Titolo: Marzio BREDA. - Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2009, 06:35:08 pm «I magistrati di Catanzaro e Salerno? Si intimi loro di andarsene a casa»
Scalfaro: è stato commesso un reato Di Pietro ha infangato le istituzioni L'ex capo dello Stato: «C'è un limite a tutto, la dialettica non può arrivare fino ad infangare le istituzioni» ROMA — Presidente Scalfaro, l'Italia dei Valori ha attaccato il Quirinale in piazza Farnese. «Napolitano dorme», recitava uno striscione, mentre Antonio Di Pietro accusava il capo dello Stato di giudizi «poco da arbitro» e di «troppi silenzi» aggiungendo che «il silenzio è mafioso». Che cosa gliene pare? «Questo secondo me è reato. Se le parole sono quelle riferite da radio e televisione, è certamente un comportamento illecito. Che stavolta non si può decentemente contrabbandare come un normale capitolo del dibattito politico. E' vero, siamo in un regime democratico e la Carta costituzionale assicura a ogni cittadino la libertà di espressione, ma c'è un limite a tutto. La dialettica, anche aspra, è nella fisiologia del confronto, però a nessuno è lecito travolgere le istituzioni e infangarle impunemente. L'educazione e il rispetto dell'altro sono punti fondamentali del concetto stesso di democrazia». Dopo una gelida risposta del Colle e molte dichiarazioni di solidarietà a Napolitano, Di Pietro si è difeso sostenendo che «in democrazia dev'essere permesso a tutti di avanzare critiche e di manifestare» e ha precisato di «non aver voluto offendere il presidente». «Resto del mio parere. Non si possono lasciar passare nell'indifferenza sortite di questo genere. Davanti a queste forme gravi di abuso la democrazia si spegne. E qui siamo responsabili tutti: chi accetta questo sistema come se fosse normalità, chi tace, chi non reagisce. Tutti. L'esercizio del diritto democratico alla polemica, al dissenso, alla protesta va misurato sul registro della civiltà politica, tanto più quando a concedersi un linguaggio così intollerabile è un esponente di primo piano del Parlamento». E' uno scontro che si riaccende sulla giustizia. In piazza Farnese si recriminava proprio su quel tema, divenuto rovente con il conflitto tra le procure di Catanzaro e Salerno. «Una brutta storia, sulla quale il Quirinale è intervenuto tempestivamente, così come ha fatto il Consiglio superiore della magistratura. Da uomo che ha indossato la toga, e con orgoglio, dico che quando i magistrati si servono del loro ruolo e potere per iniziative personali, allora siamo alla guerra civile. Letteralmente. In casi come questi la soluzione è soltanto una: intimare loro di andarsene a casa. Per quanti meriti possano vantare lungo carriere magari decennali, il loro compito è uscire di scena. Il danno che simili comportamenti arrecano alla magistratura è immenso». Tra i motivi di pesanti recriminazioni, c'è la riforma sulla giustizia che il governo si prepara a varare. Con il controverso provvedimento sulle intercettazioni. «E' un punto critico, perché si tratta di assicurare la tutela dello Stato rispetto alla grande criminalità (che per me non assume solo il volto della mafia ma quello di tante altre forme di illegalità, a partire dall'evasione fiscale) senza turbare lo spazio di libertà che la Costituzione riconosce e garantisce a ciascuno. Bisogna dunque porsi alcune domande, e trovare delle risposte equilibrate: è lecito mettere sotto controllo chiunque, indistintamente? Chi ha il potere di ordinare questi controlli? Chi ne risponde, con una paternità specifica, intendo, ossia con nome e cognome? E chi è responsabile del danneggiamento che eventualmente ricada sul cittadino innocente dalla diffusione delle intercettazioni che lo riguardano? Questioni molto delicate, insomma, che non si possono risolvere con l'impulsività di un decreto». Marzio Breda 29 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: Marzio BREDA. - Inserito da: Admin - Marzo 13, 2013, 11:38:24 am Il timore di tensioni destabilizzanti
Mossa del capo dello Stato per evitare strettoie giudiziarie fino a metà aprile Non è mai stato così duro, sul conflitto tra politica e giustizia. Duro ed equamente severo, anche se è subito scattato il gioco delle interpretazioni per verificare a chi avesse assegnato i maggiori torti: ai magistrati o agli esponenti dei partiti, ossia del Pdl? Giorgio Napolitano lo ha ripetuto per sette anni, che quei due poteri dello Stato «non possono percepirsi ed esprimersi come mondi ostili, guidati dal reciproco sospetto». Ma ieri, citando la sua stessa vecchia metafora, ha certificato che si è ormai andati ben oltre gli aspetti impressionistici, oltre le percezioni. Siamo quasi allo scontro finale, almeno per come sembrano viverlo il capo del centrodestra, Silvio Berlusconi, e, forse, alcuni dei suoi giudici. Con il rischio che si produca «una spirale di tensioni destabilizzanti per il sistema democratico». Pericolo tanto più temibile, dal suo punto di vista, in questa fase critica di un dopo-voto che ci ha consegnato tre minoranze e quasi nessuna prospettiva di veder nascere un governo. C'è vasta e problematica materia di riflessione, per toghe e politici, nella doppia nota che il presidente della Repubblica - e del Csm - ha fatto diffondere al termine di una giornata fitta d'incontri e di analisi incrociate, al Quirinale. Testi che ha scritto e limato di proprio pugno, assumendosi personalmente (e lo evidenzia l'uso della prima persona) la responsabilità di una mediazione difficilissima, nell'estremo tentativo di imporre un armistizio alle parti. Un passo che sentiva di «dover compiere», per dare uno sbocco democratico alle elezioni. Una scelta non semplice, quella del capo dello Stato. Dominata dalla consapevolezza di quanto fosse stretto il passaggio che aveva di fronte, in particolare nel mezzo di un conflitto così feroce, e di tenere saldo il suo ruolo di garanzia sia nei confronti della politica sia dei magistrati. Non a caso il Pdl, nel chiedergli lunedì un'udienza, aveva sottolineato la sua funzione di vertice del Consiglio superiore della magistratura. E per dare un segno formale di rispetto del Csm e attribuirgli solennità, ha invitato il comitato di presidenza sul Colle, condividendo l'appello con il proprio vice, Michele Vietti. Ora, non c'è dubbio che, accanto al «rammarico» (leggibile, nel lessico quirinalizio, alla stregua di una censura) per ciò che i parlamentari berlusconiani hanno messo in scena nelle aule del palazzo di giustizia di Milano l'altro ieri e sfociato «in una manifestazione politica senza precedenti», il primo assillo di Napolitano è il peso che l'escalation di tensioni con le Procure potrà avere sulle imminenti scadenze istituzionali. E se è vero che quel tipo di protesta è - e resta - per lui un'inammissibile pressione nei confronti di un organo dello Stato autonomo e indipendente, è altrettanto vero che la magistratura dovrebbe dimostrare «grande attenzione» nelle prossime settimane, in modo da evitare «interferenze tra vicende processuali e vicende politiche». Vale a dire che il Cavaliere, leader dello schieramento che, come numero di parlamentari, «è risultato secondo a breve distanza dal primo», deve «veder garantita» la possibilità di «partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento». Fase che, aggiunge eloquentemente, «si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile». (Quando saranno finite le consultazioni per formare un nuovo esecutivo e il Parlamento comincerà a votare per il dodicesimo presidente della Repubblica). Questa era la «preoccupazione comprensibile» che gli avevano espresso i rappresentanti del Pdl in mattinata, senza peraltro azzardarsi a riproporre davanti a lui il già minacciato Aventino in aula. E questa pare anche la sua, di preoccupazione, tenendo presente lo stallo dei negoziati tra i partiti e l'incombere degli adempimenti preliminari indispensabili per l'insediamento delle Camere e la partenza della legislatura. La tenaglia di tribunali e procure, sembra insomma di capire, imporrebbe un supplemento di prudenza. Per evitare provocazioni, strumentalizzazioni, tensioni. Qualcuno, nel decrittare il segnale lanciato da Napolitano, evoca la ragion di Stato. Quasi che, fra i suoi intenti, ci sia quello di suggerire ai giudici un rallentamento della loro azione, in nome appunto di un interesse superiore. Ossia: il varo della legislatura e la messa in sicurezza del Paese, oggi più che mai sorvegliato speciale delle Cancellerie e dei mercati, con il tentativo di dare vita a un governo. Interpretazione plausibile, con l'aria che tira. Ma che è di sicuro opportuno valutare insieme ad altre sue frasi di forte significato. A partire dal richiamo, rivolto chiaramente a Berlusconi, in maniera che si convinca che «nessuno può considerarsi esonerato dal controllo di legalità in forza dell'investitura popolare ricevuta». E comprendendo l'avvertimento a quei giudici che pensano di «attribuirsi missioni improprie», mentre debbono tutti osservare «scrupolosamente i principi del giusto processo» e i «diritti della difesa». Marzio Breda 13 marzo 2013 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_13/timore-di-tensioni-destabilizzanti-marzio-breda_2e14d06e-8ba0-11e2-8351-f1dc254821b1.shtml Titolo: Marzio BREDA. - La strada del mandato «condizionato» Inserito da: Admin - Marzo 22, 2013, 06:32:24 pm Difficile per il presidente non concedere questa chance
La strada del mandato «condizionato» Il segretario pd avrà un incarico. Avrà due o tre giorni al massimo per dimostrare di avere l'autosufficienza ROMA - Lo stallo è continuato fino a sera. La strada per risolvere il rebus del dopo voto da stretta, anzi, strettissima, sembrava diventata un vicolo cieco. Eppure Pierluigi Bersani non si rassegnava e non si rassegna: è pronto a combattere fino in fondo e rivendica il diritto di imboccarlo, quel sentiero. Per quanto impervio e buio possa essere. Attraverso un richiamo alla corresponsabilità, vuole provare a mettere in piedi il suo «governo di cambiamento». Insomma: è determinato ad aprire la sfida (sul proprio progetto, il proprio programma, i propri nomi) a «tutte le forze parlamentari», a costo di farsi dire pubblicamente di no e di non raggiungere così l'autosufficienza di cui avrebbe bisogno in Senato. E in ogni caso senza digerire l'idea di un passo indietro per carità di patria. Ecco l'aggrovigliato nodo che ieri sera Giorgio Napolitano si è trovato a sciogliere, al termine di due giorni di consultazioni, facendo ricorso a tutta la sua esperienza politica e istituzionale. È difficile, per lui, non concedere al segretario del Partito democratico questa chance, attraverso un incarico. Difficile, per non dire impossibile, anche se sa bene - e lo sa Bersani - che un simile tentativo è esposto al rischio del fallimento e potrebbe dunque rivelarsi un azzardo, oltre che una perdita di tempo. Tuttavia il presidente della Repubblica un tale passo lo deve fare, in forza del responso delle urne, in base al quale il Pd può vantare la vittoria, seppur mutilata. Ora, a parte lo scatto d'orgoglio politico e personale del candidato premier, a parte il suo bisogno di tenere unita una dirigenza in tensione e sotto stress, a parte il vago sapore pre elettorale che questa mossa si porta dietro, ciò su cui ci si è interrogati a lungo era la natura del mandato. Che, si può anticipare, non sarà pieno. Qualcuno azzardava che potrebbe essere «esplorativo», così che Bersani in persona verificasse se è in grado di ottenere i numeri dei quali ha bisogno: ma gli «esploratori» sono di solito figure terze, quasi sempre alte cariche dello Stato, e tale scelta non si applica mai a chi deve poi mettere in piedi il governo. Sarà quindi, comunque il Quirinale decida di qualificarlo (e la definizione risulterà dagli stessi contenuti con cui il presidente lo configurerà), un mandato «condizionato», e in un passaggio come il nostro la condizione regina è ovviamente che ci sia una maggioranza per la fiducia. Sarà questo il primo, e provvisorio, giro di boa del consulto quirinalizio. Napolitano lo formalizzerà nel pomeriggio di oggi, dopo aver completato in solitudine le sue riflessioni e tratto un bilancio dal faticoso confronto che ha avuto con tutti gli attori in campo. Il primo dato sensibile raccolto è che esiste una larga maggioranza che, nonostante le minacce incrociate dei giorni scorsi, non vuole tornare al voto: risultato scontatissimo, se non altro per l'istinto di autoconservazione che percorre un Parlamento appena insediato. Ha poi dovuto affrontare l'atteso faccia a faccia con il leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo (e c'è stata molta curiosità reciproca e qualche ironia sdrammatizzante), dopo il quale ha dovuto verbalizzare quel che in rete era stato già ripetuto infinite volte dal blogger: nessuna stampella al Pd, nessuna foglia di fico, nessuna fiducia a governi dei vecchi partiti. A parte il copione già recitato del centrodestra berlusconiano, l'autentico scoglio da aggirare era l'incontro delle 18 con Bersani. Dal Pd erano stati fatti filtrare segnali duri e preoccupanti anche per il Quirinale. Dall'entourage del vertice si continuava a bocciare qualsiasi scenario di larghe intese con il Pdl. Un arroccamento fondato su un vero ukase: se si insiste per un accordo con Berlusconi, si deve capire che, a parte una quarantina di renziani e una decina di veltroniani, gli altri 290 parlamentari del partito si schiereranno compatti contro. E non resterà altro che il voto. Una pressione finalizzata a scoraggiare Napolitano e chiunque coltivi l'ipotesi di un esecutivo «del presidente», «istituzionale», «di scopo», o comunque lo si chiami (ipotesi sposata dal centrodestra nel tentativo di rimettersi in gioco), e sulla quale si erano sprecati gli identikit del possibile premier. Da stasera toccherà a Bersani, provare a far uscire il Paese dall'impasse. Non avrà molto tempo: due o tre giorni al massimo. Dopo di che, se tornerà sul Colle senza dimostrare - carta alla mano - di essersi guadagnato l'autosufficienza, l'ultima mossa sarà del capo dello Stato. E, contro ogni obliqua minaccia, c'è da giurare che un impensabile deus ex machina per un suo governo lui lo scoverà. Marzio Breda 22 marzo 2013 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_22/mandato-condizionato-breda-bersani_6a6ebe8a-92b2-11e2-b43d-9018d8e76499.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Il Colle e la carta del «modello Ciampi» Inserito da: Admin - Marzo 28, 2013, 10:53:35 am DOPO IL VOTO
Il Colle e la carta del «modello Ciampi» Numeri certi o accordi chiari. Altrimenti, una personalità forte per un governo di scopo ROMA - «Salirò al Colle per spiegare gli esiti delle mie consultazioni e senza fare diktat», dice Bersani a metà di una giornata ad altissima tensione. Un annuncio dal sapore paradossale, visto che i provvisori risultati della sua verifica politica non gli consentono proprio di lanciare ultimatum. Dopo il prevedibile «no» del Movimento 5 Stelle, il tentativo resta impaludato in un groviglio di spiragli e chiusure, bluff, ipotesi e subordinate più o meno verosimili (giocate soprattutto sul nodo della successione al Quirinale), che sono alla base della trattativa in corso tra gli emissari del segretario del Pd e il Pdl e la Lega, l'altra grande minoranza uscita dalle urne. Un marasma che Giorgio Napolitano segue con preoccupazione, assillato dall'urgenza di chiudere la partita anche per certi segnali in arrivo dalle piazze finanziarie, come l'impennata dello spread a quota 350. Oggi, a quanto pare, si chiude. Pier Luigi Bersani ha voluto tentare «l'impresa» a ogni costo, pur sapendo che era proibitiva. La possibilità gli è stata concessa, senza fargli fretta, ma con il sottinteso che non erano ammesse tattiche dilatorie. Il time over scatterà tra poche ore e, quando il candidato premier si presenterà davanti al presidente della Repubblica, non avrà alternative: o sarà in grado di esibire numeri sicuri (o patti politici tali da garantirgli un esplicito sostegno «tecnico» attraverso un gioco di presenze-assenze in aula o con altre forme di desistenza) che gli assicurino una vera maggioranza, oppure dovrà rinunciare. Solo a questa condizione il pre-incarico ricevuto dal capo dello Stato potrebbe trasformarsi in un incarico pieno, in modo che la sfida della fiducia non sia un salto nel buio. Prospettiva che sarebbe un pericoloso azzardo per lui e per il Paese, che «di tempo non ne ha più», come ha segnalato più volte Napolitano. A quel punto, nell'ipotesi - fino all'ultimo non scontata - di un fallimento, tutto tornerà nelle mani di Napolitano. Che se, fino alle dimissioni di Terzi, poteva coltivare come strategia d'uscita un prolungamento di Monti e passare la pratica al successore, ora dovrà invece provare subito la strada di un governo «di scopo», guidato da una personalità autorevole e di caratura istituzionale (un precedente assimilabile è quello di Ciampi nel 1993), in grado di far convergere un vasto arco di partiti su quella Grande Coalizione che in Europa si giudica inevitabile, quando si ha un risultato elettorale bloccato, ma che è oggi respinta dal Pd. E allora, davanti a una sfida lanciata dal Quirinale, gli italiani misureranno fin dove arriva la responsabilità di ciascuno. D'altro canto, il presidente lo ha lasciato capire bene nelle scorse settimane: qualsiasi governo che nasca con la tara di essere «di minoranza» è un rischio perché di solito su di esso grava la riserva per cui, se non riuscisse a superare la prima prova del Parlamento, non rimarrebbero poi alternative differenti da un immediato ritorno alle urne. Esattamente quello che il Quirinale non intende né può concedere, dato che siamo nel semestre bianco. Un tentativo che il capo dello Stato sa di poter compiere in base a un paio di risultati messi a verbale nelle sue consultazioni: 1) una parte assai larga delle forze politiche, anche per un ovvio istinto di sopravvivenza, non vuole un nuovo voto subito; 2) tutti hanno consapevolezza che la crisi economica e sociale impone un governo. Da ultimo, l'ipotesi affiorata ieri di «andare avanti» comunque «facendo conto solo con un regime parlamentare» che «al limite può essere senza governo» (supponendo ci si riferisca alla citatissima esperienza del Belgio) non ha alcuna consistenza. Perché sarebbe contro i princìpi del nostro ordinamento. Insomma: è un'ipotesi che non esiste, né per il Quirinale né per i costituzionalisti, nessuno dei quali ci si è mai soffermato neppure ragionandone accademicamente. Marzio Breda 28 marzo 2013 | 9:16© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_28/il-colle-carta-modello-ciampi-breda_48fd137e-9770-11e2-8dcc-f04bbb2612db.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Governo del presidente o ipotesi dimissioni Inserito da: Admin - Marzo 31, 2013, 07:35:31 pm L'identikit: un candidato proveniente dalla Consulta
Governo del presidente o ipotesi dimissioni La via (stretta) per uscire dallo stallo dopo il fallimento delle consultazioni di Pier Luigi Bersani ROMA - Si sbloccherà tutto stamane. In due modi, dall'impatto opposto. La prima possibilità è di assistere alla convocazione al Quirinale di una personalità di forte caratura istituzionale (ad esempio un presidente o ex presidente della Consulta), cui Giorgio Napolitano potrebbe affidare l'incarico di formare un «governo del presidente» o «di scopo». La seconda possibilità, ben più traumatica, è di trovarci invece a registrare le dimissioni anticipate del capo dello Stato, che (forse già martedì 2 aprile) potrebbe decidere di passare la mano al proprio successore, data l'estrema difficoltà di superare lo stallo. Uno sbocco, questo, che dimostrerebbe come la nostra crisi di sistema renda impossibile, per lui, esercitare quel ruolo che - secondo i costituzionalisti - fa di ogni inquilino del Colle «il motore di riserva che può riattivare i meccanismi inceppati del processo democratico». E' questo il doppio scenario con cui dovrebbe chiudersi la tormentata partita apertasi subito dopo le elezioni del 24-25 febbraio. Una sfida alla quale il capo dello Stato ha tentato fino a ieri sera di mettere la parola fine nel modo più costruttivo e utile per il Paese, tale da sedare lo scontro nel quale si è pericolosamente avvitato il confronto politico. Con tutti i partiti ostaggio di interdizioni reciproche, provocazioni, bluff, rimpalli di responsabilità e, insomma, prigionieri di quelle pregiudiziali e quei «troppi no» che Enrico Letta ha addebitato ieri sera agli antagonisti vecchi e nuovi (Pdl e Cinque Stelle), escludendo però i «no» del suo Pd. Dopo una consultazione lampo che ha riprodotto il clima del conflitto in corso con una prevedibile simmetria di dinieghi, ecco le sole alternative ad un ritorno immediato alle urne. Certo si aspettava di più, Napolitano, dopo il congelamento del tentativo portato avanti con ostinazione dal segretario del Pd. Si aspettava di essere incoraggiato da una disponibilità che invece non ha trovato, se non parzialmente e freddamente nella solita, ma non convinta, formula del «ci rimettiamo alla sua saggezza». Rigido si è rivelato il centrosinistra, con un Sel fermo a insistere su un mandato pieno a Bersani, per una sfida in Senato su una incertissima fiducia. Ma sulla stessa linea era anche il gran corpaccione del Partito democratico, con eccezioni ancora piuttosto timide. Indisponibili ad appoggiare l'ultima spiaggia di un esecutivo d'emergenza si sono mostrati pure il Pdl e, con qualche modesto distinguo, la Lega. Un quadro che di sicuro non poteva incoraggiare il presidente quando, all'ora di cena, si è chiuso a riflettere nel suo studio. «Non sono disponibile a fare governicchi alla fine del mio mandato e all'inizio di una nuova legislatura», ha ripetuto a più di un interlocutore, verificando amaramente quanto fosse rigida l'incomunicabilità tra i partiti. E ad altri ha confidato: «Un governo del presidente senza il presidente, come si fa? Forse è meglio che sia il prossimo inquilino di queste stanze a far partire, se ci riesce, un esecutivo del genere... almeno potrà sostenerlo con la forza della propria carica». Un motivatissimo rovello, il suo. Basta infatti pensare a quale livello di indiretta delegittimazione ne ricaverebbe personalmente Napolitano, se un governo battezzato nel sigillo del suo Quirinale dovesse fallire. Avrebbe, per lui, lo stesso sapore di sconfitta che deve aver provato quando ha visto come è stato fatto cadere, pochi mesi fa, il gabinetto di Mario Monti. La notte scorsa Napolitano l'ha trascorsa cercando di inventarsi un nome, una parziale lista di ministri e un'agenda, per quell'esecutivo «speciale». Ha avuto qualche contatto con le persone di cui più si fida. E' un uomo abituato ad analizzare le cose freddamente e con calma, a «governare le passioni», a valutare costi e benefici, le principali e le subordinate di qualsiasi scelta, senza escludere nulla. Tuttavia, il peso di questo convulso passaggio ricade solo sulle sue spalle. E, da ciò che è andato in scena nelle ultime ore al Quirinale, potrebbe ormai avvertirlo come insostenibile. Se dovesse decidere di lasciare, fino a quando non sarà eletto e insediato il dodicesimo capo dello Stato, i suoi poteri passeranno nelle mani del «supplente», il presidente del Senato Pietro Grasso. Marzio Breda 30 marzo 2013 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_30/governo-presidente-dimissioni-napolitano_9e59df0c-9903-11e2-be8a-88dcfd04ece6.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Napolitano e le polemiche «Lasciato solo dai partiti» Inserito da: Admin - Aprile 02, 2013, 12:16:16 pm Esclusivo
Napolitano e le polemiche «Lasciato solo dai partiti» Il caso della assenza di donne tra i saggi: si sfiora il ridicolo di MARZIO BREDA ROMA - «Dopo sette anni sto finendo il mio mandato in un modo surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente...». Giorgio Napolitano riflette sulla sua amarissima Pasqua, «il momento peggiore del settennato», nella quale si è scoperto bersaglio di una marea montante di polemiche. La sua idea di far decantare per un po' l'aria di impazzimento generale attraverso il lavoro di un doppio comitato di specialisti incaricati di «formulare precise proposte programmatiche» in grado di divenire «in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche», è stata travisata e criticata in modo ingiusto e insolente. Giornali ed esponenti di partito - da destra ma anche da sinistra - hanno parlato di «commissariamento delle Camere», di «golpe», di «ritorno della monarchia», di «oligarchia alla corte di re Giorgio con sapore di inciucio», di «anomalia», di «presidenzialismo di fatto», di «scelta incostituzionale», di «badanti della democrazia»... Un bombardamento per il quale il capo dello Stato oggi recrimina di sentirsi «lasciato solo dai partiti», senza che si sia voluto tenere conto di ciò che aveva spiegato davanti a cronisti e telecamere convocate al Quirinale sabato scorso, a chiusura del terzo (due compiuti da lui personalmente; un altro, più lungo, da Bersani) giro di infruttuose consultazioni per dar vita a un esecutivo. Giorgio Napolitano il giorno dell'annuncio dell'istituzione dei due gruppi di lavoro (Eidon/Antimiani)Giorgio Napolitano il giorno dell'annuncio dell'istituzione dei due gruppi di lavoro (Eidon/Antimiani) Quel giorno - ecco la sua ricostruzione - ha pregato due gruppi di persone, diverse tra loro ma con alcune caratteristiche di competenza o istituzionali, di fare una specie di «quadro sinottico» di problemi da affrontare, tenendo conto delle posizioni che si sono espresse finora o aggiungendovi ciò che vorranno... Aveva in mente, insomma, un lavoro istruttorio che può facilitare il successivo compito per la formazione del governo. Più d'uno ha rievocato, per diverse analogie, il famoso esempio dell'Olanda, dove nell'ottobre 2012 liberali e laburisti firmarono una pragmatica intesa, chiamata «Costruire ponti», per accordarsi su poche misure concrete, necessarie a traghettare il Paese al di là della crisi. Un'iniziativa condivisa tra forze antagoniste, «che però si parlano tra di loro, a differenza di quanto accade in Italia», e che hanno impiegato 44 giorni per raggiungere un'intesa. I comitati pensati dal presidente della Repubblica lavoreranno al massimo 8-10 giorni, e non c'è nulla di formalizzato per quanto li riguarda, nulla che consenta di dire che il Quirinale ha creato un nuovo Parlamento. In realtà, che c'entra il Parlamento, chi lo tocca?, si sfoga Napolitano. Anche sulla controversa assenza delle donne tra i consulenti da lui messi insieme «con acrobatiche ricerche», va considerato che il capo dello Stato ha inserito i presidenti delle commissioni speciali che si sono costituite alla Camera e al Senato e che, sebbene certo gli dispiaccia che in quelle commissioni non vi sia una donna, non poteva farci niente. Anche qui, dal suo punto di vista, «si sfiora il ridicolo». Quasi che lui avesse formato addirittura un governo senza metterci una donna. E, per di più, quasi che l'opera dei comitati possa proiettarsi su un orizzonte temporale indefinito, mentre sono entrambi legati al suo mandato e oltre questo termine non possono chiaramente andare. Lui raccoglierà quel che i due gruppi avranno svolto di riflessione, di analisi, di rassegna, lo manderà ai presidenti dei gruppi parlamentari e lo farà avere, raccolto in una bella cartellina blu, al proprio successore. Tutto qui, semplicemente. Ciò che adesso rende incomprensibili, per Napolitano, certe reazioni di sospetto. Come se avesse voluto fare chissà che cosa. A questo quadro confusissimo e al limite dell'isteria si è giunti al termine di una «giornataccia» nella quale il presidente si era reso conto d'essere completamente paralizzato. Aveva dato un pre-incarico a Bersani che, a chiusura delle sue consultazioni, gli è però andato a dire di non essere riuscito ad assicurarsi nessuna garanzia per una maggioranza al Senato: soltanto impegni aleatori del Movimento 5 Stelle e mezze promesse della Lega. Non ha chiesto di poter continuare, il segretario dei democratici. Né di veder trasformato il pre-incarico in un mandato pieno per costituire il governo, il che avrebbe implicato una formalizzazione con il giuramento e con il successivo insediamento a Palazzo Chigi insieme a tutti i ministri, anche se fosse stato battuto in Aula. Cose che Napolitano, quando ha incontrato il Pdl, aveva riferito, spiegando la propria scelta e ricevendo giudizi di apprezzamento per la correttezza dimostrata. A questo punto è emerso, chiaramente e drammaticamente, lo stallo: 1) l'incarico a Bersani non poteva essere dato, pena un evidente rischio di fallimento; 2) la lista Monti si era dichiarata favorevole a far nascere un governo, ma solo se avesse avuto l'appoggio di entrambi i partiti maggiori; 3) il Pdl accettava unicamente un governo di larghe intese; 4) il Movimento 5 Stelle, al quale il presidente si era rivolto in modo serio e non polemico, era di fatto fuori gioco, perché quale governo si potrebbe mai formare sulla base di un 25 per cento? Uno scenario bloccato - ragiona Napolitano - di fronte al quale sarà il nuovo presidente a prendere iniziative. Può formare il governo che crede opportuno e dare l'incarico e poi mettere il sigillo sulla lista dei ministri con il giuramento e mandarlo alle Camere... avendo comunque a disposizione già in partenza il potere di scioglimento a lui precluso. E potrà avvalersi pure dell'«istruttoria» compilata dai due gruppi di «facilitatori» (persone del tutto disinteressate o che sono già state coinvolte in commissioni analoghe in cui si era concordato qualcosa, anche se non è mai andato in porto), che il capo dello Stato insedierà stamane con la raccomandazione di verificare le distanze politiche. Ossia di rispondere a qualche semplice domanda: davvero non ci sono posizioni convergenti su alcune priorità? Esistono dei punti di divergenza superabili? Sulle loro conclusioni i partiti si potranno fare le proprie valutazioni e magari decidere se potrà essere costruita un'alleanza, un qualche governo di coalizione su quelle basi. E le dimissioni? Quanto ci si è arrovellato sopra, Napolitano? E perché non le ha date? La risposta, benché già riassunta nella nota che il presidente ha letto sabato al Quirinale, è la seguente: ha deciso di restare al suo posto per garantire un elemento di continuità, così come un elemento di certezza è per lui rappresentato dall'operatività del governo... Se si fosse limitato alle risultanze degli ultimi colloqui che aveva avuto, avrebbe dovuto riconoscere: «Sono conclusioni che fanno disperare della possibilità di governare questo Paese». In definitiva, le sue dimissioni, che sarebbero state ampiamente motivate dalla paralisi nella quale si venuto a trovare (non poter dare alcun incarico, non poter formare alcun governo, non poter sciogliere) avrebbero contraddetto l'impegno di offrire un impulso di «tranquillità». Di dare la sensazione che «lo sforzo continua». Di confermare l'impianto del suo settennato, ispirato a «dare agli italiani un senso di comunità e di unità», come si è potuto vedere per il 150° anniversario della nostra Unità. Giustamente il capo dello Stato ricorda quando, essendo uscita dalle urne una maggioranza, sia pur zoppicante come quella del 2006, per lui fu «uno scherzo» risolvere la crisi e formare un governo. Oppure quando si ebbe una maggioranza netta, come nel 2008, allo stesso modo non ci mise niente a insediare un esecutivo. O, infine, quando nel 2011 quella stessa maggioranza era franata, prima di dare l'incarico a Monti consultò i maggiori gruppi ed ebbe da loro la certezza che avrebbero dato la fiducia al premier tecnico, senza che lui lo mandasse al buio in Parlamento. Se oggi qualcuno proponesse di affidare il mandato a un non-politico, si scatenerebbe l'iradiddio, tutti farebbero un fuoco di sbarramento perché ripetono che il governo dev'essere politico e basta... ed è su questi diktat che ogni chance si è impantanata. Quasi che non ci si renda conto, in una rincorsa di equivoci e ambiguità interessate, che il potere di nomina del capo dello Stato - come ha sottolineato il grande giurista Beniamino Caravita - «non è libero, illimitato, affidato alla sua insindacabile discrezione, bensì è un potere teleologicamente orientato: può e deve essere esercitato affinché il soggetto nominato abbia, secondo l'articolo 55 della Costituzione, «la fiducia delle due Camere». Presto Napolitano avrà sul tavolo le conclusioni dei suoi consulenti (la parola «saggi», puntualizza, non l'ha mai pronunciata, anche perché può far credere a un percorso di lavoro di mesi, se non quasi permanente): dal 15 aprile saranno convocate le Camere che, se saranno già pronti i rappresentanti dei Consigli regionali, tra il 16 e il 18, cominceranno a votare per il nuovo presidente della Repubblica. Oltre non potrà andare. Ciò significa che, anche se il suo settennato costituzionalmente finisce il 15 maggio, molto probabilmente lascerà prima. Per lui non è detto che il clima agitato di questi giorni si esasperi nel momento in cui i partiti dovranno eleggere il suo successore. Dopotutto, dice, il buon compromesso fa parte della politica. E rammenta quel che accadde nel 1999, nel contesto incandescente che registrava un centrodestra all'attacco e un centrosinistra profondamente vulnerato. Bene, in quel contesto, e senza che nessuno dei due fronti in competizione avesse minimamente disarmato, il Parlamento riuscì a mandare Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale con una larghissima maggioranza. Ricorda ancora il titolo dei giornali, Napolitano: «Accordo Berlusconi-D'Alema per eleggere Ciampi». Che è stato un ottimo presidente. 2 aprile 2013 | 8:34 da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_02/napolitano-e-le-polemiche-lasciato-solo-dai-partiti-breda_80bfedc2-9b53-11e2-9ea8-0b4b19a52920.shtml Titolo: Marzio Breda. Il capo dello Stato chiede «garanzie precise» Inserito da: Admin - Giugno 04, 2013, 05:31:56 pm Il retroscena - Il capo dello Stato chiede «garanzie precise»
Ecco il piano di Napolitano: «Cronoprogramma per tenere il ritmo» L'appello a un «atteggiamento aperto» ROMA - «Tenere il ritmo». Ecco che cosa aveva anticipato domenica sera Giorgio Napolitano, spiegando agli attori della scena politica quel che servirà, una volta completate le procedure e inaugurato il cantiere delle riforme, per chiudere davvero in 18 mesi - secondo l'indicazione di Enrico Letta - il processo dell' engeneering istituzionale. Ieri ha fatto un passo in più, sul tema del riordino della Costituzione. Ha spinto il governo a scrivere un preciso «cronoprogramma», in modo che la futura commissione congiunta di Senato e Camera (affiancata dal Comitato di 25 esperti destinato a insediarsi forse già entro la settimana) si impegni ad una regolare scansione dei lavori. A «tenere il ritmo» fino alla fine, appunto. È questo il senso del pressing che il capo dello Stato sta compiendo, con la richiesta di precise garanzie al premier, al suo vice Alfano, al ministro per le riforme Quagliariello e al ministro per i Rapporti con il Parlamento Franceschini, ricevuti insieme al Quirinale. Ovviamente non si è limitato a un discorso sul metodo, il presidente. Ha sollecitato tutti ad accostarsi al tema con un atteggiamento aperto, in cui ogni proposta sia valutata serenamente e senza il sospetto che si voglia scardinare la Carta fondamentale, entrata in vigore nel 1948. Perché gli accordi si raggiungono solo così. Altrimenti ci si avvita nella nostra eterna «inconcludenza». Quel testo, ha ripetuto più volte e pure ieri, è per un verso intoccabile, ma non del tutto irriformabile. Nella sua prima parte, costituita da principi, diritti e doveri del cittadino, sono sanciti grandi valori e indirizzi che restano assolutamente validi e attuali. Intangibili, insomma. Per la seconda parte, invece, che riguarda l'ordinamento, il dibattito su qualche rettifica dell'architettura istituzionale è in corso ormai da anni, infruttuosamente, ed è dunque lecito dire che «si può» (come prevede l'articolo 138) e anzi «si deve», intervenire. Posto tutto ciò, gli studiosi e i delegati dei partiti che si accingeranno a dissodare questo delicato terreno dovrebbero agire senza tabù preventivi, senza aprioristiche preclusioni. L'importante è che, per ogni formula presa in considerazione - e sul nodo dell'evoluzione in senso presidenziale della figura del capo dello Stato è sul tavolo pure la soluzione francese - si calibrino con attenzione i pesi e i contrappesi necessari. Anche al di fuori della griglia tradizionale degli organi istituzionali. Le sue aspettative sono queste e per la deriva che il dibattito sta prendendo, con propagandistici e quotidiani duelli tra partiti e con divisioni non proprio di dettaglio dentro gli stessi partiti, Napolitano davvero non vorrebbe che le riforme diventassero un tema secondario, nella missione dell'esecutivo. La sua speranza, dunque, è che sia incanalato lungo un percorso parallelo a quello degli altrettanto inderogabili provvedimenti anticrisi. Ma con lo spirito giusto, seriamente. Senza che qualcuno possa permettersi di avanzare il dubbio che già il porre la questione sia un espediente per far durare di più Enrico Letta a Palazzo Chigi. Non è un retropensiero esageratamente allarmistico, quest'ultimo. Infatti quel sospetto sta già facendosi largo, in una certa parte del mondo politico (e non solo), assieme ad altre letture fuorvianti ed equivoche delle parole di Napolitano alla festa della Repubblica. L'indicazione dei «18 mesi per fare le riforme» - per capirci - non era affatto un perentorio limite temporale posto dal Colle alla sopravvivenza del governo. Mutuando un confine cronologico indicato dallo stesso premier, il capo dello Stato si era limitato a segnalare la scelta «eccezionale» delle larghe intese - scelta che ha comportato qualche «sacrificio» dei partiti e che evidentemente è di per sé transitoria - su cui un mese fa è nato l'esecutivo. Ancora: i suoi cenni recenti alla riforma elettorale non vanno tradotti, come pure alcuni hanno voluto fare, con un secco addio al bipolarismo. Non a caso si era preoccupato di precisare che «non sta scritto da nessuna parte che si debba tornare al proporzionale puro, quanto piuttosto salvaguardare il carattere maggioritario della legge». Sono un paio di esempi dell'ipersensibilità che scatta sempre, da noi, quando la politica si accinge a mettere in agenda le riforme costituzionali. Napolitano lo sa perfettamente e non se ne scandalizza più di tanto. Tuttavia gli preme preservare quel poco di buona volontà affiorata nelle ultime settimane. E la pragmatica scossa che ha dato ieri va esattamente in questa direzione. Marzio Breda 4 giugno 2013 | 7:50© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_04/cronoprogramma-napolitano-appello-breda_d18c385e-ccd7-11e2-9f50-c0f256ee2bf8.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Richiesta di grazia, un rebus per il Colle Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 08:34:21 am Dubbi su decisioni che suonino come un quarto grado di giudizio
Richiesta di grazia, un rebus per il Colle Ma non sono escluse altre strade parlamentari per arrivare alla clemenza ROMA - E adesso, com'era scontato aspettarsi, ricomincia anche il tormentone della grazia. A evocarla per primi, stavolta, non i giornali di osservanza berlusconiana, ma i militanti del fantomatico «Esercito di Silvio». Che annunciano un presidio permanente davanti al Quirinale, a partire da lunedì, dal quale far partire una petizione per chiedere a Giorgio Napolitano «la concessione immediata» di un provvedimento di clemenza per il leader del centrodestra. Una raccolta di firme destinata a dilagare in Italia, si spiega con teatrale metafora guerresca, attraverso gli oltre 500 «reggimenti attivi» che i fan del Cavaliere si dicono sicuri di poter dispiegare. Se davvero si concretizzerà, per il presidente della Repubblica questa rischia di essere un'iniziativa quantomeno imbarazzante. Basta riandare a quel che disse il 12 luglio scorso, quando con parole aspre fermò la rincorsa di retroscena su un presunto «piano di salvataggio» per Berlusconi, che sarebbe stato già pronto perfino nei dettagli. «Queste speculazioni su provvedimenti di competenza del capo dello Stato in un futuro indeterminato sono un segno di analfabetismo e di sguaiatezza istituzionale», tagliò corto. Anzi, aveva aggiunto, «danno il senso di un'assoluta irresponsabilità politica che può soltanto avvelenare il clima della vita pubblica». Una reazione infastidita, per sottrarre il Colle a una pretesa allora assolutamente fuori luogo (non era ancora cominciato il processo Mediaset in Cassazione) e che appare ancora adesso difficilmente praticabile, per diversi motivi. Anzitutto, una grazia che intervenisse subito dopo una condanna definitiva si configurerebbe di fatto come un quarto grado di giudizio, tale da smentire e potenzialmente delegittimare la stessa Corte. E poi, per concedere un provvedimento di clemenza, servono com'è noto certi requisiti minimi (ad esempio un'istruttoria del ministro della Giustizia, almeno un inizio di espiazione della pena, un parere favorevole degli organi penitenziari e dei servizi sociali, ecc.) che in questo caso mancherebbero. Senza contare che sul Cavaliere pendono comunque alcuni altri processi destinati ad approdare a sentenza definitiva nei prossimi due-tre anni. Il puro e semplice parlarne, dunque, sembra una pressione sbagliata e indebita, al Quirinale. Perché alimenta equivoci, ambiguità e un improprio carico di aspettative. Il discorso potrebbe invece essere diverso, forse, per altre forme di salvacondotto più o meno efficaci (un'amnistia o un indulto sono esclusiva competenza del Parlamento) su cui in queste ore sta almanaccando il centrodestra. E chissà a che cosa pensavano (anche loro davvero alla grazia tout court?) i capigruppo del Pdl Schifani e Brunetta, quando ieri sera hanno comunicato l'intenzione di salire «a breve» al Quirinale «per chiedere al presidente che sia restituita la libertà» all'ex premier e di «usare i poteri costituzionali per difendere la dialettica democratica alterata da questa sentenza». Segnali di un partito sotto choc e che ancora deve elaborare il lutto della condanna del capo. Indizi che preoccupano molto Napolitano. Tanto da indurlo, a tarda sera, a far diramare una nota chiarificatrice: «È la legge a stabilire quali sono i soggetti titolati a presentare la domanda di grazia». Il senso della puntualizzazione è che questa strada, così come la si vorrebbe imboccare, è strettissima e anzi impraticabile perché, come recita il Codice di procedura penale, la domanda dev'essere sottoscritta «dal condannato o da un suo prossimo congiunto o dal convivente o dal tutore o dal curatore ovvero da un avvocato o procuratore legale». Non certo da esponenti politici, insomma. Ma tant'è. A quella drammatizzazione si accompagna la disponibilità a «dimissioni immediate» che tutti i parlamentari pidiellini - ministri compresi - hanno offerto a Berlusconi, non solo come gesto di solidarietà quanto come uno strumento di minaccia, mentre il leader incitava tutti a prepararci per «elezioni presto». Il capo dello Stato, che durante il weekend rientrerà a Roma da un breve soggiorno in Alto Adige, affronterà la questione attraverso una serie di incontri e contatti politici. E se il centrodestra volesse consegnargli le chiavi della legislatura, affidandogli la sorte di Berlusconi, il Pd apparirebbe in mezzo al guado, incertissimo se staccare la spina al governo. 3 agosto 2013 | 7:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA Marzio Breda da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_03/richiesta-grazia-colle_21e33c48-fbff-11e2-a7f2-259c2a3938e8.shtml Titolo: Marzio BREDA. - I paletti di Napolitano per ricomporre la crisi Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 11:39:34 am Forse domani l'incontro con i capigruppo Pdl
I paletti di Napolitano per ricomporre la crisi I contatti con Palazzo Chigi per «mettere in sicurezza il governo» La rincorsa alle iperboli cominciata in casa Pdl dopo la condanna di Berlusconi e culminata negli scenari da «guerra civile» evocati da Sandro Bondi ha di sicuro impressionato tanti italiani, ma forse non troppo Giorgio Napolitano. Il quale, abituato per carattere a «governare le passioni» e avendone viste tante, ha liquidato quelle dichiarazioni come «irresponsabili». Una sola parola, dura, per mettere a tacere chi gioca a spararla più grossa. E per raffreddare il clima in ogni senso torrido - e a lui interessa soprattutto il termometro di Palazzo Chigi - che ha trovato ieri pomeriggio a Roma, al rientro da una breve vacanza in Alto Adige. Non siamo ancora alla crisi di governo, ma una crisi politica sembra già quasi aperta. E l'esecutivo depotenziato nella sua azione, almeno fino a quando non calerà la tensione. Infatti, nell'escalation di provocazioni, minacce, ultimatum, ricatti, è ormai concreto il rischio che la situazione sfugga di mano e tutto vada fuori controllo. Anche al di là delle volontà di chi ha siglato il patto delle larghe intese e dichiara di volerlo onorare. Insomma: il pericolo è che, a forza di parlare di guerre imminenti, qualche volonteroso si senta magari autorizzato a premere il dito sul grilletto e a farlo scoppiare sul serio, un conflitto insanabile. In quel caso, se tutto risulterà compromesso, a vincere sarebbe soltanto quel sentimento autodistruttivo di cui il Paese è ostaggio da anni. Una smania da cupio dissolvi in cui potrebbe annichilirsi il governo di Enrico Letta e la stessa legislatura. Ecco le pesantissime incognite che il presidente della Repubblica si trova ad analizzare in queste ore, anche attraverso qualche contatto riservato con i leader della maggioranza e del centrodestra in particolare. Il punto, per lui, è ponderare le reali intenzioni di un Pdl che pretende la grazia per Silvio Berlusconi, in maniera che siano cancellate le ricadute della condanna definitiva che gli è stata inflitta sul caso Mediaset e gli sia restituita, oltre alla libertà personale, la cosiddetta «agibilità politica». Ma davvero - ci si chiede al Quirinale - non si conoscono le procedure e i limiti previsti dalla legge per la concessione di un provvedimento di clemenza? Davvero non si capisce che è molto improprio attribuire un'esplicita veste politica a una simile iniziativa? Davvero si crede che annullare gli effetti di una sentenza dopo pochi giorni o settimane non si traduca in una virtuale delegittimazione di quella sentenza, e che sarebbe grave se a fare tutto questo fosse il presidente del Csm? E infine, davvero l'intera squadra dei parlamentari pidiellini, (ministri compresi) è pronta a dimettersi per solidarietà con il loro gran capo? Dalle risposte a questi interrogativi dipenderanno le prossime mosse di Napolitano. Un modo per abbassare la tensione - e l'emotività - è quello di decelerare, di far un po' decantare i toni e gli umori, di dispiegare intanto qualche forma di persuasione morale (parallela, in un certo senso, a quella avviata nel frattempo dal premier). Per cui oggi, giorno della manifestazione di piazza organizzata dal centrodestra, non ci sarà alcuna udienza sul Colle. I capigruppo Renato Brunetta e Renato Schifani saranno ricevuti in un contesto protocollare (e, appunto decongestionato, sperando che dalla piazza romana non echeggino intollerabili spropositi avventuristi), all'inizio della prossima settimana. Forse già domani, dopo che - per bocca dello stesso Brunetta - hanno annunciato di volersi limitare a descrivere «la situazione drammatica in cui è precipitata la democrazia nel nostro Paese». Stavolta senza più accennare alla grazia, ma lasciando intendere che i loro ragionamenti si concentreranno sulle condizioni in cui il Cavaliere sconterà la condanna (non tali da inibirgli l'attività politica come sarebbe se si applicasse la legge Severino). Un mezzo, e provvisorio, passo indietro, quindi. Che da solo ovviamente non basta ad azzardare quali margini di ricomposizione della crisi esistano. Starà al capo dello Stato, al termine della sua ricognizione, soppesare se e quanto il quadro sia compromesso. Spetterà a lui riequilibrare la partita e non è pertanto un caso che adesso il mantra di un Quirinale chiusissimo si limiti a raccomandare a tutti «calma e gesso», con l'ansia di negare l'emergenza anche perché «al di là delle parole, per ora non ci sono stati strappi». Per la sopravvivenza del governo, molto potrebbe dipendere da quella riforma della giustizia alla quale si è riferito Napolitano nella nota che ha fatto diffondere dopo il pronunciamento della Cassazione, e che gli è costata qualche sospetto e critica. Per realizzarla serve però che il Pdl non sia animato da propositi ritorsivi, e che il primo interessato, cioè Berlusconi, se ne tenga fuori. Se si riuscirà a tenere a bada l'emotività, l'esecutivo può ridare senso alla propria missione. Di questo hanno parlato in serata al telefono il presidente e il premier, «con l'obiettivo di mettere in sicurezza il governo e gli impegnativi provvedimenti che lo attendono in autunno» Altrimenti, nell'ipotesi che l'impazzimento continui e che si punti dritto allo sfascio, non si può escludere che Napolitano - sempre orientato per temperamento a spiegare i propri passi - spieghi quello che accade al Paese attraverso un messaggio. Che avrebbe giocoforza il senso di un estremo appello alla responsabilità. 4 agosto 2013 | 8:05 © RIPRODUZIONE RISERVATA Marzio Breda da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_04/napolitano-paletti-crisi-breda_0cdf4ae0-fccb-11e2-ac1e-dbc1aeb5a273.shtml Titolo: Marzio BREDA. - I paletti di Napolitano per fermare gli azzardi e le tentazioni Inserito da: Admin - Agosto 14, 2013, 11:12:49 pm RETROSCENA - L'AVVERTIMENTO DOPO I CONTATTI CON PDL E PD E LE ANALISI «TECNICHE».
I paletti di Napolitano per fermare gli azzardi e le tentazioni di crisi Nella nota scritta a Castelporziano l'esclusione del voto e il richiamo alle regole per la grazia Un messaggio che Giorgio Napolitano ha concepito per stroncare il groviglio di suggestioni emotive e di azzardi attivati dalla condanna di Silvio Berlusconi confermata dalla Cassazione e sulla quale l'atlante della politica si è rimesso pericolosamente in movimento. Un memorandum che ha diversi livelli di lettura, trasparenti, per tagliare corto su almeno cinque fronti di quei giochi: 1) il gioco alla crisi di governo, tanto più rischioso se si tratta di crisi al buio, che il presidente censura duramente perché un simile sbocco avrebbe conseguenze «fatali» per tutti e ci «impedirebbe di cogliere e consolidare le possibilità di ripresa economica» appena delineate; 2) il gioco, parallelo, ad agitare «ipotesi arbitrarie e impraticabili di scioglimento delle Camere», prerogativa di sua stretta competenza e che lui non ha alcuna intenzione di assecondare, se si facesse cadere Enrico Letta, concedendo il voto anticipato con queste regole elettorali; 3) il gioco alle diverse «forme di ritorsione» contro «il funzionamento delle istituzioni democratiche», come le plateali dimissioni in massa minacciate dai parlamentari Pdl e i ventilati Aventini di protesta; 4) il gioco alla grazia-sì, grazia-no per il Cavaliere, perché ogni provvedimento di quel tipo, stretta competenza del Quirinale, ha regole precise, che non possono essere aggirate né condizionate; 5) il gioco a rimisurare i rapporti di forza tra partiti in una sfida alla reciproca, e sempre più feroce, delegittimazione, ciò che si tradurrebbe in un danno insopportabile per il Paese. Insomma: non è né un categorico «non possumus», né un'apertura incondizionata alle pressioni incrociate di cui è oggetto da tempo, la dichiarazione che il capo dello Stato ha fatto diffondere nella serata di ieri. È, piuttosto, un avvertimento generale, in cui vengono tenuti distinti i profili giudiziari e politici aperti dal caso-Berlusconi. Quasi tre cartelle fitte, stese di proprio pugno nella solitudine di Castelporziano, per lanciare un richiamo alla responsabilità dopo giorni di riflessioni segnate da colloqui e contatti con esponenti del centrodestra (e non solo con l'«ambasciatore» dei momenti difficili, Gianni Letta) come del centrosinistra, e da analisi tecniche dell'istruttoria ad hoc preparata dai suoi consiglieri. La speranza di Napolitano, adesso, è che le sue parole possano sterilizzare quest'ultima fase convulsa, dominata da una febbre polemica che ha contagiato larghi settori della società, oltre a istituzioni e partiti, logorando di fatto pure il governo. Uno scenario complesso e sul quale è delicatissimo intervenire, anche perché il conflitto politico e giudiziario oggi s'incrocia esplicitamente con la dimensione morale. E che vede gli italiani costretti a confrontarsi sul ventennale conflitto tra politica e magistratura. Ma stavolta irrigato dalla questione dell'indulgenza (o, sarebbe forse meglio dire, dell'autoindulgenza) che il leader del Pdl pretenderebbe di applicare a se stesso per garantirsi la cosiddetta «agibilità politica». Nodo cruciale di ogni disputa, il diffuso equivoco in base al quale si crede che il Quirinale possa cancellare - in assoluta e insindacabile autonomia - gli effetti di una pena comminata da un tribunale, «liberando» il condannato dalle conseguenze afflittive, ossia il carcere, per ragioni umanitarie. Ma quest'idea del «motu proprio» - della quale il presidente ha un'esclusiva titolarità, confermata dalla Consulta nel 2006 - non corrisponde a tutte le sfumature e a tutti i vincoli della realtà costituzionale. In materia di clemenza ci sono «specifiche norme di legge», una precisa «giurisprudenza», «consuetudini costituzionali» e «prassi seguite in precedenza» e Napolitano non può dunque inventarsi istituti giuridici alternativi in funzione di salvacondotto. Ecco dove il punto giuridico si sovrappone a quello politico. Il capo dello Stato stronca la tambureggiante rincorsa alla grazia per Berlusconi com'è stata condotta finora, spiegando che una domanda in tal senso (passaggio «essenziale») non gli è stata ancora avanzata da nessuno. Comunque, senza escluderla, ricorda la griglia di limiti posti dalla legge affinché lui possa aprire «un esame obiettivo e rigoroso» per verificare se «sussistano le condizioni» per «motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull'esecuzione della pena principale». Condizioni riassunte da più voci autorevoli, di recente. Che vanno dall'ovvia accettazione della pena ad almeno un inizio d'espiazione. E, aggiunge la nota del Quirinale, da «un clima di comune consapevolezza degli imperativi della giustizia» e rispetto verso chi la esercita, che non può quindi essere delegittimato nella propria, non sacrificabile, autonomia e indipendenza. Esattamente questo, del resto, fece un'altra personalità che guidò il governo «in un recente passato»: l'ex potente segretario della Dc ed ex premier Arnaldo Forlani, che accettò i servizi sociali. Un cenno, questo, che qualcuno interpreta - forse esprimendo un wishful thinking - come un indiretto invito al centrodestra a costruire una nuova e alternativa leadership, per quanto Napolitano riconosca l'importanza del ruolo del Cavaliere nella nostra vita politica. Infatti, posto che la grazia salvi il condannato dalla «pena principale» (il carcere), non potrebbe invece estendersi alla pena accessoria (l'interdizione, con relativa incandidabilità), per la quale interverrebbe con tutto il suo drastico peso la legge Severino. È così che si capisce l'invito rivolto direttamente a Berlusconi e il Pdl a «decidere» (e a farlo «nei modi che risulteranno legittimamente possibili») sulla guida del partito e soprattutto sulle «prospettive di serenità e di coesione di cui l'Italia ha bisogno». 14 agosto 2013 | 7:50 © RIPRODUZIONE RISERVATA Marzio Breda da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_14/i-paletti-di-napolitano-per-fermare-gli-azzardi-e-le-tentazioni-di-crisi-marzio-breda_19d192bc-04a0-11e3-a76b-5d1a59729335.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Le preoccupazioni di Napolitano per la tenuta del governo Letta Inserito da: Admin - Settembre 07, 2013, 07:21:00 pm Il nodo da sciogliere resta sempre lo stesso: l'agibilità politica del Cavaliere
Le preoccupazioni di Napolitano per la tenuta del governo Letta L'incontro con i neosenatori: Rubbia gli spiega Marte, lui il Parlamento ROMA - Pensano, e sperano, che dietro l'accelerazione verso lo scontro finale ci sia una parte di bluff. Che nel calcolo costi-benefici sugli esiti delle continue minacce di crisi, prevarrà il buonsenso. Che la razionalità potrà imporsi sull'emotività e che si riesca a spegnere il fuoco sotto quella specie di pentola a pressione pronta a esplodere che sta ormai diventando l'alleanza delle larghe intese. C'è insomma una preoccupazione mista a incredulità, al Quirinale, nell'osservare gli ultimi sviluppi della prova di forza sulla decadenza al Senato di Silvio Berlusconi. I maggiori leader del Pdl hanno confermato all'unisono di esser pronti «a qualunque battaglia». Fino alle estreme conseguenze, cioè fino al ritiro di tutti i ministri e parlamentari, così da annichilire il governo nel giro di pochi giorni. In un clima tanto surriscaldato, è logico che i timori del presidente della Repubblica si concentrino sul rischio che la situazione sfugga di mano a tutti, anche al di là delle reali intenzioni di chi agita le acque. Inutile dire che la sfida lanciata dal centrodestra, materializzando l'eclissi dell'esecutivo e un ritorno al voto entro il 24 e 25 novembre, è un grande azzardo. Infatti, posto che, magari sulla base dei sondaggi, si confidi di sostituire alla condanna della Cassazione una sorta di sentenza del popolo (confidando che si riveli ampiamente assolutoria per Berlusconi), bisogna in ogni caso fare prima i conti con il Colle. Dove, come è stato fatto capire in mille modi, non si intende affatto chiudere la legislatura e rimandare il Paese alle urne se nel frattempo non sarà stata cambiata la legge elettorale. Ecco quindi l'ipotetico piano B di cui molto si parla. Ossia l'ipotesi che il premier, se davvero si arrivasse allo showdown del Pdl, possa essere rispedito dal capo dello Stato alle Camere, a cercarsi una fiducia che potrebbe essergli accordata da un gruppetto di dissidenti 5 Stelle, sommati a qualche «governativo» del Pdl cui potrebbero aggiungersi pure i nuovi senatori a vita. Chiaro che un simile sbocco non entusiasma comunque Giorgio Napolitano. Specie in una fase allarmante come questa. Con l'altalena sui mercati e con una ripresa dell'economia che ancora non tocca l'Italia, per non dire del delicatissimo G20 in corso a San Pietroburgo, nel quale rischieremmo d'essere marginalizzati. Il nodo per superare il surplace che tiene sospettosamente bloccati i partiti è sempre lo stesso: l'agibilità politica del Cavaliere. Il capo dello Stato ha spiegato fino alla nausea regole, limiti e condizioni di un suo eventuale atto di clemenza (grazia o commutazione) sulla pena principale... clemenza invece tecnicamente impossibile su quella accessoria, che riguarda appunto l'interdizione dai pubblici uffici. Le cose stanno sempre a quel punto e, come racconta chi lo ha sentito di recente, «non si può pensare che ci possa essere una trattativa con il presidente su questo». Così, lui per il momento sta a vedere, pronto ad accogliere segnali in grado di chiamarlo in causa. Segnali che, tra l'altro, smentiscano gli aspri attacchi venutigli da alcuni giornali fiancheggiatori del centrodestra e che hanno fatto calare di colpo il gelo con Palazzo Grazioli. In attesa dell'eterna mediazione di Gianni Letta, ambasciatore berlusconiano delle stagioni difficili, la partita adesso si gioca pertanto nel campo della politica. Dalla quale l'ex premier ha bisogno di guadagnare tempo, almeno per salvare il proprio orgoglio, oltre che la faccia. Tensioni che Napolitano ieri ha potuto sgombrare per un'ora, ricevendo tre dei quattro nuovi senatori a vita (Renzo Piano, Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo) di ritorno dal Senato, dov'erano stati accolti bene. Simpatico il siparietto con Rubbia, che lo ha intrattenuto parlandogli delle prossime missioni su Marte («servirà un anno per l'andata e bisognerà aspettarne un paio sul pianeta rosso prima di poter tornare, per via dell'allineamento con la terra»), delle virtù di ogni ulisside che voglia esplorare il futuro («a muoverci è la curiosità, non la saggezza»), del clima («la metà di CO2 emessa dall'incendio di Roma appiccato da Nerone è ancora sopra di noi e modifica l'atmosfera»). Napolitano ha replicato spiegandogli come funziona il Parlamento che, ha detto, «non è solo l'Aula, ma soprattutto le commissioni: in passato, per non far arrivare nella fornace dell'aula disegni di legge che non fossero affinati ci si lavorava molto». È lì che li ha incitati a impegnarsi, scegliendo ciascuno il terreno più congeniale in cui dare il proprio contributo. 5 settembre 2013 | 9:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA Marzio Breda da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_05/napolitano-crisi-piano-b-governo_a59312a4-15e8-11e3-a860-3c3f9d080ef6.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Al Quirinale leader e ministri Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 04:59:37 pm Il capo dello stato: un passo «doveroso» intervenire per frenare le tensioni
Al Quirinale leader e ministri Impegno a contenere le polemiche Gli incontri con Alfano, Epifani e Franceschini ROMA -Si sta esponendo molto, in prima persona. Ma lo fa deliberatamente, con l'uso di tutto l'arsenale di argomenti che, per le prerogative di moderazione e di stimolo riconosciutegli dalla Costituzione, può dispiegare. Così, per il presidente della Repubblica ieri è stato un passo «doveroso», al materializzarsi di nuovi segnali di tensioni e incrinature nelle larghe intese, convocare separatamente al Quirinale il segretario del Pdl e vicepremier, Angelino Alfano, e quello del Pd, Guglielmo Epifani (ma anche, in un'altra separata udienza, il ministro Dario Franceschini), per verificare «il grado d'impegno delle forze politiche per la continuità dell'attività di governo» e «il programma dei lavori parlamentari». Giorgio Napolitano voleva insomma raffreddare lo scontro e capire se e quanto sia possibile rafforzare una «stabilità» che sembra ogni giorno più fragile e agganciare una ripresa già cominciata in mezz'Europa. Un'occasione - lo ha ripetuto in pubblico ancora lunedì - da «non sprecare». Il problema, e il punto politico, è dunque quello di spingere i partner della maggioranza a ridurre le distanze e lavorare insieme per un nuovo patto. In modo da evitare che, tra «ultimatum e ostruzionismi», «incertezze e rotture», provocazioni e rilanci quotidiani, l'esecutivo limiti la propria azione al cosiddetto minimo sindacale, perda definitivamente slancio e resti vittima di un logoramento fatale. Che magari lo faccia franare per consunzione propria. Le risposte che il capo dello Stato ha incassato sarebbero «abbastanza incoraggianti», fanno sapere dal Colle. Con la convinzione, condivisa da entrambi gli interlocutori, a praticare d'ora in poi «uno sforzo di autocontenimento di quelle spinte polemiche» che potrebbero alimentare dubbi, inquietudini o sospetti sulla tenuta di Enrico Letta a Palazzo Chigi. E, ancora, ad affrontare i prossimi appuntamenti politico-istituzionali «in uno spirito unanime di valorizzazione dell'operato del governo e della maggioranza» e quindi di un rafforzamento dell'immagine di «un'operosa stabilità». L'antidoto per evitare i soliti, pericolosi sbocchi visti nelle ultime settimane potrebbe essere offerto da un passaggio parlamentare studiato «ad hoc» (e di cui a quanto pare si sarebbe fatto cenno nel sondaggio di ieri), nel quale fissare alcuni obiettivi concordati. Le materie sulle quali concentrare l'impegno a proiettare su un orizzonte dell'esecutivo «di servizio» oltre il 2014 sono le più prevedibili: l'economia e il fisco, oltre alla riforma elettorale. E l'occasione più vicina - diciamo meglio: la precondizione di tutto - per misurare il reciproco livello di responsabilità verrà dalla legge di Stabilità, la vecchia Finanziaria, che va approvata entro il 31 dicembre. Ecco lo snodo, ed è di quelli che tradizionalmente tendono ad aggrovigliarsi fino all'ultimo giorno, tra veti incrociati e rilanci particolaristici. Una scommessa sulla cui riuscita pesano anche numerose altre incognite. Pesano ad esempio le inquietudini di un Pd in piena fibrillazione interna e nel quale molti (Matteo Renzi in testa) sembrano spingere per elezioni a primavera. E pesano pure, nel centrodestra, le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e il problema della sua «agibilità politica». Il Cavaliere per il momento tace, ma è soprattutto su questo fronte che la pressante persuasione morale di Giorgio Napolitano rischia di essere messa più alla prova, nel prossimo mese. 25 settembre 2013 | 9:21 © RIPRODUZIONE RISERVATA Marzio Breda da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_25/napolitano-segretari-ministri-meno-risse_c6c049bc-259f-11e3-baac-128ffcce9856.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Napolitano pesa i rischi di un rimpasto Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2014, 05:17:44 pm Quirinale
Napolitano pesa i rischi di un rimpasto Le speranze del Colle in un rilancio di Letta (ma senza un bis) ROMA - «Horror vacui», terrore del vuoto. In questo caso, vuoto politico e istituzionale. È con l’antica formula aristotelica che si potrebbe sintetizzare la preoccupazione estrema (e, in quanto tale, quasi non pronunciabile) del capo dello Stato davanti al problematico vortice di ipotesi su cui si gioca la sfida sul futuro del governo. Un Letta che va avanti nonostante tutto, forse con un minirimpasto della propria squadra? Oppure un Letta-bis che ottiene una reinvestitura dopo esser passato attraverso una crisi pilotata? O magari una staffetta con Matteo Renzi a Palazzo Chigi, da tenere a battesimo ricontrattando programma e orizzonte temporale con i partiti dell’attuale maggioranza o con eventuali allargamenti (secondo alcuni coinvolgendo addirittura Berlusconi)? Oppure, infine, la scorciatoia di un voto subito, da legare alle europee, con l’Italicum se si riesce a vararlo in un paio di mesi, ma anche con quel relitto di legge elettorale proporzionale ereditato dalla sentenza della Consulta? IL RILANCIO DELL’ESECUTIVO- Sono questi i quattro scenari sui quali oggi si alternano tensioni, illazioni, pressioni e azzardi politico-mediatici. Giorgio Napolitano li soppesa con la freddezza di chi deve calcolare costi e benefici dell’una o dell’altra soluzione, pronto a tutto in attesa delle indicazioni che usciranno dal vertice del Pd convocato per il 20 febbraio. Si sa: in cima alle speranze del presidente della Repubblica resta quella di un rilancio forte dell’esecutivo, per il quale non a caso molto si è speso, arrivando a esprimere ancora mercoledì scorso (e con una nota ufficiale) «apprezzamento per la continuità e per i nuovi sviluppi dell’azione di governo». Un incoraggiamento esplicito, insomma. Un’esortazione a raddoppiare le energie e a «non galleggiare», per citare la formula mutuata dal premier. Uno scudo che però, per come si sono messe le cose, ormai potrebbe non bastare. IL RINVIO - Il time out deciso giovedì sera dalla direzione dei democratici, e che sarebbe stato riservatamente anticipato al Quirinale dal ministro Graziano Delrio, è stato considerato con un certo sollievo. Perché ha offerto un’ulteriore quindicina di giorni ai negoziati dentro la maggioranza e, in particolare, dentro il Pd, per trovare un nuovo «schema» o tenersi fermi a quello che c’è. Non solo: ascoltando in diretta streaming il confronto tra Renzi e Letta, le posizioni sono sembrate sul Colle più convergenti (per interessi reciproci, se non per necessità) di quanto non siano rimbalzate all’esterno. Il fatto che i due siano in competizione tra loro non impressiona granché Napolitano: in fondo è sempre stato così, nella sinistra. Si riserva piuttosto di verificare se riusciranno a concertare insieme, in tandem, una via d’uscita. Cioè la fatidica «ripartenza» che potrebbe avere il suo passaggio cruciale con il primo voto alla Camera sulla legge elettorale. IL RISCHIO «VUOTO ISTITUZIONALE» - Naturalmente spetta ai partiti trovare la formula giusta: il Quirinale non può manifestare pregiudizi né preconcetti, neanche per un eventuale turn over Letta-Renzi, qualora prendesse corpo una simile volontà politica. Certo, allo stato dei fatti, resta un’ipotesi ardita, per tutta una serie di incognite. Incognite che in qualche misura graverebbero anche sul quadro (quasi minimalista) di un eventuale rimpasto e, ancora di più, su un reincarico di Letta. I rimpasti, infatti, si fanno quando c’è un forte consenso sull’assetto già esistente del governo, per cui si pensa che all’esecutivo in fondo può bastare una sorta di ma- quillage. Nella prassi, poi, un bis del premier si fa se e quando si richiede una marcata discontinuità politica, un riequilibrio sul quale esista un consenso stringente e sicuro. Ora, nell’una come nell’altra eventualità e come pure nello schema di un Renzi capo del governo, le procedure costituzionali imporrebbero di far scattare una crisi formale che, per quanto si supponga pilotabile e dunque non al buio, una volta aperta non si è mai sicuri di come potrà essere chiusa. Dell’ultima congettura vagheggiata dai 5 Stelle, quella di un’immediata rincorsa verso le urne, sul Colle non si vuol nemmeno parlare, perché materializzerebbe un rischioso vuoto politico e istituzionale. Uno scenario dinanzi al quale, è noto, Napolitano potrebbe perfino decidere di lasciare lui subito. Con il problema che sarebbe questo Parlamento a dover eleggere il suo successore. 08 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Marzio Breda Da - http://www.corriere.it/cronache/14_febbraio_08/napolitano-pesa-rischi-un-rimpasto-9ecf8980-9085-11e3-85e8-2472e0e02aea.shtml Titolo: Marzio BREDA. - La maggioranza variabile e il rebus dell’Economia all’esame Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2014, 11:02:26 pm Quirinale
La maggioranza variabile e il rebus dell’Economia all’esame di Napolitano Il presidente: «Data rapidità a consultazioni perché ci sia spazio e serenità per chi avrà incarico di formare governo» «Pagare moneta, vedere cammello». Tra i cronisti assiepati nella Loggia alla Vetrata del Quirinale c’è chi ricorre alla più cinica e mercantile delle metafore, dopo aver sentito le dichiarazioni di Angelino Alfano (GUARDA il video) all’uscita dal colloquio con il capo dello Stato. Il leader del Nuovo centrodestra ha appena spiegato davanti alle tv (e, prima, a Giorgio Napolitano) che il suo partito non offrirà cambiali in bianco al premier in pectore. Prima d’impegnarsi, vuole «un patto scritto», nel quale siano precisati la natura politica, il programma e i piani di lavoro del nascituro governo, su modello di quell’accordo che in Germania ha consentito pochi mesi fa ad Angela Merkel un replay della «Grosse Koalition». Certo, ha ribadito la «buona volontà» del Ncd, Alfano. Puntualizzando però di aver bisogno di «almeno 48 ore» per decidere, dopo aver contrattato un compromesso per lui accettabile. Ossia, per dirla brutalmente, un modo di alzare il prezzo rispetto a chi la sta facendo facile. È questa dichiarazione - più di ogni altra - a imprimere un brusco colpo di freno, a metà giornata, alle procedure per risolvere la crisi, una fase costituzionale in cui entrano in gioco le prerogative e le responsabilità più penetranti del presidente della Repubblica. Non sarà un passaggio sprint, come fino a venerdì pareva (se non altro per evitare vuoti di potere troppo lunghi), tanto da far profetizzare a tutti il conferimento di un mandato per Palazzo Chigi già per ieri sera o, tutt’al più, per stamane. Richiederà invece alcune ore in più, per dare modo al presidente della Repubblica di riflettere su quanto i partiti gli hanno esposto e di tirare un bilancio in grado di superare certe difficoltà che ha registrato. Problemi forse non troppo grandi e di sicuro non insormontabili. Tali comunque da far ipotizzare uno slittamento alla seconda metà della prossima settimana prima che l’esecutivo possa approdare in Parlamento. Tradotto: significa che la convocazione di Matteo Renzi slitterà a stasera o, più probabilmente, a domani. E che lo stesso Renzi avrà bisogno di qualche giorno supplementare, per chiudere il cerchio e stabilire la propria forza politica in questa sfida. Provvede lo stesso Napolitano a spiegarlo: «Ho voluto dare rapidità alle consultazioni perché ci sia spazio e serenità per il lavoro successivo di chi avrà l’incarico di formare il governo. Avrà a sua volta bisogno di tutto il tempo necessario per le sue consultazioni, gli approfondimenti e le intese». Non basta. Il capo dello Stato, in risposta ad alcune polemiche (dei 5 Stelle e della Lega) sulla «inutilità» di un passaggio polemicamente ridicolizzato come «una farsa», sottolinea che «queste consultazioni, svoltesi a ritmo intenso ma con ampia possibilità per tutti coloro che ho consultato di esprimere le loro opinioni, non hanno avuto nulla di rituale o di formale. Tutti si sono impegnati entrando nel merito di valutazioni sulla natura di questa crisi, sulle prospettive di sua soluzione, indicando priorità e temi che si augurano siano posti al centro dell’attenzione di chi avrà l’incarico. In questo senso è stata una giornata per me interessante e ricca di stimoli e indicazioni, che naturalmente sarà mio compito trasmettere nel momento a chi dovrà lavorare alla formazione del nuovo governo». E tra gli spunti e gli «stimoli» su cui dovrà ragionare per lo scenario che si sta profilando, uno gliel’ha offerto Berlusconi, quando ha materializzato la possibilità di una doppia maggioranza (con il sostegno di Forza Italia, dunque, ciò che potrebbe produrre imprevedibili tensioni) sulla partita delle riforme. Un «assetto variabile» che il Cavaliere gli ha illustrato nel corso di un faccia a faccia contestato a priori da qualcuno e definito da un testimone come «asciutto, concentrato sulla crisi, senza alcuna divagazione sui rapporti politici e sul Quirinale». Performance che il leader storico di FI ha subito dopo ripetuto in pubblico, esibendosi fra due corazzieri in una cifra di laconicità istituzionale per lui inedita, ma magari studiata apposta per offrire al Paese una prova di esistenza in vita - politicamente parlando - nonostante la condanna definitiva e la decadenza da senatore. C’è da essere ottimisti sull’esito della crisi? Napolitano ha lasciato capire di esserlo. Anche se sa perfettamente che, a parte gli equilibri politici da ridefinire dentro la coalizione, uno dei nodi cruciali sarà adesso quello di come realizzare in concreto la discontinuità promessa da Renzi. Per certi ministeri, ad esempio, la discontinuità non può tradursi con un totale disconoscimento della strada percorsa finora e, in particolare, non può essere una cesura incoerente con gli impegni che sono stati presi nel recente passato con l’Unione europea a nome dell’Italia. Il secondo comma dell’articolo 92 della Costituzione stabilisce che il capo dello Stato «nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri». Vale a dire che egli esercita quantomeno un potere di sorveglianza, che a volte è diventato di interdizione (vedi il caso Previti, nella stagione di Oscar Luigi Scalfaro), su questo aspetto della nascita di un governo. Ora, si sa che tra i dicasteri di cui si preoccupa maggiormente e sui quali non farà mancare a Renzi il proprio parere, ci sono quelli - assai delicati - della Giustizia, degli Esteri e, soprattutto, dell’Economia. Chi ricoprirà tale incarico dovrà essere riconosciuto competente, autorevole e credibile a Bruxelles e presso la Bce guidata da Mario Draghi. Un doppio fronte che continua a tenerci sotto osservazione. 16 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Marzio Breda Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_16/maggioranza-variabile-rebus-dell-economia-all-esame-napolitano-377afea8-96da-11e3-bd07-09f12e62f947.shtml Titolo: Marzio BREDA. - La lunga Agonia di Gabriele Sinopoli preso a Pugni dal Popolo... Inserito da: Admin - Aprile 13, 2014, 05:37:36 pm La lunga Agonia di Gabriele Sinopoli preso a Pugni dal Popolo dello Spritz
di Marzio Breda «Civiltà dell’ombretta». Così in Veneto una volta si definiva, bonariamente, il tessuto conviviale che fioriva intorno a un calice di vino da sorseggiare, magari cantando, con gli amici. Non a caso si è sempre detto che bere da soli non fa bene. Lo dimostrava l’attore Lino Toffolo quando, al Derby di Milano, metteva in scena la caricatura dell’ubriacone veneziano: simpatico nella sua solitaria sgangheratezza, sì, ma piuttosto triste. Poi le cose sono cambiate. Tutto si è fatto a poco a poco torvo e disperante, in Italia, e anche da quelle parti. Nella società e dunque pure tra bar e osterie. Dove ci si scopre infelicemente soli anche se si è in folta compagnia. Soli e, quando si è abusato con l’alcol, storditi, senza freni inibitori, pronti a naufragare in umori rancorosi, regressivi, intolleranti, violenti. La vecchia piaga sociale, da rito consolatorio più o meno innocente e innocuo, si va sempre più spesso trasformando in una deliberata dissipazione di sé, contagiando i giovani come una dipendenza al pari di una droga. E, per quanto si voglia derubricare il rito dell’aperitivo con la definizione gentile di happy hour , la gara a sballare di bicchiere in bicchiere (lo chiamano binge drinking ed è una moda che per l’Istat coinvolge 8 milioni di ragazzi tra gli 11 e i 15 anni) può trasformarsi in un inferno. Per se stessi e per gli altri. Ieri, dopo un calvario d’interventi chirurgici al cervello, terapie intensive, ripetuti coma, emorragie, infezioni, crisi epilettiche, è morto Gabriele Sinopoli. Era fratello di Giuseppe, il celebre direttore d’orchestra stroncato da un infarto sul palco, a Berlino, nel 2001. Aveva 63 anni, era già fragile per un precedente trapianto al fegato, e lascia orfano un bimbo di dieci. Nel 2012 fu vittima di un pestaggio, a Mestre, da parte di sei giovani inferociti per essere stati «disturbati», con la richiesta di spostarsi dalla strada e permettere alla sua macchina di passare, nel loro appuntamento serale con lo spritz a basso costo: un euro e mezzo l’uno, per invogliarne il consumo. Lo hanno preso a pugni lì sul posto, per poi massacrarlo sotto casa, dove l’avevano inseguito. Nessuno ha passato un giorno in carcere. 13 aprile 2014 | 11:42 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_13/lunga-agonia-gabriele-sinopoli-preso-pugni-popolo-spritz-902ca7ba-c2ed-11e3-a3de-4531ca6bc782.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Dimissioni di Berlusconi, non serve una commissione d’inchiesta Inserito da: Admin - Maggio 15, 2014, 04:38:13 pm Dimissioni di Silvio Berlusconi, non serve una commissione d’inchiesta
Di Marzio Breda Una commissione parlamentare d’inchiesta per verificare la vecchia teoria del «golpe» rilanciata da Berlusconi dopo le rivelazioni dell’ex segretario del Tesoro Usa, Tim Geithner? Un’ipotesi tutta elettorale e montata sul nulla. E non solo per il fatto che qualcuno, tra i falchi di Forza Italia, potrebbe magari essere tentato di chiamare come testimoni il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, o la cancelliera Angela Merkel o chissà chi altro, dei vertici Ue, coprendoci di ridicolo. Ma perché sarebbe sufficiente un minimo di memoria storica, per smontare una simile pretesa. Tanto più se si pensa di giocare d’azzardo fino in fondo, a costo di associare il capo dello Stato al presunto schema di trame e manovre incrociate di cui ha fatto cenno - ma quasi mordendosi la lingua come chi sa e non può dire - lo stesso premier detronizzato. Basterebbe ricordare come andarono le cose in quell’autunno 2011, quando il Cavaliere cominciò a parlare dei «traditori irriconoscenti» che facevano evaporare la sua maggioranza, ammettendo con «tristezza e dolore» l’estrema difficoltà del proprio governo. Basterebbe che, in un soprassalto di sincerità, Berlusconi ricostruisse ciò che disse a Napolitano la sera dell’8 novembre, presentandosi al Quirinale con un’aria provatissima e chiedendogli «che cosa debbo fare?», per sentirsi rispondere quel che ormai era ovvio: «Non ci sono ragioni per continuare...». Basterebbe che non negasse di aver accettato e avallato lui stesso, dopo aver confermato quattro giorni più tardi le dimissioni e mentre i suoi gruppi parlamentari si guardarono bene dal chiedere un reincarico, la nomina di Mario Monti a Palazzo Chigi, per evitare uno scioglimento delle Camere destinato ad avere «ricadute dirompenti». Basterebbe che ammettesse quanto era nel frattempo accaduto in Europa, dove si scontrava con un crescente clima di ostilità del quale aveva però sempre evitato di fare cenno al suo rientro a Roma. Ecco, basterebbe questo per domandare - e questa sì sarebbe una cosa utile - la ricostruzione di una verità storica su cui alcune zone d’ombra gravano davvero. 15 maggio 2014 | 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_15/dimissioni-silvio-berlusconi-non-serve-commissione-d-inchiesta-35c20254-dbfa-11e3-8893-5231acf0035c.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Napolitano: da Merkel e Obama simpatia e rispetto per l’Italia Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 11:12:40 am Dopo la festa del D-Day
Napolitano: da Merkel e Obama simpatia e rispetto per l’Italia Il presidente parla degli incontri in Normandia: «Ho colto fiducia verso il nostro giovane presidente del Consiglio» Di Marzio Breda «Unpredictable», imprevedibile. Così gli hanno detto Barack Obama e Angela Merkel, commentando compiaciuti il risultato del voto per il Parlamento di Strasburgo che si è avuto in Italia, uno dei pochissimi Paesi dell’Unione dove le forze di governo si siano imposte - e con un largo margine - sull’agguerrito fronte dei populisti e degli euroscettici. Un esito inimmaginabile, dunque, racconta al Corriere Giorgio Napolitano, all’indomani del rientro al Quirinale dalla Normandia, descrivendo «il buon clima», politico e umano, che ha respirato venerdì a Sword Beach, durante le celebrazioni per il settantesimo anniversario dello sbarco alleato. Una «svolta positiva», insomma, quella registrata negli ultimi mesi a Roma. Che diversi interlocutori, in particolare la Cancelliera tedesca e il presidente americano, hanno come sempre associato a parole affettuose, pronunciate in una chiave «molto espansiva» verso di lui (e il repertorio, lo sappiamo, comprende la capacità di giudizio, il contributo di valutazione e consiglio, la saggezza...), ripromettendosi poi tutti e tre di sentirsi presto. «Quando vuoi mi chiami, sai dove trovarmi». Ma, ciò che più contava, dal punto di vista di Napolitano, è che tanto la Merkel quanto Obama gli hanno fatto capire con chiarezza di nutrire serie attese sulle nostre immediate prospettive. Diciamo pure che coltivano una motivata «fiducia». Così che lui stesso, spiegando un po’ la direzione che da noi si è imposta per la stessa forza delle cose, si è con loro dichiarato «contento del fatto che a Roma si stia mettendo in campo una nuova generazione di uomini di governo». Futuro, presente, passato. Nella riflessione del capo dello Stato tutto si tiene, quasi per un effetto invertito di circolarità e rincorsa del tempo. Lo ha «emozionato», ad esempio, vedere proiettati sui maxischermi drammatici spezzoni di pellicole sul D-Day e sulla progressiva liberazione dell’Europa, nei quali apparivano anche i volti di alcuni italiani che hanno fatto la storia dalla parte giusta. Vale a dire dalla parte di quanti decisero di impugnare le armi e di battersi contro il nazifascismo: una scelta che ha contribuito a restituirci l’onore. «Sì - racconta il presidente della Repubblica -, mentre Hollande teneva il suo discorso, citando pure l’Italia, scorrevano immagini filmate nei diversi Paesi occupati di allora, dove c’era stata la Resistenza. C’era De Gaulle, naturalmente. Ma apparivano pure, e con i nomi proiettati in evidenza, Ferruccio Parri e Luigi Longo, quando sfilarono a Milano, il 25 aprile 1945. E altri ancora, tra i quali ho scorto Raffaele Cadorna, il comandante del Corpo volontari della libertà, e il capo partigiano dell’Ossola, il socialista Giovanni Battista Stucchi». Ecco, anche per gesti di attenzione come questi, è stata «memorabile per tutti, e positiva e gratificante per l’Italia», la giornata vissuta venerdì sull’insanguinata costa a Nord della Francia dai rappresentanti dei 19 Paesi «che contribuirono alla vittoria finale». Tanto memorabile che ieri pomeriggio Napolitano ha voluto stendere di proprio pugno un appunto, per riassumerne il significato che le va attribuito. C’erano, scrive, ricostruendo la scena, «in primo luogo Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia, ma insieme tutte le Nazioni che hanno sofferto le odiose vicende dell’aggressione e dell’occupazione tedesca in Europa»... «E l’Italia», annota, sottintendendo quanto accaduto nelle precedenti celebrazioni, «questa volta, non poteva mancare». Di qui l’invito che gli era stato rivolto dal collega Hollande, «anche con parole di esplicito riferimento» al suo «personale legame con la tradizione dell’antifascismo». Sanata l’amnesia sul peso e sul valore che ebbe la nostra lotta di liberazione «nel duro periodo dell’oppressione nazista», il presidente rammenta che «d’altronde, due giorni prima dello sbarco in Normandia, le forze alleate avevano liberato Roma, con il prezioso concorso della Resistenza che aveva operato nella capitale, pagando duramente il suo coraggio con l’orribile massacro delle Fosse Ardeatine». Non basta. Napolitano aggiunge che «la peculiarità della posizione dell’Italia nel 1944 stava nell’essersi formato nel nostro Paese, cioè nell’Italia già liberata, un nuovo governo legittimo, che rompendo col fascismo, dopo aver firmato l’armistizio con le forze alleate, aveva dichiarato guerra alla Germania e aveva schierato l’Italia a fianco degli alleati come Paese cobelligerante». E quel governo, insiste nella propria rievocazione (che sembra concepita a uso di un certo revisionismo storico, sempre teso a minimizzare il ruolo dei soldati in divisa tricolore accanto ai partigiani), «aveva al tempo stesso promosso la rinascita dell’esercito italiano, i cui primi nuclei ebbero il loro battesimo di fuoco nella battaglia di Mignano Montelungo». È per tutti questi motivi, spiega il capo dello Stato, che si è sentito «pienamente» a suo agio, sulla spiaggia di Normandia - dopo aver ricevuto tra l’altro anche «attestazioni affettuosissime di apprezzamento dalla Regina Elisabetta per l’accoglienza ricevuta due mesi fa al Quirinale» - «in un clima di incancellabile solidarietà che ci univa tutti». Un riconoscimento reciproco e una vicinanza tali da «propiziare anche un atteggiamento disteso che ho colto in particolare nei brevi scambi di battute sia con la cancelliera Merkel sia con il presidente Obama sia con il nuovo presidente ucraino Poroshenko, che avevano - prima e dopo la colazione - dialogato con il presidente Putin». Per stare alle sue sensazioni, la diplomazia, anche in una stagione di crisi internazionale acuta e che scuote in profondità l’atlante geopolitico come avviene per la partita tra Kiev e Mosca, ritrova le proprie ragioni sul ricordo di una dura battaglia combattuta insieme 70 anni fa, nel nome della civiltà. Di più: il follow up , il seguito, di questo tipo d’incontri va oltre. Infatti, osserva ancora Napolitano, tornando tra il presente e il futuro dell’Italia, «nei rapidi colloqui con la cancelliera tedesca e con il presidente americano ho colto echi di simpatia per il nostro nuovo giovane presidente del Consiglio, che entrambi avevano incontrato alla vigilia... e ho colto sempre un’attenzione rispettosa per il ruolo dell’Italia in Europa». 8 giugno 2014 | 08:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_08/napolitano-merkel-obama-simpatia-rispetto-l-italia-ba41e77e-eed3-11e3-9927-6b692159cfdc.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Statali, giudici, corruzione Ecco i punti del Colle Inserito da: Admin - Giugno 24, 2014, 05:42:36 pm Il quirinale
Statali, giudici, corruzione Ecco i punti del Colle Il «Decretone» va cambiato. Serviranno almeno due provvedimenti urgenti Le critiche su pubblica amministrazione e giustizia Di Marzio Breda C’era l’ansia (e l’ambizione) di offrire agli italiani, stretti nella morsa della crisi, risposte rapide, anzi, rapidissime. Si voleva dimostrare che il governo interveniva in tempi record su più fronti, inserendo in extremis la questione morale riesplosa con gli scandali Expo e Mose. Solo che - e ricordarlo rievoca la saggezza dei proverbi - la fretta fa spesso incespicare in qualche incidente di percorso o in qualche trappola. Figuriamoci se si pretende di imporla a chi lavora in un cantiere delicatissimo com’è quello dove si formano le leggi. Così è successo che, quando il decreto di «misure urgenti per la semplificazione e la crescita del Paese» (questa la definizione d’origine, ribattezzata dai mass-media alla stregua di «riforma della pubblica amministrazione») il 13 giugno è arrivato al Quirinale per una prima verifica, anche stavolta gli uffici giuridici della presidenza della Repubblica si sono trovati di fronte a uno dei soliti decreti-omnibus già censurati in passato da Giorgio Napolitano. Un provvedimento monstre, insomma. Disomogeneo per materie e oggetto. Senza indici né relazioni tecniche e illustrative ad accompagnarlo. Dilatato in 82 articoli e lungo 71 pagine, che spaziavano dal pubblico impiego alla magistratura, dall’avvocatura dello Stato alle scuole di formazione dei dipendenti pubblici, dalle invalidità delle patologie croniche alle fonti rinnovabili, dalla disciplina degli appalti alla mozzarella di bufala campana, dal rilancio del settore vitivinicolo e del made in Italy all’efficientamento energetico delle scuole, dalle bonifiche alla tracciabilità dei rifiuti, dalla disciplina degli appalti al processo civile, amministrativo, contabile e tributario... … La bozza Lo schema del decreto, che mutuava fra l’altro una parte di testi precedentemente elaborati dall’esecutivo nei settori dell’agricoltura e dell’ambiente, aveva via via condensato norme su altri campi. Su tutte ne campeggiavano alcune ispirate a una doppia esigenza, assai sentita dall’opinione pubblica: 1) il bisogno di far scattare al più presto il cosiddetto «ricambio generazionale», a partire dagli apparati dello Stato, anche per far fronte al problema della disoccupazione dei giovani; 2) il bisogno di avviare un più concreto ed efficace contrasto alla corruzione. Questo lo si associava poi a una serie di disposizioni per far ripartire l’economia, agevolando le imprese con una sequenza di interventi mirati. Temi e materie differenti, per le quali i criteri di necessità e urgenza non avevano il medesimo impatto. Di qui il suggerimento, girato al governo, di «spacchettare» quantomeno in due distinti provvedimenti (in adesione a un ovvio principio di coerenza) la bozza uscita dal Consiglio dei ministri. Ma non si limitavano a questo, le «osservazioni» recapitate dal Colle a Palazzo Chigi nove giorni fa. Sulla base di una prassi antica, che risale all’alba della Repubblica e che ha avuto nel tempo definizioni diverse (interlocuzioni riservate, collaborazione istituzionale, scambio di esperienze, un additivo di sorveglianza, moral suasion, ecc.), gli uffici tecnici del presidente compiono un monitoraggio cooperante delle proposte legislative «in itinere», in modo da evitare aspetti di precaria costituzionalità e appianare in anticipo situazioni di conflitto potenziale, tenendole lontane dai punti di crisi. Ossia quelle tensioni che puntualmente si verificano quando un capo dello Stato, dopo averla soppesata fino alle virgole, si sente «costretto» a non controfirmare una legge, rinviandola alle Camere per una nuova deliberazione. I punti critici E in questo caso, forse proprio per la smania di bruciare le tappe, di «criticità» ce n’erano parecchie, nel decreto-legge approntato dal governo. Su tutte, quelle che riguardavano la riforma con un taglio del 90 per cento delle «propine» spettanti agli avvocati dello Stato (onorari peraltro già ridotti dalla legge di Stabilità) e la soppressione di sezioni staccate dei Tar. Due capitoli che hanno carattere di «norme ordinamentali» e che andrebbero dunque riportati in un disegno di legge. Particolarmente complessa, perché deve armonizzarsi anche con le direttive comunitarie e le sentenze europee, la parte sul «ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni». Qui, se pure risulta legittima (e oggi quasi inevitabile) la ratio di lenire in questo modo la piaga della disoccupazione giovanile, è intervenuta l’opposizione dei magistrati, contrari all’abrogazione del «trattenimento in servizio» (che in certi casi oggi può trascinarsi fino a 5 anni) oltre il limite dei settant’anni di età. Le toghe avevano paventato il rischio che la ghigliottina della quiescenza obbligatoria potesse creare improvvisi vuoti di organico, con relativa decadenza di molti processi e un caos aggravato nella gestione della giustizia. Il Colle aveva consigliato la soluzione di un regime transitorio, indicato in un anno, e la consultazione degli organi di autogoverno dei giudici, rimettendo comunque l’intera disciplina al legislatore. Le Authority Problematico pure il cruciale articolo che sopprime l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e definisce le funzioni dell’Autorità nazionale anticorruzione (quella che il premier vuole affidare al giudice Raffaele Cantone). Perché la decadenza immediata della prima amministrazione, indipendente, rischierebbe di trasformare il presidente della seconda, altrettanto indipendente, in una sorta di «commissario straordinario». Pericolo intravisto e segnalato già all’inizio della gestazione del decreto e, a quanto pare, scongiurato senza danni e delegittimazioni. Su questo stesso piano qualche aspetto scivoloso presentava anche la norma con cui si assegnava al prefetto di provvedere alla temporanea gestione di un’impresa appaltatrice sulla quale gravino gravi fattispecie penali o rivelatrici di fenomeni corruttivi, con lo scopo di completare l’esecuzione del contratto d’appello. Una disposizione che potrebbe innescare una catena di contenziosi per sospetto d’incostituzionalità (per violazione dell’articolo 41 della Carta) e che quindi richiederebbe presupposti applicativi più stringenti e tassativi. Sono solo alcuni esempi delle criticità di un decreto in cui gli analisti messi al lavoro da Napolitano hanno individuato parecchie «norme di carattere ordinamentale». Il che significa, per capirci, norme collegate a obiettive esigenze di rigore finanziario e di sviluppo, o comunque essenziali per l’economia, che normalmente dovrebbero essere approvate attraverso un disegno di legge. Certo, se il governo - dopo aver letto e metabolizzato nel testo finale tutte le controdeduzioni ricevute - vuole farne dei punti assolutamente qualificanti della propria azione e intende dare attraverso di essi un messaggio simbolico al Paese, il Quirinale non ne farà una questione di lana caprina. Li avallerà. 24 giugno 2014 | 06:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_24/statali-giudici-corruzione-ecco-punti-colle-f18ba890-fb59-11e3-9def-b77a0fc0e6da.shtml Titolo: Marzio BREDA. - La sponda del Colle per andare oltre la parola austerity Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2014, 08:22:31 am La sponda del Colle per andare oltre la parola austerity
Di Marzio Breda Il primo avvertimento Napolitano lo lanciò in febbraio, quando disse al Parlamento di Strasburgo che «non regge più una politica di austerità a ogni costo» e che l’epoca del rigore per il rigore va chiusa per cambiare l’immagine di «un’Europa intrappolata». Era un anticipo della nostra linea nel semestre di guida europea. Adesso, mentre Renzi duella con la commissione per un compromesso su pochi decimali, il capo dello Stato rincara. Alza uno scudo sul governo, ragionando con gli studenti su come i cittadini percepiscono la Ue. «Dopo anni di politiche restrittive, disoccupazione giovanile dilagante e una recessione che rischia di diventare stagnazione, è giusto sollecitare uno spostamento di attenzione verso le esigenze della ripresa e dello sviluppo pur senza far venir meno gli equilibri di bilancio». Ecco la lancia che il capo dello Stato spezza in favore della manovra italiana, definendo «grave che ci si accapigli su uno 0,1 per cento» e «grave che non si parli» della costruzione europea come di una serie di successi. Polemiche, queste ultime, agitate da chi considera la Ue «qualcosa di nebuloso, ubicato dalle parti di Bruxelles», un moloch di tecnocrati, «un peso». Polemiche, aggiunge, cui partecipa gente «competente, poco competente, per nulla competente». Confida il presidente: «Ho dato una rapida lettura alla bozza di documento di Bruxelles e ho notato che il termine austerità stavolta non compare». Forse perché «è parso opportuno non dar spazio alle polemiche». O perché qualcuno aveva «complessi di colpa». E, rispetto al disorientamento dell’opinione pubblica, questo dipende dal fatto che «il tema è stato ridotto a un dilemma tra rigore e impegno per la crescita». Tanto che «ha preso piede un atteggiamento di estraneità, contestazione e rifiuto». Così, «sembra che l’Ue appartenga ad apparati tecnico-burocratici che farebbero calare dall’alto direttive di difficile comprensione a carattere economico». Ma, sentenzia l’europeista critico Napolitano, «l’Europa non è una strana creatura, un mostro che impone leggi inapplicabili». 25 ottobre 2014 | 09:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_25/sponda-colle-andare-oltre-parola-austerity-9624112e-5c14-11e4-a063-152f34c0ded7.shtml Titolo: Marzio BREDA. - I giudici al Quirinale Processo Stato-mafia Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 06:09:38 pm I giudici al Quirinale
Processo Stato-mafia Meglio l’udienza pubblica Di Marzio Breda Arrivati a questo punto - e a nostro avviso non bisognava proprio arrivarci, se non altro per le pesantissime ricadute che era inevitabile ne scaturissero - conviene davvero che l’udienza di domani al Quirinale escluda la stampa? Soprattutto, conviene alla massima istituzione del Paese? Chi rischia di ricevere maggior danno dalla blindatura che è stata decisa? Certo, se si sta a quanto prevede il codice di procedura penale (articoli 502 e 147, ultimo comma), in casi speciali come questo le riprese e le trasmissioni dei dibattimenti a porte chiuse «non possono essere autorizzate». Un ostacolo giuridico che sarebbe però bene superare. Stavolta, infatti, davanti a un evento come la trasferta romana dei giudici di Palermo per raccogliere la testimonianza del presidente della Repubblica su un capitolo (peraltro assai marginale) della presunta trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia, garantire l’esercizio «dal vivo» del diritto di cronaca sarebbe, oltre che sacrosanto, opportuno. Anche per Giorgio Napolitano. Il quale, dopo aver fornito ai magistrati per iscritto un anno fa ogni spiegazione su ciò che ora si vuole ripeta, da mesi punta l’indice contro le interpretazioni strumentali, le illazioni fuorvianti, gli inquinamenti della realtà suggeriti da una campagna culminata nella morte per infarto del suo consigliere, Loris D’Ambrosio, e in una sfida tra poteri. Una sfida che aveva costretto il capo dello Stato a sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, dalla quale ha avuto ragione. Una sfida che è proseguita con la provocatoria pretesa, per fortuna poi lasciata cadere, di far addirittura «entrare» in videoconferenza nello studio del presidente i boss Riina e Bagarella. E che adesso, con la salita sul Colle di una Corte d’assise impegnata su un’ipotesi processuale così devastante, segna l’ultimo passaggio di una prova di forza senza precedenti. Potenzialmente in grado di lesionare il prestigio e l’autorevolezza del supremo organo costituzionale. Si sa che, a cose fatte, la deposizione del capo dello Stato sarà resa disponibile per intero, con verbali e registrazioni Dvd cui i cronisti potranno accedere. Ma, visto che al Quirinale si è sempre recriminato, e con buoni motivi, sui pericoli di una spettacolarizzazione del processo (il che potrebbe da domani tradursi in letture manipolate e virali del senso di un sospiro, di una risposta a voce incrinata, di un silenzio), perché non lasciar «parlare le parole», insieme alle immagini? Perché non consentire ai cittadini di seguire l’udienza in diretta, alla tv o su Internet, e di confrontarla con i resoconti e gli approfondimenti dei quotidiani, in maniera che si formino una libera opinione? Non sarebbe il modo per togliere alibi a certi professionisti di una controinformazione a caccia di scandali, a costo di inventarli piegando la verità senza riguardo per nessuno, e che da giorni strepitano su una censura preventiva, studiata per oscurare chissà quali patti e complicità? E su questo piano, basta pensare che la testimonianza del presidente è stata accostata perfino al caso Clinton-Lewinsky. Lo ripetiamo: nonostante le «porte chiuse», non ci sarà alcun segreto sulla deposizione di Napolitano. Ma chi ha esperienza del mondo e della politica sa che il quarto potere, quando gioca sul vittimismo, può trasformarsi in un contropotere pronto a deragliare perfino dalle regole base della deontologia. 27 ottobre 2014 | 08:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_27/processo-stato-mafia-meglio-l-udienza-pubblica-a757edba-5da1-11e4-8541-750bc6d4f0d9.shtml Titolo: Marzio BREDA. - L’addio di Napolitano: «Non ce la faccio più» Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 12:11:26 pm Il retroscena
L’addio di Napolitano: «Non ce la faccio più» L’annuncio a fine anno. Non vuole sciogliere lui le Camere nel caso di voto anticipato All’origine anche motivi di salute come avrebbe confidato all’amico Alfredo Reichlin Di Marzio Breda L’ultimo che ha creduto di convincerlo è stato Matteo Renzi, una settimana fa. «Presidente, la prego di rivedere le sue decisioni e di restare più di quanto vorrebbe. Siamo in una fase critica per le riforme e non solo. C’è bisogno di lei, come garanzia per tutti, finché non usciremo dall’emergenza». Questa la richiesta. Ma, anche se il premier aveva vestito le proprie parole con toni insistenti e, anzi, quasi accorati, la risposta non è cambiata: un no secco. Giorgio Napolitano è rimasto irremovibile, dopo che già da qualche tempo ripeteva di voler interrompere presto il secondo mandato al Quirinale. Si era detto e scritto (anche sul Corriere, in diverse circostanze, benché Napolitano non gradisse «lo sterile gioco» delle supposizioni) che dalla chiusura del semestre italiano di guida dell’Ue, il prossimo 31 dicembre, ogni giorno sarebbe stato plausibile, come data per un congedo anticipato del capo dello Stato. Nessun grande mistero, nessuna vera incognita. Certo, molti tendevano a far slittare nella tarda primavera - ma non oltre il suo novantesimo compleanno, il 29 giugno - l’orizzonte che il presidente era disposto a darsi. Altri, più drasticamente, stringevano i tempi a gennaio, basta pensare a Emanuele Macaluso, che già il 18 marzo scorso aveva profetizzato le dimissioni dell’«amico Giorgio» nel giro di «poco più di sei mesi». Ieri la questione è stata rilanciata per via mediatica, con una perentoria indicazione: Napolitano lascerà il Colle entro fine anno. Per come si sono messi troppi fattori, è ormai un’ipotesi più che sensata. Infatti, per il presidente il limite di «sostenibilità» di un incarico così gravoso, sia sul piano istituzionale sia su quello personale, sembra ormai sul serio alle soglie di esaurirsi. Forse senza possibilità di ripensamenti, a costo di dover certificare un fallimento - in questo caso del Parlamento - rispetto alla speranza di potersene andare lasciando il Paese più «in ordine» di un anno fa. Sulle sue scelte incombe anzitutto un problema di «sostenibilità» fisica, perché Napolitano è da mesi perseguitato da una serie di disturbi e acciacchi che gli impongono fastidiose terapie e lo fanno dormire poco e male. Tanto da confidare di recente ad Alfredo Reichlin, coetaneo e sodale di una vita: «Non ce la faccio più». Guai su cui potrebbe forse anche passare sopra, per un altro po’, a un paio di condizioni. Se vedesse che il percorso delle riforme costituzionali, certo non brevissimo, fosse costruttivamente imboccato. E se si riuscisse a varare rapidamente almeno un nuovo sistema elettorale (da realizzare per legge ordinaria, dunque attraverso un itinerario meno problematico), in grado di sostituire il relitto legislativo che resta in piedi dopo la sentenza della Consulta sul famigerato Porcellum. Ma su entrambi questi fronti, che erano fra le precondizioni da lui poste per accettare un reincarico comunque a termine, nonostante i suoi continui richiami la politica è impantanata. Non solo. Con i due maggiori partiti impegnati in reciproche prove di leadership e con intermittenti fibrillazioni su alleanze fondate solo su calcoli di convenienza, tra la seconda metà di gennaio e febbraio potrebbe accadere di tutto. Anche che il governo dichiari forfait, magari sulla base di qualche nuovo sondaggio, ciò che ucciderebbe la legislatura. E Napolitano, si sa, non vuole firmare uno scioglimento delle Camere che renderebbe l’Italia ingestibile per alcuni mesi, provocando un lungo stallo proprio quando l’Europa si aspetta da noi scelte concrete e convincenti sull’economia. Andandosene prima, il presidente metterebbe quantomeno l’intero sistema dei partiti di fronte alle proprie responsabilità. Se tale scenario è davvero fondato e se non dovessero intervenire variabili che nessuno azzarda, la procedura potrebbe essere questa. A fine dicembre, durante l’incontro con le alte cariche dello Stato o nel messaggio agli italiani di fine anno, il preannuncio delle imminenti dimissioni. Poi, nel giro di qualche settimana, le dimissioni formali. Da quel momento scatterebbero i 15 giorni previsti per la convocazione delle Camere e la designazione delle deputazioni regionali, prima che i cosiddetti «mille elettori» (ma sono qualcosa di più) comincino a votare per il nuovo inquilino del Quirinale. E scatterebbe pure, anche se le prassi costituzionali non sono univoche, la supplenza da parte della seconda carica dello Stato. Cioè del presidente del Senato, Piero Grasso. Uno schema che impone un’osservazione inquietante: se un lampo non illuminerà i politici, il successore di Napolitano rischierebbe di essere eletto da un Parlamento in articulo mortis. 9 novembre 2014 | 08:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_09/addio-napolitano-non-ce-faccio-piu-806acf00-67de-11e4-b22b-88ac3d1bfff6.shtml Titolo: Marzio BREDA. - L’agenda del presidente Cosa farà il capo dello Stato Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2014, 04:32:42 pm Scenari
L’agenda del presidente Cosa farà il capo dello Stato Di Marzio Breda Il conto alla rovescia per la successione a Napolitano è cominciato l’8 novembre, quando è esplosa la notizia che il presidente avrebbe annunciato la chiusura del secondo mandato entro la fine dell’anno. Da quel giorno è partito l’inevitabile totonomi, fatto rimbalzare dai partiti sui mass-media più per bruciare eventuali candidature che per sondarne la praticabilità. Ma da allora a Montecitorio è scattata anche la gara a indovinare la data delle dimissioni. C’è chi ha dato per vincenti le pressioni del premier affinché il capo dello Stato rinvii ogni decisione, azzardando la sua uscita dal Quirinale a metà maggio. E chi ha invece tagliato corto dando per sicuro il congedo già a dicembre. Per districarsi in questa rincorsa di profezie, nella quale la politica fa il proprio gioco, un po’ di chiarezza la offre il programma - confermato - messo a punto per il prossimo mese dal Colle. L’11 e il 12 Napolitano sarà a Torino per un vertice italo-tedesco. Il 16 riceverà le alte cariche dello Stato, mentre il 18 toccherà al corpo diplomatico. Tra il 22 e il 23 farà visita al comando operativo interforze e il 31, infine, rivolgerà gli auguri agli italiani in tv. Ce n’è abbastanza, insomma, per dire che prima di gennaio non lascerà. Del resto, se lo facesse, le prevedibili fibrillazioni parlamentari metterebbero a rischio la legge di Stabilità. 28 novembre 2014 | 10:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_28/napolitano-agenda-presidente-d4bf99a4-76df-11e4-90d4-0eff89180b47.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Il Colle e il bilancio-memorandum Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 04:28:34 pm IL MESSAGGIO DI GIORGIO NAPOLITANO
Il Colle e il bilancio-memorandum La dura chiamata alla «ripartenza» Le parole del capo dello Stato modulate a tratti con i toni dell’estremo avvertimento. Poi il congedo inaspettatamente confessate per un uomo così riservato Di Marzio Breda Il coraggio d’impegnarsi in una «missione nazionale» è quello che, nel suo ultimo messaggio da capo dello Stato, Giorgio Napolitano ha chiesto agli italiani a partire dal 2015. Una missione che deve coinvolgere l’intero Paese (dagli esponenti dei partiti e delle istituzioni, al suo stesso successore e alla gente comune) su due fronti. Quello del «rinnovamento» del Paese, attraverso le riforme messe in cantiere dal governo. E quello della lotta contro la corruzione, attraverso l’impegno a «bonificare il sottosuolo marcio della società». È questo il punto politico dell’appello, modulato a tratti con i toni dell’estremo avvertimento, e dunque anche con durezza espressiva. Ecco le condizioni del suo bilancio-memorandum per far davvero ritrovare all’Italia fiducia in se stessa, battere l’antipolitica e il qualunquismo, superare la crisi economica e del lavoro e conquistare, insomma, una «ripartenza». Le note personali Ma c’erano anche note personali, inaspettatamente confessate per un uomo riservato come lui, nel congedo dopo nove anni al Quirinale. Come quando ha motivato il passo indietro con «i segni dell’affaticamento dovuti all’età». O come quando, esortando il Paese a «mettercela tutta», ha detto di aver sempre «fatto del proprio meglio», nel doppio mandato in cui si è sforzato di difendere l’unità nazionale e di evitare, soprattutto nel drammatico 2013, le intermittenti «instabilità che tanto ci penalizzano». Ora, dopo che sulla sua seconda elezione si era aperta «una finestra per tempi eccezionali» (così l’aveva definita lui stesso), è tempo di tornare alla normalità. Il che significa, dato che questo invito è indirizzato in particolare al Parlamento, dare «una prova di maturità e responsabilità» nel prossimo voto per il nuovo presidente. Ancora poche settimane e, dopo il 13 gennaio, tutti gli italiani potranno verificare se tale appello sarà rispettato. 1 gennaio 2015 | 13:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_01/colle-bilancio-memorandum-dura-chiamata-ripartenza-7ab80c78-91b2-11e4-806a-37197f7d806f.shtml Titolo: Marzio BREDA. Quirinale, l’addio di Napolitano: «Ho sorriso poco, scusatemi» Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2015, 06:45:55 am Al colle per nove anni
Quirinale, l’addio di Napolitano: «Ho sorriso poco, scusatemi» Le parole dell’ex presidente al suo staff. Ora si apre la successione: il 29 la prima seduta dei grandi elettori Di Marzio Breda «Scusatemi se vi sono sembrato, o se proprio non sono stato, abbastanza sorridente con voi. Sappiate però che vi sono davvero grato, e che vi avrò sempre cari per l’aiuto che mi avete dato in questi anni straordinari e che mi hanno cambiato molto, in profondità». Si è veramente liberato da un certo modo di essere, sia nel privato come sulla scena pubblica, soltanto nelle ultime ore al Quirinale, Giorgio Napolitano. E questo saluto ai collaboratori più stretti lo dimostra, perché scioglie un autocontrollo così assiduo e severo da farlo a volte apparire non solo poco partenopeo, ma quasi disumano perfino. Mentre stavolta l’empatia con chi lo circonda scatta sul serio e ciò che pensa glielo si legge nel volto. «Ne abbiamo passate, eh, presidente? Del resto, si sa: nessuna istituzione è un’isola del sublime», dice un suo consigliere, uscendo dallo studio dove sono appena state firmate le dimissioni e citando un’efficace battuta del costituzionalista Mario Fiorillo. È davvero così: sono stati due mandati straordinari, e anche duri e difficili, quelli di Napolitano al vertice della Repubblica. Una stagione sulla quale ha lasciato il segno, specie nell’ultimo biennio, una logorante catena di attacchi e polemiche. Tensioni continue, che si sovrapponevano al già delicato e complicato lavoro «d’ufficio», e che adesso è dissolta. Il capo dello Stato è nello studio alla Vetrata e lì aspetta che il segretario generale Donato Marra completi il giro fra Palazzo Madama, Montecitorio e Palazzo Chigi per formalizzare il congedo. Questione di mezz’ora. Beve un caffè con lo staff. Gli mostrano qualche titolo dei giornali, ma soprattutto gli fanno scorrere le ultime lettere giunte al Quirinale dall’Italia e dal mondo. Parecchie hanno sul mittente i nomi di capi di Stato e di governo. Una è del Papa, «bellissima, un grande onore». Una porta il cartiglio dell’Eliseo ed è di François Hollande, affettuosa e piena di riconoscimenti, con un’aggiunta a mano: «Caro Giorgio, la Francia è orgogliosa di averti avuto come amico». La conferma che la cura con cui ha coltivato i rapporti internazionali produce sempre buoni dividendi. Gratificanti per lui, certo, ma soprattutto per il Paese, commenta. Il presidente legge e passa oltre, siglando qualche missiva personale dettata alle segretarie la sera prima e aggiungendo alcune risposte da far spedire con urgenza, quando arriva Clio. È un po’ scocciata per aver «preso freddo nei saloni giù sotto», dov’era rimasta ad aspettare, convinta che le procedure fossero più brevi. Anche lei ha un’espressione fra il sollievo e un vago smarrimento. In fondo termina per entrambi una lunga parentesi e negli sguardi che dedica al marito si coglie l’attenzione apprensiva di chi vuol capire come stia prendendo quest’ultimo passaggio. Lo vede piuttosto provato. Un po’ in affanno, se non spossato. E questo forse la preoccupa. A chi l’affianca, la first lady (espressione che peraltro non le è mai piaciuta, perché troppo pomposa) non domanda il classico «abbiamo preso tutto?» di quando si sta per completare un trasloco. Sa che ogni documento e oggetto è stato controllato e chiuso negli scatoloni da settimane. «Questo va agli archivi del Quirinale... questo negli uffici di Palazzo Giustiniani... questo a casa». Una selezione alla quale, per quanto riguarda le carte e i libri, ha voluto sovrintendere lo stesso presidente. Dal suo studio privato, cosiddetto «alla palazzina», si è voluto portare dietro alcuni volumi acquistati in tempi remoti, dai quali non si è mai separato e che a volte sfogliava come per prendere ossigeno. Per esempio, una raccolta di versi di Eugenio Montale, una di Giuseppe Ungaretti: passioni della giovinezza, assieme al teatro e alla musica, cui è ritornato sempre, quasi all’insegna del principio psicoanalitico del «regredire per progredire», cioè ricordare il passato per immaginare il futuro. E ciò che gli staffieri che lo accompagnavano l’altro ieri nell’ultima ricognizione hanno notato è che Napolitano, prima di spegnere la luce e chiudere la porta, si è girato intorno e ha «salutato» la stanza con la mano. Proprio un ciao ciao al piccolo dipinto di Giovanni Fattori che sta accanto alla scrivania, al tavolo intorno al quale convocava le riunioni del mattino, alla copia della Costituzione sempre in vista su un leggio. A quel «libro sacro» della Repubblica ha rivendicato di essersi tenuto fedele in ogni momento. Insomma, nella logica descritta da Vincenzo Cuoco durante la rivoluzione di Napoli del 1799, secondo cui «alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini»: e gli ordini - come ripeteva spesso pure Ciampi - sono naturalmente le istituzioni, che gli uomini devono tutelare con passione, virtù morali e impegno. L’impegno che aveva messo lui quando nel 2011 ha tenuto a battesimo il governo di Mario Monti e poi, una volta rieletto, quelli guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi. Una «invenzione» del tutto sua il primo, mentre sugli altri due ha esercitato una sorta di alto patronato affidando loro la missione delle riforme. Lo hanno criticato molto, anche per questo oltre che in certe battaglie sulla giustizia, ma ora il presidente non ci pensa. Scende nel cortile d’onore senza più pronunciare parole, concentrato sull’addio. Ed è qui che il suo sorvegliatissimo carattere e la sua autodisciplina a non mostrare le emozioni hanno un secondo cedimento. Sarà per gli onori del cerimoniale, che stavolta sono dedicati proprio a lui, sarà per l’inno di Mameli che echeggia da un’ala all’altra del palazzo, fatto sta che si commuove visibilmente. Tanto da abbandonarsi ad affettuosità che neppure i suoi più intimi collaboratori gli hanno mai visto fare. Li abbraccia e li bacia tutti, uno a uno. Distribuendo qualche pacca sulla spalla a chi di loro ha gli occhi lucidi e addirittura abbandonandosi a qualche carezza. E nella piazza del Quirinale, mentre la macchina scende verso il quartiere dove l’ormai ex capo dello Stato torna ad abitare, ha il risarcimento della gente comune, che lo applaude e grida il suo nome. 15 gennaio 2015 | 07:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_15/quirinale-addio-napolitano-ho-sorriso-poco-scusatemi-05e8ebae-9c81-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Arrigo Levi: «Quando Napolitano nel 2013 mi disse che stava male Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:56:08 am Arrigo Levi: «Quando Napolitano nel 2013 mi disse che stava male»
Il secondo mandato del Presidente: «Insistevano, lui buttò sul tavolo un plico di referti. Poi si sentì obbligato a cedere e non ho più sentito un cenno alle sue paure» Di Marzio Breda Giorgio Napolitano ha chiuso il secondo mandato in una condizione paradossale e amara. Dopo aver accettato una rielezione che gli era stata chiesta da un largo fronte di partiti e che fu consacrata dagli applausi dell’intero Parlamento, è stato quasi di continuo sotto attacco. Politicamente e mediaticamente. Considerando a posteriori quella sua scelta, ne è valsa la pena? «Certo che ne è valsa la pena, perché c’era in gioco l’interesse nazionale. Cioè qualcosa che per lui contava più di qualsiasi prezzo ci fosse da pagare». Così dice Arrigo Levi, inviato e corrispondente nelle capitali di mezzo mondo, saggista e infine consigliere del Quirinale nelle stagioni di Ciampi e Napolitano, essendo amico di entrambi. Abituato a cogliere anche da piccoli dettagli la verità di un uomo, racconta un episodio illuminante per capire in quale chiave il senso dello Stato sia da applicare all’azione di questo presidente ormai vicinissimo al congedo. «Era un giorno di metà aprile del 2013 e mi presentai nel suo studio per sentire che cosa pensava delle tante pressioni, dei partiti ma non solo, affinché restasse al suo posto. Se insistono, come fai a dire di no?, gli domandai. E lui, di solito molto misurato, quel giorno ebbe uno sfogo. Buttò sul tavolo un plico di referti medici, e mi disse: ma allora non hai capito? Non sai che non sto bene? Che ho altro cui pensare? Ecco perché sono indisponibile». Poi però cambiò opinione. «Sì, passate ventiquattr’ore si sentì obbligato a cedere. Sciolse la riserva e fu rieletto. Da allora sembrò dimenticare tutto. Si rimise al lavoro e non ho mai più udito dalla sua bocca neppure un cenno alla stanchezza o alle preoccupazioni personali. Né tantomeno alle polemiche venute dopo. Sono persone, lui come Ciampi, di una stoffa particolare. Appartengono alla generazione che viene dall’antifascismo e che si identifica in una concezione del dovere molto forte. Se si fosse sottratto a quella chiamata nel nome della Patria - e so di usare un’espressione fuorimoda e spesso carica di valenze retoriche - Napolitano avrebbe vissuto il proprio ritiro come una diserzione. Insomma, era indispensabile che rimanesse al suo posto per la salute della Repubblica. Per fortuna, con grande sacrificio, ha onorato l’impegno». Resta curioso che, nel Paese in cui trionfa l’epos giovanilistico e il premier Renzi cita di continuo il mito di Telemaco, ci si sia affidati a una persona che viaggiava già verso i novant’anni. Quale significato simbolico si può ricavarne? «Mi mette un po’ a disagio una questione del genere, dato che sono quasi coetaneo di Napolitano», dice Levi, con una punta di civetteria. «Credo che nei momenti di svolta si riconosca il valore dell’esperienza e della continuità. Non dimentichiamolo: un anno e mezzo fa l’Italia era paralizzata da una crisi politica senza precedenti, una crisi di sistema. Era logico, dato che stavamo attraversando tempi eccezionali, ricorrere a qualcuno che avesse vissuto una lunga parabola dentro le istituzioni, anche se il suo vecchio percorso politico era lontano da quello di molti». Inutile ricordarle che le radici di Napolitano nel Pci sono state il pretesto di intermittenti recriminazioni del centrodestra. Mentre dalla sinistra più estrema gli si imputava un’eccessiva arrendevolezza verso Berlusconi, con l’accusa di averlo salvato quando i suoi governi vacillavano. «È trascorso molto tempo da quando il Pci era un problema in Italia e non lo è più da almeno vent’anni. In ogni caso Napolitano non è mai stato condizionato da quel passato, a lui interessava la stabilità del Paese. Perciò, evocare Berlusconi in un bilancio della sua doppia presidenza, significa parlare di cose completamente irrilevanti. Berlusconi ha rappresentato un fenomeno politico interessante e originale, da studiare perché ha coinvolto molti italiani, magari ossessionandoli per un verso o per l’altro. Ma credo di poter dire che, per gente come Napolitano e Ciampi, l’ex Cavaliere non sia mai stato un’ossessione. Semmai, verrebbe da dire, un incidente nella storia della Repubblica». E lo stesso vale per Grillo e per altri protagonisti dell’antipolitica? «Mi sembra che valgano gli stessi dubbi, che pongo senza arroganza. Quanto sono significative queste figure, che hanno magari una presa sull’opinione pubblica, nella vicenda nazionale? Sono dei patrioti? Quale impronta possono lasciare nell’identità di un Paese e nelle sue istituzioni? Davvero si può ritenere che la Storia si esprima attraverso di loro? Non siamo forse troppo schiacciati sul presente e troppo pronti a inventarci un mito, o un incubo, al giorno?». Ragionamenti che Arrigo Levi estende alle critiche rivolte a Napolitano per la sfida con certi settori della magistratura. Le liquida con un’alzata di spalle: «Non credo, assolutamente, che un uomo come lui abbia fatto nulla che deragliasse dai principi repubblicani, che si sia mosso fuori da una piena consapevolezza dei suoi doveri. Lo dimostra la tranquillità - in quel caso ben più che un dono di carattere - con cui ha affrontato quella prova di forza». Che è stata «dura», e il consigliere Levi lo ammette, «ma che non va sovrastimata». Per lui bisognerebbe dunque relativizzare e contestualizzare criticamente quegli snodi sui quali la politica si è dilaniata. Quando Napolitano inventò il governo «tecnico» di Mario Monti e poi tenne a battesimo le «larghe intese» di Enrico Letta e, per ultimo, l’esecutivo «di scopo» (e lo scopo erano le riforme) di Matteo Renzi. Tre esempi in cui si è contestato al presidente di essere andato oltre i suoi poteri costituzionali. Polemiche malposte pure queste, per Levi. Che le respinge perché maturate «nella mente di chi ha una memoria breve». Basta riandare indietro nel tempo, spiega, per trovare «molti precedenti» di capi dello Stato che, nei periodi di crisi, «hanno colmato i vuoti della politica con scelte penetranti e incisive». In definitiva: «Era, ed è, loro compito prendere certe decisioni, senza curarsi di ciò che vorrebbero le maggioranze o le opposizioni, ma avendo come unica bussola un’idea di patriottismo repubblicano». 15 gennaio 2015 | 09:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_15/arrigo-levi-giorgio-napolitano-rielezione-malato-a57dac44-9c8c-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Mattarella, che presidente sarà Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2015, 08:02:45 am Il programma
Mattarella, che presidente sarà Alle Fosse Ardeatine il richiamo all’unità contro il terrore. E prepara i punti chiave del discorso di martedì Di Marzio Breda ROMA «Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini...». Se le prime frasi e i primi atti anticipano già il segno di una presidenza, Sergio Mattarella ieri il proprio sigillo l’ha lasciato. Semplice e sgombro di quelle euforie plateali e di quei sorrisi smaniosi di visibilità che tante volte sono andati in scena in casi simili. Lo dimostra la chiusa - «è sufficiente questo, grazie» - con cui si è sottratto ai cronisti subito dopo aver ricevuto da Laura Boldrini e Valeria Fedeli, giunte insieme da Montecitorio, la notizia ufficiale dell’elezione. Inutile appostarsi con registratori e telecamere negli angoli strategici della sua geografia quotidiana. Il suo programma è chiaro ed è riassunto in quelle 18 stringatissime parole e nel significato di quella visita solitaria (su una Fiat Panda, seduto accanto all’autista) che ha voluto poi compiere alle Fosse Ardeatine, luogo simbolico delle tragedie che hanno attraversato l’Italia nel Novecento. Insomma: sta dalla parte della gente che soffre e che vorrebbe confidare in un futuro migliore. Dalla parte del Paese che si ritrova più depressa, esausta e impaurita da questa lunga stagione di crisi e alla quale vorrebbe offrire una nuova speranza. Ecco la missione del settennato che si aprirà martedì. Mattarella l’ha spiegato nel pomeriggio alla dozzina di vecchi collaboratori e amici che lo hanno raggiunto negli uffici della Consulta. Assieme a loro ha abbozzato i punti chiave del discorso d’insediamento di martedì a Montecitorio. Un discorso che sarà una sorta di manifesto programmatico (ma, beninteso, «non un programma di governo», spiegano i suoi). Tre dovrebbero essere gli snodi principali, oltre ai ringraziamenti per un voto che ha unito sul suo nome i due terzi dei parlamentari: 1) l’impegno a svolgere un ruolo di garanzia verso tutti, come del resto prevede la Costituzione, anche nella logica di ridurre i conflitti e far cessare la rincorsa alla reciproca delegittimazione di cui i partiti sono prigionieri da anni; 2) la spinta a far procedere il cantiere delle riforme, nel convincimento che la nostra Magna Charta non è un totem intoccabile, ma va comunque revisionata con innovazioni ponderate; 3) l’incoraggiamento a reagire al pessimismo e a superare certe debolezze strutturali fronteggiando incisivamente i troppo lunghi collassi dell’economia e tenendo conto dei primi spiragli di ripresa che già si colgono. Concetti che svilupperà in quella forma asciutta, senza furbizie retoriche e senza cercare una superficiale empatia con chi lo avvicina, tipica del suo stile sia quando parla sia quando scrive. Parecchi hanno giocato nei giorni scorsi sul culto della riservatezza, sulla ritrosia davanti alla macchina mediatica e sull’estrema laconicità di Mattarella. Insistendo perfino sui toni bassi e monocordi con cui si esprime ed evocando un «grigiore assoluto». Un modo per suggerire che a tanta discrezione e mitezza fatalmente corrisponderà una certa debolezza - sinonimo di noia per chi dovrà occuparsi di lui - nel modo in cui eserciterà le funzioni da capo dello Stato. Una tesi secondo la quale si dà per scontato un suo deciso passo indietro rispetto agli scatti in avanti compiuti dai suoi predecessori e al loro interventismo che li ha fatti magari percepire più giocatori (o addirittura dei «sabotatori dadaisti del sistema» come fu definito Cossiga) che arbitri. Si scommette dunque che riporterà la presidenza a quella formula di autorità disarmata, se mai i capi dello Stato sono stati solo questo, andata in scena nella Prima Repubblica. Profezia con ogni probabilità sbagliata. Lo dimostra la storia ruggente del Quirinale negli ultimi venticinque anni, che di arretramenti su una cifra da notabili muti non ne ha visti mai e difficilmente ne vedrà con lui. E poi basta squadernare la sua biografia per sincerarsene: vi si trovano diverse tracce di dure prese di posizione e di giudizi politici taglienti, quando gli è parso giusto doverne dare. Lo conferma del resto un intimo del neopresidente: «Nessuno cada nell’inganno. La sua è la mitezza di chi è forte. Una raffinatezza espressiva molto palermitana, semmai. E di sicuro non è un uomo moralmente disposto a cambiare opinione o a ripararsi in una comoda e dimessa neutralità, quando sono in gioco valori non negoziabili della democrazia». Altro che un cattolico timido e passatista, quindi. Un credente, sì, e che tiene molto alla dimensione religiosa. Ma con un saldo ancoraggio alla dimensione laica dello Stato. Un politico cresciuto alla scuola di Aldo Moro e dei suoi discepoli, animatore del rinnovamento della vita pubblica in Sicilia e promotore di quella «primavera di Palermo» che anticipò tante cose di quanto accaduto dopo in Italia. Uno che, anche se l’incarico di giudice costituzionale può averlo abituato a essere un «legislatore negativo» (nel senso di sentenziare ciò che non può essere, di una legge) si sforzerà di accompagnare senza conservatorismi le riforme per la modernizzazione dell’Italia. Questo dobbiamo aspettarci da Sergio Mattarella, se vogliamo azzardare qualche ipotesi su che tipo di presidente sarà. Cioè poche parole e molti sforzi per produrre fatti, entrando anche nella cronaca più stringente attraverso qualche richiamo all’unità. Come è accaduto ieri, dopo la tappa alle Fosse Ardeatine. Con una frase di per sé evocativa dei suoi ancoraggi e dei suoi auspici. «L’alleanza tra Nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso. La stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore». 1 febbraio 2015 | 08:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/mattarella-che-presidente-sara-f123f1d6-a9e2-11e4-a06a-ec27919eedf1.shtml Titolo: Marzio Breda. Le scelte di Mattarella: innovare per non tradire la Costituzione Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2015, 11:15:16 am Le scelte di Mattarella: innovare per non tradire la Costituzione
La preparazione del discorso, ci sarà «tanta Italia» e si parlerà dei «bisogni della gente comune». Napolitano gli ha parlato del sollievo per il modo in cui è avvenuta l’elezione Le tre parole d’ordine saranno: difficoltà, speranze e unità del Paese Di Marzio Breda ROMA - «È stato un bell’incontro, amichevole e anzi affettuoso, come sempre con lui. Sa, con Sergio Mattarella ci conosciamo e stimiamo da molti anni. Oggi ci tenevo a spiegargli che la conclusione del voto di sabato, al quarto scrutinio e con quel largo consenso sul suo nome, mi ha liberato da una preoccupazione». Giorgio Napolitano ha appena congedato il suo successore, andato a rendergli visita a casa, in via dei Serpenti, a pochi passi dalla Consulta, e confida la cosa che più gli premeva dirgli. Parlargli cioè di un timore che lo aveva tormentato per settimane. «Sì, la preoccupazione - che alcuni avevano espresso in pubblico e che ovviamente sentivo anche io - che la mia decisione di dimettermi potesse aprire una fase molto turbolenta per le elezioni del nuovo capo dello Stato. E gli ho sottolineato che in realtà le mie dimissioni, motivate da concrete ragioni personali, erano state un atto di fiducia nella maturità e nella responsabilità del Parlamento e delle forze politiche...». In effetti erano in tanti a credere che le sfide per la leadership in corso nei diversi schieramenti, unite a esplicite ansie di sabotaggio, avrebbero potuto produrre un clima di tensione e di inconcludenza. Facendo magari chiudere la partita del Quirinale con un risultato problematico, se non proprio deludente. «Appunto. Il risultato è invece coerente con quell’elemento che avevo messo in luce nel mio messaggio di fine anno. Intendo il passaggio in cui avevo chiesto un ritorno alla normalità - o regolarità - nella vita delle istituzioni, perché non si poteva prolungare una soluzione eccezionale come quella che venne adottata nel 2013». Insomma, il rischio di uno sbocco divisivo è caduto e ora c’è chi profetizza che Mattarella si muoverà, da capo dello Stato, sulle orme tracciate da lei e, prima, da Ciampi. «Già, si indicano tre figure, in parte diverse e in parte assolutamente convergenti, per indicare uno stesso intento di fondo. E anch’io penso che la centralità di una certa linea, che ho condiviso con il mio predecessore, non sarà abbandonata». Scommessa abbastanza facile, quella di Napolitano. Lo dimostra la scaletta del discorso d’insediamento previsto per domani che il nuovo presidente della Repubblica sta scrivendo, affiancato da un gruppo di collaboratori e amici chiusi da due giorni con lui al Palazzo della Consulta. Ci sarà «tanta Italia», dentro. Ci saranno «i bisogni della gente comune e squarci di vita reale», trattati in una chiave tesa a sviluppare le tre parole d’ordine - chiamiamole così - che ha indicato l’altro giorno, nella telegrafica ma chiarissima dichiarazione di quando è stato eletto: difficoltà, speranze e unità del Paese. La sua azione istituzionale sarà concentrata soprattutto su questi temi. Ai quali si accosterà con la sensibilità e la partecipazione propria di chi ha avuto una formazione da cattolico-democratico, basata sugli insegnamenti di Aldo Moro e Leopoldo Elia, tanto per stare a due suoi antichi maestri. Ma un capitolo importante del messaggio dei Mattarella davanti alle Camere («piuttosto asciutto», promettono dallo staff) sarà riservato anche alla controversa e delicata questione delle riforme. Riforme in campo economico, sulle quali premerà perché senza una modernizzazione su questo fronte non potremo risollevare da una crisi che morde le famiglie italiane da ormai troppo tempo. E riforme costituzionali, ovviamente, visto che il percorso per un engeenering della Carta è ormai aperto e abbandonarlo a metà dell’opera sarebbe una dissipazione di energie e di coraggio. Ne parlerà nella logica che ha sempre predicato, da docente universitario e da giudice costituzionale, oltre che da politico: bisogna «innovare per non tradire». Insomma: quel «patto che ci lega» che fu scritto dai padri costituenti va aggiornato tenendone però vivo lo spirito, che altrimenti evaporerebbe. Ecco il punto su cui, senza per il momento entrare nel merito di quanto Matteo Renzi ha fatto finora votare, insisterà. Come insisterà pure sull’ancoraggio europeo di un’Italia che ha da mesi messo nell’agenda dell’Ue l’urgenza di una flessibilità per la crescita contro l’austerità a tutti i costi. Guarda caso ne parlò per primo Napolitano, al Parlamento di Strasburgo, il 3 febbraio di un anno fa. 2 febbraio 2015 | 07:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_02/scelte-mattarella-innovare-non-tradire-costituzione-982a6b00-aaa5-11e4-87bf-b41fb662438c.shtml Titolo: Marzio BREDA. - La prima notte da solo nel palazzo. Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2015, 11:20:59 am Il nuovo presidente
Dossier, missioni, udienze politiche Così Mattarella prepara l’agenda La prima notte da solo nel palazzo. Poi al lavoro nello studio con la storica segretaria Di Marzio Breda ROMA - L’altra sera, quando gli amici e i collaboratori se ne sono andati e gli staffieri si sono congedati, il presidente ha cominciato a sperimentare quale solitudine lo aspetta nei prossimi sette anni. Si è chiuso nell’appartamento dove hanno abitato i suoi predecessori, al secondo piano della palazzina che papa Clemente XII commissionò all’architetto Ferdinando Fuga, all’estremo angolo sud del Quirinale, e prima di mettersi a letto ha dovuto arrangiarsi in tutto. Valige a parte, anche per le telefonate. E pur considerando che Sergio Mattarella è da tempo abituato a star da solo, si può dare per scontato un suo sottile disagio, dovendo muoversi in spazi enormi e sontuosi, dove nelle 24 ore si alternano rimbombi estranei (lo sbatter di tacchi, lo zoccolio dei cavalli, gli squilli di tromba) e alienanti silenzi. Non per nulla Cossiga ripeteva che «quel palazzo isola» e che lui ci aveva vissuto «con l’oppressiva sensazione d’essere la comparsa di un film storico... in costume». La prima uscita Tutto si è rianimato ieri mattina, quando il capo dello Stato è sceso nel suo studio per affrontare la prima giornata di lavoro sul Colle. C’è parecchio da fare: dossier da chiudere, programmi da definire, udienze da calendarizzare. La prima uscita è per stamane, a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, ma lì il cerimoniale non ha messo in conto che parli. Mentre la prossima settimana andrà a Palazzo dei Marescialli, per presiedere un delicato plenum del Consiglio superiore della magistratura. L’unico altro appuntamento sicuro si proietta lontano, al 26 febbraio, giorno d’arrivo sul Colle del segretario generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg. Per il resto l’agenda di Mattarella è ancora da riempire. Di sicuro, è prevedibile a breve un faccia a faccia con Matteo Renzi, per una verifica sull’attività parlamentare e sul percorso delle riforme. Mentre restano da definire le date degli incontri chiesti martedì da Beppe Grillo e Silvio Berlusconi. Il viaggio in Sicilia E anche per quanto riguarda i viaggi fuori Roma, l’unico al momento prevedibile sarà in Sicilia (ma privatissimo), per recarsi sulla tomba della moglie Marisa, a Castellamare del Golfo, e poi a Palermo, per prendere da casa qualche libro e alcune carte personali. Sono in molti a chiedere già a Mattarella, appena insediato, interventi censori o di sostegno ai provvedimenti messi in cantiere dal governo. Ci sono in ballo materie controverse: l’Italicum, la riforma del Senato, il decreto fiscale, le misure per l’economia. Si pronuncerà a modo suo, facendo una prudente economia di parole, probabilmente attraverso una moral suasion preventiva con le diverse forze politiche e con lo stesso Palazzo Chigi. E, appunto, senza fuochi d’artificio verbali. Del resto, quello di essere sempre sotto pressione è un po’ il destino di ogni capo dello Stato: le opposizioni pretendono che faccia quel che loro non riescono a fare, la maggioranza che la tuteli come primo partigiano del governo. Atteggiamenti che, se non s’imporrà la «correttezza» da lui chiesta a tutti l’altro ieri, potrebbero rendere difficile la sua opera di «arbitro imparziale». Le lettere di ringraziamento Per il momento la sua priorità è capire fino in fondo come funziona la «macchina» del Quirinale e comporre la squadra che dovrà assisterlo. La prima persona che lo affianca è la sua vecchia segretaria di quando dirigeva Il Popolo: Leandra Tobini. Alla quale ha dettato le prime risposte alle tante lettere d’apprezzamento ricevute nelle scorse ore. Gli hanno fatto piacere, dicono i suoi collaboratori. «Perché dimostrano che il senso profondo del suo messaggio è stato compreso». 5 febbraio 2015 | 08:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/dossier-missioni-udienze-politiche-cosi-mattarella-prepara-l-agenda-1ac77502-ad04-11e4-8190-e92306347b1b.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Italicum, Colle verso il sì L’ipotesi di osservazioni alla... Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:46:32 am Il commento
Italicum, Colle verso il sì L’ipotesi di osservazioni alla riforma La ratifica dipende da ipotesi di palese incostituzionalità che nel caso dell’Italicum (per quanto si possano sospettare detestabili ricadute politiche) è molto difficile identificare Di Marzio Breda È probabile che uno con la sua formazione e il suo stile abbia sofferto il metodo usato da Renzi per imporre la legge elettorale, con continui scontri in Aula e strappi con lo stesso partito di maggioranza. Ma da oggi il problema del presidente della Repubblica è quello di entrare nel merito della legge, per decidere se approvarla o no. E la ratifica, si sa, dipende da ipotesi di palese incostituzionalità, che nel caso dell’Italicum (per quanto si possano sospettare detestabili ricadute politiche) è molto difficile identificare. Del resto, basta rileggersi i requisiti segnalati come indispensabili nel 2014 dalla Consulta - di cui Mattarella faceva parte - nella sentenza che bocciava il Porcellum, per sincerarsi che il nuovo sistema quei criteri di base li rispetta. Un raffronto che dovrebbe dunque legare le mani al capo dello Stato, deludendo chi nelle ultime settimane ha tentato di fare sponda su di lui, la minoranza pd anzitutto. Nell’Italicum, comunque, ci sono almeno un paio di punti «politicamente critici», con potenziali ricadute che potrebbero indurre il presidente a qualche approfondimento in più e magari ad alcune osservazioni, che potrebbe rendere pubbliche o in coda alla legge stessa (sulla scia della prassi inaugurata da Napolitano e ormai accettata) o attraverso un’esternazione ad hoc. Eccoli: 1) la cosiddetta clausola di salvaguardia, che subordina e rende efficace la norma a partire dalla riforma delle Camere; 2) il bipartitismo perfetto cui di fatto si ambisce e che cadrebbe in un quadro politico nel quale uno dei due contendenti (il centrodestra) è in condizioni di grande debolezza. Ora, posto che ciò possa spingere a un utile e semplificatorio rassemblement, non va trascurata la coincidenza che intanto crescono le forze antisistema (come il Movimento 5 Stelle) . 5 maggio 2015 | 08:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_05/italicum-mattarella-colle-verso-si-osservazioni-1333043a-f2ed-11e4-a9b9-3b8b5258745e.shtml Titolo: Marzio BREDA. - Mattarella, un messaggio poco “politico”. Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:05:18 pm Il primo del capo dello stato
Mattarella, un messaggio poco “politico”. Con l’accento sulla legalità La crisi, la disoccupazione, il terrorismo, l’immigrazione, l’inquinamento: le emergenze del passaggio verso il 2016 nel discorso di fine anno del presidente della Repubblica Di Marzio Breda Le ricadute della crisi, la disoccupazione, il terrorismo, l’immigrazione, l’inquinamento… Ci sono quasi tutte le emergenze di questo passaggio verso il 2016, cruciale per una ripartenza del Paese, nel messaggio di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un messaggio poco politico (anche se, si sa, tutto è politica) e molto attento invece alla vita concreta delle persone, nel tentativo di infondere comunque fiducia. Questioni affrontate - in un monologo colloquiale durato meno di venti minuti - con quella sensibilità sociale che fa parte della formazione umana e intellettuale di Sergio Mattarella. Diversi gli spunti che lo dimostrano. Un esempio. Quando parla del lavoro che manca, problema acutissimo per i giovani di ambienti svantaggiati e specialmente al Sud, il capo dello Stato ricorda, sia pur senza evocarla, la paralisi di quella «mobilità sociale» che negli anni Sessanta/Settanta aveva consentito l’accesso all’università, all’epoca non costosa quanto oggi, a milioni d’italiani fino ad allora esclusi. Effetto di una crisi ancora non risolta, anche se - e Mattarella lo riconosce, con sicuro sollievo del premier Matteo Renzi - «la condizione economica dell’Italia va migliorando e le prospettive appaiono favorevoli». Nella stessa prospettiva di tenere insieme la trama sociale di un Paese che resta comunque in difficoltà va letta la sua dura denuncia dei guasti provocati dall’evasione fiscale e contributiva. Un danno che da solo vale 7 punti e mezzo di Pil, cioè, secondo l’inedita citazione di uno studio di Confindustria, «più di trecentomila posti di lavoro». Ecco: la ripresa dovrebbe offrire per lui strumenti nuovi per affrontare dossier dolenti come questo o come la tutela dell’ambiente o, perfino, la minaccia portata dal terrorismo fondamentalista. Un approccio diverso serve poi a proposito delle continue ondate di flussi migratori, che per il presidente vanno «governati» con un sano equilibrio. Vale a dire: con spirito di «accoglienza», ma anche «con rigore». Distinzione non da poco, dati gli estremismi che ormai quotidianamente si accavallano, nell’approccio con questo dramma epocale. Aspri i riferimenti alla «questione morale», riaperta dai recenti scandali, con inquinamenti mafiosi pure nella sfera politica. La legalità, del resto, si delinea ormai come l’autentica mission di questo settennato, se non altro perché il capo dello Stato sente di poter esprimersi a nome della «quasi totalità dei nostri concittadini… che credono nell’onestà e pretendono correttezza». Anche, è la sua puntualizzazione, severa e fortemente politica, «da chi governa, a ogni livello». 31 dicembre 2015 (modifica il 31 dicembre 2015 | 21:39) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_31/mattarella-messaggio-poco-politico-l-accento-legalita-eee26426-afe9-11e5-98da-4d17ea8642a3.shtml Titolo: Marzio BREDA. - A CIAMPI, UN GRAZIE RICONOSCENTI! Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2016, 12:44:15 pm Che programmi sta facendo?
«Presto partirò con Franca per la montagna, l’Alpe di Siusi. Rientrerò a Roma ai primi di settembre, quando sarà passata la calura che per me è divenuta insopportabile. Sarò ospite di una residenza dei militari. Il posto è fresco, stupendo, in mezzo ai boschi, non troppo in quota: sui mille metri. La casa al mare, a Santa Severa, l’ho lasciata ai figli: ormai non ci posso più andare, a quest’età. Infatti, la testa funziona ancora, ma per il resto guardi come sono messo... Capisce perché non mi piace farmi vedere?». Su che cosa le capita di riflettere più spesso, in questo periodo? «Sulle grandi domande che dovrebbero essere inevitabili per un uomo, laico o religioso che sia. Il che significa, per uno che abbia la mia anagrafe, non fermarsi più alle cosiddette “domande penultime”, quanto andare dritto a quelle “ultime” e definitive. Ho pudore a raccontarlo, ma mi capita sempre più di frequente di ricordare papa Wojtyla, con il quale ho avuto rapporti sfociati in una vera amicizia. Mi invitava a colazione o alla sua messa privata, in Vaticano, anche un paio di volte al mese». Di che cosa parlavate, tra voi? «Di tutto, della vita e della fine della vita. Quando cominciò a stare sempre peggio, un giorno mia moglie Franca, con una delle sue uscite, diciamo così, estroverse, gli disse: “Santità, prego spesso per lei”. Mi intromisi subito io, per compensare quella che mi sembrava un’esagerazione: “Santità, io la penso spesso”. E a quel punto fu lui a parlare, con i gesti. Si passò la mano sul cuore, come per farci intendere: “Io vi ho qui dentro”. Poi, al momento di accomiatarmi, aggiunsi: “Santo Padre, abbiamo la stessa età… Se lei dovesse morire prima di me, mi promette che mi verrà incontro, che verrà a prendermi, che non mi lascerà solo quando giungerà la mia ora?». Sono pensieri molto cupi, che tendono a chiudere l’orizzonte, addirittura a inibire il futuro… «No, sono pensieri inevitabili. C’è una stagione giusta per tutto: per studiare, per coltivare progetti, per lavorare e per combattere, ma la stagione delle battaglie per me si è conclusa. Conosce l’epistola di San Paolo a Timoteo, che io imparai al liceo dei gesuiti? “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. È proprio così che succede, nell’ultima curva dell’esistenza. Cambiano le prospettive, non si ha più la forza di resistere e... viene quasi voglia di lasciarsi andare». Ma lei ha saputo resistere a tanti momenti di grande difficoltà. Stento a considerarla rassegnata. «Ha ragione... ma, ripeto, c’è un tempo per ogni cosa. Vede, a metà degli anni Novanta fui colpito dal solito male alla prostata. In pochi giorni si decise l’intervento chirurgico e, una volta uscito dalla sala operatoria, il medico mi confermò la più infausta delle diagnosi. Mi spiegò che si poteva soltanto tentare qualche terapia, per vedere se, e in quale misura, avrebbe funzionato. Propose la chemio o, in alternativa, le radiazioni. “Perché non tutte e due insieme?”, ribattei io. E così fu fatto». Quando accadeva tutto questo? «Era la primavera del 1996 e il centrosinistra aveva appena vinto una dura competizione elettorale. Una sera mi telefonò a casa il presidente Scalfaro, affannato. “Carlo, sto per dare l’incarico di governo a Prodi, ma se tu non lo affiancherai come ministro, non ce la potrà fare. So che non stai bene, ma te lo chiedo lo stesso: te la senti di essere della partita?”. Non ci pensai più di tanto, non feci l’amletico. Mi si domandava un servizio, risposi di sì». Nonostante i suoi guai e nonostante la pesantezza di una simile responsabilità? «È vero, l’impegno era pesante, perché si trattava di reggere insieme i dicasteri del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica. La mattina, prima di andare al ministero in via XX Settembre, passavo in clinica per le terapie, poi un caffè e via. Mi chiudevo in ufficio fino a sera, a lavorare duro con la mia squadra, avendo davanti la sfida del risanamento dei conti pubblici per l’ingresso nell’euro e i continui viaggi a Bruxelles e nelle altre capitali europee. A volte, non sapendo se nel pomeriggio avrei potuto darmi una pausa per le iniezioni, portavo con me la fiala e facevo arrivare qualcuno dalla farmacia più vicina, in maniera di non perdere tempo...». Tutto questo non si sapeva... «Non era il caso di farlo sapere, magari per costruirmi un alone eroico. Ci fu qualche indiscrezione, soprattutto nei primi mesi. Ma il mio stesso attivismo, la mia reazione (che forse dipendeva anche dal carattere livornese) mise a tacere chi, evocando quella malattia, puntava a indicarmi come inabile a qualsiasi progetto pubblico, ad azzopparmi insomma». Le succede qualche volta di ricordare il periodo del Quirinale? «Ripenso a tanti diversi periodi della vita. A quello da presidente, certo, che fu bellissimo e impegnativo. Ma anche ad altri tempi lontani, perché in noi vecchi si riaccende la memoria remota. Riaffiorano ricordi dell’infanzia o risonanze di quand’ero studente alla Normale di Pisa e sgobbavo sui libri e scoprivo certe pagine immortali. L’altra sera, ad esempio, mi è tornato in mente un autore che mi segnò molto, il Kant che chiude la “Critica della ragion pratica” con quella famosa presa di coscienza della specificità umana nell’armonia con l’universo e, insomma, della consapevolezza di quanto è giusto e quanto no, che in qualche modo riassume la sua stessa filosofia: “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”... Ecco, mi vengono in mente cose così, insieme ai volti di tanti compagni di strada che ho perduto». I volti di chi, per esempio? «Di Antonio Maccanico, tra gli ultimi. Mi veniva sempre a trovare, qui, nel mio studio, finché ha potuto». Chi altri incontra o sente? «Come può capire faccio vita ritiratissima. Leggo le lettere e gli inviti che ancora mi arrivano e detto alle segretarie le risposte. Ricevo qualche amico, come lei, e guardo un po’ la tv, anche se stento a trovare programmi in grado d’interessarmi. E certo, seguo sempre la politica e spero in tante cose per l’Italia... Ma poi, cosa vuole? Sono nonno e bisnonno, quindi mi rende felice soprattutto vedere i miei nipoti che crescono pieni di curiosità ed energia, di voglia di esplorare il mondo». Marzio Breda Da - http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=57dd1703d7809 Titolo: Marzio BREDA. Ius soli, per il Quirinale un secondo tentativo è impraticabile Inserito da: Arlecchino - Dicembre 30, 2017, 12:01:22 am Ius soli, per il Quirinale un secondo tentativo è impraticabile
Gli appelli a Mattarella perché rinvii lo scioglimento delle Camere sono generosi ma istituzionalmente non praticabili Di Marzio Breda Sono appelli generosi e di cui Sergio Mattarella comprende lo spirito. Ma restano istituzionalmente non praticabili, perché fondati su un’ipotesi del tutto irrealistica. Cioè l’ipotesi che, se si offrisse un’altra chance al Parlamento ritardandone il momento del congedo (previsto già per stasera o al più tardi domani), la legge sullo ius soli sarebbe approvata. Piaccia o no, questo scenario appartiene ormai alla sfera della fantapolitica. Tanto che al Quirinale allargano le braccia in segno di resa e, mutuando le conclusioni tratte da Montecitorio e Palazzo Madama, ammettono: mancano elementi seri che permettano di mantenere aperta la legislatura per un altro po’ di tempo. A questo punto, insomma, nonostante le accorate richieste di Manconi, Cuperlo e Pollastrini e dei leader di diversi movimenti, la prospettiva potrebbe cambiare solo a una condizione: un’esplicita iniziativa di Palazzo Chigi, che garantisca il pronto riaggregarsi di una maggioranza intorno al provvedimento. Una possibilità scartata dai vertici delle istituzioni parlamentari, che nelle prossime ore diventeranno anch’essi formalmente protagonisti del passaggio verso la XVIII legislatura. Infatti, è anche dalla consultazione con i presidenti di Senato e Camera che Mattarella deciderà sullo scioglimento delle Assemblee. Ed è impensabile che Pietro Grasso e Laura Boldrini propongano al capo dello Stato di sottoporre in extremis il premier a un avventurosissimo bis di quel che è accaduto il 23 dicembre. Quando si è avuto l’inglorioso affondamento della legge per il crollo del numero legale e la fuga di plotoni di senatori, compresi 29 del Pd, a dispetto del loro proclamato impegno. Uno smacco che ha fatto emergere clamorosamente problemi non solo di aritmetica, ma pure di volontà politica. Dopo il rinvio della scorsa estate, quello è stato per il Colle «un segnale inequivocabile» sulla sorte della legislatura. Peraltro scontato per la stessa forza delle cose: il Paese è da molti mesi coinvolto in una campagna elettorale senza esclusione di colpi e adesso che la partita politica s’infiamma sul serio ben pochi si vogliono intestare una norma così divisiva e politicamente «sensibile», magari perché mal spiegata. In un simile clima, il presidente della Repubblica, che pure tiene alla legge sulla cittadinanza, può mai mandare allo sbaraglio Paolo Gentiloni e vederlo sfiduciato, quando potrà invece servire al Paese solo nella pienezza dei propri poteri? © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/17_dicembre_28/ius-soli-il-quirinale-secondo-6a689e3c-eb46-11e7-aee4-bc31285a7c38.shtml |