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Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2018, 08:50:52 pm
Elisabeth Revol, in ospedale, racconta la drammatica discesa dal Nanga Parbat: "Voglio guarire per vedere i figli di Tomek"
L'alpinista 37enne è rientrata in Francia. Non ce l'ha fatta il compagno di cordata, colpito da edema cerebrale dopo aver conquistato la vetta

Di MARIO DI CIOMMO
01 febbraio 2018

Elisabeth Revol è in ospedale, con le mani e i piedi fasciati. Sta tentando di recuperare il più possibile per evitare l'amputazione degli arti, ma è viva e per la prima volta racconta la sua discesa disperata dal Nanga Parbat, la nona montagna più alta al mondo che con i suoi 8.126 metri si staglia nell'Himalaya pachistano. È stata la 'montagna del destino' per Reinhold Messner, che lì perse suo fratello Günther, ed è stata la montagna dove Tomek Mackiewicz, alpinista polacco 43enne, ha vissuto le sue ultime ore, prima di spegnersi a 7.200 metri di altezza.

Per comprendere cosa voglia dire riuscire a divincolarsi da un colosso delle proporzioni del Nanga Parbat in pieno inverno, bisogna partire dalla fine. Da quella "grande emozione" descritta da Elisabeth nel vedere i soccorritori andarle incontro, a 6.300 metri di altitudine, dopo aver passato due notti senza equipaggiamento, sfidando il "freddo vivo" della montagna. "Mi sono detta 'Va bene' e l'emozione ha preso il sopravvento", ricorda l'alpinista francese parlando del momento in cui ha capito di avercela fatta, di essere sopravvissuta e di poter continuare a immaginare un futuro. Il suo compagno di cordata invece, non ce l'ha fatta.
Elisabeth Revol, in ospedale, racconta la drammatica discesa dal Nanga Parbat: "Voglio guarire per vedere i figli di Tomek"

LA VETTA E LA DISCESA - Il racconto della francese all'agenzia AFP è drammatico. "Siamo arrivati in vetta tardi, intorno alle 18. Lì però Tomek mi ha detto di non vedere più nulla. Immediatamente abbiamo cominciato a scendere". L'alpinista polacco si aggrappa a una spalla di Elisabeth, il terreno e il buio rendono difficile lo spostamento. “A un certo punto, non riusciva più a respirare, ha rimosso la protezione che aveva sulla bocca e ha cominciato a congelare. Il suo naso diventava bianco e poi le mani, i piedi”, racconta la francese.  A quel punto lei decide di chiamare i soccorsi. Lo scambio di messaggi è frenetico e molte richieste non arrivano ai destinatari. "Mi hanno detto: se scendi a 6.000 metri puoi essere recuperata. Tomek invece può essere raggiunto a 7.200 metri". Elisabeth segue le istruzioni e comincia a scendere. Al suo compagno dice semplicemente: "Arrivano gli elicotteri nel pomeriggio, devo scendere, ma verranno a prenderti".

L'ALLUCINAZIONE - Passa la notte senza tenda. Mentre tenta di conservare più calore possibile ha un'allucinazione. Le portano del tè caldo e lei per ringraziare si toglie uno scarpone. Passa così cinque ore con il piede sinistro senza protezione e l'arto si congela. Quando sorge il sole, a 6.800 metri, decide di non muoversi, per mantenere il calore corporeo. Sente le eliche dell'elicottero che si muovono in basso, ma il vento sta aumentando e decide di restare ferma. Quando le comunicano però che il mezzo di soccorso sarebbe potuto arrivare solo il giorno dopo, con la prospettiva di trascorrere un'altra notte al freddo, decide di scendere. "Stava diventando una questione di sopravvivenza", dice, e ricorda il dolore, il gelo e una calma difficile da comprendere in una situazione simile. Alle 3:30 del mattino raggiunge il campo a 6.300 metri, i soccorritori le si fanno incontro. L'emozione. La trasportano prima a Islamabad, poi il ritorno in Francia e il ricovero a Sallanches, in Alta Savoia.

Tomek non ce l'ha fatta, impossibile l'arrivo dell'elicottero a 7.200 metri. I suoi figli riceveranno presto la visita della persona con cui ha condiviso le ultime ore della sua vita. "Devo recuperare per andare da loro", racconta Elisabeth, gli occhi lucidi e una convinzione estrema: "Tornerò in montagna, ne ho bisogno".

© Riproduzione riservata 01 febbraio 2018

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