di Stato e della famiglia del Capo del Governo: Fondi.

Questa città ruota intorno a un mercato ortofrutticolo (Mof) che è tra i più grandi del bacino mediterraneo e d’Italia: 120 aziende di grossisti che rappresentano (questa volta riporto testualmente dal sito del Mof) “il maggior centro di approvvigionamento sia delle metropoli italiane sia della grande distribuzione”.

Ebbene cari amici, volevate forse che questo bocconcino prelibato da un miliardo di ricavi all’anno sfuggisse a camorra e ‘ndrangheta. Eccovi alcune approfondimenti di quanto scriverò domani, mercoledì 15 aprile, con un’inchiesta sull’inserto romano del Sole-24 Ore (acquistabile solo nella regione Lazio)


IL MERCATO ORTOFRUTTICOLO FA GOLA ALLE MAFIE

E CON LUI TUTTE LE ATTIVITA’ CONNESSE


Nel 2007 il consigliere della Direzione nazionale antimafia (Dna) Francesco Paolo Giordano scriveva nella relazione: “Nel 2005, importanti inchieste sul mercato ortofrutticolo di Fondi,hanno fatto emergere sia il controllo illecito della criminalità organizzata sulle attività di trasporto su gomma di prodotti ortofrutticoli, sia infiltrazioni nel settore dell’intermediazione. Quanto al trasporto, in Campania segnatamente il clan camorristico tuttora dominante in questo settore è quello dei Casalesi che ha il monopolio dei trasporti di tutti i mercati della Campania verso il Sud, escluso il mercato di Giuliano, e cercano di estendere la loro influenza anche verso i mercati del Piemonte”.

E come se non bastasse anche le attività legate all’agricoltura (e via via le altre non connesse) sono spesso nelle mani di fottuti camorristi. “Vanno citate anzitutto forme di accaparramento di strutture produttive e di terreni agricoli a prezzi stracciati come interfaccia di fenomeni di usura e di estorsioni – scrive ancora il magistrato Giordano -  sicché alcuni operatori del comune di Giugliano in Campania risultarono aver acquistato aziende agricole nelle vicine province di Caserta e Latina. Anche l’aggregazione criminale dei Casalesi di Caserta ha sempre manifestato una particolare vocazione ad infiltrarsi nel settore agricolo, soprattutto mediante l’accaparramento di terreni, nella prospettiva di realizzare, in un modo o nell’altro, buoni affari. Nell’Italia centrale si sono registrate acquisizioni di grandi stabilimenti ed aziende per la produzione di prodotti agricoli su vasta scala”.

Quest’anno la Dna ha cambiato l’estensore della parte dedicata alle mafie nel Lazio: si tratta del consigliere Luigi De Ficchy, poi volato a capo della Procura di Latina. E cosa scrive nella relazione consegnata a fine 2008 al capo della Dna Piero Grasso?

Questo: “Chiara conferma della penetrazione del fenomeno criminale nel mercato ortofrutticolo di Fondi è giunta dalle indagini relative ad alcuni danneggiamenti, che hanno interessato ditte di autotrasporto che operano nell’ambito del mercato. Tali episodi hanno confermato che le attività del Mercato ortofrutticolo di Fondi rappresentano continue occasioni di arricchimento per la criminalità organizzata per la forte influenza dei potenti clan camorristici e della ‘ndrangheta su Fondi. È stata riscontrata la costituzione di cartelli che gestiscono e controllano in maniera monopolistica e mafiosa le rotte della commercializzazione dei prodotti verso varie zone dell’Italia. Di rilievo è anche una indagine che ha portato alla emissione di una ordinanza di misura cautelare in data 13.02.2008 emessa dal Giudice per le indagini preliminari di Roma nei confronti di un’organizzazione mafiosa dedita all’usura a danno di imprenditori e commercianti della zona di Fondi”.

Insomma: tutto come prima. Anzi: peggio anche se il presidente del Mof, Giuseppe La Rocca, da me intervistato alcune settimane fa nella mia trasmissione “Un abuso al giorno” su Radio24 (in onda dal lunedì al venerdi alle 6.45 e in replica alle 20.45), dirà che le infiltrazioni non appartengono al Mercato. Certo, qualche piccolo episodio, ma il mercato è impermeabile alle infiltrazioni. Giudicate voi, lettori.


NON BASTASSE IL MERCATO ECCO A VOI  IL COMUNE

A QUANDO LO SCIOGLIMENTO PER MAFIA?


Alcuni mesi fa il prefetto di Latina, Bruno Frattasi, uno tra i migliori prefetti in Italia, ha consegnato al Viminale una relazione di 507 pagine nella quale metteva in fila una serie lunghissima di episodi che portavano a proporre lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune di Fondi.

Vi tralascio l’ignobile autodifesa della classe politica locale che ha gridato alla lesa maestà e alla verginità dei propri costumi. Ciò che voglio che voi sappiate, cari amici di blog, è che lo steso Viminale  ha traccheggiato per mesi prima di prendere una decisione, fino a che nell’audizione del 2 aprile in Commissione parlamentare antimafia il ministro dell'Interno Roberto Maroni è stato messo con le spalle al muro e ha giurato che in una “prossima” riunione del Consiglio dei ministri il caso Fondi sarebbe stato portato alla luce. Per decidere (o meno) lo scioglimento. Piccola annotazione: la giunta di Fondi è di centrodestra, così come la compagine governativa. Non solo: la provincia di Latina conta un numero di politici (mi vien da ridere) potentissimi e temutissimi, serbatoio naturale di voti e voti e voti e voti e….

Ovviamente non sta a me decidere ma una cosa posso dirla senza essere “cortesemente invitato” a interessarmi di altro (come mi è successo da parte di alcuni consiglieri regionali del centrodestra che stanno facendo di tutto per impedirmi di scrivere su Fondi e su Latina, comprese querele annunciate, ma non ancora giunte, che hanno il sapore dell’imtimidazione): io mi fido del prefetto Frattasi. Punto.

E mi fido di ciò che scrive De Ficchy. Eccolo: “Nel sud – pontino, in particolare a Fondi, Formia, Terracina e Gaeta, si è registrata la presenza di nuclei affiliati a organizzazioni criminali campane e calabresi, dediti al traffico di sostanze stupefacenti, alle estorsioni e al successivo riciclaggio dei proventi in varie attività di copertura dagli stessi gestite. Sono in gran parte attività che si svolgono in maniera silenziosa, tramite la collaborazione di soggetti che fungono da prestanome, dirette a sviluppare investimenti nei settori immobiliare e commerciale. Particolarmente preoccupanti sono le evidenze relative ad accertati rapporti tra amministratori locali ed elementi appartenenti ai citati gruppi criminali. Allarmanti sono i numerosi danneggiamenti ed incendi di natura intimidatoria, che hanno interessato imprenditori e titolari di esercizi commerciali in Terracina nonché esponenti della locale amministrazione comunale. Le relative indagini hanno consentito in data 30.04.2008 l’esecuzione di un’ordinanza di misura cautelare del Giudice per le Indagini Preliminari di Latina nei confronti di n. 13 soggetti, appartenenti a un gruppo criminale locale, dedito prevalentemente ad attività estorsive ai danni di imprese funerarie e di pulizie con il fine del controllo dei settori imprenditoriali interessati”.

E ancora: “… nella zona compresa fra il casertano e il basso Lazio, è stata riscontrata sul territorio l’operatività del gruppo criminale Riccari-Mendico diretta al controllo delle attività economiche tramite attività estorsive e all’acquisizione di subappalti nel settore della realizzazione di opere pubbliche e private. Punti di riferimento del sodalizio sono stati i gruppi camorristici Beneduce, Zagaria, Cantiniello e Schiavone.

Sintomo della penetrazione in campo finanziario da parte delle associazioni di stampo camorristico è l’alta frequenza della costituzione e successiva estinzione di società finanziarie, di distribuzione alimentare e di abbigliamento.

A Latina sono presenti gruppi locali di elevata capacità criminale che vedono in prima fila esponenti di alcune famiglie nomadi dedite all’usura, alle estorsioni e al traffico delle sostanze stupefacenti.

Altri eventi criminosi avvenuti a Latina sono la conferma della pericolosità

dei gruppi locali, che vedono aumentata la loro capacità criminale in virtù

dei legami con i clan camorristi che insistono sui territori delle province limitrofe.

Il panorama criminale nel circondario di Latina è sempre più arricchito dalla presenza di gruppi criminali stranieri alimentati da rilevanti flussi migratori di clandestini, provenienti in particolare dall’Europa orientale. Si stanno consolidando i gruppi di etnia rumena nonché gruppi criminali nigeriani e albanesi, che gestiscono lungo il litorale lo sfruttamento della prostituzione di loro connazionali.

In particolare gli albanesi e i nigeriani risultano avere instaurato solidi collegamenti con i gruppi criminali locali e con quelli di matrice camorristica. La criminalità straniera è composta da numerosi piccoli gruppi criminali che si muovono in assoluta clandestinità”.


IL CONFINE TRA ROMA E LATINA RAFFORZA LE MAFIE

IL FANTASTICO CASO DI MINTURNO E DEI SUOI POTENTATI



Sempre più forte e diffusa è la criminalità nelle zone di Ardea (Roma), Aprilia (Latina), Anzio e Nettuno (Roma), quest’ultimo primo Comune del Lazio a essere stato sciolto per mafia nel novembre 2005 per infiltrazione della famiglia di ‘ndrangheta Gallace. “Sempre più inquinati – scrive ancora De Ficchy - risultano in particolare il territorio di Aprilia e Ardea dove si nota una sinergia tra esperienze criminali di matrice camorristica, calabrese e siciliana”.

Ci sono però comuni che restano fuori dalle cronache nazionali anche grazie alla potenza di politici e affaristi che riescono a spegnere i riflettori dei media e della società civile, costretti gli uni e gli altri a subire.

Prendiamo Minturno, a esempio. “Il Tempo” (edizione di Latina) del 10 aprile riporta una notizia che – in loco – alcuni politici avevano fatto di tutto per affossare in radice. Il Gip della Procura di Perugia non ha ritenuto di archiviare l’inchiesta che vede coinvolti politici, magistrati e funzionari in una presunta associazione mafiosa.

E sempre a Minturno il vizio della lottizzazione abusiva coinvolgerebbe persone insospettabili, come a esempio la moglie del sindaco, il geometra Giuseppe Sardelli (Pdl, ex Forza Italia) e il figlio dell’assessore alla qualità della vita (!), il geometra Fausto La Rocca, Pdl, ex Forza Italia (che ovviamente respingono tutte le accuse). Il presidente del consiglio comunale di Minturno è uno dei politici più potenti in regione: Romolo Del Balzo, consigliere regionale del Pdl, ex Forza Italia, che come riportano le cronache regionali ha e ha avuto molti conti con la Giustizia (alcuni chiusi altri in sospeso).

Intanto, ci informa “Latina Oggi” nell’edizione del 6 aprile, sono stati posti i sigilli.E intanto -  ci informa Edoardo Levantini a capo del Coordinamento antimafia Anzio-Nettuno -  sono anni che questo territorio è devastato dall’abusivismo edilizio e da anni la Regione ha messo questo territorio sotto osservazione. Più in generale il sostituto procuratore Luca Ramicci, riporta il Corriere della Sera nelle cronache romane il 3 aprile, nel Lazio dal 2006 sono state scoperte 700 violazioni urbanistiche. “Il territorio – sintetizza il Corriere – è stato gestito in maniera assolutamente criminale. Diversamente non saprei definire quello che ho trovato in questa zona”. La zona è quella di Tivoli, presso il cui Tribunale opera Ramacci. Sulla stessa falsariga le dichiarazioni rese alla Commissione contro la criminalità della Regione Lazio dal magistrato De Ficchy il 2 aprile.

Lo stesso quotidiano, l’11 aprile, in prima pagina, riportava con clamore la notizia della megavilla della moglie del potentissimo senatore Claudio Fazzone (Pdl, ex Forza Italia): è ancora in piedi nonostante la condanna per abusivismo, in attesa degli altri gradi di giudizio.

E sempre “Latina Oggi”, domenica di Pasqua, 12 aprile, sempre in prima pagina riporta un’altra notizia che ha dell’incredibile, relativa al presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani (Pdl ex Forza Italia), e a un hotel di cui è comproprietario che sarebbe abusivo. Riporto testualmente: “…il presidente Cusani nella lotta ai vincoli ha fatto il possibile, anche di più. Probabilmente per dimostrare che ce ne sono troppi, un abuso edilizio lo hacommesso lui in persona. E infatti è finito sotto processo per concorso in abuso edilizio e abuso d’ufficio, nella sua qualità di comproprietario dell’Hotel Grotta di Tiberio a Sperlonga, ribattezzato «Hotel Cusani». Al processo in corso Cusani non si è ancora mai presentato per pregressi impegni istituzionali, poiché appunto, presidente in carica della Provincia di Latina”.

Forse ci sarebbe bisogno di altri 30 miliardi per sgombrare la provincia di Latina dalla macerie delle mafie e ribonificarla. Dalle mafie e dalla malapolitica.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 10:35


Titolo: Sardegna e Toscana: la criminalità organizzata non esiste ma…
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 11:49:01 pm
22/04/09

Sardegna e Toscana: la criminalità organizzata non esiste ma…bracca i magistrati e carbonizza gli imprenditori!


Secondo me c’è una differenza sostanziale tra inquirenti e investigatori chiamati a contrastare e reprimere la criminalità organizzata e i giornalisti che di criminalità organizzata scrivono: i primi analizzano lo stato dell’arte; i secondi – anche a costo di sbagliare - cercano di spingersi oltre cercando di capire cosa accade oggi in un territorio ma, soprattutto, che cosa accadrà…domani. E, in questo modo, dare alla collettività strumenti di lettura, analisi e dibattito, che possano scatenare una reazione sociale. Forse è per questo che alle mafie danno spesso più fastidio i secondi che i primi.

IN SARDEGNA LA MAFIA NON ESISTE. ANZI: FORSE NON ESISTE.

Questa riflessione mi è tornata in mente nei giorni scorsi in due occasioni. La prima è stata una chiacchierata con il procuratore generale della Sardegna, Ettore Angioni, che manderò in onda nella mia trasmissione “Un abuso al giorno” su Radio 24 nei prossimi giorni. Sentirete – mi rivolgo a chi avrà la bontà di seguirla – che Angioni afferma che in Sardegna non esiste la mafia, nel senso classico del termine (ma qual è il senso non più classico ma moderno del termine? Su questo bisogna interrogarsi. Tutto il resto, come diceva il mio grande concittadino-filosofo Franco Califano, è noia). Nessuno lo mette in dubbio, tantomeno io, che la mafia bel senso classico in Sardegna non esiste: il paladino di questa teoria che i sardi portano al petto come uno sceriffo la propria stella è Pino Arlacchi. Scrissi di criminalità organizzata in Sardegna già alcuni mesi fa in questo blog e fui duramente attaccato da molti lettori sardi, alcuni dei quali mi hanno anche gratificato di graziosi insulti nati a catena sulla Rete, attraverso siti e blog che ripresero quell’articolo (si veda il post del 26 settembre 2008).

Siti, blog e insulti che ricevo con amore ma con eguale amore chiedo agli stessi estensori: ma è il caso o no, invece di cullarsi sugli allori di una inesistente isola felice, di affrontare il tema dilagante di una criminalità che, dimentica del romantico ma spietato banditismo, dilania sempre più il tessuto connettivo di questa splendida terra? Secondo me è il caso ma vedete voi. Io non devo convincere nessuno. Fatto sta, che la si voglia chiamare mafia o la si voglia chiamarla “patagarru” (parafrasando gli sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo) non passa giorno che in Sardegna la criminalità organizzata (la chiamano così i giornalisti e gli inquirenti locali, non io) non colpisca con atti intimidatori un amministratore locale, no gestisca ogni losco traffico a partire dalla droga, non bruci l’azienda di un imprenditore o non costringa un magistrato a vivere blindato per le delicate indagini che sta svolgendo.

E sì, è il caso di Domenico Fiordalisi, capo della Procura di Lanusei in Ogliastra. Un calabrese che da quando è arrivato sull’isola, 8 mesi fa circa, ha cambiato volto alla Procura rivitalizzando inchieste scivolate da anni nei cassetti chissà perché. E, di conseguenza, rompendo parecchio le scatole alla locale criminalità (più o meno organizzata). Bene, il risultato è che dopo continue e vigliacche minacce, la famiglia del magistrato è stata costretta a tornare a vivere in Calabria, mentre Fiordalisi vive blindato nel locale carcere con misure di protezione senza precedenti. Ma in Sardegna la mafia classica (pardon: la criminalità organizzata) non esiste, anche se in Gallura e Costa Smeralda la cosca crotonese Ferrazzo, egemone a Mesoraca, stava (sta?) investendo milioni prima che intervenisse la Dda di Milano. E la mafia classica non esiste anche se il 3 marzo di quest’anno (non 100 anni fa) a Marbella in Spagna, paradiso dei latitanti, è stato arrestato Giuseppe Utzeri, re del narcotraffico sardo. Questo ex poliziotto – è stato nella scorta dell’ex ministro ballerino e riccioluto Gianni De Michelis ai tempi della Prima Repubblica – era, secondo le prime indagini, in stretto contatto con pezzi grossi di Cosa Nostra di Trapani e della ‘ndrine di Palmi. Fatto sta che lo stesso Fiordalisi – che di cosche se ne intende essendo nato in una terra dove la mafia la respiri nell’aria anche quando tira sabbia – timidamente accenna in contraddittorio radiofonico con il suo Procuratore generale che forse le cose stanno cambiando anche in Sardegna. Forse. In attesa di conferme, la mafia classica, in Sardegna, non esiste. E quella moderna?

NEPPURE IN TOSCANA LA MAFIA ESISTE MA INTANTO BRUCIA E UCCIDE

La seconda volta che mi è venuta in mente la riflessione sulla differenza tra inquirenti e investigatori da una parte e giornalisti dall’altra è stata quando ho letto la relazione sulla Toscana scritta dal sostituto procuratore nazionale antimafia Carmelo Petralia e consegnata a fine 2008 nelle mani del suo capo, il procuratore Piero Grasso che ha predisposto la relazione sulle mafie della Dna (ho il brutto difetto di leggere le carte). Petralia scrive testualmente a pag. 493 che in Toscana si conferma: 1) un tendenziale ricambio dei diversi soggetti criminali, 2) una loro sostanziale delocalizzazione, 3) l’impossibilità per i medesimi di praticare forme tipicamente mafiose di controllo del territorio. Scrive anche, a pag. 494, che esiste però la possibilità per “i gruppi criminali organizzati, di “confondere” le proprie iniziative, e in particolare quelle propriamente e direttamente a sfondo economico-patrimoniale (si pensi ai delitti di riciclaggio e di reimpiego di capitali di provenienza illecita, ma anche al condizionamento del mercato degli appalti pubblici), con quelle di operatori economici che si muovono nell'ambito della legalità, di talché si determinano situazioni nelle quali non solo si inseriscono fattori di inquinamento del mercato dei beni e dei servizi ma anche si determinano condizioni che rendono sostanzialmente indecifrabili i fattori di inquinamento medesimi. Sulla scorta di queste considerazioni introduttive non è difficile comprendere le ragioni per le quali le indagini della Procura di Firenze, a partire dagli anni ’80, debbano in tema di criminalità organizzata continuamente ottimizzare la messa a fuoco anche delle metodiche di investigazione, onde non compromettere un corretto allineamento con pratiche delittuose di diversa estrazione (e relative sub-culture criminali), talora riconducibili anche a realtà collegate a organizzazioni criminali storiche, quali “cosa nostra”, alla “camorra”, alla “‘ndrangheta”, alla “sacra corona unita” ed al banditismo sardo.” Ora, questa analisi – che giudico ottima anche nella parte in cui richiama come organizzazione criminale il “banditismo sardo”, oh yeah! – come ogni cosa al mondo (tranne la morte) è però opinabile. O meglio ancora: integrabile. E per argomentare quel che penso, parto da un a celebre frase di Agatha Christie: un caso è un caso, due casi fanno un indizio, tre forse sono una prova. E quattro? Lo scoprirete solo…leggendo.

UN CASO, DUE INDIZI, UNA PROVA E…

Ebbene. Il mio amico Pino Bianco, già alla Dda di Reggio Calabria (colgo l’occasione per salutare lui e Morena), sta seguendo le indagini sulla morte di Stefano Ciolli, morto carbonizzato il 15 giugno 2008 a San Casciano Val di Pesa. Da ciò che sembra emergere questo imprenditore-spedizioniere fiorentino, era in contatto con ambienti di Cosa Nostra. Bum direte voi! Bum lo anno fatto invece il 28 marzo 2009 gli otto camion di una ditta (ancora di spedizioni) a Calenzano (Firenze). Il rogo è avvenuto nella ditta Greco che – secondo quanto sta emergendo – ha visto entrare nel capitale societario Paolo Ciolli, fratello del morto ammazzato quasi un anno fa. Il 6 aprile 2009 a Peretola (sempre in provincia di Firenze) 4 furgoni e 2 auto hanno ancora fatto bum-bum e hanno preso fuoco. Anche in questo caso la magistratura sta indagando. Bene: una ditta di spedizioni in provincia di Firenze con un morto ammazzato è un caso, due ditte di spedizioni colpite sono un indizio, tre possono essere una prova. La prova – forse – che le mafie hanno le idee chiare dei business e dei modi in cui penetrare fino a controllare (è questo l’obiettivo finale) parti intere dell’economia e della società. Ah dimenticavo, scusate: il 6 febbraio 2009 in Via Orazio Vecchi a Firenze, a due passi dalla sua ditta “Gass Express”, è stato gambizzato l’imprenditore Marco Garrisi. Su questo episodio, ovviamente, stanno proseguendo le indagini, anche se sembra che l'attentato sia opera di persone che volevano mettersi in proprio e rilevare in questo modo violento il pacchetto clienti (una delle persone arrestate era la segretaria dell'imprenditore). Qual era il suo ramo di attività? Toh: spedizioni nazionali e internazionali! Non sta a me dire se 4 casi sono una prova provata degli interessi delle mafie che aggrediscono economia e società toscana, la condizionano o la governano ma, senza starvi a tediare con le decine e decine di inchieste aperte in Toscana sulle infiltrazioni di Cosa Nostra, Camorra, ‘ndrangheta anche in cordata con le mafie straniere (a partire da quella russa e cinese), vi riporto, sinteticamente un splendido rapporto del mio amico Enzo Ciconte, studioso tra i più grandi della criminalità organizzata.

 LE MAFIE IN TOSCANA: CARATTERISTICHE ED EVOLUZIONE

 In questo studio – si badi bene: datato 19 dicembre 2008 – Ciconte enumera la bellezza di 78 famiglie di Camorra, Cosa Nostra e ‘ndrangheta presenti in Toscana: 15 in provincia di Lucca, 6 a Massa Carrara, 3 a Pisa, 4 a Livorno, 2 a Grosseto, 12 a Pistoia, 4 a Prato, 23 a Firenze, 9 ad Arezzo e 1 a Siena. Ma sono “fantastici” (ironizzo, ovvio) gli interessi che vale la pena riportare integralmente e che secondo me sono stati stimati in difetto:

1) esercizi commerciali nella Val di Nievole

2) bische, estorsioni ed edilizia nella provincia di Massa Carrara

3) turismo e bische in Versilia

 4) terreni, immobili, commercio, credito e gioco d’azzardo in provincia di Livorno

5) soldi falsi e usura in provincia di Grosseto

6) alberghi, negozi e bische in provincia di Pistoia

7) aziende tessili, commercio di abiti usati e locali notturni in provincia di Prato

8) movimento terra, edilizia, controllo di agenzie bancarie di piccole dimensioni, gioco d’azzardo, riciclaggio e rapine in provincia di Firenze

9) truffe con aziende agricole e investimenti immobiliari in provincia di Arezzo

10) aziende agricole e appalti in provincia di Siena

Detto e riportato quanto sopra, in Toscana le mafie (non quelle classiche!) secondo voi stanno acquisendo sempre più il controllo del territorio? Io la risposta ce l’ho: e voi? Ma a non voler essere assertivi ma dubitativi (e il dubbio anima sempre il bravo giornalista) mi limito a indicarvi un’altra buona lettura (oltre alle pagine della Relazione 2008 della Dna che potete trovare su www.casadellalegalita.org). Si tratta del Rapporto annuale 2008 sulla legalità in Toscana della Fondazione Antonino Caponnetto di Firenze, che troverete sul sito www.antoninocaponnetto.it. Ebbene, la premessa al ricco indice è tutta un programma (da prendere sul serio): “La Toscana non è terra di mafia ma la mafia c’è e non dobbiamo abbassare la guardia.” E – aggiungo umilmente – la guardia non va abbassata neppure nelle altre regioni, isole comprese, come dicono nelle loro pubblicità…gli spedizionieri.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 09:41

da ilsole24ore.com


Titolo: Re: Roberto GALULLO.
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 05:43:30 pm
05/05/09

Rapporto Ecomafia 2009: la vita di una scolaresca a Bova Marina vale 500 euro…e una pompa idraulica che non può ingripparsi

Più che i numeri contano le storie.

A scorrere il Rapporto Ecomafia 2009 presentato poche ore fa da Legambiente i numeri vincono anche perché le storie bisogna andarle a cercare.


E così noi giornalisti troviamo (e vedrete che i quotidiani di domani e i servizi radio e tv di oggi mi daranno ragione) più semplice snocciolare numeri: 20,5 miliardi di fatturato annui per gli eco-criminali, 3 reati ambientali all’ora e 258 clan che si spartiscono la parte più consistente della torta. Il ciclo illegale dei rifiuti supera i 7 miliardi, quello del cemento due. Ma se si calcolano anche gli investimenti a rischio si superano cifre iperboliche. Nulla di nuovo sotto il sole. Purtroppo.

Bene. Dietro ogni numero, però, c’è una storia di violenza e disprezzo della vita. Di storie ho così deciso di raccontarvene una, una sola. Ma per chi vorrà documentarsi e leggere altre storie agghiaccianti, consiglio il sito www.legambiente.it.

E’ una storia che coniuga – come poche – spregiudicatezza e senso dell’impunità.

 

BELLU LAVURU…IN CALABRIA NON SI GUARDA IN FACCIA  NEPPURE AGLI STUDENTI
 

Il 17 giugno 2008 la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria – dopo almeno due anni di intercettazioni e investigazioni – fa scattare l’operazione “Bellu lavuru” che porta all’arresto di 31 persone e – a dicembre 2008 – al sequestro di beni per 10 milioni.

Il nome dell'operazione, “Bellu lavuru”, è frutto di una intercettazione ambientale effettuata presso il 18 novembre 2006  presso il carcere di Parma tra il presunto capo dei capi della ‘ndrangheta Giuseppe Morabito, ’U Tiradrittu" e suo genero, Giuseppe Pansera con i parenti Francesco Stilo e Antonia Morabito. La cimice piazzata dai Carabinieri ha intercettato brani sull’aggiudicazione, appunto, di un "bellu lavuru" per il restyling della strada statale 106.

Tutto ciò che si muove sul territorio, però resta impigliato nella rete della ‘ndrangheta. Compreso l'appalto relativo al Liceo scientifico "Euclide" di Bova Marina. Si tratta di un maquillage consistente, di lavori di consolidamento della solidità strutturale. Inosmma non è quella che a Roma si chiama “na romanella”, vale a dire una lavata di faccia e nulla più.

Ebbene nelle interettazioni telefoniche un’imprenditore invita un collega a mettere più sabbia e meno cemento nell’impasto. Ma quest’ultimo…

Nulla di nuovo direte voi. È cronaca (e storia) che lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria interi tratti siano stati “impastrocchiati” con rifiuti, sabbia di mare e ogni sorta di porcheria.

Così come è storia che il 24 settembre 2008, sempre in Calabria, alemno 350mila tonnellate di arsenico, zinco, piombo, indio, germano e mercurio (provenienti dagli scarti dell’area industriale Pertusola), invece di essere smaltite regolarmente sono state utilizzate per costruire parcheggi, strade e persino due scuole a Crotone e nella vicina Cutro.

Vox populi racconta che in molti sapessero, fatto sta che è dovuto intervenire il Pm Pierpaolo Bruni (uno dei migliori magistrati in Italia, non a caso nel mirino delle cosche)  per rompere con la sua inchiesta il muro di omertà e complicità.

Qualcosa di nuovo in realtà in questa storia della scuola di Bova Marina, in provincia di Reggio Calabria, c’è: l’imprenditore che avrebbe dovuto mettere più sabbia e meno cemento…si ribella.

 

LA VITA DI UN RAGAZZO SI PUO’ BRUICIARE
MA UNA POMPA IDRAULICA NO…

 

Era ora direte voi: in nome della sicurezza degli studenti (figli) c’è chi finalmente chi si è messo una mano sulla coscienza.

Ma quando mai…L’imprenditore (anch’egli sospettato di legami con le cosche) non può correre il rischio che la troppa sabbia possa bruciargli la pompa idraulica necessaria per la miscelazione.

Il 7 marzo 2007 alle ore 16.45.09  dichiara infatti (testualmente) “che non può mettere a rischio una pompa idraulica da 300mila euro per consentire all’impresa di risparmiare 500 euro sulla fornitura”.

500 euro capite. E’ questo il prezzo, per gli ecocriminali, della vita di un’intera scolaresca.

E per chi non credesse ai propri occhi, allego lo stralcio originale dell’intercettazione. Buona lettura e “bellu lavuru” a tutti. Ma nel mome della legalità.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

 

LA TELEFONATA INTERCETTATA NEL RAPPORTO

CONSEGNATO ALLA PROCURA DI REGGIO CALABRIA

 

Nella conversazione intercettata in data 07.03.2007, viste le continue ordinazioni con le quali il Gruppo Corsaro si ostina a richiedere calcestruzzo dalla consistenza eccessivamente bassa per essere fornito con le pompe, D’Aguì si spinge ad affermare che “non può mettere a rischio una pompa idraulica da 300.000 euro per consentire ai Corsaro di risparmiare 500 euro sulla fornitura”;

D’Agui’ nella fattispecie, dimostra di preoccuparsi esclusivamente di salvaguardare la funzionalità dei propri mezzi di lavoro, perché con altre modalità, sarebbe tranquillamente disposto a fornire calcestruzzo anche di consistenza ben inferiore;

                                E’ evidente come l’unico criterio preso in considerazione nell’attività di costruzione del Liceo “Euclide” è quello della realizzazione del massimo profitto possibile, anche a discapito di gravi carenze che possano minarne la stabilità strutturale;

Registrazione:                 25731

Ora registrazione:                 07/03/2007 16.45.09

Direzione (1:Usc 2:Entr)  2

Sintesi:                Conversazione nr. 25731 del 07.03.2007 ore 16.45.09

 

Corsaro Salvo chiede a Terenzio se gli hanno dato la chiave Terenzio gli risponde di si.

Corsaro chiede a Terenzio se gli hanno dato la pompa e Terenzio gli risponde di si.

Corsaro dice a Terenzio che gli sta mandando il fax per il cemento di domani e che gli serve il 200 Kg con la pompa.

Terenzio gli dice che a 200 Kg non lo pompa, e che meno di 250 Kg non lo può pompare perché altrimenti rischia di bruciare una pompa del valore di 300.000 euro per gettare il cemento a 200 Kg.

Terenzio gli dice che a 250 Kg gli fa una cortesia e non è che per risparmiare 500 euro lui non è che deve rovinare una pompa idraulica.

Corsaro gli dice che gli farà sapere.

Terenzio gli dice anche che se lo vuole con la gru glielo manda anche a 50Kg.

Scritto alle 15:30 | Permalink


Titolo: Roberto GALULLO. Massopolindrangheta a caccia grossa di Pierpaolo Bruni...
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2009, 10:46:19 pm
11/05/09

Massopolindrangheta a caccia grossa di Pierpaolo Bruni: vita dura per un pm che deve morire (non solo professionalmente)


Che ve ne siate accorti o meno in Calabria è partita da alcuni giorni una nuova puntata dello sport preferito dalla disgustosa (in massima parte) politica locale e dall’altrettanto raccapricciante coacervo di poteri forti – massoneria deviata in testa – che lì (e non solo) detta legge.

Lo sport preferito in Calabria è la caccia grossa e subdola al magistrato.

La caccia grossa – a pallettoni verbali, colpi di bazooka burocratici e missili giornalistici - deve però avere determinati requisiti, altrimenti il magistrato non viene “braccato”, “inseguito” e “cacciato” (c’è anche la variante impazzita che tanto piace alle cosche: “ucciso”). Anzi, il magistrato in quel caso, diventa uno di loro: di quel miscuglio vomitevole che governa questa regione benedetta da Dio e maledetta dalla politica.

E la ’ndrangheta direte voi? C’è, c’è, state tranquilli. La regia della caccia grossa è sempre nelle logge coperte dove la ‘ndrangheta dal colletto bianco sposa la politica dal conto in nero e la massoneria dal grembiulino sporco. Ricordatelo: sempre. E’ la massopolindrangheta bellezza!

Il magistrato da braccare e cacciare subdolamente deve dunque essere: bravo, cocciuto, preparato, motivato, indipendente, colto e riservato. In altre parole non deve guardare in faccia a nessuno e amministrare la giustizia nel solo nome del popolo italiano.

Ma in Calabria questo non è possibile. Senza richiamare nomi che hanno segnato la mia vita anche professionale – Cordova, De Magistris e Spadaro, a esempio – vengo ai giorni nostri e faccio un nome: Pierpaolo Bruni.

 
PIERPAOLO BRUNI: CHE E’ COSTUI?

 
Alla massa degli italiani, incartapecoriti dalle banalità mediatica di massa e rimbambiti dalle tv di Stato e no, questo nome dirà poco o niente. Forza anche della stampa, ormai incapace di dare notizie che non siano basate su solidi culi, tette e corna.

Bene. Pierpaolo Bruni è un giovane magistrato che in Calabria sta conducendo (o ha condotto) inchieste vitali per sconfiggere il cancro che attanaglia la Calabria: la massopolindrangheta. Passatemi il neologismo: è appunto la ‘ndrangheta sposata alla politica mafiosa. Officiante: un grembiulino di qualche loggia illegale.

La faccio breve: Bruni ha condotto, tra le altre, le inchieste – sfociate in processi – “Scacco matto”, “Eracles”e “Perseus” in cui il tanfo irrespirabile della massopolindrangheta era stato mitigato dalle ventate di legalità che partivano (anche) dalle sue attività. Del tanfo politico di quelle inchieste si è ad esempio occupato con straordinario accanimento che pochi giornalisti in Calabria possiedono, Monteleone (www.antoninomonteleone.it).

Il giornalismo dell’ammasso cerebrale si è invece appassionato al dibattito sulla proroga dell’applicazione o meno del pm Bruni alla Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Catanzaro. La sua mancata applicazione porterebbe, di fatto, all’eutanasia di processi fondamentali per la storia socio-economica della martoriata regione.

Nel momento in cui scrivo la situazione è la seguente: proroga concessa ma “limitatamente a sostenere l'accusa in un procedimento con rito abbreviato nei confronti di 93 persone accusate, a vario titolo, di fare parte o di essere legate a cosche della 'ndrangheta del crotonese”. Questo, almeno, è ciò che recita l’Ansa dell’8 maggio.

 
COLPI DI SCENA ANNUNCIATI ATTRAVERSO L’AGENZIA ANSA

 
Ma lo stesso giorno la stessa agenzia fulmina tutti con il seguente lancio:

“Il procuratore di Crotone, Raffaele Mazzotta, ha fatto una relazione per segnalare la vicenda dell'applicazione, prima negata e poi concessa solo parzialmente, del suo sostituto Pierpaolo Bruni alla Dda di Catanzaro. In particolare Mazzotta fa riferimento ad un ''fatto nuovo'' intervenuto il 5 maggio scorso, che lo ha ''costretto a revocare il precedente parere favorevole'' che era stato rigettato dal procuratore generale di Catanzaro facente funzioni Dolcino Favi. Quali siano i destinatari della segnalazione, Mazzotta non lo ha voluto dire per ''riservatezza istituzionale'' ma non e' da escludere che la segnalazione sia stata inviata al Csm od al Ministero della Giustizia. Mazzotta, il 27 aprile scorso, aveva espresso parere favorevole all'applicazione di Bruni sia ai riti abbreviati, sia a tutte le inchieste gia' avviate dal pm ''per non disperdere le grandi conoscenze di Bruni ed il know how e le conoscenze del collega che sono ottime. Viceversa - ha aggiunto - avevo espresso parere contrario a applicazioni diverse da quelle in atto perche' la situazione dell'ufficio di Crotone e' quella che e'''. Nonostante il parere favorevole di Mazzotta, Favi, il 29 aprile, aveva rigettato l'applicazione. ''Il 5 maggio - ha sostenuto Mazzotta - si e' verificato un fatto nuovo per il quale sono stato costretto a revocare il mio precedente parere favorevole''. Il procuratore non ha specificato quale sia stato il fatto nuovo, definendolo ''un fatto rilevante'', ma in ambienti giudiziari si ipotizza che possa essere successo qualcosa tra la Procura generale e quella di Crotone. (ANSA). SGH


DIETRO I COLPI DI SCENA LE GRANDI MANOVRE DELLA MASSOPOLINDRANGHETA

 
Al momento in cui scrivo solo Nostro Signore Gesù Cristo ne sa di più e siamo tutti in attesa di conoscere quali siano questi “fatti rilevanti”. Ma – in attesa di essere illuminati non dall’Altissimo ma dall’Ansa i cui giornalisti delle redazioni locali calabresi tante volte ricorrono nelle parole, nei giudizi e nei commenti resi da Luigi De Magistris ai suoi colleghi di Salerno (per i cultori della materia consiglio di leggere i faldoni della Procura di Salerno pubblicati su www.carlovulpio.it) – molto più spregiudicatamente racconto quello che la stampa nazionale e locale non ha avuto neppure minimamente il coraggio di raccontare. Attratti più dalla mancata proroga e dalla revoca della scorta a questo magistrato, seriamente minacciato di morte delle ‘ndrine. Che Dio lo conservi a lungo in vita.

 
DE MAGISTRIS, FAVI, BRUNI E L’INCHIESTA WHY NOT

 
Pochi sanno che quando a De Magistris furono avocate le inchieste Poseidone e Why Not, a raccogliere il testimone di Why Not  – controvoglia per i mille carichi di lavoro – fu proprio Pierpaolo Bruni.

Così come non tutti – forse – ricordano che ad avocare a De Magistris le inchieste Poseidone e Why Not fu proprio quel Dolcino Favi, che ora ricompare come il pg facente funzioni alla Procura generale di Catanzaro che ha in prima battuta negato la proroga dell’applicazione di Bruni presso la Dda. Quando si dicono le coincidenze!

Ben presto Bruni – che nonostante le perplessità si è gettato anima e cuore sull’inchiesta – si accorse (la metafora, per carità, è mia) che sarebbe stato più facile correre la Parigi-Roubaix con le ruote sgonfie o a attraversare il deserto con un cammello ubriaco (i cammelli sono golosi di birra, lo sapevate?), che entusiasmare i colleghi di lavoro sull’opportunità di portare avanti l’inchiesta del turpe De Magistris.

Ecco ciò che pubblica il settimanale Panorama (noto covo di comunisti) il 17 luglio 2008: “In una lettera del 10 giugno si legge: «Il gruppo di lavoro esiste solo formalmente poiché soltanto lo scrivente, pressoché in esclusiva negli ultimi mesi, ha posto in essere attività investigative e di impulso alle indagini»: parola di Bruni.

E parlando con il collega Massari, ecco cosa dichiara lo stesso Bruni il 6 dicembre 2008 alla Stampa: “Parlando di Why Not, Bruni dichiara: «Mi fu sottratto il filone d’indagine “Tesi - Fincalabra” sul quale stavo lavorando da tempo. Nel corso delle riunioni, avvenute tra i colleghi, ho avuto contrasti con il collega De Lorenzo, che adduceva ragioni di carattere tecnico-giuridico per fondare argomentazioni che avrebbero poi portato a stralci e archiviazioni. (...)».

Chiedono i pm di Salerno: «Ha mai formalizzato le rimostranze?».

Bruni risponde: «Il 6 giugno 2008 ho formalmente scritto a procuratore Generale (Enzo lannelli, ndr) ...».

Insomma: c’è traccia, nelle carte di Why Not, delle obiezioni di Bruni. Che dichiara d’aver perso un mese per la perquisizione al presidente della Regione Calabria Agazio Loiero: «Con i colleghi Garbati e De Lorenzo, l’oggetto della discussione era tanto il decreto, quanto i soggetti da perquisire, e in particolare (...) Loiero. Intercorse circa un mese e non tutto il materiale ricercato è stato rinvenuto

 
CORVI E VELENI SU WHY NOT

 
Bene. Mentre noi italiani eravamo travolti e stravolti come degli adolescenti in calore alle fantasmagoriche avventure di “Silvio, Veronica e Noemi” accadeva che la Procura generale di Catanzaro firmava e inviava al giudice per l’udienza preliminare (Gup) la richiesta di rinvio a giudizio per 98 persone delle 106 che nei mesi scorsi avevano ricevuto l’avviso di conclusione indagini dell’inchiesta Why Not. Per altre 7 è stato deciso lo stralcio con l’invio degli atti alla Procura di Milano. Per due esponenti dei servizi segreti (ma guarda tu che caso!) è stata invece disposta l’archiviazione.

Apriti cielo. La politica e la classe dirigente della Calabria coinvolta, tuona contro la lesa maestà. Ma come: tolto dagli zebedei De Magistris c’è ancora qualcuno che osa sfidarci? Poffarbacco: esiste una magistratura indipendente! Maledetto Bruni che ha ritessuto la tela di De Magistris! E maledetti tutte voi, toghe rosse e toghe rotte!

Loiero Agazio, il Governatore indagato che vive nello spazio (politico, ovvio), come ci informa Giuseppe Mercurio sulla Gazzetta del Sud del 3 maggio 2009 a pagina 35 è il primo a tuonare contro la fretta dei magistrati: Fretta? Oh yes: in fin dei conti sono solo 2 anni che la magistratura sta indagando! Ma diamogli almeno altri 25 anni di tempo a ‘sti magistrati per studiare le carte, perdinci e anche perbacco!

Sabatino Savaglio, essere sconosciuto a tutti ma non in Calabria dove il potere della Compagnia delle Opere (di cui l’inquieto e plurindagato Antonio Saladino è stato il prode condottiero per anni) è forte quanto quello della massoneria, si becca addirittura un titolo a 9 colonne (che di solito si dovrebbe riservare solo alla morte dei Papi o dei Capi di Stato) sulla Gazzetta del Sud lo stesso giorno e nella stessa pagina: “Sono indagato perché amico di Saladino”. Cucciolone! Ci fosse ancora l’inserto satirico dell’Unità, Cuore, finirebbe nella mitica rubrica “E chi se ne frega”e invece il suo chilometrico comunicato stampa scritto in una lingua che ricorda vagamente l’italiano finisce dritto dritto sull’amorevole giornale. L’uomo ombra e penombra di Saladino – principale indagato dell’inchiesta – si indigna come una murena in salamoia e con lui, ad esempio, anche tal Giovanni Lacaria.

Forte delle lamentele di cotanti personaggi, la stampa del posto si scatena e quella nazionale tace scribacchiando e vergando solo qualche patetico colonnino.

Un giornale locale – non voglio nemmeno nominarlo – ad opera di una penna che non oso neppure pronunciare ma di cui c’ampia letteratura tra le carte della Procura di Salerno, parla, tra le altre cause, di “vomitevoli e folle raccolta di esposti anonimi che anche il più vecchio e avvezzo cronista abbia mai potuto vedere” alla base dell’inchiesta Why Not.

Italiani, sveglia! Da tempo vò scrivendo che l’inchiesta Why Not è morta e sepolta ma dopo questo scriteriato colpo di dignità della magistratura calabrese che ha chiesto il rinvio a giudizio di 98 persone, tutti i fratelli d’Italia si debbono stringere a coorte e debbono esser pronti alla morte (altrui)! L’inchiesta, cribbio, non può andare avanti! Maledetto sia De Magistris, Bruni e compagnia indipendente!

 
L’OPERAZIONE PUMA, VRENNA E ANGELA NAPOLI

 
Ma c’è un ultimo e non irrilevante motivo per cui il magistrato Pierpaolo Bruni deve essere messo al bando dalla massopolindrangheta tutta, composta di personaggi insospettabili: il processo Puma condotto – ma guarda tu – proprio da lui medesimo.

Ebbene in questo processo – che vedrà svolgere presto la sua fase d’appello – tra gli altri è coinvolto anche un tal Raffaele Vrenna, imprenditore del settore rifiuti, per lungo tempo a capo di Confindustria Crotone . In primo grado, nel giugno 2008, Vrenna fu condannato a 4 anni di reclusione per uno spassoso reato: concorso esterno in associazione mafiosa. Il pm Bruni ne aveva chiesti 10. Condannati, con Vrenna, ex assessori regionali e provinciali e sindaci di centro-destra e centro-sinistra (badate bene: mai come in Calabria la differenza è virtuale).

Ebbene, accade ora che una rompiballe come l’onorevole del Pdl Angela Napoli, della Commissione parlamentare antimafia, si accorge di una stranezza che perdura: è vero che Vrenna ha affidato la gestione di parte dei suoi beni a un blind trust governato dall’ex capo della Procura di Crotone Franco Tricoli (!!!!!), ma è anche vero che da agosto 2008 a oggi nulla è cambiato per il resto. Vale a dire: la moglie di Vrenna, Patrizia Comito, non solo avrebbe creato una società priva del certificato antimafia (così scrive Napoli nell’interrogazione a risposta scritta presentata al ministro della Giustizia Angelino Alfano il 23 aprile, dopo quella già presentata senza successo il 29 settembre 2008) ma continuerebbe a ricoprire importanti incarichi presso la Procura della Repubblica di Crotone, dove per lungo tempo è stata segretaria proprio di Tricoli, ora a capo di parte dell’impero Vrenna! Che splendido triangolo!

Detto che queste cose possono succedere solo in Calabria, Angela Napoli – ai microfoni della mia trasmissione su Radio24 “Un abuso al giorno” che andrà in onda domani, martedì 12 maggio alle 6.45 e in replica alle 20.45 – parlerà di vero e proprio scandalo. “La signora Comito in Vrenna – dirà Napoli – lavora in quella Procura, fianco a fianco con il procuratore capo, al quale Bruni, che sul marito ha indagato e sta indagando, riferisce in vista dell’appello e riferisce per tutte le altre delicate inchieste antimafia che sta conducendo nel crotonese. E’ inconcepibile ma tutti tacciono! Ho chiesto l’allontanamento di Comito, vediamo cosa dirà il ministro”

Glielo anticipo io, Napoli: nulla. Zero carbonella, come zero ha detto prima e come zero sta dicendo, a esempio, il ministro celodurista e sassofonista Roberto Maroni sullo scioglimento per mafia del Comune laziale di Fondi (Latina).

La signora Comito in Vrenna, contattata dalla redazione di Radio24 per una replica, si limiterà a dire che non intende parlare con la stampa e che ha già avviato le contromosse dovute. Quali? Ah saperlo!

Ora, cari lettori, avete capito perché la storia di Bruni non ha solo a che fare con la proroga del suo incarico presso la Dda di Catanzaro. Bruni – minacciato di morte un giorno sì e l’altro pure dalle cosche crotonesi – non deve andare avanti. Costi quel che costi.

E noi siamo qui – per quel che serve – a combattere a fianco di Bruni contro la massopolindrangheta calabrese. Lontani da una loggia segreta e senza grembiulini. Non abbiamo nulla con cui sporcarci, noi.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 07:52


Titolo: Roberto GALULLO. Processo Hiram
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:05:00 am
15/05/09


Processo Hiram

/ 1 Banche dati di Cassazione e Polizia violate da Cosa Nostra e massoni con la benedizione di un gesuita…
Inizia oggi, venerdì 15 maggio a Palermo, la fase dibattimentale del “Processo Hiram” in cui – come non accadeva da tempo – confluiscono in un’unica fogna dal tanfo nauseabondo Cosa Nostra, colletti bianchi, poliziotti corrotti, massoneria deviata (e no), Chiesa deviata (e no).

Questo processo – per farla breve – scoperchia, secondo l’accusa rappresentata dai validissimi magistrati Fernando Asaro, Paolo Guido e Pierangelo Padova, un’associazione a delinquere – su cui le indagini sono partite nell’estate 2005 - che cercava di aggiustare o ritardare processi in Cassazione (affinchè cadessero in prescrizione) di affiliati (e non solo) alle cosche delle province di Agrigento e Trapani.


HIRAM E L’ALLEGORIA MASSONICA


Hiram è il nome della rivista ufficiale del Grande Oriente d’Italia ma - nel rituale massonico – Hiram Abif è una figura allegorica: è l’architetto capo della costruzione del Tempio di Salomone (988 a.C.)

L’architetto Hiram Abif venne ucciso da tre capomastri che lavoravano alla costruzione del tempio nello sforzo di sottrarre informazioni segrete al grande capomastro. Qualunque fossero queste informazioni o segreti, Abif non le rivelò se non un attimo prima della sua morte.

In massoneria il concetto di “Himam risorto” sta a indicare il raggiungimento dell’Illuminazione.

E di illuminazione la Direzione distrettuale di Palermo ne ha avuta molta se ha avuto la costanza e la forza – nonostante i silenzi, le connivenze e le anomalie che ha incontrato e che incontrerà – di accusare 11 mesi fa a vario titolo per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari, peculato, accesso abusivo in sistemi informatici e rivelazione di segreti di ufficio, una decina di persone.

Questa storia non è stata raccontata – proprio per la paura o l’appartenenza che molti giornalisti hanno nei confronti della massoneria e delle varie “piovre”– da nessun giornale tranne che per alcuni minimi stralci da Libero e dal Corriere della Sera. Approfonditamente, invece, solo da un maestro del giornalismo d’inchiesta su Cosa Nostra: Saverio Lodato dell’Unità a cui va tutta la mia riconoscenza per il lavoro che svolge da anni.

Ho deciso dunque di raccontarvela io questa storia. A puntate, come si addice a un processo che si annuncia di grandissimo interesse e che – proprio per questo – cappucci, compassi, grembiulini e alte gerarchie ecclesiastiche non vogliono che si racconti.


LA RAGNATELA MASSONICA, POLITICA E… GESUITICA


I personaggi coinvolti il 12 giugno 2008, giorno in cui fu richiesto l’arresto dai pm, sono innanzitutto: Nicolò Sorrentino, Michele Accomando e Calogero Licata, ex assessore a Canicatti per la Dc. Gli ultimi sono due massoni di logge diverse: a Trapani e Agrigento. Accomando si sarebbe dato – secondo l’accusa – un gran daffare per insabbiare o ostacolare i processi nei quali erano coinvolti Dario Gancitano, Riserbato Davide, Giovanbattista Agate e Epifanio Agate, figlio di Mariano Agate, capomafia di Castelvetrano.

Calogero Licata e Nicolò Sorrentino si sarebbero invece prodigati per Calogero Russello (anche egli arrestato per il processo Hiram e poi scarcerato per motivi di salute), che all’epoca dei fatti era coinvolto a Palermo nel processo “Alta Mafia” e inizialmente condannato il 28 luglio 2005 a 6 anni per associazione mafiosa e poi ricorrente in Cassazione (l’8 gennaio 2007 la Corte di appello di Palermo lo assolse per quel reato e lo condannò a 2 anni per corruzione ma il 3 dicembre 2007 è stata annullata la sentenza di assoluzione e il processo dovrebbe essere pendente presso altra corte di appello).  Russello è stato scarcerato ed è sottoposto a misure restrittive della libertà

Da annotare che Licata ha consegnato ai magistrati un memoriale – ora al vaglio degli inquirenti – in cui sembrerebbe ammettere diverse circostanze..

Ci sono poi Renato De Gregorio (vedremo la sua figura più avanti),

Rodolfo Grancini, avvocato e secondo l’accusa gran faccendiere tra la Cassazione e i clienti, Guido Peparaio, ausiliario nella seconda sezione della Cassazione e Francesca Surdo, agente di polizia, la cui posizione fu stralciata dal Gip Roberto Conti e gli atti furono mandati a Roma.

Indagati per concorso esterno per associazione mafiosa ci sono intanto anche: 1)  Stefano De Carolis Villars, all’epoca Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia (in stretto contatto con parlamentari, onorevoli, senatori, politici, oltre che con il Venerabile Licio Gelli, il cui ruolo apparirà nelle prossime puntate) e 2) un potente uomo di Chiesa, padre Ferruccio Romanin, gesuita, Rettore all’epoca dei fatti nella capitale della Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola.


LA BANCA DATI DELLA CASSAZIONE,

QUELLA DELLA POLIZIA DI STATO …E LA NUOVA P2


Alcuni mesi fa scrissi alcune inchieste sul Sole-24 Ore e su questo blog in cui affermavo che la “nuova P2” che stava scoperchiando Luigi De Magistris con le inchieste Poseidone e Why Not aveva tra gli interessi vitali il controllo delle banche dati dello Stato: a partire da quelle della Giustizia, delle Forze di Polizia e della Guardia di finanza. Colpire il cuore dello Stato “al” e “dal”suo interno: questo è (e sarà) lo scopo della nuova P2.

Non mi sbagliavo. Questo processo – per quanto mi riguarda e aldilà delle figure chiave che di volta in volta racconterò – mette in luce un elemento di una gravità inaudita: l’accesso abusivo – apparentemente semplicissimo - al sistema informatico e telematico (Ced) della Cassazione e delle Forze di Polizia.

Ma andiamo con ordine. Un addetto di cancelleria (più o meno un commesso) della Corte di Cassazione, tal Guido Peparaio, ternano da Ficulle, a pochi passi da Orvieto (e poi vedremo perché è importante) secondo l’accusa istigava pubblici ufficiali (che non sono ancora stati identificati) a entrare nel Ced della Cassazione – teoricamente protetto da misure di sicurezza a prova di bomba nucleare - al solo scopo di fornire allo stesso addetto di cancelleria documenti pendenti presso la seconda sezione. E che ci faceva Peparaio con questi documenti? Gli aeroplanini di carta?

Nossignori: secondo l’accusa forniva notizie e informazioni riservate ai suoi sodali su operazioni o provvedimenti giudiziari o amministrativi “caldi” a carico di ricorrenti affiliati alle cosche siciliane e grazie a una fitta rete di complici interni al Palazzaccio, faceva in modo di ritardare processi, consentire il decorso dei termini di un processo penale, dilazionare il passaggio in giudicato di una sentenza, creare intoppi burocratici, disperdere documenti.

Ora: come poteva un semplice ausiliario accedere a un pc e combinare questo terremoto senza complicità? Secondo i pm non poteva ma – ungendo le ruote giuste a suon di euro – c’era chi lo faceva per lui con le password in dotazione.

E qui il processo che parte oggi rischia di aprire – attraverso la fessura di Peparaio – una voragine, perché senza dubbio nella disgustosa consorteria non mancavano figure dirigenziali e apicali: vale a dire (tra gli altri) i magistrati. Provarlo sarà un’impresa ma intanto presidenti di sezione e consiglieri saranno ascoltati come testi.

A fornire al gaio Peparaio le pratiche da seguire era un avvocato-faccendiere di, di, di…Ma di Orvieto, come lui, ovvio! Un avvocato con grandissimi agganci nella massoneria ufficiale (anche se lui nega ogni affiliazione), gerarchie ecclesiastiche e politiche. L’avvocato si chiama Rodolfo Grancini ed è un arzillo nonnino di 69 anni. Il vispo Rodolfo – riporto testualmente dall’ordinanza del Gip Roberto Conti “avvalendosi di persone prezzolate note e ignote all’interno della Cassazione, tra le quali il Peperaio…era riuscito a congegnare un sistema che gli consentiva di acquisire notizie riservate sullo stato dei procedimenti e di pilotare la trattazione stessa dei ricorsi proposti in Cassazione dai suoi clienti”.

Il vispo Rodolfo – cito testualmente un’Ansa del 7 aprile 2009 – “è presidente di uno dei Circoli del buon governo di Marcello Dell’Utri, con il quale sono stati individuati contatti telefonici e diversi incontri”.


GRUVIERA CASSAZIONE: SISTEMA DI CORRUZIONE AMPIO


Nel dibattimento e in fase di disamina dei testi ci sarà da ridere (per non piangere). Il gaio Peperaio e il vispo Rodolfo, entrambi da Orvieto vantavano (o millantavano, starà al processo accertarlo) agganci e conoscenze non solo nella seconda sezione, dove il gaio Peperaio era applicato, ma anche nelle altre.

Godetevi questa intercettazione in cui il riferimento è a un medico ginecologo palermitano, Renato De Gregorio di Canicattì, condannato anche in appello alla pena finale di 5 anni. Contro la condanna – per violenza sessuale – De Gregorio, che ora starebbe collaborando con i magistrati, aveva fatto ricorso in Cassazione.


Intercettazione dell’1 agosto 2006 ore 11.31.14


Grancini Rodolfo: Uh, ho un cliente nuovo. Alla quarta com'è?

Peperaio Guido:-Eh è una sezione [ride] ;

Rodolfo:-Eh! È un primario di ospedale.

Guido:-Eh! Ah ah.

Rodolfo:-Lo sai che gli hanno fatto?

Guido:-Eh ;

Rodolfo:-Gli è andata una paziente che ci aveva 18, 19 anni a visitarsi.

Guido:-Eh eh.

Rodolfo:-Siccome è pieno di soldi!

Guido:-Eh.

Rodolfo:-Poi questa si è fatta scopare sul lettino!

Guido:-Eh! [ride]

Rodolfo:-Che poi gli ha detto, mi ha violentato [ride];

Guido:-[ride] Ma che hanno ricorso lì?

Rodolfo:-Alla quarta!

Guido:-Ho capito ho capito


Avrete capito che la quarta non è la misura di reggiseno della malcapitata, ma è la sezione della Cassazione che non sta propriamente a genio ai due.

E per capirlo meglio leggete quest’altra intercettazione, al termine della quale vi svelerò una sorpresa…amara.


Intercettazione dell’1 agosto 2006 alle 21.41.45


Rodolfo-Eh, che la sezione non è una di quelle simpatiche.

Francesca-Eh immagino.

Rodolfo-Eh la quarta e la settima sono un po’ le più..eh, se era la seconda era un frego meglio. Però qualcosa possiamo fare, su, poi ne parliamo a voce...

Francesca-Va bene, giovedì mattina ne parliamo


IL SISTEMA INFORMATICO DELLE FORZE DELL’ORDINE:

UNA FALLA DOPO L’ALTRA


E qui c’è la sorpresa amara. Francesca, con cui parla amorevolmente Rodolfo Grancini, è Francesca Surdo, 36enne palermitana con un segno distintivo che dovrebbe rassicurare la collettività: poliziotto in servizio presso la Questura di Palermo prima, e poi presso il servizio centrale anticrimine del Viminale.

Francesca Surdo – che ha patteggiato la pena ed è uscita dal processo e di lei si sono perse le tracce al punto che sarebbe interessante sapere se è sospesa, se è stata trasferita ad altro incarico o se è stata mandata via dalla Ps – in diverse occasioni avrebbe violato l’archivio informatico delle Forze di Polizia (Sdi) protetto teoricamente anch’esso da misure  a prova di Diabolik, allo scopo di fornire a Grancini e a mafiosi, notizie su precedenti di polizia, su denunce e indagini.


IL SISTEMA SI ARROCCA SU SE STESSO


Prima di lasciarvi e darvi appuntamento alla prossima puntata dove compariranno grembiulini e compassi e proprio mentre probabilmente si sta aprendo la fase dibattimentale a Palermo, vorrei lasciarvi con un piccolo promemoria.

Detto che dal processo Francesca Sudo è uscita, vale la pena di raccontare qualcosa del gaio Peparaio. La Cassazione – investita sul punto e chiamata a pronunciarsi sul suo arresto – ha annullato l’arresto stesso con una dettagliatissima sentenza che probabilmente mai più rivedremo nella nostra misera vita da cronisti, rinviando il carteggio al Tribunale del riesame. Quest’ultimo ha parzialmente accolto le motivazioni del Gip ma ha disposto gli arresti domiciliari. Evviva la Cassazione, Tempio…del diritto!

E come dicono gli americani 1.to be continued


roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 08:35


Titolo: Processo Hiram/ 2
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2009, 11:40:37 pm
19/05/09


Processo Hiram/ 2

De Carolis, Licio Gelli, Dell’Utri e le lettere del gesuita Romanin per il figlio del boss di Cosa Nostra
La prima udienza del processo Hiram – che si svolge a Palermo – è stata (come era logico prevedere) interlocutoria ed è stata aggiornata alla fine di questo mese.

Nel frattempo la tensione sale intorno a questo procedimento che ruota intorno a faccendieri, massoni, poliziotti, mafiosi e gesuiti che secondo l’accusa – ciascuno con una a o più tessere – formavano un puzzle teso a rimandare o aggiustare processi in Cassazione (affinchè cadessero in prescrizione) di affiliati (e non solo) alle cosche delle province di Agrigento e Trapani.

A Trapani – ricordiamolo per inciso – non si muove foglia che Matteo Messina Denaro (superlatitante di Cosa Nostra) non voglia ed è dunque impossibile credere che tutto ciò che la Procura di Palermo ha svelato non avvenisse sotto la sua diretta benedizione. Ed infatti io non lo credo.

Nello scorso post ho evidenziato l’inquietante facilità con la quale è stato (è ancora?) possibile violare le superbanche dati della Cassazione e delle Forze di polizia.

Oggi i lettori potranno leggere dell’avvocato De Carolis, già Gran Maestro della “Serenissima Gran Loggia Unità d’Italia” e i suoi contatti con il faccendiere orvietano Rodolfo Grancini, “figura che emergerà come coprotagonista – scrivono testualmente i Pm Fernando Asaro, Paolo Guido e Pierangelo Padova a pagina 22 della richiesta per l’applicazione delle misure cautelari – di tutti gli episodi delittuosi, vero e proprio trait d’union tra la Cassazione, gli ambienti massonici siciliani e alcuni esponenti di vertice dell’associazione Cosa  Nostra”.

L’altra figura di cui dar conto è quella di Padre Ferruccio Romanin, gesuita e all’epoca Rettore della Chiesa romana di Sant’Ignazio di Loyola, che avrebbe, “su commissione e dietro compenso in denaro pagatogli dal faccendiere Grancini – si legge a pagina 24 - redatto lettere indirizzate a diverse Autorità giudiziarie, finalizzate a perorare la posizione processuale di imputati di gravissimi fatti delittuosi”.

Romanin, anziano sacerdote, si difende come può e da indiscrezioni sembra che abbia ammesso la predisposizione delle missive – è sarà interessante scoprire il livello più alto, vale a dire i personaggi ai quali erano indirizzate – ma avrebbe anche detto di non sapere chi fossero i personaggi per i quali spendeva il suo amorevole inchiostro cristiano.

Credibile? Non sta a noi giudicare, ma la mera lettura di una di queste lettere, credo che farà sorgere nei lettori più di un dubbio.

Eccovene una, redatta dopo l’accordo raggiunto tra Grancini e il massone di Mazara del Vallo Michele Accomando (imputato nel processo Hiram), in favore di Epifano Agate, figlio di Mariano Agate, massone e capomafia di Castelvetrano.

 

IL TESTO DELLA LETTERA DEL GESUITA

PER IL FIGLIO DEL BOSS

 

Il testo della lettera- indirizzata a non meglio identificati “chi di dovere” e proprio per questo ancor più inquietanti – è definito “commovente” in una telefonata intercettata il 13 novembre 2006, dallo stesso Accomando.

 

“Sono rimasto colpito dalla vicenda giudiziaria che ha colpito questo ragazzo e dal profondo dolore di queste sue donne. Mi pregano di scrivere alle Vostre Signorie Illustrissime per un atto di clemenza e di perdono nei confronti di Agate Epifano. Il ragazzo l’ho conosciuto presso la Chiesa di Sant’Ignazio qui a Roma, dove Epifano era venuto con la fidanzata, per sentire se il loro matrimonio poteva essere celebrato in questa Chiesa…Ho avuto l’impressione che fosse un ragazzo a posto, pieno di vita e di progetti con la sua futura moglie, con una certa venerazione del nostro fondatore Sant’Ignazio…Non voglio essere giudice di nessuno, e del suo operato, ma per quello che ho intuito non penso che meritasse un trattamento così pesante”.

Il prete “impiccione” che non giudica e non conosce ma intuisce (fantastico, è meglio di Nostradamus) alla fine della missiva con tanto di sigillo e bollo, implora i papaveroni ai quali si rivolge e che per il  momento rimangono maledettamente nell’ombra, “equità e perdono, dandogli un’altra possibilità per alleviare nel perdono e nella clemenza il dolore atroce di una madre e della fidanzata”.

 

Nostradamus Romanin – indagato per concorso esterno in associazione mafiosa - era solito firmare queste lettere e nelle 337 pagine della richiesta di misure cautelari della Procura della Repubblica di Palermo ce ne sono molte. E non mancano quelle per intercedere nei processi che vedevano imputati affiliati a Cosa Nostra. E c’è anche la descrizione della fase di preparazione che coinvolgeva, secondo l’accusa, il solito Grancini e Odimba Omana (estraneo ai fatti), segretario particolare di Padre Romanin.

 

LA CHIESA, LE STANZE SEGRETE

 E GLI AMICI DI DELL’UTRI

 

Ma in questo processo – se le accuse verranno provate - non viene infangato solo l’abito di uno o più sacerdoti, ma quello che emerge è il ruolo disgustoso che di luoghi sacri avrebbero fatto alcuni dei personaggi coinvolti. Tutti – è bene ribadirlo – respingono ogni tipo di accusa (si veda a esempio l’Unità del 23 giugno 2008) e sarà il processo a stabilire la verità giudiziaria.

In un’intercettazione del 3luglio 2006 alle ore 21.13, a parlare sono Francesca Surdo (la poliziotta del nucleo anticrimine del Viminale arrestata e che ha poi patteggiato la pena) e il solito Grancini.

Ad un certo punto i due fanno riferimento ad alti ufficiali delle Forze dell’Ordine che il Grancini, per il tramite di “Marcello” Dell’Utri (così si legge a pagina 292 della richiesta dei pm), affermava di incontrare in luoghi difficilmente intercettabili: appunto la Chiesa di Sant’Ignazio e i suoi accessi…supersegreti.

 

Ecco uno stralcio della telefonata:

Grancini: …li da lui ci vedo generali, colonnelli dei Carabinieri, mi sono venuti a parlare dentro la Chiesa, due, un colonnello di Asti, uno di Prato, un altro del ministero di Giustizia, per parlare con lui…

Surdo: lui chi?

Grancini: Con Marcello

Surdo Ah sì

Grancini E io li ricevo nelle sacrestie della Chiesa

Surdo …(incomprendibile)

Grancini Dove non ci sono microspie lì, hai capito (ride). Oppure li porto sopra nelle stanze segrete, perché volevano scendere in politica…

 

IL SERENISSIMO DE CAROLIS E IL VENERABILE GELLI

 

I sostituti Fernando Asaro e Paolo Guido, accompagnati dal procuratore aggiunto Roberto Scarpinato, alcuni mesi fa erano saliti fino ad Arezzo, in quel di Villa Wanda, per incontrare il Venerabile (ma per chi?) Licio Gelli, gran padrone di facciata della famigerata Loggia P2.

Il motivo dell’incontro – al quale il telegenico Gelli ha apposto, ohibò, la facoltà di non rispondere – era cercare di capire quali fossero le piste massoniche romane (e no) del Gran Maestro Stefano De Carolis Villars (indagato per concorso esterno in associazione mafiosa) e quali fossero i contatti tra ambienti massoni siciliani e ambienti mafiosi.

Numerose sono le telefonate intercettate – come ad esempio quella del 4 ottobre 2005 alle 10.22.47 o quella del 22 ottobre 2005 alle 10.22.47 – che riportano i colloqui o gli incontri programmati tra Accomando, Grancini e De Carolis ma quello che appare sullo sfondo, secondo l’accusa, è il ruolo di “natura superiore” del De Carolis.

Scrivono – a esempio – i pm Asaro, Guido e Padova a pagina 211 della richiesta di misure cautelari che “le conversazioni intercettate lasciavano intuire che Stefano De Carolis…..non era probabilmente coinvolto nella corruzione di pubblici ufficiali e nei singoli accessi abusivi al sistema informatico della Cassazione…Tuttavia, a completamento del piano finalizzato a ottenere lo slittamento del procedimento, ove il Peparaio, attraverso i suoi complici non fosse riuscito a postergare la trattazione dell’udienza sino allo spirare del termine di prescrizione, a dire del Grancini, il De Carolis sarebbe potuto intervenire successivamente sugli ufficiali giudiziari – se del caso offrendo loro cospicue somme di denaro – al fine di ritardare o impedire la notifica dell’avviso di fissazione udienza, con la conseguente impossibilità di discutere il ricorso”.

Da De Carolis – ascoltato finora almeno tre volte dalla Procura – finora non è stato tirato fuori un ragno dal buco ma sarà interessante (anche per questo) seguire questo processo che ha un tanfo nauseabondo, indipendentemente dal fatto che siano provate (o meno) le accuse dei pm. Perché un conto è il livello giudiziario e delle responsabilità penali dei singoli e dell’eventuale associazione, un altro è il livello sociale e morale che ha scoperchiato quest’inchiesta.

E io sarò qui a seguirlo per voi nei prossimi mesi perché, come hanno spiegato il capo della Procura di Palermo Messineo e l’aggiunto Scarpinato, alcuni tra gli arrestati “erano molto preoccupati” della possibile reazione del boss Messina Denaro in caso di fallimento. E come hanno aggiunto i pm dell’accusa “quello che è stato scoperto potrebbe essere soltanto la punta di un iceberg perché il sistema c’è e sembra molto rodato”.

E secondo voi ciò che sta a cuore a quel nobiluomo di Messina Denaro può esaurirsi nella complicità di quattro faccendieri, poliziotti, massoni e gesuiti?

E come dicono gli americani… 2-The end (ma solo per ora)

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 09:44


Titolo: Roberto GALULLO. Strage di Capaci 17 anni fa...
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:24:10 am
23/05/09


Strage di Capaci 17 anni fa: ministro Gelmini, la mafia diventi materia obbligatoria nelle scuole a partire... dal Nord

E’ salpata ieri sera da Napoli. Arriva questa mattina alle 8 nel porto di Palermo. Questa sera, quando la luce del sole lascerà il posto a quelle della città, ripartirà per riaccompagnare a casa i mille e passa studenti provenienti da ogni parte di Italia.

E’ la nave della legalità che, come ogni anno, percorre la rotta verso Palermo per ricordare che i ragazzi sono in prima linea nello lotta ai disvalori delle mafie. Un plotone di giovani che, dopo un anno passato a studiare le mappe e le tappe della legalità, arriverà con tutta la sua allegria a ricordare che 17 anni fa Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta sono morti per il loro futuro.

Tutto bene? Il futuro della lotta a Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e chi più ne ha più ne metta è in mano ai quindicenni di oggi, adulti di domani? Vorrei che lo fosse. Ma non ci credo.

Non ci credo per due motivi: gli insegnanti, a partire dal Nord, non sono abbastanza preparati e, di conseguenza, gli studenti non sono sollecitati a capire. E ad agire e reagire.

Parto da un’esperienza personale che, alcuni mesi fa, credo di aver già accennato in un post.

 

LE “TESINE” SULLA MAFIA A SCUOLA NON SONO MATERIA D’ESAME

 

Mio figlio Nicholas ha 16 anni. Gli piace (purtroppo) Del Piero (io lo detesto) e ama informarsi su tutto, anche se spesso segue (purtroppo) Mediaset (io la detesto, ma anche la Rai in vero, salvo poche eccezioni, come del resto un’eccezione era Mentana). I giornali no, non li legge. Troppa fatica per chi fa parte del popolo di Internet e degli Mp3. Colpa nostra. Di noi genitori, intendo.

Due anni fa la sua scuola media – che segue, e meno male!, programmi sperimentali, ed è tra i migliori istituti pubblici in Italia – ha chiesto a tutti gli studenti una tesina sperimentale multimediale da discutere con la commissione esaminatrice.

I compagni di mio figlio hanno portato di tutto, nell’ambito del programma scolastico. Mio figlio no. Segue (purtroppo?) da tempo le orme del padre e si diverte un mondo a seguire percorsi e temi di legalità e tutto ciò che ha a che fare con la criminalità organizzata.

Decide di portare – e giuro che non ho avuto alcuna influenza sulla sua scelta – una tesina sulla mafia. Fa tutto da solo: sceglie gli argomenti, si documenta, studia. Viaggia con me. Conosce don Luigi Ciotti, collaboratori di giustizia, vittime di mafia. Prepara (per me) un gran bel lavoro: i suoi compagni di classe – che vivono in Lombardia come mio figlio – probabilmente neppure sanno che Buccinasco, in provincia di Milano, è in mano alla ‘ndrangheta. Lui si.

Bene: la tesi gli viene bocciata. Motivazione: la mafia non è materia di esame.

Entro (per mero impegno civile) in campo: vergognatevi, dico alla scuola. La mafia deve essere materia di esame. Anzi: di vita. Morale: la tesina viene ammessa e la commissione resta basita (non dalla bellezza, che è soggettiva, ma dalla scelta).

Basta quest’episodio per dire che tutta la scuola media e superiore è così? Non basterebbe, in teoria. Una rondine non fa primavera. Allora mi informo tra decine di coetanei amici di mio figlio: dalla Calabria alla Campania, dal Piemonte al Lazio. Nessuno – dico nessuno – ha mai affrontato il tema delle mafie in classe. E dire che di gente ne conosco. E nessuno – dico e ripeto: nessuno – ha neppure mai sentito che qualche suo amico lo avesse fatto.

Tante rondini fanno primavera? Gli scettici – e coloro i quali hanno avuto esperienza contrarie – diranno di no. Per me è…quasi un si e la mia conclusione è la seguente: le scuole medie, le superiori per non parlare dell’Università non (e ripeto non) parlano abbastanza delle mafie. E’ stata abolita l’educazione civica, volete che perdano tempo con Riina, Piromalli, Strisciuglio e Zagaria? Chi sono costoro: vade retro, Pepè, Satan e Aleppe!

E aggiungo di più: a non essere preparate sono soprattutto le scuole del Centro e del Nord. Nel Sud la mafia è pervasiva e la famiglia e la scuola debbono parlarne (ma non lo fanno abbastanza). Ma è come parlare dell’aria. E’ facile: è li. La vedi. La tocchi. La respiri. Il difficile – semmai – è farlo nelle classi dove sai che studiano i figli dei mafiosi (se lo sai, visto che i mafiosi non hanno la coppola ma giacca e cravatta). E infatti gli insegnanti che affrontano il tema si contano sulle dita di una mano (sono pronto a essere impallinato da chi mi smentirà raccontandomi un’esperienza contraria).

Nelle scuole del Nord la famiglia e la scuola non ne parlano quasi mai. O lo fanno dicendo che è roba che riguarda i terroni. I polentoni no, non hanno la mafia in casa. Non lo fanno i prefetti, non lo fanno i sindaci, volete che lo facciano gli insegnanti? Ignoranti, dico loro: la mafia è qui. Non la vedi ancora. La tocchi senza saperlo ancora. La respiri ma non lo sai ancora.

Modesta proposta al ministro dell’Istruzione Mariastella “stellina” Gelmini: che le mafie diventino materia obbligatoria di studio in tutte le scuole del regno di ogni ordine e grado. Non lo farà mai. E’ di centrodestra. Ma non lo farà mai neppure un ministro di centrosinistra. Tutti…pendono e dunque nessuno ha il baricentro sulla legalità.

 

I QUESTIONARI NELLE SCUOLE
 

E veniamo – nel giorno in cui la nave della legalità attracca a Palermo – ad un aspetto sconcertante di cui dò questa mattina conto in un servizio che ho scritto per il Sole-24 Ore online (lo trovate dunque sul sito del mio giornale, mentre sul quotidiano ho scritto un’inchiesta sullo stato della lotta alla mafia e su Radio24 oggi alle 6.45 va in onda nella trasmisione “Un abuso al giorno” la replica dell’’intervista già mandata in onda ieri a Maria Falcone; a tal proposito ricordo che tutte le puntate sono scaricabili dal sito www.radio24.it).

Alcuni mesi fa il Centro Mafiacontro di Palermo, che fa capo al senatore del Pdl Carlo Vizzini, ha diffuso 2000 questionari presso scuole siciliane, campane e lombarde.

I risultati sono agghiaccianti: per il 24% degli studenti la mafia è una risorsa o una tradizione. Soltanto uno studente su due crede che Cosa Nostra sia una danno per l’intera società. E uno su due affronta “poco o mai” con gli amici il tema della criminalità organizzata. Nel giorno del ricordo di due giudici fatti saltare per aria – Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo – la cosa che più fa male è scoprire che il 22% degli studenti intervistati ritiene che Gaetano Costa e Rocco Chinnici , magistrati uccisi dalle cosche nel 1980 e nel 1983, fossero capimafia.

“E’ un pugno nello stomaco apprenderlo”, ha spiegato al Sole 24 Ore Maria Falcone, a capo della Fondazione intitolata a suo fratello e alla moglie, che come ogni anno premierà con 10 borse di studio i laureati che si saranno distinti con tesi sulla legalità.

 

MARIA FALCONE E I PUGNI NELLO STOMACO
 

Altro che nave della legalità. Benvenga, che Dio la benedica ma qui bisognerebbe far partire verso il ministero dell’Istruzione un bastimento di insegnanti. Come diceva Gesualdo Bufalino, amato scrittore di Comiso, “la mafia sarà sconfitta da un esercito di insegnanti”.

Ne sono certo, anche passando dalla lettura dei i giornali locali del Sud. Quelli del Nord – se cercate il rapporto scuola-legalità - è quasi inutile sfogliarli (ho scritto quasi, so anche io che ci sono le eccezioni).

Come i miei più affezionati lettori sanno, sono un giornalista che ama ritagliare e mettere gli articoli da parte.Come si faceva un tempo. Sono giovane (almeno così credo). Ho 46 anni (un giovanotto dunque) ma faccio questo maledetto mestiere da 25 anni. E dopo la laurea – pur attratto per un attimo dalle sirene dell’Università – non ho avuto dubbi su quale fosse la mia strada. Coniugo dunque Internet alla forbice.

E la forbice non tradisce. Mai. Ecco cosa ho scovato dai miei ritagli, certosinamente impilati per argomento o provenienza territoriale. Sono solo alcuni esempi, sia chiaro.

Traggo dalla Gazzetta del Sud del 14 giugno 2007 a pagina 37 il seguente titolo: “Studenti della Piana favorevoli a raccomandazioni e pressioni – Il sociologo Marziale: emerge anche un concetto sbagliato di famiglia – A Taurianova sconcertante risultato di un questionario distribuito dai Lions in varie scuole”.

Il Mattino di Napoli, 17 luglio 2008: “Temi choc in classe: “Il clan ci protegge” – Le confessioni degli alunni di Miano: la camorra c’è e se qualcuno ci vuol far del male loro intervengono”

Il Mattino di Napoli (da ora in poi non vi tedio più con date e numeri): “I prof: scuola disarmata contro la camorra – Temi choc sull’invedanza dei clan, presidi e insegnanti accusano: da soli non ce la faremo mai”.

Il Mattino di Napoli: “Roberti: ormai il boss è diventato un modello – Il capo della Dda: zone fuori controllo, lo confermano i temi”.

Il Mattino di Napoli: “Don Merola: gli studenti sono affascinati dal male”.

Il Mattino di Napoli: “Uno studente su tre conosce un camorrista – I risultati choc del questionario sulla legalità”

Ora, è chiaro, che qualcuno sarebbe tentato di capovolgere i miei pensieri: “Ma lo vedi – quel qualcuno potrebbe dire – che le scuole diffondono questionari e si parla di mafie? Ma lo vedi che la scuola da sola non può compiere miracoli? Ma cosa rimproveri a noi insegnanti?”

Lo ammetto: potrei aver torto anche se potrei dire che le scuole che ne parlano sono come le mosche bianche e ribadire che parlare non basta se poi di azioni e reazioni studentesche nelle terre mangiate dalla mafie se ne vedono poche. Anzi: pochissime. Magari quando Libera organizza la giornata della memoria in memoria delle vittime di mafia. E poi? Se ne riparla tre mesi dopo con la nave della legalità. E poi? Poco, nulla, “nullissimo” (passatemi il brutto neologismo), soprattutto in alcune aree del Paese.

Sarà, avrò torto. Ma io ricordo che il 6 agosto 1980 quando fu sfigurato a morte il giudice Gaetano Costa nei parlai con i miei amici e con la mia famiglia.

Sarà, avrò torto. Ma ricordo che a 15 anni in classe leggevamo i quotidiani e commentavamo i fatti di terrorismo con gli insegnanti. E le mafie sono terrorismo: ma all’interno dello Stato a differenza delle Br e dei Nar.

Sarà, avrò torto ma ricordo che avevo 15 anni quando il professore napoletano di filosofia – poi suicidatosi per la scoperta di un cancro - nella mia scuola romana ci ricordava spesso  che la camorra mangia anche i più buoni.

Sarà, avrò torto. Ma ricordo che l’ insegnante che aveva fatto il partigiano ci insegnava il valore della Resistenza e ogni giorno ce lo ricordava.

Sarà, avrò torto. Ma non ho notizia di insegnanti che ogni giorno – al Sud, al Centro e al Nord – ricordano ai propri alunni che la nuova Resistenza è nei confronti delle mafie.

roberto.galullo@ilsole24ore.com



Titolo: Roberto GALULLO ... sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi...
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2009, 12:00:12 pm
29/05/09


Triplice fischio e fine del campionato: diamo un calcio alla mafia prendendo esempio dall’autogol (riparato) di Bagheria
Mancano poche ore alla fine del campionato di calcio di serie A. Ha vinto l’Inter e a me che sono romano e romanista la cosa interessa poco meno di nulla.
Non cambierei Totti con Ibrahimovic e Spalletti con Mourinho neppure se me lo ordinasse il Papa.

Detto questo ciò che mi interessa è sottolineare ciò che quasi tutti i giornali (non quelli sportivi, che sono in altre vicende affaccendate) non raccontano mai delle curve, del tifo, del para-sport e di certi amministratori pubblici.

Proprio oggi – giorno in cui scrivo questo post, venerdì 29 maggio – sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi, il collega Luca Fazzo intitola così la sua inchiesta “Il calciomercato ultrà – Così la malavita si prende le curve d’Italia – Da Milano i criminali infilitrati negli stadi vogliono infiltrarsi in altre città – Dietro l’apparenza della passione sportiva estorsioni e spaccio di droga”.

Una bella eccezione, dunque, nell’asfittico panorama della stampa italiana, che si appassiona agli amorevoli sensi (di stima) tra Silvio e Noemi ma se ne frega delle mafie che si mangiano anche lo sport.

L’inchiesta ha il limite di partire e…fermarsi a Milano. Vediamo allora di aggiungere qualche tappa al percorso che anche quest’anno ha riservato sgradite – e ignorate dai più – sorprese. Magari se politicanti e vertici dello sport aprissero gli occhi…O è chiedere troppo per non correre il rischio di rompere un ipocrita giocattolino morente?

 

IN PRINCIPIO FU LA CURVA DEL PALERMO…
 

Partiamo da un assunto ormai chiaro ai sociologi, ai politologi e a qualche raro giornalista ma completamente ignorato dai politici-politicanti: il calcio è un veicolo attraverso il quale far passare messaggi mafiosi, esercitare proselitismo criminale e dunque raccogliere adesioni, far capire alla politica dove spira il vento o dove deve spirare.

Ricorderete: correva il 22 dicembre 2002. Alla Favorita di Palermo scendevano in campo Palermo e Ascoli. Ad un certo punto comparve uno striscione: “Uniti contro il 41 bis - Berlusconi, dimentica la Sicilia”. E mai come in questo caso la virgola era importante. Furono i boss di Brancaccio – spiegarono gli investigatori della Squadra mobile del capoluogo siciliano – a fare esporre quel monito al Presidente del consiglio. Le intercettazioni telefoniche provarono che il gesto era premeditato e i boss si vantavano dell’eco mediatica. Insomma: obiettivo raggiunto.

Qualche anno dopo – siamo ai giorni nostri – il Palermo calcio salirà agli onori della cronaca per le vivaci attenzioni che Cosa Nostra riservava alla società. In particolare era il clan Lo Piccolo a riservare e riversare il suo “amore” al Palermo. La magistratura – che sta indagando su alcune presunte compravendite di partite nel 2003 e che si avvale anche della gola profonda di un collaboratore di giustizia, Marcello Trapani, ex procuratore di giovani calciatori e già avvocato dei Lo Piccolo – continua a indagare.

Il presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, prende subito le distanze e il 29 marzo affida a Radio Anch’io sport la replica: “La mafia? Può anche essere che abbia messo gli occhi sul Palermo, ma finché ci sarà io non si avvicinerà nessuno. Sulla città e sul club e’ stato gettato qualche schizzo di fango, ma andrà via. Può essere che la mafia abbia messo gli occhi sul Palermo, ma che si sia avvicinata da quando ci sono io assolutamente no. Però sono attento ai segnali e a questa stranissima uscita dei giornali.
L’indagine della magistratura va fatta, ma questi schizzi di fango mi sembrano un segnale. Come per dire: ‘Zamparini, vai fuori dalle scatole’. Sto facendo investimenti, un centro commerciale, sto per iniziare l’iter per la costruzione del nuovo stadio…ho paura di aver disturbato qualcuno. Lasciare la presidenza? Se le cose stanno così me ne vado, ma non è detto che succeda. Speriamo che si sistemi tutto”.

Più tardi minaccerà le dimissioni. Le avete viste voi? Io no.

 

…OGGI TOCCA ALLA CURVA (RECIDIVA) DEL BARI

 

In mezzo, negli anni, tanti altri piccoli episodi – come sempre reputati minori da noi giornalisti – in cui si capiva che i tirapiedi dei mafiosi (piò meno dei quaquaraqua da accatto) continuavano a seminare proseliti negli stadi. Soprattutto in quelli di provincia. Soprattutto al Sud dove molti capicosca o prestanome sono addirittura proprietari o sponsor di squadre di calcio dove spesso fanno allevare anche i loro rampolli sperando che diventino – un giorno – dei campioni.

La Calabria – da questo punto di vista – è una miniera. I capi delle ‘ndrine si impuntano e non mollano: il calcio è cosa loro. Ricordate cosa accadde il 23 settembre 1997 a Locri, paese dominato dalle faide e dalla ‘ndrangheta? No? Ve lo rammento io: l’arbitrò chiamò tutti a raccolta. Un minuto di silenzio per la morte del boss Cosimo Cordì, ucciso qualche ora prima. E giù ad applaudire al termine!

La politica parolaia e lo sport ufficiale, anch’esso parolaio, fecero sentire le loro voci. Voci ipocrite perché lo sanno anche i sassi che un arbitro può fischiare un rigore contro un calciatore ma non può fischiare neppure un fuorigioco contro i boss. L’episodio – subìto o condiviso che fosse – non fu il primo e non fu l’unico. Andate a parlare, ad esempio, con qualche ex presidente di squadre calcistiche della provincia cosentina – come ho fatto io nel passato – e fatevi raccontare quale è stata l’offerta che non hanno potuto rifiutare per cedere la proprietà della squadra…

Bene, veniamo ai giorni nostri e alla Puglia dove – nell’indifferenza di tutti, politici parolai in testa – la Sacra corona unita sta rialzando la testa. Anche negli stadi.
Oh yes!

E’ il 23 settembre 2008 quando la curva ultrà del Bari – che torna quest’anno in serie A – espone durante il match con il Livorno il seguente e apparentemente innocuo striscione: “Marino sempre con noi”. Peccato che Marino di cognome facesse Catacchio, il pregiudicato ucciso cinque giorni prima nel corso di un regolamento di conti interno al clan al quale, secondo gli inquirenti, era affiliato: Strisciuglio.

Lo stadio – penserete voi, ingenui lettori al cui interno alberga forse il “fanciullino” pascoliano – sarà insorto! Una pioggia di fischi avrà sommerso gli ultra! Una selva di cori si sarà levata come un sol uomo “Legalità! Legalita! Abbasso la Sacra Corona Unita! Viva le Forze dell’Ordine! Abbasso gli Strisciuglio!”

Niente di tutto questi: grande applauso del settore centrale della Curva Nord. Nel resto dello stadio non volava una mosca. Per inciso: gli Strisciuglio sono ancora leader mafiosi nel Barese ed è lo stesso clan che si è visto liberare 21 picciotti coinvolti nel maxiprocesso “Eclissi”, perché l’allora giudice per l’udienza preliminare, Rosa Anna De Palo, non era riuscita a depositare la sentenza nei tempi utili. Tutti fuori ai primi di aprile. A proposito: oggi De Palo guida il Tribunale per i minori a Bari e proprio pochissimi giorni fa, il 27 maggio, il Csm ha archiviato il caso, dopo che erano stati mandati gli ispettori, perché comunque c’era un complessivo “deficit organizzativo dell’ufficio”. E bravo il Consiglio superiore della magistratura: tutti colpevoli, nessun colpevole. Ora la parola finale, per eventuali azioni disciplinari, tocca al ministro della Giustizia Angelino Alfano. 

E veniamo al 4 maggio di quest’anno. Siamo ancora al San Nicola di Bari. La squadra si gioca la certezza della promozione e gioca, ancora, con una squadra toscana: l’Empoli. Ancora in curva compare uno striscione visibile anche da Foggia: “Ciao Chelangelo”. E chi è? Era il soprannome di Michelangelo Stramaglia, il boss – secondo gli inquirenti e la magistratura -  di Valenzano, ucciso il 24 aprile 2008. Il figlio e amici di famiglia erano allo stadio: gli ultras del Bari non solo se ne sono lavate le mani dicendo che loro “non c’entravano” ma hanno tenuto a precisare “che non è inusuale che la curva renda omaggio a chi condivide la passione per i colori biancorossi”. Bene: un tifoso qualunque con il suo carico di valori, per carità!

Sarà, ma dopo che la Digos ha indagato, il questore di Bari, Giorgio Manari, ha vietato lo stadio a cinque anni per cinque…tifosi.

Se Bari chiama, Lecce risponde. In manette sono finite – con l’accusa di associazione a delinquere – 14 persone, tra cui alcuni insospettabili. Uno di loro, tanto per capire copme funzionano le curve violente, in un’intercettazione, rivolgendosi all’ex bomber del Lecce Javier Chevanton - che avrebbe telefonato al capotifoso per chiedergli addirittura di intercedere presso tifoserie di altre città per sostenere un suo amico calciatore – avrebbe detto: “Non ho problemi con la curva. La curva sono io!”

Eccolo lì il vero capo, magari coccolato e vezzeggiato come altri in tutta Italia, dal Nord a Sud passando per il Centro, dalle società calcistiche che senza di loro non possono campare. E chissenefotte guagliò, se ci sono delinquenti organizzati e mafiosi veri!

E i leccesi come hanno reagito? Abbiamo notizia solo dei più “buoni”: un centinaio sono scesi in piazza per difendere i poverini arrestati e così, tra un pianto e l’altro, c’è pure scappato qualche insulto contro il procuratore che segue il caso, Cataldo Motta. Ovviamente gli auguravano lunga vita…

Il patto è più forte se la mafia entra direttamente, ovvio, perché il vincolo si può portare – a seconda delle necessità – dentro e fuori gli stadi. Il Mattino di Napoli, il 24 gennaio 2009 a pagina 35 titolava: “Pianura, patto tra 20 ultrà e il clan Lago – Le indagini sui mercenari della guerriglia rifiuti – Il boss pagava i ribelli 150 euro per riaffermare il potere”. Chiaro!

 

BAGHERIA FA AUTOGOL MA POI VINCE LA PARTITA DELLA LEGALITA’ (SPERIAMO ANCHE IL CAMPIONATO)

 

Non bastassero capibastone, delinquenti e mafiosi veri, ci si mettono anche gli amministratori (sia ben chiaro: alcuni, proprio tra le frange violente del tifo, raccolgono voti e alimentano circuiti di illegalità).

A Bagheria, splendido comune nel palermitano, il 28 dicembre 2008, quando tutti erano più buoni perché Babbo Natale era appena passato con un carico di doni, ai consiglieri comunali Antonio Prestigiacomo (Noi per Bagheria), Domenico Aiello e al suo capogruppo del Pdl, l’architetto Giuseppe Cangialosi, evidentemente restava un “pacco” da proporre ai concittadini: intitolare lo stadio comunale a Pasquale Alfano, ex assessore e consigliere dello stesso Comune, ex presidente del Bagheria calcio ma anche fratello di Michelangelo Alfano, condannato per associazione mafiosa, morto suicida nel 2005.

Apriti cielo: la locale associazione antiracket sale sulle barricate e il sindaco Biagio Sciortino, da me sentito pochi minuti fa, dice che ormai è una storia vecchia.
“Il giovane (forse riferendosi a Cangialosi n.d.r.) neppure sapeva chi fosse il fratello di Pasquale Alfano! Era giovane quando accadde il fatto del fratello poi condannato. Due ore dopo la delibera era stata ritirata. E’ rientrato tutto, stia tranquillo”.

Io sto tranquillissimo – anche perché sto per partire e trascorrere qulche giorno in un bene confiscato a Cosa Nostra riadattato ad agriturismo, che goduria – ma come si fa, chiedo, a essere di Bagheria, fare l’amministratore e non conoscere la storia del proprio paese? E come può un intero consiglio comunale votare l’ordine del giorno all’unanimità, così come riportano le cronache locali, che hanno addirittura pubblicato il verbale della magnifica seduta “babbonatalizia”? Tutti ignoranti?
Che succede a Bagheria, perdono la memoria quando diventano consiglieri e assesori!

Tranquillo, tranquillissimo, attendo la risposta del sindaco. “Confido nella buona fede di chi l’ha fatto – spiega mentre sono talmente tranquillo che quasi quasi mi addormento – e lo stesso consigliere ha poi ritirato l’ordine del giorno. Due ore dopo era tutto finito. La mia amministrazione è in prima linea nella lotta alla mafia e abbiamo già assegnato quattro beni confiscati. Chi fa sport, e io sono un ex sportivo, ha inoltre il dovere morale di combattere contro Cosa Nostra. E così quest’anno abbiamo organizzato, Comune e associazione sportiva Principe di Rammacca,  una manifestazione che si chiama Diamo un calcio alla mafia”. Volentieri: anche due se dipendesse da me, che spedirei i boss a vita in una cella, dopo aver buttato la chiave.

La finale si disputerà a metà giugno e speriamo che il triplice fischio dell’arbitro decreti il vincitore ma idealmente – a Bagheria e in tutti gli stadi d’Italia – segni non la fine ma l’inizio della partita più importante anche dentro gli stadi: quella contro le mafie.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 15:17 |


Titolo: Roberto GALULLO. - Crotone chiama:...
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2009, 09:48:41 am
23/06/09


Crotone chiama: Napolitano dribbla, Alfano tace, Sculco risponde e il Pm Bruni continua a pulire la Calabria da compassi, mafia e…

Ci sono mille modi per far morire un Uomo: quello peggiore è il silenzio. Oppure l’indifferenza che, come dice mio padre (un ex generale dell’Esercito rigido come un bastone e loquace come un ghiro in letargo) è la maggior forma di disprezzo.

Scegliete voi: il risultato non cambia, come per la proprietà invariantiva della moltiplicazione, per cui il prodotto di due numeri non cambia, cambiando l’ordine dei fattori.

L’Uomo in questione è Pierpaolo Bruni, giovane e preparatissimo Magistrato antimafia che da diversi anni sta mettendo a ferro e fuoco le gerarchie della ‘ndrangheta crotonese e calabrese la quale, per questo, vorrebbe tanto, ma proprio tanto, che lui saltasse per aria (ne ho già scritto in questo blog l’11 maggio). Ci hanno provato – ma per sfortuna loro e della parte malata della società crotonese e calabrese – non ci sono riusciti.

Fino a che Bruni toccava la ‘ndrangheta, la disgustosa politica locale e regionale rideva e faceva pubblicamente finta di compiacersene. Quando Bruni ha cominciato – oltre a picciotti fetusi – a colpire colletti bianchi ancor più fetusi e la politica fetusissima, allora sono cominciati i guai seri. Ma lui – uno dei migliori magistrati in Italia, non una toga rossa ma semplicemente una toga – se ne fotte tre quarti come ha fatto con l’ultima operazione che, la scorsa settimana, ha scoperchiato in provincia la connivenza tra dirigenti regionali, presidi e imprese edili, unite nel cognome (Leone padre e figlio) e nella truffa ai danno dello Stato (ne ho scritto sul Sole-24Ore online giovedì 11 giugno) . Il tutto – ma guarda tu che novità in Calabria! - all’ombra di cappucci, grembiuli e compassi (del resto, questi ultimi, indispensabili per geometri e ingegneri delle imprese edili…).

Le minacce di morte – da reali che erano – sono diventate addirittura tangibili.

Ebbene – cari lettori – voi direte: lo Stato si sarà eretto come un sol uomo a difesa di quest’Uomo! Eccome no!

Toppato: l’esatto contrario. Dapprima lo Stato (anzi: lo stato) ha pensato bene di non rinnovargli l’applicazione alla Direzione distrettuale di Catanzaro e poi ha pensato bene di tacere di fronte alle proteste dei cittadini perbene. Ah stavo dimenticando un particolare trascurabile: sbadatamente lo Stato (pardon, lo stato) ha pensato bene di affidargli per un certo periodo l’inchiesta Why Not avocata a Luigi De Magistris. Lo stato si è accorto che Bruni faceva sul serio e che avrebbe voluto scavare ancora più a fondo di quanto aveva fatto il bel tenebroso volato a Strasburgo sulle ali dell’Italia dei (dis)valori.

Detto, fatto: la massopolindrangheta si è stretta a coorte e Bruni non conduce più un fico secco di quell’inchiesta che aveva acceso i riflettori su simpatici (almeno io li reputo tali, non so voi) personaggi: dai fratelli Loiero Tommaso e Agazio a Romano Prodi, da Clemente Mastella ad Antonio Saladino, dai coniugi (coniugati e complessi) Adamo a tanti altri bei nomi del castello fatato.


LA RISPOSTA DI ALFANO E QUELLA DEL CAPO DELLO STATO


Il 22 maggio (dice niente questa data? No? Allora ve lo dico io. E’ la vigilia di quel 23 maggio che nel 1992 fece saltare per aria il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la scorta in quel di Capaci), un pugno di crotonesi volenterosi – tra cui esponenti politici e sindacalisti delle Forze dell’Ordine – hanno raccolto 110 firme da spedire (tra gli altri) al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinchè intervenga. Nel frattempo un onorevole, Angela Napoli, scrive al ministro della Giustizia Angelino Alfano, affinchè risponda da par suo e dica per quale motivo la moglie di Raffaele Vrenna, l’imprenditore condannato in primo grado proprio da Bruni per concorso esterno in associazione mafiosa, sia ancora, nella veste di segretaria, nella disponibilità dell’attuale Capo della Procura della Repubblica di Crotone, Raffaele Mazzotta, così come prima lo era del precedente – Franco Tricoli - che con una mossa da scacchi che neppure Anatoly Karpov o Garry Kimovich Kasparov, è andato a gestire proprio i beni mobili e immobili di Vrenna.

Alfano tace come una trota in carpione (e non avrei scommesso un cent sulla risposta), mentre il presidente della Repubblica cosa fa? Avete un secondo di tempo per rispondere. Tempo trascorso: risponde. E come risponde? Tempo scaduto ancor prima di partire: lavandosene le mani. Sì, proprio come Ponzio Pilato. E dire che le 110 persone che hanno sottoscritto l’appello a favore di Bruni scrivevano in un passaggio cose di questi tipo: “ ..il precedente caso verificatosi nel distretto di Catanzaro, che ha visto protagonista il dr. Luigi De Magistris ed i vertici della Procura Generale, oggi insinua dubbi e perplessità  nella società civile che ritiene il mancato rinnovo dell’applicazione del dr. Bruni un escamotage per evitare che lo stesso possa continuare a lavorare per smascherare l’intreccio ‘ndrangheta – politica che pervade la regione Calabria”. E gli stessi identici dubbi se li poneva – in un documento ufficiale – anche il consiglio direttivo dell’associazione nazionale forense di Crotone.

Più chiaro di così! Bene il Presidente Napolitano, attraverso il direttore dell’Ufficio per gli affari dell’amministrazione della Giustizia del segretariato generale della Presidenza della Repubblica, Loris D’Ambrosio, il 15 giugno risponde che non è di competenza del Capo dello Stato intervenire su certe contese. Vedere la foto della lettera spedita all’ex segretario cittadino dell’Idv, Giuseppe Trocino, per credere! Quel Trocino che nel corso della campagna elettorale per il rinnovo della Provincia di Crotone, aveva provato a sollevare il caso di Bruni ma non era stato seguito neppure dal suo capo, l’impomatato Antonio Di Pietro (si veda “Il Crotonese” di sabato 9 giugno a pagina 34). Trocino – per la cronaca – ha abbandonato quell’incarico. La foto l’ho allegata a fondo dell’articolo.

Avrebbe potuto rispondere diversamente Napolitano? A mio giudizio sì, visto che è anche a capo del Consiglio superiore della magistratura, alla quale pure la lettera era stata indirizzata. Anche perché, per la miseria, un conto è il protocollo, un conto è la vita (non solo professionale) di un Uomo che onora lo Stato in un pezzo di Italia sottratto alla sovranità della Repubblica italiana. Un Uomo, un Magistrato – lo vedrete continuando a leggere questo post – i cui destini si incrociano con i destini non solo di Crotone ma della Calabria tutta.

Vedremo se e quando – in quella veste – Napolitano risponderà o farà rispondere. Resta l’amarezza di uno Stato che non è come una catena oliata (dove ogni anello sostiene l’altro e insieme spingono la carena del ciclista verso la vittoria) ma come una catena ingrippata in cui ogni anello se ne fotte dell’altro.


CROTONE SI INCHINA A ENZO SCULCO CHE RICEVE IN VIA ROMA


Ci sono mille modi per far resuscitare un uomo (apparentemente-politicamente) morto: quello peggiore è l’ipocrisia.

L’uomo in questione è Enzo Sculco, già potentissimo padre-padrone della Margherita e del Pd crotonese, colui per il quale la ‘ndrangheta a Crotone è letteratura, oh yes! Testuale. Mister 7.209 voti è consigliere regionale calabrese del gruppo misto nonostante una condanna nel febbraio 2007 in primo grado a 7 anni e sei mesi di reclusione (ma le patrie galere non lo hanno mai visto) per una serie di graziosi reati: truffa, frode e turbativa d’asta. Per lui – di cui mi sono occupato in due post del 9 agosto e del 31 ottobre 2008 e di cui in Calabria tra i miei colleghi (?!) non si occupa nessuno tranne www.antononinomonteleone.it e, alcuni mesi fa, Antonello Caporale di Repubblica.it - è scattata anche l’interdizione dai pubblici uffici.

Ad agosto 2008 però – nonostante l’imbarazzo mostrato soprattutto dai senatori del Pd Dorina Bianchi e Luigi De Sena – Crotone (che raccoglie appena 110 firme per Bruni ma che è pronta a immolarsi per Sculco) e la Calabria tutta lo invocano a gran nome e lui, come Marcello Lippi, torna senza imbarazzo, che non gli procura neppure la successiva condanna a un anno e 3 mesi di reclusione che il 3 marzo 2009 gli infligge il giudice monocratico del Tribunale di Crotone, Francesca Costa, per truffa aggravata e falso. Enzo è in buona compagnia: con lui è condannato anche il fratello Giuseppe, che si becca tre mesi in più. Il pm nel processo (aveva chiesto rispettivamente 4 anni e 1 anno e 6 mesi per i due) era Pierpaolo Bruni. L’avvocato degli Sculco ha annunciato il ricorso direttamente in Cassazione.

Ebbene, un uomo così, secondo me avrebbe dovuto ritirarsi per sempre a vita privata e invece – visto che Crotone lo invoca con tifo da stadio – è tornato alla grandissima in questa campagna elettorale che si è appena conclusa e che ha visto vincere, soprattutto grazie alle divisioni nella coalizione opposta, il candidato del Pdl, Stano Zurlo, che in foto sembra un pesce palla (calvo) con la barba.

Ma un uomo come Sculco poteva scomparire? Nossignori, poffarbacco: ha fatto le prove generali per il ritorno in grande stile – annunciato – quando e se sarà definitivamente assolto. Del resto quando Massimo D’Alema è accorso a Crotone per incoraggiare il candidato ufficiale del Pd Ubaldo Schifino (che sembra l’incrocio tra gli attori Steve Martin di “Una scatenata dozzina” e Leslie Nielsen di “Una pallottola spuntata”) lui era lì. Sotto il palco, ma voleva salire sopra. Le voci maligne che circolano in città dicono che Schifino abbia avuto più di uno scontro con Sculco ma, niente da fare: i voti sono voti e non profumano. Figuriamoci se puzzano! E i demoKratici del Pd con la Kappa – nei quali in un’intervista al Quotidiano della Calabria il 20 settembre 2008 a pagina 34 Sculco aveva dichiarato di riconoscersi – erano ufficialmente tra le formazioni politiche che appoggiavano il candidato Schifino.

Chi con Sculco si è scontrato duramente è stato l’ex presidente Sergio Iritale, che infatti non è stato ripresentato dal Pd ed ha corso, perdendo, con una lista eterogenea a sinistra. Non mi interessa il perché o il percome e non mi interessa neppure sapere se Iritale è un puro della politica come molti sostengono ricordando il suo messaggio del 14 gennaio 2005 in cui gridò all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in visita a Crotone, che le istituzioni sono ostaggio della mafia, o se invece è una falsa verginella, come molti altri sostengono. Il dato di fatto è: Iritale fuori dai giochi.

Il ritorno di Sculco – sdoganato per metà – non va sottovalutato. A lui interessava tornare ed è tornato: quella era la sua vittoria e la base per la vittoria futura di chi in lui si riconosce. La sua sede in Via Roma a Crotone è stata ed è meta di pellegrinaggi di politici, amministratori e imprenditori. Il suo zampino è – vox populi – anche nella nomina a segretario generale di Unioncamere Calabria di Fortunato Roberto Salerno, già a capo della Camera di commercio di Crotone.

Il 6 aprile 2009 Salerno è stato prosciolto, al termine dell’udienza preliminare, dal concorso in associazione mafiosa nell’ambito dei processi – unificati – Heracles e Perseus - che vedono alla sbarra i “bei” nomi delle cosche crotonesi.

E chi è che sta conducendo queste due inchieste? Il pm Pierpaolo Bruni, ovvio.

A quanto riporta la Gazzetta del Sud del 7 aprile, Salerno è però stato rinviato a giudizio per un’altra vicenda: tentata estorsione ai danni dell’organizzatore di una fiera commerciale dal quale avrebbe preteso 10mila euro. Lo stesso procedimento nei confronti di Salerno era stato archiviato dal Gip (Giudice per le indagini preliminari) Gloria Gori ma poi riaperto dal solito Pm Pierpaolo Bruni.

Ma che spaccamarroni ‘sto Bruni al quale queste inchieste – visto che non è più applicato alla Dda – saranno sottratte! Ma guarda tu che coincidenza!


IL RITORNO IN GRANDE STILE E L’APPELLO DEL 1° LUGLIO


Il ritorno di Sculco non è da sottovalutare anche perché mentre al pm Bruni lo Stato (anzi, lo stato) risponde con il silenzio e con il pilatismo, a Sculco risponde con garbo e tatto. L’udienza in Corte d’appello, dopo la condanna in primo grado, è slittata infatti al 1° luglio. Motivo: visto che Sculco era impegnato nella campagna elettorale era meglio rinviare l’udienza onde evitare “possibili interferenze mediatiche”  in vista del ballottaggio. Un legale di parte civile, inoltre, sarebbe stato candidato al consiglio provinciale (io non ho capito chi fosse ‘sto candidato neppure chiedendolo ad altri candidati, mah!). Quale delicatezza dalla Giustizia! Quale attenzione! La libertà di stampa è diventata “interferenza mediatica”. Ragazzi, questa è la Calabria, il laboratorio di quello che diventerà l’Italia quando passerà la legge sulle intercettazioni che toglierà voce a quel po’ di voce che è rimasta ai giornalisti.

Nella Corte d’appello di Catanzaro che dovrà processare Sculco lavora Caterina Chiaravalloti, già presidente del Tribunale del riesame, attualmente consigliere della prima sezione penale. Caterina Chiaravalloti è figlia dell’ex procuratore generale della Corte d’appello di Reggio Calabria e indimenticabile Governatore, per il centrodestra, della Regione Calabria, Giuseppe Chiaravalloti.

Il 30 aprile 2009 la Procura generale di Catanzaro ha concluso le indagini preliminari dell’inchiesta Why Not. Tra i 98 indagati figura anche il padre di Caterina, Giuseppe Chiaravalloti. E’ quasi inutile ricordare che quell’inchiesta è stata portata avanti prima da De Magistris e poi Bruni (lo spaccamarroni).

Attendetevi, cari lettori, le prossime mosse (ma sicuramente sbaglierò): Bruni allontanato, Sculco vergine come una Noemi qualunque e Crotone nelle mani di un comitato ancora più forte. E magari anche una nuova faida all’interno degli industriali crotonesi che – un tempo non molto remoto - avevano Raffaele Vrenna come presidente. Il clima torbido è già partito. Un esempio? E’ un caso che Mario Cimino, dal 2006 presidente del Consorzio per lo sviluppo industriale di Crotone, ha (avrebbe) scoperto nel suo ufficio privato un sofisticato sistema di spionaggio visivo? Controllato (se fosse vero) per il suo ruolo consortile o per la sua vicinanza politica al Governatore Loiero Agazio? Per il momento si è sfogato con il pm, indovinate chi? Ma Pierpaolo Bruni!

Scommettete con me che i destini di questi uomini – Bruni, Sculco e Loiero – si incroceranno fino alle politiche regionali del 2010 per le quali Loiero si è ringalluzzito e il candidato in pectore del Pdl, il sindaco di Reggio Giuseppe Scopelliti ha accusato una battuta d’arresto al punto tale da pensare di non scendere più in campo e magari lasciare terreno all’onorevole dell'Udc Roberto Occhiuto?

Alla prossima…

roberto.galullo@ilsole24ore.com





Titolo: Roberto GALULLO. Con Why Not si vola: match De Magistris-Loiero
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2009, 11:37:58 pm
11/07/09


Con Why Not si vola: match De Magistris-Loiero per il Governatorato calabrese? De Sena, Scopelliti e…tartarughe permettendo
Why Not non è più solo un’inchiesta e (in origine) un’impresa di servizi di Lamezia Terme ma è anche il nome del potenziale laboratorio politico in Calabria.

L’agenda delle elezioni regionali 2010 sarà dettata dall’inchiesta: per gli sviluppi attesi e per i cognomi che animano l’agone politico in vista dell’imminente battaglia che permetterà a uno e a uno solo di posare (o riposare) le nobili chiappe sulla poltrona di Governatore. Due cognomi fra tutti: Luigi De Magistris e Loiero Agazio o, se preferite, Loiero Agazio e Luigi De Magistris. Come dire il buono e il cattivo, il bene e il male. Il credibile e l’incredibile (come nel gioco, associate voi i cognomi agli aggettivi).

Due poli opposti che non possono attrarsi in natura e che se mai dovessero attrarsi sconfesserebbero in radice la natura della Politica. Immaginate con quanto affetto e amore viva Loiero Agazio l’ipotesi De Magistris che, da magistrato, lo inseguì per mari e per monti ritenendolo immischiato nella cupola affaristico-massonico-mafiosa che domina la Calabria (e non sta certo a me dire se a torto o a ragione). Fatto sta che – andato via De Magistris – Loiero Agazio, suo fratello Tommaso e allegra compagnia sono stati ancora indagati e inseguiti nella vicenda Why Not.

Lo stesso De Magistris su questo blog, da me intervistato (si veda il post del 14 giugno ma anche quello del 26 febbraio), ha definito Loiero e Mario Pirillo (di Loiero braccio destro e sinistro, volato a Strasburgo come De Magistris) “personaggi indigeribili”, riversando poi tutto il suo sdegno per le scelte del Pd in Calabria in vista della competizione europea.

L’agenda delle elezioni regionali – però – potrebbe essere dettata anche da nuovi episodi cruenti (dopo quelli che, a esempio, hanno visto coinvolto il segretario regionale dell’Udc calabrese Franco Talarico, di cui ho scritto in questo blog il 7 novembre 2008). Non è un caso che si colpisca l’Udc: non si è capito ancora da che parte questo partito stia o voglia stare.

Spero di essere smentito e di essere spernacchiato (lo accetterei volentieri, anzi con gioia) ma in Calabria, da tempo, sento puzza di sangue e tanfo nauseabondo di grandi manovre che portano – a esempio – all’isolamento di magistrati come Pierpaolo Bruni, uno di quelli che ha messo il naso anche dentro Why Not e che sta scoperchiando – nell’indifferenza dei più – le immonde schifezze della massipolindrangheta calabrese ( si vedano i post dell’11 maggio e del 23 giugno).


I POLITICI SI DIMENANO COME PESCIOLINI ALL’AMO


E’ per me incredibile vedere come si dimenano personaggi come con enormi aspirazioni come Pino Gentile (macchina da voti del Pdl ma trombato alle provinciali da Mario Oliviero, quello rimasto famoso nel mondo intero per il “mare da bere” delle coste cosentine dove si tuffano con difficoltà, e dopo aver indossato tuta da sub e scafandro, persino i “sorci”, non prima di aver fatto testamento).

E’ incredibile vedere come si muove Marco Minniti, segretario regionale del Pd calabrese, testa lucida del grande statista (non ridete) Massimo baffino D’Alema, che ora non sa come uscire alla chetichella, senza fare troppo rumore, e lasciare la patata bollente della candidatura del 2010 al gonzo (o furbo) che accetterà la sua carica.

E’ incredibile vedere come si muovono Aurelio Misiti e Antonio Di Pietro. Il primo è segretario regionale dell’Idv, partito saldamente (per ora) nelle mani dell’impomatato ex pm di Mani Pulite. Misiti, il 4 luglio 2009, dopo aver annunciato di arrivarci dimissionario, è stato confermato nel suo ruolo. Non sarà facile, però, per lui condurre le trattative in questi mesi visto che alla domanda del giornalista “Vincere con Loiero?” ha testualmente dichiarato il 27 giugno al “Quotidiano della Calabria”: “Per noi è ovvio che il Pd candidi l’uscente perchè due legislature non si negano a nessuno. Ma è evidente che deve cambiare qualcosa. Dentro l’organismo di governo, e non solo nel consiglio regionale, ci dovranno essere posti chiave per Idv che è fra i 5 partiti in Parlamento ed anche in Calabria non è più il partito piccolo di un tempo. Noi auspichiamo che il Pd stringa un’alleanza di legislatura con noi basandola su un programma chiaro, netto e condiviso e non su un programma di compromesso con le forze “nulliste” che pure esistono nel panorama politico calabrese”.

Apriti cielo! Misiti ha detto che non voleva dire quello che tutti hanno capito: cioè una gradita conferma di Loiero. Ora a me non frega nulla del Misiti-pensiero e del successivo ricorso a papà-Di Pietro per l’esegesi dello stesso. Vi domando, però, amati lettori: come interpretate voi l’affermazione “due legislature non si negano a nessuno”? Inserite la risposta in busta chiusa e spedite a Aurielio on.le Misiti c/o segreteria politica Idv, Piazzetta XXI marzo, 89024 Polistena (Rc) oppure info@aureliomisiti.it. 

Guardo anche incredulo alle mosse di “Sua Immacolatezza” (capirete poi il perchè), il Governatore Loiero Agazio, pronto-prontissimo a occupare la poltrona per altri 5 anni. E soffro nel vedere come si dimenano anche media locali, alcuni pesantemente tirati in ballo dalla inchiesta Why Not per l’attività di alcuni giornalisti, che sfornano falsi scoop uno dietro l’altro (l’ultimo, in ordine di tempo, una settimana fa, riguarda una cena domenicale a casa Loiero tra personaggi indagati in Why Not, di cui questo umile blog scrisse per primo, addirittura pubblicando i testi integrali il  1° febbraio 2009). Ma si dimenano anche anime nere sui blog, che agitano encicliche o discorsi deliranti per scongiurare l’ipotesi De Magistris (che da parte suo ha il solito codazzo dei fan club su Facebook e compagnia telematica cantando).

Un fatto è chiaro: a contendere a Loiero Agazio nel centrosinistra la poltrona – con eventuali primarie obbligatorie per legge regionale – tutti ma mai e poi mai De Magistris. In quel caso sarebbe rottura nello schieramento e ognuno per conto proprio a correre con le proprie forze (comprese quelle occulte).

Già il fatto che nel centrosinistra lo spauracchio sia un magistrato, la dice lunga e dovrebbe aprire gli occhi a tutti su chi sia considerato (a torto o a ragione non sta a me dirlo) il nemico politico numero 1. E la dice lunga anche sulla considerazione che nel centrosinistra – con i fatti e non a chiacchiere – si ha del lavoro dei magistrati che non guardano in faccia a nessuno.

L’ultima – almeno al momento in cui scrivo – è del deputato del Pd Enrico Letta. L’Ansa alle 7.38 del 9 luglio, da Rende (Cosenza) ha battuto il seguente take: ''Abbiamo delle regole che ci aiutano. Faremo le primarie''. Lo ha detto rispondendo ad una domanda dei giornalisti sulla ricandidatura di Agazio Loiero alla presidenza della Regione Calabria. ''Sara' una bella festa di democrazia - ha concluso - e vinceremo le prossime elezioni''

Dietro le belle feste annunciate e le grandi manovre dei tre poli – Pdl, Pd e Idv – sgambettano altri due personaggi di rango pronti a correre per dare una svolta all’amministrazione regionale: per il Pdl l’attuale sindaco di Reggio Calabria (amatissimo dai suoi concittadini) Giuseppe Scopelliti, mentre per il centrosinistra l’asso nella manica nel caso di lotte sanguinarie ridotte infine a sintesi potrebbe essere l’ex vicario della Polizia ed ex superprefetto di Reggio Calabria, attuale senatore, Luigi De Sena.

Se la questione morale ha un senso, ebbene, il senso deve esplodere in questa regione, quintessenza della cattiva amministrazione e della politica connivente con massoneria deviata, ‘ndrangheta e imprenditoria sovvenzionata da soldi pubblici.

In questa regione guardie e ladri si rincorrono come in un circuito e se uno dei due doppia l’altro non si capisce più chi rincorre chi.


L’IMMACOLATO LOIERO AGAZIO E IL COMUNICATO STAMPA RIPRESO

(CON TANTO DI FIRMA IN CALCE) DA TUTTI I GIORNALISTI LOCALI


A bocce ferme – ovviamente lo scenario è destinato a subire modifiche repentine, indotte soprattutto dalle vicende giudiziarie – la situazione è agitata come un mare in tempesta.

L’inchiesta Why Not scuote i sonni e i sogni (politici) e l’aria che tira ha spinto il pubblicista Loiero Agazio a emanare un comunicato stampa (www.regione.calabria.it) ripreso pari-pari dai giornalisti locali che poi hanno avuto anche la faccia di metterci la firma senza aggiungere altro. Evviva la libera stampa! Il Governatore sente puzza di bruciato, prende le distanze dallo schifo di Why Not e dice che il suo nome anche questa volta ne uscirà “immacolato”.

Il comunicato stampa fa riferimento all’ipotesi di corruzione a carico del Governatore-pubblicista, in concorso con l’ex vicepresidente della Giunta Nicola Adamo e con gli imprenditori Antonino Gatto e Antonino Saladino (principale indagato di Why Not). Nelle elezioni regionali del  2005 – secondo questa ipotesi – Loiero e Adamo, per ripagare la mobilitazione elettorale dei due imprenditori a loro favore e il ricevimento di 25mila euro a testa, si sarebbero adoperati per far passare un emendamento alla legge regionale 11/2006. Grazie all’emendamento, nel primo giorno utile a termini di legge, le società di Gatto (presidente di Despar) avrebbero depositato richiesta per realizzare nuovi centri commerciali (tra le altre cose a Cosenza, regno di Adamo ma questo i giornali locali non lo dicono, e Catanzaro, vasca politica nella quale nuota da sempre Loiero ma anche questo i giornali locali, reputandolo superfluo, non lo ricordano).

Ecco il testo: “Ancora una volta non si capisce come per il sottoscritto possa essere richiesto il rinvio a giudizio per una legge approvata dal consiglio regionale completamente diversa da quella per ben due volte licenziata dalla giunta. Ho già detto, al momento in cui sono stato coinvolto, anzi trascinato proditoriamente in questa storia, che questo schifo che emerge dall’inchiesta cosiddetta Why Not, non ha niente a che vedere con la mia visione della vita e della politica. Ritenevo, con la logica dei fatti, di avere ampiamente dimostrato ai procuratori che mi hanno sentito la mia estraneità totale alla vicenda che mi viene contestata e che per l’ennesima volta viene ricacciata e riproposta sui giornali. Anzi, lo ripeto per il rispetto che debbo ai calabresi, sono uscito dall’interrogatorio che io stesso avevo sollecitato senza neppure leggere le carte dell’inchiesta in quanto non ne avevo bisogno, con la convinzione nettissima, condivisa dai miei difensori. che la Procura non poteva che chiedere subito il mio proscioglimento, visto che il teorema di partenza era indimostrabile perché privo di elementi reali. Con la firma del procuratore generale rientrato a Catanzaro il giorno prima dopo una lunga assenza, invece, è avvenuto il contrario. Noto che la formulazione delle accuse nei miei confronti è stata rimodulata e riverniciata nel tentativo di dare spessore a una storia inesistente. In questi anni sono stato un bersaglio, ho dovuto sopportare per mesi e mesi il martellamento di notizie che davano conto delle tesi accusatorie. Ricordo che quando si è pronunciato un giudice terzo sono stato prosciolto da ogni accusa. Il proscioglimento disposto dal Gup, su richiesta dello stesso pm d’udienza, nella vicenda degli appalti in Sanità, è una dimostrazione plastica di quanto affermo. Non dubito che anche questa volta il mio nome ne uscirà immacolato”.



IL BRODO DI TARTARUGA DI LOIERO, I SITI AMICI E I POLITICI AGITATI


Fortuna che la Giunta Loiero ha cose serie a cui pensare, in modo da distrarre il Governatore e lasciare in dote a una regione alle prese con problemi drammatici di sopravvivenza, un futuro fatto di brodo di tartaruga assicurato per tutti. L’assessore alla Tutela dell’ambiente, Silvestro Greco (ma si fa chiamare Silvio, sapete com è, va di moda),  ha infatti annunciato al popolo gaudente che la Regione Calabria è capofila del network per la conservazione, il soccorso, il recupero e la riabilitazione delle tartarughe marine “Caretta Caretta” che sulle battigie calabresi, in particolare sulle coste ioniche, fornicano e sfornano tartarughini a raffica manco fossero conigli infoiati.

Il fratello di Silvestro-Silvio Greco, Raffaele, è presidente della cooperativa Nautilus di Vibo Valentia, che da 24 anni fornisce servizi per l’oceanografia e la gestione delle risorse ambientali.

Mentre i calabresi già pregustano il brodo di tartaruga che riempie la panza se ingurgitato a badilate, gli amici – diretti, indiretti, consapevoli o inconsapevoli - di Loiero si affacciano.

Non manca chi – con sprezzo del pericolo – ha messo in Rete persino un appello per vietare a Pm e magistrati di candidarsi in politica per i 5 anni successivi all’abbandono della toga o dall’ultima causa trattata. Un successone! Ben 38-firme-38 raccolte, incluse quelle di indagati in Why Not.  Adelante Pedro!

Certo, c’è chi si affaccia senza paura. E’ il caso di un luminare della politica calabrese: Francesco Galati, capogruppo in consiglio regionale del Nuovo Psi. Il 1° luglio alle 12.57 l’Ansa lancia un take che non lascia dubbi. “La sola ipotesi – spiega Galati – della candidatura alla presidenza della Regione dell’ex pm di Catanzaro dovrebbe fare inorridire tutti i socialisti che si sono schierati in questi anni con il centrosinistra. Messi in un angolo dal presidente Loiero che non ci ha pensato due volte a liquidare l’unico prestigioso esponente riformista della sua giunta, l’onorevole Sandro Principe, sfrattati dal Parlamento di Veltroni, ora si vorrebbe umiliare i socialisti dell’ex Sdi, oggi Ps, costringendoli a ingoiare il rospo della candidatura a presidente del magistrato che ha fatto la rivoluzione giudiziaria in Calabria solo a parole e a colpi di comunicati stampa”.

I colpi per De Magistris non mancano e c’è da giurare che – se davvero la sua candidatura prendesse piede con o senza il Pd – vedremo colpi di bazooka giornalistici che in confronto i servizi appena partiti appaiono carezze.

Come, a esempio, la lunga intervista che Panorama, a firma di Giacomo Amadori, dedica il 9 luglio all’ex presidente del Tribunale di Matera, Iside Granese,  per la quale è stata chiesta l’archiviazione dai reati ipotizzati dall’inchiesta Toghe Lucane nella quale erano incappati anche il giudice Rosa Bia, il procuratore capo di Matera Giuseppe Chieco, il procuratore generale di Potenza Vincenzo Tufano ed Emilio Nicola Buccico, sindaco di Matera. Nessun comitato d’affari e archiviazione richiesta per tutti e ora Granese, difesa dall’avvocato Giancarlo Pittelli, che De Magistris inseguirà invano nell’inchiesta Why Not, spara a zero contro l’ex pm.


SANITA’: TUTTI IN CARROZZA!


Cari lettori, se ne vedremo delle belle, sarò qui a raccontarvele, statene certi. Comprese le cose spassose che fanno sganasciare dal ridere. Volete saperne una? Ok…delfini curiosi, vi accontento.

Le grandi manovre contemplano anche le nomine nella sanità, visto il drammatico buco regionale che potrebbe portare il Governo a commissariare la Regione. Sanità in Calabria vuol dire valanghe di voti e clienti a vagonate e chi prova a interrompere il flusso – su cui prosperano le cosche - ci lascia la poltrona (prima di lasciarci le penne, come, a esempio successe a Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale).

Come si vede, allontanata due anni fa dalla Giunta Doris Lo Moro, che Loiero ama come un laziale può adorare Totti, tutti i problemi della sanità calabrese sono stati risolti magicamente: buco rientrato, ospedali efficienti, zero corruzione, ‘ndrangheta ammansita e pazienti che fanno a gara per rimanere in corsia perché si sentono meglio che a casa!

Loiero – tra lo sconcerto dei più – il 25 giugno ha nominato nella Commissione di esperti nientepopodimenoche Gianfranco Luzzo, già assessore alla Sanità nella magica Giunta Chiaravalloti.

Su questa nomina botte da orbi. Il 25 giugno all’agenzia Asca, un altro bel tipino fino, il capogruppo dell’Idv in consiglio regionale, Maurizio Feraudo, dichiara quanto segue: ''La nomina di Luzzo, come esperto nel Comitato per il Piano di rientro del debito sanitario, e', a dir poco sconcertante ed e' emblematico che sia stata tenuta debitamente nascosta. Questa nomina e' una vergogna pubblica sul piano dell'etica e della coerenza politica, un oltraggio spudoratamente perpetrato ai danni di quelle migliaia e migliaia di calabresi che nel 2005 hanno votato per il centrosinistra per mandare a casa anche, fra l'altro, gente come Gianfranco Luzzo, il quale - lui, proprio lui - da Assessore alla Sanita' della Giunta Chiaravalloti e' l'artefice sommo della voragine debitoria che egli ha condotto al fallimento la sanita' calabrese. E Loiero lo nomina esperto per risanare il debito che proprio lui, Gianfranco Luzzo, ha provocato e determinato'.'Se non si parlasse di cose drammaticamente serie, saremmo al cospetto della farsa piu' indegna. Ma quali inconfessabili interessi cela e persegue questo osceno inciucio Loiero-Luzzo, ratificato dal silenzio complice e connivente del Pd e del suo capogruppo in consiglio regionale e avallato, in giunta, addirittura dal voto favorevole degli assessori della sinistra radicale”.

A questo punto Luzzo si offende come un adolescente sgridato dalla mamma e rimette il mandato a Loiero che, il 9 luglio, senza colpo ferire nomina al suo posto un commercialista di Cosenza, Pasquale Vetere.

Ma non è tutto fantastico, amati lettori?

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 09:36



Titolo: Roberto GALULLO. Il filo rosso tra “pasticcino De Magistris” e “Pacman Bruni”
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2009, 10:02:26 pm
17/07/09


Il filo rosso tra “pasticcino De Magistris” e “Pacman Bruni”/

1: evviva i paradisi fiscali, alla faccia dello scudo di Tremonti

A leggere le carte – come amo fare passandoci ore e ore con malata e pericolosa passione – dell’ultima inchiesta condotta dal Pm della Procura di Crotone Pierpaolo Bruni, la prima sensazione è di averle già lette.

Di aver già visto alcuni di quei nomi e di quei cognomi. Di aver già scorso alcune di quelle società chiamate in cause. Di aver già saputo che i capitali pubblici confluiti al Sud prendono allegramente la via dei paradisi fiscali. Di aver già ingoiato il marcio della politica stracciona della Calabria. Di aver già appreso che la massoneria domina. Di aver già imprecato contro lo strame che lì viene fatto di regole e leggi.

Non è una sensazione. E’ la realtà. A leggere quelle carte ci sono molti fili rossi che legano le inchieste dell’ex pm Luigi De Magistris – Poseidone e Why Not – a quelle di Pierpaolo Bruni. La differenza però – tra i due - è vitale. O mortale.

De Magistris aveva tirato contemporaneamente 1.000 fili in capo ai burattinai calabresi. Tirando quei fili a strascico, sono rimasti impigliati acciughe e squali. Questi ultimi hanno stracciato i fili, hanno liberato anche le acciughe e si sono pappati De Magistris. E’ quella che io chiamo la “sindrome Cordova”, il magistrato che dalla procura calabrese di Palmi aveva sparato a pallini contro la massipolindrangheta che ha risposto a pallettoni. Quegli squali, uno dopo l’altro, tornano a galla nelle inchieste di Bruni. Attenzione: non se ne sono mai andati.


L’ORGOGLIO E LA RABBIA DI DE MAGISTRIS


Non è un caso che De Magistris abbia dichiarato all’agenzia Apcom alle 11.25 del 14 luglio quanto segue: “Mi auguro che il pm Bruni, già oggetto di un tentativo di ostacolo dall'interno della magistratura dopo l'avocazione del procedimento `Why not`, non venga fermato e possa proseguire nella ricerca della verità, quella verità che ha ad oggetto comitati di affari che gestiscono le risorse pubbliche depredando l'ambiente e danneggiando la salute dei cittadini. L'inchiesta sta disvelando intrecci
criminali che avevo già individuato con l'indagine Poseidone, sottrattami illecitamente e della quale non si ha più traccia. Fui fermato proprio mentre stavo lavorando su nomi e società anche estere, in particolare lussemburghesi, che sono al centro dell'indagine del pm Bruni, e proprio mentre stavano venendo alla luce le deviazioni massoniche ed i rapporti con la criminalità organizzata in relazione all'illecita gestione dei fondi europei"


LA DIFFERENZA NEL MODO DI CONDURRE LE INCHIESTE


Bruni, però, a differenza di De Magistris, spacchetta i filoni e, come un Pacman, sta mangiando uno dopo l’altro i pesciolini che si trova di fronte. Quelli grandi li rincorre e li porta alla fine del videogioco. Lì troverà ad aspettarli il livello di gioco superiore: l’aula di un processo che, finora, a differenza di De Magistris, ha (quasi) sempre premiato gli sforzi di Bruni che, per questo, è odiato dalla politica e da molti suoi indegni colleghi, ancor prima che dalla ‘ndrangheta.

Ma andiamo con ordine. E lo farò dedicando alcuni post alla vicenda che è straordinariamente importante (più di quanto si pensi). Questo è il primo.


IL COINVOLGIMENTO DI PECORARO SCANIO


Nei giorni scorsi i giornali hanno affrontato con dignità e rispetto l’inchiesta sulla centrale elettrica e sulla filiera energetica (mai realizzata) a Scandale, che sta conducendo quel pm che ‘ndrangheta e malapolitica calabrese vorrebbe tanto mandare all’alberi pizzuti (è un espressione romanesca che vuol dire: vederlo morto).

Ampio risalto è stato dato al coinvolgimento – prontamente negato dai protagonisti – di “pezzi grossi”, quali l’ex ministro per l’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio.

Il pm Bruni – che sostengo nelle sue battaglie di civiltà giuridica e ortodossia morale, merce rara anche tra alcuni magistrati delle Dda – mi conosce e dunque sa che dico e scrivo sempre quello che penso. Ebbene, magari avrò torto, ma la parte dell’inchiesta sul coinvolgimento dell’ex ministro mi sembra un po’ debole. Come dire: un po’ troppo raccontato da voci e testimonianze a volte di terza o quarta mano.

Come ad esempio intuisco da questo passaggio della testimonianza resa il 19 marzo 2009 da Antonio Argentino a Bruni, che la verbalizza a pagina 35 del decreto di perquisizione e sequestro: “Una volta finito di cenare – si legge -  abbiamo fatto una passeggiata per raggiungere la macchina, c’era molta confusione per i festeggiamenti ed io passeggiavo in disparte con il Pastore, al quale chiesi per curiosità cosa si intendesse dire con la dicitura di cui la fax del 26.06.2006 “incarico allo studio tecnico di notevole entità da affidare su qualsiasi progetto o cantiere in corso”, chiedendo quale fosse questo studio di notevole spessore professionale al punto da affidare uno studio su un progetto di investimento del valore di 400 miliardi di vecchie lire, quale era quello della Crotone Power Development. Il Pastore, in maniera confidenziale ed accattivante, mi riferì che tale società consulenza di notevole entità faceva capo “al grande capo” il Ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio, oltre che allo stesso assessore Tommasi, plenipotenziario in Calabria del ministro stesso. Ancora una volta, io mi rifiutai in maniera categorica di subire tale ricatto, ed il progetto si è paralizzato. Devo aggiungere una ulteriore circostanza verificatasi nell’ottobre del 2006, quando sono stato informato dal Trebisonda, che era stato a sua volta informato dal Pastore e dal Principe, circa l’avvicinamento al gruppo Pecoraro Scanio  – Tommasi, di un avvocato romano che, a suo dire, aveva avuto un incarico da parte del socio americano diverso da Goldenhersh, affinché curasse il buon esito del progetto sostituendo la Geter, e che avrebbe pagato un milione di euro a tale gruppo Pecoraro Scanio – Tommasi. Io ho chiesto poi spiegazioni al Goldenhers, amministratore unico della Crotone Power Development, di cui io sono procuratore generale, e lo stesso ha smentito fermamente, anche se ha confermato il contatto tra tale avvocato ed il suo socio ma ignorava la vicenda del milione di euro”.

Magari, ripeto, mi sbaglio e il prosieguo dell’inchiesta, ne sono certo, lo appurerà.


ALTRO CHE RIENTRO IN PATRIA: I CAPITALI VOLANO ALL’ESTERO CHE E’ UNA BELLEZZA


Detto questo, una prima cosa che emerge, secondo l’accusa, è la facilità con la quale – grazie anche a leggi contorte e burocrazia corrotta – è possibile arricchirsi con società di comodo off shore. Altro che scudo fiscale annunciato in pompa magna dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti! Di una cosa il ministro può essere certo: i capitali volati grazie alla complicità dei politici e delle associazioni a delinquere non torneranno mai.

Secondo il pm Bruni, Giuseppe Galati (sul quale tornerò), Giuseppe Chiaravalloti (ex indimeticabile Governatore della Calabria), Annunziato Scordo e Roberto Mercuri erano tutti soci occulti delle società anonime di diritto lussemburghese Fin.Ind.Int e Fecoffee. Lorsignori avrebbero lucrato la somma di 28,6 milioni – non so se ci rendiamo conto della cifra! - come anticipazione sul prezzo totale di 38,6 milioni dalla vendita della società Eurosviluppo Elettrica, prezzo oggetto di attività di spartizione tra gli associati attraverso la cessione alla S.f.c. di Bonaldi, di pacchetti azionari della Eurosviluppo Elettrica Spa posseduti da entrambe le società anonime di diritto lussemburghese.

Ed ecco che la memoria torna a “pasticcino De Magistris”.

Mercuri, Scordo e Fecoffe sono uomini e società protagonisti che ritroviamo già nelle memorie di “pasticcino”. Così come troviamo e ritroviamo Chiaravalloti e compagnia cantando.

Prendiamo a esempio pagina 270 dell’inchiesta Why Not. “Non può non rilevarsi – si legge -  a dimostrazione degli intrecci che stanno emergendo dalla complessa attività investigativa, che il dr. Gianfranco Imperatori (nel frattempo deceduto n.d.r) è il segretario generale dell’Associazione Civita…e nel contempo è Presidente di Capitalia Luxemburg SA, Banca presente nel Consiglio della Mecofin e Banca di riferimento nell’affare Mercuri, Scordo, Mecofin SA, Fecoffee SA e Steriano Holding che ha portato alla scalata, con denaro in gran parte di provenienza illecita, della Pianimpianti da parte di persone direttamente riconducibili all’allora sottosegretario alle Attività produttive, con delega al Cipe, on. Galati (Udc) ed all’allora Presidente della giunta Regionale della Calabria Chiaravalloti (Forza Italia)”.

Eccole le stesse persone, le stesse società, le stesse alchimie estero-vestite. Senza contare – inoltre – che un caposaldo dell’inchiesta di De Magistris era l’esistenza di una loggia massonica segreta a San Marino, Stato Sovrano che fungeva anche da paradiso fiscale e luogo di reinvestimento dei capitali drenati dalla consorteria politico-mafiosa che stava scoprendo e che voleva scoperchiare.

Ma allora “pasticcino” non si è inventato le cose come dicono i suoi detrattori! Eh no! Solo che quella differenza di cui sopra – pesca a strascico o Pacman – fa la differenza!


CROTONE CHIAMA E BRESCIA RISPONDE

Bruni, a ruota, spiega che l’allegra compagnia ha indotto con “costrizione la società Asm di Brescia ed Endesa a farsi promettere il saldo di 10 milioni a oggi non ancora liquidato ma richiesto e preteso” (Asm dal 1° gennaio 2008 si è fusa con Aem Milano dando vita a “A2A”, quotata in Borsa, ndr).
Il concetto è chiaro: fuori i soldi! E questo accade ora, non 10 anni fa. Il pm Bruni scrive infatti che “i fatti sono commessi tra la provincia di Crotone e il Lussemburgo sino alla data odierna”.

Gli allegri compari avrebbero oltretutto “costretto la società Endesa e Asm, acquirenti di Eurosviluppo Elettrica, la pagamento di un prezzo superiore alla media del mercato, cosicchè in asenza delle predette indebite dazioni mai avrebbero potuto costruire una centrale nella provincia di Crotone”.

E chiaro ‘stu fattu?

No? E allora cuccatevi questa dichiarazione verbalizzata da Bruni il 29 aprile 2009. L’autore è Antonio Argentino, legale della “Anchor internazionale holdings limited”, che, come del resto l’altra gola profonda di questa inchiesta, Randy Stephen Goldenhersh, rappresentante legale della “Crotone power develpment srl”, è “dettagliato e preciso sin nei minimi particolari” (parola di Bruni). Entrambi hanno denunciato nel corso di diversi incontri in Procura di essere state vittime del “groviglio di interessi deviati politico-imprenditoriali che hanno determinato la centrale di Scandale e il relativo contratto di programma” (si veda pagina 40 dell’ordinanza). Entrambi – a fronte di palesi e reiterate richieste – hanno dichiarato di non aver mai pagato una tangente e per questo le società che rappresentano sarebbero state escluse dalla filiera energetica crotonese.

“Lo Scordo – si legge a pagina 44 dell’ordinanza che recepisce le dichiarazioni di Argentino - con sorriso sornione e confermando la mia affermazione, mi rappresentò altresì che Endesa ed Asm Brescia erano state costrette a pagare una somma di danaro esorbitante per l’acquisto delle quote della società Eurosviluppo Elettrica, comprensiva dell’autorizzazione, e che senza questo enorme esborso di danaro mai avrebbero potuto costruire una centrale nella provincia di Crotone. Ciò in quanto il sistema delle autorizzazioni per la costruzione delle centrali in Calabria era un circolo chiuso, accessibile soltanto ai soggetti ed alle società di gradimento dei politici Chiaravalloti e Galati e del relativo gruppo di potere, per come sopra riportato.


LA TESTIMONIANZA (IN)DIRETTA SULLE SOCIETA’ OFF-SHORE

Sempre Argentino ritorna sul etma dei capitali all’estero. “A tale proposito-  si legge ancora a pagina 44 dell’ordinanza -  sempre in tono amicale e nel corso di tale conversazione, gli chiesi quali fossero le modalità e i meccanismi della gestione degli interessi del Chiaravalloti e del Galati. Lo Scordo mi confidò che egli, d’intesa con tale Mercuri, oltre che con imprenditori quali Aldo Bonaldi, gestivano ed erano proprietari, anche di fatto, di società italiane ed estere nelle cui disponibilità confluivano somme di danaro o valori, indebitamente percepiti, quale corrispettivo indebito di provvedimenti ed atti amministrativi, voluti, deliberati o agevolati da Chiaravalloti e Galati e che, quindi, costituivano il prezzo dell’asservimento delle funzioni pubbliche ricoperte dal Chiaravalloti e dal Galati per scopi di arricchimento personale e di partito. Lo Scordo mi rappresentò che sia lui che Mercuri che Aldo Bonaldi, oltre che Chiaravalloti e Galati, con riferimento all’autorizzazione per la centrale di Scandale ed al contratto di programma, avevano operato ed operavano a mezzo della vendita di pacchetti azionari, fra cui quello della società Eurosviluppo Elettrica alla nuova proprietà Endesa ed Asm Brescia, realizzando enormi guadagni di cui era beneficiario il gruppo d’interesse Chiaravalloti-Galati-Scordo-Mercuri-Bonaldi, attraverso società estero-vestite (off shore). Lo Scordo faceva riferimento ai nominativi di Chiaravalloti e Galati poiché, a suo dire, le società che formalmente cedevano i pacchetti azionari della società autorizzata a costruire la centrale erano, di fatto, riconducibili e di proprietà anche di Chiaravalloti e del Galati stesso e, in ogni caso, questi ultimi, sempre a suo dire, erano beneficiari della utilità economica scaturente dalla vendita del pacchetto azionario della società autorizzata Eurosviluppo Elettrica per svariati milioni di euro. Lo Scordo, nel discutere, mi riferì anche la ragione sociale di alcune delle società estero-vestite su cui sarebbero confluite le enormi risorse finanziarie ottenute dalla vendita delle azioni della predetta Eurosviluppo Elettrica, società riconducibili a Chiaravalloti-Galati-Mercuri-Bonaldi, oltre che a sé stesso, e denominate Fin.Ind.Int. e Fecoffee. Tali ultime società erano appunto riconducibili ai cinque soggetti summenzionati, i quali erano i reali beneficiari di tutte le utilità scaturenti dalla proprietà e dalla gestione delle predette società”.

Per il momento può bastare. L’appuntamento è al prossimo post dove toccheremo altre corde sensibilissime.

1 – to be continued

da robertogalullo.blog.ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. P2 “divora Stato”, logge occulte e i silenzi del Grande ...
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2009, 06:51:27 pm
23/07/09

Il filo rosso tra i pm De Magistris e Bruni

/2: nuova P2 “divora Stato”, logge occulte e i silenzi del Grande Oriente d’Italia


Chi segue questo blog – e devo dire, ringraziando Iddio, che siete tantissimi, giorno di più anche in questi caldi giorni d'estate e ne sono felice perché chi mi segue sa che il mio unico scopo professionale è aggiungere con questo blog un anello di legalità e rompere i maroni alla criminalità organizzata - sa che nel corso di questi anni ho battuto più volte il tasto della massoneria deviata, vero e proprio collante delle peggiori schifezze che deturpano la vita economica e sociale del Paese: da Nord a Sud. Licio Gelli – ancora iperattivo, basta chiedere conferma ai magistrati della Dda di Palermo Paolo Guido e Fernando Asaro – ha fatto una gran scuola, non c’è che dire (si vedano i miei post sul processo Hiram del 15 e 19 maggio).

Se c’è – e come ti sbagli – una regione in cui il collante diventa carta moschicida della politica deviata ebbene, questa è la Calabria.

Ed ecco che il filo rosso tra “pasticcino De Magistris” e “Pacman Bruni” , che ho cominciato a raccontare con lo scorso post, trova nuovo vigore. In vero, un filo rosso che in Calabria affonda le radici nella notte dei tempi (ci sono paesi, come Filadelfia, che se ne fanno addirittura un vanto) e sul quale il “povero” Agostino Cordova, da capo della Procura di Palmi, tentò invano di fare luce (si vedano approfondimenti sul mio post del 26 febbraio).

Ma visto che fare luce sugli Illuminati è una contraddizione in termini, finì con il restare fulminato lui, il 23 febbraio 2001 con l’archiviazione del Gip Augusta Iannini (in “Bruno Vespa”, di cui è la moglie, che ha fatto una gran carriera diventando anche capo Dipartimenti degli Affari generali al ministero della Giustizia), secondo la quale Cordova aveva solo “raccolto notizie e non notizie di reato”). Una domanda vorrei fare a Cordova: ma in 800 faldoni quante notizie aveva raccolto? E chi credeva di essere: un bibliotecario? Un feticista di ritagli di giornali?


LA LOGGIA DI SAN MARINO E LA NUOVA P2

CHE DIVORA LO STATO DALL’INTERNO


E con lui, anni dopo, è rimasto fulminato “pasticcino De Magistris” al quale voglio istintivamente bene, anche perché lo conosco e lo apprezzo per i suoi altissimi valori e principi, e che avrebbe portato a casa l’iradiddio se solo non si fosse messo a fare pesca a strascico. Fu lui, infatti, nel silenzio poi diventato fragore, a tirare fuori dalla soffitta polverosa della legislazione italiana una legge – la 17/82, meglio nota come “Legge Anselmi” – che punisce chi, in maniera occulta, trama per interessi propri a scapito di quelli della collettività. Tentò di applicarla a una consorteria di amici che, a suo giudizio, si ritrovavano sotto il cappello della “Loggia di San Marino” (si vedano i miei 5 post del 5, 9, 12, 16 e 19 marzo).

E chi erano i personaggi che facevano parte di questa allegra banda di amiconi? A mio giudizio – come nel caso della Loggia P2 dalle cui ceneri nacque la Legge Anselmi – i veri burattinai non sono stati scoperti da De Magistris (anche perché non gli fu dati il tempo di scoprirlo), ma molti di loro li ritroviamo nelle indagini “spacchettate” da Pacman Bruni che, da bravo segugio, ne sta scoperchiando anche altri di cui vi darò conto tra poco (ma si vedano anche i 2 post sull’argomento dell’11 maggio e del 23 giugno).

Attenzione: questo è il secondo motivo per il quale sottolineo che le indagini del Pm di Crotone – al quale è stata sottratta l’applicazione alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro nel silenzio di tutti, a partire dai suoi capi e che proprio ieri, 22 luglio, ha ricevuto l’ispezione ministeriale che potrebbe capovolgere il destino – sono di vitale importanza per questa sciagurata Italia e questa disgraziata regione in mano a “iocarelli”, come li chiama mia suocera. Quaquaraqua, come li chiamo io.

Le indagini di Bruni possono infatti ridare slancio anche all’emersione di quella nuova P2 che De Magistris stava scoperchiando e che – mentre io scrivo e voi leggete – sta continuando a piazzare le sue pedine all’interno dello Stato. Nei gangli vitali, quelli che voi non vi aspettate, ma che questi “iocarelli” ben conoscono: innanzitutto la Giustizia in tutte le sue declinazioni (dagli uffici alla magistratura passando per le segrete stanze della Cassazione), poi la Guardia di Finanza e le Forze dell’Ordine. Bastano poche pedine – per lo più sconosciute, “coperte e deviate” – nei posti chiave di queste amministrazioni e istituzioni (o di chi si relazione con esse) e il gioco è fatto (si vedano i miei 3 post del 9, 11 e 14 febbraio, compreso il botta e risposta con Gioacchino Genchi).


L’INDAGINE TURBOGAS CHIAMA IN CAUSA PALAZZO GIUSTINIANI


L’ultimo “videogioco” al quale lavora Pacman Pierpaolo Bruni, presentato pochi giorni fa all’Italia intera, è amichevolmente chiamato “Turbogas”. Ve l’ho presentato nello scorso post: una filiera energetica mai realizzata a Scandale (Crotone) per la quale secondo il pm volavano mazzette come gabbiani intorno a una chiatta di rifiuti. Con contorno di ministri, ex ministri, parlamentari, ex assessori, funzionari, dirigenti, ex governatori, amministratori e imprenditori che – secondo l’accusa – si sono pappati milioni di euro, in gran parte volati nei paradiso fiscali di mezzo mondo.

C’è un capitolo – straordinario e ignorato dagli approfondimenti giornalistici – che, se sarà provato in un processo, vivifica le intuizioni di De Magistris: quello dedicato a Giuseppe Chiaravalloti (indimenticabile Governatore della Calabria, ex Procuratore generale della Corte di appello di Reggio Calabria e attualmente vicepresidente del Garante per la protezione dei dati personali) e Giovanni Iannini (magistrato del Tar).

Entrambi negano (è bene riportarlo subito) e respingono con sdegno ogni accusa. Entrambi sono accusati da Bruni di avere “partecipato a una loggia massonica la cui finalità occulta è quella di porre in essere condotte dirette a interferire sull’esercizio delle pubbliche amministrazioni anche giudiziarie…”.

A pagina 31 del decreto di perquisizione e sequestro della Procura c’è un passaggio chiave che illumina gli Illuminati (rectius: se provato in un aula processuale, illuminerebbe le attività delle logge occulte).

Il 2 febbraio 2009, Bruni  pone alcune domande al superteste dell’accusa, Antonio Argentino (pensionato, ex consulente pro tempore di Telecom, già sentito il 29 gennaio 2003 dalla Commissione parlamentare d’indagine sull’affare Telekom  Serbia e relative ipotesi di mazzette miliardarie).

Argentino dichiara che il consulente Claudio Larussa, avvocato catanzarese, alla presenza di numerosi testimoni (tutti citati e dunque riscontrabili), gli riferì le mosse e le pressioni esercitate da Chiaravalloti (che, ribadiamo, nega ogni circostanza) sul Tar Calabria che avrebbe dovuto esprimersi sui ricorsi presentati dalle società concorrenti di Eurosviluppo Elettrica (che si aggiudicherà la commessa multimilionaria).

Ecco le precise parole di Argentino: “ …il presidente Chiaravalloti …ebbe a contattare la loggia massonica di palazzo Giustiniani per farsi consigliare un bravo avvocato amministrativista che, oltre ad avere buone conoscenza professionali, avesse le giuste entrature ed aderenze in Calabria oltre che a Roma, necessarie ed utili per condizionare il pronunciamento del Tar Calabria ed, eventualmente, del Consiglio di Stato in Roma. A seguito di tale richiesta, viene indicato al Chiaravalloti da un interlocutore di palazzo Giustiniani, contattato alla presenza del La Russa, il nominativo dell’avvocato “giusto ed adeguato”, ai fini di cui sopra, nella persona del prof. Clarizia, con studio in Roma. In realtà, sembrerebbe che il risultato voluto dal presidente Chiaravalloti sia stato ottenuto, tanto è vero che il Tar di Catanzaro per ben due volte ha rigettato i ricorsi da noi presentati. Ricordo in proposito che l’originario designato presidente del Tar che ha deciso i nostri ricorsi, è stato sostituito ed al suo posto è stato nominato il Dr. Iannini. Visto quanto ho appena riferito, esprimo timori e perplessità anche in relazione ai ricorsi al Consiglio di Stato afferenti i predetti ricorsi al Tar”.

Nessuno specifica il nome di battesimo di tal Clarizia nei cui confronti, è bene specificarlo non pende alcun capo di imputazione. A Roma  - professore e avvocato – ho trovato solo Angelo Clarizia, salernitano, professore ordinario di diritto amministrativo all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” che – in un profilo non sappiamo se ancora aggiornato - riceveva gli studenti il lunedì alle 15, dopo la lezione, nella sua stanza che, ironia della sorte, è la “P2 S43”. Angelo Clarizia ha anche un famosissimo studio legale a Roma.

Il 29 aprile 2009, ancora ascoltato dal Pm Bruni, Argentino dichiarerà: “Inoltre, come ho già riferito nel corso di precedenti verbali, il La Russa ebbe a riferirmi, nel corso delle molteplici conversazioni intervenute in quel periodo, che il giudice del Tar di Catanzaro Iannini era organico della struttura di potere facente capo al Chiaravalloti”.

Ora, se Bruni riuscirà a dimostrare che 2+2 fa 4, la sintesi che ne emergerebbe è la seguente: Chiaravalloti chiama Palazzo Giustiniani (sede del Grande Oriente d’Italia n.d.r) che muove in lungo e in largo per l’Italia le sue potenti leve e sistema le cose a favore di Chiaravalloti e dei suoi interessi. Tutto da provare, sia ben chiaro, ma il lavoro di Bruni è stato finora fatto con il cesello.

Ora, magari mi sbaglierò, ma non mi sembra che ci sia stata alcuna dichiarazione ufficiale uscita dal senno degli Illuminati di Palazzo Giustiniani. Chiedo – e vorrei tanto che la risposta potesse arrivarmi – ma il Grande Oriente d’Italia non ha proprio nulla da replicare, anche solo per dire: lungi da noi questi meschini traffici?

Attendo (inutilmente) fiducioso la risposta, magari dal Gran Maestro Gustavo Raffi che nella sua incredibile allocuzione sui costruttori di sogni possibili,  tenuta al Palacongressi di Rimini il 3 aprile 2009, dichiarò testualmente a proposito dei Fratelli: “…lavorare per progresso e il benessere dell’umanità. È, quindi, indispensabile impegnarsi a fondo per la solidarietà, per i diritti umani, per la cultura del dialogo e per una intelligente multiculturalità”.

Chiedo a Raffi: tra i sogni dei massoni che diventano realtà c’è anche quello di chiarire quanto messo a verbale da Bruni?


LE LOGGE OCCULTE FANNO I PORCI COMODI A CROTONE


Pacman Bruni, in realtà, è da tempo che sta puntando grembiulini zozzi, compassi taglienti e cappucci vergognosi. Ha capito – qualora ce ne fosse mai stata la conferma – che in quel reticolo di logge occulte e segrete, comunque non ufficiali, si muovono gli interessi degli iocarelli calabresi che trafficano e mangiano alla faccia della Calabria onesta. In quelle logge in cui non è difficile – anzi è normale – incontrare la faccia della ‘ndrangheta: non la conosci ma la riconosci.

Come, a esempio, nella vicenda Europaradiso ma – per rimanere ancorati ai giorni nostri e per dimostrare che quell’inchiesta è storia mentre la massipolindrangheta si muove continuamente e vive nel presente – come emerge nell’inchiesta che Bruni sta conducendo ai danni di un’associazione a delinquere che secondo l’accusa lucrava perfino sulle forniture alle scuole.

Ebbene, nell’inchiesta che vede imputati dirigenti scolastici, imprenditori, nel decreto di perquisizione datato 3 luglio 2009, Bruni scrive, supportato persino dalle note del Nucleo di polizia tributaria della Gdf di Crotone, alle pagine 79 e 80, quanto segue: “Il sistema era così radicato da consentire a dirigenti scolastici di aggiudicare le gare, sempre nei confronti dell’impresa di Leone Giuseppe, pur in presenza di offerte più vantaggiose per la pubblica amministrazione anche in forza del vincolo associativo e della partecipazione a logge massoniche i cui componenti hanno posto in essere attività diretta ad interferire sull’esercizio di Pubbliche Amministrazioni, condotte poste in essere in particolare da Leone Luigi, Scerra Serafina e Curatola Anna, anch’esse iscritte a logge Massoniche per come si ricava dalla nota trasmessa in data 25.6.09 dalla Dda di Catanzaro, oltre che lo stesso Leone presso la cui abitazione è stato rinvenuto materiale  e documenti comprovanti la partecipazione del Pubblico dipendente ad associazione massonica”

Mi fermo qui, di carne al fuoco ne ho messa abbastanza. Il prossimo post, ancora sul vitale filo rosso tra “pasticcino” e “pacman” vi farà riflettere molto sull’amorale intreccio nel nostro Stato, visto che chiamerò in causa anche la (inutile) Commissione parlamentare antimafia.

2 – to be continued


da ilsole240re.com


Titolo: Roberto GALULLO. Filo rosso De Magistris-Bruni/3
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2009, 08:52:28 am
29/07/09


Filo rosso De Magistris-Bruni/

3: che coppia Galati-Lussana, il plurindagato (ex tutto) e la parlamentare leghista antimafia…

“Ancora oggi Galati e il suo gruppo, a detta del D’Anna, pretende il pagamento di ulteriori somme di denaro”. E’ il 19 marzo – festa del papà - quando Antonio Argentino (che come abbiamo visto nel precedente post non è solo il consulente e superteste dell’inchiesta Turbogas della Procura di Crotone ma è anche un pensionato, ex consulente pro tempore di Telecom, già sentito il 29 gennaio 2003 dalla Commissione parlamentare d’indagine sull’affare Telekom  Serbia e relative ipotesi di mazzette miliardarie) parla con il Pm Pierpaolo Bruni.

“Ancora oggi” puntualizza Argentino. “Ancora oggi” annota Bruni che, ovviamente, dovrà trovare riscontri. Pacman di km ne macina…

E’ il 29 aprile quando, di fronte allo stesso Pm Argentino dirà ancora: “…lo Scordo mi riferì che non solo le persone fisiche – politici Chiaravalloti e Galati avevano percepito guadagni e somme di danaro, per come sopra riportato, ma anche che lo stesso partito politico Udc, partito di riferimento del Galati (all’epoca ndr), veniva finanziato o sarebbe stato finanziato attraverso un sistema di consulenze. Ciò in quanto il Galati, per poter realizzare i propri interessi privati e quelli del suo gruppo, doveva avere il placet della direzione del proprio partito, placet che veniva ottenuto poiché il Galati imponeva alle società interessate alle operazioni il pagamento di somme di danaro indebite in favore delle casse del partito Udc, attraverso un sistema di consulenze fasulle”.

Non era la prima volta che Argentino rilasciava dichiarazioni sulla holding dei “due Giuseppe” Chiaravalloti-Galati (si veda il 1° post del 17 luglio), sulla quale è andato giù durissimo.

Si vedrà su questo terzo, vitale filone (dopo quelli che abbiamo già analizzato dei paradisi fiscali e della massoneria deviata) se pacman Bruni reggerà il confronto con “pasticcino De Magistris” (come l’ho soprannominato comunque con rispetto, stima e affetto e lui lo sa).

Anche Bruni, infatti, come il suo ex collega, si trova di fronte ad una coppia nella quale si era già imbattuto De Magistris nelle inchieste Poseidone e Why Not. In vero Chiaravalloti Bruni lo ha incontrato anche quando ebbe in eredità (per un breve periodo, e non poteva essere diversamente) l’inchiesta Why Not. Ora va specificato che Chiaravalloti è ancora indagato e compare tra i 106 (poi diventati, credo, 98 ma ho perso il conto) che hanno ricevuto le informazioni di garanzia a conclusione delle indagini preliminari della Procura della Repubblica di Catanzaro.

Galati, invece, ne è uscito praticamente subito. La sua posizione è stata prima stralciata e poi archiviata.


LA DIFESA DI GALATI


In una nota spedita all’agenzia di stampa Apcom, il 13 luglio, il  parlamentare del Pdl Giuseppe Galati,  respinge come "infondate" le accuse nei suoi confronti mosse a suo carico dalla Procura di Crotone nell'inchiesta sull'utilizzo dei fondi pubblici per il piano di sviluppo della città. "Sono certo che anche in questo caso le accuse che mi vengono rivolte nella loro paradossale enormità, si sgretoleranno lasciando spazio alle verità dei fatti e alla volontà popolare", dirà all’agenzia.
"Dalla lettura delle notizie di stampa - afferma Galati – circa un mio presunto coinvolgimento nell'inchiesta di Crotone, rilevo ancora una volta come, siano infondate le accuse nei miei confronti. Siamo nel campo dei teoremi e dei pregiudizi che bene ispirati vogliono modificare in direzione (non sappiamo ancora di chi), il corso della politica regionale. L'attività politico-elettorale mia e della mia componente, evidentemente non va nella direzione di alcuni interessi. Dispiace che la politicizzazione, di una parte, della magistratura voglia invertire la libera scelta dei percorsi democratici della Regione. Abbiamo sufficiente dignità e tenacia per resistere alle scelte di una parte della magistratura che ci attacca sempre con gli stessi ed identici teoremi, e che vuole negare liberi diritti politici ad alcuni e costruire alterate carriere politiche. Vale la pena di sottolineare che, non sempre la costruzione di ipotesi accusatorie fantasiose comporti un risultato politico favorevole a chi lo propone".

Per amore di cronaca abbiamo riportato la sua dichiarazione, così come per difetto giornalistico sottolineo che a essere chiamate in causa sono: la volontà popolare che lo ha eletto e la supposta macchinazione di alcune toghe che invece di pensare magari ad altro, hanno l’ardire di condurre inchieste. A me sembra di averli già sentiti da un altro queste argomentazioni ma, sicuramente, mi sbaglio.


ITALIA UNITA: PIU’ CHE GARIBALDI POTE’ GALATI


Ma  chi è ‘sto Galati? Inutile rivangare antiche e ormai consumate storie che lo videro nel 2003 al centro dell’operazione “Cleopatra”, una vicenda di sesso e cocaina. Tanta neve sciolta in acqua è passata sopra e sotto i ponti: lui stesso butta alle spalle queste vecchie vicende.

Lo fece con me, che lo intervistai per il Sole-24 Ore il 29 marzo 2008 nell’ambito di un’inchiesta che feci in vista delle elezioni politiche. Con l’etica in politica come la mettiamo – gli chiesi – visto che cinque anni fa finì in una brutta storia di cocaina e prostitute? “I calabresi sanno scegliere – mi rispose tranquillo – e sanno che non c’entro nulla con quelle vicende. Ho lavorato solo per la mia terra”. Prendo atto.

E infatti nella biografia che ha inserito nel suo sito www.giuseppegalati.it non c’è traccia. Di lui però sappiamo che: prima aveva pochi capelli, adesso ha una fetta di asfalto sulla cervice (non è il solo, mi consenta), è laureato in legge e, soprattutto è un ex: ex Dc, ex Ccd, ex Udc e ora felicemente approdato tra le braccia del Pdl che lo ha rieletto deputato con Forza Italia.

Di lui si ricordano memorabili interventi a favore della sua terra, come a esempio l’ultimo, avanzato con un’interrogazione parlamentare a risposta scritta il 2 luglio 2009, con la quale chiede conto a ben due ministri, quello dell’Interno e quello delle Infrastrutture, per quale motivo abbiano tarpato le ali (sequestrandolo) al porticciolo “Il Delfino” di Gizzeria Lido, frazione alle porte di Lamezia Terme dove Galati è di casa, essendoci uno dei suoi ristoranti preferiti “Marechiaro” del mitico Paolo Sauro.

Ma da un po’ di tempo Galati è noto anche per essere il signor Lussana.


IL MATRIMONIO TRA UN TERRONE E UNA PADANA


E si perché mentre migliaia di leghisti minacciavano di suicidarsi ingurgitando per protesta 10 chili di peperoncino essiccato di Diamante (Cosenza) e sette confezioni di ‘nduja sotto’olio con tutto il vasetto di vetro, lui il 24 settembre 2007 si sposava con la focosa parlamentare leghista Carolina Lussana da Bergamo.

Anche di lei rimangono memorabili interventi e atti, come a esempio le “Nuove disposizioni per la tutela del diritto all’oblio su internet in favore delle persone già sottoposte a indagini o imputate in un processo penale”, un progetto di legge presentato il 20 maggio 2009 sul quale sono già stati scaraventati molti fulmini. Una proposta di legge, per sua stessa definizione, che “e` finalizzata a riconoscere ai cittadini, già sottoposti a processo penale, il cosiddetto « diritto all’oblio » su internet, cioè la garanzia che – decorso un certo lasso temporale – le informazioni (immagini e dati) riguardanti i propri trascorsi giudiziari non siano più direttamente attingibili da chiunque”.

Cuor di moglie, ma vuoi vedere che questo colpo di genio l’ha avuto pensando alle vicende del marito? No, non può essere. Figurati. E’ della Lega, è intelligente per definizione.

Poi, però, guarda tu il caso, scopri che l’onorevole marito è in contenzioso con un gruppo di giornalisti e, altra casualità la sua biografia è sparita da Wikipedia dove, infatti (provare per credere) l’unico che compare è tal Vito Giuseppe Galati, altro politico calabrese passato a miglior vita 41 anni fa.


DUE DOMANDE ALL’ONOREVOLE MOGLIE

E ALLA COMMISSIONE ANTIMAFIA


Una domanda semplice semplice all’onorevole moglie dell’onorevole marito: ma anziché pensare a una legge sull’oblio, non sarebbe meglio promuovere una bella legge non dico sull’esuberanza, ma quantomeno sul dormiveglia. Basterebbe poco: a esempio che l’onorevole marito aggiornasse il sito anche sulle sue vicende giudiziarie. Semplice no? Forse troppo…

Ma l’onorevole Lussana è stata anche nominata dal suo partito nella Commissione parlamentare antimafia dove – ma voglio essere smentito – non mi risulta che abbia mai preso la parola. E dire che ci sono state finora ben 20 sedute in appena 8 mesi di vita.

A questo punto un’altra domanda vorrei fare. Anche a lei ma soprattutto agli altri  “49 membri 49” onorevoli membri della Commissione parlamentare antimafia. Se è vero che le colpe dei padri non debbono ricadere sui figli è altrettanto vero che le colpe degli onorevoli mariti (tutte eventuali e da accertare sia ben chiaro) non devono ricadere sulle onorevoli mogli. Mi chiedo però: non sarebbe il caso che – quando un congiunto prossimo – è indagato, per ragioni di opportunità e decoro politico, il congiunto coinvolto di riflesso presenti le dimissioni da una Commissione così delicata? Io lo farei, ma io sono solo un giornalista…E voi, cari amici di blog, vi dimettereste (lo chiedo a voi perché dubito che la coppia calabro-padana e gli onorevoli membri dell’onorevole Commissione mi rispondano)?

3 – the end (per il momento…)

 

roberto.galullo@ilsole24ore.com



Titolo: Roberto GALULLO. La lotta alle mafie dei Governi: chiacchiere e distintivo, ...
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2009, 05:17:15 pm
04/08/09
La lotta alle mafie dei Governi: chiacchiere e distintivo, come insegnano i casi di Gioia Tauro, Fondi e…Bardellino

Ricordate Robert De Niro nella parte di Al Capone che – nel film “Gli Intoccabili” – gridava al’agente federale Eliot Ness interpretato da Kevin Costner:  “Sei solo chiacchiere e distintivo. Solo chiacchiere e distintivo”?

Ebbene quelle frasi sputate da un ladro (mafioso) a una guardia (incorruttibile) mi sono venute in mente seguendo le ultime vicende che hanno contraddistinto da una parte la politica governativa e dall’altra i Comuni di Gioia Tauro (Reggio Calabria) e Fondi (Latina). L’uno sciolto per mafia e sottoposto a vicende talmente ridicole che se non fosse stato per l’onorevole Angela Napoli non sarebbero mai venute alla luce. L’altro che avrebbe dovuto esserlo ma per le nequizie e le ipocrisie della politica è ancora lì: in piedi, mentre uomini coraggiosi dello Stato vengono lasciati soli e delegittimati.

Ma andiamo con ordine, ricordando che questi sono solo due esempi. Se ne potrebbero fare molti per mettere alla berlina le chiacchiere e i distintivi. Ho scelto questi due e non certo per capriccio. Così come chiarisco subito che – ci fosse stato un Governo di diverso colore politico – non sarebbe cambiato nulla. Basta voltarsi indietro e ricordare il nulla sotto vuoto spinto contro la pervasività delle mafie dell’Esecutivo guidato dal prevosto Romano Prodi.

 

GIOIA TAURO: TOC TOC, C’E’ NESSUNO IN COMUNE?

SI: LA ‘NDRANGHETA

 

Gioia Tauro è un paesone calabrese di 18mila abitanti: un porto straordinario che non è mai decollato e tanta, ma proprio tanta ‘ndrangheta, che respiri come l’aria pura in alta quota. Ebbene, in questo Comune, sciolto recentemente per ben due volte per infiltrazioni mafiose, così come altri 5 nelle vicinanze, non esiste più neppure la commissione prefettizia straordinaria insediata a seguito dell’ultimo scioglimento, avvenuto il  24 aprile 2008. Un commissario se ne è andato il 21 luglio 2009 per motivi personali e gli altri due si sono dimessi ufficialmente per ragioni di rispetto, ma secondo la stampa locale per: “insormontabili difficoltà sulla condizione del Comune di Gioia Tauro che scaturirebbero dalla presenza di notevoli incrostazioni nella pubblica amministrazione” e dalle “numerose resistenze interne al palazzo riscontrate nella loro azione di pulizia e di  trasparenza della macchina amministrativa”.

E la seconda commissione straordinaria che salta – per la sua totalità – in meno di un anno. Se non è un record poco ci manca.

Scusi, signor ministro dell’Interno, onorevole-sassofonista-avvocato Roberto Maroni: chi guida la “baracca”? Provare per credere: visitate il sito www.comune.gioiatuaro.rc.it e troverete che nella voce “organi di governo” la casella “commissione straordinaria” è vuota. Chi guida una nave dove è sceso persino il capitano (anzi: due capitani in meno di un anno) e che rischia di affondare in una sabbia mobile amministrativa zeppa di criminali, soprattutto alla vigilia di nuovi appalti miliardari nella Piana e traffici mondiali (anche illeciti) via mare?

Se lo è chiesto e lo ha chiesto anche il rappresentante della Commissione parlamentare antimafia, l’onorevole Napoli (ex An, comunque rimasta nel centro-destra), che ha presentato un’interpellanza che – ovviamente – è rimasta finora lettera morta (la allego a fondo pagina affinchè tutti possiate leggerla). Napoli non lo ha chiesto solo a Maroni ma anche al ministro della Giustizia “Angelino l’odo Alfano” e a Sua Onniscenza Silvio Berlusconi. Risposte: zero. Neppure le chiacchiere. Neppure il distintivo.

Ora qualcuno ci dovrà spiegare come è possibile che un Comune così importante possa restare senza guida. Un Comune oltretutto dove (vox populi) c’è chi giura che i veri mafiosi siano rimasti al proprio posto. Intoccabili, come diceva l’ex superprefetto di Reggio Calabria ed ex vicario della Polizia, il senatore Luigi De Sena (Pd), che ha sempre ricordato l’inutilità della cacciata dei politici collusi o mafiosi, senza la contemporanea cacciata dei pubblici funzionari, dirigenti e dipendenti, corrotti o criminali. Un Comune dove – allego a fine pagina lo schema ripreso pari pari dal sito comunale – i dirigenti si mettono in malattia in media 50 giorni all’anno. Aggiungete le ferie, scekerate il tutto e vedrete che un quarto di anno lavorativo se lo passano a casa. Altro che le cure del playboy Renato Brunetta, il ministro dell’efficienza provetta!

 

FONDI…DI DIGNITA’

 

E passiamo ad analizzare la tragicomica vicenda di Fondi, paesone alle porte di Latina dove (lo dicono gli investigatori, i magistrati e il prefetto Bruno Frattasi, non io che sono un umile giornalista) le mafie fanno da anni scorribande manco fossero sulle montagne russe.

Non voglio annoiarvi con la cronistoria di quanto sta accadendo a Fondi. Per questo, infatti, vi rimando alle numerose inchieste che ho scritto sul Sole-24 Ore, alle puntate su Radio24 nella mia trasmissione “Un abuso al giorno” e ai post scritti su questo blog il 28 gennaio e il 14 aprile 2009).

La sintesi è questa: la città di Fondi – e in vero l’intera provincia di Latina – ha una vita economica, amministrativa e sociale oramai dettata dall’orologio biologico della criminalità. Non passa giorno che non ci sia un attentato, un intimidazione e decine e decine di arresti, come gli ultimi clamorosi, che hanno portato all’arresto dell’ex assessore ai Lavori pubblici e di boss di ‘ndrangheta che condiziona(va)no il Mof, il Mercato ortofrutticolo che fattura un miliardo all’anno e conta oltre 120 aziende.

Ebbene, a Fondi, il prefetto, da quasi un anno ha consegnato nelle mani del sassofonista, per diletto ministro dell’Interno con un fazzoletto verde ramarro nel taschino, una copiosa produzione letteraria: circa 800 pagine con le quali si prospetta lo scioglimento del Comune per infiltrazione mafiosa.

E che fa il sassofonista-avvocato-ministro e con lui il Governo tutto? Prima nicchia (sapete com è, c’erano le elezioni europee e amministrative e in Italia, comunque, c’è sempre un’elezione), poi rimanda, poi promette lo scioglimento e infine (ma guarda tu che novità!) non mantiene.

Con la scusa – risibile – di dovere adeguare la relazione prefettizia alle nuove regole sullo scioglimento degli enti locali (sapete com è, in Italia esiste sempre il rigo 3 del comma 4 dell’articolo 7 così come modificato dall’appunto 9 del pizzino 11 del Gran Maestro 27) il Governo ha preso ancora tempo. Tutto questo ha dato il 24 luglio la possibilità al senatore Stefano Pedica (dell’Italia dei Valori) di inscenare una protesta scenografica nel corso della conferenza stampa della malcapitata ministra Mariastella stellina Gelmini.

Ora – anche ammesso e non concesso – che lo scioglimento arrivi (e sarebbe bene che si cominciasse a indagare anche su territori come Minturno, e a quanto mi risulta sta accadendo), mi domando e vi domando: ma dove sono i fatti contro le mafie? Dove sono gli interventi decisi e decisivi? Come si può – mi domando – lasciare solo e, di fatto, delegittimare il lavoro di uno tra i migliori prefetti in Italia? Come si possono ignorare le proteste, le denunce di centinaia di amministratori di ogni colore politico, di numerose associazioni antimafia e di migliaia di cittadini? Come si possono ignorare le inchieste della magistratura che hanno e stanno scoperchiando da anni il malaffare nell’area pontina? Solo chiacchiere e distintivo, ecco cos è la lotta alle mafie dei Governi, “solo chiacchiere e distintivo”.

Sapete cosa sta accadendo in questi mesi durante i quali il sindaco di Fondi, il mitico Luigi Parisella (Pdl), ha attaccato la libertà di stampa e i giornalisti, a partire da chi scrive, il quale è stato gratificato negli anni di diversi attacchi e deliranti comunicati stampa sul sito del Comune? Non ci credete? Andate su www.cittafondi.it: li troverete anche l’ultimo comunicato stampa che si intitola: “A Silvio Berlusconi”. E’ un’ode che chiama alle armi il papi-Silvio a combattere quei cattivoni del Tg1 che hanno fatto del male, vale a dire la bua (in molte parti del Nord dicono la bibi) a Fondi e al Mof. Leggetelo quel comunicato stampa (così, almeno, lo chiamano, è fantastico!)

Ve lo racconto io cosa sta succedendo a Fondi e nella provincia di Latina. Preparatevi a ridere e ricordate che è solo un fior da fiore dei più incredibili episodi.

 

LE PERLE SU FONDI E SULLA PROVINCIA DI LATINA: E VAI CON

IL TRIO DI ATTACCO FAZZONE - PALLONE – LAURO

 

La cosa più bella (vi prego di cogliere l’ironia) l’ha combinata il senatore del Pdl Claudio Fazzone, tra i ras incontrastati del territorio. Con una dichiarazione anticipata sul sito www.provincialatina.tv ha detto che «...il prefetto di Latina dopo aver fatto il suo dovere non può entrare nelle questioni politiche facendo il giro delle settechiese degli esponenti della sinistra...per questo sono sempre più determinato nel chiedere, se occorre, una commissione di inchiesta che verifichi tutti gli atti e l’iter prodotto in questa vicenda dal Prefetto di Latina e della correttezza degli interventi delle forze di sinistra veicolati sui media».

Capito? Una commissione d’inchiesta sul commissario prefettizio! E anche sulla sui giornalisti comunisti! E perché  non anche sui Ros e sulla Gdf che in questi anni in provincia di Latina stanno scovando il marcio anche sottoterra?

Fazzone nella sua crociata – scrive il quotidiano “Latina Oggi” vicino, se non erro, alle posizioni del senatore romano-pontino del centrodestra (più destra, estrema, che centro) Giuseppe Ciarrapico - non è solo. Il coordinatore regionale del Pdl, Alfredo Pallone (con ‘sto cognome o faceva l’attaccante o faceva il difensore) si è schierato nel tridente: ha attaccato la sinistra e parlato di «estraneità dell’amministrazione di Fondi dalle accuse di infiltrazioni camorristiche» ma ha anche aggiunto di attendere con serenità la decisione del Governo, che «sarà comunque quella giusta». Finora è stata giustissima, ovvio!

Persino il senatore Raffaele Lauro, ex prefetto, anche lui del Pdl, membro della Commissione parlamentare antimafia, ha detto che chiederà una apposita seduta

pubblica per esaminare gli atti già acquisiti e quelli dell’operazione Damasco che ha portato all’arresto di boss e complici.

 

SCENDE IN CAMPO ANCHE ER CIARRA

 

In questa terra di mafia che è diventato il sud pontino (Frosinone compreso) non poteva mancare l’intervento del senatore Ciarrapico, detto er Ciarra, che è si nello stesso schieramento politico ma – evidentemente – è all’opposizione interna su quel territorio.

Dunque er Ciarra dicevamo – che non conosco e, detto fra me e voi, non vorrei neppure sfiorare con una canna – sul giornale Latina Oggi, appunto, si spinge a chiedere una «commissione d’inchiesta sulle fortune patrimoniali, assai celeri peraltro, del senatore Claudio Fazzone». Forse Fazzone – prosegue Ciarrapico – “dovrebbe precisare gli abusi edilizi della sua villa di Fondi, tutta abusiva e fare l’inventario delle proprietà immobiliari della moglie. A meno che anche queste proprietà non siano frutto di omonimia”.

Ma vi rendete conto chi ha chiesto la commissione d’inchiesta sui beni patrimoniali di un collega di partito? Er Ciarra, insegnante-imprenditore, che di incontri ravvicinati  con la Giustizia e con i creditori ne ha avuti non pochi e per il quale, come ricordava il Sole-24 Ore a maggio “l'ufficiale giudiziario si è presentato nella sua residenza dichiarata, cioè nel capannone accanto alla tipografia di "Ciociaria Oggi", scoprendovi però una sola stanza con brandina, tavolo, piccolo armadio e comodino”. Niente di pignorabile, insomma. Anzi, le parti civili avvertono che «Ciarrapico ha fatto annullare per motivi procedurali perfino quest'ultimo tentativo di esecuzione forzata». Di qui la soluzione finale: bloccare un quinto del suo nuovo reddito di parlamentare a favore dei creditori. Sarà stato fatto? Quali sono stati gli eventuali sviluppi? Non è dato sapere. Almeno: io non lo so. C’è qualcuno che lo sa? Me lo scriva. Magari lo stesso senatore-insegnante-imprenditore.

 

E VAI CON LA RICHIESTA MILIONARIA DI…BARDELLINO

 

In questo territorio martoriato - in cui intanto il Comune di Fondi naviga a vista, secondo le accuse dell’opposizione – accade che  Ernesto Bardellino presenti ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. “Colui – svela Latina Oggi - che sempre è stato identificato dagli inquirenti quale boss della camorra appartenente al clan dei casalesi ha deciso di chiedere allo Stato italiano cento milioni”.

A comunicare la decisione sono stati i suoi avvocati di fiducia, Pasquale Cardillo Cupo e Guglielmo Raso, che hanno spiegato il motivo del ricorso per la vicenda della confisca dei beni eseguita nei confronti dell’assistito da parte del Tribunale di Latina.

Questa misura di prevenzione di carattere patrimoniale, secondo i due principi del foro, in base alla vigente normativa è applicabile a quei soggetti  sospettati di appartenenza ad associazioni per delinquere di stampo mafioso o camorristico.

«Tale condizione, tuttavia, non è assolutamente ravvisabile – hanno spiegato gli avvocati – nei confronti di Ernesto Bardellino, posto che è stato assolto da tutti i tribunali di Italia dal reato di cui all'articolo 416 bis ed è privo di qualsiasi carico pendente. Non è mai stato condannato per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, come provato da sentenze assolutorie coperte dal giudicato che affermano altresì la lecita provenienza dei suoi beni patrimoniali, come affermato dalla Corte di Appello di Roma in una delle ultime pronunce di merito in cui si dava testualmente atto che la società di sua proprietà, la Tirreno Sud Srl, non era altro che ‘il frutto di una normale e onesta attività imprenditoriale’. Tuttavia, nonostante ciò Ernesto Bardellino è da anni sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza».

Molti dei beni patrimoniali di Bardellino sono finiti nelle mani dello Stato ma secondo i legali sarebbe stata commessa «una grave lesione della convenzione internazionale dei diritti dell'uomo». E pur riconoscendo (bontà loro!) l’operato della Giustizia italiana, ritengono che «le preminenti esigenze di tutela dei diritti umani impongono che della vicenda venga investita la Corte europea di Strasburgo, alla quale è stato richiesto di voler condannare lo Stato italiano a corrispondere ad Ernesto Bardellino un risarcimento danni pari a 100 milioni di euro, per la perdita del suo patrimonio e per i danni conseguenti ad una decisione contraria alla convenzione europea sui diritti umani, in particolare a quella sull'inviolabilità del diritto di proprietà».

Insomma, mentre c’è chi fa chiacchiere e mostra il distintivo, Bardellino & C. fanno i fatti.

Bene, bravi, bis. Così si fa. Che lo Stato e il Governo imparino la lezione! Ma, forse, l’hanno già imparata, come dimostrano i casi di Gioia Tauro e Fondi. O no?

roberto.galullo@ilsole24ore.com

da ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. San Marino ribalta il tavolo delle rogatorie con l’Italia:...
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2009, 05:19:28 pm
19/08/09


San Marino ribalta il tavolo delle rogatorie con l’Italia: attacca su Niki Aprile Gatti ma rincula e tace su De Magistris perchè...
Devo ammetterlo: a seguire su www.giornale.sm la conferenza stampa del Congresso di Stato (cioè il Governo) della Repubblica di San Marino mi sono commosso come un vitello.

Lacrime copiose scorrevano il 17 agosto sul mio viso di cronista nel sentire e vedere – mentre ancora godevo qualche giorno di riposo nella mia Umbria – il pacchetto di mischia governativo sanmarinese mentre elogiava il proprio operato, spernacchiava il Governo precedente e tirava le orecchie all’Italia.


IL MORBO DI ARCORE COMPIE UNA STRAGE A SAN MARINO!


Il tutto condito da simpatici e ironici intermezzi, come quando nel corso della conferenza stampa Antonella Mularoni, segretario di Stato per gli Affari esteri, simpatica come un’ostrica chiusa, ha affermato che “la stampa locale non mette mai in rilievo le cose positive” che accadono nella Repubblica del Titano. Cribbio! Questa frase – mi consenta – ricorda le affermazioni di un politico nostrano che afferma che la Tv di Stato è l’unica al mondo ad attaccare l’operato di un Esecutivo. Magari mi sbaglio e forse la Mularoni neppure lo conosce.

Il morbo di Arcore deve essere contagioso (non per niente gli scalcagnati scienziati del Pd non sono riusciti ancora a trovare un antidoto) se è in grado persino di colpire con virulenza sospetta Gabriele Gatti, segretario di Stato per le Finanze e il bilancio di San Marino che, con un sorriso attraente quanto quello di un coyote, ha affermato che “esiste una responsabilità morale di chi dice o riproduce fesserie. Per il futuro è bene che pensiamo a tutelarci perché abbiamo sbagliato ma abbiamo pagato un prezzo fin troppo alto”. Ci consenta Gatti: anche queste simpatiche frasi in Italia le abbiamo sentite profferire più volte, non immaginavamo che anche lì da voi la libertà di stampa fosse così amata! Evviva: mal comune mezzo gaudio! Giornalisti di Italia e San Marino uniamoci! Propongo un bel gemellaggio nel nome della lotta e – lo sapete – come diciamo noi romani chi non si unisce nella lotta è ‘n gran fijo de na...pagnotta!

La stampa nazionale e internazionale nell’ultimo mese (e, da ultimo, i  miei colleghi del Sole 24 Ore Antonio Criscione e Lionello Mancini il 15 e il 18 agosto) hanno messo in evidenza alcune recenti polemiche che hanno investito i cosiddetti paradisi fiscali (compreso San Marino), ma il pacchetto di mischia sammarinese se ne è dunque fregato tre quarti delle critiche e ha ribaltato con abilità il quadro accusatorio, diffamatorio e dubbioso che alimenta le segreterie politiche di mezzo mondo.

In questo post non mi soffermerò tanto sugli aspetti economici, finanziari e tributari quanto sulla legalità e sui rapporti tra la Giustizia dei due Paesi, argomenti a me cari tanto da averne scritto su questo blog in cinque occasioni (si vedano i post dal 5 al 19 marzo 2009) e averne parlato anche su Radio24 nella mia trasmissione quotidiana “Un abuso al giorno”.


LA ROGATORIA SU NIKI APRILE GATTI E LA MASSIMA TRASPARENZA SULLE ROGATORIE...


Augusto Casali, segretario di Stato per la Giustizia e l’informazione, che per l’occasione ha anche messo una cravatta che lo rende ancor più somigliante all’ex allenatore dell’Inter Eugenio Bersellini, ha affermato che “non capisce tutto questo accanimento mediatico contro San Marino e il Governo. San Marino sembra diventato l’ombelico del mondo e sembra quasi che l’Italia abbia fatto lo scudo fiscale per San Marino ma l’impresa criminale più forte al mondo non ce l’ha San Marino”. Per dare dimostrazione di trasparenza cristallina, Casali, alias Bersellini, alias (per la bisogna) Jovanotti,  ha ricordato le iniziative in favore della celerità della Giustizia, come “l’aumento del numero dei magistrati”. Non solo: non c’ stata una sola rogatoria dall’Italia che non sia stata evasa. “Diversamente – ha aggiunto – non possiamo dire la stessa cosa dell’Italia. Stiamo infatti credo ancora aspettando l’esito della rogatoria che abbiamo chiesto noi sulla vicenda di Niki Aprile Gatti”.

Per chi non lo ricordasse, Niki Aprile Gatti, è un giovane abruzzese che lavorava a San Marino in qualità di socio e dipendente di alcune imprese, che è stato arrestato dalla Polizia italiana in relazione a sospette truffe del numero 899 e trovato morto il 24 giugno 2008 nel carcere toscano di Sollicciano.

Per la Giustizia italiana si trattò di suicidio ma tante e tali sono le anomalie di quella morte che la mamma di Niki Aprile Gatti, Ornella Gemini, e comitati spontanei si stanno battendo contro l’ennesima archiviazione del caso (si veda www.nikiaprilegatti.blogspot.com oppure si ascoltino le puntate su www.radio24.it scaricabili dall’archivio di “Un abuso al giorno” dei giorni 1,2 e 3 aprile 2009). 

La madre esulta per questa notizia e si chiede giustamente, quando arriverà la risposta del Tribunale italiano competente: quello di Firenze. Noi siamo con lei e aspettiamo le risposte da Firenze e da Roma, vero ministro della Giustizia Angelino l’odo Alfano?

Anche il segretario di Stato Gabriele Gatti è intervenuto con forza sul tema delle rogatorie, affermando che questo “è un problema che riguarda il Tribunale di San Marino e non la politica. Un Tribunale che ha sempre lavorato bene e che ha persino ricevuto degli attestati per questo. Anche alcuni procuratori italiani stanno dando atto di quel che stiamo facendo. Da quando c’è questo Governo – a differenza di quanto accadeva nel Governo passato – non c’è mai stata un’intromissione da parte della politica sammarinese. Per quanto riguarda le collaborazioni e lo scambio di informazioni non abbiamo nulla da temere e da nascondere. Né sul riciclaggio, né sulla criminalità organizzata e sui reati correlati”.

Per non perdere l’occasione di fare bella figura, sul tema delle rogatorie è intervenuto anche Marco Arzilli, segretario di Stato per l’Industria di San Marino. In realtà l’arzillo Arzilli si è mantenuto sul vago ma chi ha orecchie per intendere…

“Qualsiasi Governo – ha affermato – non potrà prescindere da quanto fatto da questo Governo. In precedenza c’erano pratiche che venivano dimenticate per anni nei cassetti. Noi abbiamo tolto la polvere anche alle vecchie pratiche che rimanevano nei cassetti del precedente Governo sammarinese”.


…E LE ROGATORIE DI DE MAGISTRIS DELL’INCHIESTA WHY NOT?


Ci fa piacere, ovviamente, che la Repubblica di San Marino si batta per le rogatorie internazionali e altrettanto, vivo piacere desta la notizia che come “simbolo” sia stato preso quello dello strano omicidio-suicidio del giovane Aprile Gatti.

Il morbo di Arcore, però, probabilmente quando attacca cancella alcuni files vitali dalla memoria dei governanti.

Sarebbe bello, a esempio, sapere che fine ha fatto la rogatoria dell’ex pm Luigi De Magistris in relazione alla cosiddetta “Loggia di San Marino”, una loggia massonica deviata all’interno della quale – secondo il neo eurodeputato - operava una cabina di regia che faceva fare affari d’oro in Calabria (e non solo) grazia alle cospicue quote di finanziamento europeo destinate a finanziare lo sviluppo.

Ormai nessuno ricorda più che De Magistris avanzò subito richiesta di rogatoria internazionale per scavare a fondo sulla società Pragmata, con sede a San Marino, e su Piero Scarpellini, vicino-vicino all’ex premier Romano Prodi. A rivelarlo fu Fiorenzo Stolfi, ex segretario di Stato degli Affari esteri, in un’intervista pubblicata da  "Opinione.it. L’Opinione delle libertà", puntualmente riportata il 24 luglio 2007 (e mai smentita) dal sito sanmarinese www.libertas.sm.
Le rogatorie sono partite certamente dalla Procura della Repubblica di Catanzaro e indirizzate a San Marino – dirà Stolfi – che seraficamente aggiungerà: “credo che saranno evase nel minor tempo possibile. Non abbiamo alcunché da nascondere”.

Stolfi, sullo stesso sito, il 16 febbraio, si rimangerà tutto.

Ecco cosa dirà: “al di là di quanto appreso dalla stampa non sappiamo nulla. Neanche dell’esistenza o meno di rogatorie. Possiamo solo dire, come già fatto a suo tempo quando filtrarono le prime informazioni sull’inchiesta Why not, che siamo a disposizione. Se la Procura avesse bisogno di informazioni ci sono tutti gli strumenti utili per ottenerle come ad esempio le rogatorie”.

De Magistris il 9 ottobre 2008 dichiarerà ai colleghi di Salerno, autori del famoso decreto di sequestro nei confronti della Procura di Catanzaro. “…il filone investigativo che stavo seguendo al momento della illecita avocazione da parte del dr, Favi della Procura generale di Catanzaro conduceva da Macrì, attraverso un reticolo di società, direttamente all’entourage del Presidente Prodi. Avevo anche preso contatti in quei giorni per procedere a una rogatoria presso la Repubblica di San Marino”.

La domanda che posi nel post del post del 5 marzo 2009 fu: che fine hanno fatto le richieste di rogatoria?

Anche perché con un telex spedito il 15 luglio 2008, non potendo svolgere accertamenti a San Marino, la Procura di Catanzaro chiederà a un collegio di 6 consulenti torinesi di effettuare accertamenti su alcune società chiamate in causa dai testi di accusa.


MA CHE STRANO: AVEVO CERCATO LA RISPOSTA MA…

…E ALLORA RIPROPONGO LA STESSA DOMANDA


Il 3 dicembre 2008 San Marino dirà bye bye a Stolfi ed ecco arrivare Antonella Mularoni, di Alleanza Popolare (Stolfi era del Partito socialista).

Nei primi giorni di marzo 2009 cominciai a tempestare di telefonate la suddetta e a inviare anche una mail per sapere che fine avesse fatto la richiesta di rogatoria di De Magistris.

Mularoni non rispose mai e la sua segretaria alla fine mi dettò testualmente: “Gli obblighi istituzionali del Segretario sono solo nei confronti dei cittadini sanmarinesi e non delle testate italiane”. Strano, quelle stesse testate italiane alle quali ora tengono…eccome!

Ricordate amici? Tutto vero e tutto scritto sul mio post del 9 marzo. Andatevelo a rileggere please!

Io non sono bravo in politichese ma una cosa mi sembra chiara anche perché ci sono i filmati televisivi che – a meno che non siano stati sabotati – parlano chiaro: il Governo sanmarinese in pieno agosto ci ha informato che ha tolto la polvere da tutte le vecchie pratiche, che è trasparente come acqua sorgiva di montagna e ci ha anche informato che il Governo precedente – cattivone cattivone – insabbiava le pratiche.

Allora egregio Esecutivo sanmarinese, visto che la prima volta mi avete chiuso il telefono in faccia e vi siete negati per giorni e considerato che strombazzate trasparenza e sprizzate cristallinità da ogni poro governativo, richiedo con la stessa educazione: “Che fine ha fatto la richiesta di rogatoria internazionale di De Magistris sull’allegra banda per lui esistente, di potenziali massoni affaristi e criminali?” E ancora: “Sareste disposti ad accogliere ed evadere una nuova richiesta della Procura di Catanzaro?”

Ve lo chiedo anche perché nella vostra conferenza stampa di metà agosto non vi siete limitati a propagandare trasparenza e ribaltare il tavolo delle rogatorie ma avete anche affermato che San Marino è pronta a fare il suo dovere nella lotta alla criminalità organizzata. Lo avete fatto attraverso le voci ufficiali (e registrate) di Gabriele Gatti che mi ha commosso fino ai singulti (“…siamo pronti contro la malavita organizzata che non è penetrata dentro San Marino ma che ha o ha avuto propaggini…”) e di Antonella Mularoni che mi ha straziato il cuor (“abbiamo la gendarmeria che fa i controlli e abbiamo varato il censimento per sapere chi c’è e cosa fa a San Marino…”).

Ed allora, cari governanti amici vicini-vicini di San Marino, fate di tutto per agevolare il lavoro di chi nella magistratura ha scoperchiato uno dei pentoloni più nauseabondi della politica calabrese e italiana tutta. Altrimenti potrebbe sorgere il sospetto che attaccate l'Italia sulle rogatorie solo per difendervi da qualche pratica "scottante" rimasta nei cassetti. Magari laggiù dove non pensavate che fosse insabbiata, scostando meglio quelle penne dai cassetti, potreste trovare la pratica di De Magistris. Guardate meglio, via! Come cittadino italiano ve ne sarò grato a vita e – giuro – sono disposto anche a tifare nella motoGp per il sammarinese Alex De Angelis…tanto Valentino Rossi ha già il titolo in tasca!

roberto.galullo@ilsole24ore.com

Scritto alle 09:14


da ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. Domanda a Tremonti e Mularoni
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2009, 11:16:52 pm
01/09/09


Domanda a Tremonti e Mularoni: come si possono firmare accordi prima della riforma sammarinese sulle licenze?


Lo confesso: sono un teletifoso sfegatato di www.giornale.sm e l’idea che potessero cancellare o mai più registrare e poi mandare in onda determinati avvenimenti, per qualche secondo mi ha tolto il respiro. Da quando scrivo sul blog di vicende sammarinesi (e sono mesi…) anche un giorno di astensione mi provoca ansia, nausea e mal di stomaco e guardate che esagero ma non poi troppo. Per chi scrive di San Marino è indispensabile la sua visione, che produce assuefazione. E questo, da integerrimo professionista quale sono, lo scrivo sul serio. Mai più senza!

Quando – dopo qualche ora in cui è apparso un enorme schermo televisivo che annunciava la decisione di astenersi dalle videoregistrazioni governative – ho rivisto apparire il faccione di Giulio Tremonti e la faccina dolce di Antonella Mularoni (è lesa maestà definirla così?) ho tirato un sospiro di sollievo. Fiuuuuu…scampato pericolo ragazzi!

Alla visione dei filmati della tv panamo-sammarinese debbo infatti riconoscenza a vita per alcune cose che ho scritto recentemente e debbo anche i simpatici rimbrotti di molti di voi, amati lettori sammarinesi del blog. Siete stati voi, infatti, a cogliermi in fallo quando non ho notato il riferimento alla vicenda Licenzopoli fatto dal Segretario di Stato all’Industria Marco Arzilli (lo definivo arzillo, che mi sembra anche un complimento ma qualche simpaticone ha creduto di vedere in ciò non ironia e bonomia come sempre nelle mie frasi ma anche qui lesa maestà ad uno Stato sovrano. Meschineddi, per non urtare la loro suscettibilità non potrò più definirlo arzillo. Peccato, mi mancherà questo aggettivo e dovrò inventarne anche qui, come per Mularoni, uno sovranamente neutro. O Arzilli mi può autorizzare a riusarlo? Qualcuno può intercedere per me anche con la Mularoni visto che non mi vuole parlare? Perché non mi parlano? Perché sono italiano, piccolo e nero? Ma via siamo vicini-vicini e fra un po’ ancor più amici!.

Dopo la visione, quel filmato mi è rimasto in testa, così come quello con l’intervista ad Antonella Mularoni, segretario di Stato per gli Affari esteri, mandato in onda da www.giornale.sm il 21 agosto. Un’intervista effettuata da Marco Severini. Lo ricordate? Quel tizio totalmente scagionato da qualunque accusa nella vicenda Licenzopoli, la cui sentenza ha invece lasciato il segno al punto che anche il collega del Corriere della Sera, Marco Gerevini, il 29 agosto ne ha scritto.

È stato Severini a intervistare la Mularoni – non so dove, anche se gliel’ho ufficialmente chiesto più volte: a San Marino o a Panama?, boh – e del resto egli ufficialmente risulta dallo stesso sito: “Procuratore per la Repubblica di San Marino esclusivamente per raccolta pubblicitaria ed interviste in loco” della testata di proprietà di “Giornale group s.a., Panama city, Panama”. Il direttore chi è? Sono curioso e mi appello a lui: può scrivermi? Vorrei fargli qualche domanda. Dimenticavo una curiosità: se digitate www.giornale.sm, in alto sul banner in realtà il link diventa ww.giornale.ms. E anche facendo il contrario, cioè digitando giornale.ms si apre il sito.

Quell’intervista, dicevo, mi è rimasta nella zucca e mi sono abbeverato, il 29 agosto alle 16.30 circa, alla visione delle pillole di conferenza stampa tenute dal duo di coppia Tremonti-Mularoni in occasione dell’incontro tenuto a margine del meeting di Cl a Rimini.

Per tre giorni e tre notti quelle tre interviste mi sono rimaste nella zucca e non riuscivo a capire perché e quale fosse il nesso. Maledetta Panama, ho pensato, sei sicuramente tu con il tuo paradisiaco ed evasore fluido fiscale a togliermi la ragione.

Poi, finalmente, ho visto…la luce. Benedetta sia tu Panama, e con te anche i cappelli a cui ha dato il nome e chissenefrega del paradisiaco ed evasore fluido fiscale che tante anime pie porta in tentazione.

La firma, ecco cosa mi ha illuminato! La firma degli accordi in materia finanziaria e fiscale. E poi la riforma dei controlli sulle licenze a San Marino. Questione di date, ecco cosa non tornano, le date!

Santa Panama, protettrice dei giornalisti senz’anima, sia lode a te! Firma e riforma, che Italia e San Marino trovino presto la giusta forma!


LA RIFORMA DEI CONTROLLI: FORSE ENTRO L’ANNO


Dunque ricapitoliamo. Il segretario di Stato all’industria Arzilli il 17 agosto in conferenza stampa dichiara: “Il nostro Paese non poteva andare avanti senza controlli. Sarebbe andato a finire contro un muro. C’è bisogno di pulizia ed ecco perché ci chiediamo chi siamo, cosa facciamo e questo è un lavoro che continuerà. Licenzopoli è una questione interna, ci stiamo muovendo e speriamo di ottenere risultati. Noi si risponde subito alle pratiche, mentre prima c’erano pratiche che venivano dimenticate nei cassetti per anni”. E lo stesso Arzilli dichiara il 30 giugno 2009 al Resto del Carlino: «Abbiamo trovato un ufficio in difficoltà, privo di un indirizzo preciso, noi siamo intervenuti per dare chiarezza. E ora che abbiamo raddrizzato la legge di bilancio speriamo entro l’anno di realizzare una legge ex novo sulle licenze, per evitare fenomeni che diano spazio a dubbi sulla serietà delle nostre aziende».

Ora, io sono un bambino e un giornalista di modestissime capacità ma arrivo a capire – correggetemi se sbaglio – che San Marino spera (repeat, please: spera) di realizzare una nuova (ripeto: nuova) legge (reload: legge) sulle licenze entro il 2010. E perché lo dice? Perché la cosiddetta sentenza Licenzopoli (si veda il mio post del 27 agosto) aveva svelato incredibili buchi nella maglie dei controlli burocratici. Voragini, in cui affondavano sistemi telematici fallati, archivi inconsultabili e speranze di cogliere le residenze fasulle o molteplici, riposte nella memoria dei dirigenti zelanti (oh yeah, proprio così).  Una dirigente delle quali – lo annotiamo per la cronaca e per soddisfare le segnalazioni di tanti lettori, quella al Servizio Tributario della Repubblica di San Marino – è la moglie di Marco Severini, assolto, ripeto, completamente dall’accusa di truffa e varie amenità nei confronti di imprenditori e che per questo ha chiesto anche un risarcimento. Severini ci tiene a dire che mi “ dovevo informare adeguatamente in quanto non c'è traccia nel suo articolo del Blog, che i 5.000.000 di euro sono stati richiesti per la ingiusta detenzione. Probabilmente lei non lo sapeva nemmeno sino a che non gliel'ho detto io. In quanto figura da quello che c'è scritto sul blog che oltre ad avere commesso un illecito (secondo la sua versione) ora voglio anche i soldi di risarcimento”. Lui ci tiene e io glielo faccio dire (ma smentisco ovviamente la sua interpretazione di fantasia della mia versione)…

Ma andiamo avanti.


LA FIRMA (O QUASI) DEGLI ACCORDI ENTRO IL 20 SETTEMBRE


Antonella Mularoni, intervistata da Severini, il 21 agosto dichiara dunque: “E’ imminente la firma del trattato con l’Italia. Incontreremo Tremonti venerdì (il 28 agosto n.d.r.) e domenica (30 agosto n.d.r.) Frattini al meeting. Definiremo anche sul piano tecnico i dettagli per arrivare a settembre alla firma degli accordi. Riteniamo che ci siano tutte le condizioni per concludere. La data dovrebbe essere metà settembre. Il G20 si riunirà il 20 settembre e penso che per quella data firmeremo gli accordi o almeno come prefattura siamo apposto”.

L’intervista, ringraziando la mia Santa Panama, la protettrice dei giornalisti che sono una sagoma, è ancora visibile su www.giornale.sm. O ms.

Mularoni, per la cronaca, ha poi spiegato, su domanda di Severini, “che gli attacchi a San Marino sono alimentati dalla sinistra…ho l’impressione che l’opposizione disperata di San Marino sia disposta a tutto. Il sospetto, essendo già successo nel passato, è che mandi alla stampa documenti riservati, anche di altri organi”.

Sempre per la cronaca e lo giuro sulla mia Santa Panama, protettrice del giornalista che spasima, non sapevo neppure chi cavolo fosse all’opposizione di San Marino, non ho mai ricevuto documenti riservati e non sono di sinistra (di questa sinistra soprattutto, che fa ridere anche i polli!). Però, se volete mandarmeli da destra, dal centro o da sinistra, da su o da giù, da San Marino o da Viggiù, la mia mail la conoscete. Giuro che mi iscrivo anche al Partito comunista di Panama se mi mandate documenti interessanti di cui scrivere! Magari anche alla Democrazia cristiana del Kosovo: sono disposto a tutto! Del resto molti di voi, nel blog commentano già con interessanti spunti…


LA CONFERENZA STAMPA DEL DUO DI COPPIA AL COMANDO


Faccio una cosa bellissima: riporto il contenuto della conferenza stampa del ministro per l’Economia italiano e del Segretario di Stato sammarinese indovinate un po’ da dove? Ma dal sito panamo-sammarinese! Ve l’avevo detto o no che non posso fare senza! Ecco il contenuto preceduto da un titolo roboante: “Si firma!!!!Storico accordo con l’Italia, tutto il resto sono chiacchiere da bar!...Guarda il video!”.

Ecco il contenuto della notizia: “ Nonostante quello che tutti dicono, molti in malafede ed interessati, un dato è certo si firma con l’Italia. Ne danno l’annuncio quest’oggi il Ministro Tremonti, Il Segretario Gatti e il Segretario Mularoni in conferenza stampa quest’oggi al Meeting di Rimini. Mai nessuno prima ad ora era riuscito nell’impresa di mettere per iscritto un accordo così importante, con l’eccezione di quello del 1953 e del 1939.

L’ultimo, così importante, in ordine di tempo risale al 1953. E nessuno può dire nulla in tal proposito, ne l’opposizione che sembra - leggendo quanto dichiarato nel loro comunicato stampa - un disastro, ne tantomeno certa informazione che disinforma più che informare e che domani farà quello che sa far meglio ovvero disinformare, in maniera scientifica, perniciosa ed interessata.

Il Ministro Tremonti dopo ben 45 minuti di incontro riservato con la delegazione sammarinese è uscito in conferenza stampa dicendosi onorato di un incontro con il Governo sammarinese,

Se non vi siete persi tra “quest’oggi” (che poi è una tautologia perché “oggi” viene dal latino hoc die e quindi “questo” è pleonastico e sbagliato) e negli scioglilingua tipo “l’informazione che disinforma più che informare…”, questa è la dichiarazione testuale di Tremonti: ”Sono convinto della trasparenza e della buona volontà e disponibilità da parte del governo sammarinese di venire in contro alle esigenze legali ed erariali della Repubblica Italiana su tantissimi temi e per questo ci impegniamo a firmare un trattato con San Marino, che si deve e si può fare in parallelo con il moneyval o in corrispondenza in tempi i più brevi possibili. Sono convinto che la Repubblica di San Marino avrà un ottimo risultato in termini di standing e legalità. Sono convinto che un equivalente effetto positivo ci sarà anche per la Repubblica Italiana in modo che voi possiate festeggiare il vs. 1709esimo e noi il nostro 150esimo anno della fondazione della Repubblica”.

Tremonti aveva detto a margine una marea di altre cose sulla necessità di un cambio di marcia di San Marino, ma pazienza.

Sicuramente ha riassunto male il mio carissimo e bravissimo amico Paolo Rubino che per l’Ansa aveva così battuto: (ANSA) - RIMINI, 28 AGO - Un trattato in materia fiscale con San Marino potrebbe essere firmato ''nel piu' breve tempo possibile''. Una riunione ''tecnico operativa'' ci sara' nella prima meta' di settembre. Lo ha detto il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, dopo un incontro con i segretari di Stato del Titano alle Finanze, Gabriele Gatti, e agli Esteri, Antonella Mularoni. Ma il ministro, che ha elencato una serie di dati che mostrano incongruenze e sarebbero il segno di situazioni da chiarire, ha sottolineato che il trattato dovra' tener conto delle particolarita' dei rapporti che San Marino ha con l'Italia, unico paese confinante, e che hanno quindi per noi caratteristiche uniche rispetto agli altri Paesi a tassazione agevolata.(ANSA). RUB

Il “comunista” Rubino ha dettato più tardi: (ANSA) - RIMINI, 28 AGO - L'incontro e' durato circa mezz'ora, a margine del Meeting di Rimini. Subito dopo, in un incontro con i giornalisti, il ministro Tremonti ha parlato di ''interesse allo sviluppo di rapporti di amicizia'' ma anche di dati economici e fiscali che, sembra aver lasciato intendere, potrebbero indicare anomalie che appaiono non giustificate in rapporto al numero di abitanti''. Per esempio - ha detto il ministro - ''il contante servito da Eurosistem tramite Bankitalia e' un po' elevato, un miliardo di euro nel 2008''. Un valore in proporzione ''venti volte superiore alla media italiana''. Poi i dati sui depositi, incongruenti pur ''considerando la propensione al risparmio'' nella Repubblica del Titano: una media di 229.698 euro a San Marino, 13.559 in Italia. Le auto ''premium'': il 20% a San Marino, il 9 in Italia. Gli 8mila italiani a vario titolo residenti a San Marino: soggiorni, residenze, ''se non e' zuppa e' pan bagnato - ha detto Tremonti - Abbiamo l'impressione che c'e' chi non paga le tasse ne qui ne la': se non le paga da loro la cosa ci lascia freddi, se non lo fa da noi qualcosa si deve fare''. Quindi il dato sulle imprese: 3.680, di cui 800 commerciali e duemila nei servizi: pur ''non sottovalutando la vocazione imprenditoriale'' a San Marino, dice Tremonti, sembrano ''un po' troppe'' considerando il numero di abitanti che comprende ''vecchi e bambini''. Sull'Iva, poi, bisogna arginare ''meccanismi di frode carosello che potrebbero avere un certo rilievo''. Cosi' il trattato in materia fiscale su cui si sta trattando deve recepire lo schema dell'Ocse per i rapporti con i paesi a tassazione agevolata ma ''dovra' anche contenere una serie di meccanismi - dice Tremonti - che consentano di monitorare e ridurre questi fenomeni''.(ANSA) RUB-FLB


UNA DOMANDA PER IL BENE DEI DUE PAESI


Debbo confessarvi che – specialmente dopo le numerose mail di affetto giuntemi da quel Paese – ho sempre più in simpatia San Marino. Il mio Paese lo amo alla follia e dunque, per il bene di entrambi, faccio una domanda semplice semplice al Governo italiano, al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al ministro dell’Economia Giulio Tremonti e a San Marino tutta: dal segretario di Stato Mularoni in poi. Maggioranza e opposizione (a proposito: ho visto che, come in Italia, l’opposizione arranca…che ne dice l’opposizione sammarinese della riforma delle licenze? E cosa ne pensa?).

Ma davvero le ratifiche agli accordi – secondo il vostro parere – possono precedere la riforma delle licenze a San Marino dopo tutto quello che la sentenza Licenzopoli ha svelato?

Davvero un passo così importante (previsto per settembre secondo i governanti sammarinesi) può essere compiuto prima che le falle telematiche, la catena dei controlli, la scoperta delle connivenze, l’individuazione dei colpevoli (ricordiamo che San Marino ha anche istituito una Commissione d’inchiesta per svelare le eventuali omissioni o responsabilità) giunga a compimento (tutti passi attesi con la riforma legislativa possibilmente entro l’anno ma non certo a settembre a sentire le dichiarazioni ufficiali)? E i contenuti della riforma quali saranno? Non lo sa nessuno ma un dato è certo: saranno vitali per un cambio di passo nei rapporti tra i due Paesi.

Capisco proco di diplomazia e politica bilaterale o multilaterale ma a me sembrerebbe come accordarsi per una gita in macchina senza avere controllato la scadenza dell’assicurazione o mettersi d’accordo su una ricerca scientifica senza garantirsi di avere i laboratori. O, peggio, stringersi la mano, senza assicurarsi che nessuno dei due abbia batteri da trasmettere alla salute dell’altro.

Non scrivo con le mie parole ma riporto quelle del collega Gerevini che conclude il suo bell’articolo – che da conto tra le tante cose, lui tapino, del ruolo svolto nello svelare lo scandalo dall’”Informazione di San Marino”, che testualmente definisce “battagliero e assai diffuso quotidiano sammarinese” -  scrivendo: “…la legge c’è ma non può essere applicata perché manca l’archivio e chi commette reato violandola se la cava perché è come se la legge non ci fosse. A San Marino ignorantia legis excusat”.

Berlusconi, Tremonti, Mularoni, Gatti, italiani e sammarinesi: per il bene dei due Paesi si possono davvero firmare gli accordi senza aver prima l’approvazione e il contenuto della legge di riforma della legge 165/2003 sul rilascio delle licenze? Davvero – come ha dichiarato il segretario di Stato all’Industria Arzilli  nella conferenza stampa del 17 agosto – la questione Licenzopoli può essere liquidata “come una questione interna a San Marino”? Interna?

Visto che ormai la querela è un’arma adottata in moltissimi casi per cercare di tappare la bocca ai giornalisti, addirittura quando essi pongono semplici domande per il bene della collettività, rischio, e con orgoglio. Mi piacerebbe che qualcuno mi rispondesse, a partire dai politici sammarinesi. Per loro la mia penna è affettuosamente in servizio permanente effettivo. Viva l’Italia a viva San Marino (non piangete come cammelli tunisini, please!)

roberto.galullo@ilsole24ore.com

da ilsole24ore.com


Titolo: Falcone muore ogni giorno allo Zen di Palermo nell’indifferenza dei “polidrilli”
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 05:44:27 pm
06/09/09


Falcone muore ogni giorno allo Zen di Palermo nell’indifferenza dei “polidrilli”. E lo Stato? E’ un grande preside
Ho più volte scritto e detto nei mezzi che ringraziando Iddio il Sole-24 Ore mi mette (per ora) a disposizione (giornale, Radio24 e blog), che i giornalisti non sono più in grado di cercare e trovare notizie.

Non credo di essere più bravo degli altri in una categoria composta in buona parte da mediocri che non studiano e non osano, pidocchi raccomandati e viscidi lacchè, ma credo ancora e sempre nei valori. E il valore sociale di una notizia guida sempre il mio modesto istinto.

Trovare notizie, oltretutto, è scomodo. Espone. Sempre. Espone nei confronti di gente malata di protagonismo, di gente malata tout court e di quelli che io chiamo “gli impuniti”, categoria molto più pericolosa dei politicanti intoccabili o dei mafiosi (che spesso sono la stessa cosa) che vanno avanti a colpi di minacce, deliri di onnipotenza e querele.

Gli impuniti sono persone marce dentro. Come le mele apparentemente ingolosiscono e inducono in tentazione. Poi li mordi senza paura come deve fare ciascun giornalista degno di questo nome e loro risalgono magicamente sull’albero del potere che si nutre di una linfa mortale, fatta di disvalori.

Oggi vi voglio parlare di una storia di quelle che non si raccontano perché tanto fa più notizia il culo della Rodriguez, le tette della Ventura o la prestanza del tronista Vitaliano.

Una storia drammatica (e uso il termine a ragione) che domani e dopodomani (lunedì 7 e martedì 8 settembre 2009) potrete anche ascoltare dalla viva voce dei protagonisti nel mio programma “Un abuso al giorno” in onda su Radio24 alle 6.45 e in replica alle 20.45 (chi vuole può comunque scaricare anche successivamente l’ascolto andando nell’archivio del sito www.radio24.it).


LA SCUOLA FALCONE DISTRUTTA NEL SILENZIO


Ricorderete la parata di politici coccodrilli (quelli che piangono lacrime di ipocrisia dopo aver divorato o irriso la preda che spacciano per amica) che hanno fatto bella mostra nell’anniversario della morte del giudice Giovanni Falcone. Ne scrissi su questo blog il 23 maggio (in occasione del 17esimo anniversario), invitando il ministro dell’Istruzione Mariastella stellina Gelmini a rendere obbligatorio fin dalla scuola elementare lo studio della legalità. Forte anche di un a ricerca shock del Centro Mafiacontro di Palermo secondo la quale per il 24% degli studenti la mafia è tradizione. Soltanto uno su due crede che Cosa Nostra sia un danno per l’intera società. Uno su due, infine, affronta “poco o mai” con gli amici il tema della criminalità organizzata. Anche questa una notizia passata in cavalleria. Tanto una sola lacrima di un “polidrillo”, il politico-coccodrillo, è in grado di affogare qualunque notizia scomoda.

Ebbene avevo ragione a criticare quell’ennesima, inutile parata.


I “POLIDRILLI” SE NE FREGANO DELLA SCUOLA FALCONE


Dove sono i “polidrilli” di fronte allo scempio quotidiano ai danni della scuola “Giovanni Falcone” nel quartiere Zen di Palermo? Negli ultimi anni si è perso il conto degli atti di vandalismo, senza contare la sfida continua che attende i professori ogni santo giorno che si alzano dal letto e si recano in un istituto scolastico in uno dei quartieri più difficili d’Italia, dove Cosa Nostra non solo la vedi: la respiri a ogni angolo.

Un mese fa, in quella scuola, in quel quartiere, il salto di qualità con una serie di raid scientificamente pianificati. Palestra distrutta e un incendio a due aule che le ha annientate, danneggiandone altre sette. A gennaio altri raid, continue intimidazioni ogni giorno e a maggio (un mese ancora una volta scientificamente scelto dai quaquaraqua di Cosa Nostra) furti e persino spari a raffica contro aule e palestre.

Non bisogna solo abbattere una scuola che porta il nome del giudice Falcone, non bisogna solo intimidire, non bisogna solo riaffermare che lo Stato lì sono le cosche. Nossignori. Bisogna innanzitutto allontanare il sapere e la formazione, ciò che la scuola rappresenta. Lo aveva capito e urlato il grande scrittore siciliano Gesualdo Bufalino, che amava ripetere che la mafia si sconfigge con un esercito di insegnanti.

Alla testa degli insegnanti di questa scuola c’è un Uomo, un preside coraggioso, Domenico Di Fatta, impegnato con la sua squadra a strappare i bambini dalla strada e dalle mani dei mafiosi. Impresa disperata. Quest’Uomo non è solo un preside è anche l’unico (ripeto: l’unico) rappresentante dello Stato allo Zen di Palermo. Non esiste una caserma dei Carabinieri, un avamposto della Polizia (magari anche un camper attrezzato), che so un ufficio del Corpo forestale dello Stato o una stanza per la Guardia di Finanza. E la polizia municipale? “Ha tanto da fare e fa quel che può” dice l’assessore Grisasi. Ma ne siamo davvero convinti? Insomma: zero, zero, zero. Solo una scuola e il suo preside. Il preside e il suo corpo docente. Grande Italia no? Solo chiacchiere, neppure il distintivo.

Per Di Fatta gli ultimi episodi sono pianificati a tavolino. “E’ strano – dirà dai microfoni di Radio24 – che alcuni giorni prima degli ultimi raid, le telecamere di sorveglianza siano state oscurate e danneggiate. L’ultima registrazione risale all’8 giugno. No, questa volta vogliono far chiudere la scuola”.


E IL COMUNE? PROMETTE, PROMETTE E PROMETTE…


Il silenzio della politica nazionale è imbarazzante. Soltanto Sonia Alfano, europarlamentare dell’Italia dei valori (Idv) ha alzato la voce da tempo e, conoscendola, non ho dubbio che urlerà la sua rabbia anche a Bruxelles. Il neo assessore all’Edilizia scolastica e istruzione, Francesca Grisasi, non ha fatto in tempo a insediarsi (in settimana) che già si trova questa grana immensa. Una sfida vitale per chi vuole distinguersi nella giungla della politica parolaia. “Ho già contattato il preside – afferma – e il nostro appoggio non mancherà”. Il tempo sarà galantuomo, anche perché alcuni mesi fa il Comune aveva detto di non avere un euro in cassa. Dai politici locali parole, parole, parole. E gesti a effetto, come l’acquisto di vernici, rulli e pennelli per ridipingere alcune aule. Nel frattempo a resistere sono in pochi nel quartiere, tra i quali si distingue il Movimento Z.E.N, acronimo che sta per “Zona Energie Nuove”.


L’IMPEGNO DI MARIA FALCONE E LA SCUOLA DI ERICE


Ad alzare la voce e a urlare la sua rabbia c’è la sorella del giudice, Maria Falcone, che recentemente ha chiesto e, credo, ottenuto dallo Stato uno stanziamento straordinario di 50mila euro.

Ma le risorse finanziarie servono a poco se il fuoco di Cosa Nostra cova e divampa. E ne sa qualcosa il sindaco di Erice, Giacomo Tranchida che di fronte all’incendio doloso che ha distrutto nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2009 la scuola dedicata a Salvatore e Giuseppe Asta ha gridato: “Bestie, bestie, bestie”.

La scuola è alla memoria dei gemellini di 6 anni trucidati dal tritolo mafioso assieme alla mamma, Barbara Rizzo, il 2 aprile 1985 quando Cosa Nostra voleva eliminare il giudice Carlo Palermo, piazzando un’auto imbottita di tritolo sulla strada di Pizzolungo, percorsa dal magistrato che da meno di 50 giorni lavorava nella Procura di Trapani.

Il rogo è stato spento, la comunità di Erice ha reagito stancamente. Proprio come la politica nazionale: Governo e opposizione che si riempiono la bocca di belle parole e fanno poco. O nulla.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

da ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. Primarie di Calabria: le ‘ndrine varcano i seggi ed entrano ...
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2009, 05:38:25 pm
09/09/09


Primarie di Calabria: le ‘ndrine varcano i seggi ed entrano nell’urna? E la Toscana svela che la privacy nel voto…
Non bastassero i problemi che, atavicamente, la Calabria si trascina, il Consiglio regionale ha pensato bene (all’unanimità o quasi) di aggiungerne uno. Il 25 agosto, infatti, nel silenzio dei media (eccezion fatta per il Sole-24 Ore che ne ha anticipato i contenuti il 16 luglio e il 14 agosto 2009 e pochi altri media, soprattutto locali), è entrata in vigore la legge sulle primarie per l’elezione del candidato Governatore.


Di questa legge parlo anche nella mia trasmissione “Un abuso al giorno” in onda su Radio 24 alle 6.45 i giorni 9, 10 e 11 settembre (in podcast sul sito www.radio24.it, nell’archivio della trasmissione, dopo pochi giorni è possibile scaricare le puntate e ascoltarle).

Sorvoliamo sull’opportunità del consiglio regionale di concentrarsi – tra i mille problemi che restano e resteranno sul tappeto calabrese, dall’occupazione all’ambiente, dalla sanità alla pervasività della ‘ndrangheta – su un tema come le primarie e concentriamoci invece sugli aspetti a dir poco inquietanti e tutti collegati: privacy, segretezza del voto e condizionamenti mafiosi.

Legge che – vale la pena di sottolinearlo, a testimonianza che in Calabria destra, centro e sinistra sono categorie puramente virtuali – è stata approvata con il solo voto contrario di Michelangelo Tripodi (Gruppo Misto) e Maurizio Feraudo (Italia dei Valori). Da notare però che quest’ultimo politico è stato però sottoposto a un fuoco amico incrociato dei suoi stessi colleghi di partito che a momenti lo linciavano per la sua opposizione in consiglio.


AVANTI POPOLO. TANTO PAGA MAMMA REGIONE


Il meccanismo della legge è semplice e si svolge tutto in un solo giorno. Alla Regione il compito di scrutinare i voti e comunicare i risultati; ai partiti il dovere di rispettarne (teoricamente) l’esito al momento della composizione delle liste da presentare alle elezioni.

I partiti non saranno obbligati espressamente allo svolgimento delle primarie ma se non procederanno all’istituzione dei seggi e alla scelta di concorrere con le primarie, perderanno il diritto al rimborso che ha un tetto: 100mila euro. Ergo…

A pagare sarà infatti mamma Regione che ha contemplato la copertura finanziaria: 600mila euro che serviranno anche per l’allestimento di uno o più seggi in tutti i Comuni e per il pagamento del personale addetto. Soddisfatti per le primarie e persino rimborsati.


LE COSCHE FAN CUCU’, LE COSCHE E POCO PIU'


Il paradosso potenzialmente devastante è nel comma 1 dell'articolo 9 della legge prevede che l'elettore, al momento del voto, si presenti al seggio e chieda al presidente o vicepresidente del seggio «la scheda della lista, o della coalizione di liste, per la quale intende votare», previa esibizione di un documento di identità valido (comma 3). La scheda, dopo essere stata votata, sarà introdotta «nell'urna riservata alle schede della lista per la quale l'elettore ha espresso il voto» (comma 4). Anche se il comma 6 vieta «qualsiasi registrazione o annotazione della scheda richiesta dall'elettore», la segretezza del voto di fatto sarà una chimera. Segretezza che verrebbe meno a maggior ragione per quanti – a esempio magistrati o appartenenti alle Forze dell'Ordine e, perché no, giornalisti – volessero votare ma sarebbero di fatto impossibilitati visto che il loro status impedisce di rendere palesi le proprie preferenze politiche. “Queste categorie – ribatte il costituzionalista Andrea Morrone, dell'Università Alma Mater di Bologna e consulente della Regione – farebbe bene ad astenersi e comunque è un’ipocrisia, visto che la magistratura è divisa per correnti che si rifanno a posizioni politiche e spesso partitiche”.





LA DURISSIMA POSIZIONE DEI MAGISTRATI ANTIMAFIA






«Praticamente il cittadino è costretto a rendere pubblica la sua opzione di schieramento politico in contrasto con la segretezza del voto sancita dalla Costituzione – ribatte il sostituto procuratore nazionale antimafia Alberto Cisterna – e a rimanere segreto è solo il nome del candidato per il quale si esprime la preferenza».

La porta resterebbe dunque spalancata per i padroni delle tessere e per i condizionatori del voto che in Calabria spesso coincidono. «In contesti caratterizzati dalla presenza invasiva di associazioni mafiose – afferma ad esempio il sostituto procuratore nazionale antimafia Vincenzo Macrì – il cui potere di condizionamento elettorale è stato accertato in molte indagini penali condotte dalle Direzioni distrettuali antimafia di Catanzaro e Reggio Calabria, come sarà possibile per il singolo elettore esprimere, senza la copertura del segreto, una scelta difforme da quelle dettate, imposte, o suggerite dalle associazioni, i cui esponenti usano presiedere i seggi per meglio controllare l'andamento delle elezioni?». «I partiti calabresi – aggiunge Cisterna – sono chiamati a scelte coraggiose selezionando, tra le tante persone perbene di cui dispongono, i migliori ossia gli onesti e i capaci. Solo così la 'ndrangheta eviterà la campagna elettorale del 2010 e si eviteranno pellegrinaggi in Aspromonte e quanto altro, da qualche decennio, segna una parte non indifferente della vita politica della Calabria».



LA RISPOSTA DEL  “PADRE PUTATIVO” DELLA LEGGE






Domande e riflessioni pesanti in terra di ‘ndrangheta, che non hanno mancato di sollevare la risposta indignata del presidente del Consiglio regionale, Giuseppe Bova (Pd), che orgogliosamente rivendica la paternità e l’idea della legge. « Dopo l’approvazione, il 6 agosto – dichiara Bova - della legge regionale sulle primarie per i candidati alla carica di presidente della Giunta, alcune autorevoli personalità calabresi hanno manifestato qualche perplessità in merito ad una supposta violazione del principio di segretezza del voto, quale sancito dall’articolo 48 della Costituzione. Si tratta di un problema che è stato già oggetto di attenta valutazione da parte di valenti giuristi che hanno escluso un siffatto profilo di incostituzionalità. Infatti, la proposta di legge approvata dal Consiglio regionale, come del resto tutte le altre forme di svolgimento delle primarie, rappresenta un metodo democratico e ordinato di dichiarazione pubblica della propria appartenenza politica e del proprio impegno diretto nella scelta dei candidati. Nulla a che vedere con il voto in occasione delle elezioni. La partecipazione alle primarie è una delle espressioni, forse la più alta, di cittadinanza attiva in politica, come lo sono la sottoscrizione delle candidature, l’accettazione delle funzioni di rappresentante di un candidato o di una lista o la stessa iscrizione ad un partito politico. Ovviamente nulla impedisce, a chi non vuole esporsi, di non partecipare, trattandosi di un’opportunità di partecipazione aggiuntiva che l’ordinamento mette a disposizione dei cittadini. Insomma, un “di più” di democrazia.  E questo, secondo noi e i costituzionalisti che ci hanno assistito, non riguarda in alcun modo il diritto – dovere di voto sancito dal secondo  comma dell’articolo 48 della Costituzione. Infatti non si tratta di un voto per eleggere qualcuno nelle istituzioni, ma di un procedimento pubblico e formale per la selezione dei candidati».





LA TOSCANA SVELA CHE LA PRIVACY E' UN PROBLEMA




Dopo l’uscita dei miei servizi sul Sole-24 Ore e a Radio24, ho avuto la graditissima sorpresa di ricevere una mail di Antonio Floridia, responsabile dell’Ufficio elettorale della Regione Toscana, che un gran contributo diede alla legge toscana sulle primarie, la 25/2004, fino al 6 agosto prima e unica in Italia, presa poi a esempio (secondo le dichiarazioni dei politici calabresi) dalla Regione Calabria.

Floridia interviene su un punto focale: la privacy e fa anche riferimento a un suo pregevolissimo studio.

“La versione originaria della legge toscana- scrive Floridia - riproduceva sostanzialmente la soluzione ora prevista dalla legge calabrese, a proposito di schede e segretezza del voto. A quel tempo, però, per via informali, l'allora Garante per la privacy Rodotà ci fece sapere che forse c'erano problemi..e, di corsa, furono introdotte delle modifiche. Cinque anni fa, in effetti, eravamo perplessi anche noi...ma si accettò il consiglio di Rodotà per motivi pratici...la macchina organizzativa era già in moto e, soprattutto, erano un solo partito, i Ds, a fare le primarie, e quindi faceva poca differenza la soluzione della scheda unica o della scheda separata da richiedere...Però, la questione di principio resta.
Spero di fare cosa gradita inviandole un mio saggio in cui si affronta, tra l'altro, questo tema (pp. 11-15): in sostanza, le primarie sono una forma di partecipazione politica, aperta, pubblica e visibile e per esse non possono valere le stesse garanzie di segretezza del voto che valgono per le elezioni "normali". Perché? perché nella segretezza del voto il partito perderebbe ogni possibilità di controllo sugli elettori che partecipano...Nel mio lavoro cito anche alcune sentenze della Corte suprema americana, in materia di primarie, che mostrano come, quanto meno, la questione è aperta e controversa. Sarà quindi interessante vedere se, dopo la legge calabrese, si riaprirà la questione...anche eventualmente sollecitando un pronunciamento della Corte Costituzionale”.



ASPETTANDO LA RISPOSTA DEL GARANTE E DELLA CONSULTA…


E in attesa di capire se il Garante per la privacy (il cui vicepresidente è l’ex Governatore della Regione Calabria, Giuseppe Chiaravalloti) è stato contattato anche informalmente o lo sarà e in attesa di sapere se la Corte Costituzionale

sarà adita o meno, è importante sottolineare un’ultima cosa. Il rischio di infiltrazioni e condizionamenti, all’interno e all’esterno del seggio elettorale, secondo molti osservatori con questa legge raddoppia. Oltre al rischio nelle elezioni primarie – come abbiamo descritto – c’è quello vero, reale e più volte conclamato durante lo svolgimento delle vere e proprie elezioni amministrative che, ricordiamolo, in Calabria come in altre Regioni, sarà nel 2010.
Se qualcuno pensa che il problema delle elezioni primarie per il candidato Governatore fosse il primo nella lista dell’agenda politica calabrese alzi la mano. E mi mandi, magari, un commento…

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com
da ilsole24ore.com





Titolo: Roberto GALULLO. /1 - Sanità calabrese al collasso: il giallo dell’accordo ...
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2009, 12:07:35 am
13/09/09

Esclusivo/1

Sanità calabrese al collasso: il giallo dell’accordo di ferragosto sui crediti delle case di cura


In Calabria i giorni che precedono ferragosto sono giorni di mangiate pantagrueliche. Il 15 poi è l’apoteosi: con i parenti che arrivano da tutto il mondo, pinete, battigie, case e persino carcasse di automobili arrugginite sono un pullulare di peperoni arrostiti, melanzane e vino a fiumi. Le sbronze non si contano e anche le panze cantano.
Fino alla settimana successiva.

Fumi del cibo e dell’alcol che – verosimilmente – si sono tenuti lontani da Cosenza.

Mentre la Giunta della Regione Calabria, neppure 72 ore fa, ha approvato un piano che non si è neppure avuto il coraggio di chiamare di “rientro” dal deficit sanitario ma più prosaicamente “Piano di riqualificazione e riorganizzazione sanitario”, Cosenza si era già portata avanti. Sobria come una pulzella, l’Azienda sanitaria ospedaliera (Asp) di Cosenza, il 17 agosto ha firmato la transazione dei crediti pregressi delle case di cura. Un accordo che farà scuola. O che, invece, diventerà carta straccia.

Il 20 agosto – protocollo n. 22154 – l’Assessorato alla Tutela della salute e politiche sanitarie, ha ricevuto la gioiosa notizia. L’assessorato fa direttamente capo al Governatore Loiero Agazio che ha trattenuto per sé la delega.


IL DEBITO MISTERIOSO DELLA SANITA’ CALABRESE


Cosenza del resto, è sempre stata il salotto buono della Calabria. Lì i salotti partoriscono miracoli a grappoli. Intanto la Regione non sa neppure quale sia il deficit sanitario che la sta portando sull’orlo del baratro.

In un documento firmato dai tre segretari regionali di Cgil, Cisl e Uil del comparto regionale sanitario (Alfredo Iorno, Natale Pace e Raffaele Gentile) l’11 settembre (all’indomani delle 85 pagine del Piano spedite a Roma e che rimandano a un successivo elaborato da produrre entro 90 giorni), il trio scrive: “…non si ha notizia del lavoro di ricognizione del debito da parte di Kpmg, profumatamente pagato dai calabresi…non possiamo accettare che il quadro complessivo del debito emerso continui a restare un mistero, alimentando il sospetto che la mancanza di dati contabili non ne consenta la sua esatta quantificazione…”

Questo mentre – e basta leggere le cronache nazionali – in Calabria si continua a morire di episodi di presunta malasanità. Il condizionale è d’obbligo.


L’ASP DI COSENZA QUADRA I CONTI E ARRIVA

LA TRANSAZIONE



Mentre la sanità calabrese è al collasso e mentre i 42 ospedali a inizio legislatura di Loiero Agazio che dovevano diventare 12 sono ancora tutti lì, l’Asp di Cosenza e il suo direttore generale Franco Petramala, uomo vicinissimo a Loiero, transigono con i privati.

A quest’uomo i conti sanitari stanno talmente a cuore che mentre i concittadini preparano i bagordi e svuotano le panze in attesa di riempirle oltremisura, alla presenza del presidente nazionale delle aziende di spedalità privata (Aiop), Enzo Paolini, chiude il contenzioso dal 2000 al 2007.

Se non leggo male l’accordo raggiunto, che porta le firme di Petramala, Paolini, e Pasquale Autolitano (Anaste) sul credito complessivamente preteso di 73, 219 milioni, la transazione è stata chiusa a 39,2 milioni (più gli interessi, se, non ho capito male).

Un successo che fa giustamente gridare di giubilo Petramala che scrive nella lettera in capo a Loiero: “…il raggiungimento di un accordo siffatto, chiaro e definitivo per quanto riguarda gli anni di riferimento e il contenzioso pregresso, contribuisce, secondo noi, a realizzare lo spirito e le indicazioni della citata delibera regionale ai fini di una corretta e non equivoca individuazione delle voci del piano di rientro relative al comparto della sanità privata”.

Bene, bravo, bis, Ma la domanda che vorrei porre a questo punto alla Giunta regionale – forse all’oscuro di questa prima transazione, forse no – è la seguente: questo accordo ha le basi giuridiche e legislative per essere siglato?

Scusate se sono un rompimaroni, ma vorrei segnalarvi quanto segue cari assessori regionali, dirigenti sanitari, consiglieri calabresi, parlamentari calabresi e Governo nazionale. Seguitemi please. Vorrei che qualcuno mi rispondesse.


IL VERBALE DI TRANSAZIONE DI COSENZA E GLI EXTRABUDGET


Nel verbale di transazione firmato a Cosenza, tra i “visto che” e i “premesso che”, si legge che: “…agli atti risulta che già nel 2006 era stata siglata dal direttore generale dell’epoca, dott. Giovambattista Aquino una transazione che, redatta di pugno dal consulente giuridico dell’Assessore Doris Lo Moro, prof. Avv. Carlo Mazzù dell’Università di Messina, conduceva al riconoscimento, a titolo di indebito arricchimento, degli importi inerenti prestazioni extrabudget riportate in allegata tabella ridotti del 15,50%”.

Ma il prof. Mazzù – che ho avuto il piacere di conoscere personalmente alcuni anni fa nel corso di un’ìnchiesta condotta a Palmi – aveva davvero fatto quella scelta?


IL COMUNICATO STAMPA UFFICIALE DELLA GIUNTA REGIONALE


La mia debole memoria ha avuto bisogno, ancora una volta, di scartabellare tra i comunicati stampa della Giunta della Regione Calabria. Finita la spulciatura ho trovato ciò che la mia vecchia memoria baluginava: un comunicato siglato p.g. del 27 ottobre 2006. Titolo secco come una punizione di Totti: “Il Presidente Loiero e l’assessore Lo Moro hanno incontrato una delegazione dell’Aiop”.

Svolgimento: “…l’assessore Lo Moro ha ripercorso i termini della trattativa escludendo che per il pregresso si possa arrivare a pagare i fuori budget dato che una sentenza del Consiglio di Stato, in seduta plenaria, toglie ogni possibilità di accettare le spese non previste”.

Ma come? Possibile che l’assessore e Loiero Agazio dicano una cosa – cioè: care case di cura private toglietevi dalla capa i fuori budget perché è illegittimo – e l’esimio prof Mazzù da Messina dica il contrario? E per dinci e anche per bacco, scriva questo di “suo pugno”?



LA RACCOMANDATA CON RICEVUTA DI RITORNO


 DA MESSINA A CATANZARO


Una lettera raccomandata con R/R spedita il 25 ottobre da Messina. Mittente Mazzù, destinatario Lo Moro conterrebbe più o meno queste affermazioni: “…nessun procedimento transattivo si è mai perfezionato…proprio perché il procedimento è stato interrotto su disposizione del direttore generale dell’assessorato, inviata a seguito di mia segnalazione delle decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n 8/2006…che eliminava in radice la possibilità di transigere sugli importi extrabudget”.


IL CARTEGGIO D’AMOR LO MORO – LOIERO AGAZIO


Ma allora anche Mazzù era sobrio! Ma allora chi ha autorizzato il pagamento dei debiti extrabudget? Babbo Natale, il legislatore regionale, Gianni e Pinotto? Chi? Ditemelo, di grazia! E si perché delle due l’una: o ha ragione Petramala a transigere anche sui debiti extrabudget – che complessivamente in Calabria per il solo periodo 200/2005 non sono inferiori a 200 milioni – e dunque a ruota tutte le Asl e Asp calabresi sono legittimamente autorizzate a farlo, oppure hanno ragione il duo di piccioncini innamorati Lo Moro-Loiero, con Mazzù a reggere il moccolo.

Illuminante può essere una lettera del 29 ottobre 2007 in cui Lo Moro scriveva a Loiero Agazio: “…in quella sede l’Aiop aveva preso atto della posizione assunta dall’Assessorato che non riteneva più possibile cercare una soluzione transattiva sugli importi extrabudget a seguito della decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n.8/2006”.

Tutto chiaro? No? Ancora qualche dubbio? E allora seguite anche il prossimo post – in linea da giovedì 17 settembre - sulle fantasmagoriche avventure del deficit sanitario calabrese e ne scoprirete delle belle… anche sulla cacciata dell’assessore Lo Moro. Io, nel frattempo, attendo risposte ai miei dubbi.

Roberto.galullo@ilsole24ore.com

1/ to be continued


da ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. Stop nel '95 per la nave dei veleni
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:45:13 pm
Stop nel '95 per la nave dei veleni

di Roberto Galullo


Cento milioni o, se preferite, al cambio odierno poco più di 50mila euro. Fu questa la cifra rifiutata dal ministero della Giustizia nel '95, allora retto da Filippo Mancuso, alla Procura di Reggio Calabria che stava indagando sull'affondamento a largo delle coste calabresi di alcune navi dei veleni. Con quella cifra si sarebbe potuto rintracciare le navi affondate nel Mediterraneo con il loro carico di morte, che ora potrebbe tornare a galla con il rinvenimento della Cunsky a largo delle coste di Cetraro (Cosenza).

La rivelazione è di Francesco Neri, titolare nei primi anni Novanta dell'inchiesta, passata poi nel '96 alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio per il coinvolgimento presunto (all'epoca ma poi dimostrato) delle cosche reggine.

Neri non ha raccontato questa notizia neppure quando fu audito in Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti in trasferta a Cosenza il 18 gennaio 2005. In quell'occasione si limitò a dire: «Avevo chiesto già alla Nasa di aiutarmi nella ricerca, per cui con determinati satelliti saremmo riusciti a trovare le navi. Invece, il collega, giustamente, anche perché vi erano problemi in termini di soldi, si è rivolto all'Anpa ma l'Anpa non ha trovato la nave Rigel».
Oggi Neri, fiaccato dalle minacce e chiamato a deporre davanti al Gip di Cosenza il 14 ottobre – dopo l'archiviazione dell'inchiesta sull'altra nave dei veleni Jolly Rosso, a causa di una denuncia presentata nei suoi confronti dall'armatore Ignazio Messina –, vuota il sacco. «Avevo già contattato in quei mesi i tecnici della Nasa – racconta al Sole 24 Ore – che mi dissero che con un loro satellite sarebbe stato tecnicamente possibile risalire alla posizione esatta della nave Rigel e delle altre delle quali sospettavamo l'affondamento. In tutto una trentina. Anche i Lloyd, la compagnia di assicurazione inglese, aveva tutto l'interesse a risalire alla verità. E anche l'Imo, l'Istituto dell'Onu che si occupa della sicurezza della navigazione, che avevo provveduto a contattare, ci disse che l'unica nave nel mondo che era affondata quel giorno era proprio la Rigel. Quindi, l'Istituto aveva avuto contezza dell'affondamento della Rigel".

Neri ricorda anche i particolari. «Fu proprio il mio diretto superiore a Reggio, Francesco Scuderi – continua nel filo del racconto – a prendere contatti con il ministero. Prima fece l'iradiddio per essere ascoltato e poi inoltrò la richiesta».
Desolante il risultato. «Quelle risorse con le quali avremmo potuto scoprire allora quello che sta venendo a galla oggi e molto di più – afferma il magistrato calabrese – furono negate senza una spiegazione. O meglio le motivazioni sono coperte da segreto e non posso svelarle certo a lei. Ma il rifiuto è agli atti, ben custodito, perché non vorrei che scomparisse come è successo con altri documenti».

Quando l'indagine passò nelle mani della Direzione distrettuale antimafia, il sostituto procuratore Alberto Cisterna ottenne dal ministero dell'Ambiente l'autorizzazione incondizionata a cercare la nave. Cercate pure, fu l'ordine, paghiamo noi. Ed in effetti per due settimane la Impresub di Trento, una società specializzata, scandagliò i fondali nel '97.
Il risultato fu nullo «perché le coordinate dichiarate per l'affondamento erano false e la stessa Impresub – ricorda oggi Cisterna – se ne rese subito conto». Le operazioni andarono avanti e ancora oggi nessuno sa quanti soldi furono spesi a fronte dei 5 miliardi di lire messi a disposizione per il recupero della nave. Molti, molti di più dei 100 milioni chiesti e negati, secondo Neri, nel '95 dal governo Dini. Resta un'ultima cosa da segnalare. Il braccio operativo del ministero era l'Anpa, l'Agenzia nazionale per l'ambiente. Ebbene, proprio su quell'Agenzia, nella seduta in Commissione del 2005, parlando della Rigel, Neri aveva rilasciato una frase sibillina: «L'Anpa era un pochino sospetta in questa vicenda». E, proseguì Neri rivolgendosi al presidente della Commissione Paolo Russo: «Lei sa, e forse qualcuno glielo avrà accennato, i rapporti tra la Nucleco (la società per l'eco ingegneria nucleare, ndr), Anpa e Comerio (Giorgio, un faccendiere, ndr). Voglio dire, è come affidare le pecore al lupo, secondo me».
E tra pecore e lupi, di terra e di mare, ancora molti sono i risvolti oscuri che nei prossimi mesi potrebbero vedere la luce.

16 settembre 2009
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da ilsole24ore.it


Titolo: Roberto GALULLO. /2 Sanità calabrese al collasso
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 05:01:44 pm
14/09/09

Esclusivo/2

Sanità calabrese al collasso: l’ex consulente sbugiarda l’Asp di Cosenza e scrive infuriato a Loiero
Dovevo saperlo. Dovevo saperlo che sbagliavo a darvi appuntamento a giovedì 17 settembre per una nuova puntata della tragicommedia sui fantasmagorici debiti sanitari della Regione Calabria.

Beninteso: quell’appuntamento resta (vi devo raccontare notizie inedite su Doris Lo Moro, magistrato integerrimo che avuto anni fa la folle idea di accettare l’assessorato regionale alla Salute).

Intanto, però, vi dico che il post di domenica sera sulla transazione raggiunta dall’Asp di Cosenza con l’Aiop (spedalità privata) sui crediti 2000-2007, compresi quelli extrabudget, ha sollevato un vespaio.

A essersi infuriato come un muflone sardo è stato per primo Carlo Mazzù, che letto sul blog che l’Asp aveva pronunciato il suo nome invano, ha preso carta penna e calamaio e ha scritto - a quanto mi risulta - una lettera a Loiero Agazio, Governatore calabro e a Franco Petramala, capo supremo dell’Asp di Cosenza e uomo vicino-vicino al Loiero Agazio che, dunque, lettera a lui diretta o meno, ha saputo della sfuriata del professore universitario di Messina, ex consulente di Lo Moro.

Alle 12.35 di oggi Mazzù ha scritto anche al mio umile indirizzo di posta elettronica. Potrete leggere di seguito la lettera – durissima sulla improvvida sua chiamata in causa – ma intanto è bene dire subito le cose che questa lettera svela:

1)     il verbale di transazione mette in bocca a Mazzù l’esatto opposto del suo pensiero e del parere che aveva messo nelle mani dell’ex assessore Lo Moro e del presidente Loiero Agazio;

2)     successivamente alla decisione del Consiglio di Stato del 2006, tutte le Asl (debitamente avvertite dalla Regione stessa, si badi bene) hanno annullato ogni delibera transattiva oppure hanno resistito in giudizio alle pretese    dell’Aiop (tanto che l’Asl 1 di Paola è ancora in giudizio);

3)     La Giunta regionale ha addirittura mandato alla Gazzetta ufficiale regionale (Bur) la delibera 169 dell’8 marzo 2007 (Bur n. 7 del 7 aprile 2007), in cui al punto 11 esclude  espressamente il diritto al riconoscimento dell’   extrabudget menzionando proprio la decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato;

4)     Nella coda della lettera il veleno di Mazzù che non vuole scandagliare i motivi della decisione assunta dall’Asp di Cosenza e che soprattutto chiama in causa il coraggio e il senso di responsabilità della Regione che potrebbe essere chiamata a decidere sulle transizioni.

5)     Il quinto punto mi fa sorridere perché se un giornalista deve supplire all’assenza della politica e delle amministrazioni, state freschi in Calabria!  Comunque a Mazzù il grazie di cuore per le belle parole spese nei miei       confronti. E proprio il richiamo alla delibera nel Bur ha acceso nella mia labile memoria un altro tassello fondamentale di questa storia.



LA DELIBERA

DELLA

GIUNTA REGIONALE: OPS!


Avevo dimenticato il particolare della delibera con la quale la Giunta al punto 11 stabiliva che della remunerazione extrabudget non se ne parlava neppure. Non mi credete? E allora beccatevi la riproduzione originale tratta dal Bur


DELIBERAZIONE DELLA GIUNTA REGIONALE

8 marzo 2007, n. 169

Programmazione S.S.R. – Ripartizione fondi anno 2007.


LA GIUNTA REGIONALE


Premesso:


  “omissis”

A voti unanimi e palesi

DELIBERA

Per quanto espresso in premessa che qui si intende integralmente ripetuto e confermato:


“omissis”


11. Di stabilire che per l’anno 2007 ove le prestazioni di assistenza ospedaliera, di assistenza specialistica ambulatoriale e residenziale e semiresidenziale, non danno diritto ad alcuna remunerazione nel caso dovessero superare i limiti massimi di spesa rispettivamente stabiliti con il presente provvedimento per ciascuna azienda sanitaria ai sensi della sentenza del Consiglio di Stato Adunanza Plenaria n. 8/2006.


“omissis”


26. Di pubblicare il presente provvedimento sul BUR della Regione Calabria.

Il Segretario                  Il Presidente

F.to: Durante               F.to: Loiero


Avete visto chi aveva firmato? Il segretario regionale Nicola Durante e Loiero Agazio. Più di cosi! Ed ora leggetevi la lettera imbufalita di Mazzù che – più o meno nelle stesse forme e contenuti – è stata spedita a Petramala e al Governatore che trattiene per sé la delega alla Sanità.



LETTERA DI FUOCO DEL PROFESSOR MAZZU’ CONTRO L’ASP


Egregio Dottore,

ho letto il Suo articolo sulla transazione tra

la Regione Calabria

(nella specie, l’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza) e l’Aiop e l’Anaste di Cosenza.

Ritengo utile contribuire a stabilire la verità storica dei fatti, anche perché ho avuto la netta impressione che il mio nome sia stato evocato strumentalmente nella recente proposta di transazione, predisposta dalle parti direttamente, senza che io ne abbia saputo mai nulla e dalla quale, come Lei ha ben compreso, ho fondate ragioni per prendere le distanze.

Innanzitutto, La informo che io in atto sono difensore dell’Asp di Cosenza in alcuni giudizi iniziati prima della unificazione delle singole Asl, promossi da alcune case di cura contro l’ex Asl n. 1 di Paola.

Appare quanto meno strano che l’Asp di Cosenza, che ha sempre avuto notizia e relazione scritta sullo stato del contenzioso, transiga accogliendo una tesi decisamente da me contrastata negli atti difensivi, in linea con quanto espresso con nota inviata all’assessorato alla Salute, da Lei citata nell’articolo.

Ancor più anomalo è il fatto che si sia trattata la transazione, senza preventivamente – non dico chiedermi un parere in proposito – ma, almeno, darmene notizia; viceversa, è stato menzionato a sproposito il mio nome, come materiale estensore di una bozza di transazione mai perfezionata, forse per accreditare l’idea che ci sia una continuità tra quella trattativa e quest’ultima, quasi un avallo da parte mia, che non c’è assolutamente per le ragioni che appresso esplicito.

Come Lei ha ben compreso, la prima trattativa si è interrotta perché – dopo la pubblicazione della decisione n.8 del 2006 dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, avvenuta in pendenza della trattativa – era venuto meno l’elemento essenziale della transazione, cioè l’incertezza sulla lite.

Infatti, quella decisione poneva fine ad una fase di giudicati contrastanti, ragione per la quale il Cga della Sicilia (investito di una vicenda analoga) aveva devoluto la decisione all’adunanza plenaria, per dire una parola definitiva ed evitare il contrasto tra giudicati dei diversi Tar italiani.

Per tale motivo, ho tempestivamente dato notizia ufficiale della novità così rilevante e preclusiva per la prosecuzione della trattativa; l’assessorato alla Salute, con nota del direttore generale pro tempore ha dato direttive a tutte le Asl di non transigere e di revocare eventuali atti predisposti nelle more.

Successivamente alcune case di cura aderenti all’Aiop hanno impugnato la revoca e la direttiva regionale ed hanno avviato i giudizi, ancora pendenti, nei quali l’ex Asl n. 1 di Paola si è costituita, resistendo e sostenendo che nessuna transazione si era perfezionata.

La posizione negativa relativa al pagamento del cosiddetto extrabudget è stata successivamente formalizzata anche dalla Giunta regionale che, nel dettare le regole per l’anno 2007, ha adottato la del. n. 169 dell’8 marzo 2007 (in Bur n. 7 del 7 aprile 2007), in cui al punto 11 del deliberato si esclude  espressamente il diritto al riconoscimento dell’extrabudget menzionando proprio la decisione n. 8 dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Questi sono i fatti, rispetto ai quali ribadisco il mio ruolo professionale di assoluta coerenza con la corretta applicazione della legge e della giurisprudenza in materia.

Non spetta a me sindacare il merito della vicenda, né scandagliare le ragioni che inducono oggi l’Asp di Cosenza e, forse quanto, prima la Giunta regionale a decidere di transigere ed a quali condizioni.

Nel ringraziarLa per l’accenno positivo all’incontro di Palmi, Le porgo cordiali saluti e resto a Sua disposizione per quant’altro occorra, manifestandoLe il mio vivo apprezzamento per la coraggiosa attività informativa che Lei conduce su aspetti tanto delicati della vita calabrese.

Messina, 14 settembre 2009


Prof.Avv. Carlo Mazzù


A questo punto – lettori curiosi esattamente come il delfino della pubblicità – vi do appuntamento a giovedì come promesso ma non escludo che domani sia nuovamente costretto a scrivere una nuova ed esilarante puntata delle “Fantasmagoriche avventure del deficit sanitario calabrese”.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

da ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. /3 Sanità calabrese al collasso
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2009, 11:58:04 pm
17/09/09

Esclusivo/3 Sanità calabrese al collasso: dai carteggi con Loiero all’interpellanza al Governo dopo i servizi sul blog
Mi trovo tra Reggio e Cetraro per seguire per il Sole-24 Ore la vicenda delle navi dei veleni affondate a largo delle coste calabresi (leggete, please, il marcio che sto svelando in questi giorni insieme ad altri colleghi).

Non per questo – tra un viaggio e l’altro – posso dimenticare che vi ho dato appuntamento ad oggi per una nuova fantasmagorica avventura del deficit sanitario calabrese.

 

L’INTERPELLANZA PARLAMENTARE DI ANGELA NAPOLI

 

E  del resto come potevo dimenticarmi! Tra un viaggio a Cetraro e uno a Paola ieri mi è giunta la notizia che quella “comunista” di Angela Napoli, ha presentato un’interpellanza parlamentare a seguito di ciò che ho scritto sulla sanità calabrese su questo blog. Troppa grazia San Francesco (di Paola) e Santa Angela!

I cultori della materia possono leggere sul sito www.angelanapoli.blogspot.com l’intera interpellanza che è stata presentata addirittura a Sua Onnipotenza Silvio Berlusconi, al ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e – ma questo è davvero troppo per il mio cuore già provato dalla sconfitta della Roma contro

la Juve

3 settimane orsono e relativo addio del grande Spalletti - a Sua Finanza il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Grazie, davvero troppo onorevole Napoli, per sdebitarmi le manderò l’intera collezione dei miei articoli sulla sanità calabrese dal Medioevo a oggi.

 

DOVE ERAVAMO RIMASTI?

 

Ma dove eravamo rimasti prima che quella “comunista” della Napoli scomodasse il Governo? Ah già, che l’Asp di Cosenza ha effettuato una transazione sui crediti pregressi delle case di cura per il periodo 2000-2007. Compreso, nell’accordo, anche la risoluzione dei debiti extrabudget che invece – così sostengono

la Regione

, l’allora consulente Carlo Mazzù e l’ex assessore Doris Lo Moro – non dovevano essere ricompresi in virtù di una decisione plenaria del Consiglio di Stato del 2006.

Bene. Io non so chi abbia ragione, fatto sta che l’avvocato Mazzù, il 14 settembre ha spedito una lettera al Governatore Loiero Agazio, al direttore generale dell’Asp di Cosenza, Franco Petramala e al sottoscritto, smentendo di aver mai avallato qualunque scelta di transazione dopo la decisione del Consiglio di Stato.

Di più. Chiama in causa

la Regione

Calabria

stessa a comportamenti lineari e ortodossi con le scelte ratificate nel lontano 2006 e impresse a vita sulla Gazzetta Ufficiale della Regione del 2007.

Mentre tutto questo accade, ecco una parte (la sola che ho, ammesso che ve ne sia altra) del carteggio che il presidente dell’Aiop (Associazione italiana spedalità privata) Enzo Paolini ha spedito al Governatore Loiero Agazio proprio mentre infuriava la polemica sulla decisione del Consiglio di Stato.

Ovviamente, come sempre, sono pronto a ricevere in qualunque momento precisazioni, lettere, note, documenti e indicazioni utili, dalle parti coinvolte. Per mestiere racconto i fatti e per mestiere voglio raccontarli senza guardare in faccia a nessuno se non al lettore e alla mia coscienza.

 

IL CARTEGGIO DELL’AIOP

 

L’avvocato Paolini scrive a Loiero Agazio il 19 settembre 2007 (e

la Regione

protocolla la lettera il 9 ottobre con il numero 4994). Nella missiva si legge che le case di cura private calabresi e l’Aiop hanno raggiunto tra maggio e luglio 2006 l’accordo sui crediti pregressi 2001-2005. Le transazioni “curate e redatte di suo pugno” dal professor Mazzù prevedevano una serie di condizioni (pagamento dei crediti certi, dei crediti in contenzioso meno il 15,50%, nessun interesse, nessuna spesa legale). Stessa formula per tutte le Asl e via al rientro di circa 200 milioni.

 

 


LA CIRCOLARE

PIROTECNICA


 

Bene. “ A novembre 2006 il dottor Faillace, direttore generale dell’assessorato, emetteva una pirotecnica circolare con la quale…invitava i direttori generali a revocare le delibere emesse”: è quanto si legge nella missiva che ricordava come l’impugnazione di fronte al Tar del provvedimento di sospensione dell’Asl di Paola, avesse fatto rivivere le transazioni e l’ordine di pagamento.

Non solo. Il Consiglio di Stato, chiamato in causa dalla stessa Asl, aveva confermato le ragioni delle case di cura. “Ora – si legge nella missiva – non c’è più motivo di resistenza o opposizione”.

Dopo questa lettera l’ex assessore Lo Moro – che aveva ricevuto la lettera dell’Aiop per conoscenza – il 29 ottobre 2007 ribadisce che in verità l’Aiop aveva preso atto del diniego sule transazioni degli importi extrabudget, in seguito alla famosa sentenza del Consiglio di Stato del 2006.

Il professor Mazzù scrive anch’egli il 25 ottobre a Lo Moro ribadendo le stesse cose e il 7 novembre 2007 Lo Moro scrive all’allora direttore generale alla Salute della Regione, Domenico Crupi, per “lasciare traccia di quanto realmente accaduto per dovere di verità ma soprattutto per tutelare le aziende sanitarie coinvolte nella trattativa e la stessa Regione Calabria”.

 

UNA INCOMMENSURABILE BUGIARDA?

 

Il 5 novembre 2007 Paolini, in maniera trasparente e limpida, ricorda che aveva chiesto le dimissioni dell’assessore “per inefficacia e assoluta incapacità a cogliere i problemi del servizio sanitario calabrese”. E poi aggiunge riferendosi a Loiero: “E’ tutta tua la responsabilità per non avergli ritirato la delega”.

A seguire Paolini ribadisce la validità giuridica degli accordi raggiunti e invita

la Regione

al rispetto degli stessi.

Ma – in un gesto estremo di coraggio, che testimonia la forza degli argomenti di Paolini che, ricordiamolo, è un avvocato preparatissimo – Paolini stesso afferma che “ritengo sia Tuo dovere (di Loiero n.d.r.) verificare la falsità o la veridicità delle affermazioni dell’assessore (Lo Moro n.d.r.) per le quali, non trovando adeguato riscontro, mi riterrò autorizzato a definirla pubblicamente una incommensurabile bugiarda, certo di poter dimostrare in qualsiasi sede il suo inaccettabile comportamento. Scusami per la nettezza e la perentorietà ma ci sono momenti in cui occorre essere chiari e diretti”

 

BLACK OUT

 

Non ho personalmente notizia né delle eventuali risposte alle missive di Paolini da parte di Loiero Agazio, né delle eventuali e ulteriori risposte dell’ex assessore Lo Morò, né di eventuali altri chiarimenti del professor Mazzù.

Non so se e cosa sia successo – epistolarmente parlando – da inizio novembre a inizio dicembre 2007.

So solo che il 30 novembre 2007 Loiero Agazio annuncerà la sua nuova squadra di Governo che non contemplerà più Doris Lo Moro, il cui posto verrà preso da Vincenzo Spaziante.

So che il 10 dicembre 2007 Paolini scriverà a Loiero Agazio informandolo che “tutti gli associati hanno convenuto sulla sospensione” della conflittualità in virtù del nuovo assetto di Governo da Te voluto e come atto di assoluta fiducia nei Tuoi confronti, ma non è possibile andare oltre senza risposte concrete”.

So, infine, che vorrei aggiungere a questo puzzle le tessere eventualmente mancanti ma so soprattutto che bisognerebbe sapere se le transazioni, la cui strada è stata aperta dall’Asp di Cosenza, sono corrette o meno. La sanità calabrese, al lumicino eccezion fatta per i soliti e noti casi di primazia, non può attendere un minuto di più. E con essa anche i contribuenti (calabresi e italiani).

Forse il Governo – chiamato in causa dall’onorevole Napoli – fra qualche anno saprà darci una risposta.


roberto.galullo@ilsole24ore.com

3- to be continued

da ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. Non solo navi dei veleni affondate...
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:57:13 am
Esclusivo/1

Non solo navi dei veleni affondate: il pentito Fonti trattò con servizi segreti, mafia e 'ndrangheta per salvare Aldo Moro
La sua parola contro il resto del mondo.

Prove: zero. Possibilità di contraddittorio: zero. Testimoni a favore: zero. Testimoni a sfavore: tutti quelli che volete, a partire dalla sua stessa vita, redenta, ancora una volta, solo sulla sua parola. Supposizioni: tante. Incroci di verità: molti.

Poco (e pochi) o nulla potranno aiutare Francesco Fonti, 61 anni da Bovalino (Reggio Calabria), uomo che ha speso una vita nella ‘ndrangheta di San Luca, la capitale della criminalità organizzata calabrese. La ‘ndrina era quella dei Romeo, che a un certo punto diventò (e vedremo come e perché) la mejo cosca der Colosseo.


FONTI, L’UOMO CHE AFFONDO’ 3 NAVI DEI VELENI


Fonti è l ‘uomo che ha guidato la Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria e la Direzione

nazionale antimafia verso il ritrovamento delle navi dei veleni che, lui stesso, ha affondato (si leggano i miei servizi da Cetraro sul Sole 24 Ore del 16, 17, 18 e 20 settembre)

Oggi Fonti – che ho sentito anche questa mattina di una domenica che invece di passare in riposo passò studiando carte e lavorando – si trova senza protezione ed è stato chiamato due giorni fa dalla Procura di Paola a raccontare ciò che sa. Fonti, però, ha ribattuto che senza un nuovo programma di protezione non si muoverà di un millimetro dal Comune in cui risiede e il cui nome, qualche testa calda, ha provveduto a far trapelare dalle colonne di un giornale (noto anche per altre vicende).

Fonti ha raccontato al Sole-24 Ore, esattamente a chi vi scrive in questo momento, e al bravissimo collega dell’Espresso Riccardo Bocca fin dal 2005, i retroscena di quegli affondamenti chiamando pesantemente in causa servizi segreti e molti politici.

Tutto scritto nero su bianco in un dossier che Fonti ha consegnato nel 2003 a Enzo Macrì, grande magistrato della Dna.

Chi vi scrive in questo momento, ha avuto la possibilità di essere tra le pochissime persone a leggere le bozze del libro che Fonti ha scritto sulla storia della sua vita. Attende solo un editore che abbia il coraggio di pubblicare le “sue” micidiali verità.

Come questa, sconvolgente, che vi sto per raccontare e che non ha testimoni a favore di Fonti. La sua parola e i suoi racconti, ripeto, contro il resto del mondo.


GOVERNO, PARLAMENTO, COPASIR E COMMISSIONE ANTIMAFIA BATTETE UN COLPO


Non sta a me, a voi né giudicare nè credergli appieno. A me e a voi sta solo il dovere di ascoltare, leggere e interrogarci su questa storia che, avendo come molti di voi, una certa pratica giornalistica con le peggiori schifezze di questo maledetto Paese, ritengo personalmente degna di essere approfondita dalle Autorità competenti. A partire dal Parlamento, dal Governo, dal Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza) e dalla Commissione parlamentare antimafia. Questo è l’appello che umilmente lancio. E questa è la storia di Francesco Fonti che un giorno incontra sulla sua strada la vita di Aldo Moro. E poco dopo, come tutta Italia, incontrerà la sua morte.



FRANCESCO FONTI PROIETTATO NELL’AFFAIRE MORO


A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro dell’onorevole Moro, Fonti viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma in quanto dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti - erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini (morto a Ravenna il 5 novembre 1989).

Fonti andò a Roma e alloggiò all’hotel Palace di via Nazionale dove incontrò vari agenti dei servizi segreti tra i quali uno che avevo conosciuto in precedenza tramite Guido Giannettini con il nome di “Pino” (che entra anche negli affondamenti delle navi dei veleni). Incontrò un non meglio identificato “cinese” che risultava essere un uomo della banda della Magliana e diversi calabresi che abitavano a Roma.


L’INCONTRO CON ZACCAGNINI AL CAFE’ DE PARIS


Ma Fonti afferma soprattutto di aver incontrato il segretario Zaccagnini al “Café de Paris” di via Veneto che pochissime settimane fa, il 23 luglio 2009, è stato tra l’altro posto sotto sequestro perché riconducibile, secondo la Dia, la Gdf e la magistratura, alla cosca Alvaro di Sinipoli (Rc)




LE PAROLE DI ZACCAGNINI, SCHIFATO DELL’INCONTRO


Zaccagnini, che ufficialmente difese sempre la “linea della fermezza dello Stato”, nei ricordi di Fonti, era “schifato” da quell’incontro. Disse infatti Zaccagnini, secondo la ricostruzione di Fonti: “..E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così. Non sono mai sceso a compromessi, ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi”.


Prima di andarsene, disse: “…non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino”.



LA RISPOSTA NELLE PAROLE DI FONTI




Fonti fu schietto e diretto, cercando però di strappare un contatto diretto con Moro: “ Dottore, ci siamo già attivati per reperire informazioni adatte e che possano servire a porre fine a questa brutta storia, sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose e Le saranno comunicate da me stesso”.

Fu l’unica volta, però, che i due si incontrarono, nonostante Moro dal carcere in cui era stato segregato si rivolse per lettera a Zaccagnini, implorandolo di salvarlo.



L’INCONTRO TRA FONTI E CAZORA


Fonti incontrò allora il deputato dc Benito Cazora, siciliano di nascita e romano di adozione, morto nel 1999.

Benito Cazora è stato sempre citato in relazione a due episodi: una segnalazione che ricevette con riferimento alla zona di via Gradoli indicata come "zona calda" nella quale concentrare le ricerche e la questione delle foto scattate dal meccanico Gerardo Nucci, che abitava in via Fani, subito dopo la fuga del commando, che avrebbero potuto immortalare persone riconducibili alla malavita calabrese (foto che, consegnate al magistrato Luciano Infelisi, non saranno mai più ritrovate).

Cazora fu intervistato nel giugno 1997 dalla Rivista “Area” alla quale confermò di essere stato a un passo dalla svolta e di aver informato più persone del covo in cui Moro era segregato. Già il 15 ottobre 1993, però, intervistato dal Tg2 Cazora ricordò i contatti con la malavita calabrese, la quale gli preannunciò anche il falso del ritrovamento presso il Lago della Duchessa. Molte altre volte Cazora approfondì la questione con i media. Invano.


GLI INCONTRI CON I SERVIZI SEGRETI


Fonti incontrò anche il criminale romano Domenico Balducci, pezzo da 90 della Banda della Magliana e Giuseppe Santovito, capo del Sismi dal 1978 al 1981, iscritto alla loggia P2, che aveva avuto un ruolo di primo piano nelle indagini sul sequestro Moro. Santovito è morto il 5 febbraio 1984. Balducci fu ucciso a Roma nel 1981.

Fonti incontrò anche Natale Rimi, boss palermitano di Coda Nostra (arrestato in Spagna il 19 febbraio 1992) e l’appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, già addetto all’ambasciata Italiana di Beirut, il quale gli disse che il colonnello del Sismi Stefano Giovannone, sigla in codice G216, gli aveva raccomandato vivamente di salvare Moro a tutti i costi.



LA STORIA DI STEFANO GIOVANNONE




Il Colonnello Giovannone, iscritto ai Cavalieri di Malta, aveva ricoperto l’incarico di capocentro del Sismi a Beirut dal 1972 al 1981. Era conosciuto tra le barbe finte come “Stefano d’Arabia” o “Il Maestro”.

Aldo Moro, di cui Giovannone era un fedelissimo, in due lettere scritte durante la prigionia, aveva auspicato l’intervento del Colonnello Giovannone per risolvere la “delicata faccenda” del suo rapimento.

Nel 1985 il giudice istruttore veneziano Carlo Mastelloni fece arrestare Giovannone con l’accusa di aver favorito il traffico d’armi fra l’Olp e le Brigate rosse.
Giovannone morì poco dopo agli arresti domiciliari, come Santovito “di morte naturale”. L’inchiesta del giudice Mastelloni verrà fermata dal Governo che sulla vicenda porrà il segreto di Stato.

Nel 1995 si suicidò anche il colonnello del Sismi Mario Ferraro. Il suo codice era G219. Ferraro era stato subalterno di Giovannone, ed era stato in Somalia.


CAZORA ERA L’UNICO A VOLERE MORO LIBERO


Per Fonti l’unico che agiva veramente per la salvezza di Moro era il deputato Benito Cazora.

Il 10 aprile 1997 Cazora, a Perugia, dinanzi alla Corte di assise dove si svolgeva il processo a carico dei presunti autori dell’omicidio di Mino Pecorelli, l’ex parlamentare dc, riferendosi all’intervento della ’ndrangheta calabrese nelle ricerche della prigione brigatista dov’era rinchiuso Aldo Moro nella primavera del 1978, afferma: "…tramite l’interessamento del segretario di Aldo Moro, Sereno Freato, riuscimmo a far trasferire dal carcere dell’Asinara a quello di Rebibbia un parente di Rocco (scoprimmo che era una persona che faceva di cognome Varone ed era il fratello di Rocco)…. Mi portarono sulla Cassia, all’altezza dell’incrocio con via Gradoli, e mi dissero: ‘Questa è la zona calda’. Riportai l’informazione al questore di Roma, il quale però mi telefonò riferendomi di aver fatto controllare ‘porta a porta’ via Gradoli senza trovare traccia del covo delle Br".

Il fratello di Rocco Varone era Salvatore Varone che aveva incontrato più volte personaggi politici affermando che "…posso dare informazioni sul covo dove nascondono Aldo Moro perché i calabresi a Roma sono 400.000 e possono controllare il territorio".


IL LAVORO “SPORCO” DI FONTI A ROMA


Fonti racconta di aver soggiornato circa due settimane a Roma raccogliendo un’enorme quantità di informazioni, incontrando personalmente anche uno dei massimi esponenti di Cosa Nostra, Stefano Bontade, “il quale – scrive Fonti - non sembrava affatto un mafioso, bensì un rispettabile uomo d’affari. Solo gli occhi, chi aveva la sfrontataggine di fissarlo ed io l’ebbi, tradivano la sua crudeltà ed il suo essere il “Capo”. Con me fu molto gentile e disponibile anzi confidenziale, arrivando anche a criticare qualcuno dei “capi” della “ndrangheta, poi mi disse “ciccio queste parole le tieni per te, va bene?”

Fonti rivide Bontade (morto a Palermo il 23 aprile 1981) in altre occasioni, anche a Milano. quando gli riferì che stava entrando in società nelle televisioni private.



IL RIENTRO A SAN LUCA, IL RAPPORTO ALLA COSCA E GLI SFORZI INUTILI PER SALVARE MORO


Fonti rientrò in Calabria e fece “rapporto” a San Luca. Successivamente seppe che il suo era stato un lavoro fruttuoso ma vano in quanto erano arrivate indicazioni precise da Roma di “farci i fatti nostri”.


L’INCONTRO IN CARCERE E LE PAROLE DI MORETTI


Fonti, nelle sue peripezie nelle carceri italiane, arriva a incontrare in carcere, durante un corso di computer, Mario Moretti, che era stato condannato per l’uccisione dell’onorevole Moro. Per sua stessa ammissione aveva ucciso lui l’uomo politico.

“Notai subito – racconta Fonti – che Moretti aveva un trattamento speciale e che era libero nei movimenti, lui stesso mi disse che ogni mese riceveva un assegno dal Ministero e che gli era stata garantita a breve la semilibertà. Alla mia domanda del perché di questo trattamento: in fondo era stato condannato a parecchi ergastoli e tutti pensavamo che non avrebbe più visto la libertà. Lui rispose sornione “se non mi fanno uscire svelo tutti gli altarini, conviene a tutti i politici che io resti muto”.

Durante la detenzione Fonti non si fece mancare nulla, compresi gli affari. “Furono fatti tanti affari di smistamento di droga tra le diverse famiglie – scrive nel suo memoriale che attende ora di diventare un libro - si sono fatte delle alleanze con turchi e con qualche colombiano che abbiamo conosciuto nel carcere. Parlo di traffici per centinaia di chili che transitavano nel Milanese. Anche a Opera c’erano delle guardie che si lasciavano comprare e noi li usavamo come postini”.

Questo il racconto di un uomo – gravemente malato – che non ha nulla da guadagnare o da perdere. Un uomo solo e isolato, che magari una parte deviata dello Stato vedrebbe volentieri subito morto.

Non sarebbe il caso che qualcuno lo proteggesse subito, lo ascoltasse ufficialmente e cercasse – laddove possibile – i riscontri alla sua verità? Ma forse non interessa proprio a nessuno…


roberto.galullo@ilsole24ore.com

1. to be continued

da ilsole24ore.it




Titolo: Roberto GALULLO. Troppa grazia San Marino, il santo del Paradiso in terra!
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 12:00:22 pm
06/10/09

Mafia a San Marino: per il Governo è “Cosa Vecchia”, per Mularoni (Ddc) prima dibattito in Parlamento e poi rogatoria

Troppa grazia San Marino, il santo del Paradiso in terra!

Non credevo che il mio umile blog riuscisse a smuovere nientepopodimenoche il segretario di Stato alla giustizia, Augusto Casali, quello che aveva ufficialmente delegato al collega Marco Arzilli il compito di rappresentarlo nella mia trasmissione “Un abuso al giorno” in onda su Radio24. Parlavo di Licenzopoli, straordinario evento di malcostume emerso dalle brume del Titano grazie alla pervicacia dell’Informazione di San Marino.

Evidentemente la delega non funziona sempre e gliene sono davvero grato. Anzi: mi farebbe sempre piacere parlare con lui, se fosse disposto.

Come sapete, sul mio umile blog, in due umili puntate (28 settembre e ieri, 5 ottobre in cui ho approfondito il tema del riciclaggio ma di questo i politici hanno fatto finta di non accorgersi e allora invito tutti a rileggere quanto dichiara Fonti) ho raccontato le verità dell’ex santista e collaboratore di giustizia Francesco Fonti sui soldi che transitavano fino a fine anni Novanta per le banche di San Marino. Grazie a connivenze estese a tutti i livelli. L’ho raccontato con dovizia di particolari.

Bene. In qualunque Paese del mondo un Governo cercherebbe come prima cosa di sapere se le dichiarazioni (gravissime) di Fonti sono vere o sono farneticazioni. Tertium non datur. E c’è un solo modo per saperlo: una bella rogatoria e Fonti di fronte alla magistratura.

Non so come si sarebbe comportato il Governo del Titano se di mezzo non ci fosse stata l’interrogazione parlamentare (a risposta scritta che deve arrivare entro 20 giorni, si badi bene) del duo di coppia Mularoni-Lonfernini (Democratici di centro) che chiede conto di quelle dichiarazioni.

Ieri il Governo, con un comunicato stampa ha precisato: 1) le vicende risalgono addirittura agli anni Novanta (addirittura? Ma se abbiamo appena finito di bere lo champagne per brindare al 2000! E poi: Fonti racconta di “fine anni Novanta” ed è stato (ri)arrestato a inizio Duemila!); 2) certi segnali non debbono essere presi sotto gamba (evvivadio!); 3) San Marino non è un covo di mafiosi (scusi signor Casali, chi lo ha ma detto questo? A me sembra un’excusatio non petita. Le posso assicurare che se c’è un covo di mafiosi, quella è l’Italia); 4) se c’è stato qualche fenomeno malavitoso è solo perché ha trovato negli ultimi anni terreno fertile per l’inerzia (pare di capire) dei precedenti Governi.

E allora ripartiamo da qui. Come? Con un’intervista che ho fatto questa mattina di buon’ora buttando giù dalle brande Pier Marino Mularoni. L’obiettivo è quello di sempre: capire per quale dannato motivo i due Paesi debbano firmare accordi bilaterali senza dare prima garanzia totale di una bella bonifica ambientale (amministrativa, economica e finanziaria) in ambo gli amati Paesi.

Mularoni buongiorno. Mi querela se continuo a chiamarla Marin Mularon?

(Ride di gusto, scampato pericolo n.d.r.) Ma scherza? E poi siamo tutti Marin a San Marino! Certo che ha fatto un gran casino lei con i suo articoli…

Io? Sono innocente, giuro. Posso portare anche la giustificazione scritta del Signor Direttore: ho fatto solo il mio mestiere

E ci mancherebbe altro. Sa anche come farlo bene…

Troppo umano, speravo dicesse il contrario. Amo essere odiato. Ma bando alle ciance, veniamo a lei. Soddisfatto della risposta di Casali?

Innanzitutto deve rispondere all’interpellanza entro 20 giorni…

Risponda alla domanda please…

No

Meno male che non ha risposto nì o so. E perché?

Perchè se quelle sono davvero le risposte che darà anche il Governo nella risposta scritta saremo costretti a una bella  mozione parlamentare

Uh che brivido! Con la quale…

Con la quale obbligheremo il Parlamento a un dibattito sui contenuti

Obiezione respinta: Casali ha già fatto sapere che casomai sono cose vecchie. Anni Novanta, quando andavano di moda i Nirvana alla radio e Ferrara in tv. Ora siamo a X Factor in tv e in Radio ci sono io. Pensi lei che passo indietro.

Ma quali anni Novanta!

Alt. Prima che lei vada avanti un’altra cosa. Casali ha anche fatto capire che loro, che non so neppure chi siano e non mi interessa, non governavano ai tempi.

Guardi, apparte che Casali governava già all’epoca, le posso assicurare che i Governi qui hanno sempre le stesse facce…

Mal comune mezzo gaudio. Ma alla fine, come se ne esce per cercare la verità?

C’è un solo modo e su quella strada porteremo il Governo: una bella  rogatoria internazionale e Fronti di fronte a un Tribunale

Bum. Non ci credo. Da voi (e da noi) le rogatorie non hanno un gran seguito, vedi il caso De Magistris. Un’ultima cosa. Un parlamentare sammarinese mi ha raccontato la storia delle gru e un certo De Sade, un Marchese che deve saperla lunga, ha ricordato sul blog le centinaia di immobiliari nel vostro Stato, l’assenza di un piano regolatore e le migliaia di alloggi sfitti. Cos’è, una storia anni Novanta anche questa?

Lo sviluppo è stato incontrollato e non sono mancate le speculazioni. Certo è che da noi non esiste un piano regolatore dal 1992 e forse è meglio così, visto che a San Marino il piano regolatore è solo un piano delle costruzioni.

A risentirci Marin Mularon e mi raccomando, non si dimentichi, lei e tutti i politici di San Marino, di me. Anche io  mi sento solo come il nostro Presidente del Consiglio e ho bisogno di insulti, minacce, baci, lettere, mail e magari documenti su cui scrivere ancora.

E come facciamo a dimenticarci di lei…

roberto.galullo@ilsole24ore.com

da ilsole24ore.it


Titolo: Roberto GALULLO. Impregeco (e i Casalesi) contro Impregilo
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2009, 07:00:33 pm
14/11/09


L’onorevole Cosentino e la camorra imprenditrice: Impregeco (e i Casalesi) contro Impregilo


L’ordinanza cautelare di 351 pagine con la quale il Giudice per le indagini preliminare (Gip) Raffaele Piccirillo, ha accolto la richiesta di arresto (impossibile fino a che non si pronuncerà la Giunta parlamentare) dell’onorevole Nicola Cosentino (Pdl) è stata analizzata in lungo e in largo dai giornali e, solo due giorni fa, anche da Annozero di Michele Santoro.

Del resto la richiesta avanzata dai pubblici ministeri Alessandro Milita e Giuseppe Narducci era troppo ghiotta di particolari sui personaggi politici, per non parlarne. Personaggi che sarebbero (il condizionale è d’obbligo) coinvolti in questa brutta storia, a partire dal sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, candidato in pectore per la presidenza della Regione Campania (per lui l’ipotesi è concorso esterno in associazione mafiosa). Vale la pena di ricordare che fino a che non ci sarà un processo le dichiarazioni rese e l’ordinanza stessa non hanno valore di prova.

E’ anche per questo che voglio spostare il tiro e tirare fuori da questa vicenda un aspetto secondo me vitale.

Molto si è parlato degli aspetti di coinvolgimento politico avallati dall’ordinanza (voti di scambio, favori elettoralistici, cene pagate per raccimolare voti, assunzioni pilotate, appalti concordati e via di questo passo, chiamata in causa di ex ministri come Mario Landolfi o parlamentari come Italo Bocchino e il senatore Gennaro Coronella) e poco si è parlato della camorra imprenditrice e della capacità di mollare cavalli e cavalieri per fare al meglio i propri affari.

A leggere bene le carte si possono trovare alcune interessanti evoluzioni dei Casalesi imprenditori (tutto, ripetiamo, deve passare al vaglio di un processo).

A conferma delle tesi dell’accusa con riguardo alla facilità con cui politica e camorra si mettevano d’accordo sul come fare al meglio affari, ecco quanto dichiara (pag.194 e seguenti) a esempio Gaetano Vassallo ai magistrati che lo interrogano: “…in poche parole l’onorevole Cosentino mi disse che si era adeguato alle scelte fatte ‘a monte’ dal clan dei casalesi che aveva deciso che il termovalorizzatore si sarebbe dovuto realizzare nel comune di Santa Maria La Fossa e che anche l’affare del Consorzio Ce4 / Eco4 era uno degli affari degli Schiavone. Egli pertanto aveva dovuto seguire tale linea e avvantaggiare solo il gruppo Schiavone nella gestione dell’affare e, di conseguenza, tenere fuori il gruppo Bidognetti, e quindi anche me.

Da quanto detto fino a ora, risulta chiaro che, a questo punto, l’affare Consorzio Ce 4/ Eco 4, nato per favorire il clan Bidognetti, era diventato un ‘affare’ del gruppo Schiavone”.


DISCARICHE A PERDERE


Finora tutti analisti hanno concordato sul fatto che la camorra lucrasse (e lucri) sull’intero ciclo dei rifiuti. Il sistema delle discariche e delle ecoballe accumulate ha fatto arricchire per generazioni i boss.

Gli analisti ciechi erano convinti, dunque, che il sistema di termovalorizzazione e il progressivo inaridimento delle discariche avrebbe prosciugato l’acqua (anzi, a munnizza) nella quale notavano (e nuotano) camorra e politica corrotta.

Nulla di più sbagliato.


IL SUPERCONSORZIO IMPREGECO E IL PUNTO DI ARRIVO

 DEI CASALESI: I TERMOVALORIZZATORI


Dalla lettura dell’ordinanza (giuro che l’ho letta dalla prima all’ultima parola) emerge una novità diversa e sconvolgente (ma solo per chi crede che la camorra sia solo bossoli e guapparia e non, invece, impresa criminale): la termovalorizzazione (e i relativi impianti) era invece il punto di arrivo della strategia degli Schiavone (con i quali, sempre secondo l’accusa, Cosentino, che nega ogni addebito, era passato armi e bagagli dopo aver prestato fianco e anima Al clan dei Bidognetti). Un punto di arrivo che può contare – secondo i teste ascoltati dai magistrati napoletani – dell’appoggio sia della destra che della sinistra, oltre che di funzionari pubblici corrotti.

Ed è per questo motivo che tutti insieme amorevolmente daranno vita al superconsorzio per la gestione del ciclo dei rifiuti Impregeco che nel 2001 accorperà il Consorzio dei rifiuti Ce4 (in mano al centrodestra casertano) e Na1 e Na3 (riferibili al centrosinistra napoletano).


L’INTERROGATORIO DI GIUSEPPE VALENTE:

IMPREGECO CONTRO FIBE, OSSIA I CASALESI CONTRO IL NORD


Il 23 febbraio Giuseppe Valente, uomo di Cosentino nel Consorzio rifiuti Ce4, che ha presieduto per circa 3 anni, davanti ai magistrati dichiarerà testualmente (pagina 48): “…attraverso Impregeco si intendeva garantire tutto il ciclo dei rifiuti, a livello regionale, e si intendeva anche garantire la fase terminale, quella della termovalorizzazione, anche se si pensava ad un sistema diverso rispetto a quello praticato da Fibe, quale ad esempio l’elettropirolisi. Faccio presente che oltre all’Impregeco – che offriva una soluzione alternativa a Fibe a livello regionale - il progetto politico di Cosentino e Ventre era anche quello di “provincializzare” i rifiuti, ossia di creare un’autonomia gestionale completa a livello provinciale, coinvolgendo tutti e quattro i Consorzi di bacino, creando dei Consorzi specializzati in determinate attività della filiera. Vi erano poi anche gli impianti propri del bacino del Consorzio Ce4, disponendo il Consorzio direttamente non solo di una discarica ma anche di un impianto di stabilizzazione e anche di vagliatura. L’impianto di stabilizzazione fu formalmente imposto da Facchi con delle ordinanze, nelle quali questi imponeva al Consorzio di acquistare dalla Icom di Milano – una società di impianti – queste strutture…”

Sempre il 23 febbraio dirà (pagina 288): il progetto di costituire l’Impregeco mi fu proposto da Facchi Giulio in termini meno espliciti e rappresentandomi i vantaggi che avrei potuto ricevere da una posizione di potere di quel tipo. Compresi agevolmente nel tempo che l’Impregeco serviva quale strumento per sostituire la Fibe ; …faccio presente che Facchi esternava continuamente, anche pubblicamente, la sua avversione rispetto a Fibe e lo stesso faceva Paolucci (Massimo, ndr), altro subcommissario di Governo…era facilmente comprensibile, osservando in modo ragionato le competenze di Impregeco, che questo ente rappresentasse un ente analogo alla Fibe, per quel che erano le sue attività. (…) gli interessi economici erano troppo rilevanti per affidarli ad una società estranea del Nord, quale era la Fibe ".

Ed ecco quanto – di sua spontanea volontà e dunque non su sollecitazione dei pm – lo stesso 23 febbraio 2009 Valente, che fa mettere a verbale: “…il reale scopo dell’Impregeco, quello di sostituire la Fibe , era chiaro a tutti coloro che stavano partecipando al progetto, ovviamente comprendendo anche i due miei referenti politici. L’Impregeco fu un ente certamente voluto da Bassolino tanto che la stesura del documento di convenzione con il quale si affidava la gestione degli impianti di tritovagliatura all’Impregeco fu redatta dallo Studio Soprano – quanto meno in modo informale – con la collaborazione di De Luca Felicio e D’Alterio Pina”..

L’idea della politica e dell’amministrazione corrotta – secondo l’accusa, d’intesa con il clan Schiavone – era dunque quella di soppiantare Fibe-Fisia Italimpianti (l’unica impresa che per contratto del 5 settembre 2001 avrebbe dovuto gestire in esclusiva l’intero ciclo integrato dei rifiuti) con il Superconsorzio che avrebbe dovuto di fatto monopolizzare l’intera regione, agevolato dal fatto che era alimentato esclusivamente con i fondi del Commissariato di Governo. Una lotta oltretutto con risvolti inquietanti: gli interessi dei Casalesi contro l’ingerenza delle imprese del Nord (il gruppo Impregilo).

Questo, secondo la ricostruzione della magistratura, con l’aiuto dell’(allora) sub-commissario bergamasco Giulio Facchi e del Governatore Antonio Bassolino.


LO SHOW MUTO DI BASSOLINO


Escusso il 13 febbraio 2009 dai magistrati sulla ordinanza n.30 del 20 gennaio 2002 che di fatto crea un sistema parallelo e concorrenziale tra il Superconsorzio e Fibe-Fisia (e dunque un inutile doppione), ‘o Governatore sostanzialmente dirà – e lo traduco con un paradosso, un’iperbole linguistica - che lui non c’era e se c’era dormiva. E se non dormiva delegava. A Facchi.

Come dire: che vulite da me, prendetevela co isso.

Testualmente Antonio Bassolino (pagina 288): “…pur prendendo visione del testo dei due documenti e leggendo il contenuto, non riesco a ricordarmi le ragioni per le quali si giunse a tale convenzione. Faccio presente che l’ordinanza n. 30 del 20 gennaio 2002, reca quattro sigle per la sottoscrizione – firme che non sono in grado di riconoscere – attraverso cui è possibile individuare coloro che hanno formato l’atto o comunque condiviso il relativo contenuto, predisponendola (…) Dalla lettura dell’atto nella quale si individua nel sub-commissario il ruolo funzionale deputato all’individuazione degli “impianti di selezione, trattamento, valorizzazione e riciclaggio dei Rsu” (art. 2 della convenzione) posso dire che certamente fu Giulio Facchi ad essere tra gli autori principali della convenzione stessa; era infatti lui il sub-commissario incaricato di tali individuazioni”.


LA CATENA DELLA CAMORRA IMPRENDITRICE

CONTRO L’ IMPRESA DEL NORD


Il Gip ricostruisce la catena della camorra imprenditrice e a pagina 310 e seguenti, richiamando le testimonianze dirette e indirette sull’indagato, scrive testualmente: “La politica di boicottaggio del sistema affidato a Fisia Italimpianti, la promozione dell’Impregeco, la monopolizzazione dei servizi di raccolta dei rifiuti obbediscono obiettivamente ad una strategia convergente con quella del clan dei casalesi e degli operatori criminali campani del settore che dovettero sentirsi penalizzati dall’esclusiva conferita agli imprenditori del Nord.

Lo dicono innanzitutto le massime di esperienza, delle quali da tempo la S.C. avalla l’utilizzo quali regole di copertura del ragionamento probatorio sui temi della criminalità organizzata. Lo dice la storia giudiziaria del clan in argomento.

Lo dice poi Vassallo (Gaetano Vassallo, uomo di fiducia del boss Francesco Bidognetti, ora collaboratore di giustizia ndr), che anche per questo è coerente e attendibile.

Lo dicono infine le pressioni militari che accompagnarono la conquista del monopolio e che indussero una serie di operatori, concorrenti degli Orsi (Sergio e Michele Orsi, imprenditori legati secondo le indagini e le dichiarazioni di alcuni pentiti ai Casalesi, di cui uno, Michele freddato il 1° giugno 2008 dal boss Giuseppe Setola davanti al Roxy bar a Casal di Principe ndr), alla ritirata: pressioni documentate in questo provvedimento, ma anche nelle altre ordinanze cautelari che si sono sopra richiamate con i relativi sostegni probatori (anche questi autonomi rispetto al collaboratore Vassallo).

Possiamo anzi affermare che proprio la coerenza dei comportamenti dell’indagato con questa strategia di interesse della criminalità organizzata insediata sul territorio a costituire il collante che tiene insieme gli elementi indiziari, di ogni natura, che si sono sopra esposti.

La disamina che segue serve ad ogni modo a rafforzare questo tassello del ragionamento. Chi pensasse che l’indagato ha promosso le iniziative sopra enunciate per mera convinzione politica o, al più, per ragioni clientelari scevre da connotazioni camorristiche, apprenderà da Dario De Simone, Carmine Schiavone, Domenico Frascogna, Domenico Bidognetti, Anna Carrino quanto siano risalenti e consolidati i debiti di gratitudine di Nicola Cosentino con la camorra casalese. E quanto dunque sia plausibile la lettura collusiva dei comportamenti finora rappresentati”.


INCONGRUENZA (APPARENTE?)


Resterebbe da capire come mai, in questo momento, l’ex sub-commissario Facchi (insieme al Governatore Bassolino) sia imputato e a processo con l’accusa di presunta truffa dei rifiuti in Campania. Paradossalmente, infatti – e lo fa notare lui stesso ai colleghi Rosaria Capacchione e Leandro Del Gaudio a pagina 33 del Mattino di Napoli del 12 novembre – Facchi sarebbe accusato di aver favorito, con il suo comportamento la Fibe, mentre nell’ordinanza viene accusato di agire contro la stessa Fibe.

Ma i magistrati Milita e Narducci non si curano proprio di questa apparente contraddizione e riportano passaggi su passaggi che smantellano l’ipotetica incongruenza.

Valente nell’interrogatorio del 23 febbraio a esempio dirà: “…era nota l’avversione dei vari Commissari per Fibe e, per quel che mi consta, era Facchi tra i principali antagonisti. Quando si parlava di Fibe si parlava come se si trattasse di un loro “nemico”…”

Di certo, secondo i magistrati campani, c’è la consapevolezza, da parte di Fibe, che la creazione del superconsorzio e la stipula della convenzione facevano parte di una strategia tesa a cacciarli dal territorio campano.


FIBE SA CHE LE E’ STATA DICHIARATA GUERRA


Vengono in soccorso anche le intercettazioni telefoniche puntualmente riportate nell’ordinanza. Tra il 9 e il 6 aprile 2002 l’(ex) amministratore delegato di Fibe (che, ricordiamolo ancora è del gruppo milanese Impregilo, tra i leader mondiali nel settore ingegneria e costruzioni), Armando Cattaneo si rivolge così a un tal avvocato Macrì, puntando ancora il dito contro Facchi: “è una lotta qui a Napoli che sappiamo che c'è Facchi che sta tentando in tutti i modi di costituire una società, un super Consorzio un qualche cosa per subentrare, no? … La società l'ha già fatta, si chiama pure Impregeco (…) non so nemmeno se...questo nome, Impre.., l'ha fatto artatamente...omissis…Impregeco è una società, è un... è una società tra i Consorsi di bacino che attualmente avrebbe lo scopo di bilanciare la tariffa tra Comuni in emergenza e Comuni non in emergenza, però è la struttura “Facchian” pronta a dire, eccola qua, no? L'ente competente...(inc)...la società dei Consorzi di bacino, a cui probabilmente pensa di mettersi a capo lui personalmente alla fine dell'emergenza, no? (...) e no ma è un problema enorme, io (inc)  mi fa una rabbia guarda perché è da settembre che ne stiamo parlando (...) e sì, sì perché poi noi, diciamo che cosa sta succedendo che tutte le nostre ehm... come dire tutte le nostre richieste affannose, ci serve per le banche eccetera, diventano punti di debolezza su cui ci colpiscono perché le sanno anche le pietre no?....omissis……...questo è il problema, quindi quando noi andiamo a... dire disperatamente “ah ci servono le cave, ci servono le discariche se no le banche eccetera” immediatamente le discariche mi costano il doppio, ma dalla sera alla mattina eh, qui c'è proprio una...una catena di gente che approfitta, che corre no? Io non...cioè...è capitato adesso per un terreno per lo stoccaggio, siamo affogati con lo stoccaggio, perché c'hanno non gradito un sito…”

Per tirarla breve, secondo l’accusa mentre i politici parolai e i politicanti credono di saperne una più del diavolo per fronteggiare le mire dell’economia criminale, in Campania i Casalesi sono già un passo avanti e non si fanno scrupoli per fare affari. Costi quel che costi. Sicuramente vite umane e la carneficina della politica. Quella con la P maiuscola però (che non c'è).


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da ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. Rosarno, una guerra tra poveri con la regia delle cosche
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2010, 11:12:51 pm
Rosarno, una guerra tra poveri con la regia delle cosche

dal nostro inviato Roberto Galullo
   

ROSARNO - A casa ‘sti niri. A casa questi negri.
Te lo urlano in faccia appena capiscono che sei un giornalista catapultato qui per raccontare che cosa sta succedendo a Rosarno, paese della Piana reggina di Gioia Tauro, dove dettano legge le cosche Pesce e Bellocco. Nulla qui si muove che queste due famiglie non vogliano. E nulla viene tollerato o combattuto senza il loro benestare.
Oggi gli agrumeti sono desolatamente vuoti. Non c'è nessuno o quasi che raccoglie e impila. Li chiamerà, domani, i lavoratori di colore? La domanda rivolta a un piccolo proprietario agricolo che non direbbe il suo nome neppure sotto tortura, cade nel vuoto. "Oggi no, domani neppure, poi vedremo". E' chiaro che la decisione non l'ha presa lui, ma l'antistato, la ‘ndrangheta, che resta per ora alla finestra anche perché il chiasso è troppo assordante e le luci di Forze dell'ordine e media sono accecanti. No, meglio restare in disparte anche perchè la Calabria, dopo l'attentato alla Procura di Reggio, è come una spia sempre accesa sul corpo malato del Paese.

"A casa questi negri" te lo urlano anche da una macchina ferma mentre risali a piedi via Nazionale, oltre due chilometri di strada accidentata come neppure a Beirut, dove da ieri notte fino a questa mattina gli immigrati, in gran parte clandestini, chiamati qui per raccogliere arance e mandarini, hanno messo a ferro e fuoco ogni cosa che hanno trovato, armati di attrezzi rudimentali e qualche accendino. Macchine distrutte, cassonetti incendiati e bastonate a chiunque si avvicinasse alle trincee di fortuna che hanno allestito mentre la gente assisteva dai balconi. Nessuno – secondo una regia studiata a tavolino e che vedrà successivamente il secondo atto, cioè la reazione, quando i riflettori si saranno anche solo un po' abbassati – reagisce per strada alle aggressioni e alle provocazioni. Nonostante le botte piovute su donne (una incinta) e bambini che, per la ‘ndrangheta di qui, sono ancora sacri. Anche questa è una sfida che non resterà senza conseguenze. Magari passeranno mesi, anni, ma la ritorsione ci sarà e sarà dura.

Le ambulanze da ieri vanno e vengono spesso senza motivo a sirene spiegate e il capitano della Polizia che gestisce le operazioni spiega che i suoi uomini dislocati per il paese non picchiano ma vigilano. Ciò non ha impedito che due immigrati fossero gambizzati venerdì.
Il cuore dei rosarnesi, la gente di colore la chiama e la ospita – qui la Caritas svolge un ruolo fondamentale e sono parecchie le famiglie che durante la stagione della raccolta si prodigano per aiutare chi è senza nulla e nulla ha da perdere – mentre la pancia ora la respinge. A casa sti niri. A casa questi negri, anche se per 30 euro al giorno, di cui almeno 10 dati al caporale, si spezzano la schiena dalla mattina alle sei al tramonto per impilare una dietro l'altra le cassette di frutta che prendono poi la via dei mercati ortofrutticoli del nord Italia. Arance e mandarini più pregiati raggiungono ancor più celermente le piazze straniere. Traffici rigorosamente gestiti dalle cosche, senza alcuna eccezione. Trenta euro che diventano 20 dopo il taglieggiamento del caporale, spesso di colore e mandato dalle cosche, ma che diventano 15 o anche 10 dopo il versamento dell'affitto per chi li ospita in stamberghe in cui la puzza è nauseabonda anche a metri di distanza. I più disgraziati dormono in fabbriche abbandonate dove la salute è inesistente e le risse e le ubriacature sono all'ordine del giorno. Già, perché molti di questi lavoratori nord africani, sub sahariani e, in misura ridotta, dell'Est Europa, spendono la gran parte di quel che resta in tasca per bere e pagare le prostitute. Insomma i soldi che gli immigrati ricevono in una mano – direttamente o indirettamente gestiti e autorizzati dalle cosche – vengono riconsegnati con l'altra mano a chi fa della disperazione un business.
La rivolta preoccupa per la prima volta in blocco la cittadinanza, dopo almeno 25 anni in cui si ripetono le stesse identiche scene di migrazione dalla Sicilia alla Calabria e da qui alla Campania o alla Puglia, per spezzarzi braccia e schiena sui campi di pomodori, sotto gli ulivi o le piante di agrumi.

Il perché lo spiega Domenico Ventre, un omone grande e grosso che impartisce ordini a un gruppo che definisce spontaneo e che si è riunito dalle prime luci dell'alba davanti al municipio di Rosarno, sciolto per mafia e ora guidato da tre commissari prefettizi.

Ventre spiega che hanno chiesto ai commissari di ripristinare la legalità ma quando provi a chiedergli se il problema a Rosarno sono i mandarini, così come nella Palermo di Johnny Stecchino era il ciaffico, risponde facendo finta di non aver capito la domanda. "Questi – dice – hanno messo a soqquadro la città e chi è fuorilegge se ne deve andare". Il concetto è chiaro: tutti.

Poi Ventre spiega come è nato l'incidente che ha portato al dramma. "Uno di loro ha fatto pipì davanti a un'abitazione privata – spiega Ventre – e il proprietario ha reagito sparando. A pallini però, sia ben chiaro".

Come no, e' chiaro, chiarissimo, anche se gli investigatori raccontano poi che sono mesi, anni, che nel silenzio dei media le sparatorie e i pestaggi – questa volta delle cosche verso chi osa ribellarsi – sono all'ordine del giorno.

La partita a scacchi continua e le conseguenze, per gli extracomunitari, arriveranno perché se c'è una cosa che le cosche non tollerano è che qualcuno osi spezzare il silenzio dell'omertà mafiosa.

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8 gennaio 2010
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Titolo: Roberto GALULLO. Maiolo (Pd) si gioca la candidatura in Calabria
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2010, 04:31:53 pm
Maiolo (Pd) si gioca la candidatura in Calabria

di Roberto Galullo


Il Governatore uscente della Calabria è a colloquio con il segretario nazionale del Pd Pierluigi Bersani che, a meno di colpi di scena, gli confermerà la necessità di fare un passo indietro.
Una scelta necessaria anche alla luce delle figure messe in fila dal Pd nell'ultima settimana: prima la sospensione delle primarie – in cui gli antagonisti principali erano proprio Loiero e Giuseppe Bova – e poi l'annullamento in fretta e furia dell'autoconvocazione a Lamezia Terme di 1.800 dirigenti regionali del Partito democratico che si sarebbero dovuti riunire questa mattina per affrancarsi definitivamente da Loiero. A capitanare l'esercito Mario Pirillo, europarlamentare e fino a ieri intimo di Loiero.
Dopo l'incontro con Loiero in mattinata lo stesso Bersani incontrerà nel corso della Direzione nazionale i delegati calabresi del Partito democratico e, in quella occasione, saranno messi sul tavolo carte e problemi.
Le carte sono quelle dei candidati da proporre contro il favorito Beppe Scopelliti, che correrà con il Pdl e che ha appena imbarcato tra i sostenitori "I Demokratici" di Enzo Sculco, consigliere regionale uscente di Crotone per il Pd e condannato anche in secondo grado per una serie di gravi reati. Un uomo potentissimo, oltre che una vera e propria macchina da voti.
L'approdo dei "Demokratici" sull'altra sponda – che garantirà al movimento politico un nome nella lista Pdl alle regionali – ha scatenato la reazione dell'onorevole lametina del Pd Doris Lo Moro che ha rinfacciato a Scopelliti un uso ignobile della questione morale e della trasparenza. Scopelliti non ha fatto una piega e ha rintuzzato l'attacco divagando sul problema dei tre mandati consiliari con i quali si trova a fare i conti il Pd calabrese.
I nomi sul tavolo del Pd saranno quelli dell'attuale presidente della provincia di Cosenza Mario Oliverio (ma la Provincia tornerebbe dopo appena un anno alle elezioni), dell'attuale assessore all'Ambiente, lo stimato Silvestro Greco, l'attuale vicepresidente, Domenico Cersosimo, un tecnico molto accreditato, professore di economia, che in più di un'occasione ha salvato l'immagine della Regione, e il consigliere regionale Sandro Principe, figlio di Francesco, potente bandiera socialista per quasi 70 anni in Calabria, vicino a Loiero e lontano dal presidente del consiglio regionale calabrese, il settantenne Giuseppe Bova.
Sull'asse Bova-Bersani si giocheranno soprattutto le carte di Mario Maiolo, attuale assessore regionale al Lavoro e alla programmazione comunitaria. Lo stesso Bova, nei giorni scorsi, sarebbe stato convinto via mail dallo stesso Bersani a cancellare l'autoconvocazione dei 1.800 a Lamezia, con la promessa che di Loiero non sentirà più parlare. E proprio il nome di Maiolo, in queste ore in cui il traffico di telefonate e mail tra Roma e Reggio Calabria è quanto mai intenso, sta prendendo quota, anche perché sembrerebbe estremamente gradito anche ai vertici ecclesiastici.
Ma oltre ai nomi dei candidati, sul tavolo di Bersani ci saranno anche i problemi. Uno su tutti: il rapporto con l'Italia dei valori (Idv), che non riesce a capire perché il centrosinistra non si raccolga intorno al nome di Pippo Callipo, candidato Governatore del partito di Antonio Di Pietro. "Se non va bene Loiero – dichiara al Sole-24 Ore il commissario regionale Ignazio Messina – non vanno bene neppure i loierani Greco e Maiolo. Si convincano loro della necessità di stringersi intorno a Callipo".
Messina ha però mandato nei giorni scorsi il capogruppo regionale, Maurizio Feraudo, a parlare con Maiolo, che vanta un buon rapporto personale con Callipo. Callipo – dopo l'assicurazione che è svanita la possibilità che il Pd candidi l'attuale presidente di Confindustria Calabria Umberto De Rose – potrebbe accordarsi con lo stesso Maiolo sull'allargamento della coalizione di centrosinistra e sul superamento del dualismo che favorirebbe inevitabilmente il centrodestra, già avvantaggiato in ogni sondaggio. Prima, però, bisognerà che l'Idv superi il dualismo tra lo stesso Di Pietro e l'astro nascente e ingombrante Luigi De Magistris che, sul nome di Callipo, non vorrebbe proprio recedere.

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25 gennaio 2010

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Titolo: Roberto GALULLO. Fantini scrive prima che la Procura di Forlì accusi: Carisp ...
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2010, 10:34:30 pm
30 ottobre 2010 - 10:03

Roberto GALULLO

Esclusivo/

Fantini scrive prima che la Procura di Forlì accusi: Carisp San Marino controlla Delta

Come vi avevo promesso, amati amici sammarinesi e no, ho ripreso a parlare e scrivere delle vicende del Titano che, così da vicino, toccano anche il mio Stato.

Colgo l’occasione – a seguito dei quattro articoli che ho dedicato al “memoriale Fantini” reperibili in archivio – per ringraziare l’ex ad del Gruppo Delta Paola Stanzani, i dirigenti, i funzionari e gli impiegati di quel Gruppo che hanno scritto e commentato gli articoli in questione. Lo hanno fatto con garbo, delicatezza, amore per la loro professione, per se stessi e per le loro famiglie. Quel che più mi fa piacere è che hanno capito che questo blog è luogo di notizie separate dal commento. Il ruolo di un giornalista non è facile soprattutto quando ciò di cui scrive tocca nel profondo migliaia di persone che hanno perso il lavoro o lo hanno ancora ma appeso a un filo commissariale. Per loro ho il massimo rispetto.

Torno oggi sul Sole-24 Ore, nel dorso Plus, a occuparmi di Delta e Cassa di Risparmio di San Marino. Lo faccio, anche in questo blog, approfondendo ciò che scrivo sul Sole, con una lettera, non la sola si evince, scritta di proprio pugno dall’ex ad di Carisp, Mario Fantini. Lettera che avevo in mano da mesi, ancor prima che venisse spedita, il 19 agosto di quest’anno, dall’ex segretario di Stato alle Finanze Gabriele Gatti proprio alla Procura di Forlì.

 LA LETTERA DATATA 8 MAGGIO 2008

 E’ datata 8 maggio 2008 la lettera con la quale Fantini scrive dell’”investimento nel Progetto Italia-Gruppo Delta”. E’ proprio questo l’oggetto.

La lettera, indirizzata agli allora Segretari di Stato per gli Affari esteri e Finanze, rispettivamente Fiorenzo Stolfi e Stefano Macina, è dunque antecedente all’iscrizione della Procura di Forlì di notizie di reato a carico dei vertici della stessa Carisp San Marino e del gruppo bancario Delta.

Quella lettera, scriverà di suo pugno il 19 agosto l’ex segretario di Stato alle Finanze Gabriele Gatti alla stessa Procura di Forlì, fu consegnata “a tutti i membri del consiglio Grande e Generale”.

In altre parole, l’intera classe politica era a conoscenza del Progetto Italia-Gruppo Delta che, per stessa ammissione di Fantini, andava avanti da almeno cinque anni ed era “stato presentato e condiviso con le Istituzioni del Paese, costantemente informate sugli sviluppi e sui risultati conseguiti”.

Ma perche Fantini scrive proprio nel maggio 2008? Perché di lì a poco sarebbe stato presentato un progetto riduttivo che di fatto avrebbe fatto cessare il progetto “in aperto contrasto con la strategia perseguita in questi ultimi anni”. Con le nuove regole dettate dalla Banca centrale sammarinese, da ottobre 2008 sarebbero entrati infatti in  vigore limiti severi alla concessioni di affidamenti sui singoli gruppi e alla concentrazione dei rischi, mentre la strategia fino a quel momento aveva portato Carisp a investire in Delta 115 milioni in capitale di rischio e a finanziamenti per un miliardo.

Questa innovazione, a detta di Fantini – a conoscenza di tutti i politici sammarinesi con quella lettera – non sembrava attagliarsi al Gruppo Delta “ove il presidio al rischio è di tipo organico e consente agli amministratori della Cassa  la piena consapevolezza e ogni forma di intervento per regolare i flussi”.

Per questo Fantini chiede al Governo sammarinese di trovare una soluzione che consentisse alla Carisp di proseguire il suo trend virtuoso e al sistema sammarinese di assicurare il contenimento nella concentrazione dei rischi. “E’ agevole comprendere - scrive Fantini – come sia oggi estremamente complessa, autolesionista e densa di responsabilità una modifica che sconvolga la rotta di programma e le scelte strategiche consolidate in oltre cinque anni”.

LE TRE RAGIONI PER LA DEROGA AD HOC

E per spiegare le ragioni che erano alla base della deroga richiesta e nel descrivere il rapporto tra Carisp San Marino e Gruppo Delta, Fantini scrive testualmente che “si è in presenza di una posizione di influenza dominante” nelle forme individuate dall’articolo 2 del comma 2 della legge sammarinese sulle regole del credito.

“Peraltro si ritiene che nel caso specifico – prosegue Fantini – sussista anche il secondo degli elementi per l’estensione della deroga, ovvero la sottoposizione del soggetto finanziato, e quindi di Delta, a regole di vigilanza prudenziale, tese al contenimento della concentrazione dei rischi nelle operazioni di rischio. Non dimentichiamo che il Gruppo Delta è un gruppo bancario controllato da Banca d’Italia ed è noto a tutti che il fatto di avere a monte un’istituzione sammarinese ha accentuato, anche in maniera abnorme, ogni tipo di controllo in Italia sul gruppo, controllo esteso a tutte le società facenti parte del gruppo bancario”.

Ma c’è anche un terzo motivo per i quali viene richiesta la deroga. “La terza e ultima condizione – spiega – è relativa all’esistenza di accodi di cooperazione tra Autorità di vigilanza di San Marino e del Paese in cui opera il soggetto affidato”.

 “Tale deroga – prosegue Fantini – non credo che possa essere oggetto di critica da parte di chicchessia, senza dimenticare che tenderebbe a preservare la capacità di reddito della Cassa che da anni è il maggior contribuente della Repubblica, nonostante la sensibile riduzione della quota di mercato per effetto della continua proliferazione di sportelli”.

La deroga ad hoc richiesta poteva estendersi secondo Fantini anche alle posizioni di rischio verso parti correlate “nel caso il soggetto connesso a parte correlata fosse un soggetto controllato dalla Cassa, posto che gli esponenti della Cassa e della Fondazione svolgono, nelle società del Gruppo Delta, come in altre società controllate, funzioni di indirizzo e controllo per conto della Cassa stessa; la loro presenza in quei consigli di amministrazione non è dunque espressione di interessi personali”.

Infine la stoccata, garbata e intelligente nello stile dell’uomo, rivolta alla politica sammarinese. Una stoccata – seppur diretta a Stolfi e Macina in quel momento in carica - nella quale si evince che la classe dirigente politica (e finanziaria?) sammarinese era costantemente tenuta al corrente di tutto. “Mi scuso se sono tornato in argomento – scrive infatti Fantini – ma ritengo che la questione abbia una valenza politica e di sistema che non può essere compiutamente portata alla Sua sensibilità e alla Sua attenzione, anche tenuto conto del ruolo istituzionale da Voi rivestito”.

Qualche tempo dopo la Procura di Forlì condurrà l’inchiesta proprio sulla posizione di controllo, e quindi dominante, vietata dalla legge italiana in caso di soggetti non autorizzati a operare sul territorio nazionale e Bankitalia più tardi commissarierà il Gruppo Delta.

r.galullo@ilsole24ore.com

p.s. Invito tutti ad ascoltare la mia nuova trasmissione su Radio 24: “Sotto tiro – Storie di mafia e antimafia”. Ogni giorno dal lunedì al venerdì alle 6.45 circa e in replica poco dopo le 21.05. Potete anche scaricare le puntate su www.radio24.it. Attendo anche segnalazioni e storie.

p.p.s. Il mio libro “Economia criminale – Storia di capitali sporchi e società inquinate” è ora acquistabile con lo sconto del 15% al costo di 10,97 euro su: www.shopping24.ilsole24ore.com. Basta digitare nella fascia “cerca” il nome del libro e, una volta comparso, acquistarlo

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http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2010/10/esclusivofantini-scrive-prima-che-la-procura-di-forl%C3%AC-affondi-carisp-san-marino-controlla-delta.html


Titolo: Roberto GALULLO. Esclusivo Why Not: l’avvocato Mottola, marito del ...
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 03:49:51 pm
8 novembre 2010 - 11:05

Esclusivo Why Not: l’avvocato Mottola, marito del giudice che ha emesso la sentenza, interviene qui sul caso De Magistris



Egregio dr. Galullo, preliminarmente Le ricambio l'affettuoso saluto, e la informo che dopo una serie indiscriminata di attacchi mediatici alla mia azienda, fatta di persone serie ed oneste, tutti i miei collaboratori hanno deciso, con il mio consenso, di dire la propria, utilizzando non l'anonimato, ma l'indirizzo: IMPREMED.Spa @alice.it.

Se di anonimi si fosse trattato non avrebbe trovato l'indirizzo mail nei medesimi. Non si tratta, dunque, di una trappola, soprattutto nei riguardi di chi stimiamo come giornalista serio ed onesto.

Anzi, riconoscendo la sua onestà intellettuale, colgo l'occasione per invitarla ad occuparsi personalmente della vicenda processuale che ci ha visto coinvolti in passato; le metterò a disposizione tutti i provvedimenti giudiziari ed ogni altro atto ritenuto utile al fine di dimostrarle quanto pretestuose, false ed infondate siano state le accuse di De Magistris nei miei confronti e nei confronti della azienda che io rappresento.

Ritengo di essere un imprenditore serio, ed insieme ai miei soci ed ai miei collaboratori abbiamo speso tutte le energie per creare occupazione in una Calabria sempre più allo sbando; abbiamo sempre rispettato le leggi ed i lavoratori, abbiamo sempre combattuto e denunciato il malaffare, non possiamo, dunque, sopportare ulteriormente critiche da chi utilizza le parole per colpire indiscriminatamente la gente per trarne un utile personale.

Ritengo, ancora, che non bisogna fottersene delle verità, non bisogna fottersene di chi denuncia fatti come quello che sono accaduti alla mia azienda, perchè se ci sta a cuore la Calabria e vogliamo combattere la diffusa illegalità che ivi imperversa sovrana, dobbiamo farlo attraverso il rispetto delle regole, cominciando dalle piccole cose del vivere quotidiano.

Per cambiare la Calabria, occorre dare fiducia ai cittadini, rispettare le istituzioni, combattere l'illegalità con la propria condotta di vita, soprattutto occorre l'ONESTA' INTELLETTUALE in ciascuno di noi e la riscoperta di quei VALORI che De Magistris sembra aver dimenticato o, forse, non ha mai conosciuto. Un cordiale saluto.



---



Avvocato Maurizio Mottola di Amato

Risposta

Egregio avvocato La ringrazio per il graditissimo intervento, così come ringrazio i circa 12mila lettori che finora hanno seguito i sei articoli dedicati alla vicenda Why Not nell’ultima settimana (si vedano servizi in archivio) Un boom davvero incredibile che testimonia l’importanza della vicemda.

Tengo però a precisare che l’anonimato è dettato dal fatto che negli interventi (oltretutto abbastanza ripetitivi) i suoi collaboratori usano solo il nome e non il cognome e che inoltre, se io non avessi cliccato sul dominio dello scrivente (scrupolo che ho sempre proprio perché non capisco chi non mette la faccia sulle opinioni che esprime) mai avrei saputo (e con me le migliaia di lettori del mio blog che non possono cliccare sugli indirizzi mail dei commentatori) che erano collaboratori suoi e dipendenti Impremed (ricordo per brevità ai lettori, rimandando all’articolo di ieri, domenica 7 novembre e ai relativi e copiosi commenti, che l’avvocato Mottola di Amato è marito del giudice Abigail Mellace che ha emesso la sentenza 32/10 e che anche nel recente passato ha avuto duri scambi di opinione con il dottor De Magistris, del quale, colgo l’occasione per dirlo a tutti, tornerò a scrivere domani. De Magistris che ha avuto anche duri scambi con lo stesso giudice Mellace con reciproca promessa di querela).

La ringrazio ancora per l’intervento, spero di avere ancora commenti dai suoi collaboratori, liberi di mettere nome e cognome per rendere ancor più visibili storie e opinioni e le garantisco che – come sto facendo da tanti anni – continuerò a seguire la vicenda Why Not con la stessa onestà intellettuale, indipendenza di giudizio e professionalità che lei mi riconosce e che sono un patrimonio irrinunciabile della mia deontologia e del mio stile di vita.

Cordiali saluti e buon lavoro a lei e ai dipendenti Impremed

Roberto Galullo

©RIPRODUZIONE RISERVATA
http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2010/11/esclusivo-why-not-lavvocato-mottola-marito-del-giudice-che-ha-emesso-la-sentesnza-interviene-qui-sul.html


Titolo: Roberto GALULLO. San Marino
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 03:54:28 pm
10 novembre 2010 - 8:33
Esclusivo/1


I pm di Forlì, Carifin e il misterioso Omega che a San Marino caricava contante a vagonate

Il bravo collega David Oddone, giornalista dell’Informazione, quotidiano di San Marino, da alcuni giorni si sta occupando di una finanziaria sammarinese i cui metodi sarebbero a dir poco non ortodossi secondo la denuncia di alcuni clienti debitori. La notizia è stata poi ripresa da tutti i media locali. E oggi, mercoledì 10 novembre, l’Informazione nel titolo di apertura dà notizia che la Banca centrale di San Marino ha avviato le procedure per la sospensione del consiglio di amministrazione della finanziaria.

Come vi dicevo alcuni post fa (si vedano in archivio i servizi sul “memoriale Fantini”), continuo da mesi ad accumulare materiale su questo Stato e, credetemi, non riesco a trovare spesso neppure il tempo di analizzarlo, tale è la mole di documentazione.

Il lavoro del collega Oddone mi ha fornito però, giocoforza, l’assist per tirare fuori dal cassetto la “coda” della rogatoria internazionale avanzata dalla Procura di Forlì sul caso Sopaf-Delta-Carisp San Marino, che il Commissario della legge sammarinese Rita Vannucci ha firmato l’8 maggio e depositato in cancelleria il 23 luglio.

Quella coda di rogatoria internazionale autorizza – in un clima di collaborazione che dovrebbe essere la regola tra i due Paesi e che invece quasi sempre non è – la Procura di Forlì e segnatamente i pm Fabio Di Vizio e Marco Forte, a una serie di accertamenti bancari su società e persone italiane sospettate, in primo luogo, di riciclaggio. Accertamenti in corso che magari testimonieranno la condotta irreprensibile, la verginità e l’immacolatezza di chi è stato chiamato in causa.

Le 31 pagine fitte di nomi e società diventano, dal punto di vista che amo trattare, (quello della potenziale o reale economia criminale e della criminalità organizzata) straordinariamente interessanti a pagina 24. Una lettura che sicuramente  - altrimenti che ottimi politici o governanti sarebbero! – non sarà sfuggita a chi, da San Marino, ancora ieri sui giornali locali diceva che tutto il mondo è paese e che la criminalità organizzata è ovunque. E che ancora oggi blatera di controlli da rafforzare. Io direi: da creare.

Verissimo che tutto il mondo è paese ma ci sono Paesi che sono…più uguali degli altri di fronte alla mafia: uno di questi è San Marino. L’altro, neppure a dirlo, è l’Italia.

Non posso infatti credere che la politica sammarinese – visto che in tutto parliamo di 30mila anime in gran parte imparentate tra di loro – non conosca i testi delle rogatorie che vivono una straordinaria contraddizione: vorrebbero difendere la riservatezza del singolo a costo di penalizzare giustizia e verità, ma in realtà ottengono lo scopo contrario, finendo in mille mani.

IL MISTERO DI OMEGA

In questa coda di rogatoria – che riguarda l’arco temporale 1° novembre 2004-5 maggio 2009 - si legge una storia straordinaria. Eccola.

Carifin viene contattata da un personaggio che si presenta in ogni occasione come Omega. L’oggetto delle telefonate è sempre ed inequivocabilmente la movimentazione di un conto corrente a lui intestato oppure a prenotazioni di denaro contante il cui ritiro doveva essere effettuato presso gli sportelli della Cassa di Risparmio di San Marino e al ritiro venivano autorizzati e delegati solo tali mister X e mister Y (nomi e cognomi li ometto volontariamente perché quel che conta è l’analisi di sistema e non il singolo caso che, ahimè, credo che sia stato tutt’altro che isolato).

La particolarità risiede nel fatto che Omega chiamava Carifin da un telefono fisso che corrisponde a un numero di Lamezia Terme (Catanzaro). Particolarmente interessanti sono due conversazioni nelle quali il misterioso Omega contattava Carifin per prenotare contante per un importo consistente, per il quale sarebbero stati necessari “più automezzi per il prelievo”.

Non so se mi spiego, capite di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di automezzi per prelevare il contante! Quanti milioni di euro entrano in automezzo? Tanti, tantissimi, incalcolabili. E poi gli automezzi saranno stati furgoncini o Tir?

A me, se entrassi in una banca, basterebbero un secchiello e una paletta con cui raccogliere gli spicci. Vi ricorda niente questa storia? No? Allora vi rinfresco io la memoria. Tempo fa, nel suo memoriale, che ho riportato fedelmente in alcuni servizi (si legga il mio libro “Economia criminale” o si veda il post del 28 settembre 2009 in archivio), il pentito di ‘ndrangheta Francesco Fonti parlò di furgoni che negli anni Novanta, nottetempo, entravano a San Marino e raggiungevano una banca dove, con tutta comodità, la dirigenza permetteva il carico e lo scarico di una merce preziosissima per la sopravvivenza stessa di San Marino: il denaro contante. Alla faccia del riciclaggio. Dagli anni Novanta al primo decennio del Duemila nulla sembrerebbe cambiato! Alla faccia del cambiamento strombazzato sul Titano un dì si e l’altro pure!

Ma andiamo avanti.

La consistente richiesta di denaro, la provenienza geografica e le dubbie modalità di contatto, oltre al mistero sul nome di Omega, impongono, come riconosce l’ottimo magistrato Rita Vannucci alla quale, non a caso, molti a San Marino hanno dichiarato guerra, una serie di accertamenti bancari per verificare il rispetto della normativa antiriciclaggio.

Le investigazioni riguardano anche una srl di Lamezia Terme (Catanzaro). E perché? Perché questa società per le autorità italiane e sammarinesi risulta di proprietà dal signor Y delegato al ritiro degli “automezzi”. Sigh!

Il 2 giugno il Sole-24 Ore, con un servizio di Lionello Mancini, aveva sfiorato in un passaggio il misterioso Omega, attraverso il verbale di Gianluca Ghini, direttore di Carifin. A proposito dei “calabresi” ecco cosa diceva Ghini ai magistrati forlivesi:
«Nelle intercettazioni avete sentito clienti dire: «Mi chiamo Mario Rossi», «mi chiamo Carifin numero», oppure «sono il numero 1182». È un sistema che non si usa quasi più, quindi chi lo usa è sicuramente un vecchio cliente. Come quello che telefona da una cabina pubblica di Lamezia Terme e dice: «Sono Omega, preparatemi 100mila euro». So che quello è un cliente che si fa vivo una volta o due all'anno. Capisco che può fare uno strano effetto, comprendo che la vostra preoccupazione sia la 'ndrangheta. Però su un cliente così, se ci sono temi di criticità, basta una rogatoria e rispondiamo in 20 giorni».

Altro che 100mila euro! Altro che semplice preparazione per il prelievo di…spiccioli! Alla faccia della criticità! Altro che 20 giorni per una risposta!

Siamo a fine 2010 e la Procura di Forlì è ancora li che sta tirando giù tutto l’elenco dei santi dalla A alla Z!

Per oggi ci fermiamo qui. A breve tornerò con una nuova puntata del filone.

Besitos.

1 – to be continued


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11 novembre 2010 - 8:35

Esclusivo/2

Le gang campane e le chiacchierate dei calabresi con Carifin, finanziaria di San Marino

Cari amici di blog (sempre più numerosi) ieri, sull’abbrivo di una polemica scoppiata a San Marino sul comportamento delle finanziarie, che si deve ad un’inchiesta del bravo collega dell’Informazione David Oddone (anche oggi continua a dare conto del caso Fincapital e altre tre finanziarie in crisi di liquidità), ho tirato fuori dal cassetto la coda della rogatoria internazionale sul caso Sopaf-Delta-Carisp San Marino, che il Commissario della legge Rita Vannucci ha firmato l’8 maggio e depositato in cancelleria il 23 luglio.

Una rogatoria che ha fatto il giro di diverse chiese ma che, a quanto sembra, non si posa mai nelle parrocchie politiche visto che a San Marino la reazione è sempre la stessa: sul Titano il problema è il “ciaffico”! Come a Palermo del resto.

Bene in questa “coda” di rogatoria, tra gli accertamenti autorizzati su determinati soggetti e su specifiche società italiane, oltre al caso descritto ieri su questo blog (si veda l’archivio alla data di ieri) c’è una parte che fa riferimento, e riporto testualmente, a “fatti illeciti descritti nelle annotazioni di polizia, denominate Criminalità organizzata, di cui all’allegato n.16, alla rogatoria principale (f,33305/A) e seguenti. In particolare del rapporto di Polizia giudiziaria, figurano diversi soggetti, le cui condotte sono in prosieguo esaminate”.

Ebbene a questo punto ho davanti a me due strade: riferire i nomi e i cognomi (dando un indubbio vantaggio a costoro, sui quali la Procura di Forlì sta compiendo già con enormi ostacoli accertamenti bancari e no, mettendo oltretutto in grave difficoltà la stessa Procura) oppure descrivere il fenomeno sul quale le due autorità giudiziarie (italiana e sammarinese) stanno con grande difficoltà collaborando. Difficoltà che non sorgono certo dalla volontà delle parti “tecniche” (vale a dire proprio i magistrati e i commissari della legge) ma dagli ostacoli legislativi e burocratici che la granitica Repubblica del Titano, ancora oggi fondata sull’omertà finanziaria, frappone alle inchieste.

Scelgo la seconda strada, omettendo i cognomi che comunque si trovano a pagina 19 e 20 dello stralcio di rogatoria.

TIPINI RACCOMANDABILI

Il primo soggetto sul quale la Procura di Forlì vuole vederci chiaro, conoscendo le sue “mosse” bancarie a San Marino, è già segnalato in Italia per alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno, falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, contraffazione di marchi, associazione per delinquere e ricettazione.

A San Marino è stato condannato per il reato di emissione di assegni a vuoto e ancora in Italia e coinvolto con tre campani in un procedimento penale per contraffazione di marchi. Dall’esame degli assegni, il nucleo di polizia tributaria forlivese ha rilevato numerosi assegni tratti al di sotto della soglia di non trasferibilità, che sul retro hanno la firma per girata della società di diritto sammarinese “X” (la ometto volontariamente), di cui amministratore risulta un familiare del soggetto in questione.

E’ SOLO IL PRIMO DELLA LISTA

Alle pagine 23 e 24 c’è un’altra sfilza di personaggi sui quali il commissario della legge sammarinese Rita Vannucci ha ammesso la richiesta di assistenza giudiziaria per i reati di riciclaggio e violazione della normativa antiriciclaggio, disponendo di svolgere accertamenti bancari presso la Cassa di Risparmio di San Marino e Carifin sa. In particolare – con tutta la calma di questo mondo e i mal di pancia di questa terra – a San Marino sarà possibile acquisire copia del dossier intero, estratti di conti corrente, assegni versati ed emessi, distinte di versamento e prelevamento, dati contabili e comunque documentazione relativa a ogni tipo di rapporto bancario, finanziario e fiduciario intrattenuto con la Cassa e Carifin da queste persone. Il periodo temporale? Dal 1° novembre 2004 al 5 maggio 2009.

Ma chi sono questi personaggi?

Il primo è un napoletano, segnalato più volte all’autorità giudiziaria per scommesse clandestine, esercizio abusivo, associazione per delinquere, truffa, falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e corruzione. Il secondo, anche lui napoletano, risulta segnalato per violazione della legge sugli stupefacenti.

I FRATELLI CALABRESI E LE CHIACCHIERATE CON CARIFIN

Nelle indagini della Procura di Forlì emerge che un calabrese della provincia di Catanzaro, dal suo cellulare, chiamava regolarmente e tranquillamente gli addetti Carifin per la movimentazione di un conto a lui intestato. Il fratello, circa tre anni fa, è finito “ar gabbio” (come diciamo noi romani), cioè in carcere, perché ritenuto uno dei principali responsabili di un vasto traffico di droga ma in precedenza risulta segnalato all’autorità giudiziaria italiana per agenzie di affari non autorizzate o vietate, frode commerciale, mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, falsità in scrittura privata e associazione per delinquere.

I PRECEDENTI E IL PROFILO DELLE OPERAZIONI

I soggetti in questione, scriverà il magistrato Vannucci, riferendosi anche al misterioso Omega di cui ho scritto ieri, oltre ad una sfilza di soggetti imprenditoriali veneti che evidentemente sarebbero allergici allo Stato italiano e alle sue leggi, hanno precedenti penali e di polizia oppure sono soggetti in rapporti commerciali con costoro. Hanno movimentato una notevole quantità di assegni negoziati presso la Cassa di Risparmio di San Marino, con precedente girata all’incasso con la sigla “Carifin 394”. Una modalità che non può escludere a priori la volontà di traenti, emittenti, portatori e prenditori di sottrarsi a possibili verifiche antiriciclaggio.

In alcuni casi sono verificate consistenti richieste di prelievo di denaro; sono stati emessi assegni tratti da persone a proprio favore e successivamente girati una o più volte con firme non sempre identificabili.

In altri casi sono stati individuati profili anomali di operatività finanziaria riferibile a persone fisiche e giuridiche potenzialmente in contatto con ambienti della criminalità organizzata, in particolare in Campania, Calabria e Sicilia.

In un caso (descritto nel post di ieri) Carifin viene raggiunta da telefonate partite dal misterioso Omega di Lamezia Terme per un importo così…esiguo da avere la necessità di “più automezzi per il prelievo”. Sigh!

L’insieme di queste circostanze, conclude il Tribunale di San Marino, “inducono a supporre la volontà di sottrarsi a possibili verifiche antiriciclaggio e costituiscono il sintomo della verosimile provenienza delittuosa dei titoli e comunque sono indici di anomalia e rischio”.

A questo punto è quanto mai evidente e chiaro a tutti che il problema di San Marino è e resta il “ciaffico”. Di capitali e uomini.

A breve tornerò con una nuova puntata.

Besitos.

2 – to be continued (la precedente puntata è stata pubblicata ieri)

r.galullo@ilsole24ore.com

 p.s. Invito tutti ad ascoltare la mia nuova trasmissione su Radio 24: “Sotto tiro – Storie di mafia e antimafia”. Ogni giorno dal lunedì al venerdì alle 6.45 circa e in replica poco dopo le 21.05. Potete anche scaricare le puntate su www.radio24.it. Attendo anche segnalazioni e storie.

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12 novembre 2010 - 8:09

Esclusivo/3


Carifin San Marino: arriva in Procura antimafia l'ombra lunga di camorra e ‘ndrangheta


Solo ora si scopre che l’11 giugno 2010 il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso riceve dai pm forlivesi Fabio Di Vizio e Marco Forte, 57 pagine di un nuovo rapporto dall’oggetto inequivocabile: “Relazione su evidenze investigative e questioni sistematiche di interesse per il contrasto dell’utilizzazione del sistema creditizio e finanziario per fini di riciclaggio di proventi di attività illecite, anche connessi a quelle delle organizzazioni criminali”. Più chiaro di così si muore.

In questo dettagliatissimo rapporto i due pm ricordano una serie di nomi e cognomi di persone e società sulle quali vogliono indagare più a fondo, salvo magari scoprire (ed è quello che tutti ci auguriamo) la verginità e la correttezza delle operazioni e dei comportamenti.

Attenzione: tra questi nomi e queste società non rientrano quelle di cui ho scritto nei precedenti due post (si veda l’archivio di ieri e l’altro ieri), a testimonianza di quanto sia in continua evoluzione il lavoro della Procura che cammina tanto più celermente, quanto più spediti sono l’assistenza giudiziaria e l’appoggio che provengono dalle Istituzioni sammarinesi, a partire da quelle creditizie. Quella del Tribunale, in particolare del Commissario sammarinese della legge Rita Vannucci, è uno dei pochi punti fermi.


NOLA CHIAMA, SAN MARINO RISPONDE

La prima storia che i pm raccontano per filo e per segno è quello degli assegni riconducibili a Carifin, tratti da banche campane o laziali, con importi al di sotto della soglia di “non trasferibilità”. I traenti o comunque i beneficiari sono società tutte collegate direttamente o indirettamente a una società di Nola (Napoli), con ramificazioni o interessi nelle province di Catania, Verona, Benevento e Roma.

L’ammontare degli assegni per gli anni 2005, 2006 e 2008 è di 2.817 per un importo di circa 17,8 milioni. E manca il 2007!

La correlazione dei rapporti tra la finanziaria sammarinese Carifin e la holding nolana è avvalorata da numerose telefonate intercettate tra il direttore amministrativo del gruppo e il direttore generale della Carifin, Gianluca Ghini. Nelle telefonate è esplicito il riferimento agli assegni e alle modalità di negoziazione.

Una telefonata – in particolare – viene annotata e riportata dai pm forlivesi alla Procura nazionale antimafia. Quella in cui il direttore amministrativo predispone il trasferimento di una ingente somma di denaro a favore di un istituto di credito lussemburghese. “L’ipotesi di flussi finanziari gestiti attraverso modalità anomale, dubbie e poco trasparenti – si legge a pagina 8 della relazione – viene avvalorata dalla conversazione intercettata il 18 maggio 2009 alle 11.15.17 in cui l’holding nolana manifesta l’intenzione di chiudere i rapporti con Carifin” e si accorda sulla data per andare a San Marino per la definizione.

Il piano viene portato a termine e ora la Procura di Forlì è sulle tracce dei successivi passaggi e investimenti. Si badi bene: la conversazione è stata effettuata ad appena due settimane di distanza dall’esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare eseguite nell’ambito dell’inchiesta Varano e potrebbe dunque rappresentare, concludono i pm di Forlì, “un ulteriore indizio di operatività anomala del Gruppo campano”. L’interrogazione della banca dati del Viminale sui vertici societari, è bene specificarlo, non ha fornito alcun precedente.


ALTRO GIRO, ALTRA STORIA

Di altro tenore, invece, la seconda storia, raccontata anch’essa con dovizia di particolari (che qui si omettono) e che riguarda 3.247 assegni Carifin (per il solo 2008) per un importo complessivo di quasi 9,4 milioni. Tutti i titoli che finiscono nel conto fiduciario Carifn provengono dalle province di Napoli e Caserta. Numerosissime sono le girate a favore di una impresa di Casoria. Il capitale sociale (pari a 5 milioni) di questa società era, all’epoca dei fatti rappresentati, suddiviso tra marito e moglie ma 100 azioni ordinarie, pari a 100mila euro, erano in mano a Carifin sa. Il presidente del collegio sindacale conversa tranquillamente in più occasioni, come è logico che sia, con il dg di Carifin

La parte che i pm forlivesi evidenziano (in grassetto) a Grasso è che la co-titolare con 2,45 milioni di capitale, ha numerosi precedenti penali tra cui reati di concorso in associazione mafiosa, concorso in estorsione e concorso in riciclaggio. E’ stata arrestata. Il marito della cugina ha precedenti, tra l’altro, per associazione mafiosa ed è stato scarcerato, per fine pena, nel 2008.

NON POTEVANO MANCARE I CALABRESI

Se in queste segnalazioni alla Procura nazionale antimafia mancassero i calabresi, vorrebbe significare che non abbiamo capito nulla della pervasività della ‘ndrangheta.

Tra i negoziatori di assegni presso la Carifin ecco comparire dunque un calabrese di Gioiosa Ionica (un paese in provincia di Reggio Calabria in cui le cosche controllano anche l’aria) che risiede nel ravennate.

Questo soggetto – stranoto alle Forze del’Ordine – ha tra l’altro a suo carico reati come  produzione e traffico di sostanze stupefacenti, porto abusivo e detenzione di armi, ricettazione, associazione di tipo mafioso, omicidio doloso e possesso ingiustificato di valori. Il tizio in questione – uno dei presunti re del narcotraffico internazionale – era noto alle Forze dell’Ordine ma evidentemente a San Marino nessuno sapeva chi fosse e quale pedigree avesse.

Che sciocco: a San Marino i giornali non si pubblicano, quelli italiani non arrivano, la tv è oscurata, la radio è criptata, i telefoni sono sotto controllo, la posta ordinaria è sottoposta a censura, le mail sono vietate e la collaborazione investigativa e giudiziaria in quel momento era stata colpita da un hacker alieno che aveva oscurato le frequenze e le onde radio. Ah dimenticavo: tutti i piccioni viaggiatori in volo tra l’Italia e San Marino (andata e ritorno) erano stati abbattuti a colpi di bazooka.

Alla prossima puntata. Passeranno solo poche ore, tranquilli, non vi lascio soli neppure per il week end nonostante il mio cuore giallorosso cominci a palpitare per l’epocale scontro con i “gobbi”.

Besitos.

3 – to be continued (la precedenti puntate, in archivio, sono state pubblicate il 10 e l’11 novembre)

r.galullo@ilsole24ore.com

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2010/11/esclusivo3-carifin-san-marino-arriva-in-procura-antimafia-lombra-lunga-di-camorra-e-ndrangheta.html


Titolo: Roberto GALULLO. Vieni via con me: appunti, nomi e storie a margine della ...
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2010, 10:01:21 am
15 novembre 2010 - 8:28

Vieni via con me: appunti, nomi e storie a margine della macchina del fango (ri)partita contro Roberto Saviano

ROBERTO GALULLO

In virtuale compagnia di 7.599.000 italiani (dati Auditel) ho guardato, la scorsa settimana, la prima puntata di Vieni via con me.

Ho atteso giorni per sedimentare le mie sensazioni e confrontarle con quelle degli altri. A partire da quelle dei “nobili” commentatori. Siano essi critici, giornalisti o politici.

Io non sono nobile e allora non mi avventuro in perifrasi e lo dico subito: sto (e starò) con Saviano. Senza se e senza ma. Con e senza le critiche (attenzione: critiche democratiche e civili, non melma in faccia) che gli si possono muovere. Con gli errori commessi: piccoli o grandi che essi siano stati nel suo esordio di autore tv.

La forza degli argomenti e il caleidoscopio dei valori e dei principi mandati in onda ha superato ogni cosa. Tutto si può migliorare nella vita ma per farlo bisogna avere radici che si alimentano di linfa vitale. Saviano le ha. I suoi detrattori post-televisivi no.

Alla vigilia della nuova puntata mi ritrovo dunque a riflettere con voi di una spaventosa, disgustosa, sfrontata e impunita campagna di delegittimazione contro Saviano che non attendeva null’altro che la sua faccia in tv per lanciare nuovi veleni.

SAVIANO VAI AVANTI TU CHE A ME VIEN DA RIDERE

Contro gli è stato – salvo poche e confuse eccezioni - sputato fuoco. Nemico e amico. Ma chi sono i suoi amici? Quelli di destra o quelli di sinistra? Dia retta a me Saviano: nessuno. Ma lui lo sa già, come sa che 7,6 milioni di telespettatori non sono 7,6 milioni di amici. Figuriamoci 7,6 milioni di potenziali elettori o simpatizzanti di un virtuale partito!

Volete la mia personalissima opinione? Saviano è sempre stato e sarà sempre assolutamente solo. Nessuna tra le migliaia di mani che stringe sarebbe disposta a condividere con lui forse neppure un giorno di prigionia tra sette guardie del corpo in una vera e propria vita pubblica di merda. Battergli le mani, comprare i suoi libri, testimoniargli solidarietà a parole è un conto. Essere disposti a declinare nella propria vita l’ortodossia morale di chi fa della battaglia alle mafie uno stile quotidiano, è tutt’altra cosa.

Ma la macchina del fango – attenzione – è partita da anni e anche questo Saviano lo sa bene ed infatti molti hanno interpretato la sua lezione storica su Giovanni Falcone come una lettura a futura memoria su se stesso.

Avrebbe fatto bene a dirlo senza passare attraverso messaggi subliminali? Può darsi ma la pudicizia, la delicatezza, la riservatezza e l’onore sano di un uomo (rectius: Uomo) di 30 anni che denuncia blindato ogni mafia mentre molti suoi coetanei (da Sud a Nord) vivono liberi e con pensieri diversi in testa (dalle moto alla figa passando per il calcio e un bicchiere di vino), non consentono sofismi.

LA MAIL IN CIRCUITO

Vi racconto un sofferto episodio che, credo, chiarirà come anche i migliori (a mio modesto avviso) possano sbagliare e lanciarsi nel più clamoroso degli autogol.

Martedì 26 ottobre alle 17.55, unitamente ad altri 103 destinatari (li ho contati uno per uno) ho ricevuto una mail del Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato.

Per chi non lo sapesse, questo Centro il cui motore è il vulcanico Umberto Santino, da 33 anni (leggo testualmente dal sito www.centroimpastato.it), “è attivo contro la mafia e per la pace, tra memoria, ricerca e impegno civile”.

E, si badi bene: è proprio così e chi tratta di mafie sa che il Centro palermitano è un punto di riferimento vitale.

La mail che ho ricevuto (abbiamo ricevuto) ha un oggetto inequivocabile: “Saviano sfugge al confronto con il presidente del Centro Umberto Santino su Peppino Impastato”

Il 4 ottobre il Centro, attraverso il suo avvocato, ha spedito all’editore Giulio Einaudi una lettera diffida in cui si chiede la rettifica ad alcune affermazioni, secondo il Centro non veritiere, contenute nel libro “La parola contro la camorra” di Roberto Saviano. Secondo il Centro, il libro “ignora l’attività dei familiari, del Centro e dei compagni e sostiene che il film “I cento passi” ha fatto riaprire il processo mentre c’erano già in corso due processi contro i mandanti del delitto e la Commissione parlamentare antimafia del 1998 indagava sui depistaggi”.

IL SILENZIO DELLA STAMPA

Lo stesso comunicato lamentava “il silenzio stampa di gran parte dei giornali, ad eccezione del Corriere della sera, di Liberazione, della Sicilia e di alcuni blog, il reiterato rifiuto di Saviano a confrontarsi, chiestogli, tra gli altri, da Radio Città aperta che ha mandato in onda un'intervista a Umberto Santino”.

La ragione di tale rifiuto? E’ secondo il Centro palermitano evidente: “è una fuga dalla verità, che dimostra quanto il giovane Saviano tiene a quella affermazione non veritiera, che a suo avviso sarebbe la prova più significativa dalla potenza della parola, considerata come una sorta di Logos neoplatonico e di Verbo del vangelo di Giovanni”.

“Non possiamo che prendere atto del silenzio della stampa italiana, anche di quella democratica e di sinistra, che ha creato o avallato il mito di Saviano – prosegue il comunicato stampa del Centro - e della scarsa considerazione per la verità dei fatti del giovane scrittore ormai assurto a personaggio mediatico internazionale e predicatore televisivo”.

AFFOSSATO ANCHE GOMORRA

“Abbiamo espresso solidarietà al giovane scrittore per le minacce ricevute ma già prima del successo avevamo rilevato che Gomorra – prosegue il comunicato stampa - è un romanzo che confonde fiction e realtà, molto meno utile per la comprensione della camorra di altri testi più documentati e attendibili. Avevamo anche fatto notare che nel volume “La bellezza e l'inferno” si parla di una telefonata della madre di Peppino allo scrittore, che, da quello che ci dice Felicia, la cognata di Peppino, non risulta essere stata effettuata. Nello stesso testo si parlava del funerale della madre di Peppino in termini inesatti (c'erano "molti ragazzi", non c'era il sindaco ecc.). Al funerale hanno partecipato centinaia di persone, purtroppo poche di Cinisi, non solo "ragazzi", c'erano magistrati, giornalisti, protagonisti del movimento antimafia degli ultimi decenni, il sindaco c'era e aveva proclamato, su nostra richiesta, il lutto cittadino, e il saluto laico è stato tenuto dal presidente del Centro Umberto Santino.
Anche questo, assieme a varie imprecisioni, rilevate da più d'uno, che costellano Gomorra, dimostra la superficialità di Saviano e il pochissimo conto in cui tiene l'informazione e la documentazione. Tanto, bisogna credergli sulla Parola!”

LA MEMORIA TORNA A LIVATINO

Debbo dire che ho letto con sgomento ed enorme sofferenza questa mail, della quale, alcuni giorni fa, ho anche parlato con il mio direttore Gianni Riotta.

Ma come! Parlare del “giovane Saviano” mi ha riportato immediatamente alla mente le parole dell’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga sui “giudici ragazzini”, che avevano il loro capostipite in Rosario Livatino, il cui assassinio per mano della mafia, il 21 settembre 1990, segnò per sempre la mia esistenza. In quel “ragazzino” c’era tutto il disprezzo nei confronti dei giovani.

Darti del “giovane” è spesso un modo per ammazzarti con le parole, in questo Paese che non contempla null’altro che il vecchio marciume politico e ideologico.

Ma come! Dargli poi del “predicatore televisivo”, ben sapendo che di lì a poco avrebbe esordito proprio come autore tv.

Il resto della durissima lettera non lo commento neppure perché scenderei di livello.

Ora, badate bene, non voglio dire che non ci possano essere delle affermazioni corrette da parte del Centro palermitano ma attraverso questo blog chiedo a Umberto Santino che conosco da anni: non ti rendi conto che stai delegittimando una persona che seppur criticabile (e chi non lo e?) mette la sua vita sul piatto dell’informazione, della conoscenza e della coscienza antimafia?

Non ti rendi conto che tu, con il tuo prestigio costruito finora e con il prestigio di un Centro che porta il nome di una vittima di mafia limpida, stai legittimando attraverso parole sconvenienti, durissime, magari paradossalmente contenenti elementi di ragione, chi non aspetta altro che annoverarti tra le fila dei detrattori di Saviano? Uno come te, capisci, che è invece indubitabilmente dalla parte della legalità?

Non ti rendi conto Umberto che una cosa è commettere errori di costruzione e ricostruzione all’interno di uno o più libri (quanti ne avrò commessi anche io ma sempre in buona fede) e un’altra cosa è trovarsi, per quegli errori, esposto al ludibrio e agli attacchi di chi nel frullatore mescola tutto?

Un’ultima domanda vorrei farti: ma tanti bersagli che potevi scegliere, perché Saviano? Perché?

LA PROVA DEL NOVE

Dopo quel comunicato stampa è partita una improvvisata girandola di risposte. Alcune sono giunte a tutti. Altre, suppongo, solo a Umberto Santino.

Ebbene, a leggerne una mi sono venuti i brividi. Ometto il nome per evitargli di godere nel leggersi ma costui fa espressamente riferimento alle asserite frequentazioni di Saviano con personaggi poco raccomandabili e di sue ambiguità sconcertanti.

Sono senza parole! Senza parole!

Altri hanno disapprovato. Altri, per carità di patria, hanno preferito chiudere la vicenda e non dare spazio a commenti, invitando tutti a vedersela all’interno. Ma all’interno di che? Cos’è, un processo a Saviano? Ma per quali delitti, di grazia? E’ accusato di cosa? Quali sono le ipotesi di reato? Avere commesso qualche errore di ricostruzione nei libri?  E’un Tribunale autoproclamatosi o cosa?

Vedi caro Umberto il tuo intento sarà stato anche nobile (la sete di verità su passaggi della vita di Peppino Impastato) ma come pretendi che la stampa ti segua in una denuncia la cui notizia, semmai, non sono gli eventuali errori di Saviano ma il tuo attacco frontale a un intellettuale che commetterà pure sbagli ma che è un patrimonio di valori per questa povera Italia alle prese con il bunga-bunga?

A PROPOSITO DI STAMPA

Non sto qui a tediarvi con la summa degli articoli che si sono interessati più di Saviano che dell’intera trasmissione di Fabio Fazio. (si contano sulle dita di una mano quelli positivi e del resto ricordiamo che già il 20 aprile Libero sbatteva in prima pagina “Anche per Saviano meno male che Silvio c’è”)

Con un’eccezione. La Gazzetta del Sud, voce ufficiale della Calabria e della Sicilia che non si scompongo mai, mercoledì 10 novembre a pagina 16 ha così titolato: “Torna Benigni ed è record di ascolti”.

Saviano non viene neppure nominato nel sommario, che recita: “Ma sfuma, per problemi di budget, l’ipotesi di rivederlo a Natale su Raiuno con il suo Dante”.

La foto almeno direte voi! Quella ci sara! No, la foto su due colonne è di Benigni.

L’incipit del pezzo è tutto per Benigni e il pezzo verte sulla trasmissione e sull’intervento dell’attore-intellettuale ma Saviano e il suo discorso di resistenza, impegno e valore civile appaiono un’appendice e vengono citati solo perché altrimenti non si poteva.

Insomma è palese: Saviano non interessa. Per carità, scelta legittima. O non deve interessare. Se non nell’occhiello dove viene confuso con altri e dove comunque il protagonista è Benigni: “Durante il suo show a “Vieni via con me” su Raitre con Fazio, Saviano e Abbado ha toccato picchi di 9 milioni di spettatori”.

Si spiega anche con questi distacchi se il Sud è mitridatizzato di fronte alle mafie e se la trasmissione Vieni via con me lunedì scorso ha sfondato al Nord mentre al Sud ha toccato percentuali imbarazzanti. Percentuali che si sono ribaltate analizzando i dati Auditel del Grande Fratello, in onda lo stesso giorno alla stessa ora. In questo caso calabresi, siciliani, pugliesi, campani e lucani sono stati affascinati e hanno seguito con la bava alla bocca tette, culi e siliconi.

Del resto il problema del Sud è il “ciaffico” come lo stesso Benigni mirabilmente ci spiegava nel film “Johnny Stecchino”.

Al Nord la consapevolezza e gli anticorpi antimafia hanno sempre più bisogno di essere corroborati e queste trasmissioni aiutano. In Veneto Il Gazzettino, a pagina 8 ha pensato (male) di non dedicare l’apertura di pagina alla trasmissione ma ha comunque titolato “Saviano: democrazia a rischio” (e io sono perfettamente d’accordo). Forse avrebbe dovuto osare un po’ di più l’ottimo Gazzettino, visto che a pagina III dell’edizione di Venezia titolava: “Mala del Brenta - Il Pg vuole in carcere i soci di Maniero”. Insomma, quasi 25 anni dopo la mafia del Brenta non è più un ricordo ma ancora una drammatica realtà.

IO NON MI SENTO SAVIANO MA PER FORTUNA…

Concludendo, quanto avrei desiderato che tutti i commenti, le analisi, le critiche e persino i furibondi attacchi rivolti all’autore di Gomorra si fossero comunque conclusi, parafrasando la splendida canzone di Giorgio Gaber portata martedì scorso sul palco da un ispirato Daniele Silvestri, così: “io non mi sento Saviano ma per fortuna o purtroppo lo sono”.

Nobili commentatori fate ancora in tempo a rimediare. Da domani i giornali e i media vi riospiteranno. E molti di voi faranno a gara per infangare ancora Saviano, patrimonio di valori, principi e regole in un’Italia a vostra misura, che balla il bunga-bunga.

r.galullo@ilsole24ore.com

ps. ---
pps: --

©RIPRODUZIONE RISERVATA
http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2010/11/vieni-via-con-me-appunti-nomi-e-storie-a-margine-della-macchina-del-fango-ripartita-contro-roberto-saviano.html


Titolo: Roberto GALULLO. Il sindaco Michele Emiliano vieta ai mafiosi i luoghi simbolo..
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2010, 06:22:10 pm
17 novembre 2010 - 7:49

Il sindaco Michele Emiliano vieta ai mafiosi i luoghi simbolo di Bari ma c’è chi lo critica e chi si offende


Il Sud che resiste alle mafie parte anche dalle piccole cose. Come un sindaco che non ci sta a riconsegnare l’ex Punta Perotti, che ha visto nascere un ecomostro e che con lui è stata riportata alla bellezza naturale e originaria. Come un’ordinanza comunale che vieta agli uomini vicini ai clan di sostare nei luoghi simbolo della città, se creano pregiudizio per la sicurezza urbana.

Il Sud che combatte ha tante capitali: una di queste è Bari. Il Sud che non si piega, tra i tanti, ha un nome e un cognome di peso: Michele Emiliano, che di questa città è sindaco dal 2004.

Questo cinquantunenne magistrato (in aspettativa) della Direzione distrettuale antimafia di Bari, con un’ordinanza paradossale e provocatoria, frutto di un’estenuante trattativa politica e istituzionale, ha sovvertito il mondo della comunicazione e dell’informazione antimafia e ha aperto un nuovo fronte di dialogo nella lotta alla criminalità organizzata.

Emiliano, presidente anarchico, atipico, provocatore e dissacratore del Partito Democratico della Puglia, di cui è stato segretario regionale dal 2007 al 2009, quell’ordinanza l’ha fortemente voluta perché ha capito che provare a colpire i simboli e i rituali significa dire ai mafiosi che le Istituzioni conoscono il loro modo di comunicare e non hanno paura di rispondere.

Marshall McLuhan divulgò che "il mezzo è il messaggio. Il vero messaggio che ogni medium trasmette è costituito dalla natura del medium stesso. E la natura strutturale di Emiliano, in questo caso, vale un messaggio di coscienza e conoscenza alla collettività amministrata, uguale e contrario a quello che gli uomini dei clan lanciano quando si appollaiano sulle scale di una Chiesa sacra ai baresi.

Riappropriarsi dei luoghi storici dei Bari – come la zona del Castello, piazza Chiurlia, la Cattedrale e soprattutto la Basilica di San Nicola intorno ai quali, soprattutto la sera, passeggiare è un rischio – vuol dire colpire, anche solo virtualmente, i luoghi del potere mafioso visibile e sfrontato e vuol dire denunciare l’impunità invisibile ma spesso garantita.

Vuol dire prestare un’attenzione in più a una comunità di un milione di abitanti che assiste da anni a una sanguinosa guerra di mafia e che quest’estate, il giorno di Ferragosto, ha guardato sgomenta a una sparatoria sul lungomare De Tullio, proprio nelle vicinanze della Basilica. Uno sguardo di troppo verso una donna, forse qualche litigio il giorno prima tra i due pistoleros e via: prima una scazzottata e poi gli spari che hanno raggiunto tre passanti che credevano che a Bari, il sabato sera, si potesse respirare solo l’aria di mare e non anche quella della polvere da sparo.

I CONTENUTI

L’ordinanza specifica che non sarà più permesso “sostare in modo prolungato in atteggiamento di sfida, presidio o vedetta da parte di soggetti con precedenti penali, assoggettati a misure di prevenzione e comunque indiziati di stabile collegamento criminale con soggetti appartenenti alle suddette categorie di persone”.

Un’ordinanza inutile, demagogica e populista? Può darsi ma in primis per chi non sa (o fa finta di non sapere) che i mafiosi vivono innanzitutto di simboli del potere. Un mafioso può mettere nel conto il carcere, la morte ma non può e non deve mettere nel conto la sottrazione dei simboli del comando: luoghi, rituali, tradizioni e patrimoni. Compresi quelli virtuali, come gli assembramenti sulle scale di una Cattedrale e di una Basilica, dove lo sfregio del profano al sacro raggiunge l’apice.

“Il controllo mafioso del territorio – ha dichiarato Emiliano - si fa anche quando alcune persone stanno ferme in un dato luogo in atteggiamento di presidio”. Cioè di controllo.

Si badi bene che io non conosco personalmente il sindaco Emiliano: non gli ho mai stretto la mano in vita mia, lo farei più che volentieri e non ho difficoltà a schierarmi con lui nelle battaglie di civiltà morali contro le mafie. Così come non avrei difficoltà a criticarlo negativamente quando e se ci sarà occasione.

OTTIMI SERVITORI DELLO STATO

Quest’ordinanza, che resterà in vita fino alla fine dell’anno per via di quella mediazione che è l’essenza stessa della politica ma che potrà essere rinnovata, non è stata capita fino in fondo neppure da chi, per mestiere e impegno civile, è preposto a capirla o quantomeno a non farla apparire come un gioco. Perché con i simboli del potere sono innanzitutto i mafiosi a non scherzare.

Parlo ad esempio del prefetto di Bari, Carlo Schilardi, che personalmente stimo, che aggiunge il suo nome ad altri Servitori dello Stato che in altre città – Milano, Parma e Roma sono le prime che mi vengono in mente – nel recente passato hanno dato una lettura, a mio avviso, all’acqua di rose dei fenomeni mafiosi.  “Molto spesso – ha commentato Schilardi – a questo genere di provvedimenti viene dato un valore superiore al reale. La lotta alla criminalità non si fa con le carte, perché se così fosse avremmo già vinto”. Vero ma qui la carta è solo la forma, la sostanza è che ai bulli di mafia o contigui alla mafia viene detto: “tu mi sfidi e bivacchi. Io accetto la sfida e ti caccio”. Una sfida ai clan bell’e buona che colpirà dalla multa all’arresto chiunque rappresenti – per non violare giustamente le libertà costituzionali, come ha sottolineato anche l’opposizione in consiglio – una minaccia per la sicurezza.

OTTIMI RISULTATI NELLA REPRESSIONE

Avrei capito una delegittimazione di questo provvedimento se Bari e con essa le Istituzioni locali e quelle statali, fossero rimaste in questi anni inermi di fronte allo strapotere dei clan mafiosi. Ma così non è. La Polizia, le Forze dell’Ordine, la Guardia di Finanza e la magistratura hanno assestato colpi micidiali ai clan che imperversano in città: Strisciuglio, Di Cosola, Parisi, Stramaglia. Al pm Desireè Digeronimo, ottimo magistrato antimafia, continuamente minacciata, è stata rafforzata la scorta. Gli inquirenti stanno facendo un buon lavoro e il patrimonio delle cosche è stato duramente colpito con continui sequestri e confische.

Lo stesso Comune di Bari fa – in linea con quelli che sono i poteri di un’amministrazione comunale- dà importanti segni di vita, come l’istituzione dell'Agenzia per la lotta non repressiva alla criminalità organizzata, che si occupa di offrire un'alternativa a tutte le persone più esposte alla devianza, specialmente ai bambini e ai minori. Un ufficio che è stato ritenuto un modello positivo dalle Nazioni Unite e che viene studiato da molte città italiane e straniere.

La stessa attenzione alla legalità è costante. Proprio pochi giorni fa, l’8 novembre, la sala consiliare del Comune ha ospitato il convegno “Il governo locale nel rapporto tra crimine organizzato e sicurezza urbana: mercati, consumi e stili di vita”.

In quell’occasione Emiliano ha sottolineato quelle che sono le linee di un sentire comune tra i sindaci di qualsiasi coloro politico. “Alle città – ha detto - occorre dare mezzi giuridici e risorse economiche per rispondere a chi chiede sicurezza al sindaco, prima ancora che al questore o al prefetto. Se in una città avviene un omicidio tutti si rivolgono al sindaco chiedendo maggiore sicurezza, ignorando il fatto che la legge gli impedisce di avere un ruolo determinante in queste vicende e che, se ascolto viene dato alle sue richieste nel Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, è solo grazie alla sensibilità di questo o quel questore o prefetto”.

Sulle risorse economiche Emiliano ha infine affermato che “visto che il Governo ha ormai impedito alle amministrazioni di avvalersi del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso per l’erogazione del risarcimento dei danni riconosciuto ai comuni costituitisi parte civile nei processi di mafia, almeno allarghi le maglie del Patto di Stabilità, che danneggia soprattutto i comuni virtuosi come Bari, per un importo pari al danno subito dai clan mafiosi e riconosciuto dal giudice penale, permettendoci di continuare a investire in politiche di inclusione e prevenzione sociale, unica vera arma attualmente in mano agli enti locali per contrastare seriamente la diffusione della cultura mafiosa nei nostri territori”.

LA COMUNICAZIONE E L’INFORMAZIONE

Accennavo sopra che Emiliano ha anche sovvertito il modo di comunicare l’antimafia del dialogo e dei fatti. E per questo la stampa locale si è incazzata come un cavallo imbizzarrito. La capisco ma non approvo.

La comunicazione e l’informazione possono riuscire nel miracolo delle “convergenze parallele” come si usava dire un tempo in politichese ma se l’una (la comunicazione da parte degli amministratori) indispettisce l’altra (l’informazione dei media) forse è anche perché i giornalisti hanno perso il gusto delle notizia, hanno a lungo coltivato quello della partigianeria e hanno continuato a frequentare i salotti del potere.

Il sindaco, infatti, è stato accusato di aver diffuso la notizia sull’ordinanza in preparazione, sul suo profilo Facebook, che conta 17.075 amici e che cura personalmente la mattina di buon’ora e la sera tardi.

Ha diffuso lì l’anteprima della notizia? E allora? Qual è il problema di grazia? Chiedo ai colleghi giornalisti di Bari: è in corso una guerra polemica tra la nostra categoria e il sindaco? Su quali basi? Sulla mancanza di rispetto del sindaco nei confronti della categoria e sugli attacchi che mena un giorno sì e l’altro pure alla stampa, accusata spesso di informare male, con pregiudizio o in maniera quasi sempre distorta. Almeno questo mi pare di capire leggendo i media locali, a partire dalla storica Gazzetta del Mezzogiorno (si veda l’articolo in prima pagina di Michele Marolla di sabato 23 ottobre 2010) . Bene: rispondiamo con le armi dell’informazione libera e della schiena dritta. Gli si facciano le pulci a Emiliano (come è giusto che faccia una stampa libera), lo si critichi, lo si sproni, lo si metta nudo di fronte alle proprie responsabilità e si svelino gli errori amministrativi e politici.

Capisco che con chi non vuol dialogare (è anche questa l’accusa che viene mossa dalla stampa locale ad Emiliano) è impossibile un rapporto sereno e costruttivo ma non si invochi lo ius primae noctis sulle notizie, che ciascuno è libero di veicolare come vuole. Anche perché la comunicazione è un conto, l’informazione è un altro. E del resto la stampa locale lo ha dimostrato (a partire proprio dalla Gazzetta del Mezzogiorno) aprendo un dibattito e dando corso a una polifonia di voci su quel provvedimento in itinere. Questa è informazione.

Emiliano benedice i social network perché accendono e stimolano un contatto diretto tra chi li frequenta? What’s the problem? Chissenefrega.

A me personalmente non interessa una beata fava che Emiliano si rivolga la mattina e la sera ai baresi e a chi vuol mettersi in contatto con lui. Anzi possa dirla tutta? Sono felice! Magari lo facessero tutti gli amministratori e tutti mi politici! Ci sarebbe meno tempo per il bunga-bunga! Questo non mi impedisce e non mi ha impedito di farvi conoscere, partendo dall’ordinanza tanto discussa, una tessera importante del puzzle che al Sud resiste e lotta contro le mafie.

O no?

r.galullo@ilsole24ore.com

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http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2010/11/il-sindaco-michele-emiliano-vieta-ai-mafiosi-i-luoghi-simbolo-di-bari-ma-c%C3%A8-chi-lo-critica-e-chi-si-offende.html


Titolo: Roberto GALULLO. Camorra sull'asse Padova-New York
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 04:43:31 pm
Camorra sull'asse Padova-New York

Roberto Galullo


Franco Caccaro, imprenditore padovano nel settore delle macchine per triturazione dei rifiuti con la sua società Tpa, Tecnologia per l'ambiente srl, in pochi anni è diventato leader nel settore con oltre 200 dipendenti e sedi operative a Wall Street, a due passi dalla Borsa americana di New York, in Turchia, Australia, Francia e Brasile. A cavallo tra il 2005 e il 2006 la sua attività era decollata con l'ingresso d'ingenti capitali tra cui 3 milioni provenienti da due assegni della Resit, impresa di Cipriano Chianese che Caccaro giustificò con crediti personali che vantava nei confronti dell'imprenditore casertano.
Peccato che questo "miracolo" economico che corre sull'asse Caserta-Padova-New York sia stato spezzato ieri dalle Dia di Napoli e di Padova che hanno sequestrato oltre 13 milioni in beni immobili, tra cui ville di lusso, abitazioni di pregio e capannoni industriali nel Padovano. I beni sono stati sequestrati proprio a Chianese, ritenuto il re dei rifiuti del clan dei Casalesi, e al prestanome, l'imprenditore padovano.
Il Veneto è un'oasi felice ma solo per Casalesi e Cosa Nostra. Qui la mafia parla i dialetti campani e siciliani ma non ancora quelli calabresi. Ecco il punto: non ancora. «Il territorio compreso tra le le province di Verona, Padova e in parte Venezia – spiega infatti il sostituto procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi – si sta pian piano trasformando.
Le indagini più recenti svelano la presenza di soggetti calabresi di matrice mafiosa in vicende di traffico d'armi e droga. Soggetti che, per di più, risultano mantenere contatti con la terra d'origine. Da qui a ipotizzare approvvigionamenti di armi, ordigni ed esplosivi delle 'ndrine calabresi in Veneto, il passo è breve».
Ci mancavano solo i calabresi e i loro sporchi traffici in una terra che da quasi 20 anni è costretta a fare i conti con la camorra. Correva il 1993 e l'allora sindaco di Codognè, Mario Gardenal, condusse una battaglia per cacciare dal suo Comune Anna Mazza, la "vedova nera" di Gennaro Moccia, camorrista di Afragola trucidato nel 1987. Mazza, confinata nel Trevigiano dallo Stato, fu rispedita al mittente. Gardenal vinse la sua battaglia ma i trevigiani (e i veneti) persero la guerra: se ne andarono i camorristi, rimase la camorra imprenditrice.
Un anno fa il presidente di Confartigianato della Marca, Mario Pozza, affermò che «in questo momento di crisi di liquidità per molte aziende c'è qualcuno a cui la liquidità non manca». E se si va a leggere il rapporto della Dia del primo semestre 2010, si scopre che «le condizioni di benessere presenti nella provincia trevigiana costituiscono un polo di attrattiva per le compagnie criminali, che investono in attività commerciali o proprietà immobiliari i proventi illeciti».

da - ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-04-07/


Titolo: Roberto GALULLO. Legalità e cultura d’impresa, risorse per il territorio
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2011, 06:23:39 pm
12 aprile 2011 - 12:46

Roberto GALULLO

Meomartini (Assolombarda): facciamo come i greci e sulla legalità valorizziamo il ruolo sociale dell’impresa

Non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte ad una platea così attenta ieri sera, 11 aprile, nel convegno “Legalità e cultura d’impresa, risorse per il territorio”, organizzato a Corsico (Milano) dalla zona ovest di Assolombarda.

Poco prima dell’incontro – nel quale ero relatore con il professor Ernesto Ugo Savona dell’Università cattolica di Milano– una voce amica mi aveva raggiunto per suggerirmi: “mi raccomando, niente allarmismo sul fenomeno, gli imprenditori sono già spaventati”.

Sapete che sono refrattario agli “inviti” e così ho risposto: “Nessun allarmismo, più grave di così…sarò didascalico nella reppresentazione della pura realtà”.

A fine incontro sono stati molti gli imprenditori che mi hanno avvicinato per chiedermi dettagli su dettagli e la mia disponibilità a nuovi incontri.

Proprio la conoscenza, dunque, attraverso la parola scritta e orale, è ciò che più di ogni altra cosa può prevenire la criminalità. Questo le mafie lo sanno e lo temono. Per questo invocano omertà. Per questo sono stato contento di aver portato la mia testimonianza davanti a una platea di imprenditori e amministratori locali del milanese, così incredibilmente attenta.

La sintesi della giornata, al di là delle rappresentazioni plastiche del professor Savona e di chi scrive, è stata quella del presidente di Assolombarda Alberto Meomartini.

Lo spunto, paradossalmente, è stata la crisi economica. “Se il nostro territorio, se il nostro Paese hanno tenuto – ha affermato – è perché si è consolidato il rapporto tra le istituzioni, imprese e sindacati. La responsabilità sociale d’impresa si declina con la capacità di creare valore. Alle imprese, nella crisi, viene riconosciuto un valore e un ruolo sociale. Questo è ciò che caratterizza anche il ruolo dell’associazionismo d’impresa, come catalizzatore di impegni sociali e imprenditoriali. Parlare di legalità è parte di questo dna”.

Non sono mancate le specifiche puntuali sui sistemi pratici per accompagnare le imprese in questo cammino, come a esempio l’avvenuta creazione del fondo antiusura o la lotta alla contraffazione, che passa anche attraverso un lavoro comune con la Guardia di finanza (presente al convegno anche con il vicecomandante della tenenza di Corsico, Rossella D’Andreano).

Soprattutto dopo l’intervento di Maria Ferrucci, sindaca (come si legge sul biglietto da visita) di Corsico, che ha richiamato la trasparenza della sua ammnistrazione e il codice etico in dirittura d’arrivo, l’appello conclusivo di Meomartini è giunto naturale. “Stiamo lavorando tutti insieme – ha detto – per difendere la civiltà del lavoro. I greci andavano in guerra tenendosi per mano. Dobbiamo fare la stessa cosa. Non c’è nulla che sia solo responsabilità altrui. Su questo si fonda il futuro delle imprese”.

r.galullo@ilsole24ore.com


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da - robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2011/04/


Titolo: Roberto GALULLO. Il Comune di Firenze cerca sollievo in bilancio ma ...
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2012, 07:20:04 pm
27 marzo 2012 - 10:03


Il Comune di Firenze cerca sollievo in bilancio ma Giunta e opposizione si scannano sulle spese di swap, politica e personale

Questa mia inchiesta è uscita sul Sole-24 Ore la scorsa settimana nella serie “I conti dei Comuni” – La ripropongo a quanti non hanno potuto leggerla sul quotidiano.



Portoghesi non sono e neppure controllori. Sono “calcolatrici umane” che contano, uno per uno, i viaggiatori della linea 1 della tramvia di Firenze. Con blitz calendarizzati e a campione il cui conteggio, che viene poi tradotto con complessi calcoli in una statistica generale, va preso sulla parola.

Solo così del resto il Comune può sapere se, a fine anno, dovrà coprire la differenza tra la copertura minima dei posti e i passeggeri che hanno effettivamente staccato il biglietto. Il contratto tra Municipio e Gest (società per il 49% del Municipio attraverso Ataf e per il 51% dei francesi Ratp) prevede infatti, già dal primo anno di gestione, un minimo garantito di circa 9,1 milioni con la devoluzione  Gest di 47 centesimi a viaggiatore.

Il 2010, anno di inaugurazione della linea 1, è stato un bagno di sangue per le casse del Comune: 1,1 milioni di penale versati nelle casse della Gest perché i viaggiatori sono stati 7,7 milioni anziché gli oltre 9 attesi. Per ogni passeggero in meno il municipio ha dovuto pagare 47 centesimi. A questi vanno aggiunti 1,9 milioni per i ritardi nella costruzione (complessivamente la linea 1 è costata circa 263 milioni, coperta da risorse comunitarie, fondi statali e mutui contratti dal Comune).

Il secondo anno è andato meglio: il minimo garantito è stato raggiunto e il ricavo di garanzia per Gest salvo ma – in una tortuosa catena di cui si fa fatica a seguire gli anelli – è stata Ataf, la società di trasporto, a versare questa volta 47 centesimi per ogni viaggiatore in più nelle casse comuni di Gest. “Nel 2010 però – dichiara il 27enne Tommaso Grassi, consigliere comunale ora in quota Sel, assolutamente favorevole alla tramvia – è cambiato il sistema di calcolo, inserendo dei fattori correttivi che rendono più semplice raggiungere la cifra di 9,1 milioni di passeggeri e il relativo equilibrio finanziario”.

La partita delle ex municipalizzate direttamente o indirettamente partecipate da Palazzo Vecchio parte da qui perché la tramvia è una tessera di uno scenario molto più ampio di mobilità e riqualificazione urbana che dovrebbe cambiare volto alla città e contemporaneamente stravolgere le voci di entrata nel bilancio, che per il 2012 è di 710 milioni.

Il sindaco Matteo Renzi vuole fare in fretta, fare cassa e cominciare a cambiare il volto della città così poi da battere, coronato dal successo locale, le praterie della politica nazionale. Si scontra però quotidianamente con una realtà più complessa. Innanzitutto l’opposizione, proprio a partire dai costi spropositati sulla prima linea della tramvia, gli sta con il fiato sul collo ora che si (ri)parla dell’avvio della linea 2 (in realtà si attende la prima pietra da gennaio 2011) il cui costo è stimato in 254 milioni. Le banche sembra che non vogliano finanziare un’impresa che sia una. Non solo. Ataf gestione srl – nella quale confluiranno le quote di Gest, mezzi e personale di Ataf – e i cui destini si intrecciano inevitabilmente con Gest è sul mercato e il bando di gara prevederebbe una base d’asta stimata in 3,6 milioni con un diritto di prelazione per Ratp (ma Ataf smentisce categoricamente l’attendibilità di questa notizia). “Al privato che acquisterà questo ramo in usufrutto – spiega Grassi – arriverà in dote un tesoro garantito per 37 anni. Ogni anno, oltre a 400 mila euro di utile per la linea 1 e un dividendo di 98mila euro, e dal secondo semestre del 2015 per le linee 2 e la futura linea 3, l’utile sarà di 700mila euro all’anno e il dividendo di 171 mila euro. E’ un regalo la vendita a 3,6 milioni. Chi vincerà si prenderà il dolce, vale a dire il guadagno e lascerà al Comune l’amaro, vale a dire le responsabilità civili e penali. Inoltre per il personale al momento non è prevista  alcuna clausola sociale di salvaguardia dei posti di lavoro”. Sono sei le aziende che hanno presentato domanda di partecipazione al bando di gara: Gtt Torino; Umbria Tpl e Mobilità Spa (Perugia); Ati (costituenda) fra Busitalia-Sita Nord srl, Cooperativa autotrasporti pratese Soc. Coop e Autoguidovie Spa (Milano); Tper Spa (Bologna); Sia Spa (Brescia, Gruppo Sab controllato dagli inglesi di Arriva); Autolinee Toscane Spa (controllata dalla francese Ratp Dev). Renzi replica: “La base d’asta non è stata ancora fissata e valuteremo al meglio”.

Tutta la partita delle attuali 20 partecipazioni societarie - per le quali complessivamente il Comune nel 2010 ha staccato un dividendo di 7,4 milioni ma nessuno sa quale siano, dicono all’unisono i capigruppo all’opposizione del Pdl Marco Stella e dell’Udc Massimo Pieri le perdite nel bilancio consolidato - è da giocare. Renzi reputa strategica solo Quadrifoglio, con i cui vertici sta ragionando sulla possibile unione con le consorelle di Prato, Pistoia ed Empoli per un unico polo entro il 2015, che magari inglobi altre realtà territoriali per un eventuale e successivo sbarco in Borsa.

Nei prossimi anni le decisioni assunte dal Comune sulle ex municipalizzate saranno il binario parallelo della riqualificazione urbanistica della città e delle relative infrastrutture e impegneranno come mai il Comune e il suo bilancio. La conferma giunge proprio da Renzi: “Siamo abbastanza fortunati perché ci sarà una bella massa di quattrini”. La Tav tra Firenze e Bologna, contestazioni a parte, lascia in dote un’una tantum di 90 milioni per il “disturbo”. Autostrade farà opere di compensazione e complessivamente porterà nelle casse municipali un valore di 20 milioni.

La partita del cuore è però la Cittadella viola che per la Giunta di Renzi deve essere a costo zero per le casse comunali che, al contrario, debbono incassare. La convenzione con lo stadio Artemio Franchi porta una miseria: un milione. “La nuova convenzione – dice Renzi – dovrà portare al Comune molto di più e magari anche opere a compensazione”. La nuova area – individuata in quella che attualmente ospita i mercati generali ed è in capo a Mercafir - è immensa: 50 ettari dei quali circa oltre la metà sarà occupata da stadio, strutture commerciali, alberghi e uffici. Nella restante parte saranno trasferiti i 36 gestori con probabili nuovi investimenti in tecnologie dell’ambiente visto che, solo per il ciclo raffreddamento/riscaldamento, Mercafir, denuncia Pieri, spende 1,2 milioni all’anno. Chi costruirà e attrezzerà quest’area? Andranno a gara 33,4 ettari ma Stella e Pieri maliziosamente fanno presente che al vecchio blocco di potere rosso della città – Pci, coop rosse e Cgil – si sta lentamente sostituendo un potere bianco guidato da Cl e coop vicine alla Compagnia delle opere.

Se la cittadella viola è cuore e anima, gli ex immobili della Giustizia e la riqualificazione di Manifattura Tabacchi rappresentano invece “attese, promesse e speranze”.

A Novoli – nella cui area ricadono anche i mercati generali, un ex stabilimento Fiat trasformato in parco urbano e il polo delle Scienze sociali dell’Università – è stato ultimato il nuovo Palazzo di Giustizia ma non sono ancora stati completati i trasferimenti di tutto il personale e i traslochi di arredi e faldoni. Per i beni immobili nel centro storico che saranno liberati si aprirà il dibattito: che farne? “Penso a una Fondazione che gestisca gare e appalti e li metta a frutto per la città e le casse del Comune” dice Renzi. Intanto una cosa è certa: grazie alla riunificazione degli uffici, gli affitti che attualmente il Comune paga per le spese della giustizia, caleranno da 8.2 a 1,2 milioni all’anno.

Promesse e speranze anche per la ex Manifattura Tabacchi, chiusa nel 2001. Il complesso - costruito dal 1932 al 1940 in via delle Cascine – è una piccola città: sei ettari sui quali sorgono 15 fabbricati, di cui alcuni di 6 piani che ricoprono circa la metà del terreno per un totale di oltre mezzo milione di metri cubi. La proprietà è divisa tra Consorzio Etruria, Baldassini e Tognozzi e Immobiliare Milano Assicurazioni (29,71% delle quote a testa) oltre a 9 altri soci che detengono al massimo il 7,59%. Tutti privati tranne la Camera di commercio di Firenze (che ha il 2%). Va da sé che l’attuale congiuntura lascia poco spazio all’immaginazione di investimenti sicuri per ridare smalto ad una parte vitale della città.

SWAP CHE DOLORI!

“Abbiamo bloccato alcuni pagamenti perché ci sono i margini sui quali lavorare e questa è la strada che bisogna percorrere fino in fondo”: Matteo Renzi è categorico sulla partita dei derivati che, finora, è stata un gioco al massacro per il Comune di Firenze come del resto per molte altre amministrazioni locali. “Se le banche confermano la volontà di chiusura dei contenziosi in corso – aggiunge il sindaco al quale non è imputabile alcun contratto – bene, altrimenti sono pronto ad andare in Tribunale”. Un’ipotesi che al momento appare remota anche alla luce delle indicazioni del Governo Monti, che sono quelle di non andare allo scontro, in questa delicata fase sociale, economica e finanziaria, con le banche internazionali.

Il Municipio negli anni ha sottoscritto 13 contratti in derivati: 12 interest rare swap e un cross currency swap. Sei sono stati annullati in autotutela dal Comune. Il totale dell’investimento è stato di 270 milioni. Il totale degli interessi – come ha calcolato il leader dell’opposizione targata centro-destra, Marco Stella che ha anche presentato un’interrogazione approdata in consiglio il 5 marzo – è stato pesantissimo. Nel 2009 sono stati 5,4 milioni, saliti a 10, 3 nel 2010 e scesi a 9,1 lo scorso anno. In totale 24,9 milioni.

“Il Comune – dichiara Stella – avrebbe pagato dal 2006 ad oggi commissioni occulte complessive alle banche per 16,4 milioni. Un vero e proprio bagno di sangue. Ma non basta. Gli oneri non dovuti sarebbero 7 milioni e il totale, in questo calcolo per difetto relativo a spese non dovute, supererebbe i 23,5 milioni”.

Il totale del costo degli swap - sommando tutte le voci – negli ultimi tre anni, secondo il Pdl, si aggira intorno ai 48,7 milioni nei quali sono ricomprese le spese sostenute per gli incarichi esterni. E anche in questo caso Stella, che passa intere giornate su contratti e delibere, ha calcolato che dal 2010 al 20 ottobre 2011 sono stati assegnati 8 incarichi esterni suddivisi tra l’avvocato Tommaso Iaquinta (sembra, per la sua rigorosa strategia, caduto poi in disgrazia agli occhi dell’amministrazione) che se ne è aggiudicati 4 per un compenso di 109.093 euro e lo studio Gregory Rowcliffe Milners di Londra che ha staccato finora parcelle per 163.972 euro. Il totale tra i due studi è di 273.065 euro. “I legali inglesi – conclude Stella – avrebbero chiesto 100mila euro per proseguire nella pratica di negoziazione e contestazione sui contratti stipulati. Il Comune, avendo inoltre rinunciato al ricorso sulla giurisdizione deve pagare i costi sostenuti dalla banche in seguito al ricorso legale. A Dexia deve 65mila euro mentre per Merryl Lynch e Ubs i costi sono ancora da quantificare”. Rinunciare alla giurisdizione, in pratica, vuol dire che i giudizi promossi dalle banche si svolgono tutti davanti all’alta Corte di Giustizia di Londra.

Una situazione finanziaria non semplice che si aggiunge ad un debito del Comune che nel 2012 è stimato in oltre 519 milioni (è come se ciascun residente gravasse un onere di 1.417 euro). Una cifra, oltretutto, in crescita, visto che la cifra del debito nel 2008 era di 480,2 milioni, salita a 495,1 nel 2010 e a 514, 9 lo scorso anno.

IMU E CITY TAX PER COMPENSARE I TAGLI AI TRASFERIMENTI

“Basta con ‘sta storia che i sindaci sono sempre pronti ad aumentare le tasse. Aspetti qualche giorno e vedrà”. Nel congedare l’inviato del Sole-24 Ore il sindaco Matteo Renzi dà appuntamento all’approvazione del bilancio di previsione 2012 che arriva il 10 marzo: 710 milioni, divisi tra 507 per la spesa corrente e 204 per gli investimenti.

''Un bilancio serio, solido e sociale – afferma Renzi – che dimostra come Firenze sia  l'unico Comune in Italia ad abbassare l'addizionale Irpef, dallo 0,3 allo 0,2, che e' la più bassa tra le grandi città''. Ora il bilancio è in consiglio comunale. ''Noi abbiamo deciso di abbassare le tasse, altri no - ha aggiunto Renzi -. Abbiamo abbassato l'Irpef e l'Imu sulla prima casa costerà ai fiorentini comunque meno rispetto all'Ici. E poi a chi ha una seconda casa, e per i negozi, non si paga lo 0,4% di Imu ma lo 0,99. E se la casa e' sfitta si paga il massimo, 1,06%: una 'minipatromonialina'. A chi ha di più chiedo di più''.

In merito all'Imu per la prima casa, la Giunta ha sottolineato che i fiorentini pagheranno meno rispetto all’Ici del 2007 (era al 6 per mille): l’aliquota passerà al 4 per mille. In bilancio e' stata inserita anche l’Imu al 7,6 per mille con rimborso del 50% per chi affitta le case a canone concordato. Solo tre giorni prima, con un comunicato, il Pdl aveva chiesto “di applicare le aliquote minime relative all’Imu per famiglie e imprese così come consentito dalla legge e di recuperare i soldi necessari azzerando consulenze ed incarichi esterni”.

L’assessore al Bilancio Claudio Fantoni ha spiegato che il Comune ha deciso di compensare i 55 milioni in meno di trasferimenti, rispetto al 2011, con 12 milioni che arriveranno dal contributo di soggiorno e con 43 milioni di maggiori introiti Imu. “Manovre obbligate anche perché il patto di stabilità – aggiunge Renzi –”.

Sulle tasse Renzi non perde occasione per dimostrare che non c’è alcun intento vessatorio. Già nella sintesi del bilancio 2011 aveva dettato la linea: “Non c’è alcun aumento delle imposte per i cittadini. Il Comune di Firenze avrebbe potuto aumentare l’addizionale Irpef applicata sul reddito dei fiorentini che oggi è allo 0,3%, ferma dal 2003. La scelta dell’amministrazione è stata quella di non gravare sulle tasche dei cittadini e di non aumentare le imposte”.

COSTI DELLA POLITICA: IL SINDACO VIAGGIA IN BUSINESS CLASS

“Auto blu? No grazie, noi siamo per l’auto verde. Da gennaio viaggio con un’auto Nissan Leaf regalataci dall’azienda giapponese. Totalmente elettrica! Abbiamo messo in vendita le quattro auto blu dell’amministrazione e nelle prossime settimane si terrà l’asta!”. Questo è quanto scriveva sul suo sito – con tanto di punti esclamativi - il sindaco Matteo Renzi il 12 febbraio per aggiornare la città e i suoi lettori sui tanti passi in avanti che l’amministrazione sta compiendo sulla strada del taglio ai costi della politica.

L’opposizione, però, non gliene fa passare una. Ancora vivace sono, a esempio, le polemiche sulle quattro trasferte intercontinentali del sindaco tra il gennaio 2010 e il settembre 2011. Per 18 giorni tra voli in business class e hotel se ne sarebbero andati oltre 29mila euro. Polemiche definite strumentali e demagogiche dalla maggioranza.

La polemica è continua e non passa giorno che non ci sia un aggiornamento. il 6 febbraio i due consiglieri del Pdl Emanuele Roselli e Francesco Torselli: “Dopo esserci sentiti accusare di essere dei bugiardi oppure di non essere in grado di leggere i dati forniti dagli uffici in risposta alla nostra interrogazione sui costi dell'amministrazione Renzi, abbiamo deciso di rivolgere oggi in aula, al sindaco, una domanda precisa, consapevoli della serietà del nostro lavoro sui costi della giunta Renzi. Abbiamo quindi chiesto se nella risposta fornitaci dagli uffici comunali vi fosse o meno scritto, come noi abbiamo denunciato, che la Giunta Domenici costava ai fiorentini 4.121.757,42 euro all'anno, mentre la Giunta Renzi costa ben 4.766.366,96 euro all'anno e la risposta affermativa finalmente è arrivata per bocca dell'assessore al personale Stefania Saccardi”.

Mentre Renzi sbandiera infatti i suoi risultati, Marco Stella, capogruppo in consiglio del Pdl tira fuori dal cassetto i costi clientelari nelle società partecipate, che rappresentano il vero tesoretto politico di ogni amministrazione pubblica locale. Nelle società (che contano complessivamente 4.428 dipendenti) i costi per le consulenze sarebbero stati, secondo i calcoli del Pdl, 5,4 milioni nel 2008 e, da lì in poi, un crescendo continuo con successiva stabilizzazione. Nel 2009 il costo è balzato a 7,9 milioni che nel 2010 sono scesi a poco più di 7,5 milioni. Il record – in tutti gli anni presi in considerazione – tocca a Toscana Energia (nel 2010 2,3 milioni) e al Gruppo Publiacqua (2,2 milioni nello stesso anno).

PERSONALE: GUERRA DI CIFRE CON L’OPPOSIZIONE

Come su quelli della politica, trovare un accordo sui costi del personale è sempre impresa ardua. Poco meno di un mese fa i consiglieri del Pd Emanuele Roselli e Francesco Torselli hanno rilanciato i temi dell’aumento e lo stesso capogruppo Marco Stella il 7 febbraio ha dichiarato: “Dal 2010 al 2013 l’amministrazione comunale ha messo in bilancio 11 milioni e 313.573 euro per incarichi professionali esterni. La giunta Renzi ha mantenuto il costume dell’era Domenici, continuando ad affidare all’esterno compiti che non si capisce perché non possano essere svolti dai circa 5.500 dipendenti comunali. I dati del bilancio sono chiari: nel 2010 sono stati spesi 4.904.946 euro, nel 2011 4.031.827, nel 2012 1.591.800 ed infine nel 2013 sono previsti incarichi per 785.000 euro per arrivare alla cifra complessiva di 11.313.573 euro”. Come se non bastasse il Pdl ha ricordato che la spesa annua dei 59 dipendenti assunti dalla Giunta Renzi dall’insediamento a oggi gravano sulle casse per 2,4 milioni all’anno. E tra i neo assunti non mancano figlie di giornalisti, mogli di consiglieri comunali, candidati di lista del Pd.

I numeri in politica sono un’opinione e così il 3 febbraio è toccato all’assessore al personale Stefania Saccardi, replicare alle dichiarazioni di consiglieri Roselli e Torselli. “I due consiglieri del Pdl ci sono ricascati – ha detto – e continuano a dare numeri sbagliati, non riescono a capire i dati, corretti, che hanno in mano e cercano di difendersi dalle precedenti figuracce. Prima di tutto un dato generale: alla fine del mandato del sindaco Leonardo Domenici i dipendenti comunali erano 5.173 mentre con il sindaco Matteo Renzi al 31 dicembre 2011 erano scesi a 4.910. Rimanendo sui numeri, il sindaco Renzi ha tre persone in segreteria, di cui una a tempo determinato e due dipendenti pubblici. Il sindaco precedente ne aveva cinque”.

Entrando nel dettaglio degli altri dati illustrati dai consiglieri del Pdl, l’assessore Saccardi ha precisato che i dipendenti assunti a chiamata diretta sono 66 a fronte dei 67 dell’amministrazione Domenici.  Sotto il capo dell’Ufficio di gabinetto, che ha assunto anche i compiti di direttore dell’Ufficio del sindaco, ci sono adesso 38 persone, mentre la direzione dell’ufficio del sindaco di Domenici ne aveva oltre 50.

 “I capisegreteria degli assessori sono al momento sette – ha sottolineato l’assessore – mentre nella precedente amministrazione erano nettamente di più visto che erano di più gli assessori. E non dimentichiamo, appunto, che la giunta precedente è stata composta da un numero di assessori quasi doppio di quella attuale: facendo un calcolo grossolano, 13 assessori arrivano a costare circa 300mila euro, e di questa cifra nei calcoli del Pdl non c’è traccia. Infine, due dirigenti citati dai consiglieri, sono personale di ruolo”.

Pensate che la partita si sia chiusa? A testimonianza del fatto che in politica i numeri sono un’opinione, i due consiglieri Morelli e Torselli hanno controreplicato di non avere avuto risposte soddisfacenti.

r.galullo@ilsole24ore.com

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/03/il-comune-di-firenze-cerca-sollievo-in-bilancio-ma-giunta-e-opposizione-si-scannano-sulle-spese-di-swap-politica-e-personale.html


Titolo: Roberto GALULLO. La mafia pugliese è diventata adulta e l’asse con i Balcani ...
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2012, 03:57:47 pm
 21 maggio 2012 - 9:35

La mafia pugliese è diventata adulta e l’asse con i Balcani l’ha tolta dall’isolamento

Questo mio articolo sulla mafia pugliese è stato pubblicato sul Sole-24 Ore domenica 20 maggio nell’ambito di una serie di servizi sull’attentato a Brindisi contro la scuola Morvillo Falcone. Lo ripropongo per quanto non hanno potuto leggerlo.

Una nota, apparentemente messa per caso, nella relazione di fine 2011 della Direzione nazionale antimafia, fotografa gli ultimi sviluppi economici della mafia pugliese. “In particolare, nella provincia di Bari – si legge - è stata osservata una propensione al reimpiego di capitali provenienti da attività illecite nelle seguenti attività commerciali: distributori di carburante, ricevitorie e sale scommesse; commercio di materiale lapideo; commercio frutta e ortaggi, discoteche, società attive nel settore del trasporto merci su strada, sale giochi, video poker”.

L’intero distretto barese, connotato da un elevato sviluppo economico, da intensi scambi commerciali e rilevantissimi interessi patrimoniali, è un territorio che viene aggredito da una serie di mafie transnazionali attirate dai traffici maggiormente remunerativi. La grande frontiera è quella della internazionalizzazione: mettendo a frutto la consolidata esperienza nello stringere rapporti con gruppi delinquenziali stranieri e avvalendosi di un efficace know how maturato negli anni ‘90 in materia di commerci illeciti, i clan pugliesi sono ricomparsi sulla scena internazionale. “Hanno saputo dare vita a potenti alleanze con i più aggressivi gruppi criminali dell’area balcanica – scrive il sostituto procuratore nazionale antimafia Giovanni Russo - vere e proprie holding transnazionali in grado di interloquire, specie con riguardo ai traffici di sostanze stupefacenti, con i principali fornitori mondiali di droghe”.

Gli albanesi e i serbi-montenegrini, in particolare, costituiscono i partner privilegiati dalla mafia locale per realizzare il business principale sul territorio, dando vita a traffici di stupefacenti di dimensioni europee. E proprio questa continua tensione verso l’accaparramento di quote sempre crescenti degli spazi di illegalità a determinare, nei “poli” maggiormente segnati dalla crisi economica e dagli interventi giudiziari e preventivi, una escalation violenta nella definizione di confini e competenze.

E’ tutta la Sacra corona unita (oltre alla “Società”, che è il nome con il quale viene appellata la mafia foggiana del Gargano) a essere diventata adulta negli affari, come ricorda ancora Russo. “Ha dismesso il ruolo di soggetto del terziario mafioso – scrive il sostituto procuratore - incaricato di fornire consulenza su come introdurre sul territorio pugliese prodotti illeciti, dal tabacco alla droga, dalle armi ai clandestini, su come e dove nasconderli, su come trasportarli verso i mercati di destinazione; un terziario della malavita che, in cambio di alloggi, coperture, manodopera, basisti, autisti, si accontenta di una partecipazione agli utili o di una percentuale sui proventi illeciti. Ha acquisito consapevolezza dei propri mezzi, delle capacità operative e strategiche conseguite, del vantaggio competitivo di cui dispone rispetto ad altre organizzazioni mafiose in relazione ai contatti con i gruppi criminali balcanici. Agisce, perciò, in prima persona e non più in conto terzi; pretende il governo degli affari illeciti e non è più disposta ad accettare ruoli ausiliari e serventi”.

I business tradizionali – quasi tutti sull’asse Puglia/Paesi Balcanici, con una presenza limitata fuori regione, dove la Sacra corona unita è soppiantata da ‘ndrangheta, Casalesi e Cosa nostra alle quali fornisce spesso manovalanza e accordi al Nord Italia – sono sempre gli stessi. Accanto a droga, estorsioni e usura, traffici di esseri umani, prostituzione, contrabbando e rapine vengono però alla luce interessi sempre più spiccati verso nuovi mercati. Si fanno concreti i coinvolgimenti di ceti professionali nell’azione criminale (i cosiddetti “colletti bianchi”, in grado di offrire ai clan servizi raffinati ed entrature negli ambienti politici e amministrativi) mentre il reinvestimento e il riciclaggio dei proventi illeciti e l’acquisizione di spazi sempre più ampi nell’economia legale diventano una costante dei clan più reattivi nello sviluppare strategie di medio e lungo termine.


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da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/05/la-mafia-pugliese-%C3%A8-diventata-adulta-e-lasse-con-i-balcani-lha-tolta-dallisolamento.html


Titolo: Roberto GALULLO. OltReggio contiguo - Uno zerbino ai piedi della ‘ndrangheta.
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2012, 03:20:10 pm
11 ottobre 2012 - 8:51

OltReggio contiguo/

Il direttore della Leonia, municipalizzata del Comune sciolto per mafia, era “uno zerbino della ‘ndrangheta”

Uno zerbino ai piedi della ‘ndrangheta.

Mai – prima d’ora – in un’ordinanza si era letta una presa di posizione così netta (e testuale, basta leggere l’ordinanza) nei confronti di un indagato eccellente nella classe dirigente reggina. Si tratta di Bruno De Caria, direttore operativo della società dell’ambiente Leonia, partecipata al 51% dal Comune di Reggio Calabria.

Il giorno dopo lo scioglimento del consiglio comunale per contiguità mafiosa, giunge la nuova operazione condotta dal pm Giuseppe Lombardo, lo stesso magistrato della Procura antimafia reggina che aveva già scoperchiato le infiltrazioni della cosca Tegano nella Multiservizi, altra società partecipata dal Comune, poi sciolta. Infiltrazioni che sono tra i motivi della decisione assunta due giorni fa dal Governo su Reggio.

Se il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri avesse potuto leggere anche le carte sulla Leonia avrebbe avuto un motivo in più per lo scioglimento del Comune, sul quale è intervenuto l’imprenditore Pippo Callipo che ringraziando il ministro per lo slancio che ora può contagiare la ripresa di una terra in gran parte onesta, ha ricordato che «se il modello Reggio frana oggi miseramente, rimane ancora in piedi un ben più deforme modello Calabria il quale ha, per molti versi, aspetti identici se non più aberranti di quelli in uso nella città dello Stretto».

L’indagine di ieri ha portato al sequestro di beni per 30 milioni e all’arresto di otto persone, tra cui i vertici della cosca Fontana di Archi, ritenuti responsabili, a vario titolo, dei reati di associazione di tipo mafioso,  di intestazione fittizia di beni, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente ed abuso d’ufficio, aggravati dal metodo mafioso. Avrebbero esercitato un pervasivo potere di condizionamento e controllo di tipo mafioso sul comparto ambientale di Reggio Calabria. Non solo imponevano tangenti ma ricevevano da anni i contratti per la manutenzione delle macchine e il rifornimento (55mila litri al mese) degli automezzi.

Il ruolo chiave è quello del colletto bianco, De Caria, che secondo l’accusa «forniva uno stabile, concreto, volontario ed apprezzabile contributo all’esistenza, alla conservazione ed al rafforzamento dell’associazione criminale di tipo mafioso nel suo complesso». In una lettera sequestrata a De Caria e indirizzata nel Natale 2001 Giovanni Fontana, allora latitante e ieri arrestato, si legge un passaggio che ha scosso le coscienze dei pm e che testimonia la totale sudditanza alle cosche in tempi non sospetti. Tempi trascorsi con De Caria sempre al vertice dell’economia pubblica cittadina. «…ho la netta sensazione di conoscerVi già – si legge nella lettera – e i vostri figli sono ormai entrati nel mio cuore e nella mia stima al punto che non esito a mettere a loro disposizione tutte le mie conoscenze per assecondarli nel vostro desiderio…».

Sudditanza che non è mai venuta meno anche quando – si legge nelle carte firmate dal Gip Domenico Santoro che ha accolto in pieno le testi dell’accusa – neppure quando, tra il 2007 e il 2008 la consapevolezza della capacità della Leonia di produrre ingenti introiti porta le cosche De Stefano, Condello e Tegano a rivendicare una parte della ricca torta. Da quel momento in poi, dunque, Leonia avrebbe dovuto aumentare il capitale illecito delle altre cosche. Non c’era problema: bastava sovrafatturare i pezzi di ricambio e le componenti meccaniche. Una rimessa di denaro sonante a danno del pubblico e a favore delle cosche. L’ennesimo “oltReggio contiguo”alla città che qualcuno non voleva veder sciolta per mafia.

r.galullo@ilsole24ore.com

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Titolo: Roberto GALULLO. Oltre al modello-Reggio andrebbe sciolto il modello-Calabria
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2012, 03:21:27 pm
11 ottobre 2012 - 17:01

OltReggio contiguo/2

L’imprenditore Pippo Callipo: “Oltre al modello-Reggio andrebbe sciolto il modello-Calabria”


Mentre il sindaco di Reggio Calabria Demetrio Arena si appresta ad organizzare con le valigie in mano la conferenza stampa di addio alla città sciolta per contiguità mafiosa, l’ex presidente di Confindustria Calabria, Pippo Callipo, qualche ora prima, ha diramato ai cronisti locali una lettera che sotto troverete riprodotta.  Come sapete, cari lettori, Pippo Callipo ha corso alle ultime elezioni regionali come candidato governatore.

Riproduco la lettera – indirizzata anche al sottoscritto - perché se in terra di Calabria qualche giornale lo avrà ripreso (li ho sfogliati e comunque non mi pare che sia stato dato risalto) è doveroso che il resto d’Italia sappia – attraverso questo umile e umido blog – che c’è un imprenditoria che al Sud, in Calabria, proprio non ci sta a piegarsi a logiche clientelari e mafiose.

Vedete, l’imprenditoria calabrese che vive di provvidenze pubbliche ha delle colpe enormi nella crisi che sta stritolando da decenni questa regione. Per questo motivo la voce di Callipo – tra i pochissimi imprenditori fai-da-te in Calabria – ha un senso e una rilevanza anche fuori dagli angusti confini calabresi.

Oltretutto dice una cosa che – sicuramente – lo farà iscrivere d’ufficio nel registri dei “nemici comunisti” (lui che comunista non è) del Governatore Ciccio-Peppe Scopelliti. Dice infatti Callipo che oltre il “modello Reggio” bisognerebbe sciogliere il “modello Calabria”.

Come dargli torto?

Nell’ultima parte della lettera sembra quasi appellarsi disperatamente al ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri affinché getti lo sguardo oltre Reggio.

Come dargli torto?


r.galullo@ilsole24ore.com

P.S. Per quello che ormai ho giornalisticamente definito “OltReggio contiguo” rimando anche all’articolo precedente, pubblicato su questo umile e umido blog sempre in data odierna (11 ottobre 2012)


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LA LETTERA

Ci voleva un governo tecnico per mettere finalmente a nudo un sistema di potere che per anni ha imperversato nella città più importante della Calabria, emblema insieme dei mali e delle virtù di un’intera Regione. Ci voleva un governo tecnico per fare quello che nessun esecutivo politico avrebbe mai osato fare, mettendosi contro colleghi e sodali politicamente troppo in vista. Certo ci saremmo aspettati che questa decisione fosse giunta ben prima e con maggiore determinazione, poiché è noto che il “sacco” di Reggio Calabria non è certo maturato nei diciassette mesi della consiliatura che oggi viene sciolta, ma tant’è.

E allora grazie caro Ministro Cancellieri. Grazie a nome dei tanti calabresi onesti per questa decisione che, ci auguriamo, possa contribuire a liberare questa città dai ceppi ai quali era vincolata, con uno slancio che possa, magari, contagiare l’intera Regione. Si perché con il tanto decantato “Modello Reggio” che oggi vede la sua impietosa deriva giuridica, viene bollato con il marchio dell’infamia un intero sistema politico: quello che va per la maggiore in questa Regione. Basato com’è sulle clientele, sulle interessenze, sulle commistioni tra zone più o meno grigie, lobby affaristico-mafiose, consorterie di ogni risma.

Dunque, caro Ministro, non dimentichi che se il “Modello Reggio” frana oggi miseramente, rimane ancora in piedi un ben più deforme “Modello Calabria” il quale ha, per molti versi, aspetti identici se non più aberranti di quelli in uso nella città dello Stretto. Ce lo dicono già molte inchieste giudiziarie, il lavoro encomiabile della magistratura, gli avvisi di garanzia, gli arresti in seno al Consiglio regionale. Ecco, caro Ministro, il suo lavoro in questo senso è ancora all’inizio… trovi lei nella sua autonomia politica e decisionale quel coraggio che ad altri, guidati dalle logiche di consenso, è mancato evitando così alla Calabria onesta e all’Italia tutta l’agonia di un’intera Regione.

 Pippo Callipo


da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/10/oltreggio-contiguo2-limprenditore-pippo-callipo-oltre-al-modello-reggio-andrebbe-sciolto-il-modello-calabria.html


Titolo: Roberto GALULLO. - BRAVA CANCELLIERI
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2012, 03:22:54 pm
10 ottobre 2012 - 11:26

Contiguità mafiosa nel Comune di Reggio: brava Cancellieri.

Senza saperlo ha capito tutto ma ci deve essere il lieto fine!




“A chi n’appartini?” A chi appartieni? Chiedo scusa ai calabresi se male ho scritto la frase che mille volte ho sentito risuonare nei saluti di mia suocera e di centinaia di suoi concittadini.

A chi appartieni? Con questa frase si rivolge – lei come tanti – quando non conosce (o riconosce) una persona. Quella frase – tradotta in altri termini – vuol dire semplicemente: “chi sei, non ti conosco, presentiamoci”.

NELLA CRIMINALITA’

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché la ‘ndrangheta – che proprio sul vincolo familiare di sangue conta a differenza di Camorra e Cosa nostra – è diventata la più forte organizzazione criminale in Europa e tra le più forti al mondo, con la possibilità di comprare e corrompere tutto.

NELLA MASSONERIA

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché la massoneria conta in Calabria un numero di logge (ufficiali e coperte) che non ha eguali in Italia. E nella massoneria deviata, qui in Calabria, albergano le trame fatte di menti raffinatissime della politica aberrante, dei servizi di Stato marci e di uomini delle cosche.

NELL’ECONOMIA

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché l’economia privata – che pure rappresenta una percentuale ridicola di fronte a quella pubblica e che comunque dalle risorse pubbliche spesso viene alimentata – qui si tramanda di padre in figlio e non consente il sorgere di nuova impresa. Non solo nell’industria (qui all’anno zero e comunque foraggiata da fondi statali ed europei “prendi-e-scappa”) ma anche nei servizi e persino nel commercio.

NEL CREDITO

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché il credito è zero e quello zero virgola viene dato ai soliti noti e, come sta testimoniando un’indagine nella Piana di Gioia Tauro, il beneficiario di quello zero virgola viene deciso dalle cosche

NELLE PROFESSIONI

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché gli studi professionali sono pieni di “figli di”. Non di figli di professionisti (non solo) ma di figli del circuito dell’appartenenza: il figlio del politico, del medico che ha operato la zia, del cugino del vicino di casa che mi ha venduto la casa a modico prezzo e via di questo passo. Rompere il cerchio è quasi impossibile.

NEL GIORNALISMO

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché chiunque abbia un minimo di potere cerchi di avvicinare i giornalisti per renderli “parte” della propria sponda. E’ una cosa pazzesca. E chiunque – quei pochi che hanno le palle per resistere – non ci sta diventa un nemico. Io – ad esempio, pur non essendo un giornalista calabrese – sono un nemico (di ogni parte politica, tengo a precisare). E così Ruotolo della Stampa e Fierro del Fatto ai quali si aggiungono diversi colleghi di Calabria Ora e del Corriere della Calabria. Si arriva al punto da scrivere informative sulla libertà di stampa (si veda in archivio il mio post del 27 luglio 2012)! Capite la gravità della cosa o state ancora sulle nuvole?

NELLA VITA SOCIALE

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché fuori dalla Calabria i calabresi si chiudano in comunità proprie – a partire da quelle nelle città universitarie – come se aprirsi al mondo facesse male.

NELLA CONSIDERAZIONE SOCIALE

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché, a parte la topica domanda “a chi n’appartini” le relazioni sociali siano ancora – tra i pochi casi rimasti in Italia – rigidamente tra classi. E le classi sociali più alte – ma meno evolute – perpetrano nei secoli l’esclusività e l’appartenenza.

NELLA POLITICA

L’appartenenza in Calabria conta più di qualunque cosa.

E’ nel sangue. Altrimenti non si spiegherebbe perché la Calabria è l’unica regione in Italia in cui l’ideologia politica è qualcosa che si mangia. O meglio: con la quale si può mangiare. Destra, sinistra, centro, ma che ce frega! Ci si sposta a seconda delle convenienze, fiutando l’aria. Una, dieci, mille casacche sono pronte nell’armadio. E’ fantastico quanto ha svelato in questi giorni il corrieredellacalabria.it, vale a dire che i fratelli dei sindaci di centrodestra di Catanzaro e Reggio Calabria sono i primi dei non eletti al Parlamento per il Pd!!! Fantastico!

Ma ve lo immaginate il dialogo oggi tra i due fratelli Arena? Ci provo io (e chiedo scusa alla mia intelligenza): Il sindaco (ex): “Ci hanno sciolti per la campagne di stampa di voi sporchi comunisti!”. Il fratello: “Ma Demi io non c’entro nulla!”

IL COMPARAGGIO

L’appartenenza in Calabria si scioglie nel comparaggio. Se mi appartieni sei compare e se non lo sei – ma sei della mia classe sociale e ho interesse – facciamo in modo da diventarlo. Così si ragiona in Calabria, la regione che più di ogni altra al mondo si regge sul comparaggio.

LO SCIOGLIMENTO DEL COMUNE

Senza saperlo, ieri, il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, ha tradotto questo mini-trattato sull’appartenenza e sul comparaggio in una sola parola: contiguità mafiosa che ha condotto allo scioglimento del consiglio comunale. L’infiltrato – tipo lo 007 che si infiltra tra i narcos per scovarli – è un conto. Vale a dire due o tre politici legati alle cosche ci può stare, a queste latitudini ma la contiguità – vale a dire ciò che è a contatto nello spazio e nel tempo – è un’altra cosa. Vicini-vicini, capite la differenza? Compari, “appartenenti” alla stessa genia. “A chi n’appartini?” “A tia!”

Del resto già il sostituto procuratore nazionale antimafia Carlo Caponcello aveva detto che in Calabria la ‘ndrangheta non è un convitato di pietra ma istituzionale (si vedano in questo umile e umido blog i miei servizi dell’8, 10 e 15 febbraio 2012). Istituzionale capite? Ma di che stiamo palando! Andrebbe sciolta la Calabria, altro che un singolo Comune e c’è da restare esterrefatti di fronte alle parole di Ciccio-Peppe Scopelliti che non trova meglio da dire che: “Altri Comuni infiltrati dalla mafia non sono stati sciolti”. A chi si riferisce, di grazia? Forse all’unico caso-vergogna nazionale, vale a dire Fondi? Beh, quello fu un regalo al centro destra. O conosce altri casi? Li dica, please! Non credo e comunque il ragionamento nella scuola elementare, tra due alunni, suonerebbe così: “Signora maestra perché mette me dietro la lavagna? Ha cominciato lui….”. Ciccio-Peppe se ne faccia una ragione: il Comune amministrato dal suo alter ego andava sciolto. Punto. E l’odierna operazione che ha condotto all’arresto del dominus della Leonia (la società municipalizzata dell’ambiente) ne è una conferma. Ne vuole altre?

FALSE SPERANZE

Ora che lo scioglimento del consiglio comunale – benvenuto per le ragioni di legge illustrate dal ministro Cancellieri con buona pace dei scopellitones – è arrivato l’unica domanda che vale la pena di porsi è: cosa cambierà?

Bene. Dai demagoghi calabresi in terra di Calabria sentirete parlare di opportunità di rinascita. Dai politicanti calabresi in terra di Calabria sentirete parlare di pagina da voltare. Dai sociologi calabresi dei miei stivali in terra di Calabria sentirete parlare di rivolta delle coscienze.

Balle! Tutte sacrosante, fantastiche, luminescenti, sfolgoranti, fantasmagoriche e rutilanti balle!

Il comparaggio vincerà anche questa volta. I compari della politica si attrezzeranno per vincere qualunque colore politico vinca, i compari mafiosi staranno alla finestra e aspetteranno che arrivino a San Luca (anche solo metaforicamente), i compari massoni deviati celebreranno la messa laica della spartizione del potere, i compari delle professioni renderanno i propri servigi e i compari dei servizi deviati vigileranno che tutto si svolga…democraticamente.

Ah dimenticavo i compari all’interno del Comune: quelli scovati dalla relazione della prefettura e quelli ancora senza nome. Sono loro che – strisciando in questi 18/24 mesi di commissariato e venendo alla luce dopo – continueranno a garantire la “contiguità”. Lo aveva già capito Luigi De Sena, il superprefetto di Reggio Calabria e territori affini che, non a caso implorò il Parlamento di cambiare la legge sullo scioglimento degli enti. Perché se si cacciano i “compari politici” e si lasciano dentro i “compari burocrati” non cambia nulla.

Anzi: le cose nel Comune di Reggio Calabria – date retta a ‘sto cialtrone, come mi definisce Ciccio-Peppe e ne vado per questo orgoglioso – indipendentemente da chi vincerà le elezioni tra compari, cambieranno. In peggio*.

Baci compà!

* spero che le forze sane di questa regione - società civile, associazionismo, imprenditoria sana, Chiesa - dimostrino che la Calabria possa uscirne e che dunque il comparaggio si sciolga in solidarietà. Solo così si accende la speranza che in questo momento è nelle mani di un grande Servitore dello Stato, il prefetto Vincenzo Panico. I miei ragionamenti verrebbero sconfessati e io ne sarei strafelice.

r.galullo@ilsole24ore.com

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Titolo: Roberto GALULLO. I clan perdono la «monnezza».
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2013, 04:23:19 pm
I clan perdono la «monnezza».

Trasportare i rifiuti via mare conviene e toglie potere alla criminalità

di Roberto Galullo

19 gennaio 2013


I numeri non spiegano sempre tutto ma qualche volta ci riescono. I numeri dicono che a Napoli – periodicamente alle prese con l'emergenza rifiuti, soprattutto quando c'è un'elezione alle porte – inviare una tonnellata di spazzatura in Olanda costa da 107 a 111 euro. Lo stesso carico, se fatto viaggiare sui bilici, costa ora – e solo grazie alla concorrenza marittima – da 129 a 156 euro.

I numeri dicono ancora che per ogni 10 navi spedite da Napoli in Olanda vengono tolti dalla strada almeno mille camion. Da quando Sapna (la società di gestione ambientale della provincia di Napoli) ha deciso di far salpare il carico di "monnezza" verso gli impianti olandesi, dalla strada sono stati tolti almeno tremila camion che appestavano l'ambiente.
Ciò che i numeri non dicono è che un'operazione del genere sottrae potere alla camorra che proprio sul trasporto (oltre che sullo raccolta e lo smaltimento) ha fondato un business miliardario.

Per dare un'idea basti riportare l'intercettazione del 6 marzo 2006 tra Pasquale e Carmine Zagaria, fratelli del capoclan dei Casalesi, Michele. I due, non sapendo di essere intercettati dalla squadra mobile di Caserta, chiacchierano amabilmente nel salotto di casa. «I rifiuti – dice Pasquale a Carmine – li caricano a Caivano e li portano a Cancello, ci stanno le discariche dove scaricare. Pagano a chilometri. Devono andare a Taranto quegli altri camion a scaricare. Sta roba mi ha fatto 14 milioni dal 2004 a oggi (6 marzo 2006 ndr) più altri 4/5 milioni quell'altro, sono 20 milioni. Alla fine il 10% fino a oggi ce lo ha sempre dato».

Una questione solo campana quella dell'ingerenza della criminalità organizzata nel business dei rifiuti? Assolutamente no. In Puglia lo dicono le indagini, in Sicilia l'ultima operazione risale al 10 gennaio e in Calabria la situazione è talmente grave che il 23 giugno 2011 la Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti votò un documento nel quale si diceva che «le inefficienze del sistema hanno favorito l'inserimento nel ciclo dei rifiuti della criminalità organizzata, che è particolarmente presente nella provincia di Reggio Calabria, laddove, a fronte di un giro d'affari di complessivi 150 milioni all'anno, pari al 2% del Pil del territorio, solo 12 imprese delle 161 che si occupano di rifiuti hanno ottenuto la certificazione antimafia negativa, mentre 115 imprese risultano addirittura sconosciute al sistema. Si desume agevolmente che le imprese prosperano in modo anonimo con i subappalti o con la prestazione di manodopera».

Il ricorso alle navi, che si occupano di tutto (dall'imbarco al conferimento e che fanno capo a più compagnie) ha fatto crollare il prezzo anche su strada, ancora comunque più elevato, a testimonianza del fatto, come dice il vicesindaco di Napoli con delega all'Ambiente, Tommaso Sodano, «che il mercato era drogato e che profitti immensi giravano senza controllo. Ciò che i numeri non dicono, mi permetto di aggiungere, è soprattutto che quest'operazione rompe il patto tra politica inquinata e clan, soprattutto quando il voto è dietro l'angolo».

Dagli impianti di Giugliano e Tufino, da gennaio 2012, sono progressivamente partite 48mila tonnellate verso l'inceneritore Avr Rozenberg che opera all'interno del porto di Rotterdam e quello di proprietà della E.On ad Elfzjil, nel nord dell'Olanda, ma il rinnovo contrattuale prevede che, complessivamente, possano lievitare fino a 125mila tonnellate.

La "rottura" imposta dalla navigazione dell'immondizia è stimabile in un risparmio annuo di almeno due milioni che lieviteranno se i rifiuti urbani verranno completamente tolti dalle strade. «Abbiamo chiaramente fatto presente a Sapna - aggiunge Sodano - che quanto sta emergendo dalla convenienza economica e sociale del trasporto marittimo non può essere privo di conseguenze sulle scelte future».

Sapna il 7 novembre 2012 ha aggiudicato definitivamente la gara pubblica internazionale del servizio di smaltimento, recupero e trasporto dei rifiuti urbani. L'importo complessivo, di 58,4 milioni relativo a 414mila tonnellate totali di rifiuti, è stato aggiudicato a sette Associazioni temporanee d'impresa e una società, con prezzi che oscillano da 128,85 a 156 euro a tonnellata.

Il compito degli aggiudicatari sarà smaltire i rifiuti negli impianti in giro per l'Italia. La novità dell'aggiudicazione è che – rispetto al passato recentissimo – i prezzi su strada, indotti dalla concorrenza delle navi in viaggio verso l'Olanda, sono crollati. Per rendersene conto basta leggere l'interrogazione presentata il 21 dicembre 2011 in Commissione Ambiente della Camera dal deputato del Pd Alessandro Bratti, che aveva messo nel mirino proprio i costi del trasporto. Per spedire circa 15mila tonnellate in parte negli impianti di Trieste e in parte in quelli di Padova, il costo sarebbe oscillato tra 162 e 175 euro a tonnellata. Per spedire 55 tonnellate "in prova" presso il termovalorizzatore di Busto Arsizio (Varese) il corrispettivo sarebbe lievitato a 223 euro a tonnellata.

I condizionali sono d'obbligo perché quella interrogazione non ha mai ricevuto risposta e difficilmente la riceverà prima della fine della legislatura. Oltre che in Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia, l'immondizia napoletana ha viaggiato, con costi socioeconomici elevatissimi, anche verso la Toscana, la Liguria e la Puglia.
Oltre alle rotte nazionali ci sono quelle internazionali. Anche in questo caso accanto a traffici leciti, ci sono quelli illeciti dei rifiuti, come sempre in mano alle mafie italiane spesso e volentieri alleate con quelle straniere. Nel 2011 gli uffici doganali hanno sequestrato 7.374 tonnellate di rifiuti: il 48% metallo, il 39% plastica e il resto pneumatici, carta, vetro, pelli, motori e rifiuti elettronici.

Un confronto con il traffico lecito dà un'idea – stimata per difetto – delle proporzioni. Nel 2011 (ultimo dato utile per un raffronto) l'Italia ha esportato circa 186mila tonnellate dei cosiddetti cascami e avanzi di materie plastiche, in gran parte verso la Cina (il 6% della quantità esportata complessivamente dalla Ue). A questo dato bisogna aggiungere quello delle esportazioni dei cascami di metallo: circa 200mila tonnellate (l'1% dell'export europeo).

Le destinazioni, attraverso i porti di Genova, Venezia, Livorno, Ancona, Ravenna, Civitavecchia, Napoli, Taranto e Catania, sono state Russia, Paesi Bassi, Israele, Hong Kong ma soprattutto Cina. È il mercato asiatico quello privilegiato. In Cina arrivano decine di migliaia di container carichi di rifiuti dismessi o pericolosi, che vengono mischiati con altre materie prime con le quali realizzare nuovi manufatti che prendono le vie del mondo. Poco più di un anno fa la Direzione distrettuale antimafia di Lecce ha stroncato un traffico con la Cina di 1.507 container per un totale di oltre 2.500 tonnellate di rifiuti speciali. Più o meno nello stesso periodo a Napoli sono stati sequestrati 14 Tir che trasportavano scarti ferrosi che sarebbero stati spediti nei paesi asiatici, per un giro d'affari di 250 milioni.

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-18/clan-perdono-monnezza-203039.shtml?uuid=AbgHVmLH&p=2


Titolo: Roberto GALULLO. “L’energia al Sud vale per le mafie quel che negli anni 70 ...
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2013, 05:14:11 pm
18 marzo 2013 - 9:07

Arcuri (Invitalia) e Tarantola (ex Bankitalia): “L’energia al Sud vale per le mafie quel che negli anni 70 valeva l’edilizia”

Nella relazione conclusiva sulle mafie spedita il 6 febbraio 2013 dalla Commissione parlamentare antimafia ai due rami del Parlamento ci sono, annegati ora qui ora li, documenti, relazioni e audizioni molto interessanti.

Un serio spunto di riflessione si trova nell’audizione di Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia – Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa – tenuta il 19 ottobre 2011. L’audizione è stata declassificata da “riservata” a “libera” con la deliberazione della Commissione del 18 settembre 2012.

In quella occasione Arcuri ha rappresentato che: «...nel 2010, il 25% della popolazione della Calabria, che come sapete e` la Regione a maggior ritardo di sviluppo del nostro Paese, e` sotto la soglia di povertà. In Calabria, nel 2010, il numero degli ipermercati e` aumentato.

Ho l’impressione che la relazione tra questi due fenomeni induca a qualche considerazione interessante sulla produzione del reddito legale o sommerso, criminale o civile, e quindi sul reale significato della soglia di povertà in una stagione di crisi, in una Regione come quella. Credo che, per ragioni diverse, i settori maggiormente attenzionabili in questa stagione siano, oltre al commercio che non e` una novità`, il turismo e l’energia.

Per una serie di ragioni che non so spiegarvi, anche perché non le conosco, ma che voi conoscete benissimo, ho l’impressione che il settore energetico, soprattutto nel Sud, stia giocando il ruolo che negli anni ’60 e ’70 ha giocato il settore dell’edilizia, nel quale si sono annidate forme copiose di economie illegali. Credo che nel prossimo decennio andremo a cercare in questo nuovo ambito, con buona probabilità di avere riscontri oggettivi e rilevanti, quello che cercavamo nel settore delle costruzioni negli anni ’60 e ’70...».

Non c’è che dire: una riflessione profonda, che segna un tracciato intorno al quale ragionare in termini di prevenzione ancor prima che di repressione. Inutile ricordare che nel momento in cui voi leggete queste note – ad esempio – tutti i parchi eolici nella provincia di Crotone sono sotto la lente della magistratura. Ed è forse inutile ricordare anche che moltissimi villaggi turistici sono sotto la lente di ingrandimento della stessa Procura antimafia di Catanzaro. Lo stesso sta accadendo per gli investimenti nell’eolico nella provincia di Palermo e Trapani o per quelli nel fotovoltaico nella provincia di Brindisi e un po’ in tutta la Puglia.

Ma andiamo avanti.

BANKITALIA

Uno magari può pensare che ciò che è stato dichiarato nell’ottobre 2011 possa perdere di valore nel tempo, vista anche la velocità con la quale si muovono gli interessi mafiosi.

Per capire che quegli asset – soprattutto quelle energetico – sono e resteranno (se non cambieranno regole e controlli) un chiodo fisso delle mafie, basti vedere quanto dichiarò la vice direttrice generale pro tempore della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola (attualmente presidentessa della Rai), di fronte al IV Comitato della Commissione parlamentare antimafia il 6 giugno 2012 (la relazione è stata declassificata da “riservata” a “libera” con deliberazione della Commissione del 5 dicembre 2012).

«Significativa e` l’infiltrazione dalle mafie nel settore dell’energia eolica in alcune regioni meridionali – dichiarò Tarantola - soprattutto in Sicilia e in Calabria.

Come emerge dalle segnalazioni ricevute e dalle relative analisi, il coinvolgimento della criminalità organizzata nella realizzazione dei parchi di produzione eolica (ciascuno del valore di decine di milioni) avviene tramite la partecipazione, o il supporto, ad apposite “società veicolo” che si occupano delle fasi propedeutiche dei progetti. In particolare, tali società negoziano sul territorio i diritti di uso dei terreni dove saranno edificati i parchi, e ottengono, anche attraverso pratiche corruttive, le necessarie concessioni e autorizzazioni delle amministrazioni pubbliche competenti; esse vengono poi cedute con grande profitto alle aziende, nazionali o internazionali, che realizzeranno gli impianti».

Credo che ce ne sia abbastanza per preoccuparsi. Noi. La politica no. Convive e spesso – come stanno portando alla luce le indagini a siciliane, calabresi e pugliesi – si arricchisce.


r.galullo@ilsole24ore.com


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da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/03/arcuri-invitalia-e-tarantola-ex-bankitalia-lenergia-al-sud-vale-per-le-mafie-quel-che-negli-anni-70-valeva-ledi.html


Titolo: Roberto GALULLO. UNA STRANA MISSIVA DA UN CARCERE DEL NORD...
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2013, 04:49:15 pm
25 marzo 2013 - 9:04

Un boss condannato per ‘ndrangheta mi scrive da un carcere del Nord: il benservito alle sue paradossali richieste

Pochi giorni fa – da un carcere del Nord Italia – un recluso condannato in primo grado per ‘ndrangheta ad una lunga detenzione, nell’ambito di un processo passato alla storia recente, mi ha scritto una lunga e paradossale lettera.

E’ considerato – da investigatori e inquirenti – un boss.

La missiva – ammesso e non concesso che sia vera visto che non ho mai visto la sua firma né saprei riconoscerla, lui non l’ho mai visto né sentito in vita mia e non conosco il suo modo di esprimersi – se non fosse paradossale apparirebbe (come forse è) una provocazione pilotata (da chi e perchè?).

Costui non è recluso al 41 bis (il carcere duro), non ha censura sulle lettere e la missiva anziché essere vergata a mano (c’è solo la firma a penna) è scritta al computer.

Strano, molto strano. Il detenuto/scrittore denuncia la presenza di docce gelate in carcere e l’assenza di phon ma non si priva di un lusso straordinario che, a quanto mi risulta, in quel carcere è collettivamente negato: l’uso di un pc e di una stampante. E magari persino di Internet visto che legge i miei articoli?
La lettera spara a zero contro la giustizia che non sarebbe garantista, anzi “colpevolista” a priori, parla di sentenze scritte “negli occhi dei giudici” (!), di spazi di difesa negati, di magistrati che perseguono tesi e non fatti, di ‘ndrangheta inventata, ovviamente di innocenza, di spazi da ricercare nella stampa (e li cerca proprio con me? Allora casca bene!) etc etc.

Una lettera che – per i concetti assolutamente non condivisibili che contiene – ovviamente non pubblico e non pubblicherò mai integralmente, così come non cito e non citerò mai il nome di questo condannato e il processo in questione. Gli farei una pubblicità contraria alla mia dignità.

Chissà, magari la speranza era, al contrario, che io non la pubblicassi e nemmeno ne parlassi, ritrovandomela magari magicamente allegata – tra un giorno, 1 mese o 10 anni – in qualche faldone processuale. Cose simili – purtroppo - le ho già viste e sventate.

Voglio essere chiaro: sbaglierò (me lo auguro) ma la lettera di questo detenuto/scrittore suona come una trappola ma se così non fosse mi serve per respingere le incredibili tesi contenute che – voglio essere chiaro per la millionesima volta - non mi appartengono e non mi apparterranno mai.
Delle due l’una: o il detenuto/scrittore non ha compreso quanto io ho scritto in questi anni o qualcuno – esterno alle strutture carcerarie? – gli ha indotto letture distorte (e dunque sbagliate). Anche qui: perché?
Ma anche se così non fosse e stessi “pazziando”, la lettera (vera o fasulla che sia) consente di ricapitolare in termini estremamente sintetici la mia posizione. In modo che chiunque creda follemente di trovare “sponde” sappia, invece, di trovare un “muro” invalicabile.
Vorrei dunque che fosse chiaro che io non do spazio e non aiuto nessuno. Non mi pagano per aiutare (figurarsi i criminali presunti o reali) ma per portare notizie e leggere i fatti con indipendenza di giudizio (cosa rarissima). Senza guardare in faccia a nessuno, chiunque esso sia.
Quindi il detenuto/scrittore a me non deve chiedere assolutamente nulla perchè io niente posso e voglio dargli: figuriamoci la voce!
E’ compito della magistratura – non mio e l’ho scritto un miliardo di volte – giudicare. Io non giudico nessuno. Dunque – per quel che mi riguarda – lei è un condannato in primo grado per 'ndrangheta. Per i prossimi gradi attendo, come lei, gli esiti.
Sinteticamente, dunque, confermo che un conto è la colpa dei singoli (la giudica un Tribunale) un conto è l’analisi di un fenomeno – quale quello mafioso di stampo siciliano, calabrese e campano – che mi vede, da anni, ben prima dell’operazione Crimine/Infinito, su una posizione netta: la cupola ‘ndranghetista (così come la cupola di Cosa nostra) è cosa diversa dalla ‘ndrangheta che traffica in armi e droga.

I “sistemi criminali” dei quali ho lungamente scritto (basti vedere gli articoli pubblicati su questo blog dal 4 marzo in poi) ricomprendono e non escludono (anzi) la ‘ndrangheta alla quale lei (lo dice la sentenza in primo grado) appartiene.
Io sono fiero che la magistratura del nord persegua chi commette crimini (seppur nella consapevolezza che si è innocenti fino all’eventuale terzo grado di giudizio).
Vorrei però – e l’ho scritto miliardi di volte – che la magistratura (tutta) fosse altrettanto celere nel rincorrere e perseguire quel “sistema criminale” splendidamente individuato nel 1998 dal pm siciliano Roberto Scarpinato e su cui sta affilando da solo e isolato, in Calabria, la sua intelligenza il pm reggino Giuseppe Lombardo.

Vorrei che si desse la stessa, spietata caccia, a chi, con Cosa nostra ha dato vita, ad esempio e per rimanere solo a fatti di cronaca ancora attuali, alle stragi mafiose del ‘92/93. O che si desse la stessa, spietata caccia a chi, con la ‘ndrangheta, ha ordito le bombe alla Procura generale di Reggio Calabria nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2010 o sta attentando alla vita del pm reggino Giuseppe Lombardo. E magari sapere anche perché. Questo ho detto e scritto, mille volte. Questo confermo anche oggi e sempre. Mai sentito parlare di massoneria deviata, servizi segreti marci, uomini dello Stato infedeli? Ebbene: sono le tessere mancanti al “sistema criminale”: è questo che denuncio da sempre.
Sempre coerente con me stesso, confermo che la magistratura del nord e del sud (da Torino a Milano passando per Bologna, Roma e Reggio Calabria) – nei confronti degli imputati di tutti i processi per ‘ndrangheta – svolge il suo lavoro: se innocenti assolti, se colpevoli, condannati. Tutto qui. Bene o male non sta comunque a me dirlo.
Quanto all’omicidio Novella, che il detenuto/scrittore richiama come il cavolo a merenda, il pentito Antonino Belnome inserisce elementi diversi che, per cronaca, ho evidenziato. Sulla sua attendibilità decide la magistratura. Non io.
Il resto delle sue riflessioni - detenuto/scrittore - non solo non mi appartengono ma mi pesa anche – e molto – pubblicarne la sintesi sopra evidenziata. Lo faccio – anche se sono stato giorni a pensarci e non essendone ancora del tutto convinto - per un solo motivo. Perché vorrei che i lettori continuassero a pensare quel che di me pensano da sempre: un giornalista con la schiena dritta, che interloquisce con tutti, che non ha nè vuole avere amici, che non frequenta e non vuole frequentare salotti nei quali si costruiscono le notizie e le analisi, che non censura mai nessuno, che ragiona solo con la propria testa pur ascoltando tutti. E che – soprattutto - dice sempre quel che pensa a tutti: dal boss (vero o presunto) al pm, passando per il politico e l'uomo della strada.
Ah. Lo faccio per un altro motivo: qualora esistesse una regia esterna alla sua lettera, questo è il benservito. Qualora. Ma non esiste.

r.galullo@ilsole24ore.com

DA - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/03/un-boss-condannato-per-ndrangheta-mi-scrive-da-un-carcere-del-nord-il-benservito-alle-sue-paradossali-richieste.html


Titolo: Roberto GALULLO. - Dietro l’attentato a Nino De Masi: ...
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2013, 11:56:10 am
Roberto GALULLO


6 maggio 2013 - 9:08

Dietro l’attentato a Nino De Masi: a Gioia Tauro dalla “scimmietta” alla “scimmia” – La lettera dell’imprenditore – Lo Stato si schiera

Diciamoci la verità: Antonino De Masi, imprenditore di Rizziconi che opera nella Piana di Gioia Tauro, non sta simpatico a chi “conta”.

Non sta simpatico alle Istituzioni perché rompe le scatole in una Piana dove le scatole non le rompe nessuna impresa. Un motivo ci sarà. O no?

Non sta simpatico alle banche contro le quali sta conducendo battaglie epocali.

Sta simpatico - nel senso etimologico del termine greco, vale a dire “patire insieme”, “provare emozioni comuni” e dunque “affezione”, “sentimento”– a pochissimi.

Pochissimi, infatti, “patiscono” con lui e lo si è visto – drammaticamente – alla manifestazione di solidarietà organizzata per venerdì 3 maggio davanti allo stabilimento di Gioia Tauro preso di mira pochi giorni fa da 44 colpi di khalashnikov (ma su questo poi ci torniamo).

Quel giorno – a parte i solito noti attivissimi di Libera dell'impareggiabile don Pino De Masi (la Chiesa lì è lui e pochi altri) e due parlamentari come Dalila Nesci e Doris Lo Moro – in tutto circa 200 persone, dipendenti e familiari di De Masi compresi. Tanti? No, pochi. Un mezzo flop (per la cosiddetta società civile). Sufficienti…mah! Sarà, ma in una regione che vive di simboli l’assenza è un simbolo. Vuol dire che – per i cittadini comuni – esporsi è rischioso. Dargli torto? Beh ognuno è padrone del proprio destino e delle proprie azioni ma un dato è certissimo: la popolazione trova (più) coraggio quando lo Stato c’è. E se continuerà ad esserci sulla lunga, lunghissima distanza, quei 200 saranno di più. Altrimenti meno. O nessuno. Forse non ci sarà più neppure De Masi, espatriato.

Quel giorno, però, lo Stato c’era ed era annunciato (alcuni di loro avevano seguito in mattinata a Palmi il processo All Inside che ha condannato decine di persone e messo sotto ulteriore scacco la potentissima cosca Pesce di Rosarno che ringraziando Iddio sta vacillando sotto i durissimi colpi della Giustizia, tra arresti, condanne, sequestri e confische).

Lo Stato al gran completo (nella lettera di De Masi di quel giorno ai manifestanti troverete l’elenco completo e ad essa rimando). C’era la Procura, c’era la Questura, etc etc. Un colpo straordinario perché le fila erano compatte e mandavano e mandano un messaggio inequivocabile: noi ci siamo, lo Stato c’è.

Certo, facciamo attenzione: vince chi resiste e non chi sfila o appare una volta e – dunque – la presenza dello Stato deve essere messa alla prova sulla lunga distanza e non in un solo giorno di primavera.

La presenza di un fuoriclasse come il questore Guido Longo (solo per citare un nome senza mancare di rispetto agli altri) lascia però sperare che le indagini su quell’attentato – vedrete se sbaglio – proseguiranno spedite e con buone possibilità di capire quali mani criminali abbiano lanciato quel messaggio di morte inequivocabile all’imprenditore. Anche perché – cari amici calabresi – purtroppo non è che le Forze dell’Ordine abbiano da spaziare tra mille denunce. Da giugno 2012 a oggi una sola denuncia: quella di De Masi. Fantastico no?

Resta il fatto che resteranno da capire i motivi di quell’attentato.

E qui mi sbilancio su quel che penso io: 1) ingresso nel Porto; 2) traffico di droga e armi.

Ricapitolo brevemente perché a buon intenditore poche parole: 1) nel Porto, De Masi non deve entrare, non deve rompere con le sue attività un equilibrio delicatissimo (usando un eufemismo) e meccanismi rodatissimi (usando un altro eufemismo); 2) i traffici di droga e armi (che a Gioia Tauro proliferano) vengono messi a rischio se De Masi arriva a rompere le uova nel paniere con il ricovero dei container vuoti. Punto. Oltre non vado anche se potrei andare.

Ora, proprio il narcotraffico mi dà la possibilità di usare un gioco di parole usando un bellissimo ricordo di De Masi sulla scimmietta che il padre regalò a lui e ai fratelli di ritorno dalla Fiera del Levante di Bari. Ci fu chi pensò di far pagare (in tutti i sensi) quella sfacciata ostentazione di un animale esotico quando sulla Piana si moriva di fame.

Beh, è il caso di dire che l’evoluzione della Piana di Gioia Tauro in 40 anni è tutta qui: dalla “scimmietta”, usata come obiettivo per un’estorsione alla famiglia De Masi denunciata e fallita, alla “scimmia”, vale a dire il modo in cui molte generazioni hanno chiamato (e forse chiamano ancora) il ricorso alle sostanze stupefacenti. Tutto nacque dal libro “La scimmia sulla schiena” (“Junkie”, edito nel ’53 ma arrivato in Italia nel ‘62) di William Burroughs, capostipite della beat generation, che in maniera fredda, impassibile, con obiettività scientifica sperimentò su se stesso e descrisse gli effetti del ricorso alle droghe.

Buona lettura, visto che di seguito troverete il discorso tenuto da De Masi. E’ educativo e formativo e aggiungere altro non è necessario. In questi due aggettivi c’è tutto.

r.galullo@ilsole24ore.com


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LA LETTERA LETTA DA ANTONIO DE MASI

Illustrissimi Signori, Autorità tutte, vi ringrazio di Cuore per la vostra presenza.

Ognuno di voi che oggi è qui ha contribuito con la sola presenza a rafforzare la speranza di un cambiamento, e certamente a dare anche un segnale molto forte e chiaro della presenza dello Stato e cosa ancor più importante della società civile; una società fatta da uomini e donne che vogliono riprendersi la libertà ed il diritto di vivere in una terra libera da vincoli, soprusi ed angherie, senza più padrini e padroni.

Grazie a nome mio e di tutta la mia famiglia, dei miei dipendenti che forse possono ancora sperare in un domani lavorativo.

La mia famiglia ha dietro le spalle oltre 35 anni di lotte alla criminalità; era il dicembre del 1987 quando ai media e subito dopo, davanti alle telecamere della Rai, abbiamo fatto le prime denunce pubbliche delle aggressioni mafiose subite. Così facendo abbiamo portato all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale la violenza della ndrangheta, mettendoci la faccia in maniera forte e chiara. Siamo stati i primi in Italia ad aver chiuso l’azienda per mafia e quella vicenda creò molto scalpore per i servizi giornalistici fatti dall’allora direttore del Tg2 Alberto La Volpe, dimostrando in tale vicenda anche il ruolo primario che possono avere i media in queste battaglie .

Quegli anni erano contrassegnati dai sequestri di persona e da un’assenza quasi totale dello Stato; ebbene in quegli anni, in Calabria, un’azienda disse basta all’aggressione criminale, arrivando a chiudere. Ciò è stato un capitolo importante, certamente doloroso, della storia della mia famiglia sia per i sacrifici e le privazioni subite che per essere stati emarginati in quanto, avendo sempre denunciato, fummo considerati all’epoca e non solo dal tessuto sociale degli “infami”.

Rammento alcuni episodi al riguardo che riaffiorano alla mente. Episodi che danno il senso di alcune cose, come quando, con noi figli ancora piccoli, mio padre portò a casa, di ritorno dalla Fiera del Levante di Bari, che era la più importante manifestazione fieristica d’Italia, una piccola scimmietta. Quell’animaletto era la gioia di noi 5 figli ma l’arrivo della scimmietta è stato seguito da una lettera estorsiva che diceva testualmente: “tu hai la scimmietta e noi moriamo di fame, portaci i soldi sotto la pietra del mulino”. Mio padre lo fece, ma avvertendo prima i carabinieri che arrestarono gli estortori con i soldi in mano. Ricordo quest’episodio come fosse ieri, anche perché in quel periodo mio padre era a letto malato, e due grandi marescialli dell’arma raccolsero la denuncia ed agirono subito. Questo è avvenuto circa 37 anni fa non al nord ma nel sud in Calabria, a Rizziconi .

Negli anni successivi poi, sempre in presenza di lettere anonime con richieste di danaro e nostre denunce, i carabinieri prepararono la confezione con il denaro utilizzando i primi segnalatori, che in quell’occasione si danneggiarono a causa delle vibrazione del frigo sul quale l’estortore poggiò il pacco. Per non parlare delle intimidazioni subite facendoci trovare la dinamite sul tavolo ed i fiammiferi a lato ed i diversi attentati dinamitardi subiti. Potrei raccontarne decine di queste storie come numerosi sono i volti di questi criminali che ci hanno rovinato la vita facendoci vivere privati del valore primario della libertà.

Questa è una parte della storia della famiglia De Masi in questa terra dove 40 anni fa parlare di legalità era come bestemmiare in chiesa.

Io ed i miei fratelli siamo stati educati e cresciuti in questo contesto, passando notti con mio fratello sul balcone di casa, o dormendo all’aperto su un materassino, con il fucile sottobraccio a fare la guardia. In quegli anni ricordo bene come tenevamo in casa i fucili in bella vista perché così facendo chiunque fosse venuto avrebbe avuto ben chiaro il fatto che non avevamo paura delle minacce.

Dal dicembre del 1987 alla sera del 12 aprile del 2013 sono cambiate molte cose.

All’epoca la posta in gioco era l’estorsione criminale: volevano i soldi, volevano rubare il frutto del nostro lavoro. All’epoca abbiamo risposto con un braccio di ferro molto duro e resistito, in quanto era difficile che per una mancata estorsione ti ammazzassero.

Oggi quello che è successo è tutt’altra cosa.

Chi conosce la tipica escalation dell’aggressione criminale sa bene che dietro 44 colpi di Kalashnikov e due proiettili a terra inesplosi, non c’è una semplice estorsione, ma molto di più, qui infatti l’intimidazione subita è partita dal massimo livello, con l’impiego dell’arma militare, per far capire che il prossimo obiettivo potrebbe essere la tua vita.

Questo messaggio credo sia chiaro a tutti e di fronte a ciò siamo chiamati ad essere razionali, al di là di avere coraggio o meno.

Nei primi giorni è prevalsa in me non la rabbia, l’odio o sentimenti analoghi, ma la ragione e la rassegnazione, e per questo motivo ho detto ai media che il messaggio è stato recepito, e che lo stesso era stato chiaro e forte. E’ stato un momento di grande sconforto ed amarezza e forse anche di voglia di gettare la spugna, ma il guardarmi intorno e vedere i volti di tanta gente, i nostri lavoratori e le loro famiglie, gli attestati di stima e solidarietà ricevuti, la vicinanza concreta, autorevole ed intelligente dello Stato in tutte le sue forme, i richiami ai miei doveri di imprenditore e certamente il mio carattere, la mia rabbia e la consapevolezza che in gioco sono valori primari come la libertà ed il futuro di tutti, mi hanno portato, ci hanno portato insieme, a dire: “andiamo avanti”.

Noi tutti, la mia famiglia, siamo qui a metterci la faccia per dire che continueremo il nostro lavoro, stiamo qui dicendo con forza di lasciarci in pace perché noi vogliamo lavorare, fare impresa e far crescere le aziende per contribuire a dare un futuro a questa terra disgraziata. Io non ho paura, noi non abbiamo paura; noi siamo qui, come hanno fatto i nostri antenati partigiani, a combattere una lotta per la liberazione di questa terra da quei padrini che l’hanno massacrata, che hanno distrutto il futuro dei nostri e vostri figli.

De Masi è e vuole continuare ad essere il nome di una famiglia di imprenditori che fa impresa e crea occupazione nel nome della “legalità” vissuta e praticata e della vicinanza allo Stato.

Io credo che al di là delle autorevoli presenze e delle gravissime assenze, oggi la posta in gioco è altissima; noi non possiamo perdere, questa battaglia deve avere un solo ed unico risultato, la vittoria! Credo che stare al fianco delle aziende sia un fatto importante e determinante e forse oggi proprio da qui può avere origine quella rivoluzione culturale che in Sicilia, anche partendo dal mondo delle imprese, ha cambiato le cose.

Finisco questo mio intervento, ringraziando di cuore tutti: le forze dell’ordine tutte, il Procuratore di Reggio Calabria Cafiero De Raho, S.E il Prefetto Piscitelli , il Questore Dr Longo ed in modo particolare il Col. Falferi e tutti i suoi uomini, il Capitano Cinnirella, ed a il Ten. Ceccagnoli e gli uomini della scorta e l’autorevolissima presenza degli uomini dell’Esercito italiano qui rappresentato dal comando logistico di proiezione agli ordine del Col. Francesco Cardone.

Un Grazie particolare va poi a Libera, a don Luigi Ciotti ed all’Osservatorio sulla ‘ndrangheta rappresentato da Claudio La Camera.

Poi io non sarei qui se non avessi avuto la presenza al mio fianco di Don Pino De Masi a cui molto devo, sia per avermi sopportato con le mie ansie ed angosce che per avermi sempre dato la speranza e la fiducia. Da cattolico credo che la Chiesa, in territori difficili come il nostro, debba riprendersi la missione di “condurre il gregge” sulla dritta via, ed uomini come don Pino sono l’esempio concreto dell’agire.

Don Pino tu hai rappresentato per me la strada ed il punto di rifermento, grazie di tutto e scusami.

Infine una parola la debbo a tutti i miei familiari che con la mia caparbietà ho spinto ad un forte coinvolgimento, forse oltre il dovuto.

Grazie ancora a tutti


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Titolo: Roberto GALULLO. Cari lettori, forse molti di voi ricorderanno che l’8 aprile...
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2013, 11:05:34 am
13 maggio 2013 - 9:00

Francesco Calabrese: «Io, imprenditore onesto, vi racconto perché i reggini hanno paura e come i dipendenti boicottano la macchina comunale»


Cari lettori, forse molti di voi ricorderanno che l’8 aprile, su questo blog e il 10 aprile sul Sole-24 Ore, ho raccontato una delle tante storie di ordinaria follia italiana.

Riguardava l’imprenditore reggino Francesco Calabrese, che detiene il 51% della Taeec  (Technology-aspiration-environmental-ecology-construction) ma, soprattutto, che dal 2011 attende dallo Stato 190mila euro per lavori d’urgenza fatti a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), allora colpita dall’alluvione.

Bene, forse molti di voi ricorderanno anche il mio articolo su questo blog il 3 maggio (ad esso rimando) nel quale, anche utilizzando la durissima critica fatta dal Procuratore della Repubblica Federico Cafiero De Raho alla cittadinanza reggina, “schiava della paura” ma senza più alibi, ricordavo che all’incontro con lo stesso Procuratore organizzato il giorno prima dall’associazione Riferimenti in un cinema cittadino, c’erano i soliti quattro gatti. E dire che l’occasione era straordinaria.

Ricorderete che - provocatoriamente e paradossalmente  -scrissi che se in quel cinema ci fosse stato un evento organizzato dalla cosca De Stefano (che in città e fuori detta legge) quella sala sarebbe stata piena e la coda sarebbe arrivata in strada.

Dopo quell’intervento ho ricevuto una lettera dell’imprenditore Calabrese. Anzi due. Una più dura e cruda dell’altra sullo stato di agonia in cui versa Reggio Calabria. Con la prima – contestualmente – mi informa che la richiesta di avere legittimamente quei 190 mila euro non ha fatto un millimetro di strada: è ancora lì che aspetta.

Ve le propongo pari pari perché descrivono dall’interno (Calabrese è infatti reggino) la fine annunciata di un capoluogo (mezzo) e della regione.

Buona lettura.

r.galullo@ilsole24ore.com


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LA PRIMA LETTERA (SULLE VICENDE CITTADINE)

Dottor Galullo ,

al solito Lei a differenza di altri ha qualcosa in più, il suo intuito e la sua esperienza su queste problematiche centrano in pieno le verità di questa terra.

Tante volte lo sento crudo nei nostri confronti, (nei confronti dei reggini) ma ha pienamente ragione, la nostra cultura, il nostro sentirsi intelligenti tante volte ci fanno pagare prezzi cari.

Il prezzo che paghiamo e proprio quello che non volendo cambiare ci ritroviamo a morire asfissiati da questi quattro balordi (quattro per modo di dire).

Nell’articolo che lei ha pubblicato sul suo blog leggo una frase che dice: “Di che cosa hanno paura i reggini”.

Vorrei parlare di queste paure. Io oggi ho 39 anni e da quando ero ragazzino (12-15 anni) si sentiva parlare in città sempre delle stesse problematiche.

Oggi a distanza di tempo i miei figli sentono parlare delle stesse cose.

Ero appunto ragazzino quando si sentiva parlare di guerra di mafia tra famiglie, si macellavano circa due tre/persone al giorno, tutto nella nomale routine quotidiana e ricordo tante di quelle persone protagoniste (gli attori principali ) di quella guerra che in questi anni sono entrati ed usciti dal carcere decine di volte (entrarci per l’ennesima volta sarebbe una “passiata”, cosi dicono quando si vantano).

Gli abitanti dei quartieri, abitualmente, quando uno di questi usciva dal carcere, creavano una fila di fronte casa per andarlo a salutare portando soldi e viveri oltre a i saluti di bentornato…

Di certo tra questi, tanti avevano paura, chi per le proprie attività, chi per ovvie ragioni di lavoro. Hanno sempre pensato che con i don si possa campare (non progredire: campare).

E’ normale. A memoria ricordo questa gente sulla settantina, come i vincitori nei confronti dello Stato, hanno fatto quello che hanno voluto per anni per decenni e quindi il reggino riconosce loro come un potere forte indistruttibile.

Credo che la vera paura dei reggini sia questa: le famiglie di ndrangheta sono più potenti dello stato…Nessuno pensa di passare dal lato dello Stato altrimenti saranno guai. Anche dopo decenni pagherai lo sgarro.

E credo che lo Stato in questi vent’anni abbia avuto bisogno di loro (per voti etc) e in cambio ne abbiamo pagato le spese noi, rimanendo nella regressione totale. Questo il reggino lo sa è ha paura.

Dottore lei me lo deve consentire di dire, e va detto: i reggini hanno paura perché lo Stato non c’è stato negli anni 85/ 2000, poi dopo la strage di Duisburg ha fatto la scenetta di scoprire in casa la potentissima mafia a livello mondiale, la ndrangheta. Se lei nota, delle famose retate di Cortese, Pignatone e colleghi, tantissimi arrestati sono fuori, sono tornati ai loro posti. Questa è la paura dei reggini ritrovarseli dopo due mesi li, dove li avevi lasciati.

Noi del Sud abbiamo bisogno di leggi su misura solo per noi, pene pesantissime, niente sconti, e processi corti anzi cortissimi. Li forse il reggino, il politico,il pecoraro, e tutti comincerebbero a capire chi comanda.

Può non condividere su quanto detto, questo è il mio pensiero

Buon lavoro Galullo

Francesco Calabrese


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LA SECONDA LETTERA (SULLE VICENDE COMUNALI)

Caro dottore,

a parte il mio problema, le volevo raccontare una delle piccole storielle di cattiva amministrazione che capitano tra le mura degli uffici comunali di Reggio Calabria.

Vanto un piccolo credito con il Comune di Reggio Calabria: esattamente 8000,00 euro per dei servizi prestati al Comune in occasione di una festa dell’Arma dei Carabinieri nel 2010.

Ad occuparsi di quest’evento è stato l’ufficio U.O. Cultura, immagine e turismo di Reggio Calabria.

Bene. Dopo tanti mesi trascorsi mi sono rivolto a questo ufficio per ricostruire un pò la pratica (esattamente 20 giorni fa). Premesso che questa è una delle tanti sedi distaccate del Comune, all’interno ho notato un covo, un nascondiglio, non so come definirlo, ma di certo non era un ufficio. Ci lavorano almeno una dozzina di soggetti che tutto fanno tranne che lavorare. Vedi il solito giornale, Iphon ,solitari,qualcuno che controlla il portone d’ingresso o sbircia dalla finestra. Quasi una prigione. Ma sicuramente era la conseguenza del casino di quei giorni sulle indagini ai dipendenti comunali.

Entrato ho notato l’aria di disturbo che avevo arrecato chiedendo un semplice documento e le decine di stupide scuse che prendevano pur di toglierti dalle scatole. Mi fanno ritornare dopo una decina di giorni per ritirare la copia della pratica perché il dirigente non c’era. Ritorno come richiesto è stavolta non c’era né la pratica, né il dirigente, né la capoufficio che avevo incontrato in precedenza. Ritorno Martedì scorso, solita aria: tutti inerti sulle scrivanie, tutti mi guardano con aria sospetta, appena chiedo, hanno già dimenticato di cosa si trattava, mi dicono di ritornare un altro giorno. Stamattina mi alzo come al solito di buon ora e mi dirigo verso il centro per essere in quell’ufficio all’apertura, convinto di ritirare un pezzetto di carta. Non ci crederà: non c’era né il dirigente né la capoufficio. Il personale infastidito al solito per il disturbo arrecato mi ha detto senza molte parole di ritornare.

Bè che dire si trattava in fondo di una piccola pratica posata dentro un faldone alla portata anche dell’usciere .A me torna utile per poter intraprendere un azione legale contro il comune e recuperare i miei soldi. Loro continuano a derubare il comune con la loro inerzia, e a mettere in difficoltà il Commissario Panico boicottando l’efficienza del servizio.

Cambiare a Reggio è difficilissimo: Acambiare tutto e tutti. Questa gente è di una cultura talmente ottusa e stupida che ti vien la voglia di mandarli a quel paese pur di non averci a che fare. Si figuri se potrebbero avere la mentalità di partecipare al Cilea in occasione della giornata della Gerbera Gialla.

Cordiali saluti

Francesco Calabrese


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Titolo: Roberto GALULLO. Polveriera calabra
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 05:19:32 pm
15 maggio 2013 - 6:19

Polveriera calabra: aggiungi un posto a tavola che c’è un Cafiero De Raho in più – Muro contro muro con la politica e oggi si replica 3 volte!

Cari lettori per capire cosa è oggi Reggio Calabria – una polveriera nella quale basta il gesto di un folle per incendiarla – vi racconto un episodio che la brava collega Alessia Candito ha appena accennato su www.corrieredellacalabria.it in un ampio servizio dedicato il 5 maggio all’incontro con il capo della Procura Federico Cafiero De Raho, organizzato dall’associazione Reggio Non Tace.

Ve lo descrivo perché nella vita contano i dettagli, tanto quanto nello charme di una donna elegantemente vestita contano le calzature: rappresentano il 100% del fascino, altro che l’abito.

E quando i dettagli, in una città come Reggio Calabria, coincidono con i simboli, allora è davvero il caso di interrogarsi sul tempo che è rimasto prima che la polveriera esploda o – mutatis mutandis - prima che lo Stato disinneschi la miccia.

L’episodio è vero, legittimo e reale – come si direbbe giocando a sette e mezzo – e testimonia la tensione che si vive in città, che non può del resto essere sopita visto lo stato in cui versa il Comune (dove la terna commissariale sta incontrando ostacoli insormontabili), lo stato in cui versa la Procura (ancora messaggi inquietanti di delegittimazione prossima ventura da parte dei megafoni dei sistemi criminali nei confronti del pm Giuseppe Lombardo e inquietanti avvisi capitolini che si sta battendo contro i mulini a vento), lo stato in cui versa la Regione (con una confusione a dir poco pazzesca in Giunta e Consiglio) e lo stato in cui versa…lo Stato (visto che la miscela esplosiva fatta di servitori infedeli e servizi deviati la fa ancora da padrona).

IL TAVOLO E’ OCCUPATO, ANZI NO

L’episodio ha coinvolto in prima persona il capo della Procura che, arrivato da pochissimi giorni e al termine di una giornata di lavoro, era andato a pranzo con il collega Francesco Curcio, applicato della Dna. Un suo amico di lunga data (hanno lavorato insieme a Napoli). Uno di quelli su cui si fonderà il pool che ha in testa Cafiero De Raho.

Il ristorante dove avrebbero voluto pranzare era chiuso. Poco male: a Reggio i buoni ristoranti non mancano. Basta girare l’angolo, fare poche centinaia di metri e il posto giusto è la. Si scende dalle macchine e si entra – con le scorte – nel locale.

Ma qui avviene quel che analisti distratti (o compiacenti) potrebbero sottovalutare. Il locale è semivuoto (ad essere generosi) ma il posto a tavola per il capo della Procura e per il suo collega non c’è. Non si trova, nonostante i due clienti abbiano fatto presente che bastava guardarsi intorno…C’era solo l’imbarazzo della scelta!

Qui accade il contrario di ciò che sarebbe accaduto oggi in quella Casal di Principe che pure il capo della Procura per la prima volta ha richiamato il 2 maggio (si veda articolo in archivio di questo blog del 3 maggio) come pietra di paragone con l’attuale e disperante stato in cui versa la città di Reggio Calabria, impaurita anche della propria ombra.

A Casal di Principe, Napoli o Caserta i ristoratori si sarebbero fatti in quattro per trovare un tavolo, a costo di portare il conto agli ultimi arrivati ancora in attesa delle portate. O a costo di spedire tutti i clienti in cucina e apparecchiare “per sua eccellenza il Procuratore”. Scaltrezza campana ma – al tempo stesso – rispetto per la Giustizia, fosse anche formale o per tornaconto.

A Reggio no. L’ospite inatteso – sfido qualunque ristoratore di Reggio a sostenere di non riconoscere Cafiero De Raho nonostante il suo fresco arrivo, non fosse altro che per la scorta armata fino ai denti che si porta giocoforza dietro – viene cortesemente ma fermamente invitato a desistere.

Ma qui accade il contrario di quanto un comune cittadino potrebbe fare nelle stesso condizioni. Il capo della Procura e il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia restano in piedi. Fermi ad aspettare gli eventi.

Sorpresa che si trasforma (sempre troppo tardi) in accondiscendenza. Sbuca da un angolo un signore…et voilà, il tavolo che prima non c’era, si trova. E ci credo: non c’era nessuno!

LA POLITICA ALLA LARGA

L’episodio, che da negativo si trasforma in positivo o, quantomeno, assolutamente “naturale” visto l’epilogo logico, la dice lunga sulla paura, sulla tensione e sulla mancanza di punti di riferimento di una città smarrita. Anche il solo ingresso di un procuratore in un ristorante “confonde” e manda nel panico.

Questo accade e può accadere solo in un territorio in cui le tenaglie dei sistemi criminali rendono la gente incapace di intendere e volere per il meglio. Gesti “contro natura” verrebbe da dire, che pure accadono quando lo Stato (o meglio: parti importanti dello stesso) è venuto meno al suo ruolo di garante della legalità e quando le Istituzioni (rectius: parti importanti delle stesse) non sono state in grado di garantire linee di sviluppo socioeconomico ad una città e ad una regione tutta allo stremo.

Non è un caso che Cafiero De Raho sia andato allo scontro diretto con la classe politica, con parole durissime che riprendo dalla puntale cronaca di Alessia Candito: «In un territorio così condizionato è difficile pensare che in due anni il voto possa tornare a essere libero. Nei territori che vedono l’esistenza di gruppi criminali forti, magari bisogna trovare dei meccanismi di vigilanza aggiuntiva che non sospendano la democrazia ma che tengano conto delle dinamiche presenti in contesti di questo genere. Quando i commissari andranno via, è probabile che il Comune torni nelle mani di quelli che ne hanno provocato lo scioglimento, allora bisogna iniziare a muoversi da subito. Se i politici che dovrebbero starci vicini sono quelli che hanno portato allo scioglimento del Comune, allora preferisco che stiano ben lontani».

Queste parole – ripeto, pronunciate il 5 maggio nel corso dell’incontro organizzato dall’associazione Reggio Non Tace, la cui anima è padre Giovanni Ladiana – giungono a poche ore di distanza da un altro evento, di cui vi ho raccontato in questo blog il 2 e 3 maggio (rimando all’archivio).

In occasione delle due giornate di incontri e dibattuti organizzati dall’associazione Riferimenti, a nessuno sono sfuggite due coincidenze (la terza, come amava dire Agatha Christie sarebbe stata una prova). Il giorno in cui i ragazzi sfilavano con una gerbera gialla da sventolare e depositare in ricordo della vittima di ‘ndrangheta Gennaro Musella, la giunta regionale si riuniva. Coincidenza. Pura coincidenza. La politica ha i suoi tempi. Che non coincidono – casualmente – con quelli dei ragazzi che sfilano contro le mafie, la corruzione e la violenza.

Nelle stesse ore in cui tutto questo accade, accade anche la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Piero Grasso, arrivi in città senza che un-politico-uno lo accolga (eccezion fatta, a quanto mi risulta, per il presidente del consiglio regionale calabrese Francesco Talarico, ma solo perché se lo ritroverà fianco a fianco il 3 marzo nel corso della premiazione Gerbera Gialla).

La cosa non è sfuggita alla città tutta che – per i motivi descritti sopra – ha desistito dal commentare o prendere posizione. Salvo poche eccezioni rappresentate, ad esempio, dagli 88 ragazzi e ragazze della Rete degli studenti delle scuole superiori e universitari Gerbera Gialla, che alcuni giorni fa hanno diffuso e singolarmente frimato una nota dall’oggetto incontrovertibile: «Quale classe politica ha la Calabria? Denuncia degli studenti .Nessun politico ad accogliere il Presidente del Senato in Calabria».

Nella lettera – che continua ad essere aperta a firme e adesioni – si legge, tra le altre cose: «…eravamo in 10mila a sfilare per le strade della Città dello Stretto: studenti delle scuole elementari, medie, superiori e dell’università. Da San Luca a Scampia da Rosarno a Ciro', da Vibo a Cosenza, Crotone e Reggio...Ci ha fatto molto male, però, constatare l’assenza delle Istituzioni Calabresi che denunciamo con forza  per non essere da loro rappresentati così' come dovrebbero e come noi vorremmo.

Il 3 maggio non c'era un politico che sfilasse al nostro fianco; non c'era un politico ad accogliere il Presidente del Senato,seconda carica dello Stato al cui cospetto ,questa terra non è' stata rappresentata se non da noi e dalle alte cariche: prefetti, magistrati e massimi rappresentanti delle Forze dell'ordine.

Il Comune di Reggio Calabria, si sa, è sciolto per mafia ed era rappresentato dal Commissario. Ci chiediamo ,però dove fossero gli altri: a partire dalla Provincia di Reggio, assente in tutte le sue componenti per finire al Governo regionale.

E’ stato un segnale davvero pessimo, soprattutto per la condizione della nostra terra, schiacciata dal potere mafioso e aggredita da gravi emergenze sociali.

Ci chiediamo: ma la Calabria ha una classe politica che la rappresenta nelle Istituzioni o è figlia di nessuno così come è apparsa agli occhi del Presidente del Senato il 3 maggio?

Calabria uguale 'ndrangheta? Per quel che ci riguarda non di certo ma riteniamo che la nostra classe politica sia lontana anni luce dalla voglia di riscatto e ribellione delle nostre coscienze.

Anche il comportamento di qualche mezzo d’informazione locale non va sottovalutato. Qualche televisione privata della città, il cui editore, guarda caso, è in politica, ha oscurato la manifestazione e questo la dice lunga. Certo ognuno ha la facoltà di pubblicare o mandare in onda ciò che preferisce! …Ad arrossire nei confronti del presente deve essere una politica latitante che non rappresenta la ribellione di questa terra nè la nostra. Che si vergognino tutti coloro che si sottraggono al dovere etico della denuncia».

Benedetti ragazzi prendete esempio dal capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria: con la classe politica reggina e calabrese esiste una sola cosa. Il muro contro muro. Il più forte resterà in piedi e a partire da quello sarà (forse) costruita la nuova città.

A GRANDE RICHIESTA…

Oggi si replica e sarà interessante vedere come si muoverà la città alle prese con tre eventi. Il primo, alle 10, organizzato ancora da Riferimenti, è al Teatro Siracusa. Un incontro con gli studenti, aperto al pubblico. Ospite Antonino Di Matteo, oggi più che mai al centro dell’attenzione per le minacce ricevute (si vedano in questo blog, nell’archivio, i recenti servizi del 4, 9 e 19 aprile e 5 maggio).
Alle 16.30, presso la Sala dei Lampadari Palazzo San Giorgio, in un incontro anch’esso aperto al pubblico e alla stampa, saranno protagonisti ancora Di Matteo, Giuseppe Lombardo, sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria e Adriana Musella, presidentessa del Coordinamento nazionale antimafia Riferimenti. Si parlerà di intrecci Stato-mafia, a meno di due settimane dall’inizio del grande processo sulla trattativa a Palermo (diretta streaming su www.riferimenti.org e possibilità di intervenire direttamente in chat con il numero 348 41 32 891).

Alle 20.30, invece, il procuratore capo Cafiero De Raho parlerà con Roberto Saviano del suo ultimo libro e dei temi che, inevitabilmente, girandoci intorno, non potranno che passare anche da Reggio e dalla sua cupola mafiosa.

Le tre di oggi saranno repliche a grande o piccola richiesta? Ve lo racconterò dopo che le avrò vissute.

r.galullo@ilsole24ore.com

 

P.S. Su www.ilsole24ore.com domani, come ogni giovedì non perdete “ORA LEGALE – Lezioni di antimafia di imprese e società”. E’ uno spazio di approfondimento giornalistico che ogni settimana racconta storie e volti di imprenditori, commercianti, professionisti, uomini e donne, associazioni e istituzioni che si oppongono in tutta Italia alle mafie e combattono – con i fatti e non a parole – per la legalità. ORA LEGALE – Lezioni di antimafia di imprese e società potrete trovarla anche cliccando su qualunque motore di ricerca a partire da Google. Attendo anche le vostre storie da indirizzare
a r.galullo@ilsole24ore.com

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Titolo: Roberto GALULLO. Lo Giudice, “nano spentito” calabrese
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:34:38 pm
14 giugno 2013 - 9:23

Lo Giudice, “nano spentito” calabrese ma col pallino dei servizi segreti in Sicilia: nel suo memoriale Gladio e gli omicidi di agenti del Sisde

Ci sono parti del memoriale e del video di Nino Lo Giudice, il “pentito calabrese pentito di essersi pentito e che forse si ripentirà del pentimento”, consegnati a più di un mittente, sulle quali vale la pena di soffermarsi.

Però, come vedete – amati lettori di questo umile e umido blog – nonostante tante siano le sollecitazioni, da quando il “memoriale smemorato” è stato diffuso (da me per primo sul portale del Sole-24 Ore) ne sto alla larga per le parti che toccano le radici calabresi.

La mia sensazione – confidata ad alta voce – è che per il momento è meglio stare ad aspettare. La partita di tennis è iniziata da poco ed è bene fare lo spettatore e non il giudice di linea e tantomeno l’arbitro (cosa quest’ultima che non spetta mai ad un giornalista).

COSTRETTO (?) A PARLARE DELLA SICILIA

La parte che vorrei analizzare con voi è quella nella quale Lo Giudice – chiamando in causa il sostituto procuratore nazionale antimafia Gianfranco Donadio – entra (volontariamente o indotto non sta a me dirlo) in una parte più grande di lui, mischiando nomi e situazioni che a lui (forse) non diranno nulla ma che, ad una lettura più attenta, sembrano fatti apposta per un film sulla Spectre mondiale. A lui – calabrese – seconda l’accusa che egli stesso fa, sarebbe toccato il compito di raccontare di alcune  scottanti vicende accadute in Sicilia. E a lui sarebbe toccato addentrarsi nei misteri profondi che chiamano inevitabilmente in causa anche la parte più sporca dei servizi segreti.

Ieri, ci informa la collega Alessia Candito su www.corrieredellacalabria.it. il procuratore capo Federico Cafiero De Raho ha annunciato che la Procura sta «formando due fascicoli, uno andrà a Perugia, uno andrà a Catanzaro. Si tratta di fascicoli perché oltre al memoriale, verranno allegati tutti gli atti e gli accertamenti preliminari che la Procura di Reggio ha ritenuto di fare». Ai magistrati di Catanzaro, competenti sui profili riguardanti i colleghi in servizio a Reggio, spetterà valutare se e quanto ci sia di vero nelle pressioni che il “nano” ha denuncia di aver subìto da quella che lui appella «cricca». Alla Procura di Perugia, invece, spetterà l’analogo compito nei confronti proprio di Donadio* che secondo Lo Giudice, allegando video e decreto di citazione di un colloquio investigativo nel carcere di Rebibbia pochi giorni prima del Natale 2012, lo avrebbe obbligato a riferire particolari di cui non era a conoscenza. Il Sole-24 Ore - attraverso chi scrive - al momento della diffusione del memoriale e del video, altamente diffamatori per un magistrato del calibro di Donadio* oltre che per gli atri magistrati coinvolti nel suo scritto e nel suo video, ha contattato il magistrato della Dna per avere un commento sul memoriale stesso e sul video ma si è sentito opporre un gentile ma fermo diniego. Il magistrato Donadio* ha dichiarato ancora una volta a chi scrive che il silenzio in questo momento è d'oro e che il tempo sarà galantuomo. Principio valido anche per gli altri magistrati chiamati in causa da Lo Giudice e se i segni sono importanti, va notato che Federico Cafiero De Raho sta lavorando come un solo ufficio, a testimoniare l'importanza del gruppo che non viene intaccato dalle chiacchiere, anche con alcuni di quei magistrati chiamati in causa dal "nano", a testimonianza che le chiacchiere sono chiacchiere (quelle di Lo Giudice) e i fatti sono fatti (quelli della Procura). Inutile far notare a Donadio che in un momento come questo sarebbe stato forse il caso di dire la sua.

IL MEMORIALE

E allora trascriviamola quella parte sulla quale già ieri ho svolto alcune riflessioni (rimando al post in archivio). Secondo il “nano spentito”, lo scopo del colloquio investigativo di Gianfranco Donadio era quello di «impiantare una tragedia a persone a me sconosciute (tale Giovanni Aiello e una certa Antonella che non sapevo che esistevano e che malgrado la mia opposizione a tale richiesta, ascolta registrazione integrale) ho subito forti pressioni e minacciato che se non rispondevo quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti, accettai quanto mi veniva suggerito dal dottor Donadio e, facendomi firmare quanto a lui conveniva, altresì, in tale circostanza mi veniva richiesto se ero a conoscenza se Villani era il vero killer che uccisero i Carabinieri a Reggio Calabria, in’oltre se a presentarmi tale Aiello fosse stato mio fratello Luciano e, io gli risposi di no, che era stato il capitano Saverio Stracuzzi e lui quando gli dissi così approvò con soddisfazione tale risposta, dopo volle sapere se io ero i possesso di fotografie di tale Aiello e risposi di sì, e come li avessi avuti, gli risposi che a farli era stato Antonio Cortese e lui accettò, poi mi disse se questo tizio mi aveva confidato qualcosa durante la nostra frequentazione e, di molto serio (degli attentati Borsellino e di omicidi avvenuti in Sicilia ai danni di due poliziotti in borghesi) e di altro omicidio consumato ai danni di un bambino avvenuto sempre in Sicilia.

Alla fine di questi discorsi chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone di cui parlava e così mi disse che si trattava di un certo Aiello e una certa Antonella tutti e due facevano parte a servizi deviati dello Stato e che la donna era stata ad Alghero in una base militare dove la fecero addestrare per commettere attentati e omicidi e che era solito recarsi a Catanzaro in una località balneare per trascorrere il periodo estivo».

Ora anche ad un orbo salterebbe all’occhio che il “nano spentito” prima dice che «tale Giovanni Aiello» era persona a lui sconosciuta poi, qualche riga dopo dirà che a presentarglielo non era stato il fratello Luciano ma «il capitano Saverio Stracuzzi». Ma non è di questa stranezza che voglio parlarvi – se cominciassi con le follie contenute nel “memoriale smemorato” non finirei più e mi periterò in questo esercizio solo quando sarà il momento – ma della miscellanea o, se preferite vista la stagione, della macedonia che Lo Giudice serve sul tavolo del depistaggio. Non so se consapevole, inconsapevole o parzialmente consapevole. Parimenti non so se in combutta con Tizio, Caio o Sempronio.

Tutto sembra ruotare intorno alle confidenze che durante la «frequentazione» (che a questo punto suppongo che sia inventata; o no?), quel tal Giovanni Aiello e quella tal Antonella gli avrebbero fatto di «molto serio»: dall’attentato a Borsellino all’omicidio di due poliziotti in borghese, per finire con un altro omicidio consumato ai danni di un bambino. I due baldi – Aiello e Antonella – dovevano essere al centro della “tragediata”.

L’OMICIDIO DEL BAMBINO

Non è compito mio (ma credo che mai si saprà la verità) giudicare chi e se abbia messo sul tavolo del “nano spentito” questo zibaldone di uova marce.

Abbiamo già detto e scritto che Lo Giudice imputa questi nomi e queste situazioni a Donadio ma – se mai così fosse – proporrei che Donadio* lasci la Dna per unirsi nella scrittura a Dan Brown. Sarebbe altresì pronto a ereditare la fantasiosa penna di Karl Stig-Erland Larsson, ahinoi prematuramente scomparso.

Di bambini scomparsi in Sicilia io ne ricordo uno e ho avuto la drammatica possibilità di vedere la sua camera di tortura e su quella pregare. Era il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, mafioso pentitosi. Fu rapito, strangolato e sciolto nell’acido l'11 gennaio del 1996, dopo 779 giorni di martirio.

Che c’azzecchi, direbbe Antonio Di Pietro, con gli altri riferimenti che il “nano spentito” fa (o che gli fanno fare) lo sa solo il buon Dio.

I POLIZIOTTI IN BORGHESE

Dando per scontato che l’unica cosa certa per la quale gli si potrebbe eventualmente chiedere conto è l’attentato a Paolo Borsellino (del quale credo che Lo Giudice sappia quel che so io del platipo, più volgarmente conosciuto come ornitorinco), per quanto mi sforzi di capire, proprio non comprendo come si possa mischiare tutto nel frullatore e soprattutto a chi giovi (state certi che a qualcuno giova).

I due poliziotti che vennero uccisi dopo il fallito attentato dell’Addaura ai danni di Giovanni Falcone, furono Antonio Agostino ucciso a Villagrazia di Carini (Palermo) il 5 agosto 1989 con la giovane compagna incinta e un collaboratore del Sisde, come del resto era Agostino, ex poliziotto, Emanuele Piazza, scomparso a Sferracavallo (Palermo) il 16 marzo 1990. La loro morte/scomparsa fu collegata alla presenza di un gommone e di due sub all’Addaura, dove avevano attentato alla vita di Giovanni Falcone. Sarebbero stati loro a evitare il peggio fingendosi sommozzatori. Solo ipotesi. Di certo c’è che il papà di Emanuele, Giustino Piazza, inviò una memoria alla Procura di Palermo nella quale scrisse: «…i funzionari della Polizia di Stato si sono limitati ad acquisire relazioni di servizio e non hanno svolto neanche le investigazioni di routine: di fatto hanno chiuso l’indagine senza alcuna acquisizione, come se, anziché scoprire volessero coprire chissà quali responsabilità… Il procedimento relativo alla scomparsa di mio figlio è stato successivamente archiviato… Sin dall’inizio delle indagini il Sisde ha negato l’appartenenza di Emanuele ai servizi…».

VOGLIO ANDARE AD ALGHERO

L’ultima fantasmagorica storia che viene accennata è quella del luogo di addestramento nel quale si sarebbero esercitati per «commettere attentati e omicidi» lo stesso Aiello e la fida segretaria Antonella. E dove si addestravano? Risposta: ad Alghero. In una base militare.

E qui, inconsapevolmente o meno chi lo sa, il “nano spentito” tocca un nervo delicatissimo e fa galoppare la fantasia nella prateria del Centro addeestramento guastatori (Cag) di Punta Poglina a Capo Marrargiu, pochi chilometri a sud di Alghero. E chi si addestrava lì? Secondo la storia e la leggenda, i “gladiatori” della Stay Behind de noantri.

In Italia, quando non si sa che collante trovare per i misfatti più folli, o si guarda alla P2 o a Gladio (e le connessioni tra loro non mancano).

L’ex capo dell’ufficio amministrazione del Sifar (l'ex Servizio di informazione delle forze armate) Luigi Tagliamonte, poi capo dell’ufficio programmazione e bilancio del comando generale dell’Arma dei Carabinieri, durante una delle varie inchieste che ruotarono intorno alla base di addestramento di Gladio dichiarò: «Sapevo che presso il Cag si effettuavano dei corsi di addestramento alla guerriglia, al sabotaggio, all'uso degli esplosivi al fine di impiegare le persone addestrate in caso di sovvertimenti di piazza,in caso che il Pci avesse preso il potere…»

Insomma anche i due baldi Giovanni e Antonella si addestravano alla pugna come i gladiatori. Ne facevano parte? Visto che la fantasia corre, la faccio correre anche io richiamando un pezzo del mio collega al Sole-24 Ore Beppe Oddo, che il 3 maggio 2012 scrisse: «Falcone non doveva occuparsi d'altro che di mafia militare e lasciar perdere le indagini sui colletti bianchi: questo era il messaggio che veniva dall'alto. E quando cercò di capire le eventuali connessioni tra gli omicidi eccellenti e la Gladio (la struttura paramilitare segreta, creata per contrastare l'avanzata della sinistra) gli fu impedito di farlo. Nella sua agenda elettronica c'è un appunto su una richiesta di incontro ai magistrati romani che seguivano quella pista. Prosegue Scarpinato (l’attuale capo della Procura generale di Palermo, ndr): “Falcone aveva preso degli appuntamenti in seguito a un esposto della parte civile del processo La Torre (il segretario regionale del Pci assassinato da Cosa nostra, ndr) da cui emergevano possibili collegamenti tra Gladio e questo omicidio. Ma l'allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, li disdisse”».

Il “nano spentito”: se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. E con lui i coautori, se ci sono, della trama, degna di 007. Mi chiamo Lo Giudice…Nino Lo Giudice…

P.S * Oggi, 21 giugno 2013 ho incontrato Donadio ad un convegno a Rimini e gli ho chiesto, ancora una volta, di smentire le frasi calunniose e diffamatorie nei suoi confronti, contenute nel memoriale e nel video di Lo Giudice. Gli ho chiesto persino la possibilità di un'intervista in cui potesse fornire la rappresentazione delle cose. Niente da fare. Ancora una volta richiesta fermamente ma dolcemente respinta. Il tempo, ha ribadito, sarà galantuomo.

r.galullo@ilsole24ore.com


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Titolo: Roberto GALULLO. Il pool antimafia (gratis) del Governo
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:36:12 pm
8 giugno 2013 - 9:32

Il pool antimafia (gratis) del Governo - Garofoli, Cantone, Gratteri, Bianco e Spangher - parte dalla lotta al riciclaggio

Lo aveva anticipato in tv senza che i diretti interessati ne fossero a conoscenza ma ora lo ha messo nero su bianco.

Il premier Enrico Letta, dopo essere andato a “Che tempo che fa” il 5 maggio annunciando la nascita di una regia governativa contro le mafie, il 7 giugno ha tenuto fede all’annuncio e ha firmato il decreto (Dpcm) che istituisce, presso il Segretariato generale della Presidenza del consiglio dei ministri, la Commissione per l’elaborazione di proposte in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità.

Il pool – che lavorerà a titolo gratuito – sarà presieduto dal magistrato del Consiglio di Stato Roberto Garofoli e ne faranno parte due magistrati della Cassazione, Raffaele Cantone ed Elisabetta Rosi, Nicola Gratteri (procuratore aggiunto a Reggio Calabria), il dirigente della Banca d’Italia Magda Bianco e il docente di Procedura penale Giorgio Spangher.

La Commissione, che informalmente ha cominciato a lavorare da due settimane ma che la scorsa si è riunita a Roma per la prima volta, entro 90 giorni, quindi verosimilmente alla ripresa dell’attività parlamentare a settembre, dovrà consegnare direttamente nelle mani di Letta un rapporto con l’analisi dei fenomeni mafiosi e le proposte sulla lotta alla criminalità organizzata.

Domani tornerà a riunirsi per affinare le proposte in materia di lotta al riciclaggio e auto riciclaggio (uno dei buchi neri della normativa italiana).

Su indicazione del premier, la Commissione potrà formulare anche singole proposte su temi specifici.

r.galullo@ilsole24ore.com


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Titolo: Roberto GALULLO. La rete di garanzia e protezione della cosca Acri-Morfò
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:37:08 pm
21 giugno 2013 - 7:59

La rete di garanzia e protezione della cosca Acri-Morfò che parte da Rossano (Cosenza) e arriva a Vigevano (Pavia)

Quel che colpisce sempre più spesso nelle indagini contro la criminalità organizzata è la “rete” di garanzia e protezione che viene garantita sull’intero territorio nazionale. Una rete che consente non solo di essere celati agli occhi della Giustizia ma anche di estendere una trama di potere socieoeconomico che guarda sempre più al Nord.

Prendiamo, ad esempio, l’operazione Stop, con la quale il 19 giugno il Ros e il comando provinciale dei carabinieri di Cosenza hanno arrestato 28 esponenti della cosca Acri-Morfò di Rossano (Cosenza) a seguito di una misura coercitiva, emessa dal gip distrettuale di Catanzaro, Gabriella Reillo, su richiesta della Dda.

E dove sono avvenuti gli arresti? A Rossano (abbastanza logico), ma anche a Vigevano, Viterbo, Parma e Cuneo.

Tra i destinatari dei provvedimenti, oltre ad elementi di vertice della consorteria, anche un consigliere comunale, l’avvocato Ivan Nicoletti, eletto nel maggio del 2011 tra le fila della maggioranza di centrodestra che amministra il Comune di Rossano. Il professionista è stato sottoposto agli arresti domiciliari. Gli arrestati – 19 in carcere e 9 ai domiciliari – sono accusati a vario titolo dei reati di associazione a delinquere, tentato omicidio, estorsione, rapina, detenzione illegale di armi comuni da sparo e da guerra, di sostanze stupefacenti, procurata inosservanza di pena, violenza per indurre più elettori a votare un candidato specifico, illecita concorrenza e trasferimento fraudolento di valori. Sono stati eseguiti inoltre sequestri di numerosi beni mobili e immobili, società e conti correnti bancari per un valore di 40 milioni di euro.
Sono stati sequestrati 25 immobili, acquistati ad un prezzo complessivo di 2 milioni; 45 rapporti bancari, con saldi positivi per circa 160mila; 45 autoveicoli, acquistati ad un prezzo complessivo di circa 380mila euro; 7 polizze assicurative, per un controvalore pari a circa 20mila euro e 17 società, per un fatturato complessivo di circa 10 milioni.

LA CITTA’ DUCALE E…OSPITALE

A questa operazione dedicherò alcuni servizi (oggi il primo, gli altri la prossima settimana) sugli aspetti che più colpiscono di questa rete di protezione e garanzia.

Vigevano, per quei pochi che non la conoscessero, è una ex ricca città di provincia (30 km da Pavia e 45 da Milano) che ha perso la propria ricchezza, fondata sulla lavorazione della scarpa e sui macchinari per la calzatura. Bel tempo che fu. Oggi di quello smalto splendente non restano che croste opache. A produrre sono rimasti in pochi nella città ducale che, come molte città del nord, si dibatte tra chiacchiere da bar e chiacchiere politiche su come uscire dalla crisi. Ci sono più possibilità che una ricetta esca dagli avventori, magari avvinazzati, di un bar che dalle aule di un consiglio comunale, provinciale o regionale.

Ciò detto, colpisce che l’ordinanza dedichi amplissime parti al ruolo che questa cittadina – rectius: alcuni indagati da tempo residenti o addirittura nativi – ha avuto nella “confidenza” con la cosca Acri-Morfò di Rossano.

A Vigevano, infatti, trascorre un periodo di serena latitanza Salvatore Galluzzi, detto u rizzo, considerato tra gli organizzatori della cosca, sfuggito ad un ordine di esecuzione emesso dalla Procura di Catanzaro in esecuzione di una condanna divenuta definitiva il 27 maggio 2010. Il ruolo di Galluzzi quale gerente del narcotraffico per conto della ‘ndrina di Rossano si evince, si legge testualmente in una nota a pagina 27 dell’ordinanza, dagli atti del processo Ombra in esito al quale è stato condannato a 14 anni. La sentenza è stata confermata anche dalla Suprema Corte di Cassazione.

Ebbene, il “nobiluomo”, secondo l’accusa della Procura vistata dal Gip, a Vigevano, non solo era assistito da una fitta schiera di persone che gli assicuravano una tranquilla latitanza ma continuava a commettere reati, specialmente per quanto attiene al traffico di armi e di stupefacenti. A pagina 172 si legge: «Il dato già risulta dalle intercettazioni trattate nel capitolo concernente la latitanza di Acri e viene confermato dalle dichiarazioni di Oliverio Francesco (collaboratore di giustizia dal 3 febbraio 2012, capo del “locale di Belvedere Spinello”, con alle dipendenze ‘ndrine distaccate su sei comuni della Valle del Neto, tra la Provincia di Crotone e quella di Cosenza, nonché propaggini criminalmente operative al Nord Italia. ndr) che, in data 01/12/2012 ha riferito di avere consegnato armi corte a …omissis Francesco e …omissis…Antonio e stupefacente, fra gli altri a tale Roberto. I primi gli venivano presentati come uomini di Nicola Acri il secondo come persona vicina a Galluzzi Salvatore. Oliverio riconosceva la foto di Roberto Feratti come colui al quale aveva consegnato stupefacente per conto di Galluzzi».

Il boss Nicola Acri venne catturato a Bologna il 20 novembre 2010: dopo due mesi, il 26 febbraio 2011 veniva preso a Vigevano Salvatore Galluzzi. La cosca, pertanto, aveva bisogno di una sorta di riassetto.

Anche Sergio Esposito, condannato nel processo Ombra, si rese latitante per circa cinque mesi (dal 27 maggio al 21 ottobre 2010). Parte di questa latitanza la trascorse insieme a Galluzzi a Vigevano, così come emerge dal controllo della Polizia di Stato di Vigevano dell’8 ottobre 2010.

Sergio Esposito, detto pica pica, - già detenuto al momento in cui è stato indagato in questa nuova indagine Stop - secondo l’accusa, è tra i personaggi di maggior spessore criminale della ‘ndrina rossanese, anche secondo i collaboratori di giustizia.

MANI PROTESE

A dare, secondo l’accusa, una mano a Galluzzi, che a Vigevano viveva in un appartamento, sono stati diversi personaggi che nella città ducale e nei paesi vicini, come Gambolò, avevano da tempo messo radici.

Uno di questi è Roberto Feratti, con suo fratello gemello vecchie conoscenze della Giustizia. A Vigevano avevano dato vita a “Gemel Edil” che, anche dopo la "morte" e la rinascita di ”Vigevano Ponteggi srl” di Luca Feratti, figlio di Roberto, ha quasi il monopolio di settore nell’area.

Roberto Feratti, nato a Vittoria (Ragusa) il 16 ottobre 1957, si legge a pagina 814 dell’ordinanza, ha precedenti penali per rissa, detenzione illegale di stupefacenti e un precedente specifico per reato di favoreggiamento. Risulta, altresì, essere stato sottoposto a misure di sicurezza.

Roberto Feratti, sempre secondo l’accusa, è colui che offriva appoggio logistico a Salvatore Galluzzi e alla moglie, accompagnandoli con la propria auto negli spostamenti a Vigevano. Si trovava con Galluzzi al momento del suo arresto.

Sebbene le dichiarazioni del collaboratore Francesco Oliverio sul fatto di avere consegnato della droga a Galluzzi durante la sua latitanza mentre era accompagnato da Feratti (che ha riconosciuto fotograficamente) siano rimaste prive di riscontro oggettivo, in ogni caso, si legge nell’ordinanza, l’accertata circostanza che l’indagato accompagnasse Galluzzi, per la Procura denota un particolare rapporto di fiducia da parte di questi.

AVANTI GLI ALTRI

Secondo la Dda di Catanzaro c’è un altro personaggio che fa parte della rete di protezione e garanzia. Si tratta di Vincenzo Interlandi, finito ai domiciliari, anch egli nato a Vittoria (Ragusa) il 12 ottobre 1959, colui che firmerà materialmente il contratto di locazione.

Secondo l’accusa prenderà in locazione l’appartamento di Vigevano in cui si nascondeva Galluzzi, incurante della riconducibilità a lui dello stesso e racconta il falso sul “casuale” incontro con “Salvatore”, fatti che denotano la sussistenza di rapporti con gli ambienti delinquenziali della consorteria calabrese

C’è, infine, un’altra figura che secondo la Dda di Catanzaro avrebbe svolto un ruolo da “cerniera” in questa trama: Espedito Donato (ai domiciliari) che trasportava oggetti di ogni tipo da Rossano a Vigevano rendendosi latore di messaggi che lo stesso Galluzzi riceveva o inviava dagli/agli appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta Acri-Morfò. Per il figlio Carmine Enzo il Gip ha invece respinto l’ipotesi di reato contestato.

Anche Espedito Donato non è un pesce fuor d’acqua a Vigevano. Anzi. E’ titolare di un’agenzia di pompe funebri. Come risulta dalle conversazioni intercettate effettuava alcuni viaggi dalla Calabria trasportando valigie e pacchi per Galluzzi, tant’è che questi in carcere, dopo l’arresto, attribuiva la sua cattura ad alcuni atteggiamenti superficiali tenuti da coloro che coadiuvavano ed in particolare al fatto che Donato si era recato più volte direttamente a casa dei suoi in Calabria per prendere i pacchi.

Per ora ci fermiamo qui ma la prossima settimana torno con altri aspetti. Anche internazionali.

1 –to be continued

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Titolo: Roberto GALULLO. Nell’indagine Belsito-Lega Nord
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:38:05 pm
25 giugno 2013 - 11:01

La violazione della legge Anselmi irrompe nell’indagine Belsito-Lega Nord - Il lavoro di Cafiero De Raho, Lombardo, Curcio e Ardizzone


Questa mattina di buon ora ho scritto un articolo sul portale del Sole-24 Ore sul nuovo filone dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, che poche ore fa ha portato a decine di perquisizioni e relativo sequestro di ogni elemento ritenuto utile da Reggio a Milano passando per Genova.

Rimando sul portale del Sole-24 Ore alla lettura del pezzo e mi concentro qui sulla parte più interessante (per un vecchio cultore della materia come chi umilmente vi scrive) ma soprattutto nuova per i profani, del decreto che ipotizza l’associazione a delinquere per otto indagati.

All’interno della presunta associazione – ed è la parte appunto di enorme interesse – secondo il pm Giuseppe Lombardo e l’applicato della Dna Francesco Curcio, opera una componente di natura segreta. E le parole del Capo della Procura Federico Cafiero De Raho avallano l’ipotesi. Eccola lì dunque, la presunta (questo bisogna sempre ricordarlo) violazione della legge Anselmi, nata appunto a seguito dello scandalo P2 che vide in azione la superloggia guidata da Licio Gelli.

Questa presunta violazione della legge estrinseca con tutta la sua forza nel passaggio del decreto in cui si legge che «le risultanze dell’attività di indagine preliminare finora svolta dimostrano l’esistenza di una struttura criminale (connotata da segretezza) a carattere permanente nella quale – fra gli altri – operano con ruoli organizzativi Bruno Mafrici, Pasquale Guaglianone, Giorgio Laurendi”, tutti professionisti di origine calabrese che a Milano vivono e prosperano, inseriti in “multiformi contesti politici”. Non solo loro fanno parte di questa associazione. Ci rientrano anche gli imprenditori Michelangelo Tibaldi e Giuseppe Sergi». Paradossalmente – rispetto al can can mediatico indotto dalle prime attività investigative e di indagine – persone come Romolo Girardelli, detto l’ammiraglio, per la Procura di Reggio Calabria e la Dna svolgono suolo un ruolo di ausilio informativo e di supporto.

Ovvio che questa presunta associazione – al cui interno c’è appunto secondo gli inquirenti questa cellula segreta – opera per arricchirsi e fin qui nulla di male ma si arricchisce anche con operazioni di riciclaggio o reimpiego di ingenti capitali di provenienza delittuosa. E soprattutto opera con una ragnatela di rapporti in campo finanziario, politico ed imprenditoriale, di cui finora è emersa la sola punta di un iceberg.

L’associazione segreta ritorna impetuosamente nelle ipotesi della Procura di Reggio Calabria, laddove si legge che «la gestione delle operazioni politiche ed economiche ha consentito alle persone sottoposte ad indagini di divenire il terminale di un complesso sistema criminale, in parte di natura occulta, destinato inoltre ad acquisire e gestire informazioni riservate, che venivano fornite da numerosi soggetti in corso di individuazione, collegati anche ad apparati istituzionali e canalizzate a favore degli altri componenti della ramificata organizzazione; a consentire il proficuo utilizzo delle notizie riservate al fine di dare concreta attuazione al già esposto ed articolato programma criminoso della associazione per delinquere oggetto di contestazione, i cui componenti risultano portatori di interessi specifici tra loro concatenati; gestire una struttura imprenditoriale, prevalentemente impegnata in operazioni ad alta redditività nel campo immobiliare e finanziario, destinata al riciclaggio e reimpiego di risorse economiche di provenienza delittuosa riconducibili ad ambienti criminali legati alla cosca De Stefano».

Per chi – come l’umile scriba che verga sul pc queste umilissime e umide note – da anni scrive che l’evoluzione delle mafie è un mix cancerogeno di personaggi visibili e personaggi invisibili, queste ipotesi messe nero su bianco dalla Procura di Reggio Calabria e avallate dal delegato della Dna, non sorprendono per nulla. Casomai sorprenderanno alcuni magistrati che – soprattutto nel nord Italia – parlano di “fascinazioni” e "suggestioni". Bene: le suggestioni e le fascinazioni ora colpiscono anche alcuni magistrati di Reggio e Roma, oltre la Dia di mezza Italia!

Per chi – come la Procura di Reggio con Giuseppe Lombardo e la Dna con Francesco Curcio – queste ipotesi ha vergato su un decreto di perquisizione locale, personale ed informatica, è un atto di estrema forza e coraggio al tempo stesso, che dovrà reggere a correnti visibili e invisibili e che è comunque stata resa possibile grazie da un lavoro di squadra che ha visto un timoniere (il capo della Procura) Federico Cafiero De Raho pronto a garantire il lavoro dei suoi uomini. Ma ha visto anche un “plotone” di uomini della Dia, capitanato dal colonnello Gianfranco Ardizzone, che ha creduto in quel lavoro e per esso si è speso.

r.galullo@ilsole24ore.com

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Titolo: Roberto GALULLO. L’Europol – quando si tratta di analizzare le mafie italiane...
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:39:13 pm
26 giugno 2013 - 7:36

Il decalogo Europol per contrastare la ‘ndrangheta nella Ue – La necessità di maggiori risorse comunitarie

L’Europol – quando si tratta di analizzare le mafie italiane – è sempre pronta ad aggiornarsi. Nell’ultima analisi sul crimine organizzato di casa nostra, datata 24 giugno, supera infatti le precedenti valutazioni (del 2011) secondo le quali le mafie italiane sarebbero state attive solo in una manciata di Stati europei. Le informazioni – per stessa ammissione dell’Agenzia anticrimine della Ue – fino a pochissimi anni fa erano limitate e a volte di natura aneddotica. Insomma: una contraddizione in termini visto che la sola ‘ndrangheta è universalmente riconosciuta da tempo come una delle principali organizzazioni criminali al mondo.

Una contraddizione dalla quale Europol fa ora un passo indietro riconoscendo che le mafie italiane sono state sottovalutate per il loro modo silenzioso di agire ma che proprio per questo status rappresentano una minaccia insidiosa per l’Unione europea. I fenomeni delittuosi – in altre parole – possono anche essere meno visibili di quelli riferibili ad altri importanti gruppi di criminalità organizzata ma la loro rete di contatti e di attività in tutta Europa è indubbia.
I comportamenti criminali normalmente associati alle mafie italiane - racket, estorsioni, usura, raccolta di denaro, protezione, tutti perpetrati in un'atmosfera soffocante e totale controllo del territorio – scompaiono fuori dai confini nazionali. La strategia globale delle mafie italiane che operano all’estero è quella di mantenere un basso profilo e il tipo di controllo richiesto dalle mafie quando operano all'estero è puramente economico: non solo fare soldi ma estendersi alla produzione e al consumo di beni e servizi. Insomma: la spina dorsale di qualsiasi Paese.
Per infiltrarsi nell’economia le mafie italiane offrono semplicemente i propri prodotti e servizi a prezzi più bassi, in alcuni casi mantenendo la qualità molto elevata: in questo modo sbaragliano la concorrenza. In alcuni casi i prestiti ai concorrenti in difficoltà sono offerti a tassi alti di interesse, con l'obiettivo finale di entrare in possesso del business, che spesso alle spalle ha una solida storia e una buona reputazione. In altri casi viene proposta una fusione, di nuovo con l'obiettivo di isolare e di fatto escludere da qualsiasi funzione decisionale il partner in difficoltà, al stesso tempo sfruttando il suo buon nome e la “faccia” pulita.

La strategia di lavorare in perdita – si legge nel rapporto Europol - è utilizzato anche nel costante tentativo delle mafie di garantirsi appalti pubblici e, come ogni altra mafia, anche quelle italiane fanno ampio ricorso al loro potere corruttivo per aggiudicarsi le gare.

‘NDRANGHETA IN TESTA

Per quanto riguarda l’impegno criminale all’estero delle singole associazioni, Cosa Nostra siciliana è focalizzata principalmente sul traffico di droga e sul riciclaggio attraverso un uso prudente di teste di paglia selezionate e professionisti qualificatissimi. Cosa che ostacola notevolmente il sequestro e la confisca dei beni negli Stati membri.

La stidda siciliana e clan affiliati, a differenza di Cosa Nostra, non ha una struttura centralizzata e quando colpisce in Europa, lo fa perlopiù per rapine a mano armata e altri reati contro il patrimonio. Incursioni mordi-e-fuggi per poi fare ritorno in Sicilia. La ndrangheta calabrese è tra i più potenti gruppi della criminalità organizzata a ivello globale. La sua strategia di colonizzazione si sta diffondendo in tutto il mondo. La ‘ndrangheta detiene una posizione dominante nel mercato della cocaina in Europa, ed è coinvolta in molti altri settori criminali, tra cui traffico di armi, frodi, distorsione delle offerte pubbliche, corruzione, intimidazione, estorsione e reati ambientali. La 'ndrangheta – si legge nel rapporto – impiega sofisticate pratiche di riciclaggio di denaro per nascondere i suoi immensi profitti. L'intelligente utilizzo di strutture commerciali legali, create dalle cosche, permette loro di nascondere la natura criminale dei profitti e, insieme allo strumento corruttivo, di infiltrarsi negli ambienti economici e politici in cui operano. In Europa i clan sono attivi principalmente in Spagna, Francia, Paesi Bassi, Germania e Svizzera, con qualche espansione nell’Europa orientale.

La camorra non ha una struttura unificata e la costante belligeranza dei suoi clan rende impegni e alleanze effimere. I clan della camorra, quando operano al di fuori del loro territorio, sono principalmente coinvolti nel traffico di droga, contrabbando di sigarette, rifiuti illeciti, contraffazione di valuta, dumping e vendita di prodotti contraffatti, sia acquistati da gruppi alleati cinesi o prodotti in fabbriche clandestine nel Napoletano. Le attività di riciclaggio includono imprese di costruzione e immobiliari. Molto più appariscente e sgargiante delle mafie siciliana e calabrese, scrivono testualmente gli esperti dell’Europol, la camorra tende ad avere un alto profilo e vivere pericolosamente. La Spagna è il Paese europeo preferito ma presenze non mancano in Francia, Paesi Bassi, Germania e Svizzera.

La criminalità organizzata pugliese è spesso identificata con la Sacra Corona Unita ma la situazione è molto più complessa e frammentata, grazie ad un’originaria miscela esplosiva di camorra e 'ndrangheta.

Storicamente legati al contrabbando di sigarette, i clan pugliesi sono ora attivi anche nella tratta di esseri umani, droga, armi, rifiuti e frodi alle sovvenzioni comunitarie.
Fuori dai confini italiani operano nei Paesi Bassi, Germania, Svizzera e Albania.

LE RACCOMANDAZIONI

Famiglie e clan che presentano il più alto rischio a livello europeo devono essere identificate, affrontate e smantellate con operazioni transnazionali di polizia necessarie per affrontare efficacemente il fenomeno della criminalità organizzata.

Facile a dirsi, difficile a farsi, fatto sta che è la prima raccomandazione che si trova nel rapporto Europol. Seguono una serie di altre raccomandazioni, tutte importanti:

1) essere un membro di una organizzazione di tipo mafioso deve essere considerato come un crimine di per sé:

2) la legislazione antimafia deve essere armonizzata a livello Ue e le richieste di estradizione per i mafiosi latitanti devono avere la priorità presso le autorità competenti;

3) gli Stati membri per l’attuazione dei rispettivi cicli di intelligence nazionale devono considerare il lavoro delle altre intelligence per evitare lacune informative;

4) dovrebbe essere considerata la creazione di uno specifico finanziamento Ue di sostegno alla cooperazione giudiziaria internazionale;

5) sarebbero necessarie nuove e più efficaci disposizioni sulla confisca e l’esperienza dimostra – si legge nel Rapporto - che il valore dei beni confiscati potrebbe ampiamente superare l'eventuale finanziamento comunitario;

6) tutte le indagini penali su famiglie e clan devono essere parallelamente accompagnate da indagini finanziarie su prestanomi e professionisti;

7) è relativamente semplice organizzare l'estradizione di un sospettato, ma è piuttosto complesso fermare i beni di origine criminale che si trovano all'estero. Questo paradosso deve essere rimosso e a questo proposito Europol auspica che le informazioni riguardanti le persone giuridiche e i dispositivi giuridici siano direttamente accessibili all'interno della Ue da parte delle autorità di contrasto degli Stati membri, al fine di facilitare le attività di tracciamento degli asset;

Otto) le mafie riciclano enormi quantità di denaro ma mentre la legislazione europea contro il riciclaggio di denaro ha raggiunto un livello costante di armonizzazione, ci sono ancora ostacoli allo sfruttamento efficace della informazione finanziaria contenuta all'interno delle transazioni sospette;

9) la cooperazione internazionale è necessaria per combattere e smantellare clan e famiglie, ma una funzione più forte di polizia centrale è necessaria: deve essere possibile richiedere agli Stati di impegnare risorse per affrontare gli obiettivi che presentano il più alto rischio a livello comunitario, anche se a livello nazionale può sembrare un problema minore.

In altre parole le priorità della Ue devono diventare le priorità nazionali.

r.galullo@ilsole2r4ore.com


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Titolo: Roberto GALULLO. ... dalla cintura “invisibile” della cosca De Stefano.
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:40:15 pm
27 giugno 2013 - 13:21

La Procura di Reggio Calabria stretta dalla cintura “invisibile” della cosca De Stefano.

E per questo mortale

Ora che la Procura di Reggio Calabria – grazie a quella firma, da alcuni attesa per oltre un anno, e apposta con pieno senso di responsabilità dal capo della Procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho al lavoro svolto dal sostituto Giuseppe Lombardo in piena sintonia con il delegato della Dna Francesco Curcio – ha fatto un passo avanti nella lotta ai sistemi criminali, nulla sarà più come prima.

Quella firma – che legittima l’individuazione, per la Procura reggina, di una struttura criminale segreta, sia ben chiaro tutta da provare, in grado di inquinare politica, economia, finanza e società, al vertice della quale, per il momento, sono stati individuati, a mio modesto avviso, personaggi di modesta o modestissima caratura, il che la dice lunga sulle sorprese che riserveranno gli sviluppi investigativi – suona infatti come il campanello dell’ultimo giro in una corsa di ciclismo su pista a due, in cui non c‘è bisogno di raggiungere il concorrente per vincere ma è sufficiente tagliare il traguardo un nanosecondo prima.

Una campanella dell’ultimo giro di pista per quella zona “invisibile”, “riservata” e “segreta” che – da almeno 40 anni – in Calabria e poi su per li rami italici, si è evoluta come un Pokemon di concerto con la ‘ndrangheta e ha ingaggiato una gara – finora senza storia, a suo vantaggio – con la Giustizia, che cerca (ma a volte non ci ha nemmeno provato) di raggiungerla.

Mai prima d’ora, infatti, si era assistito ad una contestazione da parte di una Procura della violazione della cosiddetta legge Anselmi sulle strutture segrete (legge nata nel 1982 dopo le nefandezze della Loggia P2), applicata ad una presunta associazione a delinquere «collegata e servente rispetto alla cosca De Stefano di Archi di Reggio Calabria». Questo è – né più né meno – quanto si legge in quel provvedimento firmato - nei confronti di otto indagati – da parte di Cafiero De Raho e fortemente voluto da Lombardo e Curcio (rimando ai miei servizi sul portale del Sole-24 Ore, su questo blog e sul quotidiano).

Parlo di campanella dell’ultimo giro (e nulla più) per il semplice fatto che la Giustizia calabrese - con un ritardo che ha dato sulla pista un enorme e, spero, non incolmabile vantaggio al vertice “invisibile” della struttura criminale in corso di individuazione (così si esprime, ancora una volta testualmente, la Dda di Reggio) – ha appena iniziato ufficialmente (mancava infatti lo start del Procuratore capo) la sua gara.

Delle due l’una: quella gara la Procura di Reggio Calabria la vincerà e allora sarà pronta a riscrivere la storia della ‘ndrangheta ben oltre “l’erogatore umano di santini e piantine” oppure la perderà e allora – credo definitivamente – potrà mettere una pietra tombale sulla possibilità di dare costante e duratura forma processuale (ergo: anche contrasto sociale) alla “ndrangheta 2.0”, quel sistema criminale fatto anche di cosche ma – soprattutto – un impasto devastante di massoneria deviata, Stato deviatissimo e politica e professionisti cresciuti all’ombra di quel sistema servente.

Sono anni che scrivo queste cose e – ancora – c’è qualcuno, non solo tra i presunti colleghi ma soprattutto tra i magistrati e gli organi investigativi, che si meraviglia (e dire che dovrebbero studiare e applicarsi) del fatto che abbia previsto (unico tra i presunti colleghi della presunta grande stampa) lo sbocco “naturale” di quanto sta accadendo in questi giorni. Vale a dire - prima o poi - la contestazione di un’associazione criminale sì, ma con un nocciolo segreto (ripeto: tutto ancora da individuare). Basta rileggere quanto ho scritto in questi anni per avere – ictu oculi e senza sorta di smentita – la conferma. Anni fa non esisteva neppure in nuce l'operazione Breakfast.

Per questa intima convinzione sull'evoluzione della 'ndrangheta e delle mafie in generale – l’ho detto e scritto mille volte – sono stato, anche pubblicamente, attaccato e deriso. Ma me ne frego e me ne sono sempre fregato. Ho le spalle larghe e – soprattutto - “non sono collegato e servente” rispetto a nessuno. Nessuno. Gli eventuali sbocchi giudiziari e le eventuali sconfitte processuali non cambieranno di un millimetro le mie convinzioni sull'evoluzione delle mafie: io faccio il giornalista, non il giudice. Le sentenze non spettano alla stampa.

Il momento – dunque – sarebbe quello giusto per esultare di fronte a questo (primo, primissimo) risultato raggiunto dalla Dda reggina e dalla Dna ma, al contrario, credo che ora cominci la parte più difficile (le accuse vanno infatti provate) e pericolosa, pericolosissima, per Cafiero De Raho, Lombardo e Curcio.

Un compito che – inutile girarci intorno – rischia di diventare, per loro, mortale . Anche fisicamente, sia chiaro, perché quel sistema criminale, ora che ha visto (dopo aver fiutato) la svolta della Procura, si sente braccato e può reagire in ogni modo. E al diavolo le balle che la ‘ndrangheta non uccide i magistrati. Pensate che arrivati a questo punto di svolta il sistema criminale, l’associazione segreta della quale finora i vertici (ancora ignoti) sono rimasti al sicuro e protetti, garantiti magari da patti inconfessabili con parti deviate dello Stato e apparenti Servitori dello Stato, si farebbe scrupoli a uccidere? Illusi. Dapprima cercheranno di uccidere (e ci stanno già provando da tempo) con la delegittimazione ma…la guerra è guerra e in guerra non si fanno prigionieri.

Uno sconfitto – ripeto – in questa gara su pista dovrà esserci: o il sistema criminale, quello che possiamo anche chiamare “ndrangheta 2.0”, comunque ben oltre le cosche, oppure la Giustizia che avrà provato ad andare oltre Polsi.

Questo – si badi bene – Cafiero De Raho lo sa benissimo ed è impensabile, folle e destabilizzante pensare che «le risultanze dell’attività di indagine preliminare» (cito ancora testualmente il provvedimento della Procura) raccolte dal pm Lombardo, vengano da taluno deprezzate e disprezzate come le “fascinazioni” e le “suggestioni” di un pm ragazzino (declinando verbalmente su Lombardo e sullo stesso Curcio le ruvide carezze dialettiche che un presidente della Repubblica italiana riservò a Rosario Livatino, giudice trucidato da Cosa nostra).

E’ il momento questo – anzi: l’attimo, solo, fuggente e forse irripetibile – per guardare oltre le apparenze e, ovviamente, le concretezze dei riti e dei santini e stringerci, tutti, intorno alla Procura di Reggio chiedendoci, semmai, perché questa svolta arrivi solo ora e quale prezzo i calabresi e gli italiani tutti dovranno pagare se dovesse fallire il percorso intrapreso ufficialmente da pochi giorni.

Per questo – da parte mia – proseguirò con l’impegno giornalistico finora svolto, lasciandovi come aperitivo – per quel che leggerete qui domani – quanto dichiarato dal pentito Consolato Villani il 9 novembre 2012 al pm Lombardo che lo stava interrogando in Cristo solo sa in quale udienza di quale tra i tanti processi che sta conducendo.

Lombardo gli chiede, a proposito della scala gerarchica “nella” e (senza che il pentito, a mio modesto avviso, ne abbia consapevolezza), “oltre” la ndrangheta:

Pm: qual è questa trafila, Villani?

Villani:  La trafila è che si parte da “picciotto”, si va a “camorrista”, si va a “sgarrista”, si va alla “santa”, al “vangelo”, al “quartino”, al “tre quartino”, al “quintino”, e poi c'è la “massoneria”, e poi ci sono altre cose che derivano diciamo da personaggi contorti che diventano massoni o altro.

E quell’ «altro» noi lo (ri)scopriremo domani. La cintura “invisibile” – che tutto, finora, ha potuto -  secondo il pm Lombardo – e ora anche per la Procura tutta, a partire dalla persona del suo capo - ruota sempre intorno alla cosca De Stefano.

1 – to be continued

r.galullo@ilsole24ore.com

DA - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/06/la-procura-di-reggio-calabria-stretta-dalla-cintura-invisibile-della-cosca-de-stefano-e-per-questo-mortale.html


Titolo: Roberto GALULLO. I “riservati” della cosca De Stefano sempre a ...
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:41:54 pm
28 giugno 2013 - 9:25

I “riservati” della cosca De Stefano sempre a disposizione da Reggio a Roma: ecco come nascono le associazioni criminali e segrete

Roberto GALULLO

Cari amici di blog da ieri sto continuando un racconto che ho iniziato molti anni fa. Il racconto (per molti analisti, inquirenti e investigatori, ahinoi, è ancora una favola) dell’evoluzione della ‘ndrangheta in un sistema criminale – il “più” raffinato sistema criminale – che va oltre, molto oltre le cosche.

Un racconto che da alcuni giorni si è arricchito di un capitolo – tutto ancora da scrivere – in cui la fa da padrone una presunta associazione criminale dal “cuore” segreto.

Un cuore talmente segreto che – a mio modestissimo avviso - va oltre ma molto oltre i soggetti indagati dalla Procura di Reggio Calabria che, oltre alla firma del pm Giuseppe Lombardo, ha visto il gesto corale anche nel provvedimento di sequestro nei confronti di alcuni di essi, del capo della Procura Federico Cafiero De Raho e dell’applicato della Dna Francesco Curcio (rimando al mio post di ieri oltre che ai servizi scritti sul portale del Sole-24 Ore e sul quotidiano).

Ieri ho cominciato a introdurre – a dire il vero per l’ennesima volta in questi anni – il discorso relativo a quella “cintura” di “invisibili” che ruota secondo il pm Lombardo e ora, finalmente, anche secondo la Procura, intorno alla cosca De Stefano.

Una cintura di “invisibili” – da Lombardo in vero già scandagliata nei procedimenti Bellu Lavuru oltre che in Meta – che riserva nuovi riscontri ad ogni piè sospinto.

A questo punto dunque – al colto e all’inclita – giova ricordare quanto descrisse pochissimo tempo fa la “serpe in seno” della cosca De Stefano (secondo la loro visione), Nino Fiume.

Quel Nino Fiume il cui solo nome manda in bestia quel Peppe De Stefano al quale – suppongo – viene l’orticaria al solo sentirsi paragonato nelle aule di un Tribunale a un Don Mico Oppedisano qualunque.  E Fiume – guagliò – la cosca De Stefano la conosce dall’interno e uno sbaglio del genere non lo commetterà mai.

IL 14 FEBBRAIO 2013

Il “ballerino”, nell’aula bunker di Reggio Calabria, il 14 febbraio 2013, lo dimostrerà ancora una volta, di fronte al pm Giuseppe Lombardo che lo incalza e testimonierà, ancora una volta, che la cosca De Stefano è oltre ma molto oltre riti e santini. E che gli “invisibili” – di cui l’evoluzione della ‘ndrangheta 2.0 non può fare a meno da decenni – sono una realtà.

Le schermaglie tra Fiume e Lombardo, quel giorno di pochissimi mesi fa, sono da incorniciare. E partono da quel Giovanni Zumbo, soggetto borderline tra “noto” e “ignoto”, tra “servizi” e “disservizi”, tra “bene” e “male”, tra “Stato” e “antiStato”. La premessa è da urlo.

Lombardo: Lei può parlare liberamente della “Reggio bene”, per come la intende Lei. Adesso, Lei cerchi di inquadrarmi quello che sa su Zumbo Giovanni, senza alcun limite, Fiume.

Fiume. Va bene. Allora, Zumbo Giovanni già conosceva i fratelli De Stefano Giuseppe e Carmine e si frequentava con noi e in modo particolare con Carmine da quando era ragazzino.

Minchia Signor Tenente! Ma è niente rispetto a quello che dirà Fiume poco dopo, incalzato da Lombardo.

Lombardo. Bene. Lei prima cercava di spiegare che ci sono delle figure che stanno a metà.

Fiume. Quelle persone che son rimaste – come dire? – un po’ nell’ombra, ma che hanno mantenuto così... quelli che Giuseppe De Stefano, per certi aspetti, li chiamava ... le “persone riservate” – no? – quelle a lui vicine, che non doveva sapere nessuno, che potevano servire per determinate cose.

LE PERSONE “RISERVATE”

Eccoli li. Gli “invisibili”, sinonimo di “riservati”. E a chiamarli così era Peppe De Stefano, non un don Mico Oppedisano qualunque.

Ma andiamo avanti con la lettura di parti integrali di quell’udienza che – letta alla luce di quanto è accaduto tre giorni fa – è ancora più importante, senza dimenticare che, verosimilmente, a questo punto cambieranno anche alcuni capi di imputazione nel processo Meta e non solo.

Lombardo: Che cosa vuol dire che Giuseppe De Stefano aveva delle “persone riservate”?

Fiume: Ad esempio, un ragazzo che era uno che era sempre stato a disposizione e che aveva studiato con lui a Roma e che poi, credo, diverrà Avvocato e che lui lo riteneva sempre una persona valida da rispettare, che lui lo chiamava solo o per incontrarsi con qualcuno o per parlare di cose private era …omissis…(ometto il nome perché non so quali siano gli eventuali sviluppi e così mi comporterò con i successivi omissis ndr) quelli che – diciamo – per le persone non era un affiliato, ma per noi era come se fosse affiliato, perché era una di quelle persone a disposizione, sotto questo aspetto.

Avete letto guagliò: che fosse affiliato o meno ma chissene fotte! Altro che santini e piantine, altro che Polsi: l’importante è avere uomini sempre a disposizione. Ma andiamo avanti.

LA SECONDA CHE HAI DETTO!

Il pm Lombardo, che come diciamo noi romani è “un po’ de coccio”, vuole capire bene chi sono ‘sti “riservati”. Sono amici personali o un esercito ombra? Leggete qui.

Lombardo: Ma, Non ho capito, quando si fa riferimento a “persone riservate”, si fa riferimento ad amicizie personali, del tutto lecite, o a soggetti che invece erano “riservati”, perché operavano nell’ombra, a favore della cosca di ‘ndrangheta?

Fiume: Ha detto bene Lei: lavoravano nell’ombra e per... più che per... per – come dire? – costituirsi l’alibi, se Giuseppe De Stefano, ad esempio, si doveva incontrare con una persona molto conosciuta, invece di anche – che so? – con me o con uno che magari le Forze dell'Ordine già avevano puntato l’attenzione, preferiva accompagnarsi con …omissis…o con qualche altra persona.

Lombardo: Sì, ma...

Fiume: È questo che voglio dire.

Lombardo: ...a quali fini? Queste “persone riservate”, che tipo di compito dovevano avere, che compito hanno avuto?

Fiume: Lui ce l’aveva già su Roma, quando loro...Carmine si era già laureato e Giuseppe stava per laurearsi e loro andavano solo per dare le materie e non avevano mai studiato, perché erano quei contatti con quel famoso dottore di Roma del famoso studio, che... che poteva telefonare a casa di De Stefano liberamente ed erano questi contatti qua, dei cosiddetti – tra virgolette – “nobili”, ecco.

Lombardo: Chi c’era nella categoria dei “riservati”, che Lei conosce, oltre ai nomi che ha già fatto?

Fiume: Eh, Fabio, poi c’era questo …omissis… che c’era una amicizia che gli aveva già... Paolo De Stefano, che aveva una società con lo studio …omissis…di Cosenza, il commercialista, lo chiamavano “il compare”, che aveva appoggi anche su Catanzaro – no? – all’epoca, quando Paolo De Stefano aveva l’import-export, che faceva operazioni col commendator…omissis…., un industriale tessile, erano amicizie, vecchie amicizie che poi sono continuate con i figli, anche tra i giovani.

Lombardo: Poi...?

Fiume: …omissis…era pure uno di questi, però lui per cose di poco conto, magari per accompagnare qualcuno, però è rimasto sempre... E altri ragazzi che stavano a disposizione erano, ad esempio: …omissis…che si era cresciuto con noi e che era uno che si doveva appoggiare a un latitante o altro, era un ragazzo che proveniva da una famiglia di lavoratori –come – vi ho già detto – dov’ero io ed erano a disposizione... adesso...erano tanti a Reggio...

Lombardo: E chi Le parlò della presenza di soggetti “riservati”? Come lo ha appreso Lei?

Fiume: Era Giuseppe che diceva, sempre utilizzava...“Questo ‘ndi l’amu a tiniri ‘mmucciatu”: cioè, “Questo dobbiamo cercare sempre di tenerlo più... più... meno in vista possibile”, perché la forza di alcune persone della ‘ndrangheta sta proprio in questo: che c’erano quelli riconosciuti... che io dico sempre la parola ingenuo...che era conosciuto, “uomo d’onore”, “killer”, quello che vogliamo. E poi c’era – diciamo – quest’altra categoria di persone, che, anche se non sparavano, erano dentro lo stesso, perché aiutavano i De Stefano in tutti quelli che erano discorsi economici ed erano tanti altri.

Lombardo: Eh, e quindi quando io Le ho chiesto se queste persone riservate – poi lasciamo perdere, diciamo, le indicazioni soggettive: sono tutti approfondimenti che andranno fatti  ma queste “persone riservate”, quindi facevano parte della cosca De Stefano?

Fiume: Erano più che amici e Giuseppe De Stefano, addirittura alcuni (inc. pronuncia affrettata) il fatto di …omissis…lo diceva sempre lui: “Attenzione che lui per me è come un fratello!” come praticamente alcuni capi della ‘ndrangheta sapevano che io ero come un fratello per Peppe De Stefano.

MA COME FACEVANO…

Lombardo, che è proprio “de coccio” vuole capire come facevano ad essere “riservate” queste persone, se si accompagnavano ai De Stefano. Leggete la spiegazione.

Lombardo: ma, scusi... mi scusi, Fiume, l’obiezione che Le vado a fare: se Giuseppe De Stefano si faceva vedere in giro con queste persone, come potevano essere queste persone riservate, come dice Lei?

Fiume: Perché le persone vedevano un rag... una persona che si accompagna a una persona per bene e lui poteva gestire, fare determinate cose, pur rimanendo, pur avendo avuto quella carica del “crimine” e mantenendosi con le vecchie cariche e con le persone di ‘ndrangheta che contano e nello stesso tempo poter interagire con altre persone, avvalendosi di persone al di fuori di ogni sospetto. Non so se mi sono spiegato – no?

Lombardo: Sì, in maniera un po’ contorta, cioè, quindi era Giuseppe De Stefano che si avvaleva di queste persone per mostrarsi all’esterno in un certo modo?

Fiume: Esatto. Per non apparire più di tanto.

Lombardo: Mi faccia capire: ma queste persone “riservate” erano tutte persone di Reggio Calabria?

Fiume. No, ce ne erano anche da fuori.

Lombardo: E Lei le ha conosciute personalmente, o ne ha sentito solo parlare?

Fiume: Qualcuno l’avevo conosciuto, altri col tempo poi non li ho più visti. Ci sono delle cose della famiglia De Stefano che veramente hanno – ripeto – uno vale e può dire la sua quando può parlare che viene interpellato, se una persona si... entra dentro a determinati argomenti più di tanto già è visto male.

Tanto per dirle: quando Giuseppe De Stefano uscì dal carcere e davanti al carcere, a Reggio, c’era una persona anziana con un ragazzo che non solo salutò a Giuseppe De Stefano, ma gli disse: “Ora sei uscito tu e adesso vedremo come fare per fare uscire Carmine”, quando io chiesi – tra virgolette – a Giuseppe chi era, lui mi disse: “Questo è uno che comanda nel Tribunale a Reggio e dobbiamo fare come ci dice lui.” E suo figlio, il figlio di questa persona era un ragazzo che da ragazzino si era cresciuto con Giuseppe. Non ho chiesto il nome, lo conoscevo di vista. Succedevano anche queste cose. Perché – ripeto – loro – è una cosa che ho detto già all’inizio della mia collaborazione – loro hanno vissuto in una rete di protezione, che hanno sfidato – come dire? – le Forze dell'Ordine, perché loro hanno sempre sostenuto che a Reggio erano degli “intoccabili”, l’unico magistrato che loro odiavano – tra virgolette – e che temevano era il Procuratore Vigna, perché, a loro dire, aveva un qualcosa contro i De Stefano, relativo all’omicidio di Serraino o forse un omicidio che era stato coinvolto Paolo De Stefano o Giorgio De Stefano. Questo era il timore che avevano. Gli altri, sotto questi aspetti, hanno vissuto sempre in questa forma di protezione che – dice: “La spunteremo sempre!” Questa era la...

Non so se avete capito questo passaggio: la cosa De Stefano dei pm se ne fotteva, al massimo poteva avere paura di Vigna ma solo perché erano convinti che nei loro confronti aveva un fatto personale.

La rete di protezione, tutela e garanzia, la rete di “riservati” e “invisibili”, secondo voi, poteva avere paura della Procura di Reggio Calabria? Beh, forse ora sto cominciando a cambiare idea…

Alla prossima settimana con un nuovo approfondimento su questo tema

2 - to be continued (la precedente puntata è stata pubblicata ieri, 27 giugno)

r.galullo@ilsole24ore.com

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/06/i-riservati-della-cosca-de-stefano-sempre-a-disposizione-da-reggio-a-roma-ecco-come-nascono-le-associazioni-criminali.html


Titolo: Roberto GALULLO. Commissione d’inchiesta sul caso Moro/1
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2013, 09:12:48 am
7 agosto 2013 - 8:55

Commissione d’inchiesta sul caso Moro/1

L’allarme ignorato del parlamentare Cazora sul ruolo della ‘ndrangheta


Quando in Italia la politica non sa bene come impiegare il tempo in cose inutili (guai a farne di utili) propone commissioni d’inchiesta.
E così, pochi giorni fa tutti i partiti hanno firmato una proposta di legge per istituire una (nuova) commissione d’inchiesta parlamentare
sull’affaire Moro, il politico Dc trovato morto nel bagagliaio di una Renault 4 il 9 maggio 1978. Sono passati 35 anni. Ai più giovani quel nome dirà poco o nulla ma tutti quelli (almeno) della mia generazione ricordano perfettamente dov erano il giorno del rapimento e ricordano perfettamente la misura di quello statista. La sua morte fu (è) l’ennesimo mistero di Stato.

Sia chiaro, non che non ci sia da indagare su quel rapimento e sulla morte di Aldo Moro e degli uomini che gli facevano da scorta (trucidati il 16 marzo 1978). Anzi.

A differenza di alcuni commentatori politici che si sono dimostrati indifferenti alla necessità di provare almeno a fare un po’ di luce, credo che ci sia ancora moltissimo da capire.

La politica, oggi, scatta sull’abbrivio del racconto di un artificiere intervenuto sul posto, Vitantonio Raso, che ha scritto un libro, La bomba Umana, nel quale dà dettagli che modificano la storia, per come nota finora. Lui – che all’epoca era sergente maggiore – e il suo diretto superiore, Giovanni Chirchetta, spostano l’ora del ritrovamento dell’auto e del cadavere dello statista a prima delle 11, mentre era delle 12.30 la telefonata delle Br che annunciava l’uccisione di Moro e il luogo, Via Caetani, nel cuore di Roma, a due passi dalle sedi di Dc e Pci, dove trovarne il corpo. Torna inoltre d’attualità la presenza, sul posto, dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga.

Credo che questo libro – chissà perché i grandi misteri d’Italia vivono di racconti e memorie postume di decenni – sia una miccia necessaria per riaprire il caso in Parlamento ma – al contempo – penso che nulla verrà scoperto (qualora la Commissione davvero di insediasse), perché
quell’affaire deve restare sepolto nel pozzo cieco della democrazia italiana. A maggior ragione ora, momento in cui il compromesso storico – che batteva nel cuore dei partiti nel giorno in cui fu rapito Moro – è diventato a distanza di decenni altro, vale a dire un matrimonio dagli incerti interessi (non certo amore) tra Pd e Pdl.

L’INSIPIENZA DELLO STATO

Eppure a riaprire davvero il caso basterebbero due sole cose: 1) l’insipienza (voluta?) dello Stato nel cercare di giungere al covo in cui era recluso Moro e 2) alcuni memoriali, verbali, storie, interrogatori e dichiarazioni (precedenti a quello dell’artificiere Raso) in cui si insiste sulla presenza attiva della ‘ndrangheta nell’affaire Moro.

Non mi avventuro in ragionamenti politici per ragionare sull’incapacità dello Stato di liberare uno dei suoi uomini migliori ma ripropongo – tratto dalla relazione di minoranza in Parlamento della “Commissione Moro”, volume II, pagine 402 e 421, autore il grande scrittore Leonardo Sciascia eletto nel 1979 nel Parlamento tra le fila dei radicali – i numeri nudi e crudi delle indagini che portarono al flop delle ricerche : 72.460 posti di blocco (6.296 nei pressi di Roma); 37.702 perquisizioni domiciliari (6.933 a Roma); 6.413.713 persone controllate (167.409 a Roma); 3.383.123 ispezioni di autoveicoli (96.572 a Roma).

UNA COMMISSIONE CI FU

Molti dimenticano, dunque, che una Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, ci fu. Venne istituita nell’VIII legislatura con la legge 23 novembre 1979 n.597 e nel 1983 consegnò una relazione di maggioranza e ben quattro di minoranza (del Movimento sociale italiano, del Partito liberale italiano, del Partito Radicale e della Sinistra Indipendente) . La documentazione allegata alle relazioni – centinaia e centinaia di pagine - della Commissione consta di 130 volumi e 2 tomi di indici.

Pensate voi che opera monumentale che – di fatto – a nulla approdò. Misteriose furono le cause di quel rapimento e di quelle morti e tali rimasero.

Ma nella relazione di maggioranza si trova – all’interno del capitolo V – un interessantissimo paragrafo intitolato: “I contatti dell’onorevole Cazora” che, per la prima volta, chiama in causa il ruolo della ‘ndrangheta nell’affaire Moro.

Tra poche ore – in un nuovo articolo – tornerò sulla eventuale (e tutta da provare) mano delle mafie nel caso Moro ma partiamo proprio dalla ‘ndrangheta perché ad aprire questo scenario fu un parlamentare da tutti stimato che non aveva alcun bisogno di attirare su di sé riflettori.

L’INTERMEDIAZIONE

Benito Cazora, siciliano di nascita e romano di adozione, è il parlamentare morto nel 1999.

Cazora è stato sempre citato in relazione a due episodi: una segnalazione che ricevette con riferimento alla zona di via Gradoli indicata come "zona calda" nella quale concentrare le ricerche e la questione delle foto scattate dal meccanico Gerardo Nucci, che abitava in via Fani, subito dopo la fuga del commando, che avrebbero potuto immortalare persone riconducibili alla malavita calabrese (foto che, consegnate al magistrato Luciano Infelisi, non saranno mai più ritrovate).

Cazora fu intervistato nel giugno 1997 dalla rivista Area alla quale confermò di essere stato a un passo dalla svolta e di aver informato più persone del covo in cui Moro era segregato. Già il 15 ottobre 1993, però, intervistato dal Tg2 Cazora ricordò i contatti con la malavita calabrese, la quale gli preannunciò anche il falso del ritrovamento presso il Lago della Duchessa. Molte altre volte Cazora approfondì la questione con i media. Invano. A lui la liberazione di Moro stava davvero a cuore.

Marco Cazora, il figlio di Benito, il 16 febbraio 2011 scriverà: «Nel 1978 mio padre Benito Cazora relazionò tutti riguardo i suoi tentativi di salvare la vita di Aldo Moro come le carte dimostrano. Sulla base di quelle carte e sui racconti di mio padre, che dimostrò di essere stato il primo ad individuare il covo di Via Gradoli e come ultimo aver notiziato Cossiga della prevista morte di Moro 2 giorni dopo, come tristemente avvenne fu ascoltato allora dallo stesso Imposimato. Ciò detto chiedo come mai ascoltate tali verità non lo inserì nell'elenco dei testimoni? Fu un atto di malafede o sempre di totale incapacità? »

Solo per citare un altro esempio della credibilità di cui vantava Cazora, riporto uno stralcio di un articolo comparso il 12 marzo 2003 su Famiglia Cristiana, nel quale l’articolista riporta: «”Bene informato oppure no, l’onorevole Cazora fu protagonista di un episodio legato all’ultima fase del sequestro. «Domenica 7 maggio 1978», conclude Sergio Flamigni (parlamentare del Pci dal 1968 al 1987, membro delle Commissioni sul caso Moro, P2 e antimafia, tra i più seri analisti del caso Moro e autore nel 1988 di un libro base, La tela del ragno. Il delitto Moro, ndr) , «Cazora comunicò all’allora questore di Roma De Francesco che, secondo una sua fonte, due giorni dopo sarebbe stato fatto ritrovare il corpo di Aldo Moro. La reazione del questore fu tranquillizzante. A lui, infatti, risultava, invece, che il 9 maggio la vicenda si sarebbe sì conclusa, ma con la liberazione dell’ostaggio. So per certo», conclude Flamigni, «che anche Francesco Cossiga quel 9 maggio, al Viminale, aspettava una telefonata con la buona notizia. Che non arrivò mai”».

IL PARAGRAFO BOMBA

Vi riporto ora fedelmente il paragrafo “I contatti dell’onorevole Cazora” invitandovi, fin da subito, a soffermarvi sull’ultima frase ma invitandovi altresì a leggere con molta attenzione tutto.

«Tra i tentativi per stabilire un contatto con i rapitori dell'onorevole Moro anche attraverso criminali comuni ed esponenti della malavita, va ricordato quello che ha visto impegnato l'onorevole Cazora. Questi, sollecitato alcuni giorni dopo il sequestro dalla telefonata di uno sconosciuto che gli prometteva notizie utili alle indagini sul sequestro dell'onorevole Moro, si incontrava con l'autore della telefonata, che lo assicurava di voler collaborare per fini umanitari; a questo scopo gli avrebbe presentato un calabrese che aveva la possibilità di adoperarsi concretamente per salvare la vita di Moro. Lo stesso giorno l'onorevole Benito Cazora si incontrava con il calabrese, il quale si presentava come "Rocco" ed asseriva di poter contattare elementi della malavita milanese attraverso i quali si potevano attingere notizie utili sul sequestro e sulla prigione di Moro. Per fare questo il calabrese - che era venuto meno agli obblighi del confino - aveva bisogno di circolare liberamente senza il rischio di essere arrestato. Come contropartita, in caso di esito positivo, chiedeva solo che venisse regolata la sua posizione con la giustizia.
L'onorevole Cazora consultava alcuni funzionari del Ministero dell'interno, che però davano risposta negativa. Il calabrese si dichiarava disposto a collaborare lo stesso, ed indicava il nome di un detenuto di Rebibbia tale Barone - che era stato in contatto con Sante Notarnicola.
L'onorevole Cazora incontrava Barone a Rebibbia, e questi gli indicava una serie di persone alle quali rivolgersi. Cazora si rendeva allora conto della inutilità delle notizie ricevute in quanto, a suo avviso, le persone indicate non sarebbero state disposte a collaborare. Si rifiutò quindi di rispondere a successive telefonate del calabrese.
Gli rispose tuttavia il 6 maggio, e prese appuntamento per il giorno successivo. Nel luogo dell'appuntamento trovava altra persona sconosciuta, che gli espresse il rammarico per non aver potuto far niente per salvare la vita di Moro. Alla domanda di Cazora, tuttavia, lo sconosciuto indicò una serie di luoghi nei quali poteva trovarsi la prigione di Moro. La mattina dell'8 maggio, alla presenza del sottosegretario Lettieri, l'onorevole Cazora portò le indicazioni al Questore di Roma; ma non venne trovato nulla di consistente in quelle località.
Negli ultimi contatti con il calabrese, questi affermò, tra l'altro, che alcuni rappresentanti del Psi si erano messi in contatto con elementi di sua conoscenza per ottenerne la collaborazione per la liberazione del sequestrato.
Anche il dottor Freato ha fatto riferimento all'iniziativa dell'onorevole Cazora. Egli gli fece incontrare una persona la quale affermava che si sarebbero potute acquisire informazioni da alcuni detenuti, che però dovevano essere trasferiti. Furono interessati al provvedimento il Ministro Bonifacio e il sottosegretario Dell'Andro; ma sopravvenne il tragico epilogo, e non se ne fece più niente.
Tenuto conto che l'interessamento dell'onorevole Cazora si riferisce a circostanze tutte vagliate dagli inquirenti, e che le iniziative di esponenti del partito socialista sono state approfondite con la diretta collaborazione degli interessati, la Commissione non ha ritenuto necessario ascoltare l'onorevole Cazora».

Quindi anche la Commissione sul caso Moro decise di non ascoltare l’onorevole Cazora.

La Commissione decise di non ascoltare Cazora nonostante nella sterminata documentazione che arricchisce l’affaire Moro compaia anche la telefonata che potete leggere sotto, tra il segretario particolare di Aldo Moro, Sereno Freato e l’onorevole Cazora.

LA TELEFONATA

Ci sarebbe la foto di un uomo ripreso in via Fani la mattina del 16 marzo 1978 che non si ritrova negli atti dell'istruttoria.

Al numero 109 di Via Fani, uno spettatore casuale – secondo le ricostruzioni giornalistiche si tratta di Gherardo Nucci - scatta dal balcone di casa sua una dozzina di fotografie. Di quelle foto, consegnate quasi subito alla magistratura dalla moglie, una giornalista dell’agenzia Asca, non si saprà più nulla.

Però quelle foto sembrano entrare di prepotenza nella breve telefonata tra Freato (la cui utenza era sotto controllo) e Cazora.

Cazora: Un'altra questione, non so se posso dirtelo.

Freato: Si, si, capiamo.

Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo.

Freato: Quelle del posto, lì?

Cazora: Si, perchè loro... [nastro parzialmente cancellato]...perché uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù.

Freato: E' che non ci sono... ah, le foto di quelli, dei nove

Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto preso sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio... noto a loro.

Freato: Capito. E' un po’ un problema adesso.

Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?

Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire.

Cazora: Dire al ministro.

Freato: Saran tante!

Le preoccupazioni, quel giorno, erano tante e anche un bambino capirebbe che i due parlavano delle foto scattate sul posto il giorno dell’agguato e di un personaggio fotografato che ai calabresi era noto.

IL TEMPO PASSA

Il tempo passò – dopo quella monumentale opera predisposta – ma il fantasma di Moro continuò ad aleggiare sulla politica italiana e mentre il fratello di Aldo, Alfredo Carlo, per anni presidente del Tribunale dei minorenni di Roma, continuava a dire che su quel delitto annunciato c’erano ombre e quasi nessuna luce, la stessa politica tormentata continuava (e, come possiamo vedere, continua) a girare intorno alla vicenda.

Il 26 aprile 2001 alle Presidenze delle due Camere, i commissari della “Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, presentano le decisioni adottate dalla Commissione nella seduta del 22 marzo 2001 in merito alla pubblicazione degli atti e dei documenti prodotti e acquisiti.

Nel Doc. XXIII, n. 64, volume primo, tomo VI, si legge: «Ricordiamo che nel 1978 alcuni calabresi accompagnarono l'onorevole Benito Cazora a fare un giro in macchina, poi si fermarono e gli dissero: «questa è la zona». Errore: non vi si trovava recluso Moro, ma in via Gradoli alloggiava però Mario Moretti. Sempre su via Gradoli: il 2 aprile 1978 nel corso di una famosa seduta spiritica in casa del professor Alberto Clò, a Bologna, in cui erano presenti persone del mondo universitario, emerse proprio la parola «Gradoli» e persino il numero 96. Le ricerche di Moro vennero dirottate non già nella strada romana ma nel paese di Gradoli, e per giunta vennero ampiamente pubblicizzate cosicchè Moretti apprende in tv che il suo covo era stato scoperto. Nessuno si accorse che a Roma esisteva una «via Gradoli», non gli uomini della Democrazia cristiana, non i servizi di sicurezza militari e civili, non le forze di polizia nè i Carabinieri. Per quanto ciò abbia la stessa credibilità della seduta spiritica, la Commissione prende atto di queste affermazioni.

Ma non basta: il capitano del Sid (gli allora Servizi di sicurezza della difesa, ndr) Antonio Labruna rivelò che un tale Mario Puccinelli, da Francoforte, gli telefonò per dirgli che «in via Gradoli c è chi ha ‘rapito Moro» (G.M. Bellu, Moro tenuto prigioniero nel «palazzo dei servizi», Repubblica 5 maggio 1998). Come Cazora, anche il signor Puccinelli e Labruna sono deceduti. Gli svantaggi di indagare venti anni dopo i fatti.

…………………..

Ancora al processo di primo grado, nel 1982, i coniugi che abitavano nell'appartamento adiacente al covo, dichiarano di aver sentito di notte un ticchettio, stavolta di macchina da scrivere. Ricordiamo ancora che il 10 aprile 1997, testimoniando al processo Pecorelli, a Perugia, l'ex parlamentare democristiano Benito Cazora racconta che già una settimana dopo il sequestro di Aldo Moro, indicò all'allora questore di Roma, Parlato, l'esistenza di un covo delle Br in via Gradoli; i controlli compiuti dalla polizia dettero però esito negativo».

Quindi, nel 2001, il racconto di Cazora torna alla ribalta e  -badate bene – quel nome “Gradoli” risalta prepotentemente alla ribalta per la sua importanza e quel nome e quella via è presente nel racconto di Cazora al netto di imperfezioni su chi fosse in quella via. Se – a distanza di 23 anni – una Commissione parlamentare dà credito al racconto di alcuni calabresi che portarono Cazora in Via Gradoli vuol allora dire che i contatti tesi alla salvezza di Moro, del parlamentare, non erano certo inattendibili.

ALTRA TAPPA

Il 20 gennaio 2006 alle presidenze dei due rami del Parlamento venne consegnato il Documento XXIII n.16 che altro non era che la relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare. Relatore era il senatore Roberto Centaro. Due tomi di oltre 2mila pagine complessive.

Nel secondo tomo, a pagina 881 si legge: «Un ulteriore tentativo di utilizzare la criminalità organizzata – in questo caso la ’ndrangheta – per liberare Moro era riferibile alle attività Benito Cazora, parlamentare della Dc e del suo referente Salvatore Varrone, che avrebbe promesso di fornire informazioni in cambio di agevolazioni per se´ e per i suoi familiari. Il Varrone avrebbe portato il Cazora sulla Cassia all’altezza di via Gradoli, dicendo che quella era l’area in cui si trovava il covo in cui era sequestrato l’on. Aldo Moro ma la notizia passata al questore De Francesco non aveva conseguito risultati utili.

Cazora aveva inoltre ricevuto la contrarietà dell’on. Francesco Cossiga a continuare nelle sue ricerche. Da talune testimonianze sembra che Frank Coppola si sia interessato anche di dissuadere uno dei fratelli Varone a collaborare nelle ricerche di Moro poiché quest’ultimo “doveva morire”».

E qui si aggiunge – alla consistenza del racconto – un fatto nuovo: la comunicazione (ignorata) delle informazioni alla Questura e la contrarietà dell’allora ministro Cossiga.

Per il momento mi fermo qui ma a breve torno con una nuova puntata sull’affaire Moro e l'eventuale ruolo delle mafie (che lasciano comunque il passo alla ‘ndrangheta)

1 – to be continued

r.galullo@ilsole24ore.com

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/08/commissione-dinchiesta-sul-caso-moro1-lallarme-ignorato-del-parlamentare-cazora-sul-ruolo-della-ndrangheta.html


Titolo: Roberto GALULLO. Mediocrati: la corruzione zavorra l’economia in Calabria ma ...
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 06:30:39 pm
31 ottobre 2013 - 14:16

Analisi Bcc  Mediocrati: la corruzione zavorra l’economia in Calabria ma essere puliti paga

Anche quest’anno arriva il Rapporto della Banca di credito cooperativo Mediocrati sull’economia in provincia di Cosenza. Questa volta è ancora più interessante perché l’oggetto di un approfondito focus è stato la «Corruzione, la zavorra dell’economia».


Se ne è parlato oggi a Rende (Cosenza), nel corso di un convegno che ha presentato i risultati dell’indagine continuativa congiunturale, svolta dall’Istituto Demoskopika su un campione rappresentativo di 400 imprese della provincia di Cosenza e dell’area Mediocrati. Il 2012 ha evidenziato una situazione di grande difficoltà per il tessuto imprenditoriale locale, stretto nella morsa della recessione economica ancora in atto. Nel 2012, con un trend ancora più negativo rispetto a quello del 2011, 8 imprese su 10 hanno denunciato una flessione del fatturato registrando un saldo pari a –76,5% in forte flessione rispetto al –59,3% del 2011.

In questo scenario appare, dunque, ancora più importante il focus sulla corruzione, alla luce del fatto che la provincia di Cosenza è da sempre considerata il “salotto” buono della Calabria e quella che, dal punto di vista economico, imprenditoriale e politico, ha forse il peso maggiore in regione. Non a caso gli stessi analisti di Demoskopika scrivono che i risultati, considerata la rappresentatività della provincia di Cosenza in termini demografici sociologici e territoriali, possono essere indicativi del fenomeno della corruzione per l’intera regione.

Percezione generale del fenomeno.

Il fenomeno è considerato come «uno dei principali problemi nel nostro Paese» dall’89,7% del campione degli imprenditori della provincia di Cosenza, mentre solo il 9,5% è in disaccordo. Per l’insieme delle istituzioni (media dei quattro livelli, locale, regionale, nazionale ed europeo) si evidenzia che un’elevata percentuale di imprenditori della provincia (81,4%) ritiene siano pervase dalla corruzione. L’86,9% del campione ritiene che ci sia corruzione nelle istituzioni regionali, l’83,2% in quelle locali e l’88,4% risponde che c’è corruzione nelle istituzioni nazionali. Non manca l’autocritica: il 58% degli imprenditori (somma della modalità “sono d’accordo” e “completamente d’accordo”) esprime la convinzione che il fenomeno sia una prassi comune della gestione aziendale. Il sentiment è maggiormente avvertito dalle imprese che operano nei servizi (65,4%) e nel settore delle costruzioni (64,9%); in misura minore tra gli imprenditori agricoli (51,4%) e dell’industria (51,4%).

A chiudere il paragrafo una domanda sui recenti cambiamenti del fenomeno, con la richiesta agli intervistati se il livello di corruzione è aumentato, diminuito o rimasto uguale. Il 36,6% ritiene che il fenomeno sia aumentato molto negli ultimi tre anni. Se si aggiunge il 17,4% di quanti ritengono che sia aumentato in modo lieve (poco), si arriva ad una percentuale del 54,4%. Il 41% è dell’avviso che sia rimasto costante mentre solo 1,5% afferma che «non c’è corruzione».

I motivi e la lotta alla corruzione.

La responsabilità del dilagare del fenomeno è attribuita principalmente alla politica, a causa dei suoi stretti legami con il mondo degli affari: un imprenditore su due è convinto che questo rapporto contribuisca ad alimentare la corruzione nella società e nel proprio contesto. Poco meno del 50% pensa che i politici non stiano facendo abbastanza per combattere la corruzione nel loro paese e un quinto degli intervistati denuncia la mancanza di trasparenza nel modo in cui viene speso il denaro pubblico. Minori le percentuali di quanti individuano quale causa scatenante del fenomeno la clemenza e la poca severità nelle pene inflitte nei confronti dei soggetti che compiono reati legati alla corruzione (12,6%) o la non efficace applicazione della legge da parte delle autorità preposte (10,1%) o ancora l’attribuzione di incarichi nella pubblica amministrazione non basati su criteri di merito (10,8%).

Per gli intervistati i governi non fanno abbastanza, se è vero che oltre il 70%  valuta come inefficace il loro operato nella lotta alla corruzione. Solo il 9% giudica come positive le azioni messe in campo dalle istituzioni governative mentre per il 16,2% non producono alcun effetto (né efficaci né inefficaci).

I settori di diffusione.

I settori maggiormente colpiti sono quello politico e la pubblica amministrazione. Rispettivamente il 92,8% e l’82,5% degli imprenditori intervistati li ritiene “abbastanza” e/o “molto” affetti da corruzione. Minore e al di sotto dell’indice medio di corruzione che riguarda l’intera società (65,7%) troviamo il settore privato e il mondo degli affari (63,4%), seguiti dalla società civile con il 47,7%. Non immune, infine, la magistratura giudicata corrotta da una quota rilevante degli intervistati (42,3%).

L’80% degli intervistati è convinto che la prassi di chiedere o accettare tangenti da parte dei funzionari pubblici sia “abbastanza/molto” diffusa. Il picco si registra tra le imprese dei servizi con l’86,2%, seguito dall’agricoltura (79,4%) e dal commercio (79,3%).

Tangenti e pulizia.

La maggioranza degli imprenditori (56,2%) ritiene che la corruzione e l’abuso di posizioni di potere per scopi personali siano più diffusi tra i politici nazionali,  regionali e locali e tra funzionari che gestiscono gli appalti pubblici (55,9%). Seguono a distanza nella graduatoria delle categorie più corrotte, i funzionari pubblici che rilasciano i permessi a costruire e, in generale, le autorizzazioni per lo svolgimento di attività di servizi e commerciali (17%) e le persone che lavorano nella sanità (12,9%).

Per circa la metà del campione intervistato (47%) vi è la quasi certezza, pagando una tangente, di poter ottenere facilmente il servizio richiesto o vedere risolto il proprio problema. Un terzo è del parere opposto, diffidando e non credendo nell’efficacia di tale pratica (è “estremamente incerto” il 10,1% e “incerto” il 23,5%) mentre il 20% “non sa o preferisce non rispondere”.

E’ stato inoltre chiesto al panel di intervistati se sarebbero disposti a pagare di più a una società che è pulita e libera dalla corruzione. Circa due terzi di coloro che hanno aderito all’indagine hanno risposto positivamente, lanciando un messaggio chiaro a quanti corrompono: essere puliti paga. Dunque le imprese pulite non soltanto creano condizioni di parità di concorrenza ma sostengono la crescita e la produttività nel lungo periodo.

Risultano maggiormente disponibili a pagare un prezzo superiore per acquistare prodotti di società trasparenti e responsabili, gli imprenditori del settore industriale (74,3%). A seguire troviamo le imprese commerciali (67,7%), quindi i servizi (63,4%) e quelle edili (63%). Minore la quota degli imprenditori agricoli disposta a pagare un prezzo più alto da imprese non corrotte (58,8%).

r.galullo@ilsole24ore.com

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Da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/10/analisi-bcc-mediocrati-la-corruzione-zavorra-leconomia-in-calabria-ma-essere-puliti-paga.html


Titolo: Roberto GALULLO. SAREBBE BELLO SE…
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 06:54:38 pm
24 febbraio 2014 - 10:25

Nicola Gratteri, amico dei potenti a sua insaputa: il contrario della sua straordinaria vita umana e professionale

Sarebbe bello se i giornalisti facessero solo i giornalisti.

Sarebbe bello se i magistrati sentissero il bisogno di non "cadere" in politica.

Sarebbe bello se i politici conoscessero la Costituzione scritta e quella materiale.

Sarebbe ancora più bello se i magistrati guardassero al proprio interno prima di parlare e agire.

SAREBBE BELLO SE…

Nel primo caso un’orda più o meno variegata e altamente (in)attendibile di colleghi (siamo purtroppo tutti iscritti nello stesso Albo) avrebbe evitato di spingere con un improvviso moto perpetuo Nicola Gratteri, straordinario pm antimafia della Procura di Reggio Calabria verso il più alto scranno della Giustizia. Questi colleghi dimenticano una regola aurea che i miei cattivi maestri (si impara più da loro che da quelli buoni) mi hanno insegnato: il giornalismo, come la magistratura e la Chiesa sono mestieri di “non ritorno”. Non si possono, neanche temporaneamente, abbandonare o tradire – sempre che tu li viva come una prima pelle e non come un taxi – e quando questo accade non sei più credibile. Né per quanto hai fatto prima né per quanto farai dopo. Il giornalismo, la magistratura, sono arti e funzioni sacre e spesso svillaneggiate. Basta. Già è altro il prezzo che si paga così.

Inoltre (sia ben chiaro: per come intendo io la professione, senza alcuna pretesa di aver ragione) non è compito di un Giornalista sponsorizzare in questi modi pacchiani e vistosi un magistrato.

SAREBBE BELLO SE…

Nel secondo caso, i magistrati non sentirebbero il richiamo della politica che ama utilizzare a fini propri le straordinarie virtù altrui e la politica starebbe lontana dalla magistratura, evitando così anche i più lontani rischi di contaminazioni virali. Un giudice “ragazzino” (come venne sprezzantemente definito) come Rosario Livatino, trucidato da Cosa nostra e la cui morte tracciò per sempre la mia crescita morale e professionale, più volte nei suoi scritti denunciò la deriva della magistratura e gridò (inascoltato) al suo mondo di tenere lontane e distinte, per sempre, le due cose.

SAREBBE BELLO SE…

Nel terzo caso i politici eviterebbero di fare belle figure davanti al popolo eccitato dall’idea di un pm come Gratteri candidato al ministero ed eviterebbero di incorrere (quanto volontariamente? Tanto non costa nulla dire: non è stata colpa nostra se non è diventato ministro) in figuracce come quelle vissute con il Capo dello Stato che ha impedito quella nomina. L’ha impedita con ragioni formali facendo la gioia della magistratura.

SAREBBE BELLO SE…

E qui veniamo al quarto ed ultimo “quanto sarebbe bello se…”. Già perché, come solarmente si è avuta riprova con la presa di posizione dei vertici dell’Anm, i primi a non volere Gratteri ministro erano proprio i suoi colleghi. Perché?

Beh, qui il popolo non ha bisogno di essere istruito. Può arrivarci da solo.

Io mi limito solo a dire a Nicola Gratteri, che mi onoro di conoscere da una vita ma nei confronti del quale non uso la parola “amico”, che sono felice che sia rimasto a Reggio Calabria a combattere (spesso in solitudine) le sue battaglie contro la ‘ndrangheta. Quella “visibile”, unitaria e verticistica e quella “invisibile” che ne cura la regia. Io – e lui lo sa – sarò sempre al suo fianco e per dimostrarlo ho un solo modo: scrivere e diffondere ciò che fa (come ho recentemente fatto con l’operazione “New Bridge” che lo ha visto protagonista). Libero di criticarlo quando lo riterrò opportuno, così come sono libero di esprimere la mio opinione sul suo mancato arrivo alla Giustizia...

Nei suoi confronti non uso la parola “amico” - come hanno fatto in questi giorni decine e decine di persone che gli hanno tirato la giacca prima e dopo la sua mancata nomina – per un banalissimo motivo: se mi dichiarassi pubblicamente amico di un qualunque magistrato verrei meno alla mia funzione primaria: essere super partes. Un giornalista non può e non deve essere nell’espletamento della sua (sacra) funzione amico di nessuno. Né dei magistrati, né degli investigatori, né di qualunque altra fonte: dagli avvocati ai pentiti, dai funzionari agli uscieri per finire con i politici. Io, l’ho scritto più volte su questo blog, non sono amico di nessuno e di nessuno voglio esserlo.

Allo stesso modo un magistrato (idem il giornalista) non può e non deve frequentare politici nell’espletamento delle sue funzioni. Altrimenti può capitare che – a sua insaputa – ne diventi amico. E le amicizie false, si sa, tradiscono. Lo insegna anche la storia di Livatino.

Gratteri ha una dote straordinaria in più rispetto a molti suoi colleghi: non frequenta politici (anche l’incarico che ricevette dal precedente Governo Letta gli fu preannunciato via cavo nella trasmissione di Fabio Fazio e ha dovuto penare non poco, lui come il suo meraviglioso collega Raffaele Cantone, per spingere il suo pacchetto di riforme sulla Giustizia che ora giace e continuerà a giacere nei cassetti di Palazzo Chigi) e non frequenta salotti. Neanche quelli – molti influenti e potenti – della sua categoria. Neanche quelli (a Reggio e Roma grandiosi) della massoneria. Insomma: la sua vita riservata e blindata cozzava e cozza con la platealità delle carovane di falsi amici pronti a spingerlo verso il carro ministeriale.

Buon lavoro a Reggio Calabria dott. Gratteri. Le voglio bene.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/02/nicola-gratteri-amico-dei-potenti-a-sua-insaputa-il-contrario-della-sua-straordinaria-vita-umana-e-professionale.html


Titolo: Roberto GALULLO. Bruti Liberati e Boccassini alla Commissione parlamentare...
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2014, 12:08:28 pm
17 marzo 2014 - 9:13

Dda Milano/1 Bruti Liberati e Boccassini alla Commissione parlamentare antimafia: «Ecco a voi il capitale sociale delle mafie»


Il 16 dicembre 2013 il capo della Procura di Milano Edmondo Bruti Liberati, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini e il pm Alessandra Dolci, che cura il vitale settore delle misure di prevenzione, sono stati auditi dalla Commissione parlamentare antimafia in trasferta in quel che resta della capitale morale del Bel Paese.

Solo ora ho modo – in una congerie di episodi che si accavallano e che meritano tutti di essere affrontati – di analizzare con voi alcun passaggi delle 17 pagine di relazione firmata e consegnata da Bruti Liberati e Boccassini alla Commissione.

A pagina 4, nel paragrafo 6, i due magistrati descrivono la “Ndrangheta in Lombardia”.

Le loro riflessioni appaiono pacate e sorprendenti. Piacevolmente sorprendenti, intendo dire, perché alcuni eccessi auto elogiativi, colti nel passato, mi sembrano messi alle spalle e una lettura più aderente alla realtà si fa avanti.

Sia ben chiaro. Sono mie sensazioni, fallibili per definizione.

Ho intercalato, nei passaggi della bella relazione che ho ritenuto degni di maggiore attenzione, una parola secca ma poi, su alcune parti, ho fatto qualche riflessione in più.

L’EVOLUZIONE
Ebbene, è lo stesso “attacco” della relazione (come si direbbe in gergo giornalistico, che chiamerò incipit affinché nessuno equivochi) che mi ha sorpreso. «In primo luogo può dirsi ormai attestato che la ‘ndrangheta non è costituita da un insieme di ‘ndrine tra loro scollegate e scoordinate ma nemmeno da una “macro organizzazione”, cioè con un unico organismo dotato di unità di scopo». Sottoscrivibile.

«Tale visione ne sopravvaluterebbe la coesione e la coerenza interna – prosegue la relazione – si tratta piuttosto di un sistema di regole che crea vincoli tra gli aderenti e opportunità d’azione per gli stessi, di una configurazione reticolare, strumentale al perseguimento di differenti interessi individuali, con forme di forte solidarietà collettività e di stringente cooperazione». Condivisibile.



«Tra gli aderenti vi sono spesso forme di competizione, che però non portano al dissolversi dell’organizzazione – si legge ancora nella relazione – sia per la presenza di forme di cooperazione sia perché gli scopi sono spesso interdipendenti e tutti i partecipi hanno interesse a che l’organizzazione sopravviva, il che costituisce la pre-condizione perché i traffici illeciti possano continuare a prosperare». Storico.

 

L’ANARCHIA ORGANIZZATA
«Si è in proposito parlato, con espressione sintetica – si può ancora leggere nella relazione – di “anarchia organizzata”, di organizzazione unitaria su base federale, costituita da più “locali” secondo un modello di organizzazione-rete, non di carattere gerarchico verticistico dove il rimando alla ‘ndrangheta e alle sue tradizioni serve, all’interno, per garantire lealtà tra i membri e adesione agli scopi e, all’esterno, per sorreggere l’efficacia del metodo intimidatorio». Sempreverde.

«Ovviamente tale flessibilità garantisce maggiore capacità di diffusione in territori non tradizionali – continua la relazione – il che è tipico della ‘ndrangheta, dotata di moduli organizzativi più adattabili, di una struttura meno centralizzata e verticistica». Distensivo.

«Tali osservazioni conducono ad affermare che le singole “famiglie” non possono essere viste come monadi separate e autonome – si leggere sempre nella relazione – ma come fenomeno criminale unitario». Infinito.

IL CAPITALE SOCIALE
Dopo questa lunga e condivisibile disamina (sugli ultimi passaggi colgo qualche conciliazione concettuale tra posizioni e qualche cedimento interpretativo rispetto al recente passato ma di sicuro sbaglio) la relazione firmata da Bruti Liberati e Boccassini entra in quello che a mio modestissimo avviso è il volto della mafia 2.0. Quello che va “sfigurato”, attaccato, distrutto, quello di cui – secondo il giudizio di questo umile e umido blog – fanno parte quei profili che non rappresentano più un qualcosa di “avulso” rispetto alla mafia, ma ne costituiscono il collante, il cemento, il motore, l’unità di intenti.

«L’analisi delle relazioni esterne del sodalizio mafioso – scrivono il procuratore capo e l’aggiunto – ha condotto all’elaborazione del concetto di “capitale sociale” mafioso, quel bagaglio di relazioni che il mafioso intrattiene con il mondo politico, imprenditoriale, giudiziario, delle libere professioni». Timido.Timi

Spendo qualche parola in più, rispetto a quel semplice aggettivo, “do”.





Il “capitale sociale” della mafie è, a mio giudizio, molto ma molto più ampio e abbraccia servizi segreti, finanza, Chiesa, massoneria e mondo dell’informazione. Ma il “capitale sociale” – mi spingo oltre, visto che l’analisi giornalistica con la conseguente libertà di giudizio non coincidono spesso con le “istantanee” giudiziarie, con la clessidra dei processi e con i tempi della Giustizia – è destinato ad essere “concretamente” esso stesso mafia: non più un concorso esterno ma un concorso interno, intestino, intraneo allo stesso sistema criminale soavemente tratteggiato (senza successo e sbocco processuale con piena onestà intellettuale) quasi 20 anni fa dal pm palermitano Roberto Scarpinato.

«Il precipitato giuridico del tema delle relazioni esterne è quello del concorso esterno e di condotte in qualche modo “favoreggiatrici” e di contiguità – si legge ancora nella relazione – spesso affrontate dalla Dda di Milano con lo strumento delle misure di prevenzione che hanno consentito di accertare il collegamento della ‘ndrangheta con la cosiddetta società civile…La ‘ndrangheta è una realtà polivalente: organizzazione criminale violenta, impresa economica, apparato simbolico e struttura di potere in rapporto con il mondo istituzionale e con la società civile. Quest’ultimo aspetto ne costituisce uno dei tratti distintivi: l’associazione mafiosa si distingue dalla associazione per delinquere semplice, per la capacità di intrattenere rapporti con il mondo istituzionale, condizionandolo ai propri fini, intessendo alleanze.

Il dato organizzativo e il profilo del capitale sociale sono due temi connessi: descrivere la ‘ndrangheta come un universo frammentato tra molte famiglie, in cui l’unico legame è quello familiare, trascurando invece il dato organizzativo unitario, significa privilegiare un aspetto culturale, quasi esclusivamente regionale della ‘ndrangheta, inidoneo a valorizzare i rapporti tra la ‘ndrangheta e alcuni esponenti della società civile». Si può fare di più.

Mi spiego meglio anche in questo caso. La Giustizia deve restare ancorata alle prove e alle evidenze nonché alle risposte processuali fino a passaggio in giudicato, che cristallizzano una realtà e dunque, come sempre, con il massimo rispetto scrivo che l’analisi giornalistica degna di questo nome può e deve andare oltre. Ecco, dunque, spiegato quel “si può fare di più”. Non è un mancato ringraziamento ma è al, contrario un sentito grazie ma, al contempo, una spinta ad “attaccare”, tirando fili investigativi magari sopiti o involontariamente tralasciati, quei sistemi criminali, quella mafia 2.0 che, a giudizio sindacabile di chi scrive, non è in “rapporti” ma è “sinergico” alle cosche e ai clan, vere e proprie agenzie di servizio.

A meno che al termine “rapporto” non si voglia attribuire il significato matematico che, fra due grandezze, corrisponde al risultato della loro divisione esatta, vale a dire senza resto. Che poi, guarda caso, coincide con la “sinergia”, che nulla è se non l’integrazione di più elementi che perseguono un fine comune, allo scopo di ottenere un effetto complessivo più soddisfacente di quello che otterrebbero separatamente.

Da una parte dunque, la mafia “relazionale”, dall’altra la mafia delle “relazioni”, chiuse in una sola definizione: mafia 2.0, già forse vecchia per il mondo che verrà.

Seguitemi anche domani. Metterò in linea altre analisi di questa interessantissima relazione dei vertici della Procura di Milano

r.galullo@ilsole24ore.com

1 - to be continued

DA - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/03/dda-milano1-bruti-liberati-e-boccassini-alla-commissione-parlamentare-antimafia-ecco-a-voi-il-capita.html


Titolo: Roberto GALULLO. Trattativa Stato-mafia/1
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:23:05 am
5 novembre 2014 - 10:00

Trattativa Stato-mafia/1 Il pentito Francesco Di Carlo da latitante incontrava i vertici dei servizi segreti e uomini della P2

Tra i testimoni che il pool palermitano (Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) hanno chiamato nel processo penale sulla trattativa tra Stato e mafia c’è anche Francesco Di Carlo.

Costui, nell’ambito della famiglia mafiosa di Altofonte, è stato consigliere, sottocapo e anche capo famiglia. Due zii, due fratelli, un fratello e un cognato della mamma erano Cosa nostra. Insomma, una famiglia rodata. Poi, nel 1978 si è dimesso, senza perdere i contatti con i capimafia. Anzi. Si è dimesso per come andavano le cose ad Altofonte nella sua famiglia e perché, senza essere avvisato, avevano ucciso l’ex rappresentante di

Altofonte, che poi era diventato un soldato semplice, Salvatore La Barbera, ucciso nell’agosto ’78.

Di Carlo, dall’accusa, viene chiamato a riferire non solo della sua appartenenza alla mafia siciliana ma anche dei rapporti intrattenuti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, di quanto a sua conoscenza sui rapporti tra l’imputato Antonio Subranni, i cugini Nino e Ignazio Salvo e l’onorevole Salvo Lima; sui suoi rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri anche con riferimento ad investimenti operati da Cosa nostra in attività imprenditoriali riconducibili a Silvio Berlusconi.

Tutte cose (e molte altre ancora) delle quali riferirà nelle udienze del 30 gennaio, del 27 febbraio e del 6 marzo. Tutte cose delle quali ci occuperemo in una serie di servizi che ho deciso di dedicare alla sua lunghissima deposizione.

Prima, però, andremo a leggere insieme altre rivelazioni che costui ha fatto.

Non sta a me giudicare dell’attendibilità delle cose dichiarate da questo mafioso, diventato nel ’96 testimone di giustizia. Le prove si formano in un’aula di Tribunale e dunque la sua è una versione che dovrà reggere e affrontare ogni grado di giudizio ma quel che racconta è da brivido.

E’ da brivido una cosa fondamentale, che rappresenta il filo rosso (o nero) che lega tutta la sua deposizione: la familiarità che conclama con gli apparati dello Stato, quegli apparati dei quali avrebbe dovuto essere nemico e antagonista sociale e che invece, nei suoi racconti, quasi sempre dettagliati e raccontati parzialmente anche in altre occasioni processuali, diventano talvolta amici in affari.


LE RADICI LONTANE
Una familiarità tale che, ad un certo punto, ad una domanda del pm Nino Di Matteo risponde così: «una volta, non so chi è stato, mi ha chiesto, dice, in Cassazione come aggiustavate i processi? Io ho risposto: ma perché, quando arrivavano in Cassazione i processi di Cosa Nostra? Ma nemmeno in Appello. Questa era la realtà di quel periodo. Non di quel periodo, di una vita, almeno, da anni 60 in poi».

Di questa familiarità, per come lui stesso la descrive come testimone diretto, vi racconterò per come emerge da quelle tre udienze. Ne scrivo perché, se troverà continuità nelle altre deposizioni e nelle prove, testimonierebbe inequivocabilmente che le radici della trattativa affondano in tempi remoti, in periodi in cui la contiguità tra Stato deviato e Cosa nostra era già nei fatti, indipendentemente dagli attori. Nulla di nuovo sotto il sole, del resto. Attendiamo da sempre di sapere chi organizzò la strage di Portella della Ginestra o chi decise di uccidere il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (solo per citare due casi).

VITO MICELI
Una familiarità che lo farà entrare in contatto con Vito Miceli, generale, direttore del Sid (Servizio informazioni della Difesa) dal 18 ottobre 1970 al 30 luglio 1974 e poi parlamentare del Msi dal 1978 al 1987, morto il 1° dicembre 1990. Iscritto alla P2 di Licio Gelli e coinvolto in una grave vicenda giudiziaria (il tentato golpe Borghese del ’70) ne uscì assolto con formula piena. Per sua stessa ammissione, Di Carlo conosce Miceli alla fine degli anni Sessanta.

Ma non ne è amico e con una testardaggine che se sarà apprezzata non sta a me dirlo, riferirà a Di Matteo: «Mi scusi che faccio una differenza, frequentare quando uno si frequenta, ma conoscenza che due – tre volte, per occasioni che dovevano parlare gente di Cosa Nostra o, che ne so, per una cosa che dovevano sbrigare, l’accompagnavo o meno, non è una frequentazione, perché la frequentazione la interpreto come amicizia. Non si può chiamare amicizia, però una buona conoscenza perché… ».

GIUSEPPE SANTOVITO
Perché l’amicizia è una cosa seria e allora Di Carlo, sempre nell’udienza del 30 gennaio, dice di riservarla a Giuseppe Santovito, generale dell’Esercito anch’esso e capo del Sismi (il servizio di informazione militare) dal ’78 all’81, morto il 6 febbraio 1984. Anch’ egli risultava iscritto alla P2 ma da quello scandalo uscì con tutta la forza che aveva, smentendo ogni coinvolgimento.

Con Santovito c’è amicizia, «perché se io andavo a Roma lo incontravo, è capitato due – tre volte di andare a pranzo insieme, è capitato in una riunione che si è fatta nel 1980 mi sembra, sì, prima che si scoprisse la lista della P2 e cose, perché è stato nell’81 che si è scoperta la lista, la famosa lista della P2, perciò è stato prima, è stato nell’80, a fine 80, che c’è stata una riunione e io ero nell’ufficio di Lima a Roma intendo. Con Nino Salvo, io ero latitante, con Nino Salvo siamo andati a questa…E ci siamo frequentati. Ma anche con Santovito ci siamo frequentati a Palermo, mi veniva a trovare al castello. A Palermo siamo stati anche in una festa… ».


Tutti insieme appassionatamente: Cosa nostra e servitori dello Stato.

E su quella riunione dell’80 nel Lazio, quando lui era latitante, torna nell’udienza del 27 febbraio, quando specifica che «la riunione è stata in una villa vicino Latina, la montagna, c’è una montagna. Circeo, mi sembra così si chiamava. E c’era una grande villa che poi ho capito che questa villa era di proprietà di un petroliere, uno che commerciava con il petrolio, Ortolani, non mi ricordo più, Umberto Ortolani. Ma c’erano tante persone, io ho accompagnato a Lima e a Nino Salvo. Lima no, mi sembra che Lima non c’era, Nino Salvo, con Nino Salvo sono andato, e là c’era l’Avvocato Guarrasi, che hanno parlato, che erano tutti iscritti alla P2, per quello che ho capito. Ma c’eravamo tanta gente che aspettavamo anche fuori, di cui io ho conosciuto varie persone. In questa riunione ho conosciuto pure chi accompagnava Santovito, che era ai tempi, questo che lo accompagnava, era un… o era maggiore o era capitano dell’Esercito pure, come Santovito. E ci siamo messi poi a parlare anche noi, loro hanno avuto questa riunione, si parlava di quello che avevano intenzione di fare. Di quello che ho capito io, volevano ripetere quello che non si era fatto nel 1970, che non aveva potuto fare il Principe Borghese e altra gente».

MARIO FERRARO E L’ALLEGRA LATITANZA
Chi accompagnava in quella riunione Santovito era, secondo la ricostruzione di Di Carlo, Mario Ferraro, anch’egli dei servizi. Fu trovato morto il 16 luglio 1995 a casa sua, a Roma, impiccato con la corda dell’accappatoio al portasciugamani del bagno. L’inchiesta sulla sua morte fu archiviata dalla procura di Roma.

Ma torniamo al punto: Di Carlo era latitante. E, la domanda sorge spontanea, poteva il capo del Sismi Santovito incontrarsi deliberatamente con un latitante senza sapere della sua condizione? La domanda gliela pone anche Di Matteo e Di Carlo risponde così: «E con Santovito posso dire che eravamo… Frequentare, amici, perché poi quando sono stato latitante a Roma ci siamo visti, mi ha detto che se avevo bisogno di qualcosa, tutto quello che abbiamo bisogno, abbiamo  continuato». Di Matteo incalza: «Era consapevole, quando vi incontravate a Roma e lei era latitante, del suo stato di latitanza?». Disarmante Di Carlo: «Ma certo». Di Matteo vuol vederci chiaro fino in fondo ed essere certo delle risposte: «In quel periodo, però mi segua con le domande e se è possibile dia risposte precise, in quel periodo il Colonnello Santovito era in forza a qualche servizio segreto o ancora nell’esercito? Per quella che è la sua conoscenza, poi… ». Di Carlo risponde: «Dal 78, ma prima che andava a fare il direttore del Sismi, mi sembra che si chiamasse Sismi ai tempi, nel ‘78 già sapevo che doveva andare là a dirigere, perché prima era a Palermo e poi se ne è andato a Roma». E Di Matteo: «Quindi quando vi incontravate a Roma e lei era latitante, il Colonnello Santovito che cosa faceva?». Di Carlo ribadisce: «Era il direttore del Sismi».

Per ora mi fermo qui ma domani, solo domani, vi racconterò perché Di Carlo ha deciso solo adesso di raccontare molto, ma molto più di quanto finora ha raccontato nelle aule giudiziarie e nei suoi libri (uno è imminente).

r.galullo@ilsole24ore.com


1 – to be continued
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Da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/11/05/trattativa-stato-mafia1-il-pentito-francesco-di-carlo-da-latitante-incontrava-i-vertici-dei-servizi-segreti-e-uomini-della-p2/


Titolo: Roberto GALULLO. Trattativa Stato-mafia/2
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:24:26 am
6 novembre 2014 - 08:25

Trattativa Stato-mafia/2
Il pentito Francesco Di Carlo: «Parlo ora perché a Palermo e Caltanissetta avete riaperto tutto»

Tra i testimoni che il pool palermitano (Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) hanno chiamato nel processo penale sulla trattativa tra Stato e mafia c’è anche Francesco Di Carlo.

Della sua deposizione, dal 30 gennaio 2014, ho cominciato da ieri a scrivere su questo umile e umido blog. Per la prima puntata, vale a dire quella della enorme familiarità di Di Carlo con i vertici dei servizi segreti con i quali si incontrava anche da latitante, rimando al post di ieri (si veda link a fondo pagina).

Di Carlo, dall’accusa, viene chiamato a riferire non solo della sua appartenenza alla mafia siciliana ma anche dei rapporti intrattenuti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, di quanto a sua conoscenza sui rapporti tra l’imputato Antonio Subranni, i cugini Nino e Ignazio Salvo e l’onorevole Salvo Lima; sui suoi rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri anche con riferimento ad investimenti operati da Cosa nostra in attività imprenditoriali riconducibili a Silvio Berlusconi.

Tutte cose (e molte altre ancora) delle quali riferirà nelle udienze del 30 gennaio, del 27 febbraio e del 6 marzo.

Oggi, come avevo promesso, vi spiego perché Di Carlo ha deciso di vuotare il sacco (Tutto? In maniera convincente? Non sta a me dirlo).

Lo spiega nella deposizione del 27 febbraio: «Dottore Di Matteo, non sono uno stupido, so guardare, mi so guardare pure la pelle, ci sono andato con i piedi di piombo. Adesso avete riaperto tutto… Sia a Caltanissetta, sia a Palermo, mi sembra che i tempi sono cambiati, ho visto pure…Perché io leggo, seguo, seguo la politica, seguo tutto. Visto che cominciate a volere mettere ogni cosa al suo posto, allora sono venuti i tempi, quello che so io lo dico… No, no, io tutto mi ricordo per fortuna, perché ho usato sempre il cervello e usandolo uno si ricorda sempre. Non è omissione perché non volevo omettere, un giorno lo dovevo dire. C’è stata l’occasione adesso, perché se uno lo diceva ai tempi, si chiudeva a quei tempi. Adesso sono qua per dire qualsiasi cosa che è la realtà, i fatti».

L’AEREO DI FALCONE
E torna ancora a battere sul ruolo dei servizi segreti deviati quando afferma: «Conoscendo tutti questi fatti e vedo poi come succede il fatto con il dottore Falcone, che con l’aereo dei servizi segreti, l’aereo di Stato, sapendo come pure avviene, perché giorni prima si deve dare il piano di volo, che cosa devono fare il giorno prima, che se lui deve tornare a Palermo e cose. Non può saperlo quei ragazzi che erano appostati a Capaci, devono saperlo prima».

Domani torno a raccontare della familiarità con i servitori dello Stato, così come viene raccontata da Di Carlo. Ripartiamo da quell’Antonio Subranni che è tra gli imputati del processo sulla trattativa.

r.galullo@ilsole24ore.com

2 – to be continued
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Da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/11/06/trattativa-stato-mafia2-il-pentito-francesco-di-carlo-parlo-ora-perche-a-palermo-e-caltanissetta-avete-riaperto-tutto/


Titolo: Roberto GALULLO. Operazione Dama Nera: quando in alcuni uffici Anas il senso...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 27, 2015, 04:27:00 pm
27 ottobre 2015 - 08:54
Operazione Dama Nera: quando in alcuni uffici Anas il senso di impunità supera la fantasia (e diventa realtà)

Cari lettori, come sapete da venerdì scorso ho (ri)cominciato ad occuparmi di San Marino e del parallelismo con l’Italia essendo (da sempre) questo potentissimo (sul fronte tributario, finanziario e creditizio) Stato-condominio un’immagine riflessa dell’Italia. Lo faccio dopo che l’ennesima indagine sul Titano ha portato in carcere l’ennesimo potente locale e ha scoperchiato un verminaio di vasta portata.

Su questo umile e umido blog ieri ho analizzato la parte in cui, secondo la pubblica accusa sammarinese, negli anni e fino al momento in cui l’indagine ha portato all’arresto di un noto politico del Titano, una (presunta) associazione a delinquere ha svuotato lo Stato dall’interno piegando ampi strati di politica, imprenditoria, economia, professionisti e finanza ai propri interessi. Lo faceva, sempre secondo l’accusa, con un senso di impunità assoluto. Anzi: con reiterati tentativi di restaurazione di un disegno criminoso che sembrava fare anche a meno proprio dell’idea di colpevolezza.

E in Italia?
Beh, poche ore dopo l’indagine sammarinese, con l’operazione “Dama Nera” la Procura di Roma (che ha delegato l’indagine al gruppo Pt del Gico della Gdf di Roma agli ordini del colonnello Gerardo Mastrodomenico) portava alla luce una matassa di interessi pubblici piegati a fini privati. Anche qui con un assoluto (e apparente) senso di impunità.

Secondo l’ipotesi accusatoria una serie di dirigenti e funzionari dell’Anas (ergo statali) «si associavano tra loro, al fine di commettere più delitti di corruzione, tutti finalizzati a conseguire indebite utilità facendo mercimonio della loro funzione ed operando a vantaggio preponderante o esclusivo di terzi, imprenditori e privati e di se medesimi anziché dell’ente di appartenenza e, in definitiva dello Stato, realizzando: a) sistematiche condotte di asservimento della funzione svolta all’interno dell’Anas alle ragioni di terzi disposti a riconoscere loro denaro ed altre utilità; b) reiterati episodi di corruzione per specifici atti contrari, reciprocamente cooperando ciascuno per quanto di propria competenza, per ottenere profitti illeciti, determinati nel loro ammontare da una dirigente e dalla stessa gestiti, riscossi in contanti direttamente dai sodali e ripartiti proporzionalmente alle responsabilità assunte nella gestione dei singoli procedimenti amministrativi, concertando comuni iniziative di autoprotezione».

Ebbene a pagina 7 del provvedimento firmato il 10 ottobre dal Gip Giulia Proto, si legge che «grazie ad un serrato controllo sugli indagati è emerso – all’interno degli uffici Anas citati – un vero e proprio sistema corruttivo che…non è episodici e/o occasionale dal momento che tiene impegnata la dirigente per buona parte del suo tempo, coadiuvata dal suoi sodali; infatti nel corso di questi mesi di attività tecnica si è assistito ad una frenetica quanta continua operatività degli indagati per niente irretiti neanche a seguito di un controllo su strada (del 12 maggio 2015) da parte dei militari della Gdf, i quali fermavano il funzionario trovato in possesso di una provvista corruttiva pari ad € 25.000 euro in contanti già suddivisi in tre buste, pronti per la spartizione tra i corrotti. Le condotte poste in essere dagli indagati in maniera continua per l’intero periodo del monitoraggio (ancora in corso al momento della redazione della presente ordinanza) consentono di ritenere dimostrata l’esistenza di un ben consolidato sistema… alla continua ricerca/ individuazione di nuovi “clienti” per lo scambio di “favori” nell’ambito di una procedura amministrativa che di pubblico non ha più nulla in quanto gestita “privatamente” non certo per l’interesse dell’ente bensì per gli interessi personali degli accoliti».

Non so a voi ma a me quell’inciso «per niente irretiti neanche a seguito di un controllo» ha fatto venire i brividi perché è la testimonianza plastica (pur sempre in attesa del giudizio finale in un aula di Tribunale) che oggi l’Italia è una Repubblica fondata sulla corruzione e sul senso di impunità.

Mi fermo qui e domani riattacchiamo con un altro parallelismo tra San Marino e Italia.

r.galullo@ilsole24ore.com

3 – to be continued (per le precedenti puntate si vedano http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/10/23/indagini-per-riciclaggio-e-associazione-per-delinquere-e-san-marino-ma-sembra-litalia-o-se-preferite-il-contrario/ e

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/10/26/san-marino-svuotata-dallinterno-istituzioni-e-politica-piegate-a-interessi-privati-proprio-come-in-italia/)

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Da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/10/27/operazione-dama-nera-quando-in-alcuni-uffici-anas-il-senso-di-impunita-supera-la-fantasia-e-diventa-realta/


Titolo: Roberto GALULLO. 24 anni da Capaci: antimafia sociale a pezzi, sentenze sul ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2016, 10:16:23 am
24 anni da Capaci: antimafia sociale a pezzi, sentenze sul ring, mafie più forti e Messina Denaro sempre libero

    23 maggio 2016 Roberto Galullo

Un anno in più. E fanno 24. Esattamente 24 anni senza il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta.

A ricordarsene, anche oggi, saranno tanti, tutti. Compresi quelli – come ha affermato nelle scorse ore il pm palermitano Nino Di Matteo – che in vita lo avversarono.

Così come è facile riempirsi la bocca di Falcone e Borsellino è altrettanto facile riempirsela con la parola antimafia. Zero fatica e grande ritorno, soprattutto d’immagine. Senza dimenticare la carriera, che lievita se dietro la scrivania ci sono le foto dei due eroi morti per la nostra democrazia, oggi avvilita. Una foto appesa, che cosa costa?

Vale allora, forse, rompere un velo di ipocrisia e dire, chiaro e tondo, che le ricorrenze di un’ora, ogni giorno, lo stesso, il 23 maggio, da 24 anni a questa parte servono, soprattutto a Palermo e sotto quella stele che ricorda la strage di Capaci, solo per le foto sui giornali dei coccodrilli di varia natura, in posa per piangere. Presunti servitori dello Stato, presunti colleghi di quei magistrati e di quegli uomini e donne delle scorte, presunti politici, presunti giornalisti, presunti amministratori, tutti appassionatamente uniti col vestito della festa e il viso contrito ad uso di flash e telecamera. Con buona pace di chi a volte organizza, con tanta sensibilità, quei momenti di ricordo e memoria che dovrebbero diventare patrimonio di un’intera nazione e invece sono ricchezze di un pugno di persone.

Un’ora di contrizione a cottimo – per lor signori in posa – e passa la paura.

Le stesse scene si ripeteranno anche quest’anno e forse – anche se ogni volta ci ritroviamo a pensare e scrivere le stesse cose – mai come quest’anno sarebbe giusto fermarsi a riflettere su un mondo che la cultura mafiosa sta permeando a propria immagine e somiglianza.

Un anno, quello che sta trascorrendo, nel quale la grandezza di uomini come Falcone e Borsellino e degli uomini e delle donne che con loro hanno combattuto in vita nel nome di principi e ideali, si scontra con la pochezza di una società sull’orlo della frantumazione sociale.

Fermiamoci, dunque, un attimo a pensare su quattro-cose-quattro semplici semplici.

Partiamo allora con quella più d’impatto mediatico e che repelle le coscienze. Il signor (si fa per dire) Matteo Messina Denaro è latitante da appena 23 anni. Un anno dopo le stragi palermitane ma in piena stagione di stragi su per la Penisola, costui, criminale della peggior risma, nemico in vita di Falcone e della Sicilia e dell’Italia onesta, ha detto bye bye alla luce del sole e ha preferito nascondersi tra le tenebre del potere occulto. Ma vi pare, ci pare possibile che possano esistere in natura 23 anni di latitanza di una simile canaglia, senza coperture devastanti da parte di quegli apparati statali deviati e massonico-mafiosi che gli permettono di continuare giorno per giorno ora per ora, secondo per secondo, di pugnalare la memoria di Falcone e offendere le nostre coscienze?

Bene (anzi, male). Questo Stato, il nostro Stato, questa classe dirigente, la nostra classe dirigente, in 23 anni non è riuscita a stanare questo rifiuto della società e, badate bene che, se anche fosse catturato oggi, il ragionamento e le riflessioni non si sposterebbero di un millimetro. La prima domanda da porsi, infatti, sarebbe: chi, ora, ha preso il posto del boss di Castelvetrano nei salotti marci e occulti di questa nazione infetta?

Andiamo avanti, con la seconda riflessione. L’antimafia sociale, quella che vive di simboli – giornalisti, professionisti, imprenditori, politici – mai come quest’anno si è disgregata e ha fatto “puf puf”. Via, dissolta, volatilizzata, liofilizzata da polemiche, sceneggiate, botte da orbi, denunce, contro denunce e, infine, indagini della magistratura. Dobbiamo aggiungere altro? Si: che l’antimafia è una cosa troppo seria (e intima) per poterla affidare a chiunque altro che non sia le nostra personale coscienza. L’antimafia quotidiana dei fatti non si delega a movimenti, associazioni, ricchi portafogli o partite Iva.

Proseguiamo con la terza riflessione. Mai come quest’anno il volto giudiziario e processuale ha fatto, fa e farà da apripista, viatico e coda di questo anniversario. Il peggio è che le vicende che escono scosse dalle aule di giustizia – da ultima quella che ha visto per la seconda volta assolti il prefetto Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu – vengono stabilmente e indegnamente utilizzate come gabbie chiuse per allestire incontri a mani nude tra fazioni contrapposte, pronte a darsele di santa ragione con un solo obiettivo: non fare prigionieri e lasciare vittime sul campo della vera antimafia. Ovviamente la vera antimafia è quella di chi rimane in piedi nella gabbia, magari pesto, sanguinolento e a sua volta moribondo ma, tant’è, il vincitore prende tutto.

E veniamo, infine, alla quarta e ultima riflessione, che, come in un cane che si morde la coda, riconduce alla canaglia Messina Denaro di cui sopra e, soprattutto, al suo mondo lercio.

Ma vi pare – amati lettori di questo umile e umido blog – che in questi lunghissimi 24 anni senza il giudice Falcone e le vittime sacrificali della strage di Capaci e di via D’Amelio, la lotta alle mafie abbia fatto concreti e tangibili passi in avanti? E vi pare, ci sembra, che in questi ultimi 12 mesi la ‘ndrangheta – che ha preso dall’anno precedente alle stragi palermitane il posto di Cosa nostra nel cuore dello Stato deviato – abbia fatto sostanziali e visibili passi indietro nella sua strategia di assalto al cuore della società, grazie a quella cupola fatta di soggetti ipocritamente definiti “concorrenti esterni”?

Riflettiamo con calma. Avremo almeno un altro anno prima di rispondere “no”. E saranno 25. E dire che c’è ancora il coraggio spudorato di dire che la mafia ha perso e lo Stato ha vinto.

r.galullo@ilsole24ore.com

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2016/05/23/24-anni-da-capaci-antimafia-sociale-a-pezzi-sentenze-sul-ring-mafie-piu-forti-e-messina-denaro-sempre-libero/


Titolo: Roberto GALULLO. Rapimento di Aldo Moro C’era il boss di ‘ndrangheta ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2016, 12:24:10 pm
Rapimento di Aldo Moro
C’era il boss di ‘ndrangheta Antonio Nirta: parola di Ris e commissione d’inchiesta

    15 luglio 2016 Roberto Galullo Senza categoria

Il 24 marzo 2015, alla fine dell’audizione del capo della Procura di Tivoli Luigi De Ficchy, il presidente della commissione parlamentare d’indagine sul rapimento e la morte di Aldo Moro, Giuseppe Fioroni (Pd) fu risoluto: «Credo che possiamo decidere, senza andare in ufficio di presidenza, di dare delega al dottor Donadio (Gianfranco Donadio, pm consulente, ex procuratore della Direzione nazionale antimafia, ndr) di seguire anche, oltre alla vicenda di Nirta e di tutti gli altri elementi della ’ndrangheta, anche le piste, che a me colpiscono molto, di Selis e della banda della Magliana, di Cutolo e della mafia, in relazione a quanto ci ha riferito il dottor De Ficchy circa la mancata reperibilità di coloro che erano interessati per la ricerca di Moro».

E’ stato di parola e, come ha raccontato questo blog nel corso degli anni precedenti all’insediamento della Commissione parlamentare e poi seguendone espressamente il profilo dell’eventuale presenza e/o gestione del rapimento da parte delle mafie, il  22 gennaio 2015, in trasferta a Genova, una delegazione della Commissione bicamerale di inchiesta sul sequestro e la morte di Moro aveva già incontrato il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo (si veda http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/10/07/esclusivo-il-generale-nicolo-bozzo-riapre-il-capitolo-della-presenza-della-ndrangheta-nel-sequestro-di-aldo-moro/) .

Il 4 febbraio 2015 Donadio ha presentato una prima relazione concernente possibili adempimenti istruttori riguardanti la strage di via Fani (verosimilmente anche per questo il 22 febbraio 2015 la polizia scientifica ha effettuato nuovi rilievi con tecniche all’epoca impensabili in Via Fani, con l’auspicio di trovare novità rilevanti, espresso dal vicepresidente della Commissione Gero Grassi) e l’Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella riunione del 18 febbraio ha incaricato Donadio di effettuare due missioni, rispettivamente, a Trieste e a Reggio Calabria, per svolgere attività ricognitiva di documentazione e di risultanze di indagini (si legga http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/03/04/morte-aldo-moro-riesplode-il-mistero-sulla-ndrangheta-in-via-fani-donadio-in-missione-in-calabria-i-racconti-dei-pm-marini-e-ionta/).

Il 21 gennaio di quest’anno Il Messaggero di Roma, con un articolo di Italo Carmignani, ha pubblicato una foto che risale al 16 marzo 1978. Ritrae la Fiat 130 che ospita il presidente della Dc, l’Alfa Romeo della scorta, i corpi dei carabinieri uccisi dalle Br, i curiosi e un uomo con la sigaretta, dall’aria amletica tra l’indifferente e l’interessato. Quella foto del reporter Gherardo Nucci darà ancora più sprint alla commissione parlamentare, che decise di dare un’identità a quell’uomo misterioso comparandolo con la faccia di Antonio Nirta, esponente di spicco della ‘ndrangheta.

Di Nirta questo blog ha raccontato tanto negli anni e dunque rimando ai link a fondo pagina. Riassumo però brevemente: Nirta, nato a San Luca (Rc), l’8 luglio del ’46, è il nipote del capo clan suo omonimo, morto a 96 anni nel 2015. A tirarlo in ballo per il caso Moro fu inizialmente il pentito della ‘ndrangheta Saverio Morabito, secondo cui Nirta, detto” due nasi” per la sua confidenza con la doppietta, sarebbe stato confidente del generale dei carabinieri Francesco Delfino e uno degli esecutori materiali del sequestro di Aldo Moro.
Il 21 gennaio 2016, giorno del servizio del Messaggero, la Commissione parlamentare ascolta Ansoino Andreassi, che durante le settimane del sequestro Moro, dirigeva il commissariato del quartiere Montesacro di Roma. All’inizio del giugno del 1978 fu trasferito alla Digos di Roma, dove rimase fino al gennaio 1984. Ha seguìto varie indagini, anche in contatto con organi di polizia di altri Paesi europei, relative al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro e alla strage della sua scorta.

Ad un certo punto il presidente Fioroni gli chiede: «Ha mai inteso parlare nella sua attività di passaggi di armi tra una parte della ’ndrangheta e le Br anche prima del sequestro Moro?». E Andreassi: «Ne ho sentito parlare, ma…». Fioroni: «Non se ne è mai occupato». Chiude Andreassi: «Non me ne sono mai occupato. Nirta, ma…».

La Commissione d’inchiesta va avanti su questa pista senza tentennamenti e il 22 aprile 2016 il colonnello dei Carabinieri Leonardo Pinnelli, consulente della Commissione, deposita una nota, riservata, con allegata fotografia di Antonio Nirta risalente al 1976-1977 (poco prima del rapimento e dunque confrontabile)

Il 13 maggio 2016 il colonnello Pinnelli deposita una nota, riservata, relativa ad Antonio Nirta, con allegata documentazione fotografica.

Il 17 maggio 2016 la Commissione incarica il Reparto investigazioni scientifiche dell’Arma dei carabinieri di svolgere una comparazione sulla documentazione fotografica relativa a Antonio Nirta.

Il 24 maggio 2016 il colonnello Pinnelli trasmette una nota, riservata, con allegata documentazione fotografica relativa a Antonio Nirta, che sarà trasmessa al Reparto investigazioni scientifiche dell’Arma dei carabinieri.

Infine il 13 luglio 2016 Fioroni dirà: «Grazie alla collaborazione del Ris dell’Arma dei carabinieri, possiamo affermare con ragionevole certezza che il 16 marzo del 1978 in via Fani c’era anche l’esponente della ‘ndrangheta Antonio Nirta. Il comandante del Ris, Luigi Ripani che ringrazio per la collaborazione, ha inviato in questi giorni l’esito degli accertamenti svolti su una foto di quel giorno, ritrovata nell’archivio del quotidiano romano Il Messaggero, nella quale compariva, sul muretto di via Fani, una persona molto somigliante al boss Nirta. Comparando quella foto con una del boss, gli esperti sostengono che la statura, la comparazione dei piani dei volti e le caratteristiche singole del volto mostrano una analogia sufficiente per far dire, in termini tecnici, che c’è l’assenza di elementi di netta dissomiglianza. E’ in corso una analoga perizia sul volto di un altro personaggio legato alla malavita e che comparve tra le foto segnaletiche dei possibili terroristi il giorno dopo il 16 marzo: si tratta di Antonio De Vuono, killer spietato, morto nel 1993 in un carcere italiano. Le informazioni che abbiamo fin qui acquisito – conclude Fioroni – ci consentono di dire che la relazione di fine anno sulla nostra attività sarà di grande interesse per tutti coloro che chiedono di conoscere la verità del delitto di via Fani».
Onore al merito della perseveranza di una Commissione che ha lavorato sottotraccia, senza clamore, con perseveranza e professionalità. Chi pensava (tantissimi) che il suo compito fosse inutile, è servito. E le soprese d’indagine e investigative non sono certo finite.

r.galullo@ilsole24ore.com

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2016/07/15/rapimento-di-aldo-moro-cera-il-boss-di-ndrangheta-antonio-nirta-parola-di-ris-e-commissione-dinchiesta/


Titolo: Roberto GALULLO. Al vaglio dei PM la «connection» 'ndrangheta-P2
Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2016, 11:01:21 am
Al vaglio dei PM la «connection» 'ndrangheta-P2

    –di Roberto Galullo 24 luglio 2016

Il pentito di ‘ndrangheta Nino Lo Giudice i colpi migliori li aveva lasciati in canna. Non sarà direttamente lui – che pure manderà alla storia due memoriali contraddittori, uno dei quali pieno zeppo di nomi di presunti massoni calabresi – a raccontare ai pm reggini parti del passato di Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. A raccontare dell'ex parlamentare Romeo, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e arrestato da poco con l'accusa di essere tra i vertici della cupola mafiosa di invisibili e riservati e del rampollo del “casato” De Stefano sarà infatti il 24 giugno 2011 l'altro pentito calabrese Consolato Villani che, con il pm Giuseppe Lombardo (che farà confluire l'interrogatorio nell'indagine Mammasantissima), si lascerà andare ad una rivelazione destinata a riaprire il caso della loggia P2 e degli elenchi da sempre ritenuti incompleti. «Tanto l'avvocato Paolo Romeo che l'avvocato Giorgio De Stefano facevano parte della P2 di Licio Gelli che spesso si recava a Reggio Calabria: ciò mi è stato detto da Nino Lo Giudice e Peppe Reliquato (cognato di Lo Giudice, ndr)», dirà Villani a Lombardo.

E il Gip Domenico Santoro, che firmerà l'ordinanza Mammasantissima, scriverà: «nell'integrazione depositata il 18 marzo 2016, il Pm ha fatto cenno ad ulteriori elementi di prova inerenti il legame corrente fra De Stefano Giorgio e Romeo Paolo e gli ambienti dell'eversione di destra e della massoneria. Il tutto prende le mosse da dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Consolato Villani, sulla credibilità del quale e sul livello della cui attendibilità intrinseca non resta che rinviare a quanto evidenziato, fra le altre, nella sentenza Meta, resa dal Tribunale di Reggio Calabria». Giorgio De Stefano, aggiungerà Villani, è la vera mente della cosca omonima ed è il soggetto più potente che oggi ci sia in quella zona di confine tra la ‘ndrangheta e quei centri di potere occulto che passano anche dagli ambienti massonici.

La Procura, ora, cercherà riscontri su una delle pagine più torbide della recente storia democratica del Paese e dovrà raccogliere anche sul punto citato da Villani le versioni di De Stefano e Romeo. Intanto tira fuori dal cassetto un altro interrogatorio, quello del 24 gennaio 1995 di uno storico pentito di ‘ndrangheta, Filippo Barreca, che riferirà dell'esistenza, sin dai «primi mesi dell'anno'79», di «una loggia segreta a Reggio Calabria… a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, ‘ndranghetisti». Barreca dichiarerà che la «loggia segreta di Reggio Calabria», era stata costituita inizialmente da «nel contesto di quel più ampio progetto nazionale» al quale avevano aderito «le più importanti personalità cittadine» tra cui anche «l'onorevole Paolo Romeo, l'avvocato Giorgio De Stefano… e taluni componenti della loggia appartenevano anche alla P2…la loggia, peraltro, aveva stretti rapporti con la massoneria ufficiale».

Continuando il collaboratore chiariva che: «Le competenze della loggia, come detto, si fondavano su una base eversiva. Ma, prevalentemente, la loggia mirava ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche, compresi gli appalti, della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle Istituzioni a cui capo venivano collocati persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l'aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura; l'eliminazione, anche fisica, di persone “scomode” e non soltanto in ambito locale. In sostanza si era creato un gruppo di potere che gestiva tutto l'andamento della vita pubblica e economica in sintonia con altri gruppi costituitisi in altre città' italiane. Dopo l'arresto di Freda la loggia continuò ad operare a pieno regime, sotto la direzione di Paolo De Stefano, del cugino Giorgio e dell'avvocato Paolo Romeo; questi, nella qualità di esponenti di primo piano della ‘ndrangheta in stretto collegamento con i vertici di tutte le istituzioni del capoluogo reggino. Per quanto riguarda la ‘ndrangheta fu sempre la famiglia De Stefano a ricoprire con propri affiliati ruoli di vertice all'interno della loggia».

Non resta che ricongiungere – visto che la storia è fatta di anelli che bisogna avere la volontà di collegare al posto giusto – il memoriale fatto pervenire alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria nel 1984 da Giuseppe Albanese in cui sono inseriti chiarissimi riferimenti alla Società di Santa: «Reggio Calabria-Anno1968/1969 - Con l'arresto di centinaia di mafiosi riuniti in polsi Aspromonte (Rc) retata condotta dal questore Emilio Santillo, mettendo in luce codici e leggi della onorata società: ‘ndranghtista calabrese, alcuni degli anziani volevano mantenere quel tipo di organizzazione segreta, che di segreto non c'è più niente. In quanto molti di essi avevano svelato, rilevato le modalità della organizzazione e le sue leggi ecc. ecc. nel frattempo prendeva piede di formazione operativa una società “setta” denominata “A mamma Santissima” (a Santa). La prima formazione era a capo Santo Araniti con Paolo De Stefano e Domenico Libri. Araniti, è stato il primo a dichiarare guerra a Domenico Tripodi ecc. ecc. boss incontrastato sino a quel tempo della vecchia mafia.

Moltissimi si sono allontanati dai boss di vecchio stampo, riassociandosi ai Araniti, De Stefano, Libri, e “Santa”. Si sono associati a costoro in quanto la “Santa” aveva dei programmi delittuosi più vantaggiosi, più lucrosi, più industrializzati e meglio organizzati con promesse con maggior guadagno per tutti e maggior possibilità di controllare il processo. I loro programmi uscivano dalle vecchie regole dell'Onorata Società, in quanto la “Santa” aveva dei propositi come sequestri di persona, traffici di droga, traffico di tutto ciò che portava guadagno. Inoltre lo sterminio totale di chi non si informasse dei loro programmi con la vecchia ’ndrangheta. In quel tempo erano vietate severamente tutte queste cose, la “Santa” ci ride sopra a questi delitti e reati. L'importante è che si controlli che ciò che si vuole controllare con l'affiliazione, reclutamento in qualsiasi ceto sociale o professionale. Non esiste voto l'importante è che il nuovo fratellizzato alla “Santa” è a essi facile l'interesse di tutti e della “Santa”. Questa setta negli anni 1970 aveva dei doppi fini che col tempo perse un po’ di quella finalità che erano al servizio del potere occulto (P2) aveva compiti di squadrone della morte, diretti da Giorgio De Stefano ecc».

E cosi al capo della Procura di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho e al suo sostituto Lombardo, non resta che collegare, infine, il memoriale del collaboratore di giustizia Giacomo Ubaldo Lauro dell'8 giugno 1995: «Esimi, concludo lasciando a Voi ogni altra domanda a chiarimento e di supporto a fatti e circostanze ancora non chiarite negli ultimi 30 anni del malaffare che si era istituzionalizzato in Reggio Calabria e provincia tanto da inquinare, io dico profondamente, le istituzioni ad ogni livello, coinvolgendo così tutta una generazione e pregiudicando in forma notevole ogni sforzo attuale che la magistratura reggina - palermitana e napoletana sta compiendo dagli anni ‘92 fino ad oggi. Ecco che spuntano fuori omicidi eccellenti come on. Lodovico Ligato (1989) - Giudice Scopelliti ‘91, on. Lima ‘92, giudice Falcone e giudice Borsellino. Questa è la realtà. Chi dice che si tratta di un “qui pro quo”, gioca alla restaurazione e fa il gioco di chi diceva che bisogna cambiare qualcosa affinché tutto resti eguale. Su questo tema oggi si gioca il futuro della democrazia italiana». E a proposito di quest'ultima affermazione di Giacomo Ubaldo Lauro, la Procura di Reggio Calabria lo ha capito.

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Titolo: GALULLO. Io corrompo, tu rubi, egli «escort»: ecco come cambia la corruzione.
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2016, 06:30:03 pm
Non solo favori e mazzette
Io corrompo, tu rubi, egli «escort»: ecco come cambia la corruzione

    –di Roberto Galullo 28 ottobre 2016

Deve essere perché la carne è debole e il portafoglio è gonfio se il sostantivo corruzione ha un sinonimo che, da neppure 10 anni, ha fatto irruzione nella vita sociale e politica. Già, perché se ancora vanno alla grande mazzette e bustarelle, viaggi e regali, assunzioni e promozioni, non c'è niente che vada più di moda di una bella escort – in lingua inglese, letteralmente, accompagnatrice, in italiano qualcosa di più – per piegare politici, dirigenti e funzionari pubblici o privati e persino giudici di gara a fini diversi da quelli per i quali, in teoria, dovrebbero prodigarsi.

Bene pubblico, trasparenza, imparzialità e terzietà vanno a farsi benedire quando c'è di mezzo una bella figliola pronta a concedere le proprie grazie. Il conto, tanto, in un modo o nell'altro lo pagano i cittadini, mica i beneficiari.
L'ultimo esempio arriva dall'indagine Arka di Noè della Procura di Genova sulla presunta corruzione nella realizzazione di alcune opere del cosiddetto Terzo Valico ferroviario che ha portato all'arresto anche di Giandomenico Monorchio, imprenditore 46enne figlio dell'ex Ragioniere di Stato Andrea e all'indagine su Giuseppe Lunardi, figlio dell'ex ministro dei Trasporti e delle infrastrutture Pietro. Tutti innocenti fino a eventuale sentenza di colpevolezza passata in giudicato.

Sembra che le serate con le escort – come merce di scambio per la corruzione – per alcuni degli indagati andassero più forte del panettone a Natale. Talvolta gli incontri riuscivano, talaltra fallivano per impossibilità di trovare una figliola all'altezza della prestazione. Tanto – è il caso di dire – paga la ditta. Interessata, in questo caso, a ottenere i lavori corrompendo, secondo l'accusa, alcuni funzionari di un Consorzio e trovando anche il tempo di disquisire sul colore della pelle: «Senti io conosco due amiche mie brasiliane nere, ti piacciono brasiliane nere?». La risposta negativa – «Mi fanno schifo» – darà il tempo necessario per cambiare carnagione.

Da Genova a Milano il viaggio è breve. Con o senza l'alta velocità ferroviaria. E così, nell'indagine Underground del 3 ottobre della Procura meneghina – costata il carcere a 11 persone e i domiciliari ad altri tre, accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di corruzione diretta all'acquisizione di subappalti di opere pubbliche realizzate in Lombardia, reati di natura fiscale, per presunta utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e indebite compensazioni e ancora truffa ai danni dello Stato, bancarotta fraudolenta, intestazione fittizia di beni e complessi societari e illecita concorrenza realizzata attraverso minaccia e violenza – si scopre che c'è chi, per accumulare appalti e lavori, è pronto a pagare in escort. La tariffa non sarebbe neppure così cara: 500 euro. Non è dato sapere, però, se all'ora o “a cottimo”.
Se l'ultimo mese ha dato il peggio di se è forse perché il fenomeno è in continua evoluzione e rapida crescita. Senza tener conto delle indagini di alcuni anni fa a Roma e Milano sulle vere o presunte escort che giravano intorno a Servitori dello Stato, dirigenti pubblici, imprenditori e capi di governo, la svolta era già apparsa chiara nelle indagini tra il 2013 e il 2015 nel corso delle quali, tra le altre, le Procure di Palermo, Torino e ancora Genova e Milano (forse per una particolare predisposizione ai piaceri della vita che si respira in Liguria e Lombardia) hanno avuto il loro bel daffare per rincorrere la scia di profumo rilasciato dalle accompagnatrici nelle stanze di politici più o meno noti e burocrati più o meno grigi.

In questo scenario ha le sue ragioni da spendere il criminologo e neuropsichiatria Francesco Bruno, docente di Criminologia e di psicopatologia forense all'università di Roma La Sapienza. Di fronte all'ormai massiccia regalia di prostitute di alto bordo a uomini d'affari e politici, già nel 2009 dichiarava che nel tempo «non c'è stato più bisogno della semplice meretrice come era ad esempio all'epoca delle case chiuse, ma si è iniziata ad avvertire l'esigenza di una donna che accompagnasse l'uomo d'affari nei viaggi. E dall'altro lato uomini molto timidi o al contrario assai spregiudicati, le hanno utilizzate per i loro interessi». Insomma, la società dell'immagine rinnova la sua immagine. Meglio se spregiudicata e di bella presenza.

Certo che, se questo è vero, appare difficile mandar giù anche – come come dire – le devianze. L'indagine Rent della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, questa settimana ha infatti portato alla luce un episodio che – se non fosse stato messo nero su bianco nel decreto di sequestro d'urgenza firmato dai pm della Dda Antonio De Bernardo e Luca Miceli – sarebbe degno di uno sceneggiatore cinematografico. Per carità, poca cosa rispetto a un'operazione che svela associazione di tipo mafioso, riciclaggio, estorsione, detenzione illecita di armi da fuoco, con l'aggravante del metodo mafioso e – ancora una volta – l'ombra della ‘ndrangheta sulle grandi opere e le grandi infrastrutture del nord. A partire da Expo.

Uno degli indagati in Rent è appassionato di cani tanto da avere nel Bergamasco un allevamento di esemplari addestrati per la difesa e l'attacco. Secondo l'accusa avrebbe reclutato, per farla prostituire, una donna da lui stesso stipendiata grazie ad un rapporto di lavoro simulato con la società di cui era proprietario occulto. L'indagato, nel giugno 2015, l'avrebbe indotta a concedersi ad un giudice della gara canina “World Dog” tenuta a Milano 2015, così agevolando, favorendo e sfruttando il meretricio in cambio del vantaggio (anche economico) della vittoria di un proprio cane nella classifica finale della gara. Con l'aggravante di aver commesso il fatto per agevolare l'attività della cosca Coluccio di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria).
Ah, come erano lontani i tempi della Prima Repubblica quando bastava solo scendere in pista e dimenarsi sulle note della disco music per richiamare a frotte ragazze “affamate di fama”.

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Titolo: Roberto GALULLO Colpo ai narcos calabro-colombiani cocaina in fumo 1,6 miliardi.
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 26, 2017, 12:39:23 pm

Operazione Dda e Gdf
Colpo ai narcos calabro-colombiani: cocaina in fumo per 1,6 miliardi

   Di Roberto Galullo 24 gennaio 2017

Questa volta il colpo lo sentiranno davvero: 1,6 miliardi sfumati per le cosche calabresi e per tutta la catena a loro legata che, dall'importazione allo spaccio sulle piazze delle città, traffica cocaina.
Una martellata sui forzieri della ‘ndrangheta messa a segno con l'operazione Stammer della Dda di Catanzaro (con a capo Nicola Gratteri, l'aggiunto Giovanni Bombardieri e il sostituto Camillo Falvo) che ha delegato le indagini al Nucleo di polizia tributaria/Gico della Guardia di Finanza di Catanzaro (alla testa il tenente colonnello Michele Di Nunno).

Narcos calabro-colombiani

Quattrocento uomini stanno procedendo al fermo di 54 soggetti tra Calabria, Sicilia, Campania, Lazio, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia e all'esecuzione di numerose perquisizioni, oltre che al sequestro di beni per otto milioni.
L'organizzazione mafiosa aveva pianificato l'importazione di 8 tonnellate di cocaina dal Sud America, sequestrate in Colombia. Il carico era già stato stoccato e nascosto in una piantagione di banane non distante dal porto di Turbo, mentre nel porto di Livorno le Fiamme Gialle hanno sequestrato il cosiddetto “carico di prova”: 63 chilogrammi di cocaina pura, occultata all'interno di cartoni di banane.

    Valore di tre miliardi di euro 30 giugno 2016

Undici tonnellate di coca sequestrate fra la Colombia e la Locride

Le indagini hanno consentito di disarticolare un'organizzazione estremamente complessa, composta da diversi sodalizi criminali, riconducibili alla ‘ndrina Fiarè di San Gregorio d'Ippona, alla ‘ndrina Pititto-Prostamo-Iannello di Mileto e al gruppo egemone su San Calogero, tutte organizzazioni satellite rispetto alla cosca Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), con la sostanziale partecipazione delle ‘ndrine della Piana di Gioia Tauro (Reggio Calabria) e della provincia di Crotone.

Nel corso dell'indagine è stato ricostruito un progetto, poi non realizzato, di trasporto di ingenti quantitativi di cocaina utilizzando come scalo d'arrivo l'aeroporto di Lamezia Terme, oltre che l'impiego di motonavi con all'interno spazi opportunamente modificati per accogliere il carico, da svuotare una volta arrivato a destinazione mediante l'impiego di sommozzatori.

Operazione Due mari: sequestrate 11 tonnellate di cocaina

L'operazione antidroga che si è avvalsa della collaborazione della National crime agency inglese (Nca, oggi presente in conferenza stampa per sottolineare l'importanza delle attività di cooperazione internazionale), della Polizia colombiana e della Direzione centrale servizi antidroga (Dcsa) – ha dimostrato, ancora una volta, come i trafficanti calabresi ricevevano disponibilità liquide anche da soggetti insospettabili, incensurati, personaggi celati dietro una facciata di liceità, spesso legata ad attività commerciali che vanno dalla ristorazione alle strutture ricettive turistico-alberghiere, alle concessionarie di automobili, caseifici, bar e tabacchi, con partecipazioni anche in cantieri navali e aziende agricole, che non disdegnavano di fare affari con le potenti ‘ndrine vibonesi, tramite le “puntate” per l'acquisto all'ingrosso della cocaina.

    Le Intercettazioni 23 gennaio 2017

La sete d’affari della ‘ndrangheta su Roma e Milano

Il denaro destinato ai “cartelli” veniva consegnato dai calabresi direttamente a cittadini colombiani e libanesi da anni residenti in Italia, ai quali veniva affidato il recapito in Sudamerica. L'inchiesta ha dunque consentito di identificare tutti i soggetti coinvolti, ognuno con un ruolo ben preciso: dai finanziatori ai mediatori, dai traduttori a coloro che avevano il compito di ospitare gli emissari dei narcos colombiani, più volte giunti in Italia e ospitati per lunghi periodi nel vibonese.

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Titolo: Roberto GALULLO. Il «kit di assistenza» delle mafie: professionisti e mani ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2017, 08:50:11 pm

Nuovo rapporto Dia
Il «kit di assistenza» delle mafie: professionisti e mani sulla Pa

    –di Roberto Galullo 27 gennaio 2017

Sinergie professionali cementate dalla corruzione: ecco la strategia delle mafie – non certo da oggi – che viene messa nero su bianco dalla Direzione investigativa antimafia (Dia) che ha appena spedito al Parlamento la relazione sul primo semestre 2016. È proprio andando oltre l'arco temporale che la Direzione guidata dal generale Nunzio Antonio Ferla disegna le linee marcatamente evolutive del fenomeno mafioso.

Svelare e scardinare queste figure, si legge nella relazione, significa centrare gli obiettivi della moderna criminalità organizzata. Il problema, semmai, si pone rispetto ai profili di responsabilità dei singoli e alla qualificazione delle condotte, non sempre esattamente inquadrabili nell'associazione di stampo mafioso.

    ANTIMAFIA 11 gennaio 2017

La Dia sferra un altro colpo all’economia criminale in Toscana

Ce n'è per tutti e gli esempi che fa la Dia non lasciano dubbi sulla strada che le mafie hanno sempre percorso e che ora – appunto – pongono più che mai un problema anche alla politica e al legislatore. Il concorso esterno, in altre parole, sta stretto ed è comunque superato dagli eventi.

Cosa nostra può vantare su una vasta area grigia dentro i settori cruciali dell'economia nazionale, come l'edilizia (pubblica e privata), i trasporti, la distribuzione commerciale, il settore agroalimentare e quello assicurativo, tutti espressione di una managerialità mafiosa che – scrive la Dia – interessata a recuperare margini di competitività e ad abbattere i costi di produzione, diventa lo strumento per ampliare, apparentemente a norma di legge, il paniere degli investimenti dei clan.
La ‘ndrangheta non fa accezione. Anzi. È la mafia più duttile e più evoluta, che vive sempre più di commistioni tra le professionalità maturate nel nord del Paese, affiliati di nuova generazione e professionisti attratti consapevolmente dalle cosche. Un puzzle addirittura parziale perché per completarlo bisogna aggiungere anche le deviazioni della politica e dei servitori infedeli dello Stato.

    I 25 anni della Dia 23 novembre 2016

Oltre 29 miliardi sottratti ai portafogli mafiosi

La camorra – per quanto polverizzata – segue la scia. Significative, ricorda la Dia, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, che avrebbe illustrato come chi vince un appalto, contemporaneamente acquisti dal clan una sorta di “pacchetto di assistenza”, che comprende la difesa da richieste estorsive da parte di altre famiglie camorriste e l'intervento nei confronti di funzionari e amministratori comunali nel caso dovessero tentare di rallentare, anche a seguito di legittimi controlli, l'esecuzione dei lavori. Un esempio, solo un esempio. Tra i tanti. In questa acclarata dimensione evolutiva sfugge ancora la Sacra corona unita, ancorata a dinamiche regionali e dipendente in larga parte dal matrimonio con le mafie più forti. Però le nuove leve hanno voglia di affrancarsi dai vecchi boss e, specie in provincia di Taranto, la volontà è quella di rinsaldare l'appartenenza al clan attraverso liturgie ‘ndranghetiste. Se così fosse, nel medio periodo anche questa mafia capirebbe ancor meglio che, grazie a quel “pacchetto di assistenza”, la strada verso il crimine è molto più in discesa.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-01-27/il-kit-assistenza-mafie-professionisti-e-mani-pa-090654.shtml?uuid=AE28u5I


Titolo: Roberto GALULLO. I palazzi del potere nelle mire di Romeo
Inserito da: Arlecchino - Marzo 02, 2017, 12:42:41 pm

L’INCHIESTA A ROMA
La Gdf a caccia dei fondi neri di Romeo
  di Roberto Galullo 02 marzo 2017

Il lavoro del Nucleo di polizia tributaria della Gdf di Napoli, agli ordini del colonnello Giovanni Salerno, per capire se e dove sia nascosta la provvista dei fondi neri di Alfredo Romeo, utilizzata per corrompere, è solo all'inizio.
Lo si capisce scorrendo le ultime tre pagine dell'ordinanza firmata dal Gip di Roma Gaspare Sturzo, che riassume in sintesi quella che lo stesso giudice dell'indagine preliminare definisce «la dimensione dell'impegno corruttivo» dell'imprenditore napoletano arrestato ieri.

    L’inchiesta a Roma 1 marzo 2017

Consip, arrestato per corruzione Alfredo Romeo
Se il solo Marco Gasparri, dirigente della Consip, secondo l'accusa avallata dal Gip, avrebbe ricevuto in più occasioni circa 100mila euro tra il 2014 e il 2016 per farsi corrompere, oltre alla promessa di un bonus - vale a dire la promessa di diventare capo di una struttura presso un hotel inglese di Romeo per gestire la partecipazione a gare d'appalto - certamente c'è da riflettere, scrive il Gip, su quale sia l'importo stanziato per le altre corruttele alle quali Gasparri, Romeo e l'ex parlamentare Italo Bocchino, direttamente o indirettamente, hanno fatto riferimento nelle loro conversazioni intercettate dagli investigatori. Il Gip - sposando le tesi della Procura - si chiede dunque quali sono e dove sono allocati i fondi neri di Romeo atti alla corruzione e se e in che misura provengano da false fatturazioni all'interno della gestione delle società alberghiere dell'imprenditore napoletano.

Il Gip Sturzo sostiene con convinzione due cose: che Romeo abbia utilizzato i suoi hotel per fornire vantaggi gratuiti e che il “nero” proveniente dagli alberghi è la fonte utilizzata da Romeo per corrompere Gasparri. Quest'ultimo, nel verbale di interrogatorio ai pm reso il 16 dicembre 2016 dirà testualmente: «…poi mi versava due tranches a distanza di due settimane. In proposito preciso che la provvista di tali versamenti, per quanto dettomi dallo stesso Romeo, proveniva dal nero dell'Albergo Romeo di Napoli, nel senso che lo stesso Alfredo Romeo nel darmi i soldi mi diceva che non poteva programmare a priori e determinare tali dazioni dal momento che dipendeva dal nero che riusciva a fare dall'albergo».

    “Secondo il Gip Sturzo, il “nero” proveniente dagli alberghi è la fonte utilizzata da Romeo per corrompere Gasparri”

Romeo Hotel Napoli (come si legge sul sito) è un cinque stelle lusso, design eclettico e architettura contemporanea, progettato dallo studio giapponese Kenzo Tange & associates, impreziosito da oggetti di antiquariato e installazioni d'arte.

    Italia 19 febbraio 2017

I palazzi del potere nelle mire di Romeo
È un edificio del secolo scorso, sede storica della Flotta Lauro, ora ultramoderno, dalla facciata ondulata e interamente di cristallo, in cui si specchia il Golfo di Napoli, con le sagome del Vesuvio e Capri sulla linea dell'orizzonte. Fa capo a Romeo Alberghi srl, appartenente al “Gruppo Romeo partecipazioni - Romeo”, iscritto alla Camera di commercio di Napoli 31 ottobre 2010, con un capitale sociale di 376.200 euro completamente sottoscritto e versato. A fine 2015 (ultimo bilancio noto) ha fatturato 5.137.770 euro e ha registrato una perdita di 1.914.988 euro. Al 30 settembre 2016 contava 46 dipendenti. Non resta che attendere - oltre agli sviluppi investigativi - le repliche difensive di Romeo.

r.galullo@ilsole24ore.com
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Titolo: R. GALULLO. Sequestri in 5 società Ndrangheta, nel mirino lavori ferroviari in..
Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2017, 05:20:57 pm

Sequestri in 5 società

’Ndrangheta, nel mirino lavori ferroviari in Liguria


    –di Roberto Galullo 04 aprile 2017

Il raddoppio della linea ferroviaria in Liguria tra Savona e Imperia era caduto nelle mani sbagliate.
Tra le società appena sequestrate su imput della Dda di Catanzaro figura la “Costruzioni Generali s.r.l.”, affidataria, in subappalto, di lavori per la realizzazione del “raddoppio” della linea ferroviaria ligure Andora (Sv) – San Lorenzo (Im), della quale è titolare l'imprenditore catanzarese Raffaele Dornio (24 anni) il cui padre, Gaetano anch'egli imprenditore e destinatario del provvedimento di sequestro, risulta aver intrattenuto rapporti economici sin dal 2009/2010 con il collaboratore di giustizia Gennaro Pulice.

Con riferimento alla “Costruzioni Generali s.r.l.” la Dda ha accertato che anche se formalmente intestata a Dornio, era di fatto riconducibile a Pulice tanto che in determinate circostanze, quest'ultimo ne rivendicava gli utili in relazione a lavori effettuati, a fronte di corrispondenti pagamenti per salari e stipendi ai dipendenti o come compensazione di tasse pagate per l'attività d'impresa.

Questa attività è il frutto del provvedimento emesso dal Gip di Catanzaro con il quale è stato disposto il sequestro preventivo dei beni riconducibili al collaboratore di giustizia Pulice, alla moglie e ad alcuni imprenditori operanti nel campo delle costruzioni, considerati suoi prestanome.

Le attività investigative, coordinate dalla locale Procura Distrettuale Antimafia secondo le direttive del Procuratore Capo Nicola Gratteri, del procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri e del sostituto procuratore Elio Romano, sono state svolte dal personale del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato – Unità Indagini Patrimoniali e dalla Squadra Mobile di Catanzaro, collaborata dal Commissariato di Lamezia Terme.

Gennaro Pulice esponente apicale delle cosche confederate “Iannazzo e Cannizzaro Daponte”, autore di diversi omicidi, il primo dei quali commessi quando era ancora minorenne, è un collaboratore di eccezionale importanza poiché oltre ad aver riferito in ordine alla propria ed altrui partecipazione a tali efferati crimini è emerso quale affermato uomo d'affari ed imprenditore di successo, dedito, dopo una vertiginosa scalata da ruoli di pura manovalanza a posizioni di rilevante prestigio criminale e dopo il conseguimento di due lauree in giurisprudenza e scienze giuridiche, ad investimenti di elevato profilo ed operazioni finanziarie spregiudicate.

Le indagini hanno permesso di accertare che Pulice, nel periodo antecedente il suo arresto, nel maggio 2015 nell'ambito dell'operazione “Andromeda”, realizzata dalla Polizia di Stato, aveva posto in essere, con il concorso di imprenditori compiacenti una serie di interposizioni fittizie in relazione alla titolarità delle proprie attività economiche con lo scopo di evitare eventuali misure di sequestro del proprio patrimonio come conseguenza della possibile applicazione di misure di prevenzione nei suoi confronti.

La ricostruzione della genesi e degli sviluppi delle ramificazioni affaristico-imprenditoriali di Pulice sul territorio nazionale, ha messo in luce la sua capacità di interagire con imprenditori le cui attività produttive vivevano periodi di difficoltà economica che venivano superate grazie all'immissione dei capitali nella disponibilità di Pulice, cosicché divenivano, di fatto “prestanomi” di quest'ultimo.

Nel corso della operazione, sono state sottoposte a sequestro la totalità delle quote e l'intero patrimonio aziendale di 5 società e di 1 impresa individuale, operanti prevalentemente nel settore delle costruzioni, 20 beni immobili, alcuni veicoli e diversi rapporti bancari, per un valore complessivo di circa 4 milioni di euro.

Nei confronti dei soggetti colpiti dal sequestro, la Procura della Repubblica di Catanzaro, ha contestato il delitto di trasferimento fraudolento di valori aggravato dalle modalità mafiose.

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Titolo: Roberto GALULLO. Strage di Capaci, errori e veleni affossano la rivolta delle...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 22, 2017, 11:47:15 am
25 ANNI DOPO

Strage di Capaci, errori e veleni affossano la rivolta delle coscienze

–di Roberto Galullo 18 maggio 2017

Il 3 aprile 2017 un lungo lancio dell'agenzia di stampa Ansa batte questa notizia: «Si è concluso con 11 assoluzioni e cinque condanne il processo, celebrato in abbreviato dal gup Omar Modica, nei confronti di capimafia, gregari ed estortori dei clan mafiosi di Bagheria, Villabate, Ficarazzi, Casteldaccia e Altavilla Milicia. Molte le assoluzioni eccellenti tra cui quelle dei boss Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto Onofrio Morreale. Il processo nasce da un'inchiesta della Dda di Palermo che, nel 2014, portò al fermo di 31 persone accusate di mafia, estorsione e favoreggiamento. I pm, nel corso della requisitoria, avevano chiesto condanne per 150 anni di carcere.

Tano Grasso: «Se tutto è antimafia, niente è antimafia»
Francesco Centineo e Silvestro Girgenti sono stati condannati a 6 anni e 8 mesi, Giacinto Di Salvo a 9 anni, Francesco Mineo a 7 anni e un mese e Pietro Liga a 6 anni 8 mesi. Tutti dovranno risarcire i danni riconosciuti, come provvisionale immediatamente esecutiva, alle parti civili costituite: i Comuni di Santa Flavia, Ficarazzi, Altavilla e Bagheria, alle vittime del racket e all'associazione antiracket Libero Futuro. L'indagine, alla quale hanno contribuito diverse vittime del racket, svelò che a pagare il pizzo al clan di Bagheria era anche una casa di riposo. Nella lista degli estortori c'erano anche agenzie di scommesse, autofficine, commercianti di pesce e 28 imprenditori edili. Gli assolti sono Salvatore Lauricella, Giovanni Mezzatesta, Umberto Guagliardo, Onofrio Morreale, Giacinto Tutino, Andrea Carbone, Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto, Giovanni Trapani, Gioacchino Mineo e Francesco Lombardo».
Ma c'è un ulteriore elemento in questa vicenda che il lancio di agenzia svela. «I costi del procedimento penale – si legge infatti – dovranno essere pagati dai figli dell'uomo che ha denunciato il pizzo e dalle associazioni che si sono costituite parte civile. Infatti l'imprenditore Giuseppe Toia aveva denunciato i presunti taglieggiatori. Il gup ha assolto il presunto estorsore. E ha condannato gli eredi dell'imprenditore a pagare le spese sostenute per il processo dall'imputato. Ai costi del procedimento dovranno partecipare anche le associazioni antiracket, pure costituitesi parte civile, e il Comune di Ficarazzi».

Un precedente che fa scuola
Tra le parti civili c'erano anche Addiopizzo, Sos Impresa Palermo, Confesercenti Palermo, la Fai (la Federazione delle associazioni antiracket e antiusura), l'associazione antiracket e antiusura “Coordinamento delle vittime della estorsione, dell'usura e della mafia”, Solidaria, Confindustria Palermo, Confcommercio, Libero Futuro, associazione antimafia e antiracket Libero Grassi, associazione antimafie e antiracket Paolo Borsellino e il Centro studio e iniziative culturali Pio La Torre.
Nei giorni seguenti tutti i giornali daranno conto di questa notizia che è destinata ad aprire, comunque, un vulnus nella lotta alla mafia. «Siamo molto amareggiati» dirà a caldo Tommaso Toia, il figlio dell'imprenditore. «Impugneremo e faremo valutare alla corte d'Appello la correttezza di questa decisione. Aspettiamo il deposito delle motivazioni ma passeranno almeno 5 o sei mesi. Questa sentenza è un errore del giudice Il problema, però, è di fondo. E' una vergogna che la lotta alla mafia diventi un mercimonio», dice al sole24ore.com Fausto Maria Amato, l'avvocato di Solidaria, Sos Impresa e Coordinamento delle vittime dell'estorsione, dell'usura, della mafia. «Dal punto di vista tecnico il giudice ha applicato i criteri validi nel processo civile, cioè quello della soccombenza – affermerà Giovanni Castronovo, legale di Salvatore Lauricella, tra gli assolti – ma dal punto di vista giurisprudenziale si tratta di una decisione inedita. Negli ultimi anni non si riscontrano decisioni di analogo tenore».
La decisione del giudice Modica arriva dopo la presa di posizione di altri giudici di cassare alcune parti civili nei processi di estorsione, i quali hanno sottolineato come non sia sufficiente uno «scopo sociale generico e astratto» ma senza ombra di dubbio questa sentenza si impone come un precedente per chi, assolto in un processo di mafia, vorrà rivalersi sulle parti civili.
Per il momento Addipizzo – una delle associazioni ritenute da molti tra le più importanti in Italia sul fronte antimafia – non molla ma raddoppia. E lo fa nonostante il fatto che questa storica associazione sia anch'essa attraversata da veleni e tentativi di delegittimazioni la cui portata è tutta da decifrare. Sembra proprio che, 25 anni dopo la stagione delle lenzuola bianche appese ai balconi di Palermo, niente e nessuno sul fronte della cosiddetta antimafia riesca ad uscire indenne da veleni, delegittimazioni e “mascariate”. Al netto dei tanti errori, da tutti, compiuti.
Il 3 maggio, a meno di un anno dalle indagini e dagli arresti scaturiti dalle denunce di una decina di commercianti di origine straniera, accompagnati già in fase di collaborazione da Addiopizzo, si è aperto il processo che vede imputati nove soggetti accusati di estorsione, rapina, violenza privata e minacce. Una storia senza precedenti, perché per la prima volta il fenomeno della denuncia collettiva vede coinvolti un cospicuo numero di migranti, che da tempo vive e lavora a Palermo e che si era rivolto all'associazione a seguito di una forte recrudescenza di violenze subite sul territorio.
L'importante sinergia tra alcuni commercianti bengalesi, Addiopizzo, la Squadra Mobile e la Procura di Palermo, ha permesso in tempi brevi di fermare diverse persone, alcune delle quali sono state poi scarcerate, che avevano seminato terrore nel centro storico di Palermo.
Nel processo, con le vittime e gli avvocati dell'associazione – Salvatore Caradonna, Maurizio Gemelli e Serena Romano - Addiopizzo si è costituita parte civile visto il lavoro svolto sul territorio nell'ambito dell'operazione Maqueda.
Il clima sociale è diverso da quello che il 26 maggio 1992, con un frenetico tam tam di telefonate, portò la Palermo onesta ad esporre sui balconi lenzuoli bianchi contagiando, con quella forma di pacifica protesta contro Cosa nostra, la Sicilia e l'Italia intera. Era l'indignazione appesa ai balconi contrapposta alla morte di Cosa nostra stesa sull'autostrada in quel di Capaci.
Il clima è cambiato e la colpa è anche di quella parte marcia e deviata dello Stato che ha ricominciato a soffiare i suoi venti di delegittimazione e isolamento sulla parte sana delle Istituzioni e della società, preludio necessario alle morti dell'anima (ancor prima che fisiche).
Il vento è cambiato e negli ultimi anni sono cresciuti anche i segnali di insofferenza verso la vita quotidiana dei magistrati che vivono blindati e che, per questo motivo, portano a qualche inevitabile sacrificio collettivo.

IL GRUPPO
Si riaffaccia la tolleranza a metà
Il 3 maggio 2014 il pm palermitano Maurizio Agnello ricevette la lettera di un condomino, infilata nella sua cassetta postale, che si lamentava (a nome dei condomini tutti) delle misure di prevenzione prese a tutela della vita del magistrato, invitato a «comprare una casa altrove, magari nello stesso palazzo di qualche suo collega così da evitare un doppio disagio per tanta gente per bene…. Perché noi condomini dobbiamo avere limitazioni di posteggio proprio di fronte al portone e subire ogni giorno l'assalto dei vigili?».
Già, perché difendere la vita di un Servitore dello Stato? Se proprio non se ne può fare a meno, che si acquisti a Palermo un lotto edificabile per i soli magistrati antimafia e che lo si chiami, magari, “il ghetto della Giustizia” con sopra un bell’arco in metallo con su scritto: “La mafia rende liberi”.
Piccoli gesti che conducono alla delegittimazione dei Servitori dello Stato ancor prima che alla morte, come accadde a Giovanni Falcone che il 14 aprile 1985 lesse sul “Giornale di Sicilia” le lamentele di una residente in via Notarbartolo (dove abitava), che non sopportava le sirene che fungevano da colonna sonora all'imminente morte del magistrato: «Mi rivolgo al giornale, per chiedere perché non si costruiscono per questi “egregi signori” delle villette alla periferia della città…Sono una onesta cittadina che paga regolarmente le tasse… Vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene». Già, il problema di Palermo, come diceva Johnny Stecchino, era e forse resta ancora il “ciaffico”.

La memoria nei più giovani
Che il vento è cambiato lo capisci anche dalle reazioni dei più giovani, degli studenti, che pure partecipano attivamente in ogni ordine e grado, alle lezioni di legalità e che vivono con forza le testimonianze dei familiari delle vittime di Cosa nostra. Il 28 aprile, come ogni anno, il Centro studi Pio La Torre, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, ha reso noto i risultati di una ricerca tra 3.061 ragazzi che partecipano al Progetto educativo antimafia promosso dal Centro stesso, in occasione del 35° anniversario dell'uccisione di La Torre e Rosario Di Salvo.
La sfiducia degli intervistati nei confronti della classe politica è elevata ma a far notizia è che il 47.27% ritiene che la mafia sia ancora più forte dello Stato e solo il 29.80% considera possibile sconfiggerla definitivamente. «Non c'è differenza significativa tra i giovani del Centro-Nord e del Sud sulla percezione della corruzione delle classi dirigenti locali – sottolinea Vito Lo Monaco, presidente del Centro Pio La Torre – . La mafia è forte perché si infiltra nello Stato che è più forte delle mafie solo per un 13% dei giovani. Ma la stragrande maggioranza dei giovani, oltre il 90%, ripudia la mafia e ritiene che sia più forte il rapporto tra mafia e politica. I giovani non si rivolgeranno a un mafioso o a un politico per un lavoro, assimilando l'uno all'altro».
Capisci, però, che è ancora sulla formazione che bisogna puntare perché, come sosteneva Gesualdo Bufalino, la mafia non si sconfigge con l'Esercito ma con un esercito di insegnanti. Sul tema della fiducia, infatti, nella ricerca del Centro Pio La Torre, svetta quella sugli insegnanti (83%). Seguono magistrati, forze dell'ordine, giornalisti, sindacalisti e per ultimi (sfiducia sopra l'80%) i politici locali e nazionali.

La libertà di pensiero...
Che il clima è cambiato – al netto del processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra – lo capisci anche da come si rafforzano concetti rispettabili e legittimi ma proprio per questo opinabili. Concetti e opinioni che la Commissione parlamentare sta registrando nell'ambito della sua inchiesta sulla degenerazione della cosiddetta “antimafia” e delle sue finte o presunte bandiere, ultimamente ammainate con grave scorno della civiltà e della democrazia. Il 1° dicembre 2016 è stato ascoltato Salvatore Lupo, professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università di Palermo. Il professore, con il suo collega giurista Giovanni Fiandaca, ha scritto il libro “La mafia non ha vinto – Il labirinto della trattativa” (Laterza).
In Commissione antimafia Lupo ha affermato che «molti di noi, forse tutti, abbiano usato il termine “guerra alla mafia”, ma trattasi evidentemente di un termine, come quasi sempre il termine guerra, fuori contesto, perché uno Stato non può fare guerra ai propri cittadini, bisogna essere Stalin o Hitler per fare guerra ai propri cittadini, lo Stato deve applicare le leggi. Lo stato di guerra per fortuna non è stato dichiarato e dunque il termine guerra non è opportuno, seppur giustificato da quelle circostanze, perché io faccio lo storico, quindi sono spesso sostanzialista, e gli eventi che urgono gli esseri umani e le nazioni spesso non possono essere frenati con un'opzione di principio, però la moltiplicazione di istituzioni, di magistrature speciali, di polizie speciali e di legislazioni speciali basate su una logica di guerra vera o presunta sarebbe tantomeno giustificata in quanto costoro si definissero società civile?».
Fin qui il ragionamento – opinabile e rispettabile – è di natura più filosofica che storica. Filosofia per filosofia si potrebbe obiettare che le guerre non dichiarate ufficialmente dallo Stato sono spesso quelle più lunghe e impegnative di quelle dichiarate con carte da bollo (gli anni bui del terrorismo, ad esempio, che sono tornati d'attualità con il pericolo di matrice islamista). Filosofia per filosofia si potrebbe obiettare che se la parola guerra non piace (le parole sono spesso convertibili in convenzioni dialettiche) si può usare la parola contrasto o contrapposizione, financo “muro contro muro”.
«Il punto è che la guerra, se c'è stata – ha affermato lo storico Lupo – è finita. La guerra è finita non perché nel nostro Paese non ci sia più la criminalità organizzata, magari, non perché la criminalità organizzata non abbia ancora il suo livello di arroganza e non riesca a imporsi, e neanche perché siano venuti a mancare i composti della mafia, ovvero il contatto tra criminalità, cattiva politica e cattivo business, elementi che ci sono ancora. La guerra non c'è perché quei caratteri non ci sono più: non ci sono i morti per le strade, il numero dei morti ammazzati in questo Paese è drasticamente diminuito, il Mezzogiorno sta nella media nazionale, in Sicilia si ammazza meno gente che in Lombardia, quindi quell'elemento della conflittualità inframafiosa non esiste più, non con questa forza, non con questo carattere fuori controllo. I delitti eccellenti, strada terribile percorsa da cosa nostra, non si vedono più, magistrati uccisi con esplosioni non ne abbiamo visti e Dio voglia che non ne vedremo, perché chiaramente non posso prevedere il futuro, però non ci sono elementi che indichino che si vada verso situazioni di questo genere, anzi ci sono elementi che indicano che non si va verso situazioni di questo genere, perché cosa nostra siciliana e cosa nostra americana, la sua gemellina, sono state pesantemente colpite dalle autorità, sollecitate da questo moto di opinione pubblica e di società civile».

SENZA VITA
Omicidi volontari commessi in Italia in ambito criminalità organizzata. (Fonte: D.C.P.C. - dati operativi)

...e la libertà di risposta
Le diverse opinioni sono il sale della democrazia e dunque i deputati Claudio Fava (Mdp) e Francesco Molinari (Gruppo Misto) provarono a ribattere. Fava disse: «Lei ha detto che la guerra è finita, sono d'accordo con lei: sul piano militare la guerra è finita, anche se a volte il fatto che non si ammazzi manifesta una capacità di controllo del territorio straordinaria, c'erano paesi siciliani in cui la mafia governava e non volava uno schiaffo, ma il punto è che la strategia terrorista ed eversiva dei corleonesi è stata sconfitta. Mi chiedo e le chiedo se la fattispecie mafiosa di questo tempo non rischi di essere molto più insidiosa, perché la modernità della mafia oggi mette in campo una categoria che un tempo non c'era, che è quella del consenso. Non credo che Riina o i suoi amici lavorassero sul consenso: lavoravano sull'intimidazione, sulla paura e sull'omertà. Se lei avesse parlato come noi con i procuratori della Repubblica di Torino, di Milano e delle procure emiliane, avrebbe saputo che la grande preoccupazione è il modo in cui attorno alla capacità della mafia di farsi impresa, di essere sostegno economico, garanzia nella corsa agli appalti, punto di riferimento sul territorio, si sta creando consenso, al punto che non c'è stato un solo imprenditore che abbia collaborato con l'inchiesta Infinito. I magistrati di Milano che hanno lavorato anche in Sicilia dicevano che è una contraddizione abbastanza ingombrante, perché hanno più collaborazione in Sicilia che a Milano».
Molinari aggiunse: «Lei non crede che la sua tesi secondo cui la guerra è finita non porterebbe a mettere in discussione anche l'armamentario che lo Stato democratico ha messo in piedi per contrastare la mafia e l'ha indotta a trasformarsi in qualcosa di diverso? Ritengo infatti che questo sia ancora essenziale, e mi riferisco soprattutto al 41 bis, che credo sia stato la chiave di volta di questa lotta».
Lupo rispose, tra le altre cose che «....la presidente Bindi bene ha capito il mio ragionamento: la mafia non è più quella di allora, non è detto che quella di ora sia meno pericolosa, è una sfida meno forte, però bisogna vedere quali patologie semina alla lunga, ma di sicuro non si potrà combattere con lo stesso sistema, anche perché un movimento che si irrigidisce e tende a istituzionalizzarsi come tutte le strutture che istituzionalizzano a sua volta pone dei problemi (...) Che la mafia come sistema economico funziona male, se funzionasse bene saremmo nei guai davvero: funziona male, perché in un tempo medio la selezione degli imprenditori avviene non al più capace ma al più scadente, le contabilità sono fasulle, le attività economiche sono di copertura, prevalgono gli elementi finanziari sugli elementi imprenditoriali. Questa è la mia idea, che può essere benissimo smentita, ma spero non lo sia. Questa è l'esperienza che abbiamo avuto finora. Da questo punto di vista ribadisco che il problema è che i bambini vadano a scuola, che la gente trovi lavoro, i problemi base sono questi, però ovviamente su questo tutti diranno che vogliono così, e comunque questa non è l'antimafia, perché altrimenti diamo un'interpretazione eccessiva».
Anche il prefetto Mario Mori il 27 gennaio 2017, intervenendo al programma “La Zanzara” su Radio24, rispose così alla domanda se la mafia fosse stata sconfitta: «Oggi la mafia è quasi sconfitta definitivamente. Sconfitta non dalla polizia e dai magistrati ma perché è venuta meno la società che la supportava. La mafia è una deviazione culturale, è stata sconfitta da una società che si è evoluta. E quella società che la teneva in piedi si è sgretolata».
Salvatore Borsellino il 17 febbraio su www.lintellettualedissidente.it che gli pose esattamente la stessa identica domanda dichiarò che «la mafia ha cambiato aspetto. Non è più rappresentata dai morti ammazzati per le strade, quelli che mi hanno fatto lasciare Palermo più di cinquant'anni fa, non è più così visibile. Resta però pericolosissima in quanto è diventata altro: finanza, accaparramento degli appalti, traffico dei rifiuti pericolosi. La mafia ha una capacità di trasformarsi grandissima e se la gente non si rende conto di questo allora davvero il pericolo è estremamente più concreto».
Il 22 febbraio, il questore di Palermo, Guido Nicolò Longo, appena nominato prefetto di Vibo Valentia ma negli anni Ottanta vice del capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, nel salutare i giornalisti disse: «Non dobbiamo pensare che la mafia è vinta. Si è trasformata, più soft, più subdola ma sul piano economico è sempre presente. C'è una mafia economica che distrugge l'economia sana e questo lo dobbiamo impedire».

Un duro colpo dopo l'altro
Palermo e la Sicilia tutta sono ancora vigilissimi e hanno ancora voglia di vivere l'impegno antimafia ma le recenti e continue “batoste” stanno mettendo a dura prova la voglia di quanto, giustamente, cercano ancore di salvezza e punti fermi con tanto di nomi e cognomi.
Sul numero dei “Siciliani Giovani”, marzo 2015 n. 24, la storica firma Riccardo Orioles – eterno punto di riferimento del giornalismo antimafia – scrisse un articolo titolato “Non vanno d'accordo antimafia e imprese”. Fulminante il sommario: “L'antimafia fasulla da quella vera: come si fa a distinguerle? Facile…”. Talmente facile, che Orioles scriverà che «è molto più facile prendere a interlocutori (finché non smascherati) i vari Montante e Helg che non gli Umberto Santino, i Pino Maniaci o i Siciliani. I primi hanno denari da mettere nei vari “rinnovamenti”, e i secondi no; i primi non minacciano in alcun modo l'assetto sociale “perbene”, e i secondi sì. Ma così va il mondo; e noi perdoniamo volentieri agli amici perbene quella che non è certo malafede ma solo disattenzione e pigrizia. Noi, all'antimafia dei simboli, preferiamo quella palpabile e concreta».
I riferimenti negativi erano ad Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia, da quasi tre anni indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e a Roberto Helg, ex presidente della Camera di commercio di Palermo, condannato il 29 ottobre 2015 in rito abbreviato a 4 anni e 8 mesi per concussione (si attenderà l'esito dell'appello).
Sullo stesso numero, un'altra firma autorevolissima come quella di Salvo Vitale, compagno di impegno antimafia di Peppino Impastato, in un articolo titolato “Il giocattolo dell'antimafia” scrisse: «…A inasprire gli animi è stata la barbara esecuzione dei due cani di Pino Maniaci, trovati strangolati col fil di ferro, chiaro avvertimento mafioso. E tuttavia alcuni settori di Partinico, bersaglio degli strali di Maniaci, per vendicarsi ed estrinsecare la loro ostilità hanno messo in giro la voce che era stato lo stesso Maniaci ad assassinare i suoi due cani per farsi pubblicità e aumentare la sua audience. Non è la prima volta che questo accade: la macchina del fango ha coinvolto spesso Maniaci in una serie di altre maldicenze, secondo tutti i canoni praticati dalle società mafiose: isolare le persone scomode, togliere loro credibilità, additarle al pubblico ludibrio e, in ultima soluzione, eliminarle».
E dire che Orioles e Vitale nei loro servizi non poterono aggiungere un altro caso che sta scuotendo a distanza di quasi due anni il fronte della cosiddetta antimafia sociale: quello del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, che il 9 settembre 2015 venne indagata dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Allo scopo di evitare il diffondersi di notizie inesatte – scrisse in una nota ufficiale la procura nissena – su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta, militari del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015. Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari».
Il 1° febbraio di quest'anno la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha chiuso la prima tranche e ha spedito l'avviso di conclusione delle indagini all'ex presidente Saguto e ad altre 19 persone finite sotto accusa per la gestione di beni sequestrati alla mafia. Un giro vorticoso di consulenze, nomine e soldi sporcato, secondo il procuratore Amedeo Bertone e il sostituto Cristina Lucchini, da favori, episodi di corruzione e una raffica di falsi.

Facile sì ma a parole
Ebbene, tanto facile distinguere l'antimafia fasulla da quella vera, come sostiene Orioles, non deve essere (e difatti non è) se è vero che di li a pochi mesi dall'uscita del suo servizio, per la precisione il 22 aprile 2016, proprio Maniaci sarà indagato a Palermo per aver estorto compensi e favori a due sindaci in cambio di una linea editoriale più morbida nei loro confronti. In quell'ambito giudiziario, anche la storia del cane sarebbe da riscrivere. Certo, anche in questo caso, non entrano in campo accuse di vicinanza, contiguità o complicità con Cosa nostra ma è evidente che un altro simbolo dell'antimafia ha lasciato orfani siciliani e italiani tutti, ricordando sempre che vige la presunzione di non colpevolezza per ciascuno di loro, fino a eventuale condanna passata in giudicato. Discorso che vale ovviamente anche per Antonello Montante e Ivan Lo Bello, quest'ultimo ex vice presidente nazionale di Confindustria e rimasto invischiato nella vicenda che il 17 aprile 2016 ha portato la Procura di Potenza a indagare sullo scandalo petroli (posizione poi archiviata dalla Procura di Roma). Ciò non toglie che Confindustria Sicilia oggi, in attesa della parola fine ad alcune tormentate vicende, sia in una fase di profonda riflessione.

«Siamo abituati a far parlare i fatti – afferma al sole24ore.com il presidente di Assindustria Sicilia Giuseppe Catanzaro – e i fatti dicono che, nel 2005, quando ancora l'argomento era un tabù, partendo proprio da Caltanissetta con Antonello Montante e camminando sempre in stretta sinergia con le Istituzioni, tanti imprenditori di Confindustria hanno messo la faccia nella lotta al malaffare con l'unico obiettivo di concorrere affinché le imprese sane avessero l'opportunità di operare in un mercato normale. Abbiamo maturato sul campo esperienze sostenendo gli imprenditori vittime e accompagnandoli anche in Tribunale davanti agli imputati mafiosi. E questo è quello che continueremo a fare per mettere al centro del dibattito la necessità di un mercato avulso dal condizionamento mafioso. Questo serve alle nostre imprese. Avvertiamo il pericolo di un ritorno al passato quando erano normali il silenzio e l'omertà. Su questo speriamo che in tanti riflettano. Una cosa per quanto ci riguarda è certa: non abbiamo alcuna intenzione di tornare a una antica ‘normalità' fatta di silenzi e di omertà».
Parola a Tano Grasso e don Ciotti.
Tano Grasso, 59 anni, ex-commerciante, è stato presidente della prima associazione antiracket italiana costituita a Capo d'Orlando (Messina) nel 1990. È stato il fondatore e il presidente della Fai (Federazione antiracket italiana) e attualmente ne è presidente onorario. È stato deputato e componente della Commissione parlamentare antimafia dal 1992 al 1996 e ha ricoperto il ruolo di Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura dal 1999 al 2001. Neppure lui è stato risparmiato da critiche e veleni.
«In questi 25 anni – spiega al sole24ore.com – ci sono state degenerazioni ed è stato facile nascondersi dietro la parola antimafia ma c'è un metodo semplice per guardare oltre la facciata e le apparenze: andare a vedere i fatti e non le parole. E tra questi, oltre alla nostra associazione, c'è Libera» (per l'intervista integrale a Tano Grasso si veda il video).
Già, c'è Libera, fondata il 25 marzo 1995 da don Luigi Ciotti che al sole24ore.com dice che «in questi anni “antimafia” è diventata una parola sospetta, uno strumento usato spesso per dotarsi di una falsa credibilità, quando non un paravento per azioni illecite. Abbiamo scoperto che gli stessi mafiosi, in alcune circostanze, si sono presentati nel nome dell'antimafia. Ma l'antimafia è un fatto di coscienza, un impegno costruito e comprovato dai fatti, non una carta d'identità da esibire a seconda delle circostanze. Non possiamo permetterci queste ombre, queste ambiguità. Non ce lo permettono le tante realtà, laiche e di Chiesa, che s'impegnano per ridare speranza e opportunità in contesti anche molto difficili. Non ce lo permette il migliaio di vittime delle mafie, persone che sono state uccise per un ideale di giustizia e di democrazia che sta a noi realizzare».

Buon antimafia (dei fatti) a tutti nei giorni in cui la memoria del giudice Falcone diventa sempre più viva in milioni di italiani.
r.galullo@ilsole24ore.com

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Da – ilsole24ore.com


Titolo: Roberto GALULLO. Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria
Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2017, 05:29:59 pm
FIUME DI DENARO / PRIMA PUNTATA

Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria

Di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi 3 luglio 2017

La leggenda aretina narra che nelle fortune del distretto dell'oro ci sia lo zampino di Licio Gelli, passato alla storia come il Venerabile della Loggia P2. La città racconta ancora che nella scomparsa di decine di tonnellate d'oro che facevano parte di un carico di 60 tonnellate che l'allora re diciottenne della Jugoslavia Pietro II Karadordević fece partire con un treno speciale il 17 marzo 1941, Gelli avesse avuto una parte rilevante.

L'intera riserva di un Paese sotto l'attacco di Adolf Hitler, stipata in 57 vagoni e oltre 1.300 bauli, non riuscì però a lasciare la Jugoslavia per raggiungere l'Egitto e venne nascosta nelle grotte del Montenegro, presto occupato dai fascisti. Nel 1943, non si sa come, il regime rintracciò l'oro e Benito Mussolini affidò al giovane fascista Gelli il compito di portare il carico a Trieste, evitando la frontiera hitleriana e facendolo viaggiare su un treno speciale e blindato, con a bordo 73 malati di vaiolo.

Da Licio Gelli a Fort Knox, leggende e traffici dell'oro illecito
Da quel punto la leggenda narra che Gelli affidò 8 tonnellate alla Banca d'Italia e ne sottrasse 52, una parte delle quali giunse a destinazione nei pressi della stazione ferroviaria di Arezzo per la felicità di una collettività che mise a frutto quel dono insperato.
Per dare un'idea dell'immenso valore di quel carico, attualizzando alle cifre correnti il valore, il tesoro varrebbe tra 1,8 e 2 miliardi, una cifra pari all'ultimo dato censito sull'export del distretto aretino.

Il carico sparito, Gelli e il Pci
La leggenda è più intricata e fascinosa di quanto si possa pensare perché il prosieguo narra di 25 tonnellate rimaste nella disponibilità del futuro piduista e 27 tonnellate cedute all'allora Pci. Come spiegò nel 1984 l'allora parlamentare radicale Massimo Teodori, da pagina 37 della Relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, «fra le tante supposizioni ed ipotesi interpretative, una cosa soltanto non è controversa: che cioè nel 1944-1945 Gelli collaborò con il Pci, attraverso la componente del Cln, e che dal partito gli vennero aiuto e protezione per superare le difficoltà incontrate come repubblichino e collaborazionista, cosa che gli permise di superare indenne quei giorni, forse anche salvando la vita».

Vero? Falso? Verosimile? Fascinazione? Gelli ha sempre negato ma resta il fatto che il 14 settembre 1998, abilmente nascosti perfino nelle fioriere della lussuosa Villa Wanda a Castiglion Fibocchi (Arezzo), dove ha vissuto fino alla morte, sopraggiunta il 15 dicembre 2015, gli investigatori sequestrarono 164 chili d'oro distribuiti in centinaia di piccoli lingotti. La maggior parte dell'oro recava punzonature e timbri di Paesi dell'Est (ex Unione sovietica in primis), altri erano stati sdoganati in Svizzera, altri ancora non si sapeva da dove provenissero. Oro in “nero”. Sedici anni prima, correva il 1983, dieci lingotti riconducibili a Gelli spuntarono in una banca argentina di Buenos Aires mentre nel 1986 la magistratura elvetica scoprì, in una cassetta di sicurezza dell'Ubs di Lugano, 250 chili d'oro in lingotti, verosimilmente frutto della spoliazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
I numeri del distretto
Gelli o non Gelli, il distretto orafo si sviluppa nell'area aretina (Arezzo, Capolona, Castiglion Fibocchi, Civitella in Val di Chiana, Monte San Savino, Subbiano) e nella Val di Chiana aretina (Castiglion Fiorentino, Cortona, Foiano della Chiana, Lucignano, Marciano della Chiana), alla quale si aggiungono i comuni di Laterina e Pergine Valdarno.
La gamma della produzione è omnicomprensiva ma i marchi di fabbrica locali sono l'oreficeria e l'argenteria a maglia catena e stampata. La lavorazione dei metalli preziosi si è sviluppata soprattutto negli anni Settanta ed Ottanta, grazie al ruolo svolto per molti anni dall'impresa leader (Uno A Erre) nell'attivare processi di gemmazione imprenditoriale e trasferimento di innovazioni.

NEI DISTRETTI
Le esportazioni di oreficeria dei principali distretti produttivi NEL 2016 in milioni di € e variazione % (Fonte: ISTAT – ATECO 321. I dati 2del 2016 sono provvisori)
1.814,7
1.548,8
1.343,6
786,1
154,2
130,6
63,2
58,3
39,2
25,8
Arezzo
Alessandria
Vicenza
Milano
Treviso
Firenze
Roma
Padova
Torino
Varese
0
500
1.000
1.500
2.000
Il distretto orafo della provincia di Arezzo, riconosciuto con delibera del Consiglio regionale della Toscana n. 69 del 21 febbraio 2000, conta 1.592 imprese, di cui 1.216 con meno di 50 addetti, 7.669 persone occupate e un export di quasi 4 miliardi (fonte: Osservatorio nazionale dei distretti italiani, dati 2013/2014).
Le statistiche del Club degli orafi italiani, che le aggiorna periodicamente con Banca Intesa, indicano il distretto di Arezzo in testa alle esportazioni con oltre 1,8 miliardi (-1,1% sul 2015) e un import di 86,3 milioni nel 2015 (-24.4% sul 2014).
Anche se questo polo non è più ricco come una volta, le grandi aziende orafe e i banchi metalli - come Uno a Erre e Chimet - continuano ad alimentare l'economia del luogo e la loro visibilità è perenne. Sui taxi, ad esempio, il loro logo è una costante, così come le continue sponsorizzazioni a manifestazioni, eventi e iniziative.
Il filo dell'oro “in nero” e gli effetti della crisi
La crisi ha aggravato la posizione soprattutto delle realtà più piccole e molte, tra quelle rimaste, per sopravvivere praticano il “nero”.
IL SETTORE ORAFO ITALIANO
Quadro di sintesi dell’andamento del settore orafo. Dati in milioni di euro e variazioni % 2016/2015. (Fonte: Istat)

Il fatturato italiano calcolato dal Club degli orafi per il 2016 è stato di oltre 7,7 miliardi (+9,3% sul 2015), esportazioni per 6,2 miliardi (di cui 5,4 miliardi solo gioielli in preziosi, vale a dire in oro, argento o altri metalli preziosi anche rivestiti o placcati) con un calo complessivo del 4,6% sull'anno precedente.
I dati Istat relativi alla produzione (-1,9%) e alle esportazioni, sia in valore (-4,6%) che in quantità (-1,8% per i soli gioielli in metalli preziosi) confermano le difficoltà del settore orafo nel 2016, in corrispondenza con un calo importante della domanda mondiale di gioielli in oro, in particolare da parte dei due grandi acquirenti (Cina e India). Nel 2016 le esportazioni italiane di gioielleria e bigiotteria hanno perso circa 300 milioni rispetto al 2015, con cali diffusi a quasi tutti i mercati di sbocco e con una nuova contrazione importante verso gli Emirati Arabi Uniti (-15%, pari a 160 milioni in meno), Paese di “entrata” per il resto del Medio oriente e l'India. Negative anche le esportazioni verso Svizzera e Francia (-6,7% e -10,6%), Paesi dove sono spesso spediti i gioielli made in Italy commissionati dalle grandi maison di moda (successivamente destinate ad altri mercati di sbocco finali) e verso Hong Kong (-9,1%).
INDICE DEL FATTURATO E DELLA PRODUZIONE DEL SETTORE OREFICERIA E BIGIOTTERIA
Medie mobili a 12 termini, 2010=100 (Fonte: elaborazione su dati Istat)

Secondo le statistiche sul fatturato (indagine Istat campionaria rivolta alle imprese con più di 20 addetti) il settore gioielleria e bigiotteria avrebbe, invece, chiuso il 2016 in crescita del 9,3%, grazie a risultati brillanti sia sul mercato interno (+6,7%) che su quelli esteri (+10,7%), dato in contraddizione con le informazioni sui flussi di export, che sottolinea le difficoltà di monitorare un settore altamente frammentato come quello orafo.
Nessuna tra le fonti intervistate dal Sole-24 Ore ha voluto metterci la faccia o la voce ma tutti concordano nel dire che, ormai, (almeno) un'operazione su due non è tracciabile e sfugge ai radar del Fisco. Accade ad Arezzo ma accade anche negli altri distretti dell'oro (Valenza Po, Marcianise e Vicenza) tra loro legati più di quanto possa apparire e non solo per i legami commerciali ma anche sul fronte delle indagini giudiziarie. In vero il “nero” compare in tutte le operazioni commerciali, qualunque settore si prenda in considerazione ed è logico che il settore orafo non faccia eccezione.
Argento vivo
Le più recenti indagini delle Fiamme Gialle, su delega della Procura di Arezzo, lo provano, anche se tutti i processi, spesso suddivisi in più filoni giudiziari, devono ancora essere definitivamente chiusi.
Tra l'11 e il 14 febbraio 2015 il Nucleo di Polizia tributaria della Gdf ha messo a segno un'indagine – denominata Argento vivo – sul conto di alcune azienda del distretto orafo aretino. Ancora una volta una frode fiscale in atto nel settore del commercio di metalli preziosi (principalmente argento, ma anche platino e palladio), perpetrata attraverso modalità e tecniche analoghe a quelle delle cosiddette “frodi carosello” all'Iva.
QUOTAZIONI MEDIE MENSILI DELL’ARGENTO
(Fonte: London Bullion Market)

Uno dei quattro soggetti colpiti dal provvedimento di fermo ha chiesto di essere interrogato subito da Marco Dioni, il pubblico ministero titolare delle indagini, al quale ha reso dichiarazioni di grande valore probatorio, confermando la bontà dell'impianto accusatorio. Per la collaborazione ha ottenuto gli arresti domiciliari. Il 14 febbraio 2015, il Gip del Tribunale di Arezzo Annamaria Loprete ha ritenuto confermati i gravi ed eclatanti indizi di colpevolezza, fortificati dalle dichiarazioni confessorie rese nel corso degli interrogatori per la convalida della misura precautelare, resi il giorno prima dai quattro indagati, emettendo nei loro confronti un'ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari presso le rispettive abitazioni e con divieto di comunicazione, poiché ha ritenuto sussistere il pericolo di reiterazione di reati analoghi, nonché di inquinamento probatorio.

La Procura della Repubblica di Arezzo ha ordinato il sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca delle disponibilità finanziarie detenute dagli indagati e dalle società a questi riferibili, da bloccare presso gli Istituti di credito, fino a concorrenza della somma di 3.270.203,06 euro, corrispondente ad un valore equivalente al profitto del reato finora determinato.
In poco meno di tre mesi (da ottobre a dicembre 2014), seguendo le tracce delle utenze mobili in uso agli indagati per le comunicazioni “one to one” e attraverso osservazioni, pedinamenti e riscontri, è stata fatta luce sull'esistenza di due presunte e distinte organizzazioni criminali, originariamente operative in modo unitario, capeggiate da due aretini che pur non avendo alcun ruolo formale nelle società coinvolte negli illeciti fiscali, erano in grado di controllarne l'operatività, dirigendo i sistemi fraudolenti.
Il sistema della frode
Il principale sistema di frode, comune ai due sodalizi, prevedeva l'acquisto di metalli preziosi sfruttando meccanismi di applicazione dell'Iva che prevede un sistema di inversione contabile per il quale l'acquirente diventa debitore d'imposta: per l'argento rivolgendosi a banchi metalli ed applicando il “reverse charge”; per il platino ed il palladio acquistandolo da operatori intracomunitari.
QUOTAZIONI MEDIE MENSILI DEL PLATINO
(Fonte: Mattheys)

I metalli venivano poi commercializzati interponendo una o più imprese costituite ad hoc ed intestate a prestanome che, oltre a non dichiarare al Fisco le imposte dirette, omettevano il versamento dell'Iva, corrisposta dal cliente finale, rappresentato da una azienda aretina operante nel settore della commercializzazione di metalli preziosi, la Oro Italia trading spa (società partecipata al 100% da Banca Etruria) che secondo l'accusa trasferiva però mensilmente il credito Iva derivante dalle predette operazioni alla controllante, che lo utilizzava in compensazione dell'Iva a debito di Gruppo.

In estrema sintesi, i sistemi fraudolenti consentivano ai membri delle associazioni criminali di intascare l'Iva generata dalle operazioni commerciali strumentalmente realizzate e al cliente finale di acquistare i metalli preziosi a un prezzo sensibilmente inferiore a quello che avrebbe potuto spuntare se si fosse rivolto direttamente alle aziende che fornivano i beni alle società coinvolte nei sistemi fraudolenti e che davano inizio al circuito economico che le indagini hanno dimostrato essere artificioso e messo in piedi al solo scopo di poter frodare l'Erario.
Teniamo bene a mente il nome di uno tra gli indagati principali di questa operazione: Plinio Pastorelli, che all'epoca era consigliere delegato di Oro Italia trading, dove era entrato come amministratore il 9 luglio 2007 ed è uscito quattro giorni dopo il disvelamento dell'indagine, il 18 febbraio 2015. Pastorelli, indagato per associazione a delinquere e truffa, anticipando le mosse sulla scacchiera del licenziamento, si è dimesso e per il momento si gode la pensione.
Domande senza risposte di Nuova Banca Etruria
Pastorelli entra dunque nell'indagine con l'accusa di acquistare l'oro sotto il prezzo del fixing per il metallo e pagando l'Iva al 20% ai venditori, per poi compensare il credito d'imposta all'interno delle società del Gruppo Banca Etruria. A quanto trapela da fonti che al momento preferiscono restare coperte, Pastorelli non avrebbe fatto in tempo a effettuare la compensazione ma questo ai fini delle accuse in sede penale non rileva. Semmai, interessa il rapporto con l'Agenzia delle Entrate.

Nel complesso l’indagine ha consentito di accertare che il meccanismo fraudolento delle società cartiere ha consentito di evadere 15,45 milioni di euro nel periodo compreso tra il 2012 e il 2015 in operazioni che riguardano tanto l’oro quanto l’argento e il platino.

La domanda logica da porsi è se Oro Italia trading si fosse accorta di questo sistema fraudolento della quale lei per prima ne sarebbe uscita danneggiata e che, per quattro indagati, ha già portato a con condanne nel giudizio di primo grado mentre Pastorelli è indagato a piede libero in attesa di giudizio.
Il Sole-24 Ore si è rivolto in due occasioni a Nuova Banca Etruria (del Gruppo Ubi Banca), chiedendo di avere risposte a questo e ad altri quesiti, oltre ad avere indicazioni, nel corso degli anni, sulle policy di trasparenza negli acquisti e nelle rendicontazioni contabili.

Per ben due volte e nonostante una successiva sollecitazione, i vertici Ubi, che controlla Nuova Banca Etruria, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni limitandosi a rimandare alla breve comunicazione telefonica con la quale a metà maggio l'ufficio stampa di Nuova Banca Etruria aveva messo le mani avanti dicendo che «Pastorelli non è più da noi».
Eppure se è lecito chiedere lumi, cortese dovrebbe essere rispondere soprattutto alla luce del fatto che il nome di Oro Italia trading – ormai senza Pastorelli da tempo – rispunta nell'indagine Melchiorre della Guardia di finanza di Torino del 14 febbraio 2017, anche se ancora una volta senza alcun coinvolgimento societario.

Francesco Angioli è l'uomo considerato dalla Procura di Torino l'intermediario tra i clienti e i principali indagati accusati di comprare l'oro rubato e ripulirlo, per poi rimetterlo formalmente in commercio attraverso una società di diritto ungherese. Questo soggetto indagato, è un procacciatore d'affari che, scrive testualmente il Gip Elena Rocci a pagina 106 dell'ordinanza di custodia cautelare firmata il 13 ottobre 2016, nel periodo d'imposta 2014 risulta aver percepito redditi, tra gli altri, dalla Oro Italia trading spa «con la quale, evidentemente, collabora». Nulla di più naturale, dunque, se il procacciatore d'affari, si legge a pagina 109 del provvedimento, «dimostra di avere ottime entrature con Oro Italia trading, in particolare per lo stretto rapporto che dimostra di avere con Bernardini Francesco».

Francesco Bernardini – che non è indagato – è il responsabile del comparto oro di Oro Italia trading ed è l'uomo che il 23 luglio 2013 lanciò sulla stampa specializzata il “conto oro”. Il 2 marzo 2016, alle 11.48 la sala intercettazioni della procura capta, tra le tante che coinvolgono le utenze telefoniche della società totalmente controllata da Nuova Banca Etruria, una conversazione che il Gip sintetizza così a pagina 71: «Mentre si trova all'interno della Gianluca Ciancio Srl (la società che secondo l'accusa si fa carico di acquistare e fondere l'oro), Angioli Francesco contatta la Oro Italia trading spa, al fine di parlare con Bernardini Francesco, responsabile del comparto oro di Banca Etruria». Deve convincere Ora Italia Trading che le spedizioni delle verghe aurifere partono da Torino e non dall'Ungheria, perché a Torino, alla Ciancio srl, il materiale viene testato. L'oro, però, non si sarebbe mai mosso da Torino e la triangolazione è apparente. «Dalle conversazioni — continua il gip — la prima delle quali avviene con Frati Paolo (non indagato, ndr), dipendente di Oro Italia Trading spa, si desume l'ulteriore modalità operativa adottanda, che vede nuovamente, quale destinatario finale del metallo aurifero raccolto, la Oro Italia Trading, nonché il procedimento per il ritiro e il trasporto dell'oro».
Oro Italia trading “snella” ma attivissima
Oro Italia trading è iscritta dal 30 novembre 2000 al registro delle imprese di Arezzo come società di commercio all'ingrosso di metalli preziosi. Costituita con un capitale sociale di 500mila euro conta appena due dipendenti (la cui retribuzione complessiva è di 59.058 euro) sulle cui spalle grava un fatturato che nel 2016 ha registrato 314 milioni e perdite per 1,4 milioni. In termini quantitativi negoziati, Nuova Banca Etruria è passata da 4,52 tonnellate del 2015 a 8,06 del 2016 (+78% nell'intermediazione dell'oro) e da 42,2 tonnellate del 2015 a 45,7 del 2016 (+8% nell'intermediazione dell'argento).

Una società cosi “snella” – nel numero di dipendenti ma che contempla in vero ben sei sindaci e tre amministratori – in realtà gestisce partite miliardarie, essendosi conquistata negli anni una leadership nazionale. Dopo la Banca d'Italia sarebbe l'istituto con in pancia il maggior quantitativo di riserve aurifere.
La data di avvio della società non è casuale. Pochi mesi prima, il 17 gennaio 2000, il Parlamento ha infatti approvato la legge n 7, che ha rotto il monopolio delle banche sui metalli preziosi stabilendo che sul mercato possano operare anche altri intermediari autorizzati dalla Banca d'Italia. In questo caso la veste è cambiata ma è pur sempre una banca – attraverso il controllo totalitario – a operare nel settore.

L'oro, per Nuova Banca Etruria, costituisce un asset fondamentale, al punto da avere conti correnti in valuta, la cui unità di misura è espressa in once di oro finanziario. Con questi appositi conti correnti è possibile effettuare bonifici in oro finanziario, regolare il pagamento delle rate del mutuo e, se supportato da una linea di fido, beneficiare di uno scoperto di conto.
Nel 2016 è cresciuto lo stock di oro custodito nei caveau della banca e – come si legge a pagina 41 della relazione di bilancio – ciò ha contribuito a rafforzare ulteriormente la leadership dell'Istituto di credito nell'ambito dell'oro da investimento.
Anche sul fronte dei lingotti di piccolo taglio (2, 5, 10, 20, 50 e 100 grammi), il 2016 si è rilevato un anno decisamente positivo per Nuova Banca Etruria. Sono state infatti circa 1.500 le pezzature vendute, per un totale di oltre 44 kg.
Sul lato degli impieghi in oro, il dato mostra un totale di circa 104 milioni, di cui oltre 8 milioni rappresentati dai mutui in oro. Il dato, che risulta sostanzialmente invariato rispetto al 2015, è la sommatoria di due variabili che si sono mosse in direzioni opposte. Nel 2016 si è infatti assistito ad un incremento degli affidamenti in oro ad altre banche, che al 31 dicembre 2016 rappresentavano circa 20 milioni e al contempo ad una riduzione degli affidamenti al tessuto orafo produttivo.
Dalla Slovenia al Marocco c’è spazio per tutti
La più recente, del 1° aprile 2017, è stata condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Gdf agli ordini del colonnello Peppino Abbruzzese. L'hanno battezzata “Groupage” e vedremo il perché di questo nome.
Sotto la lente è finita una presunta organizzazione criminale, costituita da italiani e algerini, che comprava ingenti quantitativi di oreficeria “in nero” prodotta da aziende aretine e la vendeva – dietro pagamento in contanti – per l'esportazione nei Paesi del Nord Africa.
Lo schema era semplice: un intermediario giungeva in volo in Italia dall'Algeria e soggiornava ad Arezzo per definire gli accordi contrattuali per l'acquisto di materiali preziosi. Trovato l'accordo commerciale, l'intermediario provvedeva a fare l'ordine della merce (appunto il cosiddetto “groupage”) per conto dei propri clienti (residenti in Paesi del Nord Africa) con le aziende orafe di Arezzo, veicolando l'ordinativo tramite alcuni operatori orafi aretini di provata fiducia, che provvedevano a ripartire l'ordinativo alle varie aziende compiacenti.
Quando l'ordinativo era pronto, arrivavano ad Arezzo in auto uno o più corrieri algerini, che portavano il denaro contante necessario per l'acquisto dell'oreficeria ordinata e ritiravano la merce.
QUOTAZIONI MEDIE MENSILI DELL’ORO
Un lungo periodo sotto la lente (Fonte: London Bullion Market)

Nella rete sono caduti, tra gli altri, due soggetti già noti agli investigatori. Uno è già finito nella “mamma” di tutte le inchieste aretine, Fort Knox. L'altro, nel 2012, risultò avere rapporti commerciali poco trasparenti con soggetti nord africani. Nell'ambito di un'operazione condotta dalla Polizia di Melilla (Spagna) nel maggio del 2012, vennero arrestati due marocchini trovati in possesso di 140,232 chili di oreficeria, che venne sequestrata. I due soggetti, in sede di interrogatorio, dichiaravano di averla acquistata legalmente il 20 maggio dalla srl unipersonale di cui il soggetto entrato nuovamente nel radar della Giustizia è rappresentante legale.
Il 20 dicembre 2016, il Nucleo Pt della Gdf di Arezzo ha invece portato alla luce, con l'operazione Iberia, un'altra presunta organizzazione criminale, stabilita in Spagna e con ramificazioni in Portogallo, Slovenia ed Italia. Tra gli indagati, a testimonianza che certi meccanismi sono rodati e possono far conto su un nocciolo duro di professionisti, una vecchia conoscenza già incrociata dalla Gdf nelle operazioni Argento vivo e Fort Knox.

L'organizzazione, ricorrendo al sistema noto come “frode carosello”, secondo l'accusa avrebbe creato una fitta rete di aziende in quattro Paesi (Spagna, Portogallo, Italia e Slovenia) ed operanti nei settori degli idrocarburi e dei metalli preziosi che hanno permesso a una società iberica riconducibile ad un italiano e beneficiaria finale dell'illecito, di non versare l'Iva (circa 20 milioni) dovuta sui proventi del commercio di idrocarburi, in quanto compensata, indebitamente, con l'Iva detratta sugli acquisti documentati da fatture false prodotte dalle altre società del gruppo, operanti nel settore dei metalli preziosi che, ricoprono i ruoli di “cartiere” e/o “aziende filtro”.
La Gdf, proseguendo le indagini, ha svelato il coinvolgimento nel sistema di frode anche di un'azienda aretina che, attraverso la vendita di oro puro, si prestava consapevolmente al riciclaggio di una parte dei proventi della frode perpetrata in territorio spagnolo nel biennio 2015/2016, nei confronti delle aziende spagnole e portoghesi riconducibili all'organizzazione.

L'organizzazione, al fine di riciclare i cospicui proventi illeciti delle frode, oltre ad essere entrata nel circuito delle gare motociclistiche mondiali, attraverso la sponsorizzazione di due team spagnoli della Moto Gp Uno, stava tentando un'analoga infiltrazione in Italia attraverso la sponsorizzazione di un team automobilistico, che gareggia nel campionato mondiale Fia Wtcc (World touring car championship, meglio noto come campionato del mondo turismo).

L'indagine condotta in collaborazione con il Gruppo di criminalità economica dell'Unità operativa centrale della Guardia Civil della Spagna, coordinata anche da Europol ed Eurojust, ha consentito di pervenire complessivamente in Italia alla denuncia a piede libero di quattro persone per i reati di associazione per delinquere, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, oltre al sequestro di 26,4 chili di oro puro per un controvalore di 924mila euro. In Spagna e Portogallo sono state arrestate 20 persone, oltre al sequestro di 50 chili di oro per un controvalore complessivo di oltre 1,7 milioni.

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Titolo: Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi FIUME DI DENARO / SECONDA PUNTATA
Inserito da: Arlecchino - Luglio 09, 2017, 09:40:59 am

FIUME DI DENARO / SECONDA PUNTATA
La banda dell’oro che ruba ai poveri per dare ai ricchi

di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi 4 luglio 2017

Torino è tornata a respirare. La filiera della banda dell'oro – dai ricettatori a chi immetteva nuovamente il metallo prezioso sul mercato – è stata smantellata dalla Guardia di Finanza del capoluogo. In appena un anno e mezzo – dall'estate 2015 a gennaio 2017 – la banda dell'oro aveva piazzato 750 chili d'oro per un valore che supera i 25 milioni. «E' un dato parziale – spiega Stefano Lombardi, comandante del Nucleo di polizia tributaria della Gdf di Torino dal 29 luglio 2016 e che ha seguito l'operazione Melchiorre del 14 febbraio di quest'anno – perché si riferisce solo a quanto evidenziato dalle intercettazioni captate».

Così gli spalloni trasportano l'oro illecito

Già, perché seguendo il classico topo d'appartamento, che si rivolge al ricettatore, che si presenta a un compro oro senza scrupoli, che cede l'oro alla fonderia che lo trasforma in lingotti che venivano venduti a grandi società attraverso la fittizia interposizione di una società ungherese, la Gdf con l'indagine delegata dalla Procura di Torino (pm Valerio Longi e Roberto Sparagna) ha spezzato una catena di ricettazione che inondava la piazza di 10/12 chili a settimana. «Ora la rete dei ricettatori in città – aggiunge Filippo Ivan Bixio, comandante del Gruppo tutela mercato capitali del Nucleo di polizia tributaria della Gdf di Torino – è in difficoltà». Tanto per rendere l'idea: due dei presunti ricettatori indagati asseriscono di essere in grado di reperire 5/10 chili di oro a settimana, pronti per alimentare la catena – tutta rigorosamente in nero – della banda dell'oro.
IMPORT PER PROVINCIA
Le importazioni di oreficeria per provincia* nel 2015 in milioni di € e variazione % (*Dal ranking è stata esclusa la voce “Province non specificate e altri stati membri” che nel 2016 figura al quinto posto tra i territori importatori di gioielleria e bigiotteria - Fonte: ISTAT – ATECO 321, I dati 2015 sono revisionati)

L'operazione Melchiorre condotta anche in collaborazione con le autorità ungheresi e slovene, ha portato all'emissione di misure cautelari personali custodiali nei confronti di 11 persone per i reati di ricettazione e reimpiego, alla perquisizione di altre 9 gravemente indiziate di ricettazione e a un provvedimento di sequestro di beni per complessivi 9 milioni, tra cui quelli intestati a una società ungherese. Per lo più l'oro era provento di furti in appartamento e non è un caso che Torino sia tra le città più colpite dal fenomeno.

    FIUME DI DENARO / PRIMA PUNTATA 3 luglio 2017

Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria

Il Censis e l'Istat hanno scattato delle recentissime fotografie. Secondo il Centro studi investimenti sociali, che ha presentato l'ultimo report il 7 febbraio 2015, nel 2014 veniva svaligiata una casa ogni due minuti. Asti, Pavia e proprio Torino erano le province più colpite. In particolare a Torino quell'anno furono denunciati 16.207 furti in casa, con 7 famiglie ogni mille sorprese da irruzioni domiciliari e il bottino era quasi sempre rappresentato da oggetti d'oro.
I dati del Censis testimoniano una presenza consistente di stranieri sulla scena del crimine e l'indagine Melchiorre ne certifica in qualche modo la presenza visto che una buona parte dei ricettatori era di origine sinti.

Il rapporto Istat del 14 dicembre 2016 rafforza un dato di fatto: per i furti in abitazione, gli scippi, i borseggi e le rapine in abitazione, tra il 2010 e il
2015 si è assistito a una forte diminuzione dei tassi in molte province del mezzogiorno, al contrario delle province del centro e del nord che hanno fatto rilevare ingenti aumenti. Se la media italiana è di 17,9 famiglie ogni mille che nel 2014 hanno subito una visita di topi d'appartamento, in Piemonte il dato sale a 22,2, uno dei più alti in assoluto dopo l'Emilia Romagna (31,9 per mille).

Un'occhiata alle foto allegate all'ordinanza di custodia cautelare firmata il 13 ottobre 2016 dal Gip di Torino Elena Rocci nei confronti degli indagati accusati di ricettazione, conferma che Torino. la sua provincia e l'intero Piemonte sono prede facili. Ci sono braccialetti, orecchini e collanine che arrivano da furti in serie nella cintura torinese: Orbassano, Tofarello, Lanzo Torinese, Borgone di Susa, Vigone, Moncalieri, Chieri, Nichelino, Beinasco e via elencando. Ci sono anelli e collane che sono invece il provento di furti a Castelnuovo Don Bosco e Moncalvo (Asti), Saluzzo (Cuneo).

La ragnatela internazionale
Italia, Ungheria e Slovenia sono i Paesi (per ora) coinvolti e la cui interconnessione è stata ricostruita dalla Gdf dopo mesi di indagini, intercettazioni, analisi di flussi finanziari, pedinamenti e strumenti di cooperazione internazionale di polizia – anche tramite il II Reparto del Comando generale del Corpo – che hanno permesso di ricostruire il meccanismo di reimpiego di oro di illecita provenienza. Il punto di partenza era costituito dai ricettatori di oggetti in oro, provenienti da reati contro il patrimonio, che venivano portati in una fonderia di Torino dove i preziosi venivano successivamente fusi e trasformati in verghe aurifere.

Il prodotto trasformato veniva quindi venduto, a quotazioni di mercato, a società nazionali operanti nel settore del commercio di oro, previa interposizione fittizia di una società ungherese, il cui titolare è un cittadino italiano, che intratteneva i rapporti commerciali con le società acquirenti nei confronti delle quali si limitava ad emettere fatture di vendita, ricevendone i relativi pagamenti mediante bonifici internazionali, dalla cui provvista prelevava il denaro contante che consegnava ai reali proprietari dell'oro ceduto alle società nazionali.

In questo modo l'oro, raccolto illecitamente a Torino e mai uscito dal territorio nazionale, risultava venduto da un operatore estero a una società nazionale, mediante un'operazione di acquisto intracomunitaria. La compravendita documentata era fondamentale per il gruppo perché permetteva di far uscire il denaro contante che sarebbe servito per finanziare i successivi acquisti illeciti di oro. Infatti, il denaro ricevuto con bonifico, a fronte della fattura emessa dalla società ungherese, veniva poi prelevato in contanti dai c/c accesi presso istituti di credito ungheresi, portato materialmente a Torino e consegnato ai reali venditori che lo utilizzavano per pagare in nero i fornitori/ricettatori.
A mettere in contatto tra loro i riciclatori è stato un procacciatore d'affari di Arezzo, che ne ha coordinato l'attività e, in una seconda fase dell'operazione, ha favorito l'accreditamento della cartiera ungherese presso un'impresa nazionale leader del settore «che altro non sarebbe – spiega Bixio – che Oro Italia trading, controllata al 100% da Nuova Banca Etruria» (si veda la puntata dell'inchiesta del 3 luglio).

L'oro ripulito torna sul mercato
Il guadagno dell'organizzazione si realizzava immettendo nuovamente l'oro ripulito sul mercato ufficiale, vendendolo, con regolari transazioni, a quotazioni di mercato ad altre società nazionali leader del settore.
In definitiva, le indagini hanno permesso di ricostruire un'intera filiera di approvvigionamento di oro procurato illecitamente – come detto circa 750 kg per un valore di oltre 25 milioni – dai ricettatori fino alle società professionali, gettando la luce sull'origine e sulla destinazione del metallo prezioso. È stato infatti possibile anche collegare un 26enne astigiano, fermato nei mesi scorsi con oggetti preziosi ottenuti truffando gli anziani, con l'organizzazione criminale smantellata.

Per la buona riuscita delle indagini è stato fondamentale, trattandosi di reati che hanno visto coinvolte società di altri Paesi dell'Ue, il coordinamento garantito dall'organismo di cooperazione internazionale Eurojust, un coordinamento che deve senza alcun dubbio implementato. L'indagine della Guardia di finanza di Torino non è ancora conclusa e tutto lascia pensare che altri Paesi saranno coinvolti. A partire dalla Svizzera – che rappresenterà la tappa dell'inchiesta del 5 luglio – che non a caso viene citata nelle carte della Procura di Torino. Due soggetti che nulla hanno a che fare con questa indagine ma con un'altra partita nel 2015, fanno infatti riferimento alla possibilità di vendere 8/10 chili di oro a settimana provenienti da una banca di Lugano.

Doppi fondi e pancere
Per trasportare l'oro, la banda non si faceva mancare nulla, a partire dalla classica macchina con doppio fondo. Non veniva usato solo il bracciolo anteriore; in un'automobile gli indagati si erano ingegnati nel modificare la portiera posteriore nella quale era possibile inserire verghe d'oro, che era possibile aprire con una brucola che azionava un piccolo pistone. La banda si era perfino attrezzata per ovattare la struttura e impedire rumori e contraccolpi (si veda il video).

Se la macchina truccata è un classico – nei decenni migliaia di viaggi sono stati effettuati in questo modo e non solo con le auto ma anche con i Tir e dunque è possibile solo intuire la quantità enorme di oro in “nero” che sfugge e che è sfuggita ad ogni sorta di tracciabilità finanziaria, fiscale ed economica – non lo è invece il trucco adottato per pagare gli scambi illeciti.
La Gdf di Torino è riuscita a fotografare il momento in cui un indagato indossa una pancera con la quale trasporta in modo occulto il denaro prelevato da una banca ungherese.

Il Banco metalli cabina di regia
La cabina di regia – secondo investigatori e inquirenti – era il Banco metalli Gianluca Ciancio srl, regolarmente iscritto presso l'albo speciale degli operatori professionali in oro detenuto dalla Banca d'Italia. Iscritto alla Camera di commercio di Torino il 16 aprile 2012 (inizio attività 9 gennaio 2013) con un capitale interamente versato di 120mila euro, reca come ragione sociale la fabbricazione di oggetti di gioielleria e oreficeria in metalli preziosi o rivestiti di metalli preziosi. A differenza dei compro oro – che acquistano oggetti preziosi usati da destinare successivamente al mercato come prodotti usati o come oggetti da rottamare destinati alla fusione – i banchi metalli, una volta raccolto l'oro possono solamente rivenderlo a operatori del settore.

Nell'edificio in Via San Paolo – un palazzina bassa e sorvegliata più di una banca – lavorano gran parte degli 11 dipendenti (il cui costo 2015 è stato di 194.509 euro) e niente lascia supporre che in quella anonima costruzione giri un fatturato di 9,9 milioni e un'utile di 220. 550 euro, secondo quanto certifica l'ultimo bilancio depositato. L'anno precedente. il 2014, la srl aveva chiuso con un fatturato di 22,4 milioni ma l'utile era stato quattro volte inferiore: 50.681 euro.
Secondo l'accusa questa società acquistava sistematicamente, per più volte alla settimana, da persone che agivano totalmente al di fuori di ogni formalità, oggetti preziosi di provenienza furtiva, la cui compravendita veniva regolata esclusivamente in contanti senza l'emissione di alcuna fattura né la redazione di alcuna dichiarazione di vendita. Era la stessa Ciancio srl a trasformare, mediante la fusione, gli oggetti che dunque venivano “rigenerati” in verghe aurifere pronte ad essere commercializzate. Brava la Gdf a indagare anche a seguito di una serie di segnalazioni di operazioni sospette, evidenziate mediante movimentazioni anomale, come ad esempio bonifici verso l'estero per quasi un milione a favore di uno stesso soggetto o prelevamenti in contanti per 400mila euro nell'arco di pochi mesi.

La riforma dei compro oro
Diversi, come abbiamo visto, sono i compro oro, da anni sotto la lente non solo della Guardia di finanza e delle Procure ma anche della politica.
Il 24 maggio il consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Paolo Gentiloni e del ministro dell'Economia e delle finanze Pier Carlo Padoan, ha approvato in via definitiva il decreto legislativo che introduce una nuova disciplina per l'attività dei compro oro.
Il decreto delinea una disciplina ad hoc che consente di monitorare il settore e di censirne stabilmente il numero e la tipologia. La finalità è quella di contrastare sempre più efficacemente le attività criminali e i rischi di riciclaggio riconducibili alle attività di compravendita di oro e oggetti preziosi non praticate da operatori professionali.
Finora l'apertura di un esercizio di compro oro non era infatti soggetta ad una regolamentazione specifica, poiché è sufficiente ottenere una licenza per il commercio di oggetti preziosi, mentre al privato che vuole vendere oggetti di valore è sufficiente esibire un documento di identità senza dover certificare la provenienza di tali oggetti.

La nuova normativa, invece, impone ai titolari delle attività di compro oro precisi obblighi finalizzati a garantire la piena tracciabilità della compravendita e permuta di oggetti preziosi e a prevenirne l'utilizzo illecito, compreso il riciclaggio.
Ecco dunque che il decreto prevede l'istituzione di un registro degli operatori compro oro professionali per i quali il possesso della licenza di pubblica sicurezza costituisce requisito indispensabile; l'obbligo per gli operatori professionali in oro, diversi dalle banche, di iscrizione nel registro per lo svolgimento dell'attività; la previsione di specifici obblighi di identificazione del cliente e di descrizione, anche mediante documentazione fotografica, dell'oggetto prezioso scambiato; la piena tracciabilità delle operazioni di acquisto e vendita dell'oro.
I compro oro sono obbligati a dotarsi di un conto corrente dedicato alle transazioni finanziarie ed è stata infine abbassata da 1.000 a 500 euro la soglia per l'uso del contante per le attività del settore, al fine di garantire la tracciabilità delle transazioni.
Un'altra novità introdotta dal decreto riguarda l'arricchimento del set di informazioni che il compro oro è tenuto ad acquisire e conservare: l'obbligo di annotare l'eventuale cessione dell'oggetto a fonderie e la conservazione di due fotografie dell'oggetto prezioso che viene acquisito.

Parola a Federorafi
Ciò che manca in questa pur importante regolamentazione è ad esempio la diffusa applicazione di una piattaforma digitale ed informatizzata con la registrazione dell'operazione e la sua immediata visualizzazione da parte delle autorità di controllo, come da tempo chiede Federorafi, che rappresenta oltre 500 aziende industriali italiane nel settore, che operano soprattutto nei poli produttivi di Arezzo, Vicenza, Milano, Valenza e Napoli. La Federazione rappresenta pressoché la totalità delle imprese industriali del settore, che danno lavoro a seimila addetti. Queste aziende trasformano in gioielli il 70% dell'oro lavorato in Italia e li esportano in tutto il mondo. I due terzi della produzione orafa italiana, infatti, sono destinati all'esportazione.

Ma non è questa l'unica cosa che Federorafi chiede per rendere ancora più trasparente la filiera industriale dell'oro, come spiega il direttore Stefano De Pascale. «Da anni ci battiamo per una modifica legislativa in materia di Iva – spiega – che permetta l'estensione della inversione contabile, finora praticata solo in rari casi, all'intera filiera orafa, facilitando gli scambi tra i soli operatori e disincentivando l'evasione dell'Iva. Con la nostra proposta ci sarebbe un sistema blindato che non permetterebbe comportamenti illegali da parte di operatori poco affidabili».
Si tratterebbe, in poche parole, di introdurre in Italia il cosiddetto “black box” inglese nel quale è il consumatore finale a pagare l'Iva.
Semmai a preoccupare – più che il “non ancora fatto” – è ciò che non vien più fatto, come ad esempio i controlli sulle campionature d'oro, che spettano alle camere di commercio.

In sostanza le camere di commercio possono effettuare visite ispettive, anche a sorpresa, per prelevare campioni di materie prime, semilavorati ed oggetti finiti in metallo prezioso, già muniti di marchio e pronti per la vendita, per sottoporli a saggio ed accertare l'esattezza del titolo legale/dichiarato (vale a dire, ad esempio, la famosa dicitura 750 che indica la parte di oro puro dell'intera lega; nell'oro 750, detto anche 18 carati, il 750 per mille, o 75%, é composto da oro puro, mentre il restante 250 per mille, o 25%, da altri metalli) o verificare l'esistenza della dotazione di marchi di identificazione; controllare le caratteristiche di autenticità dei marchi e la loro perfetta idoneità all'uso.

«Fino a qualche anno fa – spiega De Pascale – esistevano alcune statistiche al riguardo perché per un certo periodo il ministero dello Sviluppo economico ha contribuito per il 50% alle spese sostenute dalle camere di commercio e in media il 5% dei casi evidenziava la non conformità al titolo dichiarato. Dal 2008 però non c'è stato di fatto più alcun controllo, se non in casi sporadici».
Un esempio può far capire l'importanza dei controlli per l'acquirente finale del prodotto. Se un orefice scorretto vende ad un promesso sposo una fede nuziale spacciata per oro 750 e in realtà si tratta invece di oro 740, il commerciante sleale può guadagnare fino a 3 euro. Beninteso: a grammo.

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Titolo: Roberto GALULLO. Perché la mafia dei terreni incendia l'Italia
Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2017, 04:49:26 pm

Palazzi evacuati a Sciacca
Perché la mafia dei terreni incendia l'Italia

Di Roberto Galullo 13 luglio 2017

La mafia dei terreni – boschi e pascoli – colpisce ancora. Dietro i roghi che stanno devastando ettari ed ettari di terreno in Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia c'è quasi sempre la mano criminale dell'uomo. In attesa che la follia autodistruttiva colpisca anche altre regioni che tradizionalmente sono flagellate dal fenomeno – come la Puglia – è bene mettere in fila alcune ragioni per le quali la criminalità organizzata ha interesse ad attizzare gli incendi. Non esiste una classifica di demerito. Anzi, spesso, le ragioni folli viaggiano insieme.

Una ragione è la pervicacia di cosche e clan nel dimostrare che, di qualunque area, sono in grado di indirizzare destini, fortune e sfortune. Dimostrano ai proprietari (siano essi privati o demaniali) che possono fare il bello e il cattivo tempo. A maggior ragione – si badi bene – se i boschi e i pascoli incendiati sono assoggettati a vincolo di inedificabilità quindicennale. E' evidente l'intento del Legislatore di impedire la speculazione edilizia che deriverebbe dal mutamento di destinazione urbanistica dei terreni. Se il proprietario non si piega alle richieste estorsive dei criminali – ma ragionamento per altro verso analogo può essere fatto nei confronti delle amministrazioni che perdono entrate dalla mancata edificazione – ecco che scatta la furia incendiaria.

In Campania, Sicilia – ma anche sempre più in Lombardia – ciò che il fuoco arde può diventare terreno di sversamento illecito di ogni tipo di rifiuto. Se le aree sono impervie (ma non certo per le rodate organizzazioni malavitose) è meglio.

Cosa nostra in alcune aree siciliane – recentemente sono saliti alla ribalta i Nebrodi – è talmente ammanicata con i settori deviati delle amministrazioni pubbliche che è in grado di pianificare truffe redditizie ai danni dell'Unione europea o della stessa Regione. Per esempio, nelle assegnazioni di terreni pubblici a prestanome e/o a esponenti delle famiglie locali di mafia, che per quelle terre usufruiscono di finanziamenti per attività mai realizzate, praticando invece abigeato, macellazione di carni clandestine e infette e in varie altre attività economiche in nero.

LA CLASSIFICA DEGLI INCENDI DOLOSI-COLPOSI-GENERICI
Numero infrazioni accertate e percentuale sul totale nazionale. Dati 2016
E che dire della Calabria dove spesso operai infedeli appiccano volontariamente il fuoco perché sanno che in quel modo l'anno successivo hanno il posto assicurato nel ripascimento?

Del resto che la mafia dei terreni abbia un business lo dicono anche i numeri. Come quelli messi in fila dall'ultimo rapporto Ecomafia di Legambiente.
Lo scorso anno sono stati 4.635 gli incendi boschivi che hanno visto l'intervento dell'ex Corpo forestale dello Stato e dei corpi regionali, numeri ancora in crescita rispetto al 2015. Roghi che hanno mandato in fumo nel 2016 più di 27mila ettari di aree verdi. Esattamente quanto è stato devastato dal fuoco in questo assaggio di estate 2017. Di male in peggio.

Le persone denunciate, tra piromani, ecocriminali ed ecomafiosi nel 2016 sono state 322, mentre quelle arrestate sono state 14.

Gli incendi non vengono appiccati solo d'estate. Uno degli ultimi casi di fiamme invernali che, nonostante le temperature basse, in poco tempo divorano pezzi di superficie boschive, risale al mese di febbraio, quando è stato sfigurato un ampio tratto di bosco a Solcio di Lesa (Novara), oltre che in una riserva di caccia tra Oleggio e Gattico.

IL BUSINESS DEGLI INCENDI
In base agli eventi dolosi, colposi, generici nel 2016, in milioni di euro. (Fonte: elaborazione Legambiente su dati del Corpo forestale dello Stato)
Le stime complessive fatte dall'ex Corpo forestale sui danni ambientali causati nel 2016dai roghi ruotano intorno ai 14 milioni mentre i soli costi per l'estinzione sono stati quantificati in circa 8 milioni, per un totale di quasi 22 milioni.

r.galullo@ilsole24ore.com
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Titolo: Roberto GALULLO. Ostia: la “capocciata” svela interi segmenti dell’economia...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:16:49 pm
DOPO L’AGGRESSIONE AL GIORNALISTA RAI
Ostia: la “capocciata” svela interi segmenti dell’economia condizionati dalle mafie

–di Roberto Galullo 10 novembre 2017

Tutti ad accorgersi di Ostia per quella che a Roma viene definita una “capocciata” che, in questo sventurato caso, ha colpito un giornalista reo di aver fatto solo il proprio mestiere. Eppure Gianpiero Cioffredi, presidente dell'Osservatorio tecnico-scientifico per la sicurezza e la legalità, nel II rapporto sulle mafie nel Lazio, presentato lo scorso anno, scriveva che alcuni processi, come quelli in corso sulle vicende del litorale laziale, «spesso non trovano spazio su giornali e tv ma raccontano di numerose città, di quartieri e interi segmenti dell'economia condizionati da mafie e associazioni a delinquere, in gran parte collegate al traffico di sostanze stupefacenti». Ora gli occhi anche della stampa internazionale sono su questo quartiere.

IL MUNICIPIO ROMANO  09 novembre 2017
Armi, droga, mafie: Ostia «laboratorio» della criminalità
Un’attenzione tardiva, visto che questa immensa area della Capitale, è infangato da decenni dalla presenza delle mafie del sud, a partire da Cosa nostra. Gaspare Spatuzza, boss della famiglia mafiosa di Brancaccio (Palermo), riguardo agli interessi economici di Cosa nostra sul litorale laziale, nel 1996 dichiarò che «avevano il paese di Ostia nelle mani». Il riferimento era alla “gemmazione” ostiense della famiglia originaria di Siculiana (Agrigento) Cuntrera-Caruana, della quale Spatuzza doveva uccidere un elemento di spicco. L'omicidio non andò a buon fine perché Spatuzza venne arrestato il 2 luglio 1997.

L'indagine “Tramonto” della Gdf del 4 marzo mise a nudo, per usare le parole messe nero su bianco dal Gip D'Alessandro, «un contesto spaventoso» nel quale «ha senso parlare di mafia». Per il gip e la Dda di Roma che svolse l'indagine la famiglia Fasciani sul litorale aveva costituito un impero economico attraverso una serie di società nel settore della ristorazione, della gestione di stabilimenti balneari, delle discoteche e della rivendita e noleggio di auto. Dopo che il 14 giugno 2016 , in primo grado, era stata negata la mafiosità della famiglia (ora, sembra, in caduta libera), il 15 giugno 2017, dunque un anno dopo, la Corte d'appello di Roma ha ribaltato la sentenza. La parola definitiva spetta alla Corte di Cassazione.

Proprio il lido ostiense – con tutto quel che ne consegue, vale a dire attività balneari, di ristorazione, di divertimento e di gioco – fu oggetto di una durissima riflessione, il 9 marzo 2016 davanti alla Commissione parlamentare antimafia, del prefetto Domenico Vulpiani. «Il litorale è la parte che più desta preoccupazioni perché è composto di 18 chilometri ed è fonte di grande dibattito sul suo futuro, quanto su di esso il 56% è occupato da stabilimenti balneari disse poco più di un anno fa – mentre la restante parte di arenile è gestita con spiagge libere o spiagge libere attrezzate. Su tutto il litorale, in ogni parte di questa spiaggia, si sono verificati degli abusi non solo edilizi, ma anche di gestione, di mala gestione e di non pagamento dei tributi dovuti. Sono frutto di sessant'anni, dal dopoguerra in poi, di una sovrapposizione di atti della pubblica amministrazione non sempre presi con particolare attenzione – mettiamola così – nella migliore delle ipotesi. In altri casi ci sono stati veri e propri atti discussi, anche oggetto di inchieste giudiziarie».


DOPO L'AGGRESSIONE AL REPORTER RAI  09 novembre 2017
Ostia, Spada è in carcere. Minniti: in Italia no zone franche
In relazione all'attività di controllo e verifica il prefetto Vulpiani aggiunse: «Ad oggi possiamo dire di aver svolto un'attività di controllo su 42 stabilimenti demaniali, dei quali 30 svolti in via d'iniziativa amministrativa direttamente dal tavolo tecnico di cui ho detto prima, otto svolti di iniziativa della polizia locale, che ha agito in termini di polizia giudiziaria di fronte ad abusi molto rilevanti e particolarmente evidenti, e altri quattro svolti sempre dalla polizia locale, ma con il supporto del tavolo tecnico e sempre come polizia giudiziaria. Otto di questi sono stati sottoposti a sequestro giudiziario e hanno, quindi, in corso un'attività della magistratura, della procura di Roma, che sta indagando su queste situazioni che sono state rappresentate nell'inchiesta. Altri quattro sono stati solo oggetto di notizia di reato e siamo in attesa delle decisioni del magistrato. Le attività ispettive, che non sono semplici, proseguiranno senza interruzione fino all'espletamento dei sopralluoghi su tutte le 71 concessioni demaniali marittime».

RAGGI: «VIOLENZA INACCETTABILE» 08 novembre 2017
Ostia, domande sui rapporti tra Casapound e clan Spada: aggredito giornalista Rai
Il gioco d'azzardo, sopra accennato, è un'altra enorme risorse in mano a consorterie criminali organizzati ad Ostia. Casalesi e ‘ndrangheta, qui, hanno costituito piattaforme informatiche sulle quali dar vita a siti online per il gioco del video poker. Inutile dire che anche il collocamento fisico dei “totem” utilizzati per giocare in sale e video sale è, spesso, “cosa loro”. Così come, forse è inutile dire – ci sono indagini e sentenze a ricordarlo – che senza una pervasiva corruzione all'interno della pubblica amministrazione e senza la cosiddetta “zona grigia”, composta da figure professionali qualificate (bancari, commercialisti, esercenti le professioni sanitarie) il potere economico delle mafie extraregionali e indigene, non avrebbe potuto prendere la piega che da tempo ha preso ad Ostia.


Troupe Rai aggredita da membro clan Spada
Per capire Ostia, forse può aiutare quello che il 12 febbraio 2014 dichiareranno, ancora una volta in Commissione parlamentare antimafia, il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il suo storico aggiunto Michele Prestipino Giarritta. Il procuratore aggiunto di Roma ricordò che ad un collaboratore di giustizia venne chiesto conto dell'uso della violenza ad Ostia. Gli venne domandato: «Bisogna ricorrere alle intimidazioni, al danneggiamento, all'incendio per esigere il pizzo?». E quello rispose, rivelò Prestipino Giarritta: «Macché, quando mai? No, no. La gente ha paura già di per sé. Ha paura di per sé sentendo il nome. Su dieci al massimo, una o due volte uno deve fare sentire qualche cosa».
r.galullo@ilsole24ore.com

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Titolo: Roberto GALULLO e A. Mincuzzi. Tra le valli svizzere il nuovo paradiso offshore
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 12, 2018, 08:29:00 pm
Tra le valli svizzere il nuovo paradiso offshore di società e fiduciari italiani

•   –di R. Galullo e A. Mincuzzi

•   12 febbraio 2018

La carovana dei fiduciari italiani in Svizzera sta migrando da Lugano ai Grigioni italiani con tutto il carico di truffe che alcuni di essi finora hanno messo in campo. Solo che a differenza del Canton Ticino, dove le sedi sono sfarzose e lussuose, in Mesolcina sono fantasmi o abilmente camuffati. Dal 2013 al 2017 ben 333 società si sono trasferite dal Canton Ticino nei Grigioni, di cui 277 si sono installate nei sette comuni di lingua italiana. La strada inversa è stata invece percorsa da 171 società, 122 delle quali provenienti dai Grigioni italiani. La maggior parte delle società opera nel settore fiduciario ma sono sempre di più quelle che negli ultimi tre anni sono attive nel settore edilizio o in quello degli esercizi pubblici. I Grigioni italiani sono come una calamita: l'80% delle società che hanno lasciato il Canton Ticino negli ultimi cinque anni è approdata qui.
Anche se è perfettamente legale, il rischio è che dietro molte di queste società si celino anche il riciclaggio di denaro sporco, frodi fiscali e addirittura l’ingresso di capitali della criminalità organizzata italiana e transnazionale.

L'INVASIONE DELLE SOCIETÀ IN MESOLCINA
Fonte: elaborazione del Sole 24 Ore su dati del Registro di commercio del Cantone dei Grigioni
 
Una cantonale intasata di società
La strada cantonale che attraversa i Grigioni italiani (Mesolcina e Calanca) è tappezzata di cassette per le lettere con i nomi di ben 3.700 società, in gran parte di proprietà di italiani, anche se basta un'occhiata per capire che sono tanti i titolari provenienti dai paesi dell'Est europeo e dal Sudamerica. Secondo il Registro di commercio del Canton Grigioni, nei 39 chilometri che separano San Vittore - primo comune della valle - dal passo di San Bernardino sono però attive soltanto 1.581 società, vale a dire il 43% del totale.
Il passo di San Bernardino, in Svizzera (Marka)
Appena si entra nei Grigioni italiani la dimensione del fenomeno appare subito chiara. A San Vittore, 766 abitanti, le società attive sono 143, vale a dire una ogni 5,3 abitanti. E' proprio qui che si trova un campione italiano tra i fiduciari carovanieri: Marco Sarti figura (o figurava) come socio, gerente o liquidatore di 19 società trasferite da Chiasso anche più di una volta in più comuni di lingua italiana. Di queste, ben 15 sono in liquidazione. Sarti è indagato in Italia per bancarotta fraudolenta e reati tributari dalla Procura di Lecco. Il comando provinciale della Guardia di Finanza di Lecco, guidata dal colonnello Massimo Dell’Anna, gli ha finora sequestrato circa 2,3 milioni di euro. Il Tribunale del riesame ha rigettato finora tutti i ricorsi presentati contro i sequestri non solo da Sarti ma anche dagli altri indagati.
Da San Vittore a Roveredo il passo è breve ma la musica non cambia. Qui le società registrate sono 1.617, di cui attive 528 (32,6%). Le “bucalettere” si concentrano in alcuni edifici dove le società figurano spesso solo sulla carta. Emblematico il caso del Palazzo del sole, dove erano domiciliate 25 società. A Roveredo si assiste anche a fenomeni che hanno del paranormale, come quello di una holding immobiliare che lì ha la sede ma l'indirizzo denunciato fin dal 1999 nel Registro di commercio, che come da prassi non si è accorto di nulla, è uno spazio bianco. Nessuno sa dove sia e se ci sia davvero.
Il comune di Roveredo negli ultimi tempi ha voluto vederci chiaro e ha avviato ispezioni per verificare l'operatività delle società registrate nel suo territorio. Dai primi controlli sembra che il 50% operi solo sulla carta.
La caccia ai fantasmi
Risalendo la via Cantonale si arriva a Grono, 1.340 abitanti e una società ogni tre residenti. Le società spuntano come funghi soprattutto in edifici che sembrano essere nati apposta per ospitare le “bucalettere”. Cinquantasette società erano ospitate in un ex asilo, la Ca' Rossa, dove avrebbe dovuto sorgere un polo tecnologico. I fiduciari girovaghi non hanno paura di arrampicarsi neppure per zone impervie come Leggia, una frazione di Grono, dove sorge un edificio dall'intonaco beige chiamato Casa Olga, dove sono registrate alcune società compresa quella di Rosanna Papalia, figlia del boss di 'ndrangheta Rocco, tornato a Buccinasco (Milano) dopo 28 anni di carcere.
L'INGRESSO NEI GRIGIONI

Numero di società operanti nel Cantone Grigioni e provenienti dal Canton Ticino, suddiviso per tipologia ed anno (alcune società hanno nello scopo sociale più di una attività) (Fonte: Consiglio di Stato svizzero)
Settore   2013   2014   2015   2016   2017
Settore   2013   2014   2015   2016   2017
Fiduiciario   22   34   38   36   22
Edilizio   3   11   15   20   15
Esercizi pubblici   7   4   5   8   3
Altro   2   14   24   29   27
TOTALE   34   63   82   93   67
LA PARTENZA DAI GRIGIONI

Numero di società operanti nel Canton Ticino e proveniti dal Canton Grigioni suddiviso per tipologia e anno (alcune società hanno nello scopo sociale più di una attività) (Fonte: Consiglio di Stato svizzero)
Settore   2013   2014   2015   2016   2017
Settore   2013   2014   2015   2016   2017
Fiduciario   3   12   9   8   9
Edilizio      4   5   6   4
Esercizi pubblici   3   3   3   3   
Altro    6   7   12   22   3
TOTALE   12   26   29   39   16
Non è difficile capire perché dal Canton Ticino, dove un minimo di controllo da qualche anno c'è, le società vengono a perdersi in lande sperdute e poco abitate. Basti pensare che a Grono una società - dopo aver cambiato due indirizzi in tre anni - ora dichiara ufficialmente al Registro di commercio del Canton Grigioni di non avere «più un domicilio legale».
Le stranezze ci sono anche in val Calanca. A Rossa, un posto sperduto che in inverno ha più neve che sassi, ha sede una società che ha come scopo la fornitura dei servizi industriali e civili per le società petrolifere e petrolchimiche. Non solo: fornisce anche il catering alle piattaforme offshore di perforazione e di produzione e alle petroliere. In appena quattro anni la società ha cambiato quattro sedi, passando da Lugano a Roveredo e a Grono prima di approdare a Rossa.
L'ARRIVO NEI GRIGIONI PAESE PER PAESE DAL CANTON TICINO

Trasferimenti di sede: partenza per il Canton Grigioni (Fonte: Consiglio di Stato svizzero)
Anno   2013   2014   2015   2016   2017
Anno   2013   2014   2015   2016   2017
Per Roveredo   9   16   21   22   19
Per Grono   8   15   25   31   27
Per S. Vittore   4   6   10   10   1
Per Rossa   5   5   1   2   5
Per Mesocco   1   7   8   4   4
Per Cama   *   2   2   2   2
Per Soazza   *   *   1   2   *
Totale per Gr-It   27   51   68   73   58
Per gli altri comuni Gr   7   12   12   18   7
Totale per Gr   34   63   80   91   65
% Gr-It rispetto totale Gr   79,41   80,95   85   80,21   89,23
Totale per Ch   98   148   176   195   118
% Gr rispetto a Ch   34,69   42,56   45,45   46,66   55,08
L'ADDIO AI GRIGIONI PAESE PER PAESE

Trasferimenti di sede: partenza per il Canton Grigioni (Fonte: Consiglio di Stato svizzero)
Anno   2013   2014   2015   2016   2017
Anno   2013   2014   2015   2016   2017
Da Roveredo   7   11   15   12   7
Da Grono   1   9   7   11   4
Da S. Vittore   *   4   1   6   *
Da Rossa   *   *   1   1   2
Da Mesocco   2   1   1   4   1
Da Cama   1   1   *   2   *
Da Soazza   1   *   4   3   2
Totale per Gr-It   12   26   29   39   16
Da gli altri comuni Gr   7   14   7   14   7
Totale per Gr   19   40   36   53   23
% Gr-It rispetto totale Gr   63,15   65   80,55   73,58   69,56
Totale per Ch   103   161   151   157   107
% Gr rispetto a Ch   18,44   24,84   23,84   33,75   21,49
A Mesocco il mare non c'è, anche perché il passo di San Bernardino è lì con annessa stazione sciistica. Eppure proprio a San Bernardino, a 2.066 metri sul livello del mare, è registrata una società anonima che si occupa in particolare di trasporti navali speciali. È l'unica stranezza? No, perché sempre a San Bernardino è stata appena liquidata una società che si occupava di costruire e vendere imbarcazioni.
Il sindaco di San Vittore, Nicoletta Noi Togni
Un caso politico
La rivolta contro le società “bucalettere” è partita nel 2003 con la denuncia del sindaco di San Vittore, Nicoletta Noi Togni. Di recente però la questione è stata rilanciata con forza dal granconsigliere del Parlamento dei Grigioni, Peter Hans Wellig, albergatore di San Bernardino.
Il 13 giugno 2107 Wellig ha presentato un'interpellanza al Governo di Coira nella quale denuncia che «il Moesano è diventato un “Eldorado” per società “bucalettere” che non contribuiscono assolutamente all'economia regionale, ma che anzi la condizionano negativamente. La creazione di queste società porta con se sovente la richiesta e l'ottenimento dal Cantone tramite allestimento di contratti di lavoro “artificiosi”, di permessi» di residenza.
Wellig denuncia la facilità con la quale è possibile ottenere i permessi di dimora da parte di stranieri, che invece non vengono più rilasciati facilmente nel Canton Ticino per frenare la forte richiesta proveniente dall'Italia.
Il Granconsigliere dei Grigioni, Hans Peter Wellig
Le società infatti vengono spesso utilizzate per ottenere impropriamente i sussidi di disoccupazione. Il sistema è collaudato: si registra una società, ci si fa assumere come dipendenti e si ottiene il permesso di dimora. Una volta che la società viene fatta fallire si richiede il sussidio di disoccupazione, che in Svizzera arriva, di regola varia tra 400 e 520 giorni e consente di incassare al massimo 100.800 franchi svizzeri all'anno, che equivalgono a circa 85mila euro. non c'è dunque da meravigliarsi se i Grigioni italiani sono diventati un cimitero degli elefanti dove le società vanno a morire.
Nella sua risposta, il Governo di Coira ha specificato che dal 1° agosto 2013 l'Ufficio regionale di collocamento di Roveredo ha registrato 109 cittadini italiani titolari di permesso B che hanno beneficiato almeno di un'indennità giornaliera di disoccupazione.
Nel Moesano nel 2014 - ha denunciato Wellig - sono stati emessi dal competente ufficio di Roveredo 3.429 precetti esecutivi, che riguardano società fallite. Nel 2015 i precetti sono stati 3.595 e 4.128 nel 2016. Dal 2013 al 2014 i precetti sono aumentati del 170%. Nel 2016 il rapporto tra precetti esecutivi e popolazione (nella valle ci sono 8.300 abitanti) è stato di un precetto ogni due abitanti. A titolo di confronto nella Regione Bernina il rapporto è stato di uno a otto. Il Moesano è al secondo posto dopo Coira, nel Cantone dei Grigioni, per numero di fallimenti. Nei primi cinque mesi del 2017 sono stati già superati i 20 fallimenti contro i circa 40 dell'intero anno precedente.
L’avvocato Paolo Bernasconi (a sinistra) con l’inviato del Sole 24 Ore, Angelo Mincuzzi
Parola all'ex procuratore pubblico di Lugano
Di cimitero degli elefanti parla anche Paolo Bernasconi, avvocato ed ex procuratore pubblico di Lugano, che paragona la valle Moesa ai paradisi fiscali dei Caraibi definendola «una splendida isoletta tra i monti». Da molti anni, incalza Bernasconi, si assiste all'esodo di società da tutta la Svizzera verso i Grigioni italiani con l'obiettivo di farle fallire proprio in Mesolcina perché l'ufficio dedicato a seguire le pratiche è oberato di lavoro.
La mancanza di controlli è un carburante per le truffe. «Sono numerosissimi gli investitori, non solo italiani, ma anche ticinesi e da tutto il mondo - afferma Bernasconi - che sono stati truffati anche da società che hanno un ufficetto di rappresentanza a Lugano, con brochure in carta patinata, ma che operano in val Moesa».
Ma c'è la volontà politica di cambiare le cose? «Assolutamente no - risponde Bernasconi -, tanto che recentemente si è assistito alla revisione federale dei registri di commercio ma non è stato fatto nessun passo in avanti. E questi ultimi rimangono ciechi, sordi e muti».
Bernasconi racconta con una battuta di aver sollevato il problema già una trentina di anni fa, quando era magistrato a Lugano, e aveva consigliato ai suoi colleghi dei Grigioni che, se non fosse stato possibile aprire un ufficio giudiziario in Mesolcina, almeno affiggessero un grande cartello con la scritta “Attenzione, ministero pubblico del Canton Grigioni”. Un dissuasore che potesse fare quantomeno prevenzione.
Lex commissario a caccia di truffe
Le indagini di un ex agente sotto copertura
Ad aprire gli occhi sulla facilità con la quale è possibile creare società “bucalettere” in Mesolcina, in tempi non sospetti è stato anche Fausto Tato Cattaneo, ex commissario dell'antidroga ticinese, assurto agli onori della cronaca negli anni Ottanta per le sue operazioni sotto copertura per la lotta al traffico di stupefacenti e autore del volume “Come ho infiltrato i cartelli della droga”, pubblicato nel 2001.
Ormai in pensione, Cattaneo sta portando avanti investigazioni di natura privata per dare la caccia ai truffatori e alle infiltrazioni di natura criminale nell'economia della sua valle. Le sue inchieste daranno presto vita a un nuovo libro, al centro del quale ci saranno anche storie di molti fiduciari e faccendieri italiani. Il filo delle investigazioni di Cattaneo sui Grigioni italiani porta anche a imprenditori italiani residenti a Londra che hanno società nel Regno Unito e a Cipro, nota piattaforma di riciclaggio internazionale.
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