Titolo: Piero OSTELLINO. Inserito da: Admin - Settembre 27, 2007, 10:00:24 am D’Alema e le intese bipartisan sulla giustizia
La commedia del dialogo di Piero Ostellino Gli ultimi due presidenti della Repubblica hanno molto insistito affinché fra centrodestra e centrosinistra ci fosse, pur nel fisiologico confronto fra maggioranza e opposizione, anche un dialogo chiaro e, dove possibile, onestamente proficuo. Ma, forse, difficilmente sia Carlo Azeglio Ciampi sia Giorgio Napolitano — i presidenti del bipolarismo senza integralismi di parte, ma anche senza ambigue complicità fra le parti — classificherebbero nei casi di dialogo alla luce del sole i due episodi che hanno caratterizzato recentemente i rapporti fra Casa delle Libertà e Unione. Della stessa idea sono coloro i quali ci vedono un esempio di inciucio, cioè di accordo sotto banco. Primo episodio. Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Clementina Forleo, aveva trasmesso al Parlamento la richiesta di autorizzazione all’uso delle intercettazioni telefoniche relative alla scalata Unipol alla Bnl che vedevano Massimo D’Alema come interlocutore. Ma — già prima dell’«incompetenza a decidere» su D’Alema dichiarata ieri dalla Giunta per le autorizzazioni, che pure ha dato il via libera per Piero Fassino — erano stati addirittura i rappresentanti del centrodestra a sollevare l'eccezione di legittimità della richiesta con una motivazione quanto meno singolare. Poiché, all'epoca, D'Alema era parlamentare europeo, è al Parlamento europeo che andrebbe trasmessa la richiesta. Una decisione che a molti è parsa un tentativo di insabbiare la questione. Tanto che, su Repubblica di martedì scorso, ha scritto Franco Cordero: «Le norme vanno prese sul serio, anche quando nascondono soperchierie truffaldine: D'A. è deputato; tanto basta, l'assemblea deve interloquire sull'uso dei reperti. Irrilevante che fosse euro-parlamentare». Secondo episodio. Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, su indicazione dei suoi ispettori, ma anche con la complice condiscendenza del centrodestra, ha sollevato dal suo incarico e trasferito in altra sede il pubblico ministero di Catanzaro, Luigi De Magistris, le cui indagini sono sembrate avvicinarsi— si è letto— a Romano Prodi e ad altri esponenti del governo. Una decisione, questa, che a molti è parsa contraddittoria rispetto alle posizioni assunte in passato dal centrosinistra e dal centrodestra ai tempi di Tangentopoli. L'uno a difesa dell'indipendenza della magistratura, l'altro ad accusarla di essere al servizio della sinistra. Ora, al di là dello specifico giudizio di merito sui due casi, poiché in politica la percezione che si ha conta spesso più della stessa realtà «effettuale», l'auspicio è che ulteriori e più approfonditi accertamenti facciano maggiore chiarezza, sgombrando il campo dai cattivi pensieri. Che minacciano, anche in questa circostanza, di essere giustificati dalla nota massima andreottiana che pensar male è peccato, ma spesso ci si azzecca. Insomma, l'impressione che entrambi gli episodi altro non siano stati che espedienti, da parte dell'opposizione, per pervenire a un qualche accordo con la maggioranza di governo, per ora, c'è e troppo poco è stato fatto e detto affinché non nascesse. Poco è stato fatto e detto non solo da parte del centrosinistra ma, anche e soprattutto, dal centrodestra cui spetta il compito di vigilare sull'operato del governo. Se non si vuole che eventuali, e a volte persino auspicabili, accordi fra maggioranza e opposizione non siano interpretati come inciuci, sarebbe meglio, allora, che fossero sempre bene argomentati e, soprattutto, trasparenti. Nello stesso interesse delle parti in commedia. Se no, che razza di democrazia dell'alternanza è mai questa? 27 settembre 2007 da corriere.it Titolo: Piero Ostellino L'Italia del pregiudizio Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2008, 11:18:36 pm IL «MANIFESTO DEI VALORI» DEL PD
Un tuffo nel passato di Piero Ostellino La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell'economia di mercato. Il Pd, «un partito aperto », «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze » che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell'individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente » benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili. Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale ». È l'anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale » il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l'Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l'aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe » cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite. «L'individuo, lasciato al suo isolamento— dice a questo punto il Manifesto del Pd— non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall'intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell'etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c'è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata. 11 gennaio 2008 da corriere.it Titolo: Piero Ostellino - La metà di una svolta Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2008, 03:24:30 pm GOVERNO E GIUDICI
La metà di una svolta di Piero Ostellino Fino a poco tempo fa, accusare la magistratura inquirente di «eversione » era stata una cattiva abitudine degli inquisiti del centrodestra. Poi, negli ultimi mesi, con le inchieste Forleo e de Magistris su rappresentanti del centrosinistra, la cattiva abitudine aveva contagiato anche questi ultimi. Ma si era trattato di casi che, pur dividendo il Parlamento fra chi accusava e chi difendeva la magistratura sulla base della collocazione politica dei propri inquisiti di turno, non avevano ancora assunto la natura di un generalizzato conflitto fra potere politico (legislativo e esecutivo) e ordine giudiziario. Con il caso Mastella ad accusare i magistrati è stato addirittura il Guardasigilli, cioè uno dei ministri più importanti del governo (di centrosinistra), inquisito anch’egli, con la moglie e alcuni dirigenti del suo partito. E fin qui, nulla di nuovo sotto il sole. Ma, questa volta, il Parlamento non si è diviso. Ad accogliere con una ovazione le parole di Mastella è stata la grande maggioranza della Camera dei deputati, senza distinzioni fra centrodestra e centrosinistra. Si è trattato solo del riflesso condizionato della Casta che, di fronte al crescente dinamismo della magistratura, ha difeso uno dei propri rappresentanti per difendere se stessa? Ovvero si può parlare di una reale svolta politica destinata a produrre un serio ripensamento dei rapporti fra potere politico e ordine giudiziario? A chiarirlo dovrebbe essere il dibattito che si aprirà in Parlamento dopo il rapporto sullo stato della Giustizia che Prodi farà fra qualche giorno come Guardasigilli ad interim. Ma le premesse non inducono all'ottimismo e qualche interrogativo sembra lecito. Nel rinnovargli la fiducia e invitandolo a ritirare le dimissioni, il presidente del Consiglio ha inteso condividere i severi giudizi del suo ministro della Giustizia sulla magistratura? Sarebbe interessante saperlo. Ma nel suo breve intervento alla Camera, Prodi, auspicando che l'Udeur, il partito di Mastella, non faccia ora mancare il suo sostegno al governo, era parso più preoccupato della propria sopravvivenza a Palazzo Chigi che di dare una risposta all'interrogativo. Prodi— ha detto al riguardo Casini subito dopo — ha rimosso, ha derubricato il caso Mastella «a scopo privato». Del resto, nell'aula di Montecitorio, durante tutto il dibattito, sono aleggiati, a seconda del colore politico degli interventi, più il timore ovvero l'auspicio della caduta di governo che la responsabile consapevolezza della gravità della crisi e il concreto impegno a risolverla. La sindrome che paralizza il sistema politico rischia di affogare nelle chiacchiere anche questa inderogabile esigenza. Eppure, il problema, a questo punto, non è più la durata del governo, ma la stessa sopravvivenza della democrazia. Ciò che ci si aspetta è che il Parlamento faccia finalmente una riforma del sistema giudiziario che ponga definitivamente fine a una situazione ormai giunta a un punto di rottura dopo il fallimento della riforma Mastella, approvata, anche, nell'illusione di compiacere la corporazione dei magistrati. È troppo chiederlo? 18 gennaio 2008 da corriere.it Titolo: Piero Ostellino L'Italia del pregiudizio Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 02:42:04 pm ABORTO E DEMOCRAZIA LIBERALE
Lo scontro tra due diritti di Piero Ostellino Sarebbe difficile non condividere l’opzione morale di Giuliano Ferrara contro l’aborto. Che è sempre un dramma per la donna che vi fa ricorso. Meno facile condividere la sua opzione politica per una lista elettorale sulla «moratoria dell’aborto ». Sotto il profilo etico l’aborto è un omicidio. Quello alla vita è un diritto naturale soggettivo fondamentale. Incommensurabile, non negoziabile. Ma ha poco senso chiedere alla scienza — che per la sua stessa natura è relativista — e tanto meno al diritto, che nello Stato moderno è distinto dalla morale, di risolvere un problema etico. Meno ancora ne ha chiederlo alla politica. Come ha mostrato il mancato raggiungimento del quorum nel referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita, è irragionevole pensare che la natura di Persona o di «cosa» dell’embrione possa essere definita con un voto di maggioranza. D’altra parte, si fa politica non (solo) per sostenere un’opzione morale, bensì (soprattutto) per dare risposte politiche. E qui spunta la contraddizione fra opzione morale e opzione politica. L’aborto, nei Paesi di democrazia liberale, non è, sotto il profilo legale, un omicidio. Anche la libertà, come la vita, è un diritto fondamentale. Incommensurabile, non negoziabile. Così, in quanto riconosciuto e codificato dallo Stato, l’aborto non riguarda solo la sfera della coscienza individuale, ma anche il concreto esercizio di un diritto pubblico, cioè la libertà di scelta della donna. La contraddizione, eticamente insanabile, ma legalmente composta, fra diritto alla vita (del nascituro) e diritto di libertà (della donna), è espressione di quel «pluralismo dei valori» di cui parla Isaiah Berlin. L'esistenza di molteplici fini umani fra loro in conflitto e non riducibili a una specifica concezione del Bene. Il pluralismo dei valori esclude che tutte le questioni morali abbiano una sola risposta corretta, riconducibile a un unico sistema etico. In tale definizione si concreta la differenza fra Chiesa e Stato, fra peccato e reato, cioè il concetto di laicità. Per lo Stato non può valere la convinzione di Sant’Agostino che «la peste dell’anima è la libertà di peccare ». La lista elettorale per la «moratoria dell’aborto » di Giuliano Ferrara —che pur sa ben distinguere fra peccato e reato — rischia di confondere la condanna dell’«aborto di Stato», in Cina, in India, nella Corea del Nord come coercitivo strumento pubblico di controllo collettivo delle nascite, e l’aborto, come legittima scelta individuale della donna, da noi. L’«aborto di Stato» è, eticamente, «omicidio di Stato» e, legalmente, «violenza di Stato» nei confronti della libertà di scelta della donna. Sul piano etico sempre di aborto si tratta. Ma su quello politico fa tutta la differenza fra totalitarismo e individualismo liberale. Nell’averli messi sullo stesso piano sta secondo me, lo dico con stima e con affetto, la difficoltà di Ferrara di comprendere non tanto le ragioni degli abortisti quanto del liberalismo. 22 febbraio 2008 da corriere.it Titolo: Piero Ostellino L'Italia del pregiudizio Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2008, 03:23:57 pm L'Italia del pregiudizio
di Piero Ostellino Ora che i corpi di Salvatore e Francesco Pappalardi sono stati trovati in un pozzo, dove nessuno era andato a cercarli, emerge un volto della nostra giustizia penale a dir poco discutibile. Da un lato, il padre dei due bambini, Filippo Pappalardi, in carcere perché indiziato, sulla base solo di un’intercettazione ambientale e della fragile testimonianza (tardiva) di un bambino, di averli uccisi. Inoltre un' inchiesta che ha cercato Salvatore e Francesco nelle grotte di Matera, nelle campagne delle Murge, persino in Romania, lungo le piste delle sette sataniche e del traffico di organi. Dall'altro, il casuale ritrovamento dei loro corpi in un pozzo nel centro di Gravina, non lontano dalla piazza dove erano stati visti l'ultima volta. Da un lato, dunque, il volto di una giustizia metafisica, che cerca aprioristicamente la verità attraverso la speculazione intellettuale e gli indizi, anche i più inverosimili, costruiti nel laboratorio della mente inquirente. Dall’altra, la scoperta casuale dei corpi dei due bambini morti, ma per fame e per freddo, nella profondità di un pozzo. Quale verosimiglianza logica si può rintracciare nel gesto di un padre presunto assassino che non avrebbe ucciso i suoi figli, ma li avrebbe gettati vivi in un buco, e non nella sperduta campagna, bensì in un luogo dove qualcuno avrebbe potuto ritrovarli prima della loro morte? Ma il procuratore di Bari, Emilio Marzano, ha detto: «L'impianto accusatorio per ora rimane, non abbiamo elementi per ripensarlo». Sotto il profilo formale, l'affermazione è ineccepibile. Sotto quello sostanziale, appare, però, incauta almeno per due ragioni. La prima: il ritrovamento dei due fratelli nel pozzo dove l’altro giorno è caduto il bambino e l'autopsia dei loro corpi aprono interrogativi nuovi che il dottor Marzano aveva evidentemente sbagliato a escludere a priori. La seconda: per ora, la colpevolezza di Filippo Pappalardi è confermata solo dalla sua carcerazione preventiva, direbbe il filosofo dei diritti civili «per mezzo del castigo», e dal carattere ferocemente arcaico della sua figura. Forse non è inutile ricordare che l'esposizione prolungata dell'indiziato all'avvenimento minaccia di distruggerne l'immagine e, probabilmente, già l'ha distrutta. La verità mediatica, in questi casi, rischia di apparire più forte di quella vera e non è attraverso la prima che si può ragionevolmente sperare di pervenire alla seconda. Qui non è in discussione la colpevolezza o l'innocenza del Pappalardi. Sono in discussione un pregiudizio giudiziario e la stretta correlazione fra il sistema giudiziario e quello mediatico che sta diventando tale da rendere sempre più difficile capire dove finisca l'uno e incominci l'altro e viceversa. Scrive Daniel Soulez Larivière: «La magistratura scopre con delizia che accanto alle armi terrificanti che esistono già nel codice di procedura penale esiste anche lo strumento mediatico che lo completa efficacemente» («Il circo mediatico- giudiziario», ed. Liberilibri). Eppure, il rimedio a questa confusione dei ruoli che si è imposta in Italia da quindici anni a questa parte e che nuoce sia alla magistratura sia al giornalismo, ci sarebbe: scindere la fase istruttoria e investigativa, rigorosamente coperta da segreto, da quella giurisdizionale e dibattimentale, aperta invece al pubblico. 28 febbraio 2008 da corriere.it Titolo: Piero Ostellino. L'invadenza delle Leggi Inserito da: Admin - Marzo 14, 2008, 05:41:20 pm CITTADINI, POLITICA E STATO
L'invadenza delle Leggi di Piero Ostellino Le parole d'ordine del Pdl e del Pd si assomigliano perché frutto dei sondaggi. Si interroga la «gente »; poi i partiti adottano i temi più gettonati. E' il trionfo del marketing sulla politica. Pdl e Pd non sottopongono alla «gente» il problema del potere pubblico e dei suoi limiti perché non è un prodotto elettoralmente «commerciabile ». Ma, così, perdono di vista la differenza fra la società aperta e una chiusa. Lo Stato non c'è dove dovrebbe esserci — garantire sicurezza, legalità, giustizia, istruzione — e c'è dove non deve, producendo illegalità, divieti, vincoli, sanzioni illegittime. Assegnare allo Stato una finalità etica (per esempio la giustizia sociale) accresce il potere della classe politica. Lo Stato liberale non è produttore di un'«etica pubblica», bensì di un quadro giuridico entro il quale gli individui sviluppano le loro potenzialità. L'economia di mercato dev'essere regolata dalla politica, ma non può essere piegata a un obiettivo «esterno» ai processi che ne presiedono la produzione di ricchezza. Che è neutrale. L'interventismo pubblico nell'economia di mercato è come l'intrusione della polizia nelle libertà politiche dei cittadini. Da noi la legislazione non fissa solo norme di condotta. Vuole modellare l'Uomo. Ma l'enorme produzione di leggi vanifica la certezza del diritto e paralizza la società. Pdl e Pd non capiscono che, per modernizzare il Paese, è vitale una radicale «semplificazione legislativa » che riduca la pletora di leggi vigenti. Il tema non era nei sondaggi. E infatti il 5 marzo è entrata in vigore la legge 188/2007 che stabilisce quanto segue. 1) Il lavoratore che vuole dimettersi deve recarsi presso un soggetto intermedio: il Comune e simili. 2) Il soggetto intermedio si collega al Sistema Informativo Mdv del Ministero del Lavoro e inserisce i dati relativi alla dimissione. 3) Il Sistema rilascia il Documento delle Dimissioni Volontarie con un codice univoco e una data di rilascio (validità 15 gg.). 4) Il soggetto intermedio consegna al lavoratore il Documento emesso, vidimato. 5) Il lavoratore consegna il Documento al datore di lavoro. 6) Le dimissioni non sono valide se formulate in altra forma. E' un esempio di mentalità totalitaria: regolamentare tutto affinché tutto sia proibito tranne ciò che è espressamente consentito. La ratio, evitare che i datori di lavoro facciano firmare una lettera in bianco di dimissioni all'atto dell'assunzione. L'infrazione non è solo punita, come già accade; è anche resa impossibile. Parafrasando S. Agostino: la peste dello Stato (totalitario) è la possibilità di infrazione. Per il pensiero totalitario è il settore pubblico che produce «beni pubblici». Esso non distingue fra «servizio pubblico » — prestato dalla Pubblica amministrazione — e «beni pubblici», che rispondono al consumatore; li confonde, li assimila e, per fornire l'uno e produrre gli altri, aumenta le tasse. Ma in una società aperta non c'è distinzione fra settore pubblico e privato nella produzione di «beni pubblici». Che possono essere prodotti dall'uno o dall'altro. Se ai privati non conviene aprire una farmacia in un paesino, non si vede perché non lo debba fare il Comune. Diverso è il caso della struttura «privatistica », controllata dal Comune, che gestisce i cinema di Bologna. Il primo caso è società aperta; l'altro neo-comunismo municipale. 14 marzo 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:32:39 pm MAGGIORANZA E OPPOSIZIONE
Segnali di novità di Piero Ostellino «Apprezziamo l'eccell e n z a quanto la correttezza, l'indipendenza quanto il cameratismo ». Il motto del preambolo della Costituzione australiana sembra adattarsi bene a due giudizi sul governo Berlusconi pubblicati ieri dal Corriere. Del giudizio di Franco Debenedetti si potrebbe dire che esso rappresenta la felice fusione fra un certo apprezzamento per l'eccellenza della compagine governativa, e in particolare di alcuni dei suoi ministri, e la correttezza dell'uomo che non si lascia condizionare dalla propria appartenenza culturale e politica alla sinistra liberale. A sua volta, del giudizio di Adriana Poli Bortone si potrebbe dire che l'indipendenza che traspare dalla sua serena critica alla struttura del governo, e al fatto di esserne stata esclusa, non mette in discussione il cameratismo nei confronti del centrodestra al quale appartiene. Insomma, due buoni esempi del clima che vorremmo si instaurasse, pur nel confronto a volte anche inevitabilmente aspro, fra maggioranza e opposizione e, all'interno della maggioranza, fra le anime che ancora la popolano, di fronte alle «cose da fare». Correttezza di giudizio nel rapporto dialettico fra le parti contrapposte, da un lato; indipendenza di giudizio e, al tempo stesso, lealtà di comportamenti, all'interno della parte governativa, dall'altro. E' pretendere troppo? Debenedetti segnala, fra le «eccellenze» del governo, Roberto Maroni (Interni), Renato Brunetta (Innovazione), Franco Frattini (Esteri), Claudio Scajola (Sviluppo economico), Giulio Tremonti (Economia) ma soprattutto Maurizio Sacconi (Welfare). Personalmente, mi riservo il giudizio su ciò che, in concreto, faranno il governo e i suoi ministri, forte del proverbio inglese che per sapere com'è il budino bisogna mangiarlo. Un'eccezione credo, però, la si possa fare sulle prospettive che apre la presenza di Sacconi al Welfare, che, secondo Debenedetti, è «la migliore scelta che Berlusconi potesse fare». Poiché sarebbe piaciuto al presidente del Consiglio avere nel proprio governo Pietro Ichino — che, con Sacconi, è l'interprete più coerente del pensiero di Marco Biagi — non sembra, dunque, azzardato prevedere, e sperare, che sul tema delicato dello Stato sociale nasca un'utile cooperazione fra maggioranza e opposizione. Adriana Poli Bortone dice che «è un governo espressione dei partiti». E' un giudizio che condivido. Temo il corporativismo dei partiti. Nel programma c'è tanta Economia (eliminazione dell’Ici sulla prima casa, detassazione degli straordinari, sussidi a famiglie e giovani) e poca Politica (Stato di diritto, deregolamentazione, liberalizzazioni). E' lo spettro del populismo. Che non è la ricetta per portare l'Italia nella Modernità. Anzi. La Politica al comando, dice Tremonti, l'uomo di punta del governo. Dica che cosa intende, in concreto, per la Politica al comando e si comporti di conseguenza. Noi, di conseguenza, lo giudicheremo. Senza pregiudizi ma anche senza indulgenze. postellino@corriere.it 09 maggio 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La bella protesta Inserito da: Admin - Giugno 04, 2008, 05:23:58 pm La bella protesta
di Piero Ostellino In questa Italia, sempre pronta a manifestare contro le democrazie americana e israeliana, a bruciare le loro bandiere e a tirar sassi contro le loro ambasciate, è una notizia, davvero una buona notizia, che ci sia chi si è mobilitato per protestare pacificamente contro le violazioni dei diritti umani in Iran, le deliranti affermazioni del suo presidente, Mahmoud Ahmadinejad — «Israele sarà presto cancellato dalle carte geografiche» — e i suoi programmi nucleari. In questa Roma ancora turbata dalle ultime vicende della sua maggiore università— dove il corpo accademico, in nome dell’antifascismo (?), ha espresso la sua solidarietà al preside della Facoltà di Lettere sequestrato dai collettivi studenteschi di sinistra—ciò che, infatti, resterà della visita del presidente iraniano in occasione del vertice della Fao (l’Agenzia dell’Onu per l’agricoltura e l’alimentazione), sarà la manifestazione di ieri sera organizzata dal Riformista e dalla comunità ebraica. Non ha tutti i torti, allora, la stampa iraniana che se la prende anche con il direttore del Riformista, Antonio Polito, per il clamoroso insuccesso della visita di Ahmadinejad, che né papa Benedetto XVI né il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, né quello del Consiglio, Silvio Berlusconi, hanno ricevuto. Questa è la forza dell’informazione indipendente e della libera opinione pubblica in un Paese di democrazia liberale. Si è trattato di un evento nell’evento che ha fatto onore al nostro Paese. Ma la singolare eccezionalità dei due eventi romani e della loro concomitanza — la riunione della Fao e le manifestazioni di ieri presso il Campidoglio e a pochi metri dalla sede della stessa Fao — non si arresta qui. Va oltre. La presenza a Roma, oltre che di Ahmadinejad, del dittatore dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ha coinciso, infatti, con la presa di posizione delle Nazioni Unite contro il decreto del nostro governo che sancisce, ameno di ripensamenti preannunciati dallo stesso nostro presidente del Consiglio, il reato di immigrazione clandestina. Ha detto l’alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Louise Arbour: «Le politiche repressive e gli atteggiamenti xenofobi sono una seria preoccupazione. Ne sono esempi la decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale e gli attacchi ai rom». Ora, che a una riunione sull’Alimentazione abbia partecipato Robert Mugabe — un despota che affama il suo popolo — sarebbe già un curioso paradosso. Che, poi, l’alto commissario dell’Onu abbia accusato l’Italia di razzismo, mentre l’antisemita Ahmadinejad partecipava anch’egli alla riunione, indetta dalla stessa agenzia dell’Onu, è qualcosa di più di un paradosso. E’— quale che sia il giudizio sull’operato del governo Berlusconi in tema di immigrazione — un tragico esempio di quel «mondo alla rovescia» che sono ormai diventate da tempo le Nazioni Unite. Un dato di fatto sul quale la nostra diplomazia dovrebbe, forse, riflettere. 04 giugno 2008 da corriere.it Titolo: Piero Ostellino. I tanti innocenti nella rete Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 12:21:49 pm INTERCETTAZIONI / 1
I tanti innocenti nella rete di Piero Ostellino Ieri i pm di Milano hanno detto che le intercettazioni sono state determinanti per fare luce sui reati commessi nella sanità. Però nel 2007 gli «intercettati» sono stati oltre 123 mila, dei quali 112.623 nel corso di conversazioni telefoniche e 10.492 attraverso controlli ambientali (microspie e altre apparecchiature elettroniche). Ora, i casi sono due. O siamo uno dei Paesi al mondo a più alto tasso di criminalità. E, allora, la massa degli intercettati è giustificata. O c'è qualcosa che non va nel sistema delle intercettazioni: dalla decisione di farvi ricorso al loro uso in sede giudiziale e alla loro divulgazione tramite il circuito mediatico- giudiziario. Così, finiscono nel tritacarne molti «attori non protagonisti », i quali subiscono gli «effetti collaterali» — non previsti e, quel che è peggio, dei quali non è sufficientemente valutata la gravità per chi ne è vittima— che le indagini sulle attività oggetto dell'intercettazione hanno sulla vita di chi non ha nulla a che farci. La nostra storia giudiziaria ne è piena. Il fatto stesso che gli intercettati attraverso le utenze telefoniche siano stati la stragrande maggioranza sembra avvalorare il sospetto che gli «attori non protagonisti» non siano poi tanto pochi. È, dunque, soprattutto di questi ultimi che ci si dovrebbe preoccupare, prima ancora di stabilire a quali altre attività criminose—oltre il terrorismo e la malavita organizzata previsti dal governo — si debbano estendere i controlli. Nel definire e programmare l'attività contro il crimine— anche attraverso le intercettazioni, che sono, di fatto, una violazione della privacy —la classe politica si dovrebbe preoccupare, innanzi tutto, della salvaguardia di chi, innocente, potrebbe finire ugualmente, e del tutto fortuitamente, nella rete delle intercettazioni. Il limite alle intercettazioni non può che consistere nella tutela delle libertà del cittadino. Nello Stato di democrazia liberale prevale sempre il principio che sono preferibili dieci colpevoli in libertà a un solo innocente coinvolto nel sistema di prevenzione e repressione del crimine. Immagino le reazioni dei moralisti. Con la scusa di tutelare gli innocenti, qui, si vuole salvare i colpevoli. Ma è stata proprio la prevalenza delle tentazioni moraleggianti sui giudizi di realtà che ha generato spesso l’affermazione della massima ingiustizia nei confronti degli innocenti sulla realizzazione della giustizia possibile nei confronti dei colpevoli. Non è un caso, del resto, che il moralismo —come degenerazione del giudizio morale, come carenza di «forza del giudizio», come ripudio del diritto comune—giochi un ruolo maggiore nei sistemi totalitari che nei sistemi di democrazia liberale. Nel legiferare sulle intercettazioni, il legislatore dovrebbe, dunque, fare appello soprattutto al «senso comune». Che non è il buonsenso —il quale è ideologico— ma sono quelle tradizioni storiche, empiriche, patrimonio morale della vita di ogni comunità civile, senza le quali le migliori intenzioni razionalizzatrici finiscono col negare se stesse. 10 giugno 2008 da corriere.it ---------------------- INTERCETTAZIONI / 2 Leggende spacciate per verità di Luigi Ferrarella Una sfilza di luoghi comuni, spacciati per verità, compromette la serietà della discussione sull’annunciato intervento legislativo sulle intercettazioni. Che siano «il 33% delle spese per la giustizia», come qualcuno ha cominciato a dire e tutti ripetono poi a pappagallo, è un colossale abbaglio: per il 2007 lo Stato ha messo a bilancio della giustizia 7 miliardi e 700 milioni di euro, mentre per le intercettazioni si sono spesi non certo 2 miliardi abbondanti, ma 224 milioni. Però è una leggenda ben alimentata. Si lascia credere il falso giocando sull’ambiguità del vero, cioè sul fatto che le intercettazioni pesano davvero per un terzo su un sottocapitolo del bilancio della giustizia: quello che sotto il nome di «spese di giustizia» ricomprende anche i compensi a periti e interpreti, le indennità ai giudici di pace e onorari, il gratuito patrocinio, le trasferte della polizia giudiziaria. Spese peraltro tecnicamente «ripetibili», cioè che lo Stato dovrebbe farsi rimborsare dai condannati a fine processo: ma riesce a farlo solo fra il 3 e il 7%, eppure su questa Caporetto della riscossione non pare si annuncino leggi-lampo. «Siamo tutti intercettati» è altra leggenda che, alimentata da una bizzarra aritmetica «empirica», galleggia anch’essa su un’illusione statistica. Il numero dei decreti con i quali i gip autorizzano le intercettazioni chieste dai pm non equivale al numero delle persone sottoposte a intercettazione. Le proroghe dei decreti autorizzativi sono infatti a tempo (15 o 20 giorni) e vanno periodicamente rinnovate; inoltre un decreto non vale per una persona ma per una utenza. Dunque il numero di autorizzazioni risente anche del numero di apparecchi o di schede usati dal medesimo indagato (come è norma tra i delinquenti). «Le intercettazioni sono uno spreco» è vero ma falso, nel senso che è vero ma per due motivi del tutto diversi da quello propagandato. Costano troppo non perché se ne facciano troppe rispetto ad altri Paesi, dove l’apparente minor numero di intercettazioni disposte dalla magistratura convive con il fatto che lì le intercettazioni legali possono essere disposte (in un numero che resta sconosciuto) anche da 007, forze dell’ordine e persino autorità amministrative (come quelle di Borsa). Invece le intercettazioni in Italia costano davvero troppo (quasi 1 miliardo e 600 milioni dal 2001) perché lo Stato affitta presso società private le apparecchiature usate dalle polizie; e in questo noleggio è per anni esistito un Far West delle tariffe, con il medesimo tipo di utenza intercettata che in un ufficio giudiziario poteva costare «1» e in un altro arrivava a costare «18». Non a caso Procure come la piccola Bolzano (costi dimezzati in un anno a parità di intercettazioni) o la grande Roma (meno 50% di spese nel 2005 rispetto al 2003 a fronte di un meno 15% di intercettazioni) mostrano che risparmiare si può. E già il ddl Mastella puntava a spostare i contratti con le società private dal singolo ufficio giudiziario al distretto di Corte d’Appello (26 in Italia). L’altra ragione del boom di spese è che, ogni volta che lo Stato acquisisce un tabulato telefonico, paga 26 euro alla compagnia telefonica; e deve versare al gestore circa 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per un cellulare, 12 al giorno per un satellitare. Qui, però, stranamente nessuno guarda all’estero, dove quasi tutti gli Stati o pagano a forfait le compagnie telefoniche, o addirittura le vincolano a praticare tariffe agevolate nell’ambito del rilascio della concessione pubblica. «Proteggere la privacy dei terzi», nonché quella stessa degli indagati su fatti extra-inchiesta, non è argomento (anche quando sia agitato pretestuosamente) che possa essere liquidato con un’arrogante alzata di spalle. Ma è obiettivo praticabile rendendo obbligatoria l’udienza-stralcio nella quale accusa e difesa selezionano le intercettazioni rilevanti per il procedimento, mentre le altre vengono distrutte o conservate a tempo in un archivio riservato. E qui proprio i giornalisti dovrebbero, nel contempo, pretendere qualcosa di più (l’accesso diretto a quelle non più coperte da segreto e depositate alle parti) e accettare qualcosa di meno (lo stop di fronte alle altre). Prima di dire poi che «le intercettazioni sono inutili»andrebbe bilanciato il loro costo con i risultati processuali propiziati. Ed è ben curioso che, proprio chi ha imperniato la campagna elettorale sulla promessa di «sicurezza» per i cittadini, preveda adesso di eliminare questo strumento che, per fare un esempio che non riguarda la corruzione dei politici, ha consentito la condanna di alcune delle più pericolose bande di rapinatori in villa nel Nord Italia, e ancora ieri ha svelato a Milano il destino di pazienti morti in ospedale perché inutilmente operati solo per spillare rimborsi allo Stato. Senza contare (c’è sempre del buffo nelle cose serie) che proprio Berlusconi ben dovrebbe ricordare come un anno fa siano state le intercettazioni, che ora vorrebbe solo per mafia e terrorismo, a «salvare» in extremis da un sequestro di persona il socio di suo fratello Paolo. Ma il dato più ignorato, rispetto al ritornello per cui «le intercettazioni costano troppo», è che sempre più si ripagano. Fino al clamoroso caso di una di quelle più criticate per il massiccio ricorso a intercettazioni, l’inchiesta Antonveneta sui «furbetti del quartierino». Costo dell’indagine: 8 milioni di euro. Soldi recuperati in risarcimenti versati da 64 indagati per poter patteggiare: 340 milioni, alcune decine dei quali messi a bilancio dello Stato per nuovi asili. Il resto, basta a pagare le intercettazioni di tutto l’anno in tutta Italia. 10 giugno 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La bella protesta Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:29:24 pm La bella protesta
di Piero Ostellino In questa Italia, sempre pronta a manifestare contro le democrazie americana e israeliana, a bruciare le loro bandiere e a tirar sassi contro le loro ambasciate, è una notizia, davvero una buona notizia, che ci sia chi si è mobilitato per protestare pacificamente contro le violazioni dei diritti umani in Iran, le deliranti affermazioni del suo presidente, Mahmoud Ahmadinejad — «Israele sarà presto cancellato dalle carte geografiche» — e i suoi programmi nucleari. In questa Roma ancora turbata dalle ultime vicende della sua maggiore università— dove il corpo accademico, in nome dell’antifascismo (?), ha espresso la sua solidarietà al preside della Facoltà di Lettere sequestrato dai collettivi studenteschi di sinistra—ciò che, infatti, resterà della visita del presidente iraniano in occasione del vertice della Fao (l’Agenzia dell’Onu per l’agricoltura e l’alimentazione), sarà la manifestazione di ieri sera organizzata dal Riformista e dalla comunità ebraica. Non ha tutti i torti, allora, la stampa iraniana che se la prende anche con il direttore del Riformista, Antonio Polito, per il clamoroso insuccesso della visita di Ahmadinejad, che né papa Benedetto XVI né il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, né quello del Consiglio, Silvio Berlusconi, hanno ricevuto. Questa è la forza dell’informazione indipendente e della libera opinione pubblica in un Paese di democrazia liberale. Si è trattato di un evento nell’evento che ha fatto onore al nostro Paese. Ma la singolare eccezionalità dei due eventi romani e della loro concomitanza — la riunione della Fao e le manifestazioni di ieri presso il Campidoglio e a pochi metri dalla sede della stessa Fao — non si arresta qui. Va oltre. La presenza a Roma, oltre che di Ahmadinejad, del dittatore dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ha coinciso, infatti, con la presa di posizione delle Nazioni Unite contro il decreto del nostro governo che sancisce, ameno di ripensamenti preannunciati dallo stesso nostro presidente del Consiglio, il reato di immigrazione clandestina. Ha detto l’alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Louise Arbour: «Le politiche repressive e gli atteggiamenti xenofobi sono una seria preoccupazione. Ne sono esempi la decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale e gli attacchi ai rom». Ora, che a una riunione sull’Alimentazione abbia partecipato Robert Mugabe — un despota che affama il suo popolo — sarebbe già un curioso paradosso. Che, poi, l’alto commissario dell’Onu abbia accusato l’Italia di razzismo, mentre l’antisemita Ahmadinejad partecipava anch’egli alla riunione, indetta dalla stessa agenzia dell’Onu, è qualcosa di più di un paradosso. E’— quale che sia il giudizio sull’operato del governo Berlusconi in tema di immigrazione — un tragico esempio di quel «mondo alla rovescia» che sono ormai diventate da tempo le Nazioni Unite. Un dato di fatto sul quale la nostra diplomazia dovrebbe, forse, riflettere. 04 giugno 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. L'opposizione responsabile Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:43:02 pm PD E GOVERNO
L'opposizione responsabile di Piero Ostellino In un Paese «normale », l'opposizione esercita in Parlamento la propria funzione, anche la più dura, ogni qual volta il governo presenta un provvedimento che essa ritiene inaccettabile. Ma evita di tradurre un singolo episodio parlamentare in una «teoria generale del crimine», e di sostenerla davanti al Paese, per dimostrare che con un governo criminale è impossibile instaurare un rapporto fisiologico. La distinzione è sottile, ma fa tutta la differenza fra un'opposizione che si candida a forza di governo — evitando di criminalizzare l'avversario e di tagliarsi alle spalle tutti i ponti di una possibile collaborazione per le riforme — e una che si connota come forza di pura agitazione. È anche la differenza fra una opposizione riformista e una con pulsioni rivoluzionarie. Ma, in democrazia, una forza rivoluzionaria o fa coerentemente la rivoluzione, e caccia con la forza l'«usurpatore», o perde credibilità e, con essa, le elezioni. La distinzione — fra opposizione parlamentare e di agitazione — e la differenza fra riformismo come forza di governo e rivoluzionarismo verbale, Walter Veltroni ha avuto il merito di averle capite perfettamente. Se la Sinistra fosse rimasta prigioniera del rivoluzionarismo verbale, non solo avrebbe perso le imminenti elezioni, ma non le avrebbe mai vinte neppure in futuro. In campagna elettorale — attribuendo al Partito democratico una vocazione maggioritaria, di governo riformista — si era, così, liberato delle scorie oltranziste che avevano paralizzato il governo Prodi. Aveva fatto un investimento per il futuro. In Parlamento, poi, aveva teorizzato la necessità di associare a una convergenza su temi condivisibili una opposizione dura su quelli non condivisi. Ora, la decisione del governo di presentare l'emendamento che rinvia i processi minori — compreso quello che vede Berlusconi-capo del governo sul banco degli imputati come Berlusconi- padrone di Mediaset nel «caso Mills» — e di riproporre il «lodo Schifani », che mette le cariche istituzionali al riparo dalle incursioni della magistratura per tutto il tempo del loro mandato, minaccia di far naufragare le buone intenzioni di Veltroni. Rispunta a sinistra lo stereotipo del Cavaliere- incarnazione-del Male. Il Pd dichiara addirittura «chiuso» il dialogo con il governo e rischia, ricorrendo all'agitazione nel Paese, di (ri)precipitare nel rivoluzionarismo verbale e, come si suole dire, di farsi male da solo. Non dico, con ciò, che Veltroni dovrebbe correre in soccorso del capo del governo. Ci mancherebbe. L'opposizione inviti, piuttosto, Berlusconi ad assumersi la personale responsabilità delle misure in questione; a spiegare agli italiani ciò che egli intende per distinzione fra «responsabilità politica » — di fronte al mandato che gli è stato conferito dalla sovranità popolare di realizzare il suo programma — e «responsabilità giuridica», cui dovrebbe impegnarsi a non sottrarsi una volta assolto il mandato. Dimostrerebbe, finalmente, e una volta per tutte, di non voler sconfiggere il centrodestra «per via giudiziaria», ma con gli argomenti della politica. 18 giugno 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Politica e magistratura. Squilibrio di poteri Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:43:40 am Politica e magistratura
Squilibrio di poteri di Piero Ostellino In un’intervista pubblicata ieri dal Corriere, l’ex magistrato ed esponente del Partito democratico, Luciano Violante, mette il dito in una delle piaghe del nostro ordinamento: «In Italia, l’azione penale è obbligatoria solo formalmente ma, in realtà, è lasciata alla discrezionalità dei singoli magistrati». Detto con altre parole: i magistrati perseguono selettivamente chi vogliono, secondo criteri soggettivi che rischiano di tracimare nell’arbitrio. Prosegue, infatti, Violante: «E’ giusto, quindi, affrontare il problema della priorità nella trattazione dei processi, ma il potere politico non può sospendere i processi in corso». Detto con altre parole: una legge che regoli il flusso dei reati da rinviare a giudizio è necessaria. Ma un clamoroso esempio di «distorsione da discrezionalità » lo offre, quasi contemporaneamente alle parole di Violante, L’Espresso oggi in edicola, che pubblica le intercettazioni di alcune delle ben novemila (9000!) telefonate depositate nell’inchiesta napoletana. In realtà, i Pm napoletani non le hanno depositate tutte perché le hanno ritenute non rilevanti e successivamente destinate, scrive il settimanale, alla distruzione, ma molte sono finite nella disponibilità dei giornalisti. I quali, pur pubblicandole — un giornale non deve preoccuparsi se sia giusto o no pubblicare un documento giudiziario che gli è pervenuto, purché la legge sia rispettata—correttamente mette in luce il carattere anomalo della situazione. L’intervento di Violante sul Corriere e la cronaca di una sfuriata ai magistrati del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Nicola Mancino, pubblicata dalla Stampa — «Parlate troppo con i giornalisti. Volete sempre apparire» — si inquadrano nel dibattito in corso sui recenti provvedimenti sulla Giustizia in merito al quale è, forse, utile fare qualche distinzione. I problemi giudiziari di Silvio Berlusconi-padrone- di-Mediaset riguardano lui solo e stanno tutti negli atti processuali. I rapporti fra il capo del governo- chiunque-egli-sia e l’ordine giudiziario riguardano lo Stato. Sono una questione istituzionale della quale si deve occupare la politica. Ha sbagliato, dunque, Berlusconi ad andare a parlare dei suoi problemi personali all’assemblea della Confesercenti. Fa tutta la differenza fra un imputato, preoccupato della propria sorte, e uno statista, sensibile al corretto funzionamento dello Stato. Sbaglia anche Antonio Di Pietro, ignorando i rapporti fra esecutivo e giudiziario per concentrarsi unicamente sui problemi personali di Silvio Berlusconi. Fa tutta la differenza fra un uomo politico, attento agli interessi del Paese, e un poliziotto sensibile al tintinnare delle manette. Dei rapporti fra esecutivo e ordine giudiziario si sta occupando, invece, con equilibrio e saggezza, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ne parlano, sia pure con toni diversi, ma con non minore equilibrio istituzionale, sia Violante, sia Mancino. Quest’ultimo mette il dito nella piaga di un’altra anomalia del nostro ordinamento. E’ stata depositata da due consiglieri una bozza di parere che è già in discussione nella Sesta commissione e che il Csm dovrebbe discutere pubblicamente e votare la settimana prossima. Parla di «incostituzionalità» del decreto governativo sulla sospensione dei processi. Ora, non si capisce chi dia il diritto al Csm di dire che una norma emanata dal Parlamento è incostituzionale. Non c’è un solo articolo della Costituzione che attribuisca al Csm un preventivo controllo di costituzionalità sugli atti parlamentari; controllo che, se mai, spetta al presidente della Repubblica con veto sospensivo, comunque superabile da un voto parlamentare a maggioranza semplice. Così, Mancino sbotta: «Capisco che si scriva di una norma che è inappropriata. O irragionevole. Ma che c’entra la Costituzione?». Aggiunge Violante nell’intervista citata: «...non è scandaloso che ci siano forme di garanzia temporanea per alcune cariche istituzionali». A certe condizioni, tutte da discutere. Aveva scritto il Financial Times qualche giorno fa: «Spagna, Francia, Germania e altri Stati hanno una qualche forma di immunità (...) Lo scopo dell’immunità non è quello di consentire agli eletti mano libera. Bensì quello di proteggere il diritto degli elettori di farsi governare da coloro che hanno democraticamente scelto. Le accuse a Berlusconi derivano da un sincero desiderio di giustizia o dal tentativo di una parte dell’elite italiana di capovolgere una scelta elettorale che non accetta?». Questo — al di là dei personali problemi giudiziari di Berlusconi—è parlare di rapporti fra potere esecutivo e ordine giudiziario. E’ politica. «Il resto — come dice Violante, riferendosi a Di Pietro—è demagogia» 27 giugno 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La solitudine dei socialisti Inserito da: Admin - Luglio 16, 2008, 10:07:51 pm La solitudine dei socialisti
di Piero Ostellino Stalin non voleva «nemici a sinistra». Così, aveva cambiato l'invocazione di Karl Marx — «Proletari di tutto il mondo unitevi» — nell'imperativo «Comunisti di tutto il mondo uniti» (sotto la bandiera imperiale dell'Unione Sovietica). Era la dura logica del «socialismo in un solo Paese». Dissoltasi la «grande menzogna», i superstiti del comunismo italiano non sopportano «concorrenti a destra». È la sottile logica del «riformismo in un solo partito». La Terza Internazionale comunista era nata in una prospettiva totalitaria. Chi ne stava fuori era un «rinnegato» (Lenin su Kautsky) o «fascista» (il Cremlino sui socialdemocratici tedeschi). Il Partito democratico invece è nato nella prospettiva pluralista di un'alternanza al potere fra forze democratiche. Chi ne sta fuori non è un eretico della stessa famiglia socialista, anzi; se mai, è solo scomodo perché testimone del fallimento della sola, grande eresia, quella comunista, consumatasi con la scissione di Livorno del 1921. Palmiro Togliatti si era adeguato al principio «nessun nemico a sinistra» — al punto di avallare l'assassinio di Trotzky e firmare la condanna a morte, l'uno e l'altra decretati da Stalin, dei dirigenti del Pc polacco — e all'imperativo «Comunisti di tutto i mondo uniti», tanto da esserne il mefistofelico interprete nel proprio Paese fino all'ultimo giorno di vita, in una clinica sovietica. Antonio Gramsci, che, invece, ne diffidava, sarebbe morto in una prigione fascista, ignorato dallo stesso Togliatti e dimenticato dal Pci di cui era stato uno dei fondatori. Il Pd — che del partito togliattiano non ha né la lucida visione strategica né la perfida intelligenza politica — incarna la logica del «riformismo in un solo partito » da par suo; non fa nulla per rinsaldare i rapporti con il concorrente socialista, cui ha preferito l'alleanza elettorale con il giustizialista Di Pietro, sperando, piuttosto, che, prima o poi, «con calma e serenità», tiri le cuoia. Da Tangentopoli all'arresto di Ottaviano Del Turco, le vicende che hanno visto intrecciarsi le fortune degli ex comunisti del Pci e le disavventure dei socialisti del Psi sono intessute di questo singolare parallelismo. Da qui il senso di estraneità emerso in questi giorni nei confronti di un rappresentante autorevole del mondo socialista che qualcuno nel Pd abruzzese ha lamentato addirittura sia stato catapultato da Fassino. Da qui la tiepida reazione del Pd all'offensiva giudiziaria nei confronti di Del Turco, testimoniata anche dall'intervista di Luciano Violante pubblicata oggi su questo giornale. Fra la dura monocrazia del Pci di Togliatti e l'ascetico moralismo di Berlinguer, entrambi ostili al «nemico di sinistra», ma in eguale misura antisocialisti, da una parte, e il morbido e ambiguo riformismo dei loro successori nel Pds, nei Ds e, ora, nel Pd, che si sono rassegnati ad avere «nemici a sinistra», ma sono rimasti antisocialisti, dall'altra. Una specie di sorda continuità antisocialista, nella dichiarata discontinuità riformista, che consente al postcomunismo di sottrarsi a una scelta culturale, politica e, perché no, elettorale, nella speranza che siano le vicende giudiziarie «di alcuni socialisti» a risolvere la competizione col socialismo a proprio favore dopo che a sconfiggere il comunismo è stata la storia. 16 luglio 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La Russia che fa paura Inserito da: Admin - Agosto 22, 2008, 10:48:13 pm GLI EUROPEI E PUTIN
La Russia che fa paura di Piero Ostellino Forse, siamo alla vigilia di una «nuova guerra fredda». E gli europei rischiano di fare il vaso di coccio fra i due vasi di ferro, americano e russo. Che gli americani abbiano qualche difficoltà a capire i russi è comprensibile. Gli Stati Uniti sono una potenza insulare, protetta dal mare. La Russia è una potenza continentale, esposta storicamente a invasioni ai suoi confini che hanno generato nella popolazione un senso di insicurezza. La differenza di concezioni strategiche fra Usa e Russia è che gli americani danno preminenza alle considerazioni militari nella loro politica mondiale; i russi danno preminenza alle questioni di frontiera nella loro politica periferica. I russi tendono a estendere i propri confini e a dotarsi di «zone di influenza» limitrofe; ieri, ai tempi dell'Urss, con la giustificazione dell'espansione del comunismo; oggi con l'influenza economica. Gli americani, in nome di una concezione universalistica del proprio ruolo, tendono a «contenere» la propensione espansionistica della Russia con la creazione di un equilibrio militare lungo i suoi confini. Ma è dai tempi della Guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta che ogni misura «difensiva» presa dall'una delle due potenze in competizione, nel timore di un'aggressione da parte dell'altra, convince la controparte della natura «aggressiva » della rivale. E così via. Che gli europei abbiano qualche difficoltà a capire i russi non è, invece, comprensibile. L'Europa è una potenza continentale esposta quanto la Russia alle invasioni. Per gli europei valgono, oggi, di fronte alla Russia, le parole di Robert Schuman durante il dibattito all'Assemblea nazionale francese per la ratifica del Trattato della Nato (25 luglio 1949): «La sensazione di insicurezza non è sempre effetto di una minaccia già precisa, di un'aggressione visibilmente preparata. Il solo squilibrio delle forze a favore del più forte, non compensato da serie garanzie internazionali a vantaggio del più debole, è sufficiente a creare uno stato di insicurezza». Il pericolo di un'aggressione militare russa all'Europa non c'è. Ma ciò non esclude che ci sia quello che l'Europa diventi una «zona di influenza», politica ed economica, della Russia a causa della propria dipendenza energetica. La «nuova guerra fredda» è alimentata dagli interessi contrastanti di potenza di Usa e Russia. Poiché l'Europa è dipendente sia dalla potenza militare americana sia da quella energetica russa, agli europei non resta, allora, che spiegare agli Usa che il contenimento militare della Russia è impraticabile e alla Russia che neppure la creazione di una propria zona di influenza fino all'Atlantico, o la riesumazione dell'ex impero sovietico, sono praticabili. Dovrebbe convincere entrambi che: 1) l'Occidente è disposto a riconoscere le ragioni di sicurezza della Russia entro i confini della vecchia Urss; 2) non lo è a consentirle annessioni di sorta, neppure entro quegli stessi confini. Ma l'Europa ha la coesione politica sufficiente per recitare un credibile ruolo diplomatico fra l'orso russo e l'aquila americana? 22 agosto 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La sindrome di Mosca Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 03:51:45 pm IL REGIME DI PUTIN
La sindrome di Mosca di Piero Ostellino Governi, media, opinione pubblica occidentali rischiano di commettere, oggi, lo stesso errore che la migliore sovietologia americana aveva rimproverato, agli albori della guerra fredda, alla politica di Washington: ritenere che le tentazioni espansionistiche della Russia siano attribuibili alla natura non democratica e illiberale dei suoi governi. Nell' immediato dopoguerra, sarebbe stato saggio tenere separati l'analisi del comunismo— come filosofia della storia che si proponeva di cambiare il mondo— da quella della politica estera sovietica, che si preoccupava di difendere gli interessi nazionali dell'Urss. Oggi, sarebbe altrettanto saggio capire che il regime non democratico e illiberale della Russia di Putin è una cosa—un sistema capitalistico senza regole, nato senza la formalizzazione di un sistema legale (costituzionale) — e il suo dinamismo internazionale è un'altra, la conseguenza della sindrome da accerchiamento di cui la Russia post-sovietica soffre, ora, come soffriva, ieri, l'Unione Sovietica. È ciò che si dice distinguere i fatti — come accadono e che dovrebbero essere il campo della politica estera—dalle «percezioni », il riflesso ideologico degli uomini che vi sono immersi. Ad alimentare la politica estera dell'Urss dei primi anni della guerra fredda fu l'analisi leninista dell'imperialismo capitalista; oggi, a determinare quella della Russia post-sovietica è l'interpretazione della globalizzazione americana; domani sarà la paura del «pericolo giallo». Per Mosca, il modo di esorcizzare la sindrome da accerchiamento è sempre lo stesso: «tenere lontani» i potenziali aggressori. Da Napoleone a Hitler, l'estensione del proprio territorio è stata, e rimane, per i russi, la migliore difesa. A sua volta, l'Occidente interpretò la presa dell'Urss sull'Europa centrale e orientale e la guerriglia dei comunisti greci—peraltro ben presto abbandonati da Stalin alla repressione inglese — come l'inizio della rivoluzione comunista mondiale e vi reagì con la «politica del contenimento». Ciascuna delle parti formulò stereotipi ideologici dell' altra, mascherando la vera natura del conflitto. Il risultato fu un ciclo di reazioni che acquistarono vita propria. Come oggi sulla Georgia. Ha scritto Vissarion Belinskij: «La nostra gente intende la libertà come volja, e volja significa seminare discordia. La nazione russa, una volta liberata, non punterebbe a un parlamento, ma correrebbe nelle taverne a bere ». Il severo giudizio dell'ottocentesco pubblicista russo riflette una verità che la storia ha confermato: gli uomini non nascono liberi e sono ridotti in schiavitù dal vivere insieme (come credeva Rousseau), ma conquistano la libertà solo grazie alla legge (come scriveva Locke). La Russia non fa eccezione. L'esplosione di un capitalismo primitivo — il popolo russo è stato derubato due volte: dalle nazionalizzazioni sovietiche, prima; dalle privatizzazioni post-sovietiche, dopo — non ha prodotto democrazia, come si erano illusi i professorini di Harvard, ma anarchia sociale ed economica e un autocrate politico, ex Kgb, il vod della tradizione russa, che la gestisce da par suo. 05 settembre 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Il capitalismo e la politica Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:28:36 am I DILEMMI DI WALL STREET
Il capitalismo e la politica di Piero Ostellino Dalla comparsa del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx (1848) a oggi, il capitalismo ha attraversato una decina di crisi, le più gravi delle quali sono state quella del 1929 e la crisi odierna. A ogni crisi, i nemici del capitalismo ne hanno annunciato la fine e ne hanno attribuito la causa al mercato. Che, poi, vuol dire all'avidità dei capitalisti. Si sono invocati maggiori interventi dello Stato nell'economia, regole più stringenti al mercato. Che, poi, vuol dire più potere a chi governa, sia sul processo di accumulazione sia nell'allocazione delle risorse. Con misure congiunturali — tanto, secondo il detto di John Maynard Keynes, «alla lunga saremo tutti morti »— le falle, nel '29, erano state temporaneamente chiuse. Ma poiché, nel frattempo, non tutti erano morti, a quelli che sono rimasti vivi — che, poi, voleva dire l'economia soffocata dagli eccessi di spesa pubblica (deficit spending) e da troppe regole— hanno di nuovo dovuto provvedere il capitalismo e il libero mercato, con le deregolamentazioni e le privatizzazioni di Ronald Reagan, di Margaret Thatcher e persino di Tony Blair. Il capitalismo non è crollato, mentre sono crollati, o si sono a esso convertiti, i sistemi negatori del mercato e a direzione politicamente centralizzata dell'economia. Poiché una buona regola — anche quando si parla di economia e persino di politica — dovrebbe essere quella di attenersi rigorosamente ai fatti, questo è il primo fatto di cui sarebbe bene tenere conto anche oggi. Il capitalismo e il mercato rimangono il «modo» migliore per produrre (e consumare) ricchezza. Tutti gli altri sono falliti. Ma è anche un fatto che la crisi del 1929 e quella attuale del sistema finanziario americano siano dovute al mercato e all' avidità dei capitalisti? La vulgata corrente, sui media come fra la classe politica, è che lo siano. Invece, come ha scritto Angelo Panebianco ieri sul Corriere, se ci si attiene ancora una volta ai fatti non è così. La crisi del 1929 e quella attuale si assomigliano almeno in una cosa: che a produrre entrambe è stata la Federal Reserve, cioè la massima autorità finanziaria pubblica. Nel '29, con una politica monetaria troppo restrittiva; oggi, con una politica monetaria opposta, troppo espansiva. In entrambi i casi, in base a un pregiudizio culturale e a un interesse politico. Il pregiudizio: che la politica monetaria sia una variabile politica, mentre a determinare il tasso di interesse (il costo del denaro) non dovrebbe essere, a proprio piacimento, un'autorità pubblica «esterna» (la Federal Reserve), ma dovrebbero essere le preferenze «interne» dei cittadini, che è, poi, la spontanea dinamica della domanda e dell'offerta di denaro (il mercato). L'interesse: tassi di interesse troppo alti o troppo bassi, e tenuti tali troppo a lungo, sono rispettivamente lo strumento attraverso il quale una moneta nazionale (il dollaro ieri) cerca di imporre la propria forza nel mondo e uno Stato indebitato (gli Usa oggi) riduce il servizio del debito. Che, infine, un eccesso di liquidità abbia finito (anche) col dare alla testa agli speculatori è un altro fatto incontrovertibile, come lo sarebbe rinchiudere in una cantina ben fornita di vino un bevitore di professione. 19 settembre 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Il mercato e la libertà Inserito da: Admin - Settembre 30, 2008, 12:05:58 am LA CRISI DEL CAPITALISMO USA
Il mercato e la libertà di Piero Ostellino Il Financial Times ha pubblicato un editoriale — di lunghezza e rilievo grafico inusitati— in difesa della libertà di mercato. Che «non è —scrive il quotidiano inglese — una "religione fondamentalista". E' un meccanismo, non un’ideologia, che ha dimostrato il suo valore più e più volte negli ultimi 200 anni. Il Financial Times è orgoglioso di difenderlo, anche ora». L’errore dei nemici della libertà di mercato è che essi puntano il dito sulla parola «mercato», mentre quella più importante è «libertà». Il mercato altro non è, infatti, che una delle manifestazioni della libertà, come lo sono le libertà di coscienza, di parola, di associazione. D’altra parte, poiché non hanno il coraggio di spingersi fino a dire d’essere contrari alla libertà, essi manifestano la loro ostilità al «mercato», sostenendo che mandato del governo sia «fare del bene» contro i «fallimenti del mercato ». Ma la libertà è, invece, il diritto di ciascun individuo di perseguire autonomamente il proprio ideale di bene a condizione di non impedire ad altri di fare altrettanto. Il liberalismo — che è relativista, e perciò migliorista — è per la correzione dei fallimenti del mercato; per riparare gli errori che esso può fare. Il mercato—scrive il Financial Times, riecheggiando Karl Popper — è il luogo del tentativo e dell'errore » (trial and error). Ma il principio della riparazione del danno—nell'originale accezione del liberalismo ottocentesco — era collegato solo al concetto di «danno illecito». Non prevedeva la riparazione pubblica dei danni che l'individuo, nell'esercizio della propria libertà di scelta, fa a se stesso. Ci sono danni non risarcibili perché non illeciti (damnum absque injuria, della tradizione giuridica liberale anglosassone). Gli statalisti e i dirigisti — per giustificare il proprio interventismo—collegano, invece, il principio della riparazione del danno alle «esternalità negative » del mercato, finendo col comprendervi la maggior parte della normale attività economica di ogni uomo. Ciò che John Kenneth Galbraith — l'economista liberal americano non sospettabile di indulgenza verso la concorrenza senza regole— ha definito «la separazione dei quattrini dai cretini» nel crollo di titoli in Borsa (dove chi ci si avventura dovrebbe anche sapere i rischi che corre). Il Financial Times ricorda, al riguardo, che lo Smooth-Hawley Tariff Act, che aveva quadruplicato le tasse su migliaia di importazioni, finì col prolungare la «Grande depressione » dal 1929 al 1933. Il tema — chi decide cosa e per chi — si ripropone in questi giorni di crisi. Saggezza vorrebbe che i governi ricordassero i limiti entro i quali la coercizione dello Stato diventa illegittima. Ed evitassero di prendere decisioni che ne accrescano solo il potere a danno dei cittadini. «I mercati di capitali— scrive ancora il Ft —necessitano di una migliore regolamentazione, ma i politici dovrebbero guardarsi dalle conseguenze non previste». 29 settembre 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Se si rinuncia alla libertà Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2008, 08:51:49 am DUE ANNI FA LA POLITKOVSKAYA UCCISA
Se si rinuncia alla libertà di Piero Ostellino In questi giorni che la crisi finanziaria mette in pericolo i nostri risparmi, siamo così preoccupati dei «rischi della libertà», e dei suoi «costi» — compresi l'opportunità di sbagliare, con i rischi che ci assumiamo, e il prezzo che dobbiamo pagare, per gli errori che commettiamo — che siamo disposti a rinunciare a una parte delle nostre libertà in cambio della promessa di un po' di sicurezza in più. Ma non è solo un errore sotto il profilo concettuale; è anche, e soprattutto, un'illusione sotto quello politico. Due anni fa, il 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaya, una giornalista della Novaja Gazeta di Mosca, veniva uccisa nell' ascensore del palazzo dove viveva. Stava per pubblicare un articolo imbarazzante per il potere politico. Il giorno dopo, la polizia sequestrava il suo computer e tutto il materiale dell'inchiesta cui stava lavorando. Il mandante è ancora oggi sconosciuto. Il mondo libero se ne è già dimenticato. Ma la Politkovskaya non è morta perché, nella Russia post-sovietica, ci fosse troppa libertà, bensì perché ce n'era ancora troppo poca. Non solo per il sistema informativo o, più genericamente, per gli intellettuali, ma per tutti i russi. Con i suoi articoli, essa non si limitava, infatti, a esercitare la propria libertà di giornalista, bensì soddisfaceva anche il diritto dei suoi concittadini a un'informazione libera, pluralista. È ciò che distingue la società «aperta », di democrazia liberale, dai sistemi chiusi e dispotici. Nella società «aperta», a fondamento delle scelte dei cittadini, non c'è una Verità unica, e un potere che la impone, bensì c'è una pluralità (e una dispersione) di conoscenze fra milioni di Individui. In questi giorni, i nemici del capitalismo e del libero mercato — che non sanno neppure di che parlano — accusano i liberali di comportarsi come i comunisti di fronte al fallimento del comunismo. Come questi ultimi, attribuirebbero la crisi agli errori degli uomini (i banchieri) per non prendersela col fallimento del sistema, del mercato, del liberalismo. Ma il liberalismo — prima di essere la dottrina delle libertà e dei limiti del potere (politico, economico, sociale) — è una metodologia empirica della conoscenza. Che riconduce tutti i fenomeni attribuibili a soggetti collettivi — i sistemi politici, le istituzioni, il mercato, il capitalismo, eccetera — ai comportamenti individuali. I soggetti collettivi, a differenza dei singoli Individui, non hanno una personalità propria, non pensano, né agiscono. È, del resto, così che, nella dottrina liberale, il concetto di libertà è strettamente associato a quello di responsabilità. Ed è, perciò, anche evidente che a fallire, in una società «aperta», sono gli uomini — i soli cui far risalire la capacità di operare delle scelte — non il sistema, il capitalismo, il mercato. Nel marxismo- leninismo è, invece, il sistema che è fallito, proprio perché ha ignorato gli Uomini in carne e ossa, sostituendoli col proletariato, il Partito, l'«Uomo nuovo» dell'Utopia, e sollevandoli dalle loro responsabilità. 08 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. LE INVASIONI DELLA POLITICA Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2008, 04:14:27 pm CRISI E SOCIETA' APERTA
di Piero Ostellino LE INVASIONI DELLA POLITICA Ne usciremo, e prima del previsto. Ma non sarà la politica a tirarci fuori dalla crisi. Ci tireremo fuori da soli, noi stessi, ciascuno facendo la sua parte, autonomamente e contando solo sul proprio ingegno. La società «aperta» ha una risorsa di cui non si parla perché non fa notizia: non c'è mai una soluzione preconfezionata. C'è da augurarsi che nessuno pretenda di conoscerla e di imporla agli altri. La politica può adottare provvedimenti limitati e temporanei — come il salvataggio delle banche per tutelare il risparmio — ma non può, e non deve, fare di più, come ha efficacemente sostenuto Francesco Giavazzi in un puntuale editoriale del Corriere giovedì scorso. Non può perché, in una società «aperta», essa non è una variabile indipendente dalle libere scelte di ciascuno di noi. Non deve, perché non sa — come non lo sa nessuno — che cosa succederà domani; e perché, qualsiasi cosa facesse, nella presunzione di saperlo, farebbe solo danni. Ho vissuto da vicino la caduta del comunismo e il crollo di un impero. La fine di una grande illusione e la dissoluzione dell'Unione Sovietica si avvertivano già nelle parole di pietra dei politici comunisti. Era la pretesa di sapere dove andava la Storia. Ma più la si sosteneva, più la storia la smentiva. Ho sentito le stesse parole sulle cause della crisi attuale e sui rimedi per uscirne da parte di chi non sa neppure che cosa sia una società «aperta». Si accusa la Federal Reserve di una «precisa strategia finanziaria » — il lassismo monetario — come se la Banca centrale obbligasse le banche private, e non solo quelle americane, a imbottirsi di titoli a forte rischio e a spacciarli; e la sua «strategia» non fosse, invece, un'opportunità (per quanto azzardata) che i banchieri erano liberi di cogliere come meglio avrebbero creduto. Ma se la diagnosi è sbagliata è probabile che anche i rimedi lo siano. Si parla di un «coordinatore » del mercato finanziario mondiale. Così, si passa dall'interpretazione della «precisa strategia finanziaria » come una sorta di dirigismo neoliberista — una contraddizione in termini — al «coordinatore », una specie di Gosplan sovietico, che ne sarebbe il rimedio, questo sì autenticamente dirigista. Un delirio pianificatorio privo persino di parvenza logica. Ci si strappa le vesti per la caduta delle Borse. Ma se si tratta di «titoli spazzatura » è come l'effetto della lavanda gastrica sull'organismo umano dopo un avvelenamento. Se si tratta di titoli dell'economia reale, è un (ri)allineamento ai fondamentali e una (re)distribuzione di ricchezza. Ne usciremo perché milioni di consumatori e produttori stanno già programmando le loro vite e perseguendo i loro interessi secondo la propria personale visione del mondo e i dati di cui dispongono. Ciascuno per conto suo, senza neppure sapere come e perché ne verrà un beneficio generale. E' la libertà, bellezza. Ne usciremo a condizione, però, che la politica lasci fare al loro «libero arbitrio »; non opponga divieti e ostacoli. La sola cosa che è giusto chiederle è di applicare i codici civile e penale — chi rompe paga — e di pretendere dalle banche maggiore trasparenza nei loro bilanci e una più limpida comunicazione sulle loro operazioni finanziarie. 15 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Delle carceri e delle pene Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 12:10:44 am INDULTO E AFFOLLAMENTO
Delle carceri e delle pene di Piero Ostellino E' una notizia che dovrebbe far riflettere non solo sul livello di efficienza del nostro sistema carcerario, ma sul tasso stesso di civiltà del Paese. Il presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, come scrive Luigi Ferrarella oggi sul nostro «Focus», ha chiesto al ministro della Giustizia che cessino in alcuni reparti di San Vittore e nel carcere di Monza le attuali condizioni di esecuzione della pena. A San Vittore, ci sono sei persone in celle di tre metri per due, che dormono in letti a castello tripli e che, perciò, non possono stare in piedi contemporaneamente. A Monza, i detenuti dormono sui materassi per terra, fra gli scarafaggi. Scriveva Cesare Beccaria oltre 250 anni fa: «Quando si provasse che l'atrocità delle pene... fosse solamente inutile... essa sarebbe non solo contraria a quelle virtù benefiche che sono l'effetto d'una ragione illuminata... nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia» ( Dei delitti e delle pene, 1764-1769). Charles de Montesquieu: «La pena non discende dal capriccio del legislatore, ma dalla natura delle cose; e non è affatto l'uomo che fa violenza all'uomo » ( L'esprit des lois, 1748). I detenuti nelle nostre carceri — che per essere in regola ne dovrebbero ospitare 43.084 — sono 57.239. Poiché crescono di mille al mese, a febbraio supereranno quelli alla vigilia dell'indulto (61.264, il 30 giugno 2006). Basterebbero queste cifre per provare che: 1) l'indulto non ha avuto gli effetti sperati; 2) la situazione è tornata a essere quella di prima e, fra pochi mesi, peggiorerà; 3) l'indulto, che è bersaglio di polemica politica, non era poi stato una decisione del tutto campata in aria, ma rispondeva sia all'invocazione alla più elementare carità cristiana verso esseri umani costretti a vivere in condizioni disumane, rivolta da Giovanni Paolo II al Parlamento il giorno della sua visita, sia a un'esigenza reale, più volte denunciata nelle battaglie condotte dai radicali. Poiché la sospensione della pena pare impensabile e il trasferimento dei detenuti in soprannumero a Milano e a Monza in altri stabilimenti — sovraffollati quanto i due — poco praticabile, non resterebbero che la ristrutturazione delle carceri più disastrate (come è già stato fatto in parte a San Vittore) o la costruzione di altre. I soldi, e il tempo, scarseggiano. Ma non si tratta solo di un problema contabile e congiunturale. Decidere se sia prioritario l'aiuto alle imprese in difficoltà per la crisi economica; ovvero se lo debba essere la soluzione della situazione in cui versano le carceri. Il dilemma è culturale, prima che politico. Riguarda il Paese nel quale vogliamo vivere. Se in un sistema che contemperi la logica di mercato — per la quale spetta soprattutto al mondo della produzione risolvere i propri problemi — con la funzione dello Stato, cui spetta, fra gli altri, il compito di perseguire la sicurezza nella giustizia. Per Luigi Einaudi, il liberalismo economico era «una tesi morale». Egli avrebbe respinto una sopravvivenza del capitalismo che fosse frutto di elargizione pubblica e non dello sforzo degli uomini. Ma anche evitare che la giustizia diventi — per dirla con Montesquieu — «l'uomo che fa violenza all'uomo» è una tesi morale. 23 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Aerei, Danton e Robespierre Inserito da: Admin - Novembre 12, 2008, 05:58:04 pm ALITALIA
Aerei, Danton e Robespierre di Piero Ostellino Ieri, 130 «irriducibili» hanno proclamato lo sciopero dell'Alitalia e paralizzato il Paese già a piedi per l'astensione negli altri trasporti. I sindacati autonomi Anpac, Up, Sdl, Avia, Anpav — che già avevano sconfessato Cgil, Cisl, Uil e Ugl, opponendosi alla firma dell'accordo con la Compagnia aerea italiana — avevano cercato invano di far ragionare gli oltranzisti. Sono stati «scavalcati» anch'essi da un neonato Comitato di lotta, in una inedita confusione di leggerezza e irresponsabilità. Fermi gli aerei, a terra; a casa la maggioranza dei dipendenti — che non si oppone più alla soluzione individuata dal governo e messa a punto dalla cordata di imprenditori privati — ieri a volare sui cieli d'Italia e del mondo non era la bandiera nazionale. Erano Danton e Robespierre. È la logica di ogni sorta di rivoluzionarismo, che divora progressivamente i suoi stessi figli, fino a quando compare l'autocrate di turno che pone fine alla rivolta con un atto di imperio. Per l'Alitalia, c'era stato lo spettro del fallimento. Dissoltosi questo, aleggia ora sulla Compagnia quello dell'incriminazione o della precettazione degli scioperanti; che non è l'autocrate, ma la legittima risposta di uno Stato democratico che non tollera, giustamente, di essere in ostaggio di una minoranza estremista che difende i propri interessi corporativi. Ma in gioco non sono solo il futuro della compagnia di bandiera e l'autorità dello Stato, bensì la credibilità delle rappresentanze dei lavoratori, dei sindacati. Ridurli a terra di nessuno, alla condizione di tutti contro tutti, non conviene a nessuno; tanto meno ai lavoratori. «Essere legati al proprio ambiente, amare la piccola squadra cui si appartiene nella società — scriveva Edmund Burke nel 1790 nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese — è il primo principio di ogni affezione pubblica. È il primo di una serie di legami percorrendo il quale giungiamo all'amore per il nostro Paese». Ieri non è stato così. Nessun legame col proprio ambiente, nessun amore per la propria squadra, nessun rispetto per il proprio Paese. Solo cieco rivendicazionismo minoritario, estremismo verbale, violenza, se non fisica, certamente formale. «Per garantire un minimo di sobrietà ai discorsi che tengono in qualsiasi assemblea pubblica — scriveva ancora Burke — i capi dovrebbero rispettare, in un certo grado, forse temere, coloro che amministrano ». La proclamazione dello sciopero contro le Confederazioni e persino i sindacati autonomi è stato, innanzi tutto, mancanza di rispetto per gli stessi lavoratori. Ora, però, spetta alla maggioranza degli uomini e delle donne che hanno a cuore, col proprio posto di lavoro, la dignità del Paese, reagire in modo appropriato. «Per evitare di essere guidati alla cieca — questo il consiglio dello scrittore irlandese ai francesi dell'epoca — i seguaci debbono comportarsi, se non da protagonisti, da giudici, da giudici investiti di peso e di autorevolezza spontanei». 12 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. I limiti del pubblico Inserito da: Admin - Novembre 25, 2008, 12:31:18 pm CRISI E MERCATO
I limiti del pubblico di Piero Ostellino Ora che — di fronte allo spettro della recessione — il governo ha saggiamente ascoltato le parti sociali, non è difficile immaginare che cosa accadrà da domani. Ciascuna lo tirerà per la giacca allo scopo di ottenerne i favori. Sbaglierebbe, però, il governo se — abdicando alla propria funzione di indirizzo — le accontentasse tutte e non fissasse un suo proprio ordine di priorità. La «priorità delle priorità » è evitare di interferire nella dinamica depressiva. Le recessioni hanno, infatti, anche un risvolto positivo; quello di liquidare, se non i cattivi investimenti — cui ha già provveduto il mercato—quelli orientati alla produzione di beni e di servizi che non rispondono più alla domanda, perché il mercato ne è saturo, o perché i consumi si sono temporaneamente orientati altrove. Anche l'«Economia sociale di mercato», tanto apprezzata dai neo-statalisti e neo-dirigisti — peraltro teorizzata da un cattolico liberale , Wilhelm Roepke, e applicata da un liberale classico, Ludwig Ehrard, nella Germania del dopoguerra— esclude che lo Stato intervenga nei processi di accumulazione e consumo della ricchezza e ne legittima l'intervento «solo » per sanare i danni eventualmente prodotti dal mercato ai più deboli. La seconda priorità è, allora, l'individuazione dell'intervento che meglio tenga conto della «priorità delle priorità» e più correttamente corrisponda alle logiche del mercato. La riduzione dei tassi di interesse — che la Banca centrale europea si appresta giustamente a fare—è una cosa; gli aiuti governativi alla produzione nazionale sarebbero un'altra. Sia la pur auspicabile riduzione dei tassi di interesse, da parte della Bce, sia gli assai meno auspicabili aiuti alla produzione, da parte del governo, non dicono, infatti, ancora niente sulla validità degli investimenti. Ma, mentre la riduzione dei tassi, decisa in sede europea, è — come ha più volte sottolineato efficacemente Mario Monti su queste stesse colonne — l'espressione di una strategia comunitaria (e congiunturale), gli aiuti governativi alla produzione sarebbero solo il risultato di una scelta nazionale che negherebbe quella europeista e minaccerebbe di diventare strutturale. Diverso, e perciò di gran lunga preferibile, sarebbe l'intervento del governo che si concretasse in una riduzione delle tasse. Esso sarebbe, infatti, esclusivamente market oriented, in quanto i cittadini- consumatori indirizzerebbero la loro maggiore capacità di spesa, soprattutto verso prodotti di largo consumo e secondo le proprie esigenze, in una fase di «inflazione dei prezzi» come quella che è seguita all'introduzione dell'euro nel cambio con la lira. L'intervento favorirebbe, probabilmente, anche un salutare mutamento negli stili di vita degli italiani, «dai prodotti edonistici» a «quelli che funzionano» (intervista a Giulio Malgara, Corriere della Sera del 23 ottobre). La riduzione delle tasse, tradotta in reddito, non si orienterebbe ancora verso risparmio e produzione di beni durevoli, ma — superata la fase recessiva — aprirebbe la strada anche a questi. postellino@corriere.it 25 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. L’opportunita’ persa Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2008, 11:16:17 am L’opportunita’ persa
di Piero Ostellino Con la decisione di ritirare le truppe israeliane da Gaza, Ariel Sharon aveva offerto ai palestinesi un’opportunità. Al tempo stesso, però, il passaggio della sua amministrazione nelle loro mani aveva creato obbiettivamente le premesse di una loro spaccatura. L'opportunità consisteva nella possibilità che le fazioni nelle quali il movimento era diviso abbandonassero la lotta armata, si unificassero sotto Al Fatah e partecipassero al processo di pace con Israele, voluto da Usa e Europa. Le premesse della crisi stavano nell’eventualità di un acuirsi della divisione fra integralisti, contrari a soluzioni di pace, movimento palestinese moderato e governi islamici favorevoli. La crisi di questi giorni conferma che, fra le due prospettive, a prevalere è stata la seconda. Ancora una volta sono state le divisioni all'interno del movimento palestinese e, in parte, dello stesso mondo arabo a prevalere, riaccendendo il conflitto. Con il lancio di missili da parte di Hamas contro le popolazioni israeliane limitrofe, cui ha fatto seguito l'inevitabile reazione di Israele. Il successo di Hamas nelle elezioni per l'amministrazione di Gaza, nel gennaio 2006; la rottura, nel giugno 2007, dell'accordo con Al Fatah, raggiunto solo poco più di tre mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, ne erano state le avvisaglie. C'è un convitato di pietra che blocca ogni possibilità di pace. È l'Iran. Che sostiene il rivendicazionismo di Hamas; che, con la sua corsa all'armamento atomico, inquieta Israele, l'Occidente e pressoché l'intero mondo arabo, dall’Arabia Saudita—promotrice, nel marzo 2002, dell’iniziativa Arab Peace e fallita nel 2007 — all'Egitto, alla Giordania. Forse non è superfluo ricordare che l'articolo 7 della Carta di Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei, così come sostiene il presidente iraniano Ahmadinejad; che all'articolo 13 si invoca la guerra santa; che il nazionalismo del movimento affonda le sue radici nell’interpretazione di Teheran della religione. La maggioranza del mondo arabo è per la pace. Lo testimoniano — al di là delle condanne di rito di Israele e delle manifestazioni di piazza—le reazioni alla crisi di Fatah. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, ha ricordato di aver implorato Hamas a non rompere il cessate il fuoco. L'Egitto fa trapelare che esiste un piano Iran-Hamas-Fratelli musulmani per creare disordini in Palestina e nel suo territorio. Tacciono la Giordania, l'Arabia Saudita, i palestinesi della West Bank. L'attacco israeliano—invece di ricompattarlo contro Israele, come vuole una tesi propagandistica anti israeliana — ha rinsaldato il mondo arabo contro Hamas e l'Iran. È un ulteriore segno che Ariel Sharon aveva visto bene. 29 dicembre 2008 da corriere.it Titolo: Una brutta deriva. (ma non quella del signor B. ndr) Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2009, 06:17:56 pm Una brutta deriva
di Piero Ostellino Alla manifestazione di ieri, promossa dall'Italia dei valori, c'era uno striscione che diceva: «Napolitano dorme, l'Italia insorge». Di Pietro ha detto che «i cittadini chiedono che si smetta di proporre leggi che violano la Costituzione », aggiungendo che «il silenzio uccide come la mafia». E si è così rivolto al capo dello Stato: «A lei che dovrebbe essere arbitro, possiamo dire che a volte il suo giudizio ci appare poco da arbitro e poco da terzo?». Poi, di fronte alla reazione del Quirinale, ha precisato che — denunciando «il silenzio che uccide » — non intendeva riferirsi al presidente della Repubblica. Insomma: una pezza peggiore del buco. Forse, qualcuno dovrebbe spiegare al capo dell'Idv — che o non la conosce bene o pretende di stravolgerla quando non gli piacciono le leggi approvate dal Parlamento e firmate dal presidente della Repubblica — cosa dice la nostra Costituzione. Il nostro ordinamento — come tutti quelli delle democrazie liberali — è un sistema di pesi e contrappesi. I poteri — legislativo, esecutivo, giudiziario, cui si aggiungono le funzioni della Corte costituzionale e le prerogative del capo dello Stato — si contrappongono e mantengono in equilibrio il sistema, ad evitare che un potere prevalga sull'altro. Il presidente della Repubblica non è dunque un arbitro che sbaglia un fuorigioco, ma l'autorità che può rinviare alle Camere le leggi del Parlamento per vizio di costituzionalità. Se il presidente non vi ravvisa vizi di costituzionalità non può fare altro che firmarle. In caso di rinvio alle Camere, il Parlamento le può (ri) approvare tali e quali — sfiorando un conflitto istituzionale — e, a quel punto, al presidente non resta che prenderne atto o rifiutarsi ancora di firmarle, aprendo, a sua volta, una crisi istituzionale. Spetta, infatti, alla Corte costituzionale giudicare — con parere motivato — se sono o no costituzionali, impedendone di fatto e in diritto la promulgazione. La capacità di iniziativa che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica riguarda, dunque, la «forma» (giuridica), non il «contenuto» (politico) delle leggi. Il capo dello Stato può rinviare una legge al Parlamento non perché non gli piace, è ideologicamente di diverso avviso, bensì solo se vi ravvisa un vizio in punto di diritto. Lo stesso limite ha la Corte costituzionale. Se il presidente e la Corte non eccepiscono, le leggi sono legittime. Accusare il presidente di non fare l'arbitro — che è già in sé una castroneria, costituzionalmente parlando — e di firmare leggi che non dovrebbe firmare vuol dire accusarlo di violare la Costituzione, cioè di sovversione. Giorgio Napolitano sta esercitando la sua funzione non solo in modo esemplare, con intelligenza e moderazione, che sono, poi, le sue qualità umane, oltre che politiche, ma nel pieno rispetto della Costituzione. Di Pietro — con la pretesa che il capo dello Stato si arroghi un diritto che non ha — manifesta una inclinazione autoritaria. Una brutta deriva, la sua, peraltro non estranea alla sua cultura, che qualcuno dovrebbe spiegargli. In punto di Costituzione. 29 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Quell'errore dei magistrati (uhmm autodifesa? ndr). Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 09:57:14 am EDITORI, GIORNALISTI E INCHIESTE
Quell'errore dei magistrati di Piero Ostellino Il Giudice per le indagini preliminari che ha ordinato gli arresti domiciliari per Giampaolo Angelucci, e ne ha demandato l'analoga decisione al Senato per il padre Antonio senatore del Pdl, con l'accusa di aver commesso una serie di reati nell'esercizio della loro attività in campo sanitario, scrive: «I vertici del gruppo dimostrano di essere consapevoli di poter superare qualunque ostacolo... potendo orientare l'informazione ai loro fini». L'informazione in questione sono i quotidiani Libero e Il Riformista, entrambi di proprietà degli Angelucci. Le parole del Gip suscitano due ordini di considerazioni. Uno di merito (sulla vicenda e di carattere generale); l'altro, di metodo (su certa magistratura). Sul merito, non penso che fra i compiti di un giornale ci sia quello di fare il lobbista per gli interessi extra-editoriali del proprio editore. Se l'editore lo chiedesse, sarebbe un pessimo editore e farebbero bene i suoi giornalisti a mandarlo al diavolo; se i giornalisti si piegassero, non farebbero il loro mestiere e sarebbero pessimi giornalisti; entrambi farebbero un danno alla credibilità del giornale. Conosco Antonio Polito (direttore del Riformista) e Vittorio Feltri (direttore di Libero). Due eccellenti giornalisti, con una lunga carriera alle spalle, e due galantuomini. Non ce li vedo a fare i lobbisti per conto di qualcosa che non siano le loro personali convinzioni. Ma il punto sul quale mi pare valga la pena di riflettere non è il merito della vicenda degli Angelucci, sulla quale non voglio e non ho neppure elementi per pronunciarmi (sebbene, anche stavolta, i magistrati non si sono sottratti alla pessima abitudine di render pubblico nell'ordinanza il contenuto di intercettazioni irrilevanti e «laterali»). E' il metodo seguito dal magistrato. Il Giudice, scrivendo che gli Angelucci erano «consapevoli di poter superare qualunque ostacolo... potendo orientare l'informazione ai loro fini », ipotizza che tale fosse la «convinzione» degli inquisiti, ma nulla dice ancora sulla (supposta) complicità di Libero e del Riformista, finendo, però, col dire troppo sull'editoria italiana. Che la proprietà di media, da parte di un editore che abbia anche altri interessi imprenditoriali, è un'aggravante nel caso sia accusato di aver commesso un qualche reato nell'esercizio della sua attività extra- editoriale. Siamo alla teoria, in chiave giudiziaria, del primato dell'«editore puro», senza altri interessi che quello di produrre il medium; all'idea che, fra i compiti della magistratura, non ci sia solo quello di applicare la legge, ma anche di cambiare, e «migliorare», il Paese. Nella mia lunga vita professionale, qui al Corriere, ho avuto editori «puri» e «impuri»: nessuno ha mai cercato di trasformare noi di Via Solferino — che, in ogni caso, come si dice a Milano, lo avremmo mandato a «scopare il mare» — in lobbisti. Insomma, i lettori cui non piacessero i giornali che facciamo non lo attribuiscano all'influenza dei poteri «forti» o «deboli» che siano. Se la prendano con noi giornalisti che non li sapremmo fare. E certa magistratura lasci perdere i «teoremi di sociologia dell'informazione ». 06 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Il passo avanti di Violante. (tanto comodo al signor B. ndr) Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2009, 10:37:42 am STORIA E POLITICA
Il passo avanti di Violante di Piero Ostellino Luciano Violante scrive sul Riformista di essersi sentito «imbarazzato» ascoltando la rievocazione della «tragedia» delle foibe nel corso della celebrazione della «Giornata del ricordo»: «Se fosse stato raccontato un brano di vita di Mauthausen mi sarei immedesimato nella storia di quei vinti che poi hanno vinto. Mi sono reso conto, per la prima volta, che la mia storia politica era stata dalla parte degli aggressori, di chi legava il fil di ferro ai polsi delle vittime, prima di precipitarle, non dalla parte di chi aveva i polsi legati». Sono parole coraggiose, che gli fanno onore. Spero che nessuno, dico nessuno — tanto meno la parte politica che ci governa — voglia imbastirci una speculazione propagandistica. Non è l'occasione per rinverdire un anti-comunismo datato di fronte alla sofferta confessione di un uomo che si chiede «perché l'aver appartenuto al Pci e il sentirmi tutt'ora dentro quella rigorosa educazione politica e quel complesso di valori civili e repubblicani mi facevano sentire tra quegli assassini ». A differenza di Violante, c'è chi è sempre stato dalla parte «di chi aveva i polsi legati», indipendentemente da chi, fascista, comunista o quant'altri, li legasse. Ma non ha potuto evitare di provare una certa commozione nel veder ammainare, dal pennone del Cremlino, la bandiera rossa del comunismo. Che ci piaccia o no, milioni di uomini sono morti — magari per mano di altri comunisti — in nome di un ideale di eguaglianza e di un progetto di società falliti non perché gli Stati governati in loro nome li abbiano traditi. Ma che sono falliti perché erano sbagliati nelle premesse, là dove postulavano — in dottrina, prima ancora che nella prassi — la negazione dei diritti di libertà individuali in nome di un'eguaglianza e di una società realizzabili solo attraverso la costrizione. Violante si è però «indignato» per il titolo («Mi vergogno d'esser stato comunista ») che il giornale di Antonio Polito ha scelto per il suo articolo. Filologicamente, Violante ha ragione: la «vergogna» non compare nel suo testo. Ma è indubbio il passo avanti, la rottura che il testo di Violante rappresenta con lo spirito autoassolutorio che ha segnato il rapporto sin qui elaborato dagli eredi del Pci con la storia del comunismo italiano. Del resto, lo stesso Violante ammette di provare «imbarazzo » (è molto lontano dalla «vergogna»?) perché ha capito che nella sua storia il suo partito è stato dalla parte dei carnefici. E dice un'altra cosa che merita attenzione: «Il punto è che sinché la sinistra non celebrerà le foibe e la destra non celebrerà Fossoli resteremo divisi nelle nostre storie e nelle nostre memorie ». Vorrei essere il primo a sottoscrivere questa sua perorazione, proprio in nome di un Paese i cui cittadini si riconoscano finalmente nei diritti di libertà prima ancora che nella propria parte politica. Sono convinto — a differenza di Benedetto Croce, il liberale della libertà come «categoria dello spirito » — che la libertà sia una «categoria della realtà », una concezione empirica, storica, della convivenza politica. Ma nelle parole di Violante pare di risentire l'eco di quelle di Croce, il quale definiva il liberalismo un pre-partito che avrebbe dovuto informare tutti gli altri in una società «aperta». Violante, in fondo, dice che c'è (ancora) tanto bisogno di principi liberali in questo Paese. postellino@corriere.it 13 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Le scuse per tacere sempre Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2009, 03:48:16 pm Le scuse per tacere sempre
di Piero Ostellino Martedì erano sessant’anni che la Repubblica popolare cinese aveva invaso militarmente il Tibet; che, ora, ne è una regione autonoma. Sono giorni «sensibili», per la Rpc, sia per la ricorrenza tibetana; sia per la questione dei diritti umani, acuitasi dopo che il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in visita ufficiale, ha evitato accuratamente di parlarne con i dirigenti cinesi. Contribuisce, inoltre, ad alimentare l’ipotesi di tensioni, l’«incidente» di ieri, non lontano da piazza Tienanmen, dove tre persone sono rimaste coinvolte nell’incendio della loro auto. I tre — secondo la polizia — erano venuti a Pechino per presentare una «petizione» all’Assemblea del popolo. Che il diritto dei tibetani alla propria indipendenza e quelli umani della stessa popolazione cinese siano, o no, in questi giorni, all’ordine del giorno delle autorità di sicurezza—indipendentemente dalla reale natura dell’ «incidente» della Tienanmen — è un fatto che essi sono «il» problema irrisolto nei rapporti fra la Repubblica popolare e le democrazie liberali occidentali. Come la Clinton, per chiunque vada a Pechino, pare non sia mai venuto il momento di parlare dei diritti sistematicamente violati dal regime comunista. Prevalgono le «ragioni degli Stati». E’ vero che, nel suo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani nel mondo, Washington afferma che «la loro promozione è un passaggio essenziale della nostra politica estera». Ma quali sono le «ragioni degli Stati » che impediscono agli uomini (di Stato) di conciliarli con le «ragioni della coscienza»? Secondo Giovanni Botero — che nel 1589 licenziava il suo trattato Della Ragion di Stato — è semplicemente l’arte del governo, la conoscenza dei mezzi necessari alla conservazione, alla fondazione e all’estensione, del dominio statuale, ispirata alla prudenza come «virtù pratica». Botero ubbidiva agli imperativi della Controriforma, che aveva messo al bando le opere di Nicolò Machiavelli, il quale aveva piegato l’etica alla politica, sostenendo che lo Stato aveva sue proprie «ragioni» che non si conciliavano con la morale e la religione. Scriveva già allora Botero: «I Greci e i Romani, per cavar qualche utilità da’ nemici presi in guerra, li facevano schiavi e gl’impiegavano a lavorar la terra o ad altro esercizio; ma i Chinesi non gli ammazzano, né mettono loro taglia, non gl’incatenano, non li destinano a far altro finalmente, che a servir nella guerra nelle frontiere più lontane dalla patria loro, e in abito cinese». È la stessa spiegazione strategica che dà oggi Pechino del suo dominio sul Tibet. Ragioni di sicurezza. E, ancora: «La prudenza è una virtù il cui ufficio è cercare di ritrovare i mezzi convenienti per conseguire il fine, e l’astuzia tende al medesimo fine, ma differisce dalla prudenza in questo, che nell’elezione de’ mezzi quella segue l’onesto più che l’utile, questa non tiene conto se non dell’interesse». È la stessa ragione che suggerisce alle democrazie liberali di non trovare mai il momento di parlare dei diritti umani. Il mondo, da allora, è cambiato. Ma non sono certamente cambiati gli uomini. 26 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Imprenditori avanti senza carità di Stato Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2009, 10:24:57 am Il dubbio
Imprenditori avanti senza carità di Stato Gli azionisti si riprendano le aziende, non le lascino nelle mani del management di Piero Ostellino Per l'Italia, il solo modo di uscire dalla crisi è cogliere le opportunità che essa offre. Sulla già incombente crisi strutturale—per carenze e ritardi di innovazione di processo e di prodotto — si è innestata quella finanziaria. Il nostro sistema creditizio — che pure regge meglio di altri — è in sofferenza per gli effetti globali della crisi. Ma le banche non concedono crediti non solo perché carenti di liquidità, ma anche a causa delle debolezze del mondo della produzione. Non si fidano. Temono un calo dei consumi e l'insolvenza delle aziende debitrici. Che fare, allora? «Aggredire la crisi», invece di affidarsi alla carità di Stato. Chi la deve governare, e la può risolvere, non è la politica, cui spetta solo di fissare le regole della libera concorrenza. Sono gli imprenditori. Gli azionisti ricapitalizzino le proprie aziende e le riprendano in mano. Non le lascino in quelle di un management che ha la vista corta. Il nostro sistema produttivo è costituito da migliaia di piccole aziende, da un numero relativamente basso di aziende medio-piccole, da poche medio-grandi e pochissime grandi. Affronteranno la crisi e ne usciranno, chi più chi meno bene, secondo i rispettivi criteri di conduzione. Le aziende piccole e medio-piccole sono gestite dai loro proprietari e/o da pochi azionisti; hanno una bassa gestione finanziaria (carenza di risorse) e un'alta gestione imprenditoriale (inventiva, spirito di sacrificio, vocazione al mercato). Soffriranno la stretta creditizia —che ne metterà in pericolo l'esistenza—ma aguzzeranno l'ingegno perché ci sono già abituate. Le aziende medio-grandi e le grandi—che, in prevalenza, hanno separato la proprietà dalla gestione — sono condotte da manager; hanno un'alta gestione finanziaria (maggiore disponibilità di risorse) e una bassa gestione imprenditoriale. Il management ha la propensione a lavorare «a brevissimo termine», dovendo rispondere agli azionisti (che investono poco e si aspettano ritorni immediati); si preoccupa, nella prospettiva di essere licenziato, di uscirne almeno con una lauta liquidazione, assecondando le aspettative degli azionisti. La presidente di Confindustria ha proposto di lasciare, per un anno, alle imprese—per consentire loro di autofinanziarsi — la disponibilità del Trattamento di fine rapporto dei dipendenti. Forse, sarebbe stato meglio invitare gli imprenditori a rimettere nelle aziende i grandi utili fatti negli ultimi quindici anni. Chiedere, ora, a manager—ridotti a burocrati dell'esistente — di passare a una gestione imprenditoriale, di lavorare per strategie «a medio e lungo termine», di innovare in una situazione di crisi, sarebbe chiedere loro qualcosa che non era già nelle loro corde anche quando le cose andavano bene. Lasciati a se stessi, cercheranno di contenere i costi—tagliando indiscriminatamente (?) teste e spese — e, quando la prima tosatura si sarà rivelata insufficiente, faranno (?) altri tagli. Nel migliore dei casi, il rischio è l'impoverimento ulteriore delle aziende e la riduzione delle loro capacità di ripresa; nel peggiore, il collasso del sistema. 28 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Nazione di sudditi allergica al liberalismo Inserito da: Admin - Marzo 11, 2009, 06:28:14 pm Un Paese tra dittatura della burocrazia e saccheggio delle risorse pubbliche
Nazione di sudditi allergica al liberalismo Il nuovo saggio di Ostellino: l'arte di arrangiarsi in Italia sotto il giogo dello «Stato canaglia» Un Paese paralizzato da un numero spropositato di leggi e regolamenti; soffocato da una cultura burocratica invasiva e ottusa; gestito da una pubblica amministrazione pletorica, costosa e inefficiente e, non di rado, corrotta; vessato da un sistema fiscale punitivo per chi paga le tasse e distratto nei confronti di chi non le paga; prigioniero di corporazioni e interessi clientelari; nelle mani, da Roma in giù, della criminalità organizzata. Un Paese in inarrestabile declino culturale, politico, economico, che non è ancora precipitato agli ultimi gradini tra i Paesi industrializzati dell'Occidente solo grazie allo spirito di iniziativa e alla proiezione internazionale della media e piccola imprenditoria. Questa è l'Italia oggi. C'è l'Italia degli italiani e c'è lo Stato italiano. Per intenderci: ci sono gli italiani, come singoli individui; c'è lo Stato italiano, come «soggetto collettivo». La definizione può sembrare paradossale e persino contraddittoria. E, in realtà, lo è. Chi ritiene che la fenomenologia sociale sia empiricamente descrivibile solo riconducendone le dinamiche agli individui ne sarà scandalizzato. Per l'individualismo metodologico, i soggetti collettivi — le istituzioni, il mercato, il capitalismo eccetera — non hanno, infatti, vita propria, non pensano, non agiscono, bensì altro non sono che l'interazione, in una società aperta e liberale, fra individui che perseguono autonomamente il proprio ideale di vita e i propri interessi, producendo con ciò inconsapevolmente un beneficio collettivo. Il bene comune, l'utilità sociale, l'interesse generale eccetera sono, al contrario, una invenzione della politica. Rassicuro subito chi si sia scandalizzato. Ritengo anch'io che l'individualismo metodologico sia la sola metodologia della conoscenza corretta, in quanto, per dirla con Popper, empiricamente verificabile alla prova della realtà effettuale. La divisione dell'Italia in due — l'Italia (al plurale) dei singoli individui, ciascuno dei quali pensa e agisce sulla base delle proprie personali convinzioni; e l'Italia (al singolare), come soggetto collettivo, autoreferenziale, che li (mal)governa sulla base di principi e leggi che essa stessa si è data — è, dunque, solamente un artificio retorico. Gli italiani, anarcoidi e conservatori, privi di senso civico e di senso dello Stato, e perciò sudditi invece di cittadini; gli italiani che non si mettono in fila alla fermata dell'autobus, ma neppure si ribellano alla propria condizione di sudditanza; ingegnosi, flessibili, pragmatici, camaleontici sono l'Italia al plurale. Che «si arrangia », che se la cava. Questi italiani sono il paradigma schizofrenico di ciò che la cultura liberale anglosassone chiama, con ben altra dignità storica e politica, «società civile» rispetto alla «società politica» dalla quale rivendica la propria autonomia. Che da noi l'ordinamento giuridico non garantisce e nessuno rivendica; tutti si prendono, quando possono. Sottobanco. La nazione, lo Stato, la collettività, giù, giù lungo i loro indotti pubblici — ieri, il (vergognoso) primato della razza; oggi, l'(indefinibile) utilità sociale, e tutte le altre sovrastrutture ideologiche che hanno segnato la storia del Paese — sono l'Italia soggetto collettivo. La camicia di forza che il potere politico del momento e la cultura dominante, l'ideologia come falsa coscienza — fascista e/o comunista, corporativa e/o collettivista, comunitaria e/o statalista che fosse, sempre e comunque antindividualista — hanno imposto agli italiani. Incolta, retorica, dogmatica, bigotta, burocratica, poco o punto flessibile, legalista e imbrogliona, questa Italia trasformista e gattopardesca — che cambia qualcosa per restare sempre la stessa — è una sorta di «8 settembre permanente». Istituzionalizzato. Da un lato, ci sono la costante imposizione di un controllo pubblico, illegittimo e contraddittorio, sulle libertà dei singoli, e l'ambigua pretesa che sia rispettato; dall'altro, c'è la tacita esenzione da ogni vincolo d'obbedienza sottintesa nella frase liberatoria «tutti a casa» che l'8 settembre 1943 percorse la linea di comando delle nostre Forze armate, abbandonate a se stesse dopo l'armistizio. È di questa Italia incasinata e un po' cialtrona, intimamente illiberale, che parlo. Non per fare l'elogio degli italiani come singoli individui ma per spiegare l'incapacità del Paese di entrare nella modernità e di stare, culturalmente, politicamente, economicamente, al passo con gli altri Paesi di democrazia liberale dell'Occidente capitalista. Non è l'elogio dell'antipolitica, oggi tanto di moda. Anzi. Ci mancherebbe, soprattutto da parte di un liberale. È, piuttosto, la denuncia dell'invasività della sfera pubblica nella sfera privata. La descrizione di come la nostra politica non sia più, e da tempo, ammesso lo sia mai stata, al servizio dei cittadini, ma li abbia posti al proprio servizio. Dello «Stato canaglia». L'eccessiva estensione della sfera pubblica — che la cultura statalista e dirigista tende a spacciare come veicolo di equità sociale — è, infatti, più accrescimento del potere degli uomini a essa preposti sulle libertà e sulle risorse dell'individuo, che criterio di governo. La leva fiscale, per alimentare una spesa pubblica riserva di caccia di interessi estranei a quelli generali, ne è lo strumento, anche se non il solo, di oppressione. Non occorre essere marxisti per sapere che lo Stato non è neutrale, ma è il braccio armato degli interessi di chi ne detiene il controllo, se non è controbilanciato da principi e interessi alternativi, fra loro in competizione. È sufficiente essere liberali. Del resto, in questo continuo confronto fra differenti concezioni del mondo, senza che nessuna abbia la pretesa di essere la Verità e di imporla agli altri, è dalla pluralità di interessi in conflitto — mitigato solo da regole del gioco che non consentano a nessuno di impedirne la libera manifestazione e la corretta realizzazione — che si sostanzia la società aperta. Il liberalismo non è una dottrina chiusa — che dice agli individui quale è il loro interesse e ne prescrive i comportamenti — ma la dottrina dei limiti del potere e della società aperta, all'interno della quale ciascuno si presume sappia quale è il proprio interesse e, di conseguenza, lo persegue in autonomia. Il guaio è che di liberalismo, nella vita pubblica degli italiani, non c'è traccia. E ci vorranno, forse, generazioni perché vi si affacci. Piero Ostellino 04 marzo 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La presidenza Rai? Una foglia di fico Inserito da: Admin - Marzo 15, 2009, 09:53:51 am Il dubbio
La presidenza Rai? Una foglia di fico Le ragioni di una farsa, specchio della nostra democrazia malata di Piero Ostellino Mi chiedo perché governi e opposizioni — quale ne sia il colore—continuino a chiedere a esponenti della società civile di fare il presidente della Rai, anche se lo sanno tutti che è la «foglia di fico» della lottizzazione. Il presidente non è «operativo»; un modo gentile per dire che non conta sulle cose che contano. Lo è il Direttore generale il quale, a sua volta, sulle cose che contano per la classe politica — direttori di rete e di telegiornali, titolari di talk show, eccetera—conta quanto il presidente. Gli organigrammi sono concordati a livello politico, a prescindere da presidente e direttore generale. Tanto varrebbe, allora, che la politica invocasse esplicitamente il diritto allo spoil system. In realtà, le ragioni di questa farsa sono due. E sono entrambe lo specchio della nostra democrazia malata, dell’eccessiva estensione della sfera pubblica, cioè di una anomala dilatazione dei poteri della classe politica. La prima, che è anche la più semplice, è questa: perché ai politici di quello che possono pensare i cittadini non gliene può fregare di meno. Hanno la faccia di bronzo, ma si preoccupano lo stesso di salvarla; prendendo il cittadino per i fondelli, ben sapendo di farlo, ma fingendo di curarsi di quello che eventualmente ne può pensare; recitando la parte di chi se ne preoccupa, non per tacitare la propria coscienza democratica — che non hanno — ma per rassicurare la propria vocazione totalitaria: «Noi, le forme le abbiamo salvate». Un esempio di ipocrisia, di disprezzo per la democrazia. Una forma di totalitarismo soft, dove nessuno corre rischi, ma tutti siamo informati male, cioè siamo meno liberi. La seconda ragione, che è anche la più squallida, è questa: perché su una certa complicità, da parte della società civile, i politici sanno sempre di poter contare. Il posto di presidente della Rai è prestigioso, prevede un emolumento che non sarà quello di un professionista affermato, ma non è comunque disprezzabile, e una serie di benefici—una segreteria, l’auto di servizio, rappresentanza, rimborsi spesa, eccetera—che fanno comodo. Insomma, qualcuno «che ha famiglia» lo si trova sempre. Non ne faccio colpa a chi ci sta; la mia non è una considerazione di ordine morale. Quando lo Stato si estende oltre misura, la questione non è più morale. E’ politica. Solo i moralisti privi di moralità e i gattopardi, che vogliono che qualcosa cambi affinché tutto rimanga come prima in modo da sostituirsi semplicemente a quelli che già ne beneficiano, la spacciano per «questione morale». L’Ordinamento della Repubblica ha conferito, istituzionalmente, alla classe politica un potere che non dovrebbe avere; la stessa società civile legittima l’anomalia con un sostegno, individuale e collettivo, nonché con una disponibilità a «concedersi» che neppure la più disinvolta passeggiatrice avrebbe. Dubito che ne usciremo. Il difetto sta nel manico. Nello «Stato canaglia» e nella cultura parassitaria della maggioranza degli italiani. Che in Italia, per dirla con un paradosso, sono troppi perché l’Italia possa diventare un Paese migliore. 14 marzo 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Nazione di sudditi allergica al liberalismo Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 03:56:53 pm Un Paese tra dittatura della burocrazia e saccheggio delle risorse pubbliche
Nazione di sudditi allergica al liberalismo Il nuovo saggio di Ostellino: l'arte di arrangiarsi in Italia sotto il giogo dello «Stato canaglia» Un Paese paralizzato da un numero spropositato di leggi e regolamenti; soffocato da una cultura burocratica invasiva e ottusa; gestito da una pubblica amministrazione pletorica, costosa e inefficiente e, non di rado, corrotta; vessato da un sistema fiscale punitivo per chi paga le tasse e distratto nei confronti di chi non le paga; prigioniero di corporazioni e interessi clientelari; nelle mani, da Roma in giù, della criminalità organizzata. Un Paese in inarrestabile declino culturale, politico, economico, che non è ancora precipitato agli ultimi gradini tra i Paesi industrializzati dell'Occidente solo grazie allo spirito di iniziativa e alla proiezione internazionale della media e piccola imprenditoria. Questa è l'Italia oggi. C'è l'Italia degli italiani e c'è lo Stato italiano. Per intenderci: ci sono gli italiani, come singoli individui; c'è lo Stato italiano, come «soggetto collettivo». La definizione può sembrare paradossale e persino contraddittoria. E, in realtà, lo è. Chi ritiene che la fenomenologia sociale sia empiricamente descrivibile solo riconducendone le dinamiche agli individui ne sarà scandalizzato. Per l'individualismo metodologico, i soggetti collettivi — le istituzioni, il mercato, il capitalismo eccetera — non hanno, infatti, vita propria, non pensano, non agiscono, bensì altro non sono che l'interazione, in una società aperta e liberale, fra individui che perseguono autonomamente il proprio ideale di vita e i propri interessi, producendo con ciò inconsapevolmente un beneficio collettivo. Il bene comune, l'utilità sociale, l'interesse generale eccetera sono, al contrario, una invenzione della politica. Rassicuro subito chi si sia scandalizzato. Ritengo anch'io che l'individualismo metodologico sia la sola metodologia della conoscenza corretta, in quanto, per dirla con Popper, empiricamente verificabile alla prova della realtà effettuale. La divisione dell'Italia in due — l'Italia (al plurale) dei singoli individui, ciascuno dei quali pensa e agisce sulla base delle proprie personali convinzioni; e l'Italia (al singolare), come soggetto collettivo, autoreferenziale, che li (mal)governa sulla base di principi e leggi che essa stessa si è data — è, dunque, solamente un artificio retorico. Gli italiani, anarcoidi e conservatori, privi di senso civico e di senso dello Stato, e perciò sudditi invece di cittadini; gli italiani che non si mettono in fila alla fermata dell'autobus, ma neppure si ribellano alla propria condizione di sudditanza; ingegnosi, flessibili, pragmatici, camaleontici sono l'Italia al plurale. Che «si arrangia », che se la cava. Questi italiani sono il paradigma schizofrenico di ciò che la cultura liberale anglosassone chiama, con ben altra dignità storica e politica, «società civile» rispetto alla «società politica» dalla quale rivendica la propria autonomia. Che da noi l'ordinamento giuridico non garantisce e nessuno rivendica; tutti si prendono, quando possono. Sottobanco. La nazione, lo Stato, la collettività, giù, giù lungo i loro indotti pubblici — ieri, il (vergognoso) primato della razza; oggi, l'(indefinibile) utilità sociale, e tutte le altre sovrastrutture ideologiche che hanno segnato la storia del Paese — sono l'Italia soggetto collettivo. La camicia di forza che il potere politico del momento e la cultura dominante, l'ideologia come falsa coscienza — fascista e/o comunista, corporativa e/o collettivista, comunitaria e/o statalista che fosse, sempre e comunque antindividualista — hanno imposto agli italiani. Incolta, retorica, dogmatica, bigotta, burocratica, poco o punto flessibile, legalista e imbrogliona, questa Italia trasformista e gattopardesca — che cambia qualcosa per restare sempre la stessa — è una sorta di «8 settembre permanente». Istituzionalizzato. Da un lato, ci sono la costante imposizione di un controllo pubblico, illegittimo e contraddittorio, sulle libertà dei singoli, e l'ambigua pretesa che sia rispettato; dall'altro, c'è la tacita esenzione da ogni vincolo d'obbedienza sottintesa nella frase liberatoria «tutti a casa» che l'8 settembre 1943 percorse la linea di comando delle nostre Forze armate, abbandonate a se stesse dopo l'armistizio. È di questa Italia incasinata e un po' cialtrona, intimamente illiberale, che parlo. Non per fare l'elogio degli italiani come singoli individui ma per spiegare l'incapacità del Paese di entrare nella modernità e di stare, culturalmente, politicamente, economicamente, al passo con gli altri Paesi di democrazia liberale dell'Occidente capitalista. Non è l'elogio dell'antipolitica, oggi tanto di moda. Anzi. Ci mancherebbe, soprattutto da parte di un liberale. È, piuttosto, la denuncia dell'invasività della sfera pubblica nella sfera privata. La descrizione di come la nostra politica non sia più, e da tempo, ammesso lo sia mai stata, al servizio dei cittadini, ma li abbia posti al proprio servizio. Dello «Stato canaglia». L'eccessiva estensione della sfera pubblica — che la cultura statalista e dirigista tende a spacciare come veicolo di equità sociale — è, infatti, più accrescimento del potere degli uomini a essa preposti sulle libertà e sulle risorse dell'individuo, che criterio di governo. La leva fiscale, per alimentare una spesa pubblica riserva di caccia di interessi estranei a quelli generali, ne è lo strumento, anche se non il solo, di oppressione. Non occorre essere marxisti per sapere che lo Stato non è neutrale, ma è il braccio armato degli interessi di chi ne detiene il controllo, se non è controbilanciato da principi e interessi alternativi, fra loro in competizione. È sufficiente essere liberali. Del resto, in questo continuo confronto fra differenti concezioni del mondo, senza che nessuna abbia la pretesa di essere la Verità e di imporla agli altri, è dalla pluralità di interessi in conflitto — mitigato solo da regole del gioco che non consentano a nessuno di impedirne la libera manifestazione e la corretta realizzazione — che si sostanzia la società aperta. Il liberalismo non è una dottrina chiusa — che dice agli individui quale è il loro interesse e ne prescrive i comportamenti — ma la dottrina dei limiti del potere e della società aperta, all'interno della quale ciascuno si presume sappia quale è il proprio interesse e, di conseguenza, lo persegue in autonomia. Il guaio è che di liberalismo, nella vita pubblica degli italiani, non c'è traccia. E ci vorranno, forse, generazioni perché vi si affacci. Piero Ostellino 04 marzo 2009(ultima modifica: 18 marzo 2009) da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Un tuffo nel passato Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 03:58:00 pm IL «MANIFESTO DEI VALORI» DEL PD
Un tuffo nel passato di Piero Ostellino La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell'economia di mercato. Il Pd, «un partito aperto », «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze » che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell'individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente » benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili. Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale ». È l'anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale » il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l'Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l'aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe » cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite. «L'individuo, lasciato al suo isolamento— dice a questo punto il Manifesto del Pd— non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall'intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell'etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c'è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata. 11 gennaio 2008 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Con gli occhi a Pechino Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 12:49:20 pm NOI E LA CINA
Con gli occhi a Pechino di Piero Ostellino Negli anni Sessanta del secolo scorso, poco più di quaranta anni fa, la Cina di Mao e Lin-Piao — che si proponeva come centro propulsore della rivoluzione comunista mondiale — era ancora un problema politico e militare per le democrazie liberali, un antagonista ideologico per il capitalismo, un esempio per il Terzo Mondo. Oggi è un partner internazionale affidabile per il mondo libero, la prima potenza esportatrice con un avanzo commerciale di oltre 300 miliardi di dollari l’anno, un concorrente per i Paesi industrializzati, un'opportunità per quelli emergenti. A produrre il miracolo sono state — per dirla con la Banca Mondiale— «la libertà e capacità dei singoli nonché delle aziende di intraprendere transazioni economiche volontarie con gli abitanti di altri Paesi». In una parola: il mercato. La Cina è diventata quella che è perché ha messo la sua storica burocrazia al servizio di uno sviluppo capitalistico accelerato. Nel Settecento, il suo Pil era pari al 22,3 per cento di quello mondiale; oggi, la Cina è la quarta economia del mondo e un terzo della sua popolazione, di un miliardo e 300 milioni, è uscita dalla povertà. Nell' Ottocento, le sue città erano state divise in «concessioni », controllate dalle grandi potenze colonizzatrici; oggi, neppure Hong Kong è più una colonia britannica. Per quasi tutto il Novecento, le popolazioni urbane cinesi erano vissute in piccole abitazioni uni-familiari, col gabinetto in comune, di quartiere; oggi, vivono in appartamenti dotati di servizi igienici e in edifici che in qualche caso somigliano ai grattacieli di Chicago. La globalizzazione non solo è la manifestazione più larga della forza dell’economia ma risponde anche a un’esigenza di libertà dell'animo umano. Ora, però, essa pone i soggetti economici dei Paesi ricchi di fronte a nuove sfide e a nuovi pericoli. Il lavoratore, sindacalmente protetto, entra in concorrenza con l'idraulico polacco, che pratica prezzi più bassi; il finanziere deve confrontarsi con l'investitore privato lontano, che gode di condizioni di finanziamento più favorevoli fissate da una Banca centrale magari non indipendente dal potere politico; il produttore ha il problema di come conquistare un consumatore i cui gusti sono profondamente diversi dai suoi; l'imprenditore gareggia con un suo omologo (cinese, indiano, brasiliano) per il quale il costo del lavoro è decisamente inferiore. Ma con questa Cina non siamo obbligati solo a fare i conti, dobbiamo anche tifare perché la crisi non comprometta il processo di modernizzazione avviato negli anni scorsi. Così annotiamo con soddisfazione che il governo di Pechino ha varato il più ampio pacchetto di rilancio dell’economia, pari al 12% del suo Pil. Siamo portati a sottolineare come al recente G20 di Londra abbia giocato un ruolo decisivo per il successo del summit. E, infine, registriamo con un sospiro di sollievo la dichiarazione del premier Wen Jiabao che ci fa sapere come «le cose stiano andando meglio del previsto» e come l’obiettivo di riprendere a crescere almeno all’8% del Pil l’anno sia a portata di mano. La Cina è vicinissima. 21 aprile 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Il popolo dei litigiosi Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 11:10:58 am LE DIVERSE ANIME DEL CENTRODESTRA
Il popolo dei litigiosi Il Popolo della libertà rischia di diventare il «Popolo dei litigiosi », così come le divisioni fra post-comunisti e post-democristiani minacciano la sopravvivenza del Partito democratico? I distinguo «istituzionali» del presidente della Camera Gianfranco Fini — sul ruolo del Parlamento, sulle questioni etiche, sulla laicità dello Stato, rispetto alle esternazioni «populistiche », «neoconservatrici », «neoteologiche» di quello del Consiglio, Silvio Berlusconi—rivelano una frattura politica ovvero solo una diversità di ruoli? Le durezze della Lega — in materia di immigrazione, ronde, medici e presidi di scuola da trasformare in «informatori » della polizia contro i clandestini, rispetto al timido garantismo di Forza Italia — sono una deriva razzista, ovvero solo l’espressione delle differenze di linguaggio fra un movimento etnico e uno nazionale? Le prese di distanza di Piero Fassino— sui respingimenti degli immigrati, rispetto all’integralismo antigovernativo del segretario del Pd, Dario Franceschini — sono una manifestazione di moderazione degli ex comunisti, a fronte del radicalismo cattolico, ovvero la prova dell’incomunicabilità tra le due componenti del Pd? Il quadro politico è in movimento. Si tratta, però, di capire se sono scosse di assestamento, semplici tentativi di redistribuzione degli equilibri di potere all’interno dei due schieramenti, fisiologica ricerca di visibilità prima delle elezioni, ovvero le avvisaglie di una radicale ridefinizione, del sistema di alleanze sul quale si fondano sia la capacità della maggioranza di governare, sia la credibilità della minoranza di opposizione in Parlamento e nel Paese. Nel primo caso, si tratterebbe del tradizionale «teatrino della politica », fra l’indifferenza, se non il fastidio, della maggioranza degli italiani; nel secondo, si tratterebbe di una svolta culturale, del ripensamento delle proprie «concezioni del mondo» da parte delle molte anime che convivono all’interno dei due schieramenti. Personalmente, propendo per la prima ipotesi, quella della redistribuzione degli equilibri di potere. Parlare di svolta culturale sarebbe chiedere troppo a questa classe politica. Perciò sono anche convinto che, comunque, i giornali avrebbero qualche difficoltà a spiegare la seconda, quella della svolta, prigionieri come sono di una concezione e di una prassi informativa incentrate più sui retroscena di Palazzo che sull’analisi politica, cui, per dirla tutta, credo non sia estranea la stessa disaffezione della gente per la cosa pubblica. Il contrasto di idee non è un pericolo, ma un’opportunità. A condizione, però, che la si sappia cogliere. Incominciando col demolire quei «saperi assoluti », figli dell’«abuso sistematico della Ragione », che sono le ideologie salvifiche; con una sana iniezione di empirismo (nell’analisi della realtà) e di forte pragmatismo (nella formulazione delle politiche). Piero Ostellino 25 maggio 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Il messaggio del non voto Inserito da: Admin - Giugno 13, 2009, 09:19:10 am L’EUROPA E L’ASTENSIONISMO
Il messaggio del non voto Una buona regola di sociologia politica sarebbe di guardare all'esito delle elezioni, anche, se non soprattutto, dal lato della società (la struttura), delle scelte degli elettori, invece che solo, come si tende a fare, da quello del potere (la sovrastruttura), dei rapporti di forza che ne scaturiscono. Forse, sia il mondo della politica, sia quello dell'informazione ne capirebbero meglio il senso anche per il futuro. L'astensionismo è in aumento. Non è momentaneo disinteresse, contingente disaffezione. E' un partito. Che non rifiuta la Politica, ma fa politica nel solo modo che, ormai, è rimasto al popolo sovrano. E' in crisi la democrazia rappresentativa. Una parte crescente del popolo ritiene che i suoi rappresentanti (i politici) lo abbiano spogliato della propria sovranità, che non si limitino a «esercitare» il potere di governare — che rimane formalmente del popolo — ma governino ignorandone la sovranità e le domande. E' — non necessariamente un male — una nuova, e pacifica, forma di rivoluzione; che, però, potrebbe degenerare se la politica non ne tenesse conto. La stragrande maggioranza degli europei non ha ancora capito che cosa sia, e che cosa faccia, l'Europa; gode volentieri, come un fatto acquisito, dei benefici che essa offre — caduta delle frontiere fra un Paese e l'altro, moneta unica che facilita gli scambi e la libertà di movimento, stabilità finanziaria — e soffre, contemporaneamente, di tutto ciò che essa percepisce come un «sistematico abuso della Ragione », quello stesso abuso che ha generato i mostri del XX secolo: vocazione tecnocratica, pianificatoria, dirigista. La cui metafora è la barretta di cioccolato, con la quantità standard di cacao per tutta Europa decisa a Bruxelles. Non sa se l'Europa convenga o no; se sia al servizio della gente o se la gente sia al suo servizio. Nessuno lo dice; non perché sia difficile dirlo, bensì perché — questo pensano molti europei — prevale la retorica di maniera sulle «dure repliche della storia» (le sconfitte di un processo realmente federalista), sul senso comune (la realtà come è, non come si vorrebbe che fosse) e, forse, perché neppure conviene prendere atto che l'«Europa dei popoli» non è nata e, al suo posto, c'è un compromesso fra quella dei governi e l'eurocrazia di Bruxelles. Tutto ciò che vale, in negativo, per l'Europa vale per le situazioni nazionali. Con le sole eccezioni della Grecia e della Slovenia, i partiti socialisti o genericamente collettivisti, statalisti, dirigisti, keynesiani, escono sconfitti dalle elezioni. Eppure, classe politica, intellettuali, media, avevano attribuito al mercato la crisi economica fino al giorno prima, e invocato più Stato; che, poi, nella percezione della gente, che già ne soffre gli eccessi, vorrebbe dire più spesa pubblica, più sprechi, più parassitismo, più privilegi per la classe politica, più tasse. Il popolo si è rivelato più saggio dei suoi governanti. «E' la democrazia, bellezza », direbbe Humphrey Bogart. di PIERO OSTELLINO 13 giugno 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Quel difetto di modernità Inserito da: Admin - Giugno 29, 2009, 06:28:29 pm VIVERE DI PASSATO (E POCO DI FUTURO)
Quel difetto di modernità Nessuno sa quando e come usciremo dalla crisi. La ragione è che il mondo non procede verso un obiettivo razionalmente prevedibile, ma grazie a milioni di uomini che perseguono autonomamente i propri interessi non coordinati da una sorta di razionalità storica. È perciò che gli economisti paiono capaci solo di «predire il passato» e qualsiasi intervento della politica, che non si limiti a fissare le regole del gioco, rischierebbe di produrre altri danni invece di benefici. Per uscirne, e ripartire, l’Italia dovrebbe, piuttosto, riflettere sui propri ritardi e realizzare quelle riforme che l’aiutino davvero a modernizzarsi, come ha scritto ieri Mario Monti. Non c’è settore — sia dello Stato, sia del sistema produttivo, a parte certe piccole nicchie industriali — che non registri forti ritardi nell’innovazione. L’Italia della cultura, della politica, dell’economia ha fatto la sua rivoluzione industriale prima di essere una società civile strutturata. Rispetto alla gentry dell’Inghilterra agraria, diventata borghesia cittadina con la rivoluzione industriale e mercantile, e cosmopolita col colonialismo trionfante cantato da Kipling, l’Italia ha avuto i latifondisti reazionari raccontati da Verga, un capitalismo assistito, un nazionalismo tardo e straccione. Rispetto alla grande borghesia francese post rivoluzionaria — che, con l’Ecole politecnique e l’Ena, ha generato i commis di Stato repubblicani e democratici — la società italiana ha espresso una piccola borghesia post unitaria priva di coscienza di classe che ha rifiutato la modernità e, con essa, il capitalismo e la libera concorrenza, rifugiandosi nel corporativismo e nell’autarchia del fascismo, ieri; nell’assistenzialismo, nel protezionismo parassitario e nella burocrazia del pubblico impiego, poi. Ci siamo affacciati alla contemporaneità senza aver letto un libro — qualcosa di simile alla letteratura liberale inglese e francese sulla quale si sono formate le borghesie di quei Paesi — ma solo attraverso la televisione; che ci ha introdotti alla modernità «americana » senza aiutarci a entrare in quella «europea». La nostra etica pubblica è bigotta, moralista, pauperista; scimmiotta il puritanesimo anglosassone senza averne i fondamenti storici, sociali, religiosi, che ne legittimano politica e capitalismo. La nostra idea di democrazia — come si è visto negli ultimi tempi — coincide con lo scandalismo fine a se stesso, con il ribellismo alle regole, con il rivoluzionarismo velleitario che una minoranza esprime spaccando le vetrine e vorrebbe concretare in rivoluzione col benestare dei carabinieri. Nella sinistra riformista c’è chi ha elogiato la tassazione, per perpetuare l’eccesso di spesa pubblica e gli sprechi dello «Stato canaglia », non accorgendosi che i lavoratori, ora, votano a destra, dove i tributi non li si riduce, ma almeno non li si esalta. Il terrorismo di matrice rivoluzionaria ha ammazzato i riformisti che volevano fare dell’Italia un Paese liberale, democratico, giusto, e non se l’è presa con i conservatori che sullo statu quo ci campavano. postellino@corriere.it Piero Ostellino 29 giugno 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Una strana idea di democrazia (ma quale democrazia?). Inserito da: Admin - Luglio 10, 2009, 06:29:47 pm DI PIETRO E L’APPELLO SUI GIORNALI STRANIERI
Una strana idea di democrazia Se non è un tentativo di indurre Paesi terzi a interferire nella nostra politica interna, è una manifestazione di sfiducia nelle istituzioni repubblicane alle quali, come parlamentare, ha giurato fedeltà. Non ci sono altre parole per definire l’«appello» di Di Pietro alla «Comunità internazionale» — pubblicato a pagamento sull’Herald Tribune — affinché eserciti «la necessaria pressione per assicurare che i principi della libertà democratica e di indipendenza della Corte costituzionale siano sostenuti al fine di impedire che la democrazia in Italia si trasformi in una dittatura di fatto». L’oggetto della surreale iniziativa è il disegno di legge governativo detto lodo Alfano, oggi legge, che, come ogni altra legge della Repubblica, doveva essere votata dal Parlamento; controfirmata dal presidente della Repubblica, che, prima di promulgarla, se vi ravvisava un vizio di forma, poteva «con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione» (articolo 74 della Costituzione); infine, in quanto controversa, deve, ora, essere sottoposta al giudizio della Corte costituzionale che ne può dichiarare «l’illegittimità costituzionale », facendola decadere «dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (articoli 134 e 136). Il percorso della legge Alfano è, comunque, un esempio di democrazia costituzionale ancora più prescrittiva di quella di altri Paesi non meno democratici: divisione, separazione, indipendenza dei poteri esecutivo, legislativo, giudiziario (incarnato dalla Corte costituzionale), cui la nostra Costituzione aggiunge le prerogative del presidente della Repubblica. Già approvata dal Parlamento e controfirmata dal presidente, sarà giudicata, il 6 ottobre, dalla Corte costituzionale. Che, poi, come scrive Di Pietro nel suo appello, «secondo il pronunciamento di oltre 100 costituzionalisti, la legge Alfano sia stata definita incostituzionale perché viola l’articolo 3 della Costituzione italiana secondo il quale 'tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge' », è un’opinione legittima quanto quella contraria, rientra nel fisiologico dibattito politico democratico, ma non fa, evidentemente, testo. Antonio Di Pietro, come laureato in legge, ex magistrato, parlamentare, tutto ciò lo dovrebbe sapere. Se con l’«appello alla comunità internazionale » egli mostra di ignorarlo, vuol dire non solo che non sa che cosa sia la democrazia liberale, non solo che non crede che l’Italia lo sia, ma che ha un'idea della democrazia alquanto inquietante. Qui, la situazione giudiziaria di Silvio Berlusconi non c’entra. Siamo di fronte a un parlamentare che delegittima — oltre che una maggioranza di governo liberamente eletta, la qual cosa rimane ancora nei limiti del confronto politico — anche il Parlamento, il presidente della Repubblica e dubita persino della legittimità della Corte costituzionale, che potrebbe nei prossimi mesi respingere, senza scandalo, il lodo Alfano. Uno spirito, quello di Di Pietro, autoritario che mal sopporta, oggi, di fare politica dentro il perimetro costituzionale, e che così facendo getta anche qualche ombra sul suo passato di magistrato. Piero Ostellino 10 luglio 2009 Titolo: Piero OSTELLINO. Dalle proteste si passi a idee per innovare Inserito da: Admin - Luglio 21, 2009, 11:03:31 pm L’analisi Meglio aprire al mercato
Dalle proteste si passi a idee per innovare La logica che presiede al sostegno pubblico al mondo dello spettacolo è quella dello «Stato paternalista». Facilitare la produzione di circenses, finanziandone i produttori, ma riducendoli a mendicanti della carità politica. Sia il centrosinistra, collettivista e dirigista, sia il centrodestra, apparentemente liberale, vi individuano una fonte di consenso. Entrambi corporativi, sono entrambi statalisti e dirigisti. In nome di una malintesa socialità, il centrosinistra non vuole che le cose cambino; in omaggio alle ragioni di bilancio, il centrodestra si limita a variare, di volta in volta, l’entità del sostegno. Ad ogni misura che metta in discussione lo statu quo, anche il rivendicazionismo del mondo dello spettacolo è corporativo. Il difetto sta nel guardare al settore solo come produttore culturale, il che ne giustificherebbe l’abbandono alla libera competizione fra protagonisti, mentre è il volano di una parte, non piccola, dell’economia nazionale—da quella produttrice di beni e di servizi a quella del tempo libero e turismo— che attorno ad esso ruota. I 250 mila lavoratori (artisti, autori, tecnici, truccatori, agenti, amministratori) e le 6 mila imprese — peraltro divisi, gli uni e le altre, in una miriade di organismi di rappresentanza, secondo prassi corporativa — sono, in sé, meritevoli di rispetto e attenzione. Ma a creare ricchezza e occupazione sono (anche e soprattutto) i costruttori di impianti audio, video, luci; le società di produzione e di noleggio delle attrezzature e dei costumi, di trasporto, di facchinaggio, di pulizia; gli allestitori di spazi all’aperto, la ristorazione legata agli eventi (un esempio per tutti: gli spettacoli all’Arena di Verona e in altre città) e via elencando. In una lettera al presidente della Repubblica e in un documento pubblicato dal Corriere della sera, Andrèe Shammah, Marco Lucchesi e Vincenzo Monaci— dopo le rituali proteste per gli «inaccettabili tagli» governativi — sono arrivati al cuore del problema, proponendo soluzioni innovative. Estensione dello Statuto delle Piccole e Medie Imprese a quelle dello spettacolo; accesso al credito agevolato; agevolazioni per lo sviluppo, attraverso la defiscalizzazione e la detrazione per chi investe; creazione di strumenti a difesa dell’occupazione e di ammortizzatori sociali; applicazione della sentenza dell’Antitrust contro «l’illecito comportamento della amministrazioni pubbliche locali» che realizzano «direttamente il prodotto culturale anziché sostenerne la fruibilità sul territorio». Tali misure — scrivono ancora i tre rappresentanti dell’Antes (Associazione Nazionale Teatro e Spettacolo)— non dovrebbero sostituire «integralmente» il contributo in conto capitale (soprattutto) per quelle imprese «che producono e sperimentano in settori ad alto rischio economico». Ma quel (non sostituire) «integralmente» — che suona come (sostituire) «parzialmente»— apre le porte del mondo dello spettacolo al negoziato, al mercato, alla sua modernizzazione. Ministro Bondi, vogliamo rifletterci? Piero Ostellino 21 luglio 2009 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La solitudine dei «piccoli» Inserito da: Admin - Agosto 21, 2009, 11:18:52 am IL GOVERNO E L’AUTUNNO DIFFICILE
La solitudine dei «piccoli» Riferisce Il Sole 24 ore di ieri che i protagonisti «vitali » del nostro capitalismo sono finanziariamente sotto pressione a causa delle inadempienze nelle spettanze (i soldi) da incassare. Sono uno spaccato della maggioranza degli italiani. Che comprende i piccoli e medi imprenditori, ora nei guai, fuori dal circuito delle complicità pubbliche e private; commercianti al dettaglio; professionisti isolati; lavoratori del settore privato; precari; giovani. Se la cavano come possono — contro gli eccessi di regolamentazione, la burocrazia, i privilegi politici, l’eccessiva pressione fiscale, la carenza di infrastrutture, la filiera di complicità — affrontando le incognite e le durezze della vita, e del mercato, con coraggio e spirito innovativo. Sono la risorsa che fa dell’Italia ancora una società «aperta» e competitiva Salvo rare, e lodevoli, eccezioni, c’è, poi, la minoranza degli italiani: ciò che rimane della grande industria, pubblica e privata, barricata e protetta dietro la propria non contendibilità; il sistema creditizio che, di fronte alla crisi, se l’è cavata bene, molto per merito proprio, un po’ perché anch’esso protetto da una rete di interessi politici; i professionisti e i manager, inquadrati negli Ordini professionali; gli alti commis di Stato; i dipendenti pubblici, tutelati da un sindacalismo chiuso e miope; gli amministratori degli Enti locali attraverso i quali passa, ora, gran parte della corruzione. Nessuno di loro opera sul mercato. Sono le oligarchie che costituiscono la classe dirigente e i cui comportamenti sono ispirati al principio di conservazione. Fanno dell’Italia una sorta di «società pre-capitalistica ». Gli italiani della prima categoria sono anche la base sociale e il serbatoio elettorale del centrodestra. Ad essi Berlusconi aveva promesso la «rivoluzione liberale». Niente assistenzialismo, ma una radicale semplificazione legislativa che disboscasse la selva di leggi, regolamenti, licenze, divieti, che ne ostacolano la libertà d’azione; una forte riduzione fiscale, che lasciasse loro più risorse da destinare, oltre ai consumi, non solo alle proprie attività imprenditoriali — grazie alle privatizzazioni e alla deregolamentazione — ma anche alla produzione di beni collettivi, nella sanità, nella scuola, nei servizi, che ora, in prevalenza, lo Stato fornisce con grandi sprechi. Sarebbe bastato questo per far lievitare il Paese: ancora ieri la leader di Confindustria Emma Marcegaglia e il presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo hanno previsto un «autunno difficile» in mancanza di «misure indispensabili ». Ma la «rivoluzione liberale» Berlusconi non l’ha fatta. Perché, ieri, frenato dai suoi alleati (Udc e An) e per carenza culturale sua propria; perché ha continuato a strizzare l’occhio anche agli italiani della seconda categoria che, contrari a ogni cambiamento, votano in prevalenza a sinistra; per circostanze oggettive di fatto. Così il governo—col Paese privo delle condizioni normative che, almeno in parte, li avrebbero potuti scongiurare—fa ora i conti con gli effetti della crisi sul suo stesso elettorato. E quanto di bene ha fatto finora sembra non bastare più. Forse è tardi per rimediare, ma a Palazzo Chigi e dintorni farebbero ugualmente bene a rifletterci e, passata la nottata, a provvedere. Piero Ostellino 21 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. I pensionati e i loro diritti Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:23:21 am TROPPE TASSE SULLA PREVIDENZA
I pensionati e i loro diritti La pensione è una forma di salario differito o, se si preferisce, di risparmio forzoso, accumulato negli anni di attività. Poiché la pensione è reddito che il lavoratore non ha risparmiato volontariamente, ma d’autorità, ecco, allora, che lo Stato finisce con l’esercitare su di lui una doppia violenza: una sociale, l’altra fiscale. La prima, quando lo costringe a risparmiare una porzione del proprio reddito che, se ne avesse la disponibilità, potrebbe impiegare come meglio crede. La seconda, quando tassa la pensione, cioè quella stessa porzione di reddito che gli ha imposto di risparmiare. Giustizia vorrebbe che, subita la violenza sociale, il cittadino, almeno da pensionato, potesse disporre dei propri quattrini come vuole. Invece non è così. Lo Stato che obbliga il lavoratore a risparmiare è detto «paternalista» perché presume di sapere quale è il Bene dei cittadini meglio di quanto non sappiano essi stessi. In realtà, ne tratta solo alcuni — i lavoratori dipendenti cui preleva alla fonte la parte di reddito per la pensione — da bambini irresponsabili, nella convinzione che, lasciati liberi di decidere, non risparmierebbero, riducendosi, in vecchiaia, all’indigenza; mentre ne tratta altri — i lavoratori autonomi sul reddito dei quali non è in grado di esercitare lo stesso prelievo — come adulti, capaci di decidere liberamente e di provvedere responsabilmente al proprio futuro. Naturalmente, lo «Stato paternalista» non vuole affatto il Bene dei suoi figli; non è un Ente morale neutrale — altrimenti non si capirebbe perché persegua il Bene solo di alcuni e ne abbandoni altri — ma ubbidisce al solo principio che conosce chi ne ha il controllo, quale ne sia il colore: disporre, a propria discrezione, della maggiore quantità di risorse, prendendole dove può. Lo Stato che, oltre a prelevare forzosamente la parte di reddito a fini pensionistici, tassa anche la pensione, è detto «sociale». Esso giustifica sia il prelievo forzoso di una parte del reddito da lavoro, sia la tassazione della pensione per ragioni di «solidarietà». Il prelievo, per pagare le pensioni degli anziani — i cui «accantonamenti» non basterebbero — con i soldi di chi lavora; la tassa, per integrare la pensione di molti pensionati indigenti, fornendo loro beni e servizi che non sarebbero in grado di pagarsi. Ma neppure lo «Stato sociale» è un Ente morale neutrale. Esso impone il dovere della «solidarietà » ad alcuni e non ad altri, quando, per fini pensionistici, si appropria solo della parte di reddito dei lavoratori dipendenti; tradisce un elementare principio di «equità sociale », applicando alle pensioni le stesse aliquote dei redditi da lavoro. Esso ubbidisce alla stessa logica di cui si è detto. Forse, lasciando ai cittadini di disporre maggiormente del proprio reddito, si uscirebbe più rapidamente, e meglio, anche dalla crisi. Ma, allora, perché questo governo — che pur si dice liberale — non incomincia col detassare almeno le pensioni, in attesa di ridurre la pressione fiscale su lavoratori e imprese ai livelli promessi, e mai raggiunti? Piero Ostellino 12 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. L'imprenditore di Pordenone Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2009, 11:06:15 am LO STATO, IL FISCO, I CITTADINI
L'imprenditore di Pordenone Tommaso Padoa- Schioppa propone di celebrare il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia chiedendosi quale sia «lo stato dello Stato» («Si parli di Stato non di Nazione », Corriere di domenica scorsa). Accolgo volentieri l’invito. Questo è un esempio di «stato dello Stato» alla vigilia della discussione parlamentare sulla «Finanziaria senza tasse e tagli». Dal 1˚gennaio di quest’anno, un imprenditore di Pordenone, Giorgio Fidenato, versa ai propri dipendenti lo stipendio «lordo» senza le trattenute di legge (contributi Inps, Irpef ordinaria, addizionale regionale, addizionale comunale), avendo opportunamente avvisato l’Agenzia preposta — che insiste nel chiedergli di adempiere ai suoi obblighi — del rifiuto di esercitare la funzione di «sostituto di imposta». A fondamento della propria scelta cita in giudizio l’Inps, la Società di cartolarizzazione dei crediti Inps, Equitalia Friuli Venezia Giulia, adducendo ragioni di economicità, di diritto, di giustizia e equità sociale. Il quadro normativo in materia risale a una legge fascista del 1935 istitutiva dell’Ente previdenziale: «La parte di contributi a carico dell’assicurato è trattenuta dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta (...) L’imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti uguali alle istituzioni di previdenza e assistenza »; una legge della Repubblica del 1952 ripropone la distinzione fra i contributi a carico del lavoratore e del datore di lavoro. Su uno stipendio lordo complessivo di 2.449,06 euro, la parte «salariale» di contributi ammonta a 182,51 euro, quella «padronale» (che non appare neppure in busta paga) è di 463,34 euro; lo stipendio netto percepito — detratte anche le imposte — è di 1.465 euro. Scrive Pascal Salin, un economista liberale francese: «La parte padronale dei contributi sociali non è, dunque, un carico sopportato dalle imprese, essa è soltanto la parte del salario che il datore di lavoro non ha il diritto di versare direttamente al lavoratore (...) In questo senso la parte padronale è un’imposta sul salario pagata dal dipendente e di cui l’imprenditore è solo un esattore ». La totale ignoranza nella quale è tenuto il lavoratore circa le somme versate all’Inps violerebbe gli art. 2 e 3 comma 3 della Costituzione, ostacolando il pieno sviluppo della personalità umana; l’art.3 comma 1, che sancisce il principio dell’eguaglianza. Il lavoratore autonomo dichiara personalmente i propri redditi e ha pieno diritto di difendersi contro gli accertamenti del fisco (art. 24 e 113 della Costituzione); il lavoratore dipendente non ha gli stessi diritti. La pretesa dello Stato di trasformare l’imprenditore in esattore violerebbe sia l’art. 23 — «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge » nell’interpretazione che ne dà la stessa Corte costituzionale «a tutela della libertà e della proprietà individuale» — sia l’art. 41 della Costituzione («L'iniziativa economica privata è libera»). Scrive ancora Salin: «In tutte le imprese, degli uomini devono dedicare il proprio tempo a soddisfare le pretese del fisco (...). Una piccola ditta ha più difficoltà di una grande a far specializzare alcuni dipendenti del proprio organico». Tre lavoratori che ora percepiscono lo stipendio lordo — dopo non aver neppure ricevuto risposta su come adempiere ai propri obblighi tributari e previdenziali — hanno indirizzato all’Agenzia delle entrate un libretto al portatore con le somme dovute; l’Agenzia lo ha respinto in quanto «tale mezzo di pagamento non è ammesso dalla normativa vigente». Ma il rifiuto sarebbe in contrasto sia con l’orientamento della Corte di Cassazione che l’obbligato principale è il soggetto «sostituito» (il percettore del reddito), non il «sostituto di imposta» (il datore di lavoro), sia con l’art. 1180 comma 1 Codice civile sulla efficacia estintiva del pagamento effettuato da un terzo (che in questo caso è addirittura il beneficiario della prestazione previdenziale). Ha scritto lo stesso ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: «La contabilità fiscale è dunque diventata la forma moderna, ma non per questo meno odiosa, delle antiche corvées. Tra il sistema attuale delle compliances sociali e quello antico fatto dalle corvées e dalle gabellari servitù medievali, le analogie sono impressionanti, così come gli effetti paralizzanti » («Lo Stato criminogeno», ed. Laterza). A questo punto — se non vogliono apparire complici dello «Stato criminogeno» — sarebbe utile che la Confindustria e le altre associazioni di categoria, i sindacati, la sinistra, il governo, gli intellettuali, dicessero che ne pensano di questo «stato dello Stato», di «questo imbroglio, nelle parole del liberale Salin che condivido, tramite il quale gli uomini di governo sono riusciti a imporre il concetto bismarckiano di sicurezza sociale». È chiedere troppo? Piero Ostellino 24 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. LE TASSE E I VIZI ANTICHI DI UN PAESE Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2009, 09:53:24 am LE TASSE E I VIZI ANTICHI DI UN PAESE
Chi ostacola i ceti produttivi Ciò che auspica il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia — abbassare le tasse sul lavoro — mi sarebbe piaciuto constatarlo nelle politiche dei governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi negli ultimi anni. Ma non è avvenuto (anche se certamente si deve tener conto delle difficoltà in cui versano le casse dello Stato), quale ne fosse il colore. Anzi. C'è — come ha scritto il liberale Angelo Panebianco sul Corriere di domenica ma avrebbe potuto scrivere Karl Marx — un deficit di rappresentanza del ceto medio produttivo. Che il centrosinistra non s'è curato di intercettare e neppure il centrodestra è riuscito a colmare. Riguarda anche la Confindustria, accusata spesso di essere la rappresentante della grande industria, non delle aziende medie e piccole che sono il vero tessuto industriale del Paese. Ma, allora, chi impedisce alla politica di rappresentare in modo corretto la parte del Paese sociologicamente maggioritaria e produttivamente più attiva e di tutelarne, con gli interessi, le libertà e i diritti? Berlusconi — per giustificare i propri ritardi — se la cava mettendo dentro un calderone «di sinistra», oltre al Pd, la Corte costituzionale, la magistratura, il presidente della Repubblica, i giornali, le Tv (persino le sue), gli intellettuali. E' un artificio che può servire alla polemica politica, a mobilitare gli elettori della propria parte, ma che non aiuta a capire. Dovrebbero chiederselo partiti e uomini politici, la società civile. Qui, però, le cose si complicano e parlarne diventa urticante per parecchia gente. Ci sono interessi economici (industriali), sociali (le corporazioni, i sindacati, la burocrazia pubblica) e istituzionali (parte della magistratura) che si allarmano a ogni prospettiva di cambiamento. Estranei al pluralismo e alla libera concorrenza della democrazia liberale, gli interessi economici e sociali; espressione di una concezione di casta, quelli istituzionali, sono, assieme, il blocco sociale legittimato da un'intellighenzia di tradizione culturale neo-giacobina e azionista. Ma non occorre scomodare il pensiero di chi a tale tradizione ha fatto le pulci per dire che si tratta di un vero e proprio «ritardo » culturale. In che cosa consista, poi, tale ritardo è presto detto: nell'illusione, già coltivata nell'immediato dopoguerra dal Partito d'Azione, e perseguita ancor oggi dai suoi tardi eredi, di conciliare democrazia liberale e dirigismo; nel pasticciato compromesso costituzionale fra le due opposte dottrine; nella pretesa razionalistica di sapere qual è il Bene dei cittadini al punto di giustificare una fiscalità opprimente. Con uno di quei paradossi dell' Italia del Gattopardo, il ritardo si sostanzia, così, nel connubio fra il radicalismo «giacobino» e la parte sociale più reazionaria del Paese; nell'egemonia del giacobinismo sulla sinistra politica e nel sostegno che questa dà a chi si oppone alla modernizzazione del Paese. Se si guarda a tale anomalia, anche e soprattutto da una prospettiva di sinistra, la conclusione è che hanno fatto, e continuano a fare, più danni alla stessa sinistra, e al Paese, gli azionisti, vecchi e nuovi — smentiti dalle «dure repliche del senso comune» — dei comunisti, sconfitti dalle «dure repliche della storia». Piero Ostellino 15 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Il cammino da riprendere (Un altro pro-silvio). Inserito da: Admin - Novembre 05, 2009, 10:19:22 am UN’AZIONE PIU’ LIBERALE DEL GOVERNO
Il cammino da riprendere Se, nel 1994, Berlusconi non fosse entrato in politica, la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto avrebbe vinto le elezioni. Non è un merito da poco. Dovrebbero riconoscerglielo anche i postcomunisti. Che, se fossero andati allora al governo, non sarebbero approdati a un socialismo più democratico, anche se ancora pasticciato. E quando è finito in minoranza si è sempre riproposto come alternativa moderata e liberale. È un merito che la maggioranza degli italiani gli ha riconosciuto riportandolo al governo. Qualcuno dice più per debolezza dei suoi avversari che per forza propria; qualcun altro, per dabbenaggine degli elettori. Ma in democrazia — che piaccia o no — contano i voti. Al governo, ha gestito bene le «emergenze», la spazzatura in Campania, il terremoto in Abruzzo; in economia l’Italia ha retto meglio di altri Paesi la crisi finanziaria; in politica estera — anche se spesso ha ecceduto nell’attribuirsi meriti di mediatore mondiale che sarebbe stato difficile riconoscergli — ha intessuto eccellenti rapporti con due Paesi vitali per gli approvvigionamenti energetici dell’Italia, la Russia di Putin e la Libia di Gheddafi, nonché con quelli del Mediterraneo. Ha pagato, però, un prezzo, forse troppo alto, nel rapporto con Washington. È stato un «gestore di eventi» più che un uomo politico con una «certa idea dell’Italia » da realizzare con forte determinazione; pubblicamente liberale, gliene manca la personale convinzione. Da ex uomo d’affari, tende a confondere il Consiglio dei ministri col Consiglio di amministrazione di una società della quale è il presidente; a premiare chi gli è «fedele » più di chi gli è (solo) «leale»; è insofferente di ogni ostacolo — compreso il costituzionale equilibrio dei poteri — alla propria volontà, non per inclinazione alla tirannia, ma per naturale vocazione monopolistica. Tre sono le riforme «promesse e non realizzate » che il Berlusconi liberale dovrebbe impegnarsi ora a portare avanti per dare un profilo diverso alla legislatura. Quella fiscale (tre aliquote: zero, 23 e 33 per cento) e un taglio progressivo dell’Irap; quella della pubblica amministrazione (riduzione della spesa e semplificazione legislativa); quella giudiziaria (separazione fra pubblico ministero — interprete del monopolio della legittima coercizione statuale — e il Giudice, garante dei diritti dell’Individuo). Finora questo spirito riformatore e liberale si è visto poco. Per molte ragioni e non solo per demerito del governo. Hanno pesato i ritardi culturali del Paese; le resistenze corporative e le vischiosità istituzionali; la crisi economica. Né il centrosinistra, una volta al governo, ne sarebbe immune. Ora, Berlusconi ha l’opportunità di rilanciare l’azione liberale e riformista del suo governo. Se lo farà, darà ragione a quegli elettori che, sognando il cambiamento, lo hanno scelto perché «anti-italiano» e non, come qualche volta appare, «arci-italiano ». Piero Ostellino 05 novembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Gli ostacoli alla crescita Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 03:56:55 pm IMPRESE, BUROCRAZIA E SEMPLIFICAZIONE
Gli ostacoli alla crescita Almeno per quel che ci riguarda, non è vero che la crisi economica sia la conseguenza di una mancanza di regole e della conseguente anarchia del mercato. E' vero il contrario. La cultura dirigista, che non si chiede mai «come» stanno le cose, ma preferisce immaginarle come vorrebbe che fossero, ha la stessa «lingua di legno» a tutte le latitudini. Ai tempi della Grande menzogna sovietica — stravolgendo persino Marx — chiamava «dittatura del proletariato » la dittatura del Partito comunista; ora, anche negli Stati Uniti, la stessa cultura giustifica l'interventismo pubblico in economia— che gonfia il disavanzo federale per salvare coloro i quali (too big to fail) sono i finanziatori delle campagne elettorali di ogni presidente di turno — accampando la salvaguardia dei posti di lavoro di quegli stessi cittadini che, con le loro tasse, pagano, oltre gli errori dello Stato (la Fed), il salvataggio di chi li ha derubati. Il nostro ministro dell' Economia ci ha risparmiato un ulteriore saccheggio della finanza pubblica stringendo i cordoni della borsa. Questo perché le nostre banche hanno retto meglio alla crisi finanziaria; e lo Stato — malgrado l'elevata pressione fiscale — non può permettersi spese ulteriori. Ma restano i problemi, strutturali, che risalgono a prima della crisi, agli inizi degli anni Duemila: bassa crescita della produttività, poca internazionalizzazione. I costi che le aziende devono sostenere— di produzione, nelle reciproche transazioni e burocratici—sono elevati e non più compensati dal basso costo del lavoro (per la concorrenza dei Paesi emergenti) e dalle svalutazioni competitive (per i vincoli europei). «Adesso le imprese, quando vogliono collocare i loro prodotti sui mercati globali, possono contare solo sulla qualità di quello che offrono» (Federica Guidi, in «Dopo! Come ripartire dopo la crisi», Ibl- Libri, pagg. 196, 22 euro). Ma le leggi sono troppe e spesso contraddittorie; cambiano in continuazione e producono incertezza del diritto; la risoluzione in via giudiziaria delle controversie è lenta. Presidente Berlusconi, lei da imprenditore, prima che da politico, queste cose le sa meglio di noi. Ha persino nominato un ministro affinché vi provveda. Sono indilazionabili, e non costano: 1) la semplificazione amministrativa che riduca il numero degli adempimenti burocratici (compreso il pagamento delle tasse, costano alla Piccola e media impresa 16,2 miliardi l'anno); 2) la semplificazione normativa, che riduca il numero di leggi dello Stato e di regolamenti degli Enti locali (facilitano la diffusione della corruzione); 3) l'incremento della produttività del sistema giudiziario civilistico (i tempi lunghi scoraggiano gli investimenti esteri). Ministri Calderoli e Alfano, se ci siete battete un colpo. Il welfare è vecchio, costoso e inadeguato. «La proposta Ichino in materia di protezione sociale — scrive Piercamillo Falasca nello stesso volume dell’Ibl-Libri — appare una buona traduzione in versione italiana del modello danese: nelle imprese disposte a farsi carico per i propri dipendenti di una sicurezza nel mercato del lavoro a livello danese, si applicherebbe anche una disciplina dei licenziamenti di tipo danese». Tremonti dice inoltre che «le pensioni non si toccano». Per una volta, Presidente Berlusconi, lo contraddica. È urgente «una Maastricht previdenziale» (si va in pensione troppo presto rispetto alla media Ue e la spesa assorbe un eccesso di risorse rispetto ad altre prestazioni). Ci sono poi gli sprechi: nella Sanità, nella Pubblica amministrazione, nella Scuola, nella Giustizia, soprattutto al Sud, non si contano. Presidente Berlusconi, guardi al nostro Meridione non solo come una risorsa, ma anche come un problema. Siamo, con la Francia, il Paese col più alto livello di pressione fiscale. «In Italia, le imprese devono sopportare una tassazione di circa 20 punti superiore a quella del Giappone, un differenziale di 27 punti percentuali rispetto all’Ue e di oltre 30 punti rispetto agli Usa» (Andrea Giuricin, «Complessità e onerosità del sistema fiscale», ibidem). «La tassazione rappresenta in sé un restringimento della libertà di mercato: più alto è il carico fiscale sulle imprese e sui cittadini in generale, più elevate saranno le barriere di ingresso, a discapito di potenziali concorrenti interni ed esteri... Una tassazione elevata disincentiva inoltre gli investimenti, frenando la spinta all’innovazione» (ibidem). Presidente Berlusconi, ricorda che ci aveva promesso tre aliquote, zero, 23, 33%? Il Paese ha bisogno di uno scatto. Piero Ostellino 26 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La realtà offuscata Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2009, 10:25:47 am DIETRO LE DIVISIONI POLITICHE TRA I LEADER
La realtà offuscata Dice il Papa: «Ogni giorno, attraverso i giornali, la televisione, la radio, il male viene raccontato, ripetuto, amplificato ». Ma se è la notizia che crea l’evento (non viceversa); se le percezioni prevalgono sui fatti; se gli stereotipi semplicistici e sentimentalmente colorati su avversari e alleati offuscano la vera natura dei rapporti, il mondo si polarizza e la politica si militarizza. Questa è l’Italia della «guerra civile » fra centrodestra e centrosinistra, del «conflitto» fra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi nella maggioranza, della «distanza» fra Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro nell’opposizione. Per sostenere che Fini ha «una certa idea della destra» opposta a quella di Berlusconi, sarebbe necessario accertare se quello che dice sia un pensiero organico o non siano invece giudizi contingenti, per quanto fuori linea, su singoli eventi. Per sostenere che Berlusconi ha «una certa idea della destra», diversa da Fini, sarebbe necessario accertare se ne abbia (almeno) una. Forse, una «certa idea della destra» non l’hanno né l’uno né l’altro. Un discorso analogo si può fare per Bersani e Di Pietro e sull’idea che entrambi hanno sul ruolo dell’opposizione. E altrettanto si può dire della «guerra civile» fra centrodestra e centrosinistra, privi entrambi di «una certa idea dell’Italia», ma ugualmente bisognosi di legittimazione etico-politica, non fosse che per contrapposizione. Che Fini sopporti male come Berlusconi governa il Pdl è un fatto. Lo vorrebbe una «monarchia costituzionale » mentre ha la sensazione, e non la nasconde, che sia una «monarchia assoluta ». Come lui la pensano altri nel Pdl. Ma non lo dicono o lo dicono flebilmente. Berlusconi, del resto, sembra avere una singolare difficoltà ad ascoltare persino chi gli è vicino, figuriamoci gli avversari; dopo pochi istanti, attacca lui e all’interlocutore non resta spesso che «prendere o lasciare». Nel mondo delle aziende, da cui viene il premier, può essere utile o addirittura necessario che «il titolare» abbia — con l’ultima parola — anche la prima. In politica, non sempre lo è. Che Bersani sopporti male come Di Pietro interpreta il ruolo dell’opposizione, è un altro fatto. Egli — che ha militato nel Pci, che aveva una ben definita, ancorché discutibile, cultura politica, laddove Di Pietro non ne ha alcuna — vorrebbe che l’opposizione facesse politica, mentre il suo compagno di strada fa solo cagnara. Ma in tutti questi esempi, ci troviamo, a ben vedere, sul terreno della psicanalisi. Se, invece, ci si addentra su quello della politica si scopre che le differenze sono minori. La percezione che, dentro e fuori il Pdl, si accredita della fronda di Fini offusca il fatto che egli appoggia ciò che più conta per Berlusconi: le iniziative parlamentari in materia di giustizia per metterlo al riparo dei suoi processi. La percezione che, dentro e fuori il Pd, si ha di Bersani, rispetto a Di Pietro, offusca il fatto che Pd e Idv raccolgono ancora consensi sull’onda di Tangentopoli e che il Pd non manifesta alcuna intenzione di rivedere il proprio pensiero su Mani pulite. Il severo giudizio del Papa sui media insomma è giusto. Per conoscere il mondo, occorre chiedersi «come è», non come «ci immaginiamo che sia». E se incominciassimo proprio noi giornalisti? postellino@corriere.it Piero Ostellino 10 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La rivoluzione che non c'è Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2009, 05:25:20 pm Il centrodestra e le riforme liberali
La rivoluzione che non c'è Marcello Pera mette il dito sulla piaga delle riforme «condivise» («Rivoluzione liberale per le riforme - L'Italia non finirà nella bozza Violante», Corriere di ieri). Parliamo della cultura politica sottesa alla nostra Costituzione, quando marxisti e cattolici sociali credevano che collettivismo e dirigismo avrebbero salvato il mondo dalle ingiustizie e gli azionisti si illudevano di conciliare comunismo e liberalismo. Ancora nel 1956, Norberto Bobbio — un grande liberale e un convinto azionista— faceva l'elogio della pianificazione sovietica nel libro («Politica e Cultura») sul quale si sarebbero formate generazioni di intellettuali. Come siano andate, poi, le cose nel mondo, si è visto; e, ciò nonostante, come continuino ad andare in Italia è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Che piaccia o no, la discriminante fra riforme «modernizzatrici» e riforme «condivise» rimanda, dunque, a un malinteso «spirito della Costituzione». Non a caso, l'ex presidente del Senato mette a confronto le due riforme, quella «a maggioranza» (che egli auspica liberale) e quella «condivisa» (che riproporrebbe l'antico compromesso). Il problema non è, perciò, di chiedersi se la sinistra di Pier Luigi Bersani sia ancora comunista— il che sarebbe un nonsenso e porterebbe a respingere ogni ipotesi di intesa— bensì se sia pronta a fare riforme «condivisibili» sul terreno già percorso dalle socialdemocrazie europee. Il ripudio della subordinazione dell’individuo alla collettività — un'astrazione ideologica condannata da Max Weber e al riparo della quale la politica rapina risorse agli individui in carne e ossa — e l'accettazione di un minimo di cultura liberale che faccia cadere definitivamente, anche da noi, il Muro del ritardo culturale e politico. Liberalismo non vuol dire mercato senza regole, indifferenza all'interesse generale. Nelle democrazie socialiste dell'Europa del Nord— socialmente più avanzate della nostra «fondata sul lavoro» — lo Stato sociale non è la versione moderna dello Stato etico, il «padre-padrone», bensì un «servizio» reso a uomini, liberi e responsabili, quale corrispettivo delle tasse che pagano. Riforme «condivise» dovrebbe voler dire essere d'accordo sui fini — i principi generali— nella convinzione che, sui mezzi (le politiche dei governi), la mediazione e il compromesso siano possibili e accettabili. Chiamarle «inciucio» la dice, invece, lunga sulla cultura politica degli italiani che sugli inciuci ci campano. Perciò, dopo quindici anni che ne parla, è certo che il centrodestra voglia fare una «rivoluzione» che accresca davvero le libertà degli italiani? Non rafforzerà solo i poteri di decisione del governo, col rischio che, poi, un esecutivo più forte, quale ne sia il colore, faccia, per le libertà, ciò che hanno fatto tutti gli ultimi, deboli, governi, cioè poco o niente? Piero Ostellino 29 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. L’APPELLO DEL PAPA E L’ECONOMIA DI MERCATO Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2010, 10:00:01 am L’APPELLO DEL PAPA E L’ECONOMIA DI MERCATO
Il senso di colpa del capitalismo All’Etica universalistica della Chiesa in difesa dei più deboli — questo il significato profondo dell’appello del Papa al senso di responsabilità di politici e imprenditori di fronte alla crescente disoccupazione — una parte del mondo dell’impresa ha risposto con il moralismo degli uomini di buone intenzioni che, per dirla con Benedetto Croce, «sono nient’altro che ipocriti». È ipocrita il Capitale che denuncia carenza di etica nell’economia di mercato, si autodefinisce «sociale» e demonizza il capitalismo anglosassone «orientato al profitto ». Persegue però questo profitto con analogo accanimento al riparo dalla concorrenza, grazie alla non contendibilità delle imprese—che ne alimenta e protegge le inefficienze — e al corporativismo delle professioni che, associato al conservatorismo dei sindacati, ostacola l’ingresso ai giovani e penalizza il merito. Sopravvive, inoltre, come rendita — concessioni e licenze di Stato—e con i sussidi governativi alla vendita di prodotti poco competitivi sul mercato e fa pagare a correntisti e imprese servizi bancari fra i più cari d’Europa. L’eticizzazione della politica e dell’economia, da parte della Chiesa, è nell’ordine delle cose di un sistema teocratico; è, da parte di uomini politici e partiti, la teoria e la prassi dei Paesi totalitari. Ma nel mondo dell’impresa è una contraddizione in termini. La rivoluzione marginalista ha introdotto, nell’apprezzamento di un bene, i concetti «qualitativi» (soggettivi) di utilità e di scarsità, rispetto a quello «quantitativo » (oggettivo) di valore- lavoro dell’economia classica. Ma, con il concetto di «utile», ha anche teorizzato il ruolo della scelta e dell’interesse nell’economia, distinguendo la volontà «pratica», che coincide col fine individuale, da quella «morale» che trascende in un fine universale. «Il fatto economico — scrive Croce — è l’attività pratica dell’uomo, in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni determinazione morale o immorale». Ma, attenzione: non indipendentemente dalle regole né dalla naturale socievolezza degli uomini (la «simpatia» di cui parla Adam Smith). Nel 1765, un pensatore liberale finlandese, Anders Chydenius, già ne aveva parlato, scrivendo che la nazione «è costituita da una moltitudine di persone che si sono unite per assicurarsi la propria prosperità e quella dei propri discendenti sotto la protezione del governo (...). I nostri bisogni sono vari e non c’è mai stato nessuno in grado di procurarsi anche i beni di prima necessità senza l’aiuto di altre persone, e non esiste quasi nessuna nazione che non abbia bisogno delle altre» (La ricchezza della nazione, liberilibri). In definitiva, la responsabilità «sociale» dell’imprenditore sta tutta qui: nel fare il proprio mestiere all’interno di una cornice normativa che ne massimizzi — disciplinandone la libertà di intrapresa — le capacità. Che, nell’era della globalizzazione, si traducono in innovazione e competitività. Piero Ostellino 08 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. La selva oscura delle procedure Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2010, 03:16:23 pm Privatizzazioni senza mercato
La selva oscura delle procedure Le vicende giudiziarie della Protezione civile dovrebbero far riflettere classe politica e media sullo stato di salute della nostra Pubblica amministrazione. Ma nessuno ne parla. Non ne ha interesse la classe politica perché — quale che sia il colore — ne trae beneficio. Le «privatizzazioni» degli Enti pubblici locali produttori di servizi e beni collettivi le hanno consentito di trasferire alle proprie clientele periferiche la collusione fra politica ed economia dalla quale ricavare consenso e finanziamenti. Non ne sono interessati i media perché poco propensi a occuparsi dei rapporti tra Pubblica amministrazione e cittadino. A parlarne, inascoltato, è quasi solo Dino Cofrancesco, docente di Diritto amministrativo e urbanistico all’Università di Genova. Uno dei pochi liberali in circolazione. Secondo Cofrancesco, con le modifiche strutturali e di funzionamento dell’Amministrazione, sono aumentate la discrezionalità amministrativa a scapito della legalità e la gestione concordata o contrattata tra enti diversi a scapito della ripartizione di competenze definite da rapporti gerarchici e di controllo. Le riforme, invece di produrre chiarezza e semplificazione, hanno prodotto complessità e confusione, conflitti di competenza, ritardi nell’esecuzione dei provvedimenti. È parte del problema richiamato in un recente saggio ( È possibile realizzare le infrastrutture in Italia?, Il Mulino) anche da Alfredo Macchiati, un dirigente delle Ferrovie dello Stato, e da un giurista di rango come Giulio Napolitano. Macchiati e Napolitano ricordano «il progressivo aumento del decentramento istituzionale, non accompagnato da una chiara definizione delle responsabilità». A complicare tutto, scrivono, si aggiunge un «contenimento dei finanziamenti pubblici non sostituito da un quadro di regole capace di attrarre investimenti privati». È su questo sfondo che Cofrancesco nota un ulteriore corto circuito: le privatizzazioni senza mercato hanno trasformato in monopoli privati i monopoli pubblici che, se non altro, dovevano sottostare ai controlli pubblicistici di legge. Con le società a controllo pubblico, scrive il docente, «è venuto anche meno il "fastidio" dei pubblici concorsi o delle procedure per verificarli». E conclude dicendo che le riforme hanno ulteriormente penalizzato il cittadino ponendolo di fronte alla scelta «prendere o lasciare», ovvero di ricorrere alla via giudiziaria. Ma, a limitare anche questa opportunità, provvede una legge che, cancellando il principio di legittimità legislativa, assegna alla Pubblica amministrazione poteri dispotici. Il cittadino non ha, infatti, alcuna possibilità di ricorrere contro atti affetti da «vizio di legge» se — indipendentemente dal fatto che le procedure siano state o no rispettate — il contenuto del provvedimento sarebbe stato lo stesso (!). Ciò in base all’art. 21 della legge 241 del 1990 inserito dalla legge n. 15 del 2005. Nessuno ha qualcosa da dire, oltre al convenzionale e sterile scandalismo del momento? Eppure, l’occasione sarebbe propizia… Piero Ostellino 22 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. L'equilibrio tra politica e giustizia Inserito da: Admin - Marzo 01, 2010, 01:23:14 pm L'equilibrio tra politica e giustizia
Il buon senso dello Stato Con il consueto equilibrio e anche con crociano realismo, il presidente della Repubblica ricorda alle parti in causa — Berlusconi che li chiama «talebani»; i magistrati che potrebbero replicargli vivacemente — che «la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio del cittadino, l'amministrazione della Giustizia (...) non può trarre alcun giovamento da esasperazioni polemiche». È il passo della lettera di Giorgio Napolitano al suo vice nel Consiglio superiore della magistratura che adombra l'inconciliabilità fra il modo di guardare alla Giustizia del presidente del Consiglio e di una parte della magistratura. I giornali hanno riferito che il magistrato che tiene in carcerazione preventiva alcuni inquisiti avrebbe dichiarato l'intenzione di non scarcerarli perché non hanno manifestato segni di «pentimento». Con la carcerazione preventiva si scongiura il pericolo di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove, di fuga da parte dell'inquisito. Il mancato pentimento non figura fra le sue motivazioni giuridiche. È evidente, allora, che la cultura del magistrato in questione è più simile a quella di un prete, o di un rivoluzionario — che perseguono la «salvezza» del peccatore (o del reazionario); l'uno con la confessione, l'altro con la ghigliottina — che a quella di uno Stato di diritto che si limita ad applicare la legge. È una cultura della redenzione. Che non si limita a governare gli uomini «come sono», con le leggi, ma li vuole «migliorare»; quella religiosa, grazie alla Fede, nella prospettiva metafisica dell'aldilà; quella rivoluzionaria, nell’aldiqua, grazie al surrogato materialistico della Provvidenza che è la rivoluzione. Se Berlusconi fosse davvero liberale, sottolineerebbe la distinzione — che il moderno Stato di democrazia liberale fa — fra Diritto ed Etica; emetterebbe in luce la contraddizione in cui incorre una parte della magistratura quando confonde i due piani. Egli, invece, non delimita il tema della Giustizia, e dei suoi rapporti con la politica, alle differenze fra cultura politica liberale (e laica) e della redenzione (e metafisica); ma trasferisce le sue personali vicende nel Paese, spaccandolo, come vuole l'opposizione, fra berlusconiani e antiberlusconiani, anziché fra liberali e illiberali; porta in Parlamento le sue ragioni processuali, vanificando ogni prospettiva di accordo con la stessa opposizione che, su questo terreno, non lo può evidentemente seguire. Con la campagna «l’amore vince sempre sull’invidia e sull'odio» — ponendosi sullo stesso piano, esclusivamente etico, di quella parte della magistratura che accusa — alimenta la confusione fra Etica e Politica e il conflitto fra estremismo giustizialista e moderatismo indifferente che dividono gli italiani. Un Paese che— sia a livello di cultura politica sia a livello di cultura giuridica— divide ancora il mondo in «buoni» (della propria parte) e «cattivi» (dell'altra parte), anziché giudicarli colpevoli o innocenti secondo la Legge, è irrimediabilmente pre moderno. postellino@corriere.it Piero Ostellino 01 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Una democrazia un po' malata Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 09:03:58 am INTERCETTAZIONI UTILI E VIZI SPIATI
Una democrazia un po' malata La nostra democrazia è malata. Di intercettazioni? Lo sostiene la maggioranza di governo, che vi intravede una «congiura » ai propri danni. Lo nega l’opposizione, che vi ravvisa (anche) un’opportunità per criticare la politica dell’avversario, e persino i «vizi privati» dei suoi rappresentanti. Che le intercettazioni siano utili per combattere il crimine è indiscutibile. Ma è anche indiscutibile che siano pericolose se usate per denunciare l’immoralità (i vizi non sono reato). Circoscrivere la malattia all’utilizzo delle intercettazioni, da parte della magistratura, e alla loro divulgazione, da parte dei media, è, però, riduttivo. Il male oscuro di cui soffre la nostra democrazia è una «malattia dell’anima » degli italiani. Ne ha già contagiati molti; minaccia di contagiarne altri. Dice Antonio Di Pietro: «Chi non ha nulla da nascondere non deve temere le intercettazioni ». Non è sorprendente che lo pensi un ex poliziotto; è anomalo che ci creda un ex magistrato; è inquietante che lo dica un parlamentare della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista. È la stessa sindrome della quale sono morte le democrazie, in Italia, in Spagna, in Germania, nel Ventesimo secolo. Si violano le libertà individuali, per il Bene comune; e si finisce con uccidere la democrazia. I cittadini della Germania comunista — come ha raccontato il film «Le vite degli altri» — erano preoccupati, e indignati, dell’intrusione delle intercettazioni telefoniche nella loro vita privata da parte della polizia politica (la Stasi). In Italia, gran parte degli intellettuali, dei media, della classe politica, dei cittadini comuni è entusiasta dell’idea di sapere che cosa pensano, e dicono al telefono, «gli altri ». Ma la divulgazione delle intercettazioni, anche in presenza di fumus criminis, è persino una violazione della sfera privata, nonché dei suoi diritti, anche dell’inquisito, per non parlare di chi ne è esente. Da noi, si ritengono «utili» le intercettazioni e «giusta» la loro divulgazione in nome di una non meglio precisata Etica pubblica. I tedeschi orientali sognavano l’eliminazione delle intercettazioni, e l’hanno salutata come una liberazione alla caduta del Muro che aveva separato il mondo dell’oppressione da quello della libertà. Molti italiani ne auspicano l’aumento e plaudono alla loro divulgazione come una garanzia democratica. Nella loro testa non è ancora caduto il Muro che dovrebbe separare l’idea di libertà, e di moralità, individuali da quella di «Stato- papà-padrone» che veglia sui propri figli, ne punisce, e ne corregge, i difetti con le intercettazioni e la loro divulgazione. Che, poi, la «malattia dell’anima » sia sintomatica di una malintesa idea di democrazia liberale, come utopico sistema di «perfezione» morale e politica, nulla toglie alla sua pericolosità. Tornano alla mente le profetiche parole di Karl Popper, che pochi italiani conoscono, forse, neppure apprezzano e sulle quali sarebbe bene, invece, meditare: «È un comportamento arrogante tentare di portare il paradiso sulla terra, giacché in tal modo riusciremo solo a trasformare la terra in un inferno. E, se non vogliamo che ciò accada, dobbiamo abbandonare i nostri sogni di un mondo perfetto». Piero Ostellino 23 marzo 2010 da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. L'illusione dei centristi Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:36:34 am LA DURA REALTA’ DEL BIPOLARISMO
L'illusione dei centristi Che piaccia o no, in democrazia, la sola cosa che conta sono i voti; vince, e governa, chi ne ha di più. Se, poi, il sistema politico è bipolare, costituito da due schieramenti tendenzialmente chiusi, il destino cui è condannato chiunque voglia fare loro da spalla è la subalternità politica e l’annacquamento della propria identità etico-politica. E’ questo il caso dell’Unione democratico- cristiana (Udc) di Pier Ferdinando Casini. Ma anche, sull’altro versante, dei partiti e movimenti dell’estrema sinistra, ridimensionati prima dalla «vocazione maggioritaria » e poi dall’alleanza del Partito democratico con l’Italia dei valori (Idv) di Antonio Di Pietro. Ed è infine il caso della formazione di Francesco Rutelli e Antonio Tabacci, nata dalla secessione dal Pd per incompatibilità sia con i post-comunisti sia con i post-democristiani di sinistra. La speranza di Casini di adottare elettoralmente il modello dei «due forni», giocandosi le proprie carte, di volta in volta, e di situazione in situazione, fra centrodestra e centrosinistra, è destinata a infrangersi contro le dure leggi del bipolarismo. Nel migliore dei casi, la speranza ha una qualche ragione d’essere solo se la cultura politica, e di governo, del «forno» cui ha portato i propri voti è omogenea a quella dei propri elettori; se non lo è, si espone a essere da loro rinnegata. Nel peggiore dei casi, l’Udc o ne condivide la sconfitta o il suo apporto, in caso di successo, non ne condiziona la politica. L’oscillazione fra i «due forni» è la perdita secca della propria identità. Vittime di una sorte ancor peggiore sono i partiti e i movimenti di estrema sinistra e, sul versante moderato, il movimento di Rutelli e di Tabacci. Qui, non si profila neppure la possibilità, per gli uni, di condizionare la politica del Pd; per l’altro, di adottare la politica dei «due forni» di Casini. Per la sua stessa natura, il bipolarismo esclude la sopravvivenza sia di partiti marginali, all’estremità del quadro politico, sia di un movimento che si affacci alla ribalta in un contesto già politicamente sovrappopolato ed elettoralmente coperto. Parafrasando il ministro della Difesa di Franceschiello — che escludeva di poter entrare in guerra «se non ci stanno denari»—si potrebbe dire che essi non hanno alcuna possibilità di successo «perché non ci stanno i voti». Ma anche affermare la propria identità etica e politica è difficile, a fronte dei due schieramenti del bipolarismo che tendono a conquistare consensi al centro. Non ci riusciranno certo partiti e movimenti che si ispirano ancora al comunismo né piccole formazioni centriste come l’Api (Alleanza per l’Italia) che vorrebbero incalzare un’Udc già indebolita o addirittura il Popolo della libertà, zeppo di ex democristiani ed ex socialisti. La fragilità delle illusioni di Casini, e di Rutelli- Tabacci, può far riflettere anche quella parte dell’establishment industriale e finanziario che credeva, in nome di un centrismo nello stesso tempo moderno e moderato, di avervi individuato uno spazio di cultura politica, alternativo a centrodestra e centrosinistra. Anche perché a tutti è chiaro che, in democrazia, e ancor più in un sistema elettorale maggioritario, i voti si contano, non si pesano. postellino@corriere.it Piero Ostellino 01 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Una difesa laica del Papa Inserito da: Admin - Aprile 14, 2010, 02:55:39 pm Una difesa laica del Papa
All'origine dell'aggressione cui sono sottoposti la Chiesa, e lo stesso papa Benedetto XVI, sul tema della pedofilia in ambito ecclesiale, ci sono un pregiudizio razionalista e una violenza giacobina: si pensi alla «peste pedofila » di cui parla Paolo Flores d'Arcais, che prefigura la dannazione per volontà popolare dell'«untore » di manzoniana memoria. Sono toni cui dovrebbe essere estranea la stessa cultura laica. Che non è negazione della religione, ma cavourriana separazione tra le leggi e i comandamenti, tra lo Stato e le istituzioni ecclesiastiche. Il pregiudizio razionalista tende invece a cancellare la distinzione kantiana, e liberale, fra peccato e reato; pretende di assimilare, «omologare», i comportamenti della Chiesa a quelli della società civile, negandone la specificità spirituale, codificata nel diritto canonico, ben diverso da quello positivo dello Stato secolarizzato. La Chiesa, che condanna il peccato e perdona il peccatore pentito, ha commesso in passato (anche con Papa Wojtyla) molti errori in materia di pedofilia ecclesiale. I reati andavano denunciati con coraggio, mentre varie forme di reticenza hanno contribuito a peggiorare la situazione. Tuttora gli atteggiamenti, spesso confusi e contraddittori, di alcuni rappresentanti del clero non aiutano a far chiarezza. Quando risuonano paralleli impropri con le persecuzioni antisemite, o si stabiliscono arbitrarie correlazioni tra omosessualità e pedofilia, si ha l'impressione che papa Ratzinger vada tutelato anche dalle sortite incaute di alcuni alti prelati. Resta il fatto che non si può chiedere alla Chiesa di rinunciare a uno spazio autonomo di analisi e di giudizio, che è tutt'altra cosa dalla pretesa di sottrarre i propri membri all'imperio della legge. Lo Stato e la Chiesa hanno missioni diverse e la pretesa di cancellare questa feconda differenza danneggerebbe entrambi. Si sta manifestando, inoltre, un vistoso paradosso. A essere oggetto degli attacchi più aspri è proprio l'attuale Pontefice, che ha il merito indubbio di aver fatto opera di trasparenza all'interno della Chiesa, su un fenomeno troppo a lungo sottaciuto, e di aver cercato di definire, e distinguere, gli ambiti dei tribunali civili, riconoscendone le prerogative in tema di persecuzione del reato di pedofilia, secondo la legge civile, e quelli propri della Chiesa, rivendicandone l'autonomia nella condanna dei peccati e nella redenzione dei peccatori, secondo il diritto canonico e la propria predicazione (si chiama carità cristiana). Nonostante questo, oggi Benedetto XVI rischia di passare come il Papa che ha coperto la pedofilia dei sacerdoti. La distinzione fra peccato e reato è parte integrante della nostra cultura e della nostra civiltà, alla quale non possiamo rinunciare. Essa sanziona la differenza, e la distanza, fra lo Stato democratico-liberale, fondato sui diritti e le garanzie individuali, e lo Stato teocratico: un ordinamento oppressivo che, come hanno tragicamente provato i totalitarismi anche di un recente passato, non s’identifica solo nel connubio fra trono e altare, ma, anche e soprattutto, nell’illusione razionalista e nel tentativo volontaristico di cambiare, con mezzi coercitivi, la natura dell’uomo. Di fronte allo spettacolo inquietante cui stiamo assistendo, stupisce, infine, la grande quantità di spettatori che rimangono silenti in un’apparente indifferenza. Come se la stessa nostra democrazia liberale non fosse debitrice del messaggio cristiano che ha posto al centro la sacralità e l’inviolabilità della persona. Piero Ostellino 14 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Piero OSTELLINO. Cade in borsa anche lo Stato Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 05:38:07 pm LA CRISI GRECA PAGATA SOLO DAI CITTADINI
Cade in borsa anche lo Stato Nessuno sembra essersi accorto che la situazione della Grecia è la sindrome della crisi dello Stato moderno. L’Unione Europea ha salvato la Grecia; che, ora, deve curare se stessa. Ma è qui che — al di là della contingenza greca— emerge, appunto, sotto il profilo storico e teorico, la crisi dello Stato moderno. Il quale, da un lato, è responsabile della disastrosa situazione finanziaria in cui si trovano anche altri Paesi dell’Unione Europea; e, dall’altro, è incapace di uscirne se non (ri)confermando la propria natura e i propri limiti. Se lo Stato fosse, come dovrebbe, al servizio del cittadino, e non viceversa, la «cura» del governo greco dovrebbe consistere, soprattutto, nella cancellazione degli enti inutili, nella riduzione degli sprechi, nel contenimento della burocrazia, nella lotta alla corruzione e alle complicità politico- finanziarie. In una parola: nella riforma di se stesso. Invece, saranno tagliati, con le pensioni, i salari, bloccati aumenti e assunzioni nella Pubblica amministrazione; aumentata l’età pensionabile — settori di spesa sui quali la politica aveva raccolto finora consensi, a scapito dell’equilibrio di bilancio — aumentata l’Iva e tassate una tantum le imprese. È lo Stato moderno che, adesso— dopo averne assecondato i vizi — divora i propri cittadini per salvare se stesso. Né, a temperarne le ambigue oscillazioni fra centralismo e individualismo, valgono le misure di liberalizzazione di alcune professioni, del mercato del lavoro e di settori protetti dalla concorrenza, le privatizzazioni e la vendita di proprietà pubbliche decise dal governo di Atene. È, se mai, l’illusione di contemperare l’eccesso di intermediazione pubblica — ormai insostenibilmente costosa — con parziali misure liberali che rischiano unicamente di favorire gli interessi organizzati invece di quello generale. La perpetuazione di un equivoco. Non una politica. Lo Stato moderno—nella presente situazione di contrazione economica — tende formalmente a (ri)proporsi come mediatore fra la pluralità di interessi in gioco, ma finisce col favorirne, di fatto, alcuni e penalizzarne altri, nella distribuzione delle scarse risorse. Non è un caso, infatti, che, di fronte alla crisi economica mondiale, anche chi auspica la riduzione della pressione fiscale per rilanciare lo sviluppo abbia, poi, molte difficoltà a proporre una riduzione della spesa pubblica che ne dovrebbe rappresentare l’indispensabile premessa. Quando il peso dell’apparato dello Stato ha raggiunto una certa massa critica, è pressoché impossibile ridurlo anche perché, in realtà, dietro all’affermazione dell’interesse generale esso nasconde gli interessi degli uomini che ne fanno parte. In tale contesto, la riduzione della pressione fiscale diventa inattuabile perché — come spiega bene la scuola di Public Choice— «se i governanti offrono beni pubblici in cambio di voti, gli elettori, dal canto loro, si comporteranno come consumatori razionali di tasse» (in Luigi Marco Bassani: «Dalla rivoluzione alla guerra civile – Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865», ed. Rubbettino). Invece di ridurre tutta la politica europea a rapporti giuridici (il Trattato di Maastricht com’è o rivisitato), forse, andrebbe fatta una seria riflessione sulla crisi dello Stato moderno e della democrazia rappresentativa. postellino@corriere.it Piero Ostellino 07 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_07/ostellino_3880cc2c-5991-11df-8cbf-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Stato sociale dieta forzata Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 10:41:51 pm Stato sociale dieta forzata
Da tempo, le poche voci liberali che ancora compaiono sui giornali dicevano ciò che adesso scrive il Washington Post: «L’eccezione europea, il modello sociale più generoso del pianeta, ha i giorni contati». Ma nessuno ha dato loro retta e capito i prodromi della crisi dell’euro. Eppure, essa è l’epifenomeno della crisi dello Stato sociale moderno. Se ciò che dà (col welfare) è più di quanto potrebbe, c’è squilibrio di bilancio che porta alla crisi finanziaria; se ciò che toglie (con le tasse) è più di quanto dovrebbe, la crescita del Paese si arresta. del Paese si arresta. Lo Stato sociale moderno è oggetto di statolatria. L’attributo «sociale» è il distintivo residuale delle politiche «progressiste» del Novecento—tutto ciò che viene dopo sarebbe un progresso secondo «lo Spirito del Mondo» (e nel fertile «solco della Storia »)—che si sono rivelate, invece, «regressive». L’«alibi sociale» ha giustificato l ’ ipertrofia e l’autoreferenzialità burocratiche dello Stato moderno, il quale produce «plusvalore politico» per chi ne detiene il potere con l’eccesso di spesa pubblica e di tassazione. Ma, ora che l’Unione Europea ha imposto ai singoli Stati membri il contenimento della spesa, lo Stato sociale— con le misure che riducono salari e pensioni, senza incidere sulle proprie dimensioni — si appresta a divorare i suoi cittadini per sopravvivere. Sulla sua crisi si innesta, così, quella della democrazia. I rappresentanti del popolo non esercitano il potere in nome, e al servizio, del popolo, ma è il popolo a essere al loro servizio al solo scopo di far funzionare la macchina pubblica dalla quale essi, quale ne sia il colore, hanno una «rendita politica». C’è anche una dimensione sociale della statolatria. Dal moderno Stato sociale traggono profitto il capitalismo assistito, le corporazioni, i sindacati, tutte le forme di collettivismo, riconosciute e sovvenzionate dalla mano pubblica, e che hanno tutto da guadagnare dallo statu quo. In una società corporativa, il potere politico fa da mediatore fra le corporazioni in conflitto e, in una condizione di recessione economica, distribuisce le scarse risorse disponibili non secondo criteri di giustizia, ma in funzione della propria perpetuazione. A uscirne massacrati sono il singolo Individuo, non protetto da una qualche corporazione, e le aziende che operano sul mercato. Le riforme si allontanano. I media, invece di guardare dentro la macchina dello Stato moderno e denunciarne costi e pericoli — in definitiva, invece di fare il loro mestiere — hanno taciuto e ancora tacciono; vuoi per conformismo, vuoi per riflesso degli interessi extra editoriali dei loro editori, finendo col farsi dettare l’agenda dagli stessi responsabili della crisi. Alla democrazia è venuto a mancare uno dei pilastri su cui dovrebbe poggiare: l’indipendenza dei media. Sulle cause della crisi un esame di coscienza lo dovrebbero fare anche i giornalisti. Piero Ostellino 17 maggio 2010(ultima modifica: 18 maggio 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_17/Stato-sociale-dieta-forzata-editoriale-piero-ostellino_946fefda-6171-11df-a380-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Meno Stato più Società Inserito da: Admin - Maggio 30, 2010, 05:40:46 pm Meno Stato più Società
Necessaria, tempestiva, utile. Si sprecano i giudizi positivi dell’Europa, del Fondo monetario, della Confindustria — «i medici pietosi» — sulla manovra del governo. Anche sufficiente? Sì, ad arrestare la febbre, che minacciava di salire. No, a curare la malattia, che è cronica. Sì, a farci «passare la nottata». No, a metterci al riparo da quelle che verranno. La dilatazione della sfera pubblica — che ormai assorbe il cinquanta per cento della ricchezza prodotta — provoca due distorsioni. Prima: una spesa — cresciuta di 90 miliardi negli ultimi cinque anni— nelle pieghe della quale si annidano sprechi, distrazione di risorse a uso clientelare, corruzione, assistenzialismo, distribuzione a geometria variabile della ricchezza agli interessi corporativi più forti con pregiudizio del principio di equità. Il Paese si impoverisce progressivamente. Seconda: una contrazione dei margini di autonomia della Società civile e delle libertà individuali, che aumenta i costi delle transazioni private, mortifica lo spirito imprenditoriale, penalizza meritocrazia e ricerca. Il Paese ne è progressivamente sfiancato. Il malato— lo Stato sociale— è inguaribile perché il medico (la politica) non sa curare se stesso. I governi — quale ne sia il colore, e che ne ricavano una «rendita politica» — rimediano alla prima distorsione, con manovre congiunturali, «tampone», ignorando sistematicamente la seconda. Le riforme cosiddette strutturali, che darebbero alla sfera pubblica ciò che è della sfera pubblica, riducendone le dimensioni, e alla Società civile ciò che è della Società civile, riconoscendole maggiori spazi di autonomia, non si fanno perché non convengono a nessuno. Non alla politica, non alla Pubblica amministrazione, che sono per lo status quo, non alle corporazioni e agli interessi organizzati, non all'area del parassitismo pubblico e a quella delle clientele private, che ci guadagnano. La manovra è la radiografia dello stato dei rapporti fra politica e Società civile; fra una politica— fondata sui sondaggi, e su una leadership a forte carica populista, che promette le riforme e poi non le fa per accontentare tutti— e una Società civile che, per la parte che conta, non le vuole. La solitudine del ministro dell'Economia — assediato, in Consiglio dei ministri, dalle richieste di spesa dei suoi stessi colleghi — è paradigmatica di una sovrastruttura (la cultura) ideologica, anti-empirica e poco pragmatica, nonché anti-individualistica e anti-meritocratica, e di una struttura (la società) corporativa, chiusa, che, nei secoli, hanno prodotto, culturalmente, «il genio» isolato e, politicamente, demagoghi e populisti di successo, mai una «scuola di pensiero» organica, senza la quale il gattopardismo, il trasformismo, in definiva, la Reazione al cambiamento, diventano prassi. Lo Stato non è lo strumento a difesa dei diritti individuali del cittadino — come vuole il costituzionalismo liberale— ma, degradato a puro statalismo, pretende siano i cittadini a essere al suo servizio, secondo l'imperativo razionalista e totalitario della «volontà generale» nella quale si fondono e si annullano le autonomie e le singole libertà individuali. Piero Ostellino 30 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_30/meno-stato-piu-societa-editoriale-piero-ostellino_e1dd79c4-6bba-11df-bd8b-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Il pregiudizio verso le aziende. LIBERALIZZARE: NON BASTA DIRLO Inserito da: Admin - Giugno 08, 2010, 11:05:42 am LIBERALIZZARE: NON BASTA DIRLO
Il pregiudizio verso le aziende Il primo ministro conservatore inglese, David Cameron, annuncia forti tagli alla spesa pubblica, ma esclude un ritorno al thatcherismo. Il ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, propone la sospensione delle procedure burocratiche che fanno salire i costi per l’imprenditoria, ma rimane «anti-mercatista ». Forte è, ancora e ovunque, la cortina ostile alla libera concorrenza alzata dai nostalgici del dirigismo dopo la crisi finanziaria. Fa tutta la differenza fra deregolamentazioni — il dimagrimento dello Stato, necessario, utile, ma non ancora sufficiente a rilanciare l’economia—e liberalizzazioni, l’abbandono della convinzione che spetti (solo) allo Stato produrre beni e servizi pubblici che, invece, potrebbero essere prodotti (anche) da privati. Tremonti associa la sospensione dell’eccesso di regolamentazione alla revisione dell’articolo 41 della Costituzione: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Che i «fini sociali » siano la maschera dello Stato burocratico è già un bel riconoscimento delle ragioni dei liberali. A sua volta, Eugenio Scalfari, che è contrario anche alla deregolamentazione, scrive: «Mi domando quanti saranno, in un Paese come il nostro, gli imprenditori fasulli che, dopo aver autocertificato in proprio favore e aver ottenuto il necessario credito bancario, scompariranno dopo qualche mese, lasciando un paio di capannoni abbandonati e portandosi via la polpa del credito» (la Repubblica di domenica). Che il pontefice dei liberal nazionali sia un conservatore non sarebbe né sorprendente, né scandaloso, se non pretendesse di essere (anche) progressista. Occorre dire subito, però, che, ad aumentare la confusione, ha concorso anche una malintesa cultura liberale. Che, da un lato, distingue fra liberalismo politico (la libertà al singolare) e liberalismo economico (il liberismo), prendendo le distanze da quest’ultimo; dall’altro, attribuisce al liberismo un ruolo fondante dello stesso liberalismo politico. Prioritario (l’«a priori»), nel liberalismo, non è il mercato, bensì l’Individuo (la logica della sua libera azione). Sul mercato, le azioni dei giocatori ubbidiscono alle regole del gioco; il mercato non consiste nella distruzione di uno dei giocatori, ma nella realizzazione di una situazione in cui vincitori e vinti — dopo aver giocato — si stringono le mani e tornano alle realtà della loro vita sociale. Ma poiché l’acquisto di un bene riduce il potere di disporre di altri, la cultura pauperista (e socialista) induce chi compra a vedere nel venditore non chi gli consente di soddisfare un bisogno, ma chi gli impedisce di soddisfarne altri. La parola «speculazione » — che, in una economia di mercato, connota la capacità di anticipare le future domande dei consumatori per soddisfarle e trarne un profitto — non compare neppure negli scritti di autori socialisti, che la usano, invece, per demonizzare l’imprenditore (Ludwig von Mises: The Ultimate Foundation of Economic Science). Ma la libera concorrenza non ubbidisce solo a una logica utilitaristica; è anche «un ordine morale»— senza il quale non sussisterebbe —che induce gli uomini a cooperare fra loro (Bernard de Mandeville, Adam Smith, Friedrich von Hayek, Luigi Einaudi). Piero Ostellino 08 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_08/ostellino-pregiudizio-aziende_56bd2904-72bb-11df-80b7-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Le libertà sono scomode Inserito da: Admin - Giugno 29, 2010, 07:03:12 pm DIVIETI E NUOVI CONFORMISMI
Le libertà sono scomode Maggioranza e opposizione rischiano di perdere di vista i fondamentali della democrazia. A 65 anni dalla fine del fascismo, una parte cospicua di italiani, preoccupata dalla dilagante corruzione, scende in piazza al grido «intercettateci tutti», evocando i metodi dello Stato di polizia, dall’Ovra fascista alla Stasi comunista. L’invocazione ha poco a che vedere con la legittima opposizione alla proposta di legge del governo sulle intercettazioni in discussione in Parlamento. Essa rivela, piuttosto, la convinzione che la corruzione sia connaturata alla «nostra democrazia » e che il solo modo di combatterla stia nel sacrificare la democrazia stessa, incarnata, qui, nell’articolo 15 della Costituzione: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili ». Il centrosinistra, che sostiene tale comportamento intimamente pericoloso, invece di incoraggiarlo, farebbe bene a rifletterci. La nostra Costituzione — a differenza di altre — non prevede la temporanea sospensione di certe garanzie. Così, il governo le ha sospese «di fatto» (ad esempio l’inversione dell’onere della prova a carico dell’accusato in materia fiscale). Se il governo dicesse perché le ha sospese, non accampando un generico «interesse pubblico», il cittadino saprebbe, almeno, quali sono queste garanzie. Il centrodestra, che non ne parla per convenienza, farebbe bene a rifletterci. Ma anche l’Ue non è da meno delle nostre forze politiche. L’Europa brucia, ma il Parlamento europeo — et dum Europa deficit, Ue de Nutella loquitur — cerca di imporci «modelli nutrizionali » che, anche ammesso siano scientificamente corretti, fanno violenza alla nostra responsabile libertà di scelta come individui, prima ancora che come consumatori. L’Unione europea farebbe bene a porsi qualche domanda. Quanto l’omologazione di abitudini gastronomiche autoctone, estranee a quelle di Paesi culturalmente distanti, non finisca col rappresentare una negazione delle identità dei singoli Paesi membri. Se tale omologazione — che danneggia l’industria alimentare di alcuni a beneficio di altri — non rifletta interessi industriali altrui, cioè la presenza di lobby bene organizzate e potenti quanto occulte. Per tutta la sua vita, Norberto Bobbio si è posto la domanda «quale democrazia? », mettendo in discussione convinzioni consolidate, ma pur sempre aperte al dubbio. Oggi, scomparso il vecchio maestro liberale, a porla sono rimasti solo pochi suoi allievi, guardati con sufficienza, a destra non meno che a sinistra, da un pragmatismo rozzo e incolto che liquida volentieri il liberalismo come una dottrina ottocentesca superata dai «tempi nuovi» e la democrazia come un impedimento a governare. Non ne parlano i politici semplicemente perché, in quanto non liberali, non ne sono interessati. Non ne parlano neppure i media perché, in quanto «politicamente corretti », riflettono in modo conformistico l’ondata anti politica popolare, che sconfina nella negazione delle libertà individuali e dei diritti democratici. Nasce e si diffonde, nel giornalismo, l’idea di libertà di Trilussa: «Passa un porco e je dico ciao maiale / passa un asino e je dico ciao somaro / Forse ste bestie nun me capiranno / ma armeno c’ho la soddisfazione / de dì le cose come stanno / senza paura d’annà a finì in prigione ». Piero Ostellino 29 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_29/editoriale-ostellino-liberta-scomode_f275c2fc-833c-11df-aec8-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. L’opposizione fatta in casa Inserito da: Admin - Luglio 12, 2010, 10:05:07 am LEGA AZIONISTA PRIVILEGIATO
L’opposizione fatta in casa In assenza di opposizione «esterna» — il centrosinistra, privo di identità, sembra incapace di essere un’alternativa ideale e programmatica credibile — il centrodestra si è creato un’opposizione «interna». Che Berlusconi identifica nelle esternazioni di Fini, ma che, nei fatti, sta concretandosi nella Lega, cioè nel suo azionista privilegiato. La prospettiva, per ora remota, ma possibile, è che, sulle rovine del primo- berlusconismo — quello della «rivoluzione liberale» mancata, cui ormai anche il Cavaliere sembra avere definitivamente abdicato — e della corsa alla sua successione alla guida del Paese, si innesti un processo che dia vita a soluzioni tanto poco identitarie, sotto il profilo etico- politico, e, soprattutto, assai poco nazionali, da prefigurare un duplice rischio. Primo: sotto il profilo etico-politico, la scomparsa della rappresentanza dei ceti moderati, la ri-frammentazione, anche a sinistra (fra riformisti e conservatori), del sistema, la nascita di una sorta di «sindrome di Weimar»— interprete dell’incapacità dei partiti di esercitare un ruolo di direzione — che crei lo spazio per un «benevolo dispotismo» tecnocratico e decisionista. In sostanza, governi tecnici, non direttamente eletti. Secondo: sotto il profilo nazionale, la crescita di una tendenza alla «secessione democratica», da parte della popolazione del Nord nei confronti del Sud, sulla base di una forma di rivendicazionismo speculare, e opposto, a quello che fino all’altro ieri era stato del meridionalismo anti-unitario del Sud nei confronti del Nord. Ernesto Galli della Loggia attribuisce la crisi della Politica a carenza di progettualità. È la politica cui la sinistra, in passato, attribuiva la funzione razionalistica di modellare la Società. A me pare, invece, si tratti di una crisi strutturale. La Società italiana è, dal XIII secolo, corporativa, e nei suoi confronti il potere politico — prima comunale, poi statuale — ha sempre operato come «mediatore» fra le corporazioni in competizione. Oggi—a causa della crisi economica e data la scarsità di risorse da distribuire — anche la Funzione pubblica è una corporazione essa stessa, col risultato di accrescere la conflittualità generale. L’interprete autentico di tale involuzione è la Lega, che ha tradotto in rivendicazionismo locale il neocorporativismo pubblico. Ma, alzando progressivamente il prezzo di azionista privilegiato nella coalizione, essa sta entrando in rotta di collisione con quel poco che ancora rimane della politica nazionale e riformista nel berlusconismo. La rivolta delle regioni contro i tagli della manovra ne è l’epifenomeno; la traduzione, «familista», del corporativismo localista in conflitto con quello statuale. È una spirale dalla quale il centrodestra, e la stessa Lega, sembrano incapaci di uscire, per ragioni oggettive, e perché Fini, con le sue sortite, offre loro una giustificazione. di Piero Ostellino 12 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_12/ostellino_opposizione_fatta_incasa_65e62f78-8d75-11df-a602-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Il conflitto da evitare Inserito da: Admin - Agosto 02, 2010, 09:19:16 am LO SPETTRO DI UNA CRISI ISTITUZIONALE
Il conflitto da evitare Con l'espulsione di Gianfranco Fini dal Popolo della libertà, un conflitto tutto interno a un partito (fra due persone, Fini e Berlusconi) si è trasferito all'esterno, in Parlamento (fra due istituzioni, presidenza della Camera e presidenza del Consiglio). La (nuova) situazione sembra eccitare la società civile, non tanto divisa fra berlusconiani e finiani — la qual cosa sarebbe ancora uno scenario politico — quanto fra berlusconiani e antiberlusconiani, che è la sindrome dell'isteria collettiva di cui soffre il Paese. Da parte del giornalismo liberal — che ama dettare la linea all'opposizione — si suggeriscono a Fini, come presidente della Camera, persino ritmi e modalità per rendere difficile la vita al governo. Si tratta di far fuori il «caimano» e ogni mezzo è lecito. La separazione dei poteri, le garanzie costituzionali, insomma, il liberalismo, sono temporaneamente sospesi da coloro i quali — dopo essersi autoproclamati i soli, autentici e rigorosi custodi della Costituzione e della coscienza civile del Paese — conferiscono all'istituzione che regola i lavori del Parlamento un mandato «politico» che non le compete: far cadere il governo. Non è solo una contraddizione rispetto a quanto sostenuto finora, ma anche e soprattutto, una manifestazione di irresponsabilità. Il giornalismo fiancheggiatore del centrodestra non è da meno: invita il presidente del Consiglio a delegittimare quello della Camera, assegnandogli un ruolo che sarebbe, poi, nei fatti, una sorta di (improbabile) edizione nazionale del caudillismo sudamericano. Anche qui siamo fuori del tutto da ogni prassi giornalistica in una democrazia liberale matura. Non è compito di un giornale tenere in sella o disarcionare un governo e, tanto meno, sobillare conflitti fra istituzioni. Come è nella tradizione del Corriere, mi limito a fornire ai lettori una interpretazione di quanto sta accadendo. Un fantasma si aggira nel Palazzo. È lo spettro di una crisi istituzionale. Pare non preoccupare nessuno, nella realistica, e un po' cinica, convinzione che, dopo tutto, per dirla con Longanesi «gli italiani sono estremisti per prudenza». Essa fa aleggiare, però, su Pdl e Pd un esito devastante e, sulla stabilità del sistema politico, un risultato surreale: la crisi di rappresentanza sia dei ceti moderati (per implosione del Pdl) sia di quelli di sinistra riformista (per dissoluzione del Pd). Si dice che la «fine della politica», esemplificata dalla fine del bipolarismo, lascerebbe spazio alla nascita di un «Centro», una specie di anacronistica riedizione della vecchia Democrazia cristiana senza la presenza del Partito comunista. Ma il «centro» è un luogo sociale — dove già adesso cercano di convergere elettoralmente parte del Pdl e parte dello stesso Pd — non è un progetto politico. Lo era la «giusta via di mezzo» della politica liberale cavouriana. Ma erano altri tempi e Cavour proprio un'altra cosa. Piero Ostellino 02 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_02/01_missing_FONDOLUN_4715e688-9dec-11df-a94c-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. CONTI IN PARLAMENTO E RAPPORTO CON IL PAESE Inserito da: Admin - Agosto 06, 2010, 05:50:54 pm CONTI IN PARLAMENTO E RAPPORTO CON IL PAESE
I numeri del Cavaliere Dopo il voto parlamentare sul sottosegretario Caliendo, è evidente che l'espulsione di Fini dal Popolo della libertà è stato un errore del quale, ora, Berlusconi è prigioniero. Se prima doveva convivere, nel Pdl, con un coinquilino fastidioso, ora, deve fare i conti, in Parlamento, con un altro oppositore. Quella che, prima, era una maggioranza stabile, adesso è una maggioranza «variabile», in quanto dipendente dal voto dei finiani. Un minimo di realismo - che in politica è sempre buon consigliere - avrebbe dovuto suggerire al capo del governo di convivere. Gli amici - non del tutto disinteressati, oltre che avventati - gli hanno consigliato di divorziare. Forse, il Cavaliere dovrebbe ascoltare maggiormente chi non gli è pregiudizialmente né favorevole né contrario, e parla di problemi, invece di fidarsi solo di chi asseconda la sua idea «patrimoniale» della politica e a ridurla alla propria persona. Ora, quel che è singolare, anche molti dei suoi amici nella maggioranza lo danno per finito e, forse, si apprestano già a saltare giù dalla barca che fa acqua, mentre i nemici dell'opposizione lo temono ancora come dimostra il rifiuto del Partito democratico anche della sola ipotesi di elezioni anticipate. L'aspetto paradossale di questa asimmetria fra le posizioni della maggioranza e quelle dell'opposizione ha, d'altra parte, un fondamento reale. Mentre, in Parlamento, il suo governo è esposto a finire in minoranza, a seconda delle circostanze e degli umori dell'ex alleato, nel Paese i numeri pare diano ancora ragione a Berlusconi che sembra ancora il più capace di parlare alla «pancia» degli italiani. E' l'effetto della personalizzazione della politica che va sotto il nome di populismo. Che non è una brutta parola, ma un modo di esprimersi della sovranità popolare; è l'«uomo qualunque» che vota. Anche qui, però, un certo realismo, da parte del Cavaliere, e persino dei suoi stessi avversari, non guasterebbe. Preso atto che, in Parlamento, è, ad ogni votazione, ostaggio dei finiani, Berlusconi non dovrebbe ignorare che, nel Paese, rischia di diventarlo, al Nord, della Lega - l'alleato che, nella situazione che si è creata, gli assicurerebbe il (probabile) successo elettorale - e, al Sud, del nuovo concorrente, il «Futuro e libertà» di Fini, che potrebbe far diventare aleatorio quello stesso (probabile) successo elettorale. Stretto nella duplice morsa che egli ha prodotto con l'espulsione di Fini dal Pdl, il presidente del Consiglio ha un solo modo di ripristinare la propria leadership appannata. Recuperare la vecchia spinta propulsiva liberale della prima ora. Interpretare le esigenze economiche e sociali e le pulsioni di «piccoli», imprese, professionisti e autonomi che potrebbero essere fortemente attratti dalla Lega. Ne sarà capace? Questa è l'incognita con la quale deve realisticamente fare i conti. postellino@corriere.it PIERO OSTELLINO 06 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_06/ostellino-berlusconi-parlamento_98167032-a11d-11df-9bff-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. IN DIFESA DI UN PRINCIPIO LIBERALE Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 04:54:22 pm IN DIFESA DI UN PRINCIPIO LIBERALE
Indagini e dimissioni Quando Gianfranco Fini aveva detto che un uomo politico, qualora sia indagato dalla magistratura, dovrebbe dimettersi, molti nel Popolo della libertà l'avevano presa male. Poiché nel Pdl non mancano gli inquisiti - primo fra tutti il leader massimo - ne avevano concluso che Fini tradiva i suoi e faceva il gioco dell'opposizione. Un'opinione legittima, ancorché di parte. Ma ora che Fini è inciampato in una questione immobiliare, sulla quale i magistrati hanno aperto un fascicolo contro ignoti, quegli stessi ne chiedono le dimissioni da presidente della Camera, come se dipendessero da loro e non da lui. Una richiesta tanto illegittima quanto interessata. Sarebbe un caso di «doppiezza» se non rivelasse la vocazione nazionale a ridurre le questioni di principio a casi personali. Il principio da opporre al teorema di Fini era semplice: chiedendo le automatiche dimissioni di ogni uomo politico indagato, egli metteva nelle mani della magistratura il Parlamento e il governo, vanificando la separazione e distinzione dei poteri della democrazia liberale. Ciascuno nel proprio ambito, i tre poteri dello Stato godono di una autonomia e di una indipendenza che rappresentano un contrappeso agli altri. I costituenti avevano costituzionalizzato questo principio riconoscendo alla politica di autorizzare o meno la magistratura a procedere penalmente contro un parlamentare. Una forma di contrappeso del Parlamento - nell'ambito della propria autonomia e indipendenza - nei confronti del Giudiziario, la cui autonomia e indipendenza erano incarnate nell'obbligatorietà dell'azione penale. Ancorché decaduta, l'autorizzazione a procedere rimane un esempio che dovrebbe valere anche per quanto riguarda le dimissioni di un indagato. La cui opportunità dovrebbe essere valutata caso per caso. È evidente che, mentre l'autorizzazione a procedere atteneva agli aspetti procedurali, giudiziari, dell'azione penale, e riguardava i rapporti fra due poteri dello Stato (il Legislativo e il Giudiziario), l'opportunità o meno delle dimissioni attiene, invece, ai risvolti etici dei comportamenti politici e riguarda il giudizio dell'opinione pubblica. Buona regola sarebbe non confondere i due momenti e, allo stesso tempo, rimettere le dimissioni non a un automatismo conseguente a un atto giudiziario, ma all'autonomia della politica o, se vogliamo, al senso di responsabilità di chi le dovrebbe eventualmente dare. Nessun altro può aspettarsi le dimissioni di un uomo pubblico inquisito, o anche solo coinvolto in uno scandalo, che non sia quel giudice supremo della politica che è l'opinione pubblica, che sono gli elettori, il cui giudizio si concreta nella scelta elettorale. Ecco, allora, perché entra in gioco qui - per dirla con Alexis de Tocqueville - l'altro grande pilastro della democrazia liberale: la libera informazione. Non è compito di media indipendenti organizzare, e condurre, campagne pro o contro uomini e partiti politici per delegittimarne il ruolo istituzionale. Dovere dei media è riferire i fatti ed esprimere giudizi verificabili nei fatti. Il resto è militanza politica. Legittima. Ma altra cosa dal giornalismo. Piero Ostellino 12 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_12/ostellino-fini-dimissioni_ff007dcc-a5d4-11df-8d3b-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Non bastano i numeri Inserito da: Admin - Settembre 15, 2010, 05:56:14 pm Non bastano i numeri
Il discorso che Berlusconi terrà davanti al Parlamento alla fine del mese potrebbe essere una grande occasione per fare il punto non solo sullo stato di salute della maggioranza, ma anche, e soprattutto, del nostro sistema politico e istituzionale. È l’occasione per mostrare d’essere uomo di Stato, non solo il capo di un partito in difficoltà. Se si limitasse a illustrare i cinque punti del programma, la perderebbe. Non è su un nuovo «effetto annuncio» che il berlusconismo può recuperare credibilità; tanto meno può sperare, e illudere gli italiani, di fare adesso le riforme che non riesce a fare dal 1994. All’ordine del giorno non c’è come evitare le elezioni anticipate. Tra l’altro i precedenti (vedi il governo Prodi) dimostrano che cercare di scongiurarle con maggioranze risicate e basate su incerte «campagne acquisti » non serve a nulla. Il punto fondamentale è un rinnovato patto tra le componenti della maggioranza, che dica cosa il governo possa e debba fare. Anche l’opposizione — che punta su un governo di transizione — sa che, se l’attuale maggioranza cadesse, la sola via d’uscita legittima sarebbero le elezioni. La questione non è di diritto positivo (costituzionale), ma politica; un governo tecnico sarebbe politicamente illegittimo, ancorché costituzionalmente legale. Il problema, per il presidente del Consiglio, non è, dunque, solo ripristinare la compattezza della propria maggioranza, ma spiegare perché, anche quando è unita, non riesca a realizzare nemmeno una delle grandi riforme promesse. I governi tecnici avevano un senso, nella Prima Repubblica, perché: 1) a governare erano sempre combinazioni- coalizioni, che nascevano e si estinguevano in Parlamento, fra i partiti anticomunisti, e che riflettevano la natura di «bipartitismo imperfetto» del sistema politico; 2) il sistema parlamentare consentiva la nascita di governi di transizione per permettere alla maggioranza anticomunista di ricompattarsi, ma favoriva altresì concretamente il consociativismo fra maggioranza e opposizione; 3) la conventio ad excludendum scongiurava, infatti, il rischio che il Pci andasse al governo, mettendo in discussione il sistema politico. Oggi che quel rischio non c’è più, che l’alternanza di governo è praticabile, i governi tecnici che nascessero in Parlamento da accordi pasticciati fra forze politiche eterogenee che hanno perso le elezioni sarebbero un vulnus alla sovranità popolare. Ma anche qualora il centrodestra le vincesse, le elezioni anticipate non aprirebbero ugualmente la strada alle riforme se Berlusconi non chiarisce quali siano stati gli ostacoli istituzionali, politici, sociali che gli hanno impedito finora di farle. Dica, quindi, quali dovrebbero essere le condizioni che consentano al governo, quale ne sia il colore politico, di operare efficacemente, e chieda all’opposizione di contribuire a realizzarle. Così, mettendo gli italiani nelle condizioni di sapere chi vuole davvero cambiare le cose e chi vi si oppone, si realizzerebbe la prima, vera riforma bipartisan che tutti auspicano. A parole. Piero Ostellino 15 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_15/editoriale_ostellino_4ece5b52-c089-11df-baf9-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Uno spettacolo desolante Inserito da: Admin - Settembre 24, 2010, 04:47:41 pm CULTURA POLITICA, DIBATTITO PUBBLICO
Uno spettacolo desolante Se si solleva lo sguardo dalla congiuntura delle cronache giornalistiche quotidiane, e si guarda al quadro d’insieme, lo spettacolo sovrastante gli avvenimenti degli ultimi mesi — crisi della maggioranza di governo, eventualità di elezioni anticipate, prospettive di evoluzione della situazione — è desolante. Solo l’insipienza della classe politica, la programmatica malafede di certi media, un’opinione pubblica frastornata, e ormai incapace di discernere, potevano ridurre a una questione fra berlusconismo e a n t i b e r l u s c o n i s m o l’inattualità delle istituzioni, l’inconsistenza della cultura politica nazionale, la fragilità del sistema politico che ne sono emersi. L’intero spettro delle regole, dei principi e degli istituti che sono a fondamento della nostra vita politica si sono sfarinati, mentre troppi italiani si comportano come degli ultras in uno stadio di calcio. Non si illudano berlusconiani e antiberlusconiani di far uscire il Paese dal tunnel nel quale lo hanno cacciato semplicemente prevalendo gli uni sugli altri. Se Berlusconi vincesse anche le prossime elezioni, si riproporrebbe lo stesso scenario: gli italiani divisi non sul «che fare» e «come farlo », ma sulla persona del capo del governo e i suoi problemi personali. Se a vincere fosse l’opposizione, nulla cambierebbe ugualmente; si esaurirebbe, con la fine dell’antiberlusconismo, anche la sua stessa forza propulsiva e verrebbero a galla le sue carenze culturali e politiche. Che piaccia o no, la lunga, e sterile, contrapposizione frontale fra berlusconismo e antiberlusconismo è stata l’ultima versione della storica incapacità dell’Italia di essere popolo, nazione. Anche la Francia e l’Inghilterra hanno vissuto periodi di aspre lotte interne che, a volte, hanno messo in discussione la legittimità del potere politico del momento, ma ne sono sempre uscite perché fondate sulle secolari tradizioni di una comunità che è, innanzi tutto, popolo, nazione, prima che Stato; comunità di fini etico-politici divisa solo sui mezzi tecnico-politici per raggiungerli. La Magna Charta inglese è del 1215! L’inattualità delle istituzioni — inadeguate a far fronte alle ricorrenti crisi del sistema politico con procedure chiare ed efficaci — è la bandiera del conservatorismo della sinistra. Che, per difendere lo status quo, si aggrappa alla difesa di regole antiquate, figlie di un mondo che non c’è più. Forse, la sinistra non ha neppure un reale interesse a vincere le elezioni perché già soddisfatta del controllo che esercita su alcuni dei settori chiave della società civile, come la scuola e l’università, lamagistratura, gran parte dei media e dell’editoria, nonché del mondo intellettuale. Una volta al governo, essa deve fare i conti col rivendicazionismo corporativo di quegli stessi settori che ne è la vera forza finché è all’opposizione. Alle doti di equilibrio del presidente della Repubblica si fa, così, carico della responsabilità di tenere in piedi il barcollante edificio democratico, attribuendogli poteri che non ha e una impropria funzione di supplenza della classe politica, incapace di assolvere la propria funzione. È la sostituzione della politica col diritto da parte dei nostri azzeccagarbugli istituzionali. L’inconsistenza della cultura politica nazionale è l’autentica cifra del centrodestra; ne condiziona la capacità di dar vita al cambiamento promesso, e mai attuato, e di produrre «politiche» davvero modernizzatrici. È anche l’indotto delle corporazioni, degli interessi organizzati, ai quali il suo leader è tutt’altro che insensibile. Non condiziona il centrosinistra perché è proprio su tale inconsistenza culturale che esso fonda la difesa dello status quo in sintonia sia con la propria inclinazione anti-individualista e anti-capitalista, sia con la vocazione anti-modernista degli italiani. La diffusione di una cultura politica autenticamente liberal-democratica è bloccata perché metterebbe a rischio gli interessi corporativi dell’establishment intellettuale. Che boicotta ancora la storiografia liberale (i libri di Rosario Romeo su Cavour e sul Risorgimento) anche alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, in nome di una sua lettura classista, come «rivoluzione contadina mancata», smentita già dal precedente della stessa Rivoluzione francese. Che fu cittadina, parigina, non contadina. La programmatica malafede di alcuni media a larga diffusione impedisce letteralmente la crescita di un’opinione pubblica bene informata e, soprattutto, capace di farsi un’idea fondata sui fatti e verificabile nella realtà. Il popolo di destra e quello di sinistra — che leggono più volentieri i giornali che li confermano nei loro pregiudizi, che gli stessi giornali hanno creato, in una sorta di circolo vizioso quanto surreale, già sperimentato dall’Unità, il quotidiano del Pci, quando era filo-sovietico — vivono una realtà «virtuale» rappresentata, per il popolo di centrodestra, dalle (continue) promesse e dalle (inespresse) virtù taumaturgiche del capo; l’altra, per il popolo di centrosinistra, dalla sua demonizzazione. È nata, così, una nuova figura di italiano che, oltre al proprio «particulare», ubbidisce a un riflesso condizionato di natura emotiva, pro o contro Berlusconi. Un perfetto prodotto del marketing ideologico da parte di un giornalismo che non si prefigge di informare, né di giudicare con onesta coerenza, ma di creare, e addestrare, l’uomo nuovo: l’idiota di parte. Che, a destra, non vota per «una certa idea dell’Italia», ma contro la sinistra, e a sinistra non vota contro la destra— che, forse, voterebbe volentieri se non ci fosse il Cavaliere e non fosse poi troppo innovativa —ma contro una persona, senza chiedersi quale sia il Paese nel quale vorrebbe vivere, quali siano i propri diritti, i propri interessi. Un suddito. Ma—ha scritto Norberto Bobbio — «la democrazia ha bisogno di cittadini attivi. Non sa che farsene di cittadini passivi, apatici e indifferenti». Di tutto ciò dovrebbero, dunque, discutere una classe politica e un sistema mediatico degni di questo nome. Invece, l’immagine che il Paese «ufficiale» proietta di sé —il Paese «qualunque», dell’uomo della strada, è migliore, anche se incapace di reagirvi— è quella di un mondo che degrada, più velocemente di quanto già non si pensasse, verso una sorta di versione (meta-politica, ontologica) dell’Antico Regime, pietrificato come è nel proprio conservatorismo e prigioniero dei propri ritardi culturali. Piero Ostellino 24 settembre 2010 RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_24/ostellino_spettacolo_desolante_0f855ac8-c79a-11df-9bef-00144f02aabe.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. La fine della politica Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 03:38:49 pm La fine della politica
Tony Blair dice alla nostra sinistra: «Parlate di politica, non di scandali». Ma l’antiberlusconismo giudiziario è la sola risorsa di cui pare disporre il Partito democratico nella sua opposizione al centrodestra. Gianfranco Fini fonda un partito sul «principio di legalità»; ma «legalità » pare più uno sberleffo ai tentativi di Berlusconi di sottrarsi alle iniziative della magistratura che l’ovvio e naturale indotto dello Stato di diritto. Parte dell’opinione pubblica sostiene il primato della morale sulla politica, non secondo Erasmo e Kant, ma i «vaffa» di Grillo. Il Cavaliere è per il primato della politica sulla morale, non secondo Machiavelli e Hobbes, ma le memorie, a sua difesa, dell’avvocato Ghedini. Sono gli effetti della «giuridificazione della politica», cioè dell’abdicazione della politica al giustizialismo, al moralismo e all’opportunismo. La coda di Tangentopoli e Mani pulite. Non siamo alla dottrina pura del diritto di Kelsen — «il diritto è una sfera autonoma, scevra da qualsiasi rapporto di forza e indifferente a qualunque elemento impuro sia esso politico, sociale, etico» (Carl Schmitt). Ma alla zoppicante grammatica e alla approssimativa sintassi democratiche, prima che giuridiche, di Antonio Di Pietro. Insomma, a una caduta verticale della categoria del politico. Ora, se la classe politica avesse anche solo un barlume di cultura storica ricorderebbe che il dibattito fra i sostenitori delle «dure ragioni della politica» e quelli delle «forme del diritto» era stato il preludio, sia pure ancora sotto il profilo dottrinario, della crisi istituzionale della Repubblica di Weimar. Se la nostra intellighentia avesse anche solo un barlume di cultura politica saprebbe che, non la razionale distinzione fra politica e diritto, ma l’artificiosa contrapposizione del diritto alla politica—cioè il trasferimento dalla realtà dell’interazione sociale a un universo normativo astratto — è stata l’accusa (ingiustamente) rivolta a Kelsen liberal- democratico, prima che teorico del positivismo giuridico; mistificazione e negazione, al tempo stesso, dei fondamenti storici, sociali e giuridici del liberalismo — la tradizione cara ai liberali non meno che ai conservatori — pre-condizione della «democrazia dei moderni». Il Paese è fermo all’assassinio di Giovanni Gentile, il filosofo che aveva tradotto l’idealismo in attualismo, conferendo dignità storicista allo Stato etico fascista, e che un pugno di partigiani aveva assassinato nella convinzione di uccidere il teorico del Tiranno, così come oggi qualche pazzo minaccia giornalisti che presume vicini a Berlusconi, scambiandoli per i suoi teorici. L’abbiamo già stigmatizzato su queste stesse colonne. Da una parte gli antiberlusconiani, dall’altra i berlusconiani. Che si insultano e criminalizzano reciprocamente, col risultato di aver sanzionato la fine della politica e di aver creato, col caos attuale, le premesse di un avvenire incerto per la nostra (già) pasticciata e fragile democrazia. Come nella Germania ai tempi di Weimar. Ancorché, fortunatamente, senza lo spettro di un nuovo Hitler— ma, malauguratamente, con quello di una qualche sorta di peronismo — all’orizzonte. Piero Ostellino 08 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_08/ostellino-fine-politica-editoriale_8466aa8a-d29a-11df-8b7c-00144f02aabc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Le istituzioni da difendere Inserito da: Admin - Novembre 10, 2010, 03:21:20 pm LA CRISI NON È SOLO POLITICA
Le istituzioni da difendere Le orchestre di bordo suonano tutte, incessantemente, le stesse canzoni: «Escort», «Noemi», «Ruby». Fra i passeggeri, c'è chi balla senza sosta, assordato dalla musica; ma il numero di quelli che restano seduti, e non desiderano altro che il viaggio finisca, aumenta. Il comandante gira fra i tavoli, corteggiando le signore; gli altri ufficiali canticchiano le parole delle canzoni, non curandosi della rotta. La nave procede sempre più lenta. Inesorabilmente, si avvicina all'iceberg. Fra poco ci sarà l'urto e la nave affonderà. Si fa qualche illusione chi, nel mondo della politica e dei media, pensa che il crepuscolo di Berlusconi, le divisioni nel Popolo della libertà, le ambizioni di Fini di dar vita a una nuova rappresentanza della borghesia produttiva, la prospettiva di alternanza di governo, si concreteranno, in un modo o nell'altro, secondo le diverse aspettative; si chiuderà, con la «fase di transizione», la crisi del sistema politico e tutto si aggiusterà. O con un governo di transizione, o con nuove elezioni, o con la prosecuzione della legislatura fino al suo termine naturale. No. La crisi del sistema politico è la sindrome di una crisi istituzionale analoga a quella che pose termine alla Quarta repubblica francese. Manca la causa scatenante (l'Algeria), manca l'uomo che vi mise rimedio (de Gaulle). La Lega già dice che, di fronte alla nascita di un governo di transizione, scenderebbero in piazza milioni di cittadini. Non è uno slogan. È la previsione di un accadimento possibile. L'esplosione della «questione settentrionale», la protesta dell'Italia produttiva contro il parassitismo regionale e corporativo, il concretarsi della crescente inquietudine, prodromo della secessione, del Nord. Nuove elezioni lascerebbero le cose come stanno, perché, da colmare, è la carenza di «una certa idea dell'Italia» di tutta la classe dirigente, non il vuoto di decisione politica e la pur legittima esigenza di alternativa di governo. La prosecuzione della legislatura altro non sarebbe, per le stesse ragioni, che il protrarsi dell'agonia. Lo spettro della crisi istituzionale - che metterebbe in pericolo l'architettura democratica - già aleggia. Minaccia di concretarsi se, in Parlamento e nei media, non si incomincerà, da subito, a pensare al Paese, e ai suoi problemi. Non si tratta (solo) di chiudere la parodia di quella guerra di liberazione che è il conflitto fra «usurpatori» berlusconiani e «resistenti» antiberlusconiani; e che della crisi della politica è l'effetto, non la causa. Ma di affrontare - da destra e da sinistra - il problema delle riforme, ancorché ciascuno con i mezzi che gli sono propri, che producano la necessaria modernizzazione dello Stato e una maggiore autonomia della società civile. Chiedere al mondo della politica, e a quello intellettuale, di farsene carico non è né moralismo, né fuga nell'utopia. La moralizzazione della sfera pubblica non è affare dei carabinieri - che già si occupano di quella privata - ma della politica. L'utopia di cui si sente la necessità sono l'empirismo e il pragmatismo politici. Pensare al Paese, e ai suoi problemi, non è più (e solo) un imperativo morale. È diventata una condizione di sopravvivenza civile. Piero Ostellino 10 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_10/ostellino_istituzioni_difendere_48af2e12-ec90-11df-8b0b-00144f02aabc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Il ribaltone per favore no Inserito da: Admin - Novembre 15, 2010, 05:31:31 pm IL CAVALIERE E LO SCATTO NECESSARIO Il ribaltone per favore no La «battaglia delle mozioni», che si combatterà dopo l'approvazione del Patto di stabilità, è il riflesso della crisi del bipolarismo e della frammentazione del quadro politico. Quale ne sia l'esito, chi la vincerà avrà vinto una battaglia, ma l'eventuale nuovo governo, indipendentemente dal colore, perderà la guerra successiva. L'esito dello scontro di mozioni rischia di essere la tomba di un Ordinamento istituzionale ormai inadeguato, che non merita più neppure l'elogio di un epitaffio. Cova sotto la cenere una questione sociale. Il Sud, che già ora è un focolaio di rivolte - quando, col federalismo fiscale, dovrà farcela, e scoprirà che non ce la fa, con le proprie forze - minaccerà di diventare, per la nostra Repubblica, ciò che è stata l'Algeria per la Quarta repubblica francese, la causa scatenante della sua crisi; il Nord - se scoprirà che il Fondo di perequazione del federalismo solidale altro non sarà che la prosecuzione dell'assistenzialismo al Sud - ripiomberà nella voglia secessionista, che si sommerà alla causa scatenante meridionale nel provocare la crisi. È già emersa, in tutta evidenza, la questione politico-istituzionale. Che nell'attuale maggioranza prevalga l'istinto di conservazione - la prosecuzione della legislatura fino alla sua fine naturale - e nelle opposizioni lo spirito di conquista (la costituzione di un governo che sostituisca quello in carica) è comprensibile e persino giustificabile. È la politica. Ma non sarebbero, in ogni caso, una soluzione. Il governo in carica sarebbe ancora esposto alle imboscate interne e non riuscirebbe a realizzare il suo programma. Un governo tecnico, o di transizione che lo si chiami, sarebbe un palliativo - che aveva un senso nella Prima repubblica, quando aveva la temporanea funzione di decantare una situazione di crisi fra i partiti anticomunisti di governo, ferma restando la conventio ad escludendum nei confronti del Pci - e sarebbe esposto probabilmente all'accusa di aver tradito il mandato popolare. Tanto meno getterebbe le basi di una stabilizzazione del quadro politico. L'attuale paralisi del sistema è, però, anche una grande occasione per la classe politica, solo che la sappia cogliere. Berlusconi si comporti da statista, si batta pure per salvare il suo governo, che ha ottenuto alcuni risultati importanti che gli elettori giudicheranno, ma proponga contemporaneamente alle opposizioni di discutere assieme il cattivo stato di salute della Politica e i possibili rimedi. A cominciare dalla (pessima) legge elettorale per finire alle istituzioni, in vista di una loro riforma che consenta a chiunque vada a Palazzo Chigi di governare. Le opposizioni non riducano la domanda di un nuovo esecutivo, che riformi la legge elettorale, solo a un modo per sconfiggere il Cavaliere - dopo tutto, se esse vincessero le elezioni ne godrebbero quanto ne gode (poco) il centrodestra -, ma si convincano che è un pasticcio che non assicura neppure a loro la governabilità. Non c'è più il pericolo, paventato dai costituenti, del ritorno di un duce. Un governo forte non sarebbe l'anticamera di un nuovo autoritarismo, ma di una democrazia compiuta. Piero Ostellino 15 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_15/ostellino_ribaltone_no_b03d6c5a-f07e-11df-9e3d-00144f02aabc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Le domande degli elettori Inserito da: Admin - Novembre 22, 2010, 01:24:15 pm IL DIBATTITO NEL CENTRODESTRA
Le domande degli elettori Lo schema col quale Berlusconi affronta l’eventuale campagna elettorale è quello del 1994: il nemico alle porte. Allora lo schema funzionò perché alle porte c’erano gli ex comunisti nei confronti dei quali funzionava la vecchia conventio ad excludendum. In altre parole, un successo elettorale degli eredi del Pci prefigurava un radicale cambiamento di regime politico. Oggi, lo schema funziona parzialmente, perché l’Italia è cambiata. Alle porte c’è Futuro e libertà e una sua possibile alleanza con le altre opposizioni. Ma il «tradimento » di Fini non è una categoria della politica e i fatti danno ragione al Cavaliere solo a metà. L’eventualità che egli perda le elezioni è reale, ma non lo è quella di un radicale cambiamento di regime politico. Il nemico, che piaccia o no, non è un nemico, e tanto meno è alle porte. Al massimo è un avversario discutibile. La coalizione fra le opposizioni e Fini può non piacere, ma non si può dire rappresenti un rischio per la democrazia. Ciò non esclude che lo schema Berlusconi funzioni lo stesso e che egli vinca ugualmente le elezioni. Quel che più conta è che, in campagna elettorale, dovrà fare i conti, più che con la coalizione avversa, con ciò che sono stati i suoi passati governi. Oggi, Berlusconi è più debole non solo perché l’alternanza, per quanto poco attraente, è pur sempre praticabile, ma soprattutto perché gli elettori sanno come egli ha governato e come verosimilmente governerebbe. Lo schema che non ha funzionato contro Prodi, minaccia di non funzionare contro i «traditori » e i loro alleati. Per Berlusconi, fare i conti con i suoi antagonisti era sempre stato relativamente facile; quelli che lo votavano erano indotti a pensare che «gli altri» erano peggio di lui. Farli con se stesso sta diventando sempre più difficile. Qui, conta, eccome, ciò che sono stati, in concreto, i suoi governi. E già aleggia su di essi qualche riserva. Diamo pure per scontato che alla maggioranza degli italiani importi poco che la promessa «rivoluzione liberale » non ci sia stata, ma importa, invece, e molto, lo stato di salute del Paese dopo essere stato governato dal centrodestra. Conta che la spesa pubblica sia aumentata; che non ci sia stata riduzione della pressione fiscale; che i tempi della Giustizia, soprattutto civile, siano rimasti gli stessi; che le «distrazioni » del Cavaliere prevalgano sui problemi del Paese, saturando l’agenda del Parlamento, l’informazione e le discussioni popolari fino alla nausea. La domanda che nel centrodestra ci si dovrebbe porre è questa: possiamo dire che il Paese sia soddisfatto di come lo abbiamo governato? Se l’evidenza dimostrasse che non lo è, gli uomini del Cavaliere dovrebbero dirlo, onestamente e coraggiosamente, anche a costo di contraddirlo. Berlusconi pare convinto che il Paese sia soddisfatto; e, se gli viene qualche dubbio, tende a darne la colpa agli altri. Ma basta per vincere le elezioni e, poi, per governare? Piero Ostellino 22 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_22/le-domande-degli-elettori-piero-ostellino_c83baa00-f5fc-11df-bf30-00144f02aabc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. LA VIOLENZA NON È MAI GIUSTIFICABILE Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2010, 11:05:22 am LA VIOLENZA NON È MAI GIUSTIFICABILE I diritti e la legge C'è, da parte di alcuni media - trasmissioni tv e giornali - una certa irresponsabile indulgenza, persino una sorta di giustificazionismo morale e ideologico, nei confronti dei responsabili dei disordini di Roma, che male si conciliano con l'idea di democrazia liberale. La tesi di fondo è che la classe politica, nella circostanza, si sarebbe arroccata dentro al Palazzo, al sicuro di una «zona rossa», e non avrebbe saputo guardare, oltre a ciò che stava accadendo nelle strade, anche alla maggioranza degli italiani che non manifestano, ma che sono ugualmente depressi e sfiduciati. Insomma, una versione aggiornata dei «compagni che sbagliano» (ma hanno ragione). Dire che le parole a giustificazione delle criminali violenze che hanno messo a ferro e fuoco la capitale sono sbagliate è dire poco. Sono pericolose. Di «questa» classe politica si può dire tutto il male possibile - personalmente lo faccio in ogni mio articolo -, ma accusarla di non saper capire che le ragioni della violenza sono anche quelle della maggioranza degli italiani è negare la Politica stessa, che rimane il solo strumento di pacifica composizione delle differenze e dei conflitti. È spalancare le porte al terrorismo. La polizia (lo Stato) aveva creato una «zona rossa» non per difendere la classe politica, ma le Istituzioni, da delinquenti o idioti - convinti di fare la rivoluzione spaccando vetrine e bancomat - che erano intenzionati a estendere al Parlamento lo stesso trattamento. Parliamo, allora, a questo punto, anche dei giovani che volevano dimostrare pacificamente il loro dissenso e sono stati travolti essi stessi dalla violenza. Manifestare è una libertà liberale inalienabile, un diritto costituzionale. Di diversa, e più complessa definizione è la rivendicazione, da parte di gruppi di ogni categoria sociale, dei propri diritti corporativi, ogni volta che siano toccati dalla politica, con la pretesa che il Parlamento ridiscuta con loro le scelte fatte ad ogni stormire di manifestazione, pena la «separazione» del Paese reale dal Paese legale e il rischio di violenze. Ma qui, si fuoriesce dalla democrazia liberale e rappresentativa - Rousseau sbagliava sostenendo, contro di essa, che gli inglesi erano liberi solo quando votavano e diventavano schiavi subito dopo - e si precipita in un surreale pluralismo che rifiuta le regole del Costituzionalismo e ignora le libertà individuali. Si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell'esito delle libere elezioni, cioè nello svuotamento della sovranità popolare, nel totalitarismo di una supposta «volontà generale» (che è, poi, sempre particolare). Salvo voler rientrare nella democrazia rappresentativa se a vincere le elezioni è la propria parte politica. In realtà, quando si ricorre alla violenza, non si parla più di diritti. Si mette in discussione la Legge. Che va rispettata. È un fatto che il «rivendicazionismo continuo» di diritti (o di privilegi?) collettivi e corporativi sia un sintomo di crisi della democrazia rappresentativa. Della quale si dovrebbe, però, discutere con proprietà di linguaggio culturale e politico, senza concessioni demagogiche e totalitaristiche, ed evitando di stravolgerne, come invece si fa, i fondamenti stessi. postellino@corriere.it PIERO OSTELLINO 18 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_18/diritti-e-la-legge-ostellino_e1717ca8-0a6e-11e0-b99d-00144f02aabc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Una certa idea di democrazia Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2010, 10:42:15 am LE ISTITUZIONI E LA PIAZZA
Una certa idea di democrazia Se non vogliamo ridurre le manifestazioni popolari alla spiegazione di comodo che ne danno il governo, che le subisce, le opposizioni, che le cavalcano, e i media che soffiano sul fuoco della polarizzazione politica, dovremmo tentare una spiegazione strutturale, ragionevolmente plausibile. Anche prendendo per buona la vulgata che «a muovere le masse» sarebbero gli interessi e le emozioni elementari, più che le idee, resta il fatto che, qui, le masse non si vedono, che a manifestare, ancorché legittimamente, sono delle minoranze, mosse da idee messe in circolo da una cultura che si è formata alla scuola di matrice rivoluzionaria e irrazionalistica. Non regge la spiegazione pauperistica di un malessere generale, generato dalla crisi economica che avrebbe impoverito il Paese e accresciuto il divario fra i ceti sociali abbienti e quelli indigenti. È pur vero che la crisi si sente, ma non siamo piombati nella preistoria della «società del benessere» — dove, prima, vivevamo tutti più o meno decentemente — e approdati nella «società del bisogno». Le nostre città sono ancora soffocate da migliaia di automobili; i ristoranti sono meno affollati, ma ancora frequentati, così come i negozi. Non regge la spiegazione del malessere generazionale. I ragazzi che manifestano non sono alunni delle scuole tecniche — che assicurerebbero un mestiere — figli dell’idraulico, ma liceali della borghesia abbiente e lo stesso figlio dell’idraulico (introvabile se non a caro prezzo) che il padre manda all’università nell’illusione che la laurea sia ancora titolo di elevazione sociale, mentre spesso condanna alla disoccupazione. Non regge neppure la spiegazione del disagio giovanile per l’aleatorietà del futuro, che la sociologia post-fordiana, nostalgica della Fabbrica — fino a ieri demonizzata per la ripetitività alienante del lavoro alla catena chapliniana — chiama precarietà e che, invece, è un dato della Modernità, dove artefice del destino di ciascuno non è più il Sovrano, fosse esso l’autocrate dell’Antico regime o lo Stato sociale, ma l’Individuo libero e responsabile. E, allora, come la mettiamo? Tutte quelle spiegazioni, parziali, ideologiche, fuorvianti, sono figlie della contrapposizione fra l’idea di «democrazia pluralista » e quella di «democrazia liberale». Scrive Dino Cofrancesco sull’Occidentale, giornale online: «Nella political culture egemone, che non è quella condivisa dalla maggioranza degli elettori, ma quella che si è ormai affermata nelle università, nei dibattiti televisivi, nei grandi organi di informazione... il binomio "pluralismo dei diritti" sembra voler ridurre drasticamente il potere e la libertà del legislativo, un tempo espressione della "volontà generale": si sostiene che ci sono interessi e valori, dall’istruzione alla sanità, dagli statuti dei lavoratori alla tenuta sotto controllo pubblico dei mercati, che non possono essere messi ai voti». È ciò che un altro grande liberale, Nicola Matteucci, criticando il ’68, chiamava una «prassi politica che tendeva a saltare le mediazioni istituzionali e si rifugiava nell’assemblearismo, nel mito dello sviluppo, nella critica indiscriminata della classe politica e della storia repubblicana ». Contro la supposta tirannia delle maggioranze parlamentari. Il liberalismo e il pluralismo riconoscono entrambi l’esistenza di interessi conflittuali fra le varie categorie sociali, ma la «democrazia pluralista» tende a «giuridicizzarli», a conferire alle associazioni che ne sono interpreti, e persino alla Piazza, un potere di veto, mentre la «democrazia liberale» riconosce solo nel Parlamento il luogo in cui si prendono quelle decisioni vincolanti per tutti che sono le leggi. Il liberalismo — che si identifica nel principio di rappresentanza e assegna alla Politica di regolare le relazioni sociali — è la «libertà dei moderni»; il pluralismo — che pone l’accento sull’intervento diretto nel processo decisionale dei «produttori» interessati — è la «libertà degli antichi», dove tutto si decideva nella piazza della città-Stato. Commenta Cofrancesco: «A leggere senza paraocchi ideologici i fatti di Londra e di Roma — e prima ancora di Parigi— si è indotti a prendere atto che, in tutte le sue versioni, il pluralismo anti-liberale finisce per difendere, sotto mentite spoglie progressiste, l’esistente e la riprova sta nel fatto che, nel nostro Paese, come in Francia e in Inghilterra, le piazze non si sollevano se "tutto rimane come prima", ma solo se si profila un qualche significativo cambiamento in un qualsiasi ambito della vita pubblica». Da noi, il «pluralismo malato» è anche un riflesso corporativo in base al quale «sono i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari che debbono dare il loro consenso alla riforma del sistema ospedaliero; sono i professori e gli studenti a decidere della natura e delle finalità dell’istruzione pubblica (...). Nella democrazia liberale, le "competenze" vengono ascoltate, però poi decide sovranamente il Parlamento; nella democrazia pluralista, il Parlamento diventa il notaio che registra gli accordi raggiunti dai sunnominati "soggetti del pluralismo"». Così si spiega perché questo Paese è paralizzato e non cresce. Piero Ostellino 28 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_28/ostellino-certa-idea-di-democrazia-editoriale_8bb7d174-1250-11e0-80e3-00144f02aabc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Il cavaliere e il professore Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2011, 06:41:27 pm LEADERSHIP E SCELTE ECONOMICHE
Il cavaliere e il professore Dalla rappresentazione che ne danno i media, si direbbe che il (supposto) contrasto fra Berlusconi e Tremonti si riduca alla preoccupazione del Sovrano che il suo ministro gli porti via il Trono e a quella del ministro di non farsi avanti prima del tempo. Rappresentazione buona per un titolo di giornale; inadeguata a spiegare la fase che sta attraversando il Paese. Che ha bisogno di politiche liberali — di lungo periodo, contro quelle keynesiane di breve, come metodo di governo — che non solo lo facciano uscire dalla crisi, ma ne facilitino l’ingresso nella Modernità. Giulio Tremonti è forse il successore più accreditato del Cavaliere (quando verrà il momento) perché è intelligente, internazionalmente noto e, ciò che non guasta, più... settentrionale dei (potenziali) concorrenti. Deve molto al Cavaliere e, lealmente, non lo dimentica. È anche realista; può succedere a Berlusconi solo col suo consenso, che poi vuol dire con i suoi voti, perché di propri — a parte quelli che gli assicura la Lega — non ne ha molti. In ballo non è, dunque, la successione che sarà, probabilmente, lo stesso Berlusconi a decidere quando, come e a favore di chi. Non sono in discussione neppure una maggiore propensione del capo del governo ad allargare i cordoni della borsa, per rilanciare la crescita, e il rigore del suo ministro delle Finanze che si preoccupa delle conseguenze di uno sforamento del bilancio. I soldi — a meno di non finire nelle sabbie mobili della spesa che fa esplodere il deficit — non ci sono e, senza soldi, diceva il Borbone, la guerra non si fa. Ora che il rischio di bancarotta non riguarda solo i privati, ma anche gli Stati, la finanza pubblica non è più un pozzo cui attingere senza limiti per finanziare una spesa ormai insostenibile. Ma chi governa il Paese — se lo vuole far uscire dal «virtuoso immobilismo» — dovrebbe anche sapere che il controllo della spesa pubblica non è un fine in sé, ma il mezzo per liberare la crescita economica. Senza rigore non c’è sviluppo, ma senza sviluppo si piomba nella collettivizzazione della povertà. E qui torniamo a Tremonti. È nato socialista, ma oggi è un mercantilista, un dirigista di destra, che tende a subordinare l’economia alla volontà politica. Un po’ per gusto della provocazione intellettuale anti mercatista; molto per scelta protezionista a difesa della piccola e media industria lombarda contro le insidie della globalizzazione. Potrebbe essere un vero modernizzatore se si liberasse di un certo integralismo fiscale, eredità del moralismo pauperista socialista, e delle scorie del colbertismo, ostile — a differenza del mercantilismo inglese— al liberalismo. Il Big Government e il Government spending si sostanziano nell’invasività regolatoria e fiscale. All’amico Giulio — che so cultore di buone letture — consiglio, allora, quella del Program for Economic Recovery (Programma per la ripresa economica) del 1981 di Ronald Reagan: riduzione della spesa, della tassazione sul lavoro e il capitale, dell’interposizione pubblica sulle regole dell’economia; contenimento dell’inflazione. E gli Usa ripresero a correre. Piero Ostellino 11 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_11/ostellino-cavaliere-e-professore-editoriale_974d1d92-1d49-11e0-8ba9-00144f02aabc.shtml Titolo: RISPOSTA A PIERO OSTELLINO Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2011, 06:42:25 pm RISPOSTA A PIERO OSTELLINO
Liberalizzare: le troppe leggi sono la tirannia da abbattere La proposta: una legge costituzionale che dia efficacia al principio di responsabilità dei singoli cittadini Cominciamo dalla liberalizzazione delle attività d’impresa. Le regole giuste sono un investimento. Sono le regole sbagliate ad essere un costo. E le regole possono essere sbagliate anche perché sono troppe. Con la globalizzazione il mondo è radicalmente cambiato e nella globalizzazione la competizione non è più solo tra imprese, ma anche tra blocchi continentali e sistemi giuridici. In linea di principio si può essere a favore o contro la competizione economica globale. Ma in concreto non si può fare finta che non ci sia. Non ci si può illudere che tutto possa continuare come prima. Nello scenario globale che si è aperto, l’Italia ha davanti a sé l’alternativa tra declino e sviluppo. Se si vuole lo sviluppo si deve cambiare, a partire dal dominio giuridico. Che effetto ha prodotto e produce sull’attività d’impresa l’attuale bulimia giuridica, la massa sconfinata e crescente di regole? Alcuni dati ne danno la cognizione (guarda le tabelle). I TRE SISTEMI - Come agire su questa massa di regole, per ridurla? Una prima tecnica è quella dell’«abrogazione». E’ questa senz’altro una buona tecnica, ma non risolve definitivamente il problema. Le uova depositate dal serpente legislativo si riproducono infatti in continuazione. E anzi, paradossalmente, tra il beneficio che dà l’abrogazione di una legge e il maleficio costituito dallo stress normativo che l’innovazione comunque causa, il saldo rischia di rimanere comunque negativo. Una seconda tecnica è quella della «delegificazione», passare cioè dalla legge al regolamento, che è come passare dalla padella nella brace. Perché i regolamenti sono pesanti come le leggi ed essendo intercambiabili non alleggeriscono ma anzi spesso appesantiscono la burocrazia. La terza tecnica è quella della «semplificazione». I processi e i metodi adottati in passato nel nostro Paese sono stati utili, ma non risolutivi. Le norme dirette a semplificare si sono infatti esse stesse strutturate come «lenzuoli» normativi, che a loro volta hanno prodotto decreti legislativi torrenziali e dunque ulteriori alluvioni di normative. LA SOLUZIONE COSTITUZIONALE - In sintesi le pratiche sopra citate hanno prodotto e possono produrre risultati buoni, ma ancora insoddisfacenti: come i tentacoli dei mostri mitologici, per ogni legge delegificata rinasceva un regolamento, per ogni norma di semplificazione rinascevano una o più norme di complicazione. In realtà il nodo di Gordio, la metafora millenaria della semplificazione, non si scioglie ma si taglia con un colpo di spada. Con una norma che dia efficacia costituzionale e definitività al principio di responsabilità, all'autocertificazione, al controllo ex post, estendendoli con la sua forza obbligatoria a tutti i livelli dell’ordinamento, superando così i problemi del complicato riparto delle competenze legislative. Alla obiezione sui tempi lunghi di una legge costituzionale si può rispondere ricordando che la Legge costituzionale istitutiva della Bicamerale D’Alema fu approvata in 4 mesi (agosto compreso). Pare corretto assumere che la legge costituzionale di cui sopra, per la sua non minore importanza (!), possa ottenere dal Parlamento uguale impegno di lavoro. FOLLIA REGOLATORIA - Non ci sono reali alternative: la cappa delle regole che pesa sull’economia, una cappa che è cresciuta a dismisura negli ultimi tre decenni ed è aggrovigliata dalla moltiplicazione delle competenze – centrali, regionali, provinciali, comunali - è ormai divenuta tanto soffocante da creare un nuovo Medioevo. Dietro la follia regolatoria c’è in specie qualcosa che in realtà va nel profondo dell’antropologia culturale: una visione dell’uomo che è o negativa o riduttiva. La visione negativa è quella della gabbia (l’homo homini lupus). Il lupo va ingabbiato: è Hobbes. Da questa filosofia sono derivati l’assioma e la contrapposizione moderna fra pubblico e privato, dove «pubblico» è stato assiomaticamente associato a «morale» e «privato» a «immorale». La visione riduttiva si basa invece sull’assunto che l’uomo non è certo «a priori» malvagio, ma è tuttavia insufficiente a sé stesso, in parte incapace di fare da solo il suo bene. Ad esso soccorre dunque la benevolenza del potere pubblico. IL NUOVO MEDIOEVO - Questi due pregiudizi hanno ormai impiantato un nuovo Medioevo. Come nel vecchio Medioevo tutta l’economia era bloccata da dazi e pedaggi d’ingresso e di uscita, alle porte delle città, nei porti, nei valichi, da status soggettivi e personali discriminatori, così oggi il nostro territorio è popolato da un’infinità di totem giuridici. E’ stato Alexis de Tocqueville, in La democrazia in America, a fare profeticamente la più efficace sintesi del processo che oggi ci troviamo, nonostante tutto, a subire: «Il sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la folla; esso non sprezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca, non distrugge, ma impedisce di creare, non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi della quale il governo è pastore. Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo». VISIONE POSITIVA - Il Medioevo vero è finito, ma il nuovo Medioevo, che ci si presenta come la caricatura giuridico-democratica di quello precedente, ci fa scivolare verso il declino. Non è questa la visione giusta, se della persona si ha una visione positiva, perché si crede giusto investire sulla sua capacità di produrre ricchezza sociale ed economica, sulla sua capacità di concorrere al bene comune. Sull’uomo non si può avere un pregiudizio, ma un giudizio. Come in Sant’Agostino, che riconosceva l’esistenza di una socialità originaria, di una civitas primaria che nasce dalla socialità propria della natura umana; e che è un ordine che ha una sua bellezza propria (Agostino, De vera religione 26, 48). Per questo, si può (si deve) avere una visione positiva della persona, delle sue associazioni, della sua capacità d’intrapresa. Con questa visione si può (si deve) cambiare il metodo politico: si può (si deve) considerare il cittadino, prima che come un controllato dallo Stato, come una risorsa della collettività. Si può sostituire il controllo ex ante della pubblica amministrazione con un controllo ex post (che avviene senza ritardare l’inizio dell’attività); si può considerare il bene comune non più come monopolio esclusivo del potere pubblico, ma come un’auspicata prospettiva della responsabilità nell’agire privato. E' TEMPO DI CAMBIARE - L’articolo 41 della Costituzione italiana dispone quanto segue: «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». In teoria potrebbe essere formulata l’ipotesi di modificarlo radicalmente. Non credo che questa sia l’idea giusta. Nel «vecchio» articolo 41 della Costituzione ci sono infatti elementi fondamentali che assolutamente devono essere conservati. Ma è arrivato il tempo per operarne un aggiornamento. E’ arrivato il tempo di intervenire su quell’articolo, integrandolo per rimuovere tipi e forme di interpretazione che hanno riportato il Medioevo. E’ stato obiettato che l’articolo 41 della Costituzione ha in realtà sempre funzionato, perché non ha impedito nessuna legge di semplificazione. E’ vero. E’ però anche vero che non ha neppure impedito nessuna legge di complicazione! E’ per questo che con una legge costituzionale non solo va «potenziato» l’articolo 41, in raccordo con la successiva modifica dell’articolo 118 della Costituzione, ma lo si può, lo si deve riformare valorizzando i princìpi morali, sociali, liberali della responsabilità, dell’autocertificazione, del controllo ex post, contro i costi di manomorta e di immobilizzo tipici del vecchio-presente regime. Non è tempo per cercare le colpe della situazione presente. E’ tempo di cambiarla. In questo od in un altro modo che si vorrà (potrà) prospettare in libero dibattito. Giulio Tremonti 11 gennaio 2011(ultima modifica: 12 gennaio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/economia/11_gennaio_11/tremonti-leggi-liberalizzare_15106d2c-1dc4-11e0-8ba9-00144f02aabc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. L'immagine e la dignità del Paese Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 06:46:25 pm LE INDAGINI SUL CASO RUBY
L'immagine e la dignità del Paese Anche nel caso in cui le accuse si rivelassero infondate, le conseguenze sarebbero inquietanti Chi ha a cuore la dignità del Paese e delle sue istituzioni auspica che - a salvaguardia della presunzione di innocenza che deve presiedere a ogni vicenda giudiziaria e a tutela delle garanzie di cui deve godere ogni inquisito - Berlusconi si difenda davanti ai magistrati. È la sola sede in cui le accuse che gli sono contestate devono essere verificate. Non lo sono i media, sui quali la partita è giocata in funzione delle «delegittimazioni contrapposte»: della magistratura, da parte dei difensori del capo del governo; del capo del governo, da parte dei suoi avversari. Non lo può essere l'opinione pubblica, frastornata dalle troppe notizie, spesso non sufficientemente controllate. È sulla base di tali considerazioni che mi chiedo, però, contemporaneamente, come ne usciranno le istituzioni quale sia l'esito della vicenda in sede giudiziaria. Nel caso in cui le accuse di natura penale si rivelassero fondate, le conseguenze, per il capo del governo, sarebbero devastanti. Ma anche nel caso in cui le accuse si rivelassero infondate, le conseguenze sarebbero inquietanti. Su Berlusconi peserebbe pur sempre il giudizio politico e morale; sulla magistratura, l'interrogativo se spetti ad essa sollevare, con le proprie inchieste, questioni politiche e morali. Se al capo del governo è legittimo chiedere di fare il proprio mestiere in modo dignitoso per l'istituzione che rappresenta, alla magistratura è lecito chiedere di restare all'interno delle proprie funzioni, che non sono né politiche né morali. Quando, poi, ne sono coinvolte terze persone, la questione - non mi stancherò mai di ripeterlo - diventa non solo di Diritto pubblico, di Dottrina dello Stato, ma di Civiltà. Monitorare chiunque vada a cena ad Arcore - trasformandolo automaticamente in un complice del «vecchio porco» - non è cercare, ma «fare» giustizia. Una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna e ne faccia - diciamo così - partecipe chi può concretarla non è automaticamente una prostituta. Il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l'indulgenza all'esame o al capo ufficio per fare carriera. Avere trasformato in prostitute - dopo averne intercettato le telefonate e fatto perquisire le abitazioni - le ragazze che frequentavano casa Berlusconi, non è stata (solo) un'operazione giudiziaria, bensì (anche) una violazione della dignità di donne la cui sola colpa era quella di aver fatto, eventualmente, uso del proprio corpo. La pubblicazione delle loro fotografie - che corredate di nomi e cognomi sono adesso vere e proprie foto segnaletiche - da parte dei media, non è stata (solo) un fatto di cronaca; è stata (anche) una barbarie. Non di quella di Berlusconi, ma «delle vite degli altri», che rischiano di fare le spese di questa guerra di tutti contro tutti, Berlusconi stesso, il Pdl, le opposizioni e, perché no?, il Consiglio superiore della magistratura, dovrebbero, ora, preoccuparsi. Sarebbe il solo modo di (ri)conferire alla politica e alle istituzioni quella dignità che hanno perduto. Piero Ostellino 19 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_19/l-immagine-e-la-dignita-del-paese-piero-ostellino_0d03ff40-23b4-11e0-a3c4-00144f02aabc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Idee diverse di democrazia Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2011, 11:08:58 pm IL CONFLITTO CULTURALE ITALIANO Idee diverse di democrazia Dovrebbero essere a confronto «una certa idea dell'Italia» del centrodestra e una, diversa, del centrosinistra. Ma non l'ha nessuno dei due schieramenti. Il Partito democratico va a rimorchio dei media che camminano di concerto con la magistratura del «caso Ruby»; Pier Luigi Bersani dice che non vorrebbe vivere in un Paese dove il capo del governo regala 187 mila euro a una minorenne: più una battuta del genere «signora mia, non ci sono più le mezze stagioni» che una dichiarazione programmatica per un'alternativa di governo. Silvio Berlusconi ha ridotto «una certa idea dell'Italia» all'idea che ha di se stesso; è l'epitaffio dello «spirito del 1994», di tanto in tanto riesumato come una sorta di respirazione bocca a bocca al governo per rianimarne l'immagine appannata. A esercitare una funzione di supplenza della politica - che latita - sono i media più radicali. Non è uno spettacolo incoraggiante. Ciò che è in gioco è, così, «una certa idea della democrazia» che hanno non i due schieramenti politici, bensì due minoranze culturali inconciliabili. L'una, più attiva e rumorosa - come, per esempio, quella che si è radunata recentemente al PalaSharp di Milano -, manifesta la propria «indignazione» nei confronti del Paese del quale crede di essere l'avanguardia; detta la linea alle opposizioni che, non avendone alcuna, vi si adeguano, e «si siedono dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti sono già occupati» (Bertolt Brecht). La seconda minoranza, meno rumorosa, è dispersa, i media la ignorano o quasi; non si raduna da alcuna parte; si sa della sua esistenza grazie a quattro gatti che insegnano in qualche università e scrivono su qualche giornale sopportati come un cane in chiesa. È realista, scettica, relativista, tollerante quanto basta per non pretendere di dettare la linea a nessuno. È guardata con sospetto perché parla di Individui - dieci, mille, un milione (Max Weber) - non di quell'astrazione ideologica chiamata collettività che è la rassicurante cuccia dei conformisti e ha riempito i lager dei totalitarismi del Novecento; difende i diritti e le libertà individuali, compresi la proprietà privata e il mercato, osteggiata da tecnocrati e programmatori delle vite altrui e da chi ha fatto dell'invidia sociale una bandiera egualitaria. Entrambe le minoranze credono che ogni comunità sia fondata su principi morali condivisi; ma quella rumorosa «eticizza» la politica, dividendo il mondo in buoni e cattivi - con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall'altra - e assegna a se stessa, una élite sacralizzata, depositaria delle pubbliche virtù, il compito di redimere i cattivi. È una rappresentazione falsata della realtà - fatta di zone grigie - ad uso di una missione che è quella di una nuova Inquisizione piuttosto che quella affidata al senso comune di una comunità laica. È una sindrome totalitaria. L'élite auto-sacralizzatasi aborre la parola «qualunquista», con la quale designa l'«uomo qualunque» che ritiene un cretino o un fascista; la minoranza che i più ignorano, o dileggiano, la ama. Qualunquista è «l'uomo della strada», che cammina al nostro fianco, portandosi sulle spalle, come noi, la democrazia; l'uomo che vota, decretando un vincitore fra valori e interessi diversi, e persino opposti, in una «società aperta» (Karl Popper) e di «pluralismo di valori e di interessi» (Isaiah Berlin). Se certi valori e certi interessi fossero, in sé, più nobili che senso avrebbe ancora contare le teste, votare? La partecipazione alla vita pubblica - secondo un altro mantra della minoranza integralista - sarebbe la più alta espressione della dignità del cittadino. Era la «libertà degli antichi» nella Polis dove contavano i pochi. Per l'altra minoranza, quella liberale, il cittadino ha il diritto di farsi gli affari suoi - non votare è una manifestazione di libertà - senza per questo essere un nemico dello «Spirito del Progresso». È la «libertà dei moderni» (Benjamin Constant). A tutt'oggi, è la minoranza più rumorosa che pare prevalere e aver ridotto alla subalternità culture, gruppi sociali, media meno aggressivi. Ma è una vittoria dimezzata perché fondamentalmente contraria alla Modernità (vedi Jean-Jacques Rousseau) nella quale, ancorché faticosamente, sta entrando il Paese. Saranno i giovani - alcuni dei quali, ora, sposandone le suggestioni razionaliste, credono di procedere sulla strada di un «luminoso avvenire» collettivo - a riscattare, con l'«uomo qualunque», il senso comune. Essi già rivendicano le proprie libertà individuali. Non sarà, forse, la vittoria della minoranza colta e liberale - figlia dell'Illuminismo empirico e scettico anglosassone - ma, certamente, l'affrancamento dell'Italia dalle illusioni dell'Illuminismo razionalista francese. Più normale. Piero Ostellino 28 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: Piero OSTELLINO. La profezia di Oriana Inserito da: Admin - Marzo 09, 2011, 06:47:58 pm IL CONFRONTO TRA ISLAM E OCCIDENTE La profezia di Oriana Le rivolte di popolo nei Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo disegnano, in prospettiva, due scenari - uno per quegli stessi Paesi; l'altro per l'Europa - asimmetrici e persino paradossali. Scenario nei Paesi in questione: la caduta dei tiranni che li avevano governati a lungo, tenendone le popolazioni in uno stato di arretratezza culturale e politica, apre, forse, l'ipotesi di una loro stabilizzazione ad opera di giunte militari, parimenti illiberali. La speranza di un'evoluzione democratica, che l'Occidente deve in ogni modo favorire, non sembra al momento vicina. È possibile però che emerga una borghesia globalista, mercatista e utilitarista che inietti nella società civile, se non principi, almeno costumi sociali ed economici più vicini all'Occidente. Scenario in Europa: l'arrivo di masse di profughi, in fuga da quei Paesi prima della loro stabilizzazione, minaccia di incrementarne il tasso di «islamizzazione». L'asimmetria, e il paradosso, dei due scenari è che, mentre alcuni Paesi islamici farebbero un passo avanti sulla strada della secolarizzazione e della modernizzazione, l'Europa ne farebbe uno indietro lungo quella di una sempre più difficile coesistenza fra due «civilizzazioni» incompatibili sul piano sociale e politico, oltre che su quello religioso. È lo scenario - il «suicidio dell'Europa» - che Oriana Fallaci riteneva di avere intuito dopo l'attentato alle due Torri di New York. «Un'Europa che - già scriveva allora - non è più Europa, ma Eurabia». E che così descriveva: «In ciascuna delle nostre città esiste un'altra città... Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana». «Un nemico inoltre che in nome dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta (...). E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans». Pur denunciando «l'indulgenza della Chiesa Cattolica nei confronti dell'Islam (...) che anzi tutto mira alla distruzione del Cristianesimo», la Fallaci non voleva «promuovere una guerra di religione»; si limitava a chiedersi cosa ci fosse «di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà». La sua era, dunque, (solo) la denuncia di una «diversità» antropologica che minacciava di tradursi nella sconfitta della civilizzazione ebraico-cristiana e nell'estinzione della cultura politica più debole, perché più tollerante, quella liberaldemocratica. È difficile dire - perché è troppo presto per dirlo - se l'infausta profezia di Oriana si realizzerà. Ma, escluso - come lei prevedeva - che «i musulmani accettino un dialogo con i cristiani, anzi con le altre religioni» (o con gli atei), è «sulle conseguenze sociali» delle diversità fra Islam e Cristianesimo che, come suggerisce saggiamente Papa Ratzinger, sarebbe, però, necessario aprire un dialogo con chi viene da noi. Per sapere se vuole davvero convivere in armonia con noi. Piero Ostellino 09 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: Piero OSTELLINO. Gli interessi nazionali e le ipocrisie Inserito da: Admin - Marzo 22, 2011, 03:37:31 pm OPERAZIONE LIBIA / 2 Gli interessi nazionali e le ipocrisie L'intervento militare in Libia, da parte di una Comunità internazionale «dimezzata», solleva alcune domande di senso comune. Prima: perché si è intervenuti? Risposta: a seguito di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu proposta da Francia e Gran Bretagna e approvata con l'astensione di Russia, Cina, Germania, India e Brasile. Giuridicamente, sembra lecito qualche dubbio sul diritto di intervento nei confronti di un Paese membro delle Nazioni Unite in preda a una rivolta interna. Resta in piedi la ragione politica; che «autorizza l'impiego di tutte le misure necessarie a proteggere le popolazioni civili e le zone abitate da civili». Fa testo la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che motiva l'intervento - in contrasto col principio di sovranità sanzionato dalla pace di Westfalia che poneva fine alle guerre di religione (cuius regio, eius religio) e alle reciproche interferenze degli Stati - con le «ragioni umanitarie». Subentrano, però, due altre domande. Che senso ha intervenire contro il «tiranno» Gheddafi dopo averlo sostenuto a lungo? Perché in Libia sì e in altre parti del mondo, dove si sono consumati autentici genocidi, no? Emergono, così, due dati di fatto. Da una parte, la crisi di leadership degli Stati Uniti dopo l'irruzione della Cina, e della «nuova Russia», sulla scena mondiale. Dall'altra, dopo la fine della Guerra fredda, il ritorno dell'«interesse nazionale» in Europa. La Gran Bretagna vuole riprendersi il ruolo, se non sulla scena internazionale, almeno su quella europea, che aveva perso con la Seconda guerra mondiale; la Francia - che, dopo i fallimenti della sua politica di sostegno a Ben Ali in Tunisia e a Mubarak in Egitto, deve ripristinare la propria influenza nell'area - punta a sostituire l'Italia nei rapporti con la Libia (dal petrolio alle relazioni economiche e commerciali) del dopo-Gheddafi, precostituendosi relazioni privilegiate con la borghesia mercatista che subentrerà al Colonnello. Le rivolte popolari nei Paesi dell'Africa del Nord hanno messo in moto un riposizionamento delle grandi potenze regionali europee nell'area del Mediterraneo che sta relegando l'Italia in retroguardia. Prima di finire a rimorchio della Francia, e accodarsi a un intervento, ancorché inevitabile ma dal quale abbiamo tutto da perdere, sarebbe stata utile, da parte nostra, un'iniziativa diplomatica forte, come la proposta di una Conferenza dei Paesi dell'area, dalla Lega araba alle maggiori potenze europee. Ora, in quella che, per dirla con un tardo paradosso marxista, ha tutta l'aria di un'iniziativa para-coloniale, legittimata da una «guerra umanitaria» - della quale si eviterà probabilmente di fare il computo delle vittime - e condotta all'insegna di interessi nazionali accuratamente celati all'opinione pubblica da quel velo di ipocrisia che copre ogni operazione di Realpolitik, i giochi sono fatti alle nostre spalle. Siamo rimasti i soli a ritenere l'interesse nazionale un «mostro morale», e a non perseguirlo con sano realismo; incoraggiati da una cultura progressista ondivaga, che un giorno è internazionalista e l'altro nazionalista; un giorno è interventista e l'altro no. Piero Ostellino 22 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: Piero OSTELLINO. Le Istituzioni prima di tutto Inserito da: Admin - Aprile 02, 2011, 06:13:01 pm Le Istituzioni prima di tutto
La credibilità istituzionale dell'Italia è sotto esame - più come «spirito generale della Nazione» che come capacità di governo - del mondo intero, in ordine alle due forme che la libertà politica ha assunto dalla metà del Settecento: quella il cui referente è la costituzionale distinzione e separazione dei poteri e quella il cui referente è la civile sicurezza dei cittadini (Montesquieu: Lo spirito delle leggi, 1748). La prima forma di libertà politica riguarda la discussione in corso sulla riforma della Giustizia. La seconda, l'ondata immigratoria dalla quale siamo sommersi. Della disarmonia istituzionale si è fatto interprete il presidente della Repubblica, che ha convocato al Quirinale i capigruppo di Camera e Senato. Se non ci fosse di mezzo Berlusconi - col suo carico di processi pendenti, di leggi ad personam per evitarli e di polemiche con i pubblici ministeri che lo vogliono processare dando, qualche volta, l'impressione più per tigna che per obbligatorietà dell'azione penale - quale sarebbe il giudizio delle opposizioni sul progetto del centrodestra di riforma della Giustizia? Quale sia il giudizio sul progetto di riforma - che è legittimo a seconda dell'idea che si ha del sistema giudiziario e dei suoi rapporti con gli altri poteri - rimane, però, un dubbio. Che in gioco non sia una giustizia giusta, ma la capacità della classe politica di essere classe di governo sia quando governa, sia quando, dall'opposizione, si propone come alternativa. Quella al governo, evitando di compromettere la credibilità della proposta di riforma con la contemporanea approvazione di altre leggi ad personam (come l'accorciamento dei tempi di prescrizione per gli incensurati); quella all'opposizione, evitando di dar mostra di volersi opporre a una riforma, condivisibile o modificabile, al solo scopo di liberarsi del Cavaliere. Nel pensiero del Settecento e dell'Ottocento, la certezza del diritto coincideva col concetto di libertà del cittadino di non essere soggetto che alle leggi. La certezza del diritto era subordinata alla condizione che l'autorità preposta alla interpretazione delle leggi non godesse di una eccessiva discrezionalità. L'esistenza di una Legge fondante si concretava nella gerarchia delle leggi e prefigurava la separazione dei poteri. Oggi, i governi producono leggi variabili nel tempo e applicabili a singoli casi, lo Stato di diritto non è più il governo delle leggi, bensì di uomini dotati di largo potere discrezionale che le interpretano estensivamente; i magistrati partecipano al processo legislativo e esercitano una funzione significativa nell'interpretazione stessa delle leggi attraverso ciò che da noi è chiamato «diritto creativo». Tutto ciò - indipendentemente dalle vicende giudiziarie della Prima repubblica e, oggi, di Berlusconi - si è concretato nel conflitto fra potere politico e potere giudiziario. Da una parte, c'è l'idea di democrazia (Secondo trattato sul Governo di Locke) che - in quanto espressione della sovranità popolare - non può essere limitata da un potere (quello giudiziario) che da essa non promana direttamente; è l'idea di democrazia plebiscitaria di Berlusconi dopo la trasformazione del sistema politico in senso maggioritario. Dall'altra, c'è l'idea di parità, teorizzata dal costituzionalismo di Montesquieu, fra i tre poteri; che, però, ponendo limiti al legislativo e all'esecutivo, da parte del giudiziario, entra in contraddizione con la sovranità popolare; è anche l'idea di autonomia, nel proprio ambito, ma non di distinzione e tanto meno di separazione, dei poteri maturata da una parte della magistratura che, in tal modo, si è ritagliata il ruolo di antagonista del potere politico, quale ne sia il colore, ed è percepita da Berlusconi come indebita opposizione al proprio governo. È, dunque, innanzitutto, dal riesame del rapporto fra Stato di diritto e democrazia rappresentativa che dovrebbe partire, da parte sia della maggioranza sia dell'opposizione, la discussione sul confronto fra poteri dello Stato e sulla riforma della Giustizia. D'altra parte, la libertà che attiene alla Costituzione e quella che riguarda la sicurezza dei cittadini sono certe, convergono e si fondano solo se il governo è stabile, la giurisdizione è impersonale, la dialettica fra i poteri si concreta in un accordo su principi condivisi. Fra questi, la moderazione, secondo Montesquieu, non è tanto una «forma» istituzionale di governo, bensì il «modo» di governare; che, quindi, riguarda sia la maggioranza al governo, sia l'opposizione parlamentare che ne è l'alternativa. Ma non è così. Giovedì, riferiscono le agenzie, «la rissa nell'aula della Camera era ripresa esattamente dove era stata interrotta la sera prima». E continua. Rischiamo, così, di essere bocciati in cultura istituzionale dall'opinione pubblica mondiale, mentre l'emergenza immigrazione, i sacrifici che la nostra popolazione sta facendo, i costi che stiamo tutti pagando, la latitanza dell'Europa, i vergognosi egoismi della Francia, che respinge gli immigrati alle sue frontiere con noi, ci darebbero ragione. Piero Ostellino 02 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_02/ Titolo: Piero OSTELLINO. Il caso Tremonti non è chiuso Inserito da: Admin - Aprile 23, 2011, 06:24:52 pm CONTESE PERSONALI, NODI POLITICI
Il caso Tremonti non è chiuso Il governo, per ora, è salvo, ma il problema rimane. Ed è politico. La solidarietà data da Berlusconi a Tremonti - che, altrimenti, si sarebbe dimesso, provocando la crisi di governo - consente all'esecutivo di sopravvivere. Ma le accuse di Galan a Tremonti di condizionare l'operato dei ministri, e di bloccare lo sviluppo del Paese, sono una lama a doppio taglio. Tremonti ha il merito, stringendo i cordoni della borsa, di aver salvato il Paese dalla speculazione internazionale sul debito pubblico e dal pericolo di bancarotta finanziaria. È anche verosimile che la stretta abbia finito col ridurre le capacità di ripresa della nostra economia - mentre altri Paesi si sono già rimessi in moto - di cui si è fatto interprete lo stesso mondo imprenditoriale. Interpretare, perciò, la crisi come un caso di litigiosità fra ministri sarebbe riduttivo. Mettiamo pure che la sortita di Galan rifletta il malumore di molti di loro, e dello stesso Berlusconi, per un rigore che, bloccando la spesa pubblica, ha ridotto la disponibilità di risorse e la capacità di iniziativa dei singoli ministeri. Non è un paradosso dire che, oggi, i ministri sono «senza portafoglio»; che è, poi, la loro autonoma capacità di spesa una volta ripartite le risorse disponibili. Ma il ministro dei Beni culturali - per usare una metafora ciclistica - non è «un uomo in fuga» che, prima o poi, il «gruppone» riassorbirà, procedendo compatto verso il traguardo. Galan, dicendo che Tremonti ha «commissariato» il Consiglio dei ministri, ha sollevato il problema, tutto politico, della capacità di direzione del governo e, quindi, ancorché indirettamente, del presidente del Consiglio. Anche ammesso che la sua sortita sia stata, se non concordata, ispirata dagli umori di Berlusconi nei confronti di Tremonti - che egli percepisce come un suo possibile successore sostenuto dall'opposizione - è un fatto che essa non «azzoppa» un concorrente nella gara alla premiership, ma il capo del governo in carica. Viene, così, in primo piano - per usare l'antica espressione di Enrico Berlinguer per denunciare l'involuzione dell'Unione sovietica - la crisi di quella «spinta propulsiva» del centrodestra che passa sotto il nome di «rivoluzione liberale». L'interprete, e «propulsore», di tale rivoluzione era stato Berlusconi che, nel 1994, aveva raccolto attorno a sé un certo numero di entusiasti intellettuali liberali. Non è, però, un caso che di quegli stessi intellettuali si siano perse le tracce e alcuni di loro non nascondano neppure il proprio scontento per l'involuzione conservatrice di Forza Italia, prima, e del Popolo della libertà, infine. Berlusconi ne ha attribuito la responsabilità, via via, a Casini, poi a Fini - che avrebbero boicottato le riforme - e, ora, sordamente, anche dopo il formale sostegno che è stato costretto a confermargli in questa circostanza, a Tremonti. Forse, dovrebbe chiedersi se il principale responsabile dello stallo non sia lui stesso. Per aver concentrato, ancorché per ragioni umanamente comprensibili, pressoché tutta la propria capacità di iniziativa parlamentare sulla soluzione dei propri problemi giudiziari, invece che su quelli del Paese. Piero Ostellino 23 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_23/ Titolo: Piero OSTELLINO. Una città, due borghesie Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 12:57:01 pm MILANO E LE IDEE DEGLI SFIDANTI
Il commento Una città, due borghesie Letizia Moratti e Giuliano Pisapia hanno come «grandi elettori» le due borghesie nelle quali è (apparentemente) divisa la upper class nazionale. L'una, di (centro)destra, si dichiara «moderata»; l'altra, di (centro)sinistra, «progressista». Ma i due aggettivi sono troppo generici, e logori, per significare qualcosa anche per chi se ne fregia. Il diavolo sta nei particolari. La borghesia progressista è per «la difesa della Costituzione»; quella moderata per la sua «riforma». Ma non sono molti quelli, da una parte e dall'altra, che l'hanno letta, l'hanno capita e sanno perché sono pro ovvero contro. La borghesia moderata è per il mercato; quella progressista per lo Stato sociale. Ma sono una esigua minoranza quelli che, a destra, sanno che cosa sia il mercato e che cosa ne abbiano scritto i classici del liberalismo e, a sinistra, sanno chi era Beveridge e che l'economia sociale di mercato non è una forma di socialismo, ma il mercato i cui esiti sono temperati, ex post, dall'intervento pubblico, là dove producano effetti «collaterali» dannosi per gli individui. In definitiva, non ci sono due borghesie, distinte per metodologia della conoscenza - empirica ovvero filosofica, non ne parliamo neppure - per cultura politica, individualistica ovvero collettivistica. Ce n'è una sola. Conservatrice. Questa sola constatazione dovrebbe rassicurarci circa gli allarmismi dei rappresentanti di quella di (centro)destra e i propositi multiculturali dei rappresentanti di quella di (centro)sinistra. Non sarà la costruzione di una moschea ad alterare il profilo sociale di Milano. Saranno gli interessi organizzati - i «poteri forti» - che fanno capo alla borghesia detta «progressista» ovvero a quella detta «moderata», a seconda che vinca Pisapia o la Moratti. Le due borghesie non contano molto ai fini del risultato elettorale. Contano parecchio «dopo», quando si tratta di governare le risorse cittadine. Marx chiamava i governi delle democrazie liberali il «Comitato esecutivo della borghesia». Sarà tale Comitato - sulla base degli interessi dei suoi componenti - a disegnare il profilo di Milano. Chiunque vinca, i due pallidi candidati sono stati - per dirla ancora con Marx - la «falsa coscienza» di tali interessi. Gli interessi - che da noi sono chiamati con pudico sociologismo «blocco sociale» - non sono una cosa sporca. Ma non devono essere occulti, bensì palesarsi. Il cittadino ha il diritto di sapere cosa guadagnerebbe o cosa perderebbe - più o meno tasse, più o meno servizi pubblici, più o meno mercato, più o meno verde, più o meno smog, più o meno traffico, marciapiedi e strade più o meno puliti, eccetera - a seconda che voti per l'uno o per l'altro dei candidati. La Moratti ha affidato al capo del governo la sua campagna elettorale. È stato un errore. Avrebbe dovuto valorizzare quello che ha fatto - welfare, Expo, estensione della rete dei trasporti con le nuove linee del metrò - e spiegare meglio ciò che intende fare se fosse rieletta. Col «Piano di Governo del Territorio», si propone di proseguire sulla stessa linea, supplendo alla mancanza di risorse del Comune con il coinvolgimento dei privati, anche nella costruzione di alloggi a costi e affitti bassi: il mercato fa capolino con il principio di sussidiarietà. Pisapia vorrebbe trasformare l'A2A, la società per azioni, costituita dalla fusione fra le ex municipalizzate di Milano (Aem) e di Brescia (Asm), in «una protagonista dello sviluppo della green economy (...) attraverso interventi di efficienza nella produzione e nella distribuzione dell'energia e del calore». Qui, siamo in piena «politica industriale» - coerentemente con la cultura del candidato di (centro)sinistra - cioè all'indirizzo e alla gestione dello sviluppo da parte del Pubblico con finalità da esso stesso programmate (la green economy). Resta una domanda da fare al candidato di (centro)sinistra: come intende finanziare i suoi interventi di welfare comunale? Nuove tasse non sarebbero una manifestazione di socialità, ma il trasferimento forzoso di reddito da una parte della popolazionme all'altra. I due programmi restano buone quanto generiche intenzioni (anche se sarebbe stato meglio conoscere prima nome e capacità delle persone in giunta) condannate a essere condizionate dal «dopo elezioni», quando chi vincerà farà inevitabilmente i conti con la propria borghesia di riferimento. Conservatrice dei propri privilegi; come la controparte. Piero Ostellino 26 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_maggio_26/ Titolo: Piero OSTELLINO. La dilatazione dello Stato Inserito da: Admin - Luglio 09, 2011, 04:58:46 pm SPESA PUBBLICA, VA RIDOTTA DI PIÙ
La dilatazione dello Stato Tutti i governi - sia di centrodestra, sia di centrosinistra - sono condannati a fare la stessa politica finanziaria: spesa pubblica elevata; pressione fiscale elevata per farvi fronte. I costi dello Stato hanno cancellato la storica distinzione fra destra e sinistra. La mancata rivoluzione liberale del Popolo della libertà di Berlusconi fa il paio con l'ambiguo riformismo del Partito democratico di Bersani. Se si inverte l'ordine dei fattori - Tremonti e Visco - il prodotto (fiscale) non cambia. Il centrodestra giustifica la pochezza della sua riforma fiscale - che prevede tre nuove aliquote Irpef al 20, 30, 40% - con l'enorme debito pubblico e l'esigenza di ridurlo. Ma l'alibi del debito è guardare il dito invece della luna. Ha ragione Tremonti quando dice che gli Stati producono più deficit che Pil. Bisognerebbe, allora, smetterla di guardare il dito e incominciare a guardare la luna. Che è lo Stato come si è sviluppato dal secondo dopoguerra ad oggi. Un esempio delle ragioni per cui gli si chiede troppo, rispetto a ciò che può socialmente dare, e, di conseguenza, per cui finisce col togliere fiscalmente più di quanto dovrebbe, sta nell'articolo 3 della Costituzione: «...È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». In sintesi, si passa dalla constatazione di un dato di fatto - l'esistenza di diseguaglianze economiche e sociali fra i cittadini - all'impegno, da parte dello Stato, a realizzare eguaglianze dello stesso ordine. Ma la contraddizione è sanabile solo imponendo l'eguaglianza con la forza, in violazione delle libertà individuali, come hanno fatto i regimi di «socialismo reale»; ovvero producendo un eccesso di spesa pubblica e di pressione fiscale che mortificano lo sviluppo, come accade in molte democrazie liberali. La prima eguaglianza, per via totalitaria, era «l'eguaglianza nella povertà» del comunismo, della quale, sotto il profilo economico e sociale, parlava Churchill; la seconda eguaglianza, per via democratica, è, comunque, irraggiungibile perché gli uomini, ancorché uguali di fronte alla legge, restano, in regime di libertà, diversi per capacità, merito, fortuna. Auspicare che gli uomini siano eguali sul piano economico e sociale equivale a dire: piove, ma non dovrebbe piovere. Lo Stato, dilatato oltre ogni ragionevole misura, è l'irrazionale deduzione di un giudizio di valore (staremmo meglio se non piovesse) da un giudizio di fatto (piove). In una democrazia liberale, si usa l'ombrello (le provvidenze dello Stato sociale), ma non si può pretendere che non si bagni nessuno (eliminare le diseguaglianze). Giulio Tremonti, che è il ministro socialista di un governo che si vuole liberale, ha disegnato una riforma fiscale che fa in modo che non si bagni nessuno; ma che non ubbidisce all'imperativo liberale dello sviluppo: rassegniamoci che le diseguaglianze permangano, ma cerchiamo di stare meglio tutti. La riforma si propone di perequare i redditi, riducendone le aliquote in modo pressoché uguale. Così, finisce col mancare i suoi obiettivi: 1) di elevare in modo consistente le condizioni dei ceti meno fortunati, cui i pochi euro in più non cambieranno la vita; 2) di produrre la ripresa economica, grazie all'aumento dei consumi, abbassando radicalmente quelli medio alti, che hanno una maggiore capacità di spesa. Reagan s'era trovato davanti allo stesso dilemma. Ma Laffer - l'economista della «curva» omonima secondo la quale una elevata pressione fiscale provoca una forte evasione e una diminuzione del gettito, mentre una bassa pressione accresce il gettito perché (quasi) tutti pagano le tasse - lo aveva consigliato di ridurre in misura maggiore le tasse sui redditi medio-alti. E l'economia degli Stati Uniti era ripartita.Se, anche da noi, non si prende atto che il problema è, innanzi tutto culturale, cioè etico-politico - le abnormi dimensioni dello Stato, l'eccesso di spesa pubblica e di pressione fiscale; la necessità conseguente di ridurre le dimensioni dello Stato e di diminuire l'una e l'altra - non ne usciremo mai. Piero Ostellino 07 luglio 2011(ultima modifica: 08 luglio 2011 19:32) © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_07/ostellino_dilatazione-dello-stato_0434fd1a-a857-11e0-ad5c-15112913e24f.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. L’ingombrante mano pubblica Inserito da: Admin - Luglio 26, 2011, 11:21:39 am PESO DELLO STATO E SOCIETA’ CIVILE
L’ingombrante mano pubblica Sono più di un milione e 300 mila le persone, in Italia, che vivono «di» politica, nel senso che la loro fonte di sostentamento è la politica, esattamente come la metalmeccanica lo è dei metalmeccanici e il giornalismo dei giornalisti. Poiché, però, i conti pubblici del Paese corrono qualche rischio, la stessa politica ha tratto la conclusione che costoro sono tanti, costano troppo e quindi vanno ridotti. A me pare una risposta sbagliata, se non demagogica, più per far fronte alla marea dell’antipolitica che sale dall’opinione pubblica che per razionalizzare il sistema. La domanda corretta dovrebbe essere che cosa faccia tutta questa gente «per» la politica, per facilitare il buon funzionamento delle istituzioni e migliorare la vita ai cittadini. Poiché, d’altra parte, i cittadini sono sempre più oppressi dall’eccessiva pressione fiscale, che serve a finanziare una spesa pubblica straripante; poiché lamentano difficoltà a orientarsi nella giungla di leggi e di regolamenti, che penalizzano investimenti e produzione; poiché sono scandalizzati dagli sprechi e dalla corruzione, che distruggono risorse; poiché hanno, in altre parole, la sensazione che quel milione e 300 mila che vive «di» politica faccia più danni che altro, ecco allora che il problema non è (solo) contabile, bensì (soprattutto) politico. E se il problema è politico, ci si deve chiedere quanto spazio, nella nostra vita, debba occupare la sfera pubblica a ogni livello, e quanto di tale spazio dovrebbe essere lasciato a noi stessi, alla società civile. Rispondere semplicisticamente con lo slogan «meno Stato, più mercato», invece di facilitare la soluzione del problema, ha complicato però le cose e ridotto la questione a un conflitto ideologico fra liberali e socialisti. La risposta corretta, dalla quale partire, è, pertanto, «più Stato, dove è necessario; più società civile, dove è possibile». È anche la tesi del liberalismo di Adam Smith, Friedrich von Hayek, Luigi Einaudi, che è per lo Stato giuridico, non per lo Stato etico; è sociale, non assistenziale. I suoi nemici hanno ridotto il liberalismo a un «fantoccio polemico» contro il quale sparare in favore della spesa pubblica, e delle tasse, della carità di Stato, a detrimento della vera socialità. Munizioni di chi vive «di» politica e poco «per» la politica. Il centrodestra di Antonio Martino, Giuliano Urbani, Marcello Pera, Alfredo Biondi—quello, per intenderci, della «rivoluzione liberale » che aveva connotato la discesa in campo di Berlusconi — pareva averlo capito e, con la promessa riduzione della spesa pubblica e della pressione fiscale, aveva progettato anche una radicale semplificazione normativa e amministrativa, le privatizzazioni di alcuni servizi pubblici degli enti locali (poi malaccortamente fatte dal centrosinistra, e che hanno accresciuto clientelismi e corruzione periferici). Tali riforme erano la condizione per sanzionare, se non la fine dello statalismo, degli sprechi e persino della corruzione, almeno il loro contenimento. Non se ne è fatto nulla e, ora, quel che è peggio, c’è culturalmente e politicamente l’orientamento a identificare il crepuscolo del berlusconismo — che liberale lo è stato molto a parole, poco nei fatti—con la crisi del liberalismo, del capitalismo e del mercato, che delle libertà e del benessere di cui gode l’Occidente sono stati storicamente la pre-condizione, e ad auspicare il ritorno allo statalismo. In tale contesto, il mondo della cultura e il sistema informativo devono esercitare una duplice funzione. Prima: chiedersi «come» stanno le cose, il che è verificabile nella realtà, piuttosto che dire «perché» dovrebbero stare diversamente, che implica una risposta ideologica non verificabile. Seconda: invece di assecondare la protesta populista e la demagogica illusione di ridurre i costi della politica, pur necessaria, senza ridurre gli ambiti di intervento dello Stato, intellettuali e media dovrebbero chiedersi quanto accrescano i diritti, le libertà individuali, il benessere generale e lo sviluppo del Paese ogni provvedimento del governo e ogni proposta dell’opposizione, e informarne correttamente l’opinione pubblica. A fondamento della democrazia ci sono due pilastri: un sistema informativo attento e un’opinione pubblica bene informata. Piero Ostellino 26 luglio 2011 07:45© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_26/ostellino-ingombrante-mano-pubblica-editoriale_602a0a18-b746-11e0-bc88-662787a705c0.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Se lo Stato non cambia l'economia non riparte Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 10:10:01 am Proposte liberali
Se lo Stato non cambia l'economia non riparte Qualsiasi misura di breve periodo (congiunturale), ancorché necessaria, urgente e utile, rischia di essere il dito nella falla della diga se non è accompagnata da una realistica analisi della crisi e da misure di medio-lungo periodo (strutturali). La chiave di lettura della crisi attuale sta in un articolo di Luigi Einaudi del 1933, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana . Nell'articolo denunciava, di fronte alla situazione di allora, «l'incapacità dell'Italia a superare, entro gli schemi tradizionali della sua costituzione politica, la crisi del dopoguerra». La svolta era avvenuta nel 1876 - con la caduta della Destra storica e l'avvento della Sinistra - a seguito della quale banchieri, industriali, corporazioni, erano stati indotti, dall'eccesso di interessi protetti dallo Stato, ad «accaparrarsi il favore dell'opinione pubblica colla stampa e il voto del Parlamento». È ciò che è avvenuto, in Italia, dagli anni Settanta del secondo dopoguerra ad oggi e ancora sta accadendo; è quanto è accaduto, in Europa, per vocazione «costruttivista» (l'Ue come prodotto della Ragione, non dei conti con la Realtà); è accaduto persino negli Stati Uniti, e in altre parti del mondo, dove il liberalismo ha ceduto il passo allo statalismo. Quello che non avevano capito, allora, e sembrano non capire, adesso, sia la classe politica, sia molti osservatori è che nel confronto fra socialisti, fautori del modello prussiano di controllo pubblico dell'economia, del «collettivismo burocratico» e mercantilisti, da un lato, e liberali, dall'altro, in gioco era, è, la natura dello Stato, non una linea di politica economica. Allora, i liberali italiani, Einaudi, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Antonio de Viti de Marco e persino due democratici, come Gaetano Salvemini e Piero Gobetti, avevano capito che il protezionismo economico bismarckiano era il cavallo di Troia che avrebbe (aveva) introdotto nella politica il virus del nazionalismo e del militarismo, cioè una concezione dello Stato «come potere assoluto» che - a differenza del liberalismo inglese di Gladstone, liberoscambista e pacifista - individuava nella politica di potenza e, infine, nella guerra lo strumento della propria affermazione (Roberto Vivarelli: Liberismo, protezionismo, fascismo - Un giudizio di Luigi Einaudi , Rubbettino). Oggi, solo i liberali paiono aver capito che il socialismo, il controllo pubblico dell'economia, il «collettivismo burocratico», il mercantilismo hanno prodotto, nel recente passato, oltre alla stagnazione economica, quell'arrembaggio ai conti pubblici di cui parlava Einaudi nel 1933 e che, se assecondato, aggraverebbe, invece di risolvere, la crisi attuale. Confondere l'intervento (contingente) dello Stato nell'economia, nei casi di crisi, con «la morte del liberalismo economico» (come metodo di produzione della ricchezza) è consegnare le nostre libertà, non solo quelle economiche, ma anche e soprattutto quelle civili, all'arbitrio della classe politica e delle sue dissennate spese. Che fare, allora? Se il problema è politico, non economico, la soluzione non può che essere politica. È la natura dello Stato che deve cambiare. Come? Proviamo a proporre qualche soluzione. Primo: mettendo in vendita il patrimonio dello Stato (caserme, edifici, aree non utilizzate) e privatizzando alcuni servizi pubblici (come le Poste) per reperire risorse sul mercato e dare subito una gran spallata al debito. Secondo: deregolamentando la Pubblica amministrazione e liberalizzando il mercato (dagli Ordini professionali, al diritto societario, alle relazioni industriali), per consentire alla società civile - invece di ingegnarsi per ottenere i favori del governo - di operare in un quadro normativo che riduca le occasioni di corruzione, contenga il familismo amorale e il clientelismo, impedisca gli abusi, massimizzi, al tempo stesso, le libertà individuali, il merito, la propensione a scommettere e a intraprendere. Terzo: riformando le procedure e accelerando i tempi di attuazione della giustizia civile, per trasformarla, da un «disservizio» quale è ora, in un «servizio» sia nelle controversie di parte, sia nella riscossione dei crediti (disservizio che, oggi, scoraggia gli investimenti esteri); razionalizzando i compiti della giustizia penale la cui tendenza è stata, a volte, persino quella di condizionare le libere transazioni di mercato in base a considerazioni politiche, se non addirittura clientelari. Quarto: eliminando quelle normative illiberali, anche recentissime - da Antico regime o da Paese di «socialismo reale» - che appesantiscono i rapporti del cittadino con lo Stato e gli rendono difficile la vita. Si tratta di ridurre l'eccesso di intermediazione pubblica che, oggi, accresce i costi delle stesse transazioni private; di contenere entro limiti di ragionevolezza (anche sociale) i costi dello Stato; infine, di portare la pressione fiscale a un livello che persino la Dottrina sociale della Chiesa suggerisce di non superare. La crescita c'è se c'è più Stato dove è necessario, se c'è più società civile dove è possibile; se ci sono maggiori libertà per tutti, nel rispetto delle libertà di ciascuno; più soldi nelle tasche di chi, poi, li spenderà, facendo ripartire i consumi, o li investirà, aumentando la produzione. Piero Ostellino 08 agosto 2011 08:32© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_08/se-lo-stato-non-cambia-l-economia-non-riparte-piero-ostellino_fd097174-c183-11e0-9d6c-129de315fa51.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Cura dimagrante per lo Stato Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 05:40:18 pm PIU' PRIVATIZZAZIONI E LIBERALIZZAZIONI
Cura dimagrante per lo Stato Sono tante crisi nazionali, tutte uguali e con la stessa origine: un forte debito pubblico spesso aggravato dal deficit di bilancio. Ma per la politica è, invece, una crisi internazionale provocata dalla «speculazione», una sorta di Spectre spuntata non si sa da dove e perché. Così, una vicenda incominciata come tragedia è diventata farsa. Il capo del governo si dice convinto di passare alla storia - cito dai giornali - «come il salvatore dell'Italia dal disastro»; dimenticando che l'Italia non sarebbe finita sull'orlo del disastro se lui avesse fatto quello che aveva promesso di fare: ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale, deregolamentare normativamente e amministrativamente. La politica si è creata un «nemico esterno» (la speculazione) perché, altrimenti, avrebbe dovuto ammettere che la colpa è sua e non potrebbe chiedere «sacrifici» ai cittadini per uscirne. Lo Stato, che già li opprimeva con un eccesso di pressione fiscale, li invita, ora, a pagare altre tasse che chiama «contributo di solidarietà». La mistificazione è grossolana. Se la crisi fosse dovuta (unicamente) alla speculazione - e non fosse, piuttosto, la speculazione ad essere l'indotto delle condizioni finanziarie degli Stati sotto il suo attacco - non avrebbe alcun senso chiedere sacrifici e sollecitare i governi ad adottare misure di contenimento dei costi per pervenire al pareggio di bilancio e alla riduzione del debito. La speculazione non si arresterebbe neppure dopo aver adottato tali provvedimenti. È entrato in crisi il sistema di controllo pubblico dell'economia - di cui si era teorizzata l'esigenza, anche dopo la crisi del '29, come antidoto ai limiti del capitalismo e del mercato - che ha rallentato lo sviluppo, introducendo elementi distorsivi, oltre che nell'accumulazione della ricchezza, anche nella conoscenza della realtà sociale. La lotta alla disoccupazione, attraverso l'impiego permanente nel settore pubblico della manodopera eccedente in quello privato; l'estensione del welfare all'intera popolazione; i sussidi all'industria e alle banche private che non ce la facevano a reggersi sulle proprie gambe hanno dilatato a dismisura la spesa e inquinato il mercato. La moltiplicazione di leggi e regolamenti; la spesa pubblica non coperta dalla fiscalità e compensata dalla politica finanziaria di deficit spending ; la sottovalutazione del risparmio privato, sacrificato al finanziamento del debito pubblico, hanno generato un cortocircuito che ha fatto saltare lo Stato. Il governo - prima di mettere le mani nelle tasche dei cittadini - avrebbe dovuto dire come stavano le cose. A sua volta, l'opposizione dovrebbe chiedersi, ora, se sia ancora credibile proporsi come l'autentico interprete di politiche pubbliche a causa delle quali non solo il centrodestra ma, altrove, anche i governi di altri Paesi hanno fallito. Se mettessero testa a un ripensamento del passato e mano a scelte politiche più aperte alla società civile, centrodestra e centrosinistra sarebbero, insieme, artefici di una autentica «discontinuità», sia rispetto al passato, sia a quella, peraltro fumosa, che entrambe auspicano. Nessuna «discontinuità» invece si vede in materia di liberalizzazioni e privatizzazioni: se nella manovra del governo c'è qualche indicazione per gli enti locali, con incentivi ai Comuni che dismetteranno quote di municipalizzate, niente si dice sulle partecipazioni dello Stato in Eni, Enel e Finmeccanica, né sulla privatizzazione del Poligrafico, delle Poste o della Rai. Viviamo una fase paradossale nella storia del pensiero politico nazionale. Non siamo mai stati tanto liberi e non abbiamo mai goduto di condizioni di vita tanto buone. Lo dobbiamo alla democrazia liberale, al capitalismo e al mercato. Che mettiamo, invece, volentieri sotto accusa, alzando sempre più l'asticella delle libertà, dei diritti, del benessere, e spostando sempre più in avanti, man mano che miglioriamo, il raggiungimento di tali obiettivi. Non si tratta di accontentarsi di ciò che si è ottenuto e di adagiarsi nella conservazione; ma neppure di negare i risultati raggiunti col rischio di comprometterli in nome di una «perfezione», sempre all'orizzonte e mai raggiunta. La democrazia liberale, il capitalismo e il mercato sono tutt'altro che sistemi perfetti; sono, tuttalpiù, perfettibili. Per migliorarli, sarebbe sufficiente guardare al mondo chiedendosi, almeno, «come stanno le cose», andando, poi, a verificare se la risposta che ci siamo dati corrisponda alla realtà e operando di conseguenza. Piero Ostellino 18 agosto 2011 08:23© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_18/cura-dimagrante-per-lo-stato_18f45e96-c961-11e0-a66c-10701cdb9ebd.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. I ricchi e gli evasori Inserito da: Admin - Settembre 05, 2011, 10:47:42 am I ricchi e gli evasori
Fra i «danni collaterali» prodotti dalla schizofrenica politica del centrodestra e dall'assenza di una opposizione riformista di centrosinistra, c'è la metamorfosi del linguaggio della politica, di quello dei media in generale e persino dei fiancheggiatori dell'uno e dell'altro schieramento. È passato dalla difesa di alcuni principi liberali - la tutela della privatezza, il rispetto per l'autonomia dell'individuo, la certezza del diritto, il governo della legge, la condanna del cambiamento delle regole mentre si gioca, per non parlare del contenimento della spesa pubblica e della riduzione della pressione fiscale - alla loro negazione, all'elogio di forme di propaganda demagogica che rasentano il lessico dei totalitarismi di destra e di sinistra del secolo scorso. Un caso di regressione e di degrado civili, oltre che culturali e politici. L'Unione Europea ha fornito al Cavaliere un assist formidabile, consigliandolo di fare quelle riforme di struttura che aveva messo nel suo programma del '94. Il governo non solo non lo ha raccolto ma ha scatenato, con la complicità dei media, una caccia all'«untore», il «ricco», identificato tout court con l'«evasore». Tremonti, che ripete che «anche i ricchi devono pagare le tasse», non si limita a proclamare un principio ovvio per un ministro delle Finanze, bensì fa un'affermazione che puzza di demagogia lontano un miglio, che non fa onore né alla sua intelligenza né alla sua cultura e suona più una giustificazione dell'incapacità del governo di fargliele pagare che un programma di rigore fiscale, che andrebbe fatto con serietà. I dati di ieri fanno riflettere. Nel giro di qualche settimana, la «comunicazione» governativa ha attribuito la crisi - che è della finanza pubblica nazionale, oberata da uno Stato costoso, sprecone e oppressivo - alla «speculazione internazionale», che ne è invece il sintomo; e, una volta constatato dai sondaggi che gli italiani non la bevevano, la fa risalire, ora, all'evasione fiscale. Ma, dopo aver indicato una serie di misure, il governo le sta parzialmente correggendo. Cancellata infatti la parte più ruvida della manovra, come l'idea di mettere alla berlina le dichiarazioni dei redditi (già pubbliche) o di imporre l'identificazione dei conti correnti nelle dichiarazioni. L'ipotesi di poter agganciare le condizioni di vita a un reddito eventualmente non dichiarato si rivela impraticabile. Nei negozi della Cina di trent'anni fa erano già in vendita stoffe di gran pregio che il consumatore non poteva permettersi, in ogni caso, di indossare in un Paese dove tutti erano vestiti allo stesso modo. Ma il regime ne tollerava lo smercio, sia nella eventualità che l'acquisto fosse il frutto di un ancorché improbabile risparmio, piuttosto che di una violazione della parsimonia rivoluzionaria, sia nell'eventualità che il singolo acquirente ne facesse poi sfoggio in privato. Un governo comunista mostrava maggiore attenzione al mercato e all'autonomia individuale dei nostri attuali politici. Che senso logico e finanziario avrebbe l'aumento dell'Iva - che, stante le cose come stanno, pagherebbero solo produttori e consumatori del Nord - quando al Sud l'«evasione collettiva» della stessa imposta raggiunge picchi di quasi il 90 per cento ed è tollerata, se non incoraggiata, dalla politica come stabilizzatore sociale e/o utilizzata come voto di scambio? Quale è la logica politica di un governo, e di un'opposizione, che cercano altrove le ragioni del disastro finanziario pubblico, attribuibile, invece, oltre che alle follie dell'antico consociativismo - ancora riproposto recentemente come «governo di unità nazionale» - alle mancate riforme degli ultimi vent'anni? Che senso comune (verificabile nella realtà) ha l'invocazione di Confindustria a riforme «strutturali», se una certa imprenditoria privata - barricata dentro un diritto societario ostile alla concorrenza - e la burocrazia pubblica, contraria alla produttività, sono entrambe conservatrici almeno quanto governo e opposizione, chiunque sia al governo e all'opposizione? postellino@corriere.it Piero Ostellino 05 settembre 2011 07:48© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_05/ostellino-ricchi-e-evasori_1d6b8204-d77d-11e0-af53-ed2d7e3d9e5d.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Società e politica, la doppia morale Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:12:10 am RIFORME: VOLERLE SENZA FARLE
Società e politica, la doppia morale L’asfittica manovra del governo, in senso liberale, introduceva un minimo di flessibilità nelle relazioni industriali. Hanno provveduto Confindustria e sindacati a spazzarla via con l’accordo che ripristina la dittatura del contratto collettivo in nome dell’ «autonomia delle parti sociali » che, di fatto, toglie la parola alla sola parte sociale che dovrebbe contare— i lavoratori — per (ri)consegnarla alle due corporazioni. La logica è sempre la stessa: i sussidi pubblici all’industria; la gestione delle relazioni industriali ai sindacati «consociati» con i padroni. Il che spiega perché nessuno riduca la spesa pubblica — aumentata, invece, di circa seicento miliardi dalla nascita del bipolarismo centrodestra- centrosinistra (1994) a riprova che, chiunque governi, la musica è sempre la stessa: come spillare altri soldi dalle tasche dei cittadini per farvi fronte — e perché di sviluppo e crescita manco parlarne. Se ogni Paese ha la classe politica che si merita, la conclusione è che la confusione politica viene da lontano. La società civile — che, poi, vuol dire l’establishment, a tutti i livelli, e il «sentire comune» dell’uomo della strada — da noi, non è migliore della Casta politica, bensì ne è a fondamento. L’Italia non è sprofondata, all’improvviso, in un «vuoto politico», mentre l’intero Paese continuerebbe a progredire. È vero il contrario. È stato il «vuoto sociale» di una parte del Paese — che meglio sarebbe dire «culturale» —ad aver inabissato la democrazia in un vuoto politico. Basta togliere l’occhio dal buco della serratura della camera da letto di Berlusconi per capire che ciò che ha generato l’attuale situazione è l’idea che a produrre progresso non possano essere i singoli individui— messi nelle condizioni di perseguire liberamente i propri interessi, alla sola condizione di non danneggiarsi reciprocamente— ma debba essere «il disegno» di una razionalità legislativa e di governo provvidenzialiste. Il fatto che ogni governo, prima o poi, pretenda di avere una «politica industriale » ha prodotto due distorsioni. L’invasione, da parte dei partiti, di un terreno, la produzione di ricchezza, che, in una società «aperta », è delle forze sociali; l’Italia è il Paese dove, più che in ogni altro, la nascita di un’azienda, e la sua stessa esistenza, dipendono da un apparato legislativo e amministrativo invasivo e soffocante. La conseguente dipendenza del mondo dell’impresa—che meglio sarebbe definire assuefazione e adeguamento — dalla discrezionalità della politica, cioè dalle sue concessioni legislative e finanziarie. Il centrodestra oscilla fra il «rigore burocratico» del ministro delle Finanze, che inclina al dirigismo pubblico, e la carenza di visione di quello dell’Economia, incarnati nella stessa persona, che si ispira a una sorta di «vetero- mercantilismo», e il velleitarismo del presidente del Consiglio, una sorta di dottor Jekyll (il politico liberale a parole) e di mister Hyde (l’imprenditore monopolista per vocazione). Piero Ostellino 26 settembre 2011 09:07 da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_26/societa-e-politica-la-doppia-morale-piero-ostellino_d49d9a08-e807-11e0-9000-0da152a6f157.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Controlli fiscali e società aperta Inserito da: Admin - Aprile 03, 2012, 05:23:02 pm I DIRITTI (E I DOVERI) DEI CONTRIBUENTI
Controlli fiscali e società aperta Fra i compiti dello Stato di democrazia liberale c'è quello di far pagare le tasse per garantire la vita, le libertà soggettive, la proprietà e la sicurezza dei propri cittadini. È, perciò, nell'interesse dei cittadini pagarle. Ciò nonostante, ci distinguiamo per essere uno dei Paesi al mondo con la più alta evasione fiscale. Forse dovremmo incominciare a interrogarci perché sia tanto difficile, da noi, far pagare le tasse, chiedendoci: 1) se non siano troppo oppressive - come suggerisce la curva di Laffer: più alte sono, maggiore è l'evasione; più basse sono, maggiore è la propensione a pagarle - rispetto alla capacità contributiva del Paese; 2) se il loro livello troppo elevato non sia in contraddizione con un'economia capitalistica quale è (dovrebbe essere) la nostra, fondata sull'accumulazione della ricchezza da parte della società civile, e non piuttosto non sia in sintonia con uno Stato di «socialismo reale», dove i funzionari e gli impiegati pubblici di ogni categoria e di ogni livello sono cinque volte quelli dei Paesi di democrazia liberale delle nostre stesse dimensioni. In altre parole, forse, incominceremo a pagare meno tasse quando l'impiego pubblico sarà «un lavoro»; non, come adesso, «il posto». Quando supera certi livelli, l'evasione fiscale è un fenomeno «sociologico»: c'è qualcosa di strutturale che non va nel sistema. Per il nostro Fisco, e gran parte dell'opinione pubblica, l'evasione è, invece, «un fatto morale». Gli addetti alla riscossione tendono a comportarsi come fossero «inviati da Dio sulla terra per redimere i cittadini disonesti». È un approccio distorto per due ragioni. Innanzi tutto, perché confonde la produzione di ricchezza con l'evasione: siamo il solo Paese capitalista al mondo dove i capitalisti (gli imprenditori) si suicidano perché non ce la fanno a pagare le tasse e a fare il proprio mestiere. In secondo luogo, perché, conferendo al Fisco una natura teologica, connota lo Stato come premoderno, nel quale il cittadino era (è) suddito del sovrano assoluto legittimato dalla religione. Sotto il profilo della teoria politica, pagare le tasse non può essere un «dovere» per la semplice ragione che lo Stato moderno non impone, ma si limita a offrire al cittadino - che, eventualmente, come sostengono i libertari, se li potrebbe procurare in gran parte anche sul mercato - solo di godere dei suoi servizi. È sbagliato sostenere che si pagano le tasse per pagare il welfare, perché, in tal modo, si finisce con autorizzare chi non ne usufruisca - magari facendosi curare in Svizzera, mandando i figli a scuola in Inghilterra, facendosi proteggere da una scorta privata, ricorrendo ad arbitrati nel caso di controversie private - a non pagarle. È invece «interesse» del cittadino pagare le tasse perché esse sono il modo attraverso il quale si concreta il Contratto sociale attraverso il quale gli uomini si assicurano la convivenza civile nella sicurezza. Veniamo, così, alla questione fiscale sotto il profilo delle libertà individuali. Il Garante della privacy ha giustamente denunciato che «una spinta al controllo e all'acquisizione di informazioni sui comportamenti dei cittadini (...) può condurre a fenomeni di controllo sociale di dimensioni spaventose». Un conto sono, dunque, le visite della Guardia di finanza negli esercizi commerciali per verificare la regolarità fiscale della loro attività (emissione degli scontrini; tenuta di registri della contabilità eccetera), un altro fermare le automobili di una certa cilindrata e chiedere agli automobilisti quale sia la loro situazione fiscale e come le abbiano pagate. Nel primo caso, siamo nell'ordinario e corretto esercizio del diritto di accertamento fiscale nei confronti di attività produttive di ricchezza tassabile; nel secondo, si cade in forme di controllo sociale sugli stili di vita dei cittadini che tracimano nella violazione non solo della loro privatezza ma anche - come rileva giustamente il Garante - delle loro libertà e dei loro diritti individuali. La traduzione dell'evasione in un «fatto morale» produce conseguenze distorsive anche a livello di percezione delle proprie libertà e dei propri diritti da parte degli stessi cittadini, molti dei quali reagiscono alle notizie sulle incursioni della Finanza nella vita dei loro simili sostenendo che «chi non ha nulla da nascondere, non ha nulla da temere». Una «società aperta», cioè di democrazia liberale, si distingue da una «chiusa», cioè autoritaria o totalitaria, perché non tratta i suoi cittadini come fossero tutti delinquenti, ma tutela la privatezza proprio di chi non ha nulla da nascondere. Sarebbe utile che ci fosse una chiara presa di posizione sui limiti e i modi di esecuzione delle indagini fiscali. Ciò affinché la credibilità dell'Italia, all'estero e agli occhi dei suoi stessi cittadini, non dipendesse (solo) dalla severità fiscale con la quale ha fatto fronte alla crisi finanziaria, ma (anche e soprattutto) dal fatto di essere, e di voler restare, uno Stato di diritto e una democrazia liberale, in qualsiasi circostanza. Piero Ostellino 3 aprile 2012 | 9:29© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_03/controlli-fiscali-societa-aperta-piero-ostellino_777ab422-7d5e-11e1-adda-3290e3a063cc.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. TROPPE LE ATTESE SU HOLLANDE Inserito da: Admin - Maggio 09, 2012, 03:20:03 pm TROPPE LE ATTESE SU HOLLANDE
La lingua di legno del neopresidente Chi ha memoria storica coglie nel lessico del neopresidente francese, François Hollande, l'eco della langue de bois («lingua di legno») del socialismo dirigista e burocratico che, in Urss, chiamava democrazia il totalitarismo e libertà la tirannia, stravolgendo il senso delle parole. Il socialismo reale è morto, ucciso da carenze ed errori che la «lingua di legno» non riusciva più a compensare. I fatti sono cocciuti, aveva detto Lenin, ma i suoi successori non gli avevano dato retta. Così, i fatti si sono presi la loro rivincita e hanno smentito la «lingua di legno». Per la Merkel, rigore vuol dire tenere i conti dello Stato in ordine e l'economia sociale di mercato è la versione contemporanea di quella bismarckiana. Una versione, oggi pacifica, del nazionalismo e delle ambizioni egemoniche europee della Germania che, in passato, si erano tradotti in militarismo e avevano generato tre guerre (che i francesi non hanno dimenticato). Nella Germania d'oggi, lo Stato è il direttore e, al tempo stesso, uno degli attori di una società fondamentalmente organicista, dove ogni tassello si incastra nell'altro; i sindacati non sono antagonisti, ma collaborano col mondo della produzione alla stabilità sociale e allo sviluppo economico, le banche operano in sintonia con i sindacati e il mondo della produzione, la popolazione tiene disciplinatamente il passo. Un caso unico. È il sogno anche del professor Monti, ai cui progetti di crescita si oppongono, con la sua stangata fiscale, la vecchia cultura politica collettivistica e corporativa, il carattere antagonistico della società, i residui passivi del sistema welfarista novecentesco che Mario Draghi ha efficacemente riassunto nella «fine del modello sociale europeo». Se i nostri intellettuali non fossero tanto incolti quanto politicamente vecchi avrebbero avvertito, nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro fra il ministro Fornero e il segretario della Cgil, Camusso, il riflesso della contraddizione fra una Costituzione, che definisce (ancora) il lavoro «un diritto», e la domanda di modernizzazione, che lo assimila a una merce esposta alla domanda e all'offerta e all'esigenza di produttività; contraddizione che è anche l'ostacolo che incontrerà il governo tecnico sulla strada della crescita. Per Hollande, «basta col rigore» vuol dire rilancio dello statalismo e del dirigismo. Come possa, poi, parlare di crescita, annunciando contemporaneamente di voler tassare oltre misura la ricchezza, invece di combattere l'indigenza, e non nascondendo la propria ostilità per il mercato, è un mistero spiegabile solo o con la «lingua di legno» o con l'illusione di stimolare la domanda con una dose massiccia di keynesismo (spesa pubblica e tasse elevate), mentre il problema è ridurre la spesa e le tasse per stimolare l'offerta. Ha vinto perché ha incarnato, col suo «nazionalsocialismo», la diffidenza dei francesi per la Germania e la loro ostilità per la «dipendenza» di Sarkozy dalla Merkel, oltre che per una certa vocazione étatiste - che viene non solo dall'assolutismo dell'Antico regime, ma dalla stessa Rivoluzione del 1789, dopo la sua degenerazione giacobina - alla quale non è mai stata estranea neppure la destra. Spero di sbagliarmi, ma la Francia - se Hollande non imita Mitterrand, che era partito con un programma quasi comunista e aveva virato verso una soluzione moderata - è condannata alla recessione.Ventuno economisti di area liberale, e non appartenenti ad alcun partito, avevano indirizzato ai francesi un appello. Vale la pena, anche per noi, citarne alcuni passi. «Il socialismo non ha mai funzionato nella sua forma estrema, il comunismo. Come dimostrano molti anni di storia europea, non funziona nemmeno nella sua forma più moderata di socialdemocrazia. Se la storia europea ci può insegnare qualcosa, è che la prosperità è intrinsecamente correlata alla libertà economica. Come possiamo allora, nel XXI secolo, dopo decenni e secoli di riflessioni e di esperienze, credere ancora a ricette economiche emerse più da magie incantatorie che dalla scienza? (...) Non abbiamo più alcuna scusa per lasciarci affascinare dall'idea che uno Stato produrrà crescita semplicemente spendendo di più, quando tutte le risorse per questa dispendiosa compiacenza provengono da maggiori tasse su di noi e da maggiori prestiti fatti in nostro nome. La crescita non può essere decretata; è il risultato di decisioni non prevedibili e di azioni di un numero imprecisato di individui tutti capaci di sforzi e di immaginazione. La crescita può esserci soltanto se gli impulsi di un numero imprecisato di individui non sono paralizzati da regolamenti, tasse o dalla dipendenza dallo Stato (...). È tragico che qualcuno possa ancora pensare che una vita umana possa migliorare saccheggiando quella di un altro». Piero Ostellino 9 maggio 2012 | 7:19© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_09/la-lingua-di-legno-del-neopresidente-piero-ostellino_5d1be0f8-9995-11e1-85ab-3c2c8bfb44fd.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Maionese italiana Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2012, 06:36:51 pm Maionese italiana
Berlusconi non era stato, al governo, il riformista che, dall'opposizione, aveva promesso di essere. Ma il suo ipotetico ritorno sta provocando un'ondata di reazioni, ai limiti dello sgomento, difficilmente spiegabile razionalmente. È, all'interno, un rigurgito della polarizzazione fra chi è pro e chi è contro una personalità anomala. È, in Europa, la preoccupazione - diciamola tutta - degli altri Paesi, più che di un ripristino, in Italia, della finanza allegra, di perdere il controllo politico sull'Unione Europea e sui vantaggi commerciali ed economici della nostra recessione. Nessuno crede che il «redivivo», non essendo stato, ieri, un riformista, sia, oggi, un rivoluzionario. Ma la parte del Paese più responsabile teme che il suo ritorno e l'eventualità che possa vincere le elezioni inducano gli altri partiti, per una sorta di riflesso condizionato, alla rilassatezza finanziaria. Quella conservatrice teme invece li solleciti, per ragioni di (improbabile) concorrenza, a un qualche riformismo. Se da un lato, dunque, le reazioni sono il segno inquietante di scarsa maturità democratica e liberale; dall'altro paiono prevedere un maggior dinamismo da parte di chi, finora, aveva mostrato di non esserne propenso. Tutto sta a capire dove si andrà. Che piaccia o no, dodici mesi fa una parte del mondo politico si era posta il problema di liberarsi del Cavaliere; che meritava, comunque, di andarsene. La strada corretta erano le elezioni; che, probabilmente, avrebbe vinto la sinistra. Ma era mancata la fiducia nel popolo. Così, armata di un inusitato spirito europeista, la classe politica aveva affidato il governo al professor Monti. Che ha dato una scossa, soprattutto fiscale, al Paese e al quale, ora che è dimissionario, molti (compreso Berlusconi) chiedono di restare, in un modo o nell'altro, a Palazzo Chigi malgrado i risultati non sempre brillanti della sua gestione. Forse, è un modo di rassicurare l'Europa. Continuiamo ad avere bisogno di rigore nella spesa e, soprattutto, di una radicale semplificazione legislativa e amministrativa, più che di ulteriore pressione fiscale, malgrado il patologico livello dell'evasione. Ciò che la gente comune si aspetta sarebbe, dunque, una campagna elettorale condotta sulla base di una contrapposizione di programmi politici ed economici dei quali, per ora, non si vedono neppure le avvisaglie. Il centrodestra ha scoperto, dopo averlo sostenuto, che il governo dei tecnici ha sbagliato tutto ed è passato all'opposizione perché così ha voluto il suo padre padrone (anche se ieri, a sorpresa, ha addirittura proposto Monti a leader dei moderati, dicendosi disposto ad appoggiarlo). Il centrosinistra pare accontentarsi che a vincere le primarie nel Pd sia stato un bonario ex apparatchik , grazie alla struttura dell'ex Pci. I centristi scrutano i sondaggi per decidere con chi allearsi e recuperare qualche consenso. È quello che passa il convento. Un Paese in crisi culturale, prima che economica e politica. Gli italiani vanno a votare contando di cavarsela personalmente, ma col dubbio che, chiunque vinca le elezioni, non sappia risolvere i loro problemi. Non è una prospettiva incoraggiante. Piero Ostellino 13 dicembre 2012 | 8:01© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_13/maionese-italiana-piero-ostellino_e3ce9bd6-44e9-11e2-9d6d-6ccc8b2c8831.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Il redditometro del dottor Stranamore Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2013, 11:24:52 pm STATO ESATTORE
Il redditometro del dottor Stranamore Fiori, animali, pentole: perché respingo l'invasione del Fisco Se non servirà al Fisco per scovare redditi non denunciati, il nuovo redditometro pare, comunque, utile a far capire agli italiani da chi siamo amministrati e governati. Chi le paga ora sa che le sue tasse servono (anche) a mantenere una burocrazia che della propria funzione ha un'idea feudale. La democrazia liberale si sostanzia (anche) nella «società dei consumi». Ma la società che vuole chi governa è composta da famiglie che: vivono in case popolari; mangiano poco e male; comprano un capo d'abbigliamento ogni venti, trent'anni; viaggiano su un fac-simile della Trabant (l'auto dell'ex Germania comunista). Il redditometro, infatti, insegna che: a) la nostra burocrazia non è quella della «società dei consumi», ma è (ancora) quella del regime economicamente autarchico e politicamente autoritario sconfitto nel '45; b) il regime ideale di chi governa è una via di mezzo fra autoritarismo e totalitarismo. Sotto il profilo amministrativo, i burocrati che hanno pensato e redatto il redditometro offrono di sé - spiace dirlo - l'immagine di una di queste tre tipologie (se non di tutte e tre assieme): 1) sono dei «dottor Stranamore», paranoidi e mitomani; 2) sono ex poliziotti dell'Ovra (la polizia politica fascista) che non si sono accorti che «credono, ubbidiscono, combattono», come facevano sotto il Duce, ora contro la democrazia liberale e il benessere ; 3) sono ex funzionari della Stasi (la polizia politica della defunta Germania comunista), prestati a Monti, per riconoscenza, dalla signora Merkel, che non sapeva come impiegarli nella ricca Germania democratica. Leggere per credere. Nel redditometro sono finiti : le spese per mangiare, abitare, vestirsi, per le bollette di luce e gas, per il veterinario - se si ha un animale domestico, anch'esso catalogato come simbolo di ricchezza - per la riparazione degli elettrodomestici; per la biancheria - l'italiano che paga le tasse dovrà cambiare le mutande solo una volta al mese per non incorrere nel sospetto di evasione? - le pentole, le borse, il barbiere, il parrucchiere, i giornali e le riviste, l'abbonamento alla pay-tv, le piante e i fiori. Per la burocrazia e chi ci governa, l'italiano che legge fa evidentemente correre loro il rischio di comportarsi da cittadino, invece che da suddito... (guarda la tabella voce per voce) Le voci di spesa sono oltre cento; 55 le tipologie familiari. Il Fisco monitorerà le spese che dovrebbe sostenere una delle famiglie tipo. Non si tiene conto che quelle spese potrebbero essere pagate con i risparmi accumulati o dagli aiuti, nel caso dei figli, dei genitori. Spetta, inoltre, al contribuente provare di non essere un evasore. L'inversione dell'onere della prova ributta l'Italia ai primordi del Diritto. Che dire? La morale, culturale e politica, che se ne può trarre è semplice: con l'instaurazione dello Stato di polizia fiscale - che, in realtà, indagando sugli stili delle persone, entra nelle loro vite - l'Italia è scivolata nello Stato di polizia tipico dei totalitarismi del XX secolo. Ministro dell'Economia Vittorio Grilli, prima di firmare questa sconcezza, non sarebbe stato meglio pensarci su? Presidente del Consiglio Mario Monti, questa Italia pauperista e illiberale nella quale vuole farci vivere sarebbe il Paese che ha recuperato credibilità internazionale? Andiamo. Piero Ostellino postellino@corriere.it 6 gennaio 2013 | 13:32© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_06/Il-redditometro-del-dottor-stranamore_13f05832-57ea-11e2-9a31-1eca72c52858.shtml Titolo: Piero Ostellino. Purché alla fine non paghi il paese (diciamo che paghiamo già) Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:35:33 am LA CRISI DI GOVERNO
Purché alla fine non paghi il paese Il caso kazako, la polemica su Calderoli, la spaccatura del Pd e i renziani all'attacco: le crepe che mettono a rischio l'esecutivo Piero Ostellino Non c'è giorno che il governo non finisca sull'orlo di una crisi. Ma questa volta il rischio è serio. E il costo sarebbe altissimo. Dopo Letta c'è il vuoto. E le elezioni anticipate. Con il Porcellum. Complimenti. Si ricomincia. Abbiamo la capacità, per dirla con re Franceschiello, di «fare ammuina» e poi di metterci da soli nei pasticci. Finora abbiamo avuto anche la fortuna di uscirne senza troppi danni, salvo la caduta di credibilità della classe politica, cui peraltro nessuno più crede, proprio perché «fare ammuina» non è una cosa seria. Colpisce che la causa delle crisi annunciate raramente sia reale, spesso virtuale. Nessuno sottovaluta la gravità del caso Shalabayeva. Per carità: una figuraccia internazionale. Ma democrazie più attente di noi ai diritti umani lo avrebbero evitato, o comunque lo risolverebbero senza mettere a repentaglio la vita del proprio governo nel momento più drammatico di una crisi economica che vede migliaia di imprese chiudere ogni giorno e troppi giovani senza lavoro. I PUNTI OSCURI - Chi ha sbagliato paghi, ma non si faccia pagare il conto a un intero Paese riprecipitandolo nel gorgo del vuoto istituzionale e della speculazione finanziaria. I punti oscuri della vicenda sono tanti. Le spiegazioni di Alfano lacunose. Il comportamento della burocrazia indicibile. Ma non si è neppure ancora capito se le vicende del signor Ablyazov, sodale prima e poi avversario dell'orrido Nazarbaev, riguardino un episodio di «dissidenza politica», ovvero di «lotta di potere» fra un oligarca, non propriamente candido, e un regime «dispotico» col quale facciamo affari. Non è stata una gran prova di intelligenza e di dignità non accorgersi che dietro l'espulsione frettolosa di una madre e della sua figlia di sei anni c'era la «regia» dell'ambasciatore del Khazakistan in Italia, a quanto pare più influente e ascoltato presso la nostra burocrazia dei componenti del nostro fragile governo. Forse sarebbe il caso di espellere lui, stavolta, o no? IL CASO CALDEROLI - Un altro episodio che ha minacciato la crisi di governo è stato il giudizio offensivo del vicepresidente del Senato, Calderoli, sul ministro Kyenge. Ci siamo salvati grazie soprattutto al buon senso della vittima che ne ha accettato le pubbliche scuse. È stata la tempesta in un bicchiere d'acqua cui hanno contribuito, in egual misura, classe politica e informazione. L'opinione pubblica internazionale giudica: male. LA ROTTURA PERICOLOSA - Il governo finora non è caduto perché Enrico Letta non si è comportato, machiavellicamente, da «volpe e/o da leone», secondo le circostanze, ma più da volpe. Tirando a campare, democristianamente. Ora la spaccatura del Pd con i renziani all'attacco lo mette in serio pericolo. A Letta non resta che una strada. Un colpo d'ala sull'economia, un po' più di coraggio nel dare risposte vere a famiglie e imprese. Qualcosa che assomigli a uno scatto in avanti lungo la strada impervia della modernizzazione. Privatizzare, liberalizzare, dare un taglio deciso alle spese e al debito. Scelga da dove cominciare, ma scelga. Promuova quella radicale semplificazione normativa e amministrativa della quale Berlusconi aveva parlato nel '94, e mai ha fatto. Scelga di osare verso lo sviluppo, non di rifugiarsi nella quieta conservazione. Non ne abbiamo bisogno, troppo tardi. Sono scelte che avrebbe dovuto compiere il governo voluto da Napolitano proprio per far fronte alle carenze di quelli politici, ma nemmeno Monti le ha fatte, condizionato com'era dalla propria inesperienza politica e dai preponderanti interessi corporativi della burocrazia di cui si era, imprudentemente, circondato. 18 luglio 2013 | 8:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_18/purche-alla-fine-non-paghi-il-paese-piero-ostellino_655bca88-ef63-11e2-9090-ec9d83679667.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. L’IMPLOSIONE DI PARTITI, FAZIONI E CORRENTI Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 09:05:03 am L’IMPLOSIONE DI PARTITI, FAZIONI E CORRENTI
La maionese impazzita Provate a seguire da vicino l’iter di un provvedimento legislativo. Scoprirete che i partiti che compongono la maggioranza non sono tre come si dice, ma almeno sette. Nel Pd agiscono separatamente il gruppo dei «Renzi for president» e l’avversa coalizione del «Tutto tranne Renzi»; più un manipolo di deputati che rispondono direttamente alla Cgil. Nel Pdl i «fittiani» contendono palmo a palmo il terreno agli «alfaniani», e il consenso del Pdl va contrattato con entrambi (più Brunetta). Scelta civica si è sciolta in due fazioni, per niente moderate nella foga con cui si combattono. Per condurre in porto il vostro provvedimento preferito dovrete dunque fare sette stazioni della via crucis parlamentare, per quattro volte (se il governo non mette la fiducia, due letture alla Camera e due al Senato). Vi servono insomma ventotto sì. Un’intesa larghissima: si fa prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una volta approvata, la nuova norma rimanderà di sicuro a un regolamento attuativo. E lì ricomincerà la vostra gimkana, stavolta tra i burocrati dei ministeri che hanno il potere di scriverlo. Il nostro sistema politico-parlamentare è letteralmente esploso. E la cosa incredibile è che il massimo della frammentazione convive con il massimo del leaderismo nei partiti. Il Pd, che pure è il più democratico, è una monarchia elettiva (quattro capi in cinque anni, l’unico partito al mondo che incorona il segretario con una consultazione del corpo elettorale). Il Pdl è una monarchia ereditaria. La terza forza, il M5S, è una diarchia orientale, con un profeta e un califfo. In queste condizioni il semplice fatto che esista un governo è già un miracolo, figurarsi l’operatività. Se andiamo a votare può anche peggiorare. E non è solo colpa del Porcellum . Con i partiti come sono oggi, e con i sondaggi che circolano oggi, nessun sistema elettorale, nemmeno il più maggioritario, può garantire una maggioranza solida. Se anche questa si producesse nelle urne, si spaccherebbe in Parlamento un attimo dopo, come è miseramente accaduto alla più formidabile maggioranza della storia, quella uscita dal voto del 2008 e guidata da Berlusconi. Da tre anni il governo della Repubblica non è più espressione del risultato elettorale. Nessuna delle coalizioni che abbiamo trovato sulla scheda appena otto mesi fa esiste più. Qualsiasi terapia del male italiano deve passare da qui: come rendere il Paese governabile. Come aprirsi un sentiero praticabile tra due Camere, venti Regioni, più di cento Province, più di ottomila Comuni. Come ridurre il numero dei partiti, ridurne il potere, ridurne l’ingerenza. È infatti nel sistema politico-istituzionale che si è incistata nella sua forma più perniciosa quella crisi di cultura e di valori di cui hanno scritto sul Corriere Galli della Loggia e Ostellino. La soluzione viene di solito indicata nelle riforme costituzionali. Solo chi spera nel tanto peggio tanto meglio può negarne l’urgenza. Ma neanche quelle basteranno se non si produce una profonda rigenerazione morale dei partiti. Laddove l’aggettivo «morale» non sta solo nel «non rubare», e il sostantivo «rigenerazione» non coincide con l’ennesimo «repulisti» affidato al codice penale: questo sistema politico è figlio di Mani pulite, e non sembra venuto tanto meglio. Rigenerazione morale vuol dire innanzitutto una nuova generazione, homines novi . Vuol dire restaurare un nesso, anche labile, tra l’attività politica e il bene comune. Vuol dire liberarsi dei demagoghi e dei voltagabbana. L’Italia non può farcela senza una politica migliore. 25 ottobre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA ANTONIO POLITO 118 Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_25/maionese-impazzita-editoriale-polito-63478538-3d34-11e3-80a6-86529379bbd1.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. I miei dubbi sul vincitore (... ma te pareva) Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 12:01:25 pm IL COMMENTO
I miei dubbi sul vincitore L’ottimismo del premier è una maschera che non nasconde i nostri mali cronici Di Piero Ostellino Il dato strutturale che emerge dall’esito delle elezioni europee è che il trasformismo rimane una costante della politica italiana. Oltre il 40% di elettori ha premiato le promesse e gli annunci riformistici di Matteo Renzi, producendo un miracolo: la trasformazione del Pd e del governo in una sorta di berlusconismo di sinistra. Il «ciclone» Grillo è stato scongiurato anche con l’aiuto di media che hanno promosso il Pd a qualcosa di diverso da ciò che è stato ed è: l’erede culturale del Pci, un partito ideologico, novecentesco, antiriformista, per la sua componente marxista; antimodernista e totalitario, per la sua parte rousseauiana, quella della «volontà generale». Il Partito democratico è diventato, con queste elezioni, la «diga», a contrasto dell’estremismo palingenetico, ma senza il disincantato pragmatismo della vecchia Dc, ma il modo con il quale ciò è avvenuto non è incoraggiante per il futuro del Paese. Renzi è un ragazzotto che se la cava bene a chiacchiere. Non ha altro da esibire; perciò fa dell’ottimismo della volontà la propria bandiera, spacciandola per programma politico. Ma non pare avere né la preparazione, né la forza e la volontà politiche per riformare davvero il Paese e liberarlo dal dispotismo burocratico. Insomma, secondo copione dopo ogni elezione, qualcosa è cambiato affinché nulla cambi. Renzi, sulla scia di Monti, ha aumentato le tasse; il Paese, caduto in una recessione economica devastante, attraversa una crisi culturale dalla quale non si vede come possa uscire. Ora, gli italiani - lo erano stati per anni quando ancora credevano nelle capacità riformistiche di Berlusconi - attendono, in privato, senza grandi speranze; in pubblico, animati da ottimismo di maniera - che annunci e promesse di Renzi si traducano in fatti. Scriveva Piero Gobetti agli albori del fascismo: «La lamentata incultura dei deputati rappresenta l’incultura e la confusione del Paese. Le corruzioni demagogiche, le indulgenze verso il parassitismo... corrispondono alle nostre condizioni storiche e indicano appunto l’incapacità e l’impossibilità di porre il problema nostro che determinerebbe ogni chiarezza, il problema dell’antitesi fra Nord e Sud (...) In sostanza, l’Italia, patria di tutte le ideologie e di tutte le ribellioni, si riduce a un Paese di conservatori». È cambiato qualcosa da allora e dopo vent’anni di fascismo e quasi settanta di democrazia ? A me pare di no. Siamo il solo Paese al mondo che festeggia una sconfitta bellica e, con essa, la caduta di una dittatura alla quale aveva dato il suo consenso. I tedeschi non celebrano la sconfitta bellica che non nascondono di dovere agli Usa e all’Urss. Non festeggiano la caduta del nazismo, perché l’hanno elaborata e rimossa, con Ragione luterana, dal proprio immaginario e cancellato, con essa, il relativo senso di colpa. Noi continuiamo a celebrare la caduta del fascismo, agostinianamente il nostro peccato originale del quale non ci siamo ancora liberati, peraltro senza aver riflettuto su ciò che esso è stato e quanto di esso ancora rimanga nelle istituzioni e nel modo di pensare. Il 25 aprile è diventato, così, una sorta di confessione collettiva e liberatoria perché celebrata in perfetta sintonia con l’altro totalitarismo novecentesco, il comunismo. Il mestiere che faccio è un ottimo osservatorio per capire gli umori dei miei concittadini. Molti di quelli che si credono la forza motrice del progresso ripetono, spesso parola per parola, ogni versione ufficiale dei fatti correnti, diligentemente divulgata dai media. Abbiamo il sistema informativo, nel mondo, più antinomico che ci sia della democrazia. Siamo individualmente e collettivamente incapaci di esercitare lo spirito critico e, come diceva Gobetti degli italiani della sua epoca, non sappiamo fare opposizione, facciamo (solo) la fronda e (poi) votiamo Mussolini. Il mito dell’«Uomo della Provvidenza» ha accompagnato gli ultimi tre governi, Monti, Letta, Renzi, nati non attraverso libere elezioni, ma per partenogenesi del presidente della Repubblica, diventato un monarca costituzionale un po’ per ambizione personale, molto per dilatazione «materiale» della Costituzione formale parecchio pasticciata di suo. In conclusione. Non saranno il successo di Renzi e la sconfitta di Grillo a salvarci. Ci vuole altro. Dalla scuola secondaria all’università, dall’Ordinamento giuridico al sistema politico alla cultura dominante, «gli è tutto da rifare», come diceva la buonanima di Bartali. Ma non si vede chi e come lo possa fare. Uno che assomigli a Bartali non c’è; di certo, Renzi non è, diciamo, Coppi; neppure Magni ... 28 maggio 2014 | 08:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_28/i-miei-dubbi-vincitore-19c63360-e62f-11e3-b776-3f9b9706b923.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Gli imitatori della Prima Repubblica Inserito da: Admin - Luglio 07, 2014, 12:29:04 am Parole e fatti
Gli imitatori della Prima Repubblica Di PIERO OSTELLINO La classe politica della Prima e della Seconda Repubblica parlava dei problemi del Paese come non spettasse a lei risolverli. Che si trattasse di un comizio o di un discorso in Parlamento, che a parlare fosse il capo del governo o un esponente dell’opposizione, tono e contenuti erano quelli di chi, a un dibattito pubblico, descrive la situazione nella quale si trova qualcun altro senza pronunciarsi. Il Paese reale non era il terreno sul quale la classe politica misurava la propria capacità di governo, ma l’oggetto di un convegno permanente al quale, con altri esperti, partecipava, allo stesso modo, sia chi stava al governo, sia chi stava all’opposizione. Parlane oggi, parlane domani, senza mai dire che cosa si dovesse, e si volesse, fare, i problemi sono rimasti irrisolti e sono diventati cronici. L’Italia si è fermata; gli italiani hanno smesso di votare e sulla scena politica è comparso il populismo del Movimento Cinque Stelle. Che ha imparato che chi sta al governo si può comportare come se fosse all’opposizione. La classe politica è passata da convegnista a populista senza soluzione di continuità... Con la comparsa di Matteo Renzi nelle vesti del «rottamatore», molti italiani avevano pensato che, proponendosi di mandare in pensione la vecchia classe politica, chiacchierona e nullafacente, il ragazzotto fiorentino si accingesse anche a farsi carico dei problemi che essa non aveva risolto, impegnandosi lui stesso a risolverli senza tante chiacchiere. Ma, ora, è sufficiente ascoltare i suoi discorsi per capire che poco è cambiato. Siamo ancora fermi all’auspicio a risolverli, senza fare molto per risolverli oltre a elencarli. Ma dopo l’elenco dei problemi che il presidente del Consiglio snocciola a ogni discorso, la domanda che si è indotti a porsi è la seguente: «Bene. E adesso che si fa?». Poiché al «che fare» non c’è mai altra risposta che non sia un (mascherato) aumento delle tasse, come già facevano i predecessori, la morale che si è indotti a trarre è la seguente. Primo: che la storia della «rottamazione» sia stata solo un espediente populista per scalare la segreteria del Partito democratico e la presidenza del Consiglio; ma che Renzi, come capo del governo, non abbia la minima idea, e neppure alcun reale interesse, a rispondere alle domande che egli stesso solleva. Secondo: che, liquidata la vecchia guardia post comunista nel Pd, gli eventuali concorrenti per Palazzo Chigi sulla scena politica e ottenuto ciò che voleva - la segreteria del Partito democratico, la presidenza del Consiglio - Renzi sia, in fondo, della stessa pasta della vecchia classe politica. «Chiacchiere e auto blu», parafrasando De Niro-Al Capone nel film Gli Intoccabili. Che le parole delle quali Renzi fa sfoggio siano le stesse di chi fa le previsioni del tempo hanno incominciato a rendersene conto non solo molti italiani - che, a ogni elezione, raccapricciano alla prospettiva che Cinque Stelle diventi il secondo partito in Parlamento - ma se ne sono accorti, in Europa, anche i nostri partner. Che hanno commentato gli interventi di Renzi, in occasione dell’apertura del semestre italiano di presidenza della Ue, con un liquidatorio «molte parole; pochi fatti». Non propriamente un commento lusinghiero per lui e, tanto meno, per l’Italia in Europa... I soli che ne magnificano ancora le gesta, qualsiasi cosa faccia o dica, sono i nostri media, che si sono ridotti a veri e propri organi di regime. Certi enfatici resoconti delle (supposte) prese di posizione di Renzi contro la politica europea della signora Merkel hanno fatto il paio con quelli che, a suo tempo, il Minculpop diffondeva sul duce contro gli inglesi. Manca solo Mario Appelius. Ma, al posto di Renzi, io mi chiederei se si possa continuare a ingannare tanta gente e ancora per tanto tempo... 6 luglio 2014 | 09:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_06/gli-imitatori-prima-repubblica-bfd3646e-04e1-11e4-915b-77c91b2dfa50.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. L’IPOTESI DI TAGLIARE LE PENSIONI PIÙ ALTE Il contratto tradito Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 07:08:55 pm L’IPOTESI DI TAGLIARE LE PENSIONI PIÙ ALTE
Il contratto tradito di Piero Ostellino L’ipotesi governativa di toccare le pensioni cosiddette alte per aiutare gli esodati - i lavoratori che, in forza di una legge, non hanno più un lavoro, ma neppure la pensione - ferma l’orologio delle riforme alla redistribuzione della ricchezza (si toglie a qualcuno per dare ad altri) già praticata dai governi precedenti e che ha portato l’economia nazionale nella depressione della crescita zero. La previdenza è una sorta di contratto che il lavoratore stipula con lo Stato, in base al quale, dietro il pagamento di contributi durante gli anni lavorativi, il cittadino riceverà una pensione. L’assistenza è l’aiuto che lo Stato (sociale) fornisce ai meno abbienti attraverso la fiscalità generale. Il nostro Stato - che fa volentieri confusione fra assistenza e previdenza - supplisce alle proprie carenze sociali e finanziarie con la redistribuzione della ricchezza. Questa - che meglio sarebbe definire distruzione di ricchezza - si traduce in una doppia tassazione per chi ha già ha pagato le tasse sui propri guadagni e finisce così col (ri)pagarle, in modo surrettizio, con la sottrazione da parte dello Stato di una parte ulteriore di quegli stessi guadagni. Se, dunque, lo Stato tradisce, o mostra di voler tradire, il contratto previdenziale, non c’è più certezza del diritto, il cittadino non è in grado di programmare la propria vita, smette di spendere, gli investimenti si fermano, lo sviluppo si arresta. Così come ha prodotto la fine del socialismo reale, la forzosa redistribuzione della ricchezza minaccia, da noi, di uccidere l’economia libera. L’idea di prelevare dalle pensioni cosiddette alte le risorse per aiutare i meno fortunati - facendo pagare l’assistenza a chi ha già pagato previdenza e tasse - è un trucco per supplire ai costi e alle carenze di uno Stato sociale che non aiuta i meno abbienti, ma fa pubblicità a se stesso e produce consenso a chi governa. Il trucco è, a sua volta, reso necessario dalla carenza di risorse, dall’esigenza di reperirle e dalla promessa di riforme che chi ne parla non è, poi, in grado o non ha la volontà politica di fare. È il caso del governo Renzi - che si ripromette di essere riformista - e si rivela tutt’altro che tale. Esso, che piaccia o no, è uguale ai governi che lo hanno preceduto. Non fa, come non hanno fatto quelli, le riforme, soprattutto quella fiscale e amministrativa, che snellirebbero lo Stato e gli consentirebbero di spendere meglio le risorse di cui dispone. Un’abile e opportuna operazione di marketing a favore di se stesso, diffusa da un sistema informativo inadeguato, ha promosso il governo Renzi a «ultima spiaggia» contro l’eventualità di elezioni anticipate. Che nessuno pare volere. Senza che i cittadini-elettori manco se ne accorgessero, l’Italia è passata, così, dalla condizione di democrazia rappresentativa a quella di democrazia «guidata» da una tecnocrazia. L’Italia rimane - malgrado l’involuzione istituzionale - un Paese libero. Ciò non toglie, peraltro, che si sia concretata in parte quella rivoluzione sociale, fallendola, che la sinistra filosovietica avrebbe voluto fare subito dopo la fine della guerra. Rivoluzione che la stessa Costituzione in qualche modo ha favorito con le sue ambiguità. Ancorché condizionata da una burocrazia eccessiva e criminalizzata da una diffusa cultura politica statalista e dirigista, l’economia di mercato è da noi (ancora) relativamente in buona salute. Ma non è neppure il caso di ignorare certi sintomi. 19 agosto 2014 | 07:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_19/contratto-tradito-165d3e46-275f-11e4-9bb1-eba6be273e09.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Un uomo solo al comando Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:40:40 pm Un uomo solo al comando
La rottamazione fa male alla sinistra Ciò che Renzi sta facendo nel Partito democratico e con il sindacato non è il modo migliore per modernizzare la cultura politica. Ci sarebbe bisogno di meno personalismi e più pensiero critico Di Piero Ostellino Ciò che Matteo Renzi sta facendo nel Partito democratico – l’eliminazione progressiva della vecchia guardia, che pur merita di andare in pensione — rivelando che la tanto sbandierata rottamazione è stata solo la giustificazione demagogica di una operazione personale di potere per liberarsi dei concorrenti e conquistarne la segreteria — e nel Paese, l’irrisione del sindacato sceso in piazza contro il governo delle chiacchiere — irrisione che, con l’aria che tira, è come sparare sulla Croce rossa — non sono un modo di modernizzare la cultura politica della sinistra, né del sindacato. Ma il contrario. Il ragazzotto fiorentino — che abbiamo a capo del governo senza averlo votato e che fa il verso al peggior Machiavelli della vulgata popolare — è ambizioso e cinico a sufficienza da distruggere irresponsabilmente lo stesso partito del quale è segretario e le poche tutele di chi lavora, pur di accrescere il proprio potere personale sia nel Pd, sia nel Paese. È anche abbastanza furbo per vendere la distruzione del partito di cui è segretario come un effetto collaterale della riforma politica e istituzionale che promette. I media comprano, a scatola chiusa, per una cosa seria gli effetti collaterali della sua ambizione. Non c’è più nessuno che pare essere in grado di chiamare le cose col loro nome. Il rischio che corrono gli italiani è di finire nel tunnel di una ridicola autocrazia mascherata da riformismo parolaio; che, attraverso la leva fiscale — brandita anche da certi burocrati di Bruxelles — faccia perdere loro le libertà individuali, dopo aver distrutto, con la fine della sinistra e del sindacato, quelle collettive. Lo si lasci dire, allora, a chi scrive da sempre, senza mezzi termini, che la cultura politica di sinistra è stata, e ancora è, una iattura per il Paese. La distruzione del Pd, e l’assunzione di un potere personale sempre maggiore da parte del suo segretario e capo del governo non vanno nella direzione della modernizzazione della cultura politica della sinistra. Quella che Renzi sta compiendo è l’operazione regressiva che tutti gli autocrati hanno compiuto nei confronti del Partito, o del movimento, che li aveva portati ai vertici del potere politico. La rivoluzione sovietica si era rapidamente risolta nella dittatura del Partito comunista e del suo Comitato centrale sul proletariato; successivamente, la deriva totalitaria aveva dato vita alla dittatura di Stalin sul Comitato centrale del Pcus, sullo stesso partito e sull’intera società. La stessa operazione avevano compiuto Hitler nel movimento nazionalsocialista e Mussolini, nel fascismo, impadronendosene. Non sto dicendo che Renzi è come Stalin, Hitler e Mussolini, ci mancherebbe; sto solo segnalando che le stigmate dell’autocrate le ha tutte, e non le nasconde; basta ascoltarlo o guardarlo in Tv per constatarlo; lui esibisce la propria ambizione e ricorre a certe maniere spicce, nella presunzione che, in fondo, piacciano e gli procurino consenso. In un Paese meno cialtrone, i media reagirebbero denunciando inganno e pericolo e l’opinione pubblica ne prenderebbe atto. Da noi, i media fingono di non vedere o, addirittura, plaudono, con la parte meno matura dell’opinione pubblica, all’«Uomo nuovo che cambierà l’Italia» come, nel ’22, avevano inneggiato all’originale, in nome dell’Ordine, abdicando alla funzione che, in una democrazia, dovrebbero esercitare a difesa delle libertà individuali e collettive. Personalmente, non nutrivo alcuna simpatia, né ho oggi alcuna nostalgia, per la signora Bindi né per Massimo D’Alema. Ma ciò che inquieta è che in gioco non sono loro, ma una parte della nostra storia, della nostra tradizione politica, con i suoi limiti e le sue carenze e, con essa, il futuro del Paese. In gioco non è solo il Pd, che avrà i suoi difetti, ma che rappresenta pur sempre alcuni milioni di cittadini. Di una sinistra decente e sanamente riformista c’è bisogno; non fosse altro per la funzione critica che essa potrebbe esercitare rispetto a certe degenerazioni del capitalismo e del mercato nazionali. Ciò di cui non c’è davvero bisogno è di un nuovo duce... postellino@corriere.it 29 ottobre 2014 | 10:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_29/rottamazione-fa-male-sinistra-6537e3f4-5f40-11e4-a7a8-ad6fbfe5e57a.shtml Titolo: Piero OSTELLINO. Il buonismo che ci acceca Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:09:42 pm LE IDEE radici e violenza
Il buonismo che ci acceca Carenze culturali e politiche sono retoriche supplenze di identità ambigue Di Piero Ostellino Il miserevole spettacolo che l’Italia politica e giornalistica sta dando sulla strage di Parigi e il suo seguito è figlio allo stesso tempo — salvo minoritarie e lodevoli eccezioni — di carenza culturale e di stupidità politica. Entrambe sono la retorica supplenza della nostra identità ambigua e compromissoria. Perciò, in nome della convivenza con l’Islam, auspichiamo di fondare un nuovo Illuminismo, non sapendo palesemente che ce n’è già stato uno sul quale abbiamo fondato la nostra civilisation, mentre sono loro che non lo hanno ancora fatto e che dovrebbero farlo. Ci si è lamentati che le forze dell’ordine francesi non fossero riuscite a catturare rapidamente i due lombrosiani criminali artefici della strage parigina. Ignoriamo, o fingiamo di ignorare, che ciò era dovuto al fatto che il cosiddetto estremismo islamico naviga nel mare delle collusioni e delle complicità con l’islamismo che chiamiamo ostinatamente moderato. Che moderato non è e che si è profondamente radicato nel continente con l’immigrazione. È stupefacente che a non capirlo sia proprio quella stessa sinistra che, da noi, aveva felicemente contribuito a isolare il terrorismo delle Brigate rosse prendendo realisticamente atto che esso navigava nel mare delle complicità antiliberali e anticapitalistiche generate dal «lessico familiare» comunista. L’ignoranza che, da noi, circonda il caso francese rivela l’incapacità culturale, non solo della sinistra, di capire che cosa è stata, in Occidente, l’uscita dal Medioevo, la separazione della politica dalla religione, la cancellazione del dominio della fede religiosa sulla politica e la nascita dello Stato moderno; incapacità di capire che si accompagna a quella di prendere atto, per converso, che l’Islamismo è ancora immerso nel Medioevo ed è soprattutto incapace di uscirne. Le patetiche invocazioni al dialogo, alla reciproca comprensione che si elevano da ogni chiacchierata televisiva, da ogni articolo di giornale, sono figlie di un buonismo retorico, politicamente corretto, incapace di guardare alla «realtà effettuale» con onestà intellettuale. Non stiamo dando prova neppure approssimativa di essere gli eredi di Machiavelli, bensì, all’opposto, riveliamo di essere i velleitari nipotini di Brancaleone da Norcia, lo strampalato protagonista di una saga cinematografica. Il miserevole spettacolo che diamo è anche la conseguenza dell’insipienza culturale di una sinistra che — perduto il rapporto organico con l’Unione sovietica, spazzata via dalle «dure repliche della storia» — non sa, o non vuole, darsi una identità. La nostra insipienza politica è generata dall’incultura. Non abbiamo perso l’occasione, anche questa volta, di mostrare d’essere un Paese da Terzo Mondo al quale, come non bastasse, un Papa pauperista detta la linea fra l’ottuso entusiasmo di fedeli che mostrano di credere ben poco nel messaggio di Cristo e molto più di essere i sudditi di una gerarchia che assomiglia a una corporazione o a un partito. Avevo definito l’Islam, in un precedente articolo, una teocrazia, aggiungendo che qualsiasi tentativo, da parte nostra, di trovare con esso una qualche forma di conciliazione si sarebbe rivelato, a causa della contraddizione logica e storica, illusorio. Che piaccia o no al buonismo, siamo diversi. È inutile nascondersi dietro il dito di un universalismo di facciata che non regge alla prova della logica e della storia. Siamo anche migliori, avendo noi conosciuto, e praticato da alcuni secoli — a differenza di loro che sono, e vogliono restare, una teocrazia — la separazione della religione dalla politica. Pur con tutti i nostri limiti, pratichiamo l’insegnamento dell’Illuminismo e siamo entrati da tempo nella Modernità, mentre loro ne sono ancora fuori e non danno neppure segno di volerci entrare. Viviamo in regimi che praticano la tolleranza nei confronti di chi non la pensa allo stesso nostro modo o professa una religione diversa dalla nostra; siamo società che, per dirla con Isaiah Berlin, professano e rispettano la «pluralità di valori». Chi non la pensa come noi, non è considerato e trattato come un nemico. Loro ci considerano «infedeli» rispetto alle loro convinzioni e alla loro prassi; un nemico da sterminare come hanno fatto nei confronti della redazione del settimanale satirico parigino il cui torto era di aver fatto dell’ironia sul loro credo. Per noi, gli islamici sono gente che la pensa in un modo diverso. Da figlio del Cristianesimo e del liberalismo mi chiedo come si possano uccidere uomini e donne in nome del proprio dio. Il criminale che torna sui suoi passi per finire un agente ferito e a terra è una bestia, con tutto il rispetto per gli animali. Le nostre reciproche culture sono inconciliabili ed è persino ridicolo auspicare che ci si possa incontrare almeno a metà strada. Dovremo convivere, sapendo che ci vorrebbero colonizzare e dominare attraverso quel «cavallo di Troia» che è l’immigrazione e che noi stessi incoraggiamo. Lo ripeto. Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro. Sempre che vogliano convivere pacificamente. Cosa di cui dubito. 10 gennaio 2015 | 08:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_10/buonismo-che-ci-acceca-5b07abd8-9890-11e4-8d78-4120bf431cb5.shtml Titolo: Il Noista. Piero Ostellino. - L’antirenzismo gli ha fatto cambiare idea Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2016, 12:14:11 pm La resa del soldato liberale Ostellino, simpatizzante di Zagrebelsky
Il Noista Piero Ostellino L’antirenzismo gli ha fatto cambiare idea Piero Ostellino è un grande liberale in un Paese in cui i liberali non esistono: è dunque con estremo rispetto che ci permettiamo di muovere qualche obiezione al suo intervento sul Giornale di oggi. L’intero scritto è permeato da una solida e diffusa antipatia per Matteo Renzi (il “ragazzotto fiorentino” con una pericolosa inclinazione all’“autoritarismo”), che naturalmente va rispettata e, come ogni sentimento, non può essere confutata. Meno comprensibile la simmetrica simpatia per Gustavo Zagrebelsky, che per tutta la vita – e ancora venerdì nel dibattito televisivo con il presidente del Consiglio – ha sempre sostenuto la superiorità della “democrazia sostanziale” sulla “democrazia formale”: e questo, francamente, un liberale – ancorché legittimamente antirenziano – non dovrebbe proprio tollerarlo. Ma è soprattutto l’atteggiamento di Ostellino verso la Costituzione repubblicana a suscitare qualche perplessità. Oggi l’editorialista del Giornale la difende a spada tratta, prima sostenendo che “l’instabilità politica dell’Italia e la debole capacità decisionale dei governo” non dipendono dall’“architettura costituzionale”, e poi elogiando “il costante compromesso fra i partiti in Parlamento e nel Paese”, di cui dobbiamo ringraziare “la Costituzione del 1948” e che, “come ha sottolineato Zagrebelsky”, ha “salvaguardato la democrazia”. Eppure non più tardi di un anno fa Ostellino la pensava in modo diametralmente opposto: “Invece di parlarne tanto – scriveva sul Giornale il 31 luglio 2015 –, perché non si mette concretamente mano alla Costituzione? Si abbia il coraggio di chiedersi se essa non sia il vero impedimento e si smetta di venerarla come un oggetto religioso. […] All’origine dell’inerzia c’è un peccato originale – la natura del nostro sistema politico sanzionato dalla Costituzione del 1948 – del quale non riusciamo a liberarci”. Due anni prima, sul Corriere, l’editorialista era stato ancora più duro: “Abbiamo buttato via oltre sessant’anni di storia repubblicana, la parvenza di democrazia disegnata dalla stessa rabberciata Costituzione, che è peggiore del vecchio Statuto albertino. Bene che vada, ci vorrà più di qualche generazione prima che l’Italia diventi un Paese di democrazia matura”. Ora che alla “democrazia matura” ci stiamo finalmente avvicinando (e in forte anticipo sui tempi preconizzati da Ostellino), è triste assistere alla resa di un grande liberale ad una (rispettabilissima) antipatia personale. Da - http://www.unita.tv/opinioni/la-resa-del-liberale-ostellino-simpatizzante-di-zagrebelsky/ |