LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Settembre 27, 2007, 09:54:49 am



Titolo: EZIO MAURO.
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2007, 09:54:49 am
POLITICA L'EDITORIALE

Antipolitica, per chi suona la campana
EZIO MAURO


C'è qualcosa di impopolare e tuttavia necessario da dire ancora sull'assalto dell'antipolitica al cielo italiano di questo sgangherato 2007. Niente di ciò che sta avvenendo sarebbe possibile se sotto la crosta sottile di questa crisi dei partiti che diventa crisi di rappresentanza, si allarga alle istituzioni, corrode il discorso pubblico, non ci fosse un'altra crisi ben più profonda che continuiamo a ignorare perché non la vogliamo vedere. E' la decadenza del Paese, l'indebolimento della coscienza di sé e della percezione esteriore, la perdita di peso specifico e di identità culturale. Ciò che dà forma contemporanea ad un'idea dell'Italia, la custodisce aggiornandola nel passaggio delle generazioni, la testimonia nel mondo, garantendo una sostanza identitaria agli alti e bassi della politica, ai cicli dell'economia, all'autonoma rappresentazione del Paese che la cultura fa nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nella musica, nei media o in televisione.

Se questa idea che il Paese ha di se stesso, e che il mondo ha di noi, non si fosse fiaccata fino a confondersi e smarrirsi, il sussulto di ribellione ai costi crescenti della politica, alla lottizzazione di ogni spazio pubblico con l'umiliazione del merito, all'esibizione pubblica dei privilegi avrebbe preso la strada di una spinta forzata al cambiamento e alla riforma. Non di un disincanto che si trasforma in disaffezione democratica mentre la protesta diventa una sorta di secessione dalla vita pubblica: un passaggio in una dimensione parallela - ecco il punto - dove l'idea stessa di cambiamento cede alla ribellione, e alla cattiva politica si risponde cancellando la politica e abrogando i partiti. Come se cambiare l'Italia fosse impossibile. O, peggio, inutile.

Un Paese che dedica quattro serate tv a miss Italia, riunisce una trentina di persone in un vertice di maggioranza attorno a Prodi, inventa un cartoon politico come la Brambilla per esorcizzare il problema politico della successione a Berlusconi, vede restare tranquillamente al suo posto il presidente di Mediobanca rinviato a giudizio con altri 34 per il crac Cirio, forma due partiti anche per discutere l'eredità Pavarotti e dà ogni sera al Papa uno spazio sicuro nel suo maggior telegiornale, ha la proiezione internazionale che questo triste perimetro autunnale disegna. Un'Italia in forte perdita di velocità, dove l'unico leader capace di innovazione è un manager straniero come Sergio Marchionne mentre il ceto politico è l'elemento più statico, immobile, in un sistema che perde peso e ruolo in Europa e nel mondo. Perché la moda, il Chianti e le Langhe non possono da soli sostenere e rinnovare la tradizione e l'ambizione di un Paese che non può essere soltanto l'atelier dell'Occidente, o la sua casa di riposo.

Ma se tutto questo è vero, e purtroppo lo è, l'antipolitica è soltanto una spia - e parziale - dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di uno spirito nazionale, qualcosa che va molto al di là delle dimensione strettamente politica e istituzionale. È quel che potremmo chiamare il senso di una perdita progressiva di cittadinanza in un Paese che perde intanto ogni piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento. Come può questo Paese non perdere sicurezza, coscienza, peso, capacità di rappresentare se stesso e di valorizzarsi, innovando e modernizzando?
Il "V-day", a mio giudizio, è una prova di questo impoverimento. Solitudini politiche sparse, delusioni individuali, secessioni personali si riuniscono in uno show, come se cercassero "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche". È quella che Zygmunt Bauman chiama la comunità del talk-show, con gli idoli che sostituiscono i leader, mentre il potere dei numeri - la folla - consegna loro il carisma, capace a sua volta di trasformare gli spettatori in seguaci. Attorno, la celebrità sostituisce la fama, la notorietà vale più della stima, l'evento prende il posto della politica e trasforma i cittadini da attori a spettatori: pubblico.

Ma come si fa a non vedere che in questa atrofia del discorso politico, che cortocircuita se stesso trasformando il "vaffanculo" nella massima espressione di impegno civile dell'Italia 2007, c'è la decadenza di ogni autorità, il venir meno di ciò che si chiamava "l'onore sociale" dei servitori dello Stato, il logoramento vasto del potere nel suo senso più generale: il potere in forza della legalità, in forza "della disposizione all'obbedienza", nell'adempimento di doveri conformi a una regola.

Se è questo che è saltato, il vuoto allora riguarda tutti, non soltanto la classe politica. È l'establishment del Paese nel suo insieme che invece di sentirsi assolto dal pubblico processo al capro espiatorio politico, deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo impoverimento del sistema-Italia, di questa secessione strisciante, dello smarrimento non solo del senso dello Stato ma anche di uno spirito repubblicano comune e condiviso. Troppo comodo partecipare al valzer dell'antipolitica dagli spalti di un capitalismo asfittico nelle sue scatole cinesi, di una finanza che cerca il comando senza il rischio, di un'industria che dello Stato conosce solo gli aiuti e mai le prerogative.

Quando la crisi è di sistema e l'indebolimento del Paese è l'unico risultato visibile ad occhio nudo, davanti alla secessione strisciante di troppi cittadini dalla cosa pubblica bisognerebbe che l'establishment italiano evitasse di contare in anticipo le monetine da lanciare contro la politica, aspettando la supplenza e sognando l'eredità. Meglio chiedersi, finché c'è tempo, per chi suona la campana.

(27 settembre 2007)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO - Non sprecare questa forza
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2007, 10:06:09 am
POLITICA

L'EDITORIALE

Non sprecare questa forza

di EZIO MAURO


Non è solo un risultato politico straordinario, il voto che ha dato vita al Partito democratico ieri, con più di tre milioni di cittadini impegnati nelle primarie che hanno scelto Walter Veltroni come leader con una maggioranza schiacciante; ma è un segnale per tutti, al di là dei recinti di parte, che ci dice qualcosa di inedito e di imprevisto sull'Italia di oggi, qualcosa che va controcorrente e dunque merita di essere osservato con attenzione.

Il Paese, dice questo segnale, non è omologato ad un falso senso comune impastato con i materiali di un ribellismo antistatale borghese e proprietario da un lato, e di una protesta popolare nichilista dall'altro. Anzi. Se si apre lo spazio per una partecipazione nuova al discorso pubblico - nuova nelle persone, nel linguaggio, nei riti, nei contenuti - quello spazio viene occupato e dilatato, quasi rivendicato dai cittadini: che lo rendono simbolico e dunque immediatamente significativo dal punto di vista politico e persino culturale, distruggendo in un solo giorno la povertà del cortocircuito che trasforma la politica in vaffanculo, ma anche l'esibizione muscolare di piazze, minacce e sondaggi, che vede il confronto politico come pura prova di forza.

C'è infatti l'evidente ricerca di un barlume in fondo al grigiore di questi giorni, nella mobilitazione di un pezzo d'Italia per partecipare alla fondazione di un partito. C'è la voglia quasi disperata di un nuovo inizio.

C'è la condanna per contrappasso di riti e giochi al massacro e al piccolo lucro politico - qui parliamo della sinistra - che disamorano gli elettori ad ogni rilevazione statistica, e sembravano averli consegnati al disimpegno, separandoli dal destino dei partiti, vecchi e nuovi, e dal loro divenire. Invece, e nonostante tutto, nel cosiddetto popolo della sinistra c'è ancora una disponibilità alla speranza, a ripartire e a riprovare, se soltanto si mostrano gli strumenti e gli uomini, i modi e le forme con cui tutto questo potrebbe, forse, accadere. Nel cinismo dominante di oggi, non era affatto scontato. In una formula, e prima ancora di parlare di politica, la giornata di ieri dimostra come per un pezzo rilevante d'Italia non si debba rinunciare a credere che il cambiamento è ancora possibile. Per la sinistra, non è una scoperta da poco, pochi giorni dopo il referendum sindacale nelle fabbriche, la sua partecipazione, il suo risultato e soprattutto il suo significato. Come scoprire di avere un popolo, e di averlo attivo e reattivo, dopo il timore - diciamo la verità - di averlo perduto.

Ma è per il Paese che questa riserva di fiducia e di partecipazione può contare. Perché può ridare respiro alla politica - tutta - e alle istituzioni, entrambe braccate. E perché separa la protesta di questi mesi dalla sua frettolosa definizione: non era antipolitica, infatti, ma richiesta di una politica "altra", radicalmente diversa. In questo modo, la ribellione può prendere la strada (la spinta) dell'impegno a cambiare, separandosi sia dai pifferi dei demagoghi che pretendevano di guidarla, sia dai tamburi dei populisti che speravano di dirottare il corteo. E sia, soprattutto, dai sospiri impazienti di chi da fuori pesava già le macerie politico-istituzionali, sperando in una nuova supplenza imprenditorial-terzista-professorale capace di forzare con alleanze da rotocalco la costituzione, il bipolarismo e i partiti.

E invece, ecco la parola "partito" che spunta da questa palude in parte spontanea e in parte interessata di disgusto per la politica, o almeno di disincanto e di lontananza. La cifra di qualità del voto di ieri, a ben vedere, sta nel fatto che non si votava per un premier, non si toccava l'intera platea di una coalizione, non si testimoniava una presenza al gazebo contro Berlusconi al potere, com'era accaduto alle primarie di Prodi e Bertinotti, con 4 milioni di cittadini-elettori. Questa volta è il richiamo di un partito che ha mobilitato più di tre milioni di persone, in un momento di governo calante, berlusconismo quiescente, partitismo languente. Com'è stato possibile? Perché non si tratta di un partito, ma di un partito-nuovo, come il New Labour annunciato da Blair all'inizio della sua avventura. Nuova la leadership, anche generazionalmente, nuovi i programmi, nuova la liturgia e nuovo soprattutto lo strumento di partecipazione diretta dei cittadini. In nessun Paese al mondo un partito moderno è nato dal coinvolgimento diretto di tre milioni di persone, e dalla loro scelta attraverso il voto. L'ultimo grande partito nato da noi - Forza Italia - è scaturito da una cassetta tv registrata, nello studio del leader proprietario, che tra un ficus e la scrivania annunciava di amare il suo Paese, nella solitudine elettronica del messaggio televisivo.

L'Italia non è così distratta da non aver percepito la differenza, e forse persino il suono drammatico dell'autenticità in quest'ultimo tentativo di reinvenzione della sinistra, dopo i ritardi tragici della sua storia, che hanno tanta colpa nelle sue sconfitte. E ha evidentemente percepito anche la novità della leadership di Veltroni, se l'ha consacrata con un consenso così alto proprio in una fase di caccia grossa all'uomo politico e a tutti i suoi simboli. Anche la competizione molto dura con Rosy Bindi e il confronto aperto con Enrico Letta, davanti agli elettori, hanno avuto il suono della novità. Ma Veltroni ha significato qualcosa di più, qualcosa legato al personaggio e al ruolo di sindaco di Roma: una sinistra capace di considerare le ragioni degli altri, un professionismo con tocchi efficaci di dilettantismo, dunque decifrabile e non distante, un linguaggio aperto a codici nuovi, un orizzonte non più ideologico e tuttavia mitologico, una propensione dichiarata all'innovazione, che oggi resta anche a sinistra l'unica rivoluzione possibile.

Si capisce da quanto abbiamo detto come da tutto questo Veltroni riceva oggi una forza del tutto inedita nel mondo politico italiano. La riceve non solo dai numeri, ma dalla forma con cui sono stati espressi, dall'inedita coppia leader-cittadini uniti prima ancora che nasca il partito, dallo spiazzamento generale per una testimonianza politica massiccia in giorni di crisi della politica. Ha un solo modo per non sprecarla: usarla. Capendo, prima di tutto, che è una forza di cambiamento, per il cambiamento. Dunque, continuando a cambiare, subito, a costo di strappare, come sarà inevitabile. Altrimenti, la speranza che si è riaccesa si spegnerà, perché è l'ultima. Quel barlume che s'intravede in fondo alla crisi è come una miccia accesa. Che ci spinge a cambiare, tutti, ma con urgenza, per salvare il Paese.

(15 ottobre 2007)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. ...
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2007, 10:31:42 pm
CRONACA

COMMENTO

Democrazia e religione
di EZIO MAURO


"Finiamola". Con questo invito che ricorda un ordine il Cardinal Segretario di Stato della Santa Sede, Tarcisio Bertone ha preso ieri pubblicamente posizione contro l'inchiesta di Repubblica sul costo della Chiesa per i contribuenti italiani, firmata da Curzio Maltese.

"Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa - ha detto testualmente il cardinal Bertone - : l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". Per poi aggiungere: "C'è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere. L'ora di religione è sacrosanta".

Non ci intendiamo di santità, dunque non rispondiamo su questo punto. Ma non possiamo non notare come il tono usato da Sua Eminenza sia perentorio e inusuale in qualsiasi democrazia: più adatto a un Sillabo.
L'attacco vaticano riguarda un'inchiesta giornalistica che analizza i costi a carico dei cittadini italiani per la Chiesa cattolica, dalle esenzioni fiscali all'otto per mille, al finanziamento alle scuole private, all'ora di religione: altre puntate seguiranno, finché il piano di lavoro non sia compiuto.

Finiamola? E perché? Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev'essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza? E' convinta che basti chiedere la chiusura anticipata di un'indagine giornalistica per evitare che si discuta di "questa storia"? Infine, e soprattutto: non esiste più l'imprimatur, dunque persino in Italia, se un giornale crede di "tirar fuori iniziative di questo genere" può farlo. Salvo incorrere in errori che saremo ben lieti di correggere, se riceveremo richieste di rettifiche che non sono arrivate, perché nessun punto sostanziale del lavoro d'inchiesta è stato confutato.

La confutazione, a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede, non prevista per le altre istituzioni italiane e straniere, ma tipica soltanto di Paesi non democratici. In più, Sua Eminenza è il Capo del governo di uno Stato straniero che chiede di "finirla" con il libero lavoro d'indagine (naturalmente opinabile, ma libero) di un giornale italiano. Dovrebbe sapere che in Occidente non usa. Mai.

Stupisce questa reazione quando si parla non dei fondamenti della fede, ma di soldi. E tuttavia se la Chiesa - com'è giusto - vuole far parte a pieno titolo del discorso pubblico in una società democratica e trasparente, non può poi sottrarsi in nome di qualche sacra riserva agli obblighi che quel discorso pubblico comporta: per tutti i soggetti, anche quelli votati al bene comune. Anche questo è un aspetto della sfida perenne, e contemporanea, tra democrazia e religione.

(25 ottobre 2007)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO - La struttura Delta
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2007, 11:08:42 pm
CRONACA

L'EDITORIALE

La struttura Delta

di EZIO MAURO


UNA versione italiana e vergognosa del "Grande Fratello" è dunque calata in questi anni sul sistema televisivo, trascinando Rai e Mediaset fuori da ogni logica di concorrenza, per farne la centrale unificata di un'informazione omologata e addomesticata, al servizio cieco e totale del berlusconismo al potere. L'inchiesta di "Repubblica" ha svelato fin dove può arrivare il conflitto d'interessi, che questo giornale denuncia da anni come anomalia italiana, capace di corrompere la qualità della nostra democrazia.

Nel pozzo senza fondo di quel conflitto, tutto viene travolto, non soltanto codici aziendali e doveri professionali, ma lo stesso mercato, insieme con l'indipendenza e l'autonomia del giornalismo. Con il risultato di una servitù imposta alla Rai come un guinzaglio per un unico padrone, ben al di là dell'umiliante lottizzazione tra i partiti, e i cittadini-spettatori truffati e manipolati proprio in quella moderna agorà televisiva in cui si forma il delicatissimo mercato del consenso.

Ci sono le prove documentali di questa operazione sotterranea, che ha agito per anni alle spalle dei Consigli di amministrazione, della Commissione di vigilanza, dei moniti del Quirinale sul pluralismo dell'informazione. Si tratta - come ha documentato "Repubblica" - di un'indagine della magistratura milanese sul fallimento dell'Hdc, la holding dell'ex sondaggista di Berlusconi (e della Rai) Luigi Crespi, che è stato per un lungo periodo anche il vero spin doctor del Cavaliere.

Dopo il fallimento del gruppo, nel marzo 2004, sono scattate perquisizioni e intercettazioni della Guardia di Finanza. E gli appunti dei finanzieri sulle conversazioni telefoniche rivelano un intreccio pilotato tra Mediaset e Rai che coinvolge manager di derivazione berlusconiana e uomini che guidano strutture informative, con scambi di informazioni tattiche e strategiche, mosse concordate sui palinsesti per "coprire" notizie politicamente sfavorevoli al Cavaliere, ritardi truffaldini nella comunicazione al pubblico di risultati elettorali negativi per la destra: con l'aggiunta colorita e impudente di notisti politici Rai che si raccomandano a Berlusconi, dirigenti Mediaset che danno consigli alla Rai sulla preparazione del festival di Sanremo. E un lamento, perché durante le riprese televisive dei funerali del Papa, "Berlusconi è stato inquadrato pochissimo dalle telecamere".

Non si tratta, com'è evidente, soltanto di un caso di malcostume politico, di umiliazione professionale, di vergogna aziendale. E' la rivelazione di un metodo che mina alle fondamenta il mito imprenditoriale berlusconiano, perché sostituisce la complicità alla concorrenza, la sudditanza all'autonomia, la dipendenza al mercato. Il tutto in forma occulta, con la creazione di una vera e propria rete segreta che crea un "gioco di squadra" - come lo chiamano le telefonate intercettate - che ha un unico capitano, un unico referente e un unico beneficiario: Silvio Berlusconi.

Trasmissioni d'informazione, come quella di Vespa, per la quale il direttore generale Rai garantisce che il conduttore "accennerà al Dottore ad ogni occasione opportuna", dirigenti della televisione pubblica che quando vengono a conoscenza di un discorso di Ciampi a reti unificate per la morte del Papa hanno come unica preoccupazione quella di organizzare un contraltare di Berlusconi al capo dello Stato, che potrebbe essere messo troppo "in buona luce", serate elettorali in cui si decide di "fare più confusione possibile" nel comunicare i risultati "per camuffare la loro portata".

In che Paese abbiamo vissuto? La politica - avversari e alleati di Berlusconi, tutti quanti defraudati da questa rete sotterranea costruita per portare acqua ad un mulino solo - è consapevole della gravità di queste rivelazioni, che dovrebbero spingerla ad approvare una seria legge sul conflitto d'interessi nel giro di tre giorni? E il Cavaliere, quando sarà sceso dal predellino di San Babila dove le sue televisioni lo hanno inquadrato in abbondanza, vorrà spiegare che mandato avevano i suoi uomini (spesso suoi assistenti personali) mandati ad occupare posizioni-chiave in Rai e Mediaset, se i risultati documentali sono questi?

La realtà è che in questo Paese ha operato e probabilmente sta operando da anni una vera e propria intelligence privata dell'informazione che non ha uguali in Occidente, un misto di titanismo primitivo e modernità, come spesso accade nelle tentazioni berlusconiane. Potremmo chiamarla, da Conrad, "struttura delta". Un'interposizione arbitraria e sofisticatissima, onnipotente perché occulta come la P2, capace di realizzare un'azione di "spin" su scala spettacolare, offuscando le notizie sgradite, enfatizzando quelle favorevoli, ruotando la giornata nel senso positivo per il Cavaliere.

Naturalmente con le telecamere Rai e Mediaset che ruotano a comando intorno a questa giornata artificiale, a questo mondo camuffato, a questa cronaca addomesticata. In una finzione umiliante e politicamente drammatica della concorrenza, del pluralismo, dei diritti del cittadino-spettatore, alterando alla radice il mercato più rilevante di una democrazia, quello in cui si forma la pubblica opinione.

Lo abbiamo già scritto e lo abbiamo denunciato più volte, ma oggi forse anche la politica più sorda e cieca riuscirà a capire. In nessun altro luogo si è formato un meccanismo "totale", così perverso e perfetto da permettere ad un leader politico di guidare legittimamente la più grande agenzia newsmaker del Paese (il governo) e di controllare insieme impropriamente l'universo televisivo, con la proprietà privata di tre canali e la sovranità pubblica degli altri tre.

A mettere in connessione le notizie trattate secondo convenienza politica e i canali informativi, serviva appunto la "struttura delta", ricca del know-how specifico del mondo berlusconiano, specializzato proprio in questo. Da qui alla tentazione di costruire il palinsesto supremo degli italiani, manipolando paesaggio e personaggi della loro vita, il passo è breve. E se la mentalità è quella che punta ad asservire l'informazione alla politica, la politica al comando, il comando al dominio, quel passo è probabilmente quasi obbligato.

E' ora possibile fare un passo per uscire da questo paesaggio truccato, da questa manipolazione della nostra vita. Purché le istituzioni, la libera informazione, il mercato e la politica lo sappiano. Sappiano che un Paese moderno, o anche solo normale, non può sopportare queste deformazioni delle regole e della stessa realtà: e dunque reagiscano, se ne sono capaci. La stessa mano che domani proporrà le larghe intese, è quella che ha predisposto il telecomando con un tasto unico. E truccato.

(22 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO.
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2008, 10:41:51 pm
CRONACA

Viaggio nella crisi della democrazia.

A Napoli tra politici impotenti e ribelli delle discariche.

E alla paura della gente si mescola la camorra

Così lo Stato affonda tra rifiuti e violenza

I termovalorizzatori non esistono.

I depositi sono gonfi di spazzatura pressata "talquale" per un esito finale che però non ci sarà

di EZIO MAURO


NAPOLI - Il giorno in cui lo Stato sembrò arrendersi, era un sabato qualunque. Ventinove dicembre 2007, Capodanno alle porte e una gran paura che i botti (venti tonnellate scoperte a San Giuseppe Vesuviano, una famiglia arrestata a Massa di Somma mentre acquistava cento chili tondi di razzi, tre quintali di petardi proibiti sequestrati al bidello della scuola materna di Afragola, che li teneva nascosti nella caldaia) incendino i rifiuti, bruciando la plastica e liberando diossina. Per il resto, un giorno normale: temperatura media 12,1, cielo sereno, vento debole da Nordovest.

All'inizio di via della Montagna Spaccata, in sette lanciano le corde attorno al primo lampione stradale, poi lo piegano, lo curvano saltandoci sopra e lo abbassano fino ad attraversare la strada, bloccandola. Attorno massi di cemento, il sedile di un divano, cassette di legno. Quel lampione abbattuto e sospeso è come un passaggio a livello che separa la città che produce rifiuti dalla città che deve ospitarli. Perché quella strada che spacca la montagna, attraverso tre curve, tre rotonde e una discesa al buio porta direttamente al Mostro: la discarica di Pianura che per 42 anni ha ingoiato l'immondizia di tutti, Napoli, la Campania, pezzi d'Italia e d'Europa, gonfiandosi di colline marce d'erba falsa e ingannevole, di alberi malati, di odori e vapori. Poi ha chiuso, giurando che era per sempre, nel 1996, promettendo al posto dell'immondizia un campo da golf a 18 buche, con una passeggiata aperta a tutti.

Adesso, all'improvviso, Pianura riapre e il fantasma ritorna, perché Napoli non sa più dove mettere i suoi rifiuti, abbandonati come una minaccia e una resa a ogni angolo di strada. Può soltanto sotterrarli, dove l'ha sempre fatto dai tempi di Lauro in poi.

Tutta la Campania geme sotto il peso di centomila tonnellate di rifiuti, e Napoli da sola (otto per cento del territorio regionale, 40 per cento della popolazione) ne produce 1500 al giorno. È sempre così, ma adesso sembra di vederle tutte. Hanno provato a ripulire il centro per i giorni di festa, ma non ci sono riusciti.

Dovunque c'è un cassonetto, sembra funzionare soltanto come un richiamo e come un segnalatore d'emergenza. Sta con la porta in alto spalancata, traboccando, e tutt'attorno è un lago bianco, azzurro, marrone, nero di sacchi, sacchetti, pacchi, cartoni, bottiglie, bicchieri colorati di plastica. Anche davanti all'ingresso del palazzo della giunta regionale, a Santa Lucia, dove i sacchi si allargano per strada. Anche in via Toledo, la strada dello shopping, proprio all'incrocio con Santa Brigida e poi davanti al Disney store, tappa natalizia: cumuli di rifiuti alti fino a due metri, larghi dieci, con fornelli arrugginiti, stufe rotte, ventilatori fuori stagione coricati tra gli imballaggi. Al Vomero in via Caldieri e via Martini si arriva fino al primo piano delle case. A piazza Trieste e Trento, a due passi dal Plebiscito, i sacchi oscurano le vetrine, coprono i saldi. In via Scarfoglio, dove c'è il comando Nato del Sud Europa, si è formato un lago di liquame e pioggia, perché i tombini sono intasati dall'immondizia che esce dai sacchi neri accatastati dovunque.

Eppure il sangue di San Gennaro si era sciolto, poco prima delle feste, dunque nulla lasciava intravvedere questa emergenza, nelle strade e nelle piazze che il cardinale Crescenzio Sepe si chinò a baciare quando entrò per la prima volta da arcivescovo di Napoli nella paura di Scampia. Cos'è successo? Semplice, dice il senatore Roberto Barbieri, presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite che si tira dietro: è successo che in cinquant'anni Napoli non ha saputo inventare altro che i buchi delle discariche - quelle legittime e quelle illegali gestite dalla camorra - per nascondere i suoi rifiuti seppellendoli, e adesso sono finiti i buchi. Dunque dai sette impianti Cdr, combustibili da rifiuti, che accumulano le ecoballe (e già sarebbero fuori norma perché non sono frutto di uno smaltimento differenziato, come vogliono le procedure, e dunque non sono bruciabili perché si brucerebbe di tutto) non sanno più dove portarle.
 
I termovalorizzatori, dove finiscono le ecoballe in tutto il mondo, qui in Campania non esistono. I depositi sono pieni, gonfi di immondizia "talquale" pressata per un esito finale che non ci sarà. C'è soltanto il buco, ma i buchi sono ormai saturi e per di più circondati e piantonati dalle paure e dalle diffidenze dei cittadini.

Dietro i sacchi dei rifiuti sparsi in ogni angolo, c'è dunque l'immondizia condensata inutilmente in sei milioni di ecoballe, simbolo gigantesco di un Paese che segue le procedure a metà, avvia un processo sapendo che non arriverà mai in porto, mima una regola che non è capace di seguire e finge una normalità che non esiste. Ma c'è forse qualcosa di più, che conferma quel "magma sociale" che a giugno un'inchiesta di Giuseppe D'Avanzo definì "vittima e carnefice" della falsa emergenza rifiuti, un'emergenza che dopo 14 anni, 780 milioni di euro ingoiati all'anno, un bilancio fallimentare di 15 mila miliardi di lire in dieci anni, è purtroppo normalità quotidiana.

Ma il prefetto Alessandro Pansa aggiunge ancora un dubbio. La verità, spiega, è che a ottobre Napoli era uscita dalla crisi dell'immondizia, stava per tirar fuori la testa, poteva farcela. E la cosa non è piaciuta per niente a troppa gente: ai sindaci dei Comuni che incassano la Tarsu (la tassa sui rifiuti) e non la versano al commissariato, che vanta 250 milioni di crediti solo dalle amministrazioni municipali, ma deve farsi dare i soldi dallo Stato, perché i comuni non pagano.

La fine dell'emergenza non piace, secondo il prefetto, nemmeno a tutti coloro che non vogliono la trasparenza, non vogliono la gestione pubblica, perché si sottrarrebbe al mercato di smaltimento più caro d'Italia quella quota enorme che viaggia in nero e finisce nelle casse della camorra o dei suoi consanguinei. Infine, non piace nemmeno ai politici, perché la trasparenza dei problemi, delle scelte e delle responsabilità - invece della politica dei buchi - crea impopolarità. E allora, spiega Pansa, meglio ingigantire le paure vere e inventarne altre finte, così se muore una pecora ad Acerra si urla contro il termovalorizzatore, dimenticando che in tutta la Campania non ce n'è nemmeno uno in funzione.
 
Ma la paura è una brutta bestia, e Napoli deve farci i conti. Basta risalire via della Montagna Spaccata per vederla in faccia ai ragazzi, alle madri che portano ai blocchi stradali i bambini in carrozzella per evitare le cariche di polizia, ai vecchi che al tramonto attraversano la strada con due sacchi chiusi di immondizia in mano dirigendosi verso i cassonetti, come se la situazione fosse normale. Come se fosse la strada che porta all'inferno, e non solo alla discarica, i ribelli hanno bloccato tutto, gli accessi, le uscite e soprattutto la raccolta dei rifiuti. Ci sono quattro posti di blocco, incarogniti e nervosi, dopo quel lampione abbattuto per fermare il traffico. Alla prima curva, i rifiuti sono accatastati in massa sul lato destro della strada, contro i cancelli delle case. Un muro di rifiuti, come non avevo mai visto, e che spiega i 25 topi per abitante di questa città, contro i 4 della media nazionale. Sacchetti con tutte le marche dei supermercati, pacchi di pompelmi tagliati a metà e spremuti al caffè Moreno, bottiglie di aranciata a metà, una lavatrice, cartoni di ogni genere, file di lampadine fulminate a Natale su qualche albero, addobbi natalizi spiegazzati e curvati nei sacchi.

All'altezza del Circolo Caritas, un prefabbricato dove ci sono state le primarie dell'Ulivo e dove adesso quattro uomini anziani e due donne giocano a carte, i cassonetti sono rovesciati come ovunque su questa strada, per far barriera ma anche per significare che i rifiuti devono pesare sulla città, debordare per strada, occupare Napoli, sporcarla e in qualche modo imprigionarla. A ogni rotonda, la folla di ribelli aumenta. I capi, pochi, fermano le auto di abitanti del quartiere che hanno il permesso di muoversi dentro il recinto chiuso, gesticolano, spiegano e quando è il caso urlano. Gli altri guardano, fumano, stanno chiusi nei loro giubbotti, partecipano in piedi sui muretti. Ci dev'essere un'organizzazione, perché qualcuno davanti al supermercato Despar è andato in qualche cantiere a prendere una decine di barriere d'acciaio e le ha disposte come una rete notturna attraverso la strada, spaccando i blocchi di cemento usati per la base, e trasformandoli in sassi pesanti.

Cinquecento metri più avanti, lo spartitraffico è stato spezzato e girato da qualche gru, e ora occupa la strada come una barriera invalicabile. Più in alto ancora, superato l'ultimo rondò, c'è uno sbarramento finale fatto di pneumatici di camion, più un materasso e la carcassa di una Smart. A qualche segnale, i rifiuti bruciano, una fila intera, si anneriscono i segnali stradali delle scuole e dei pedoni, la plastica si attorciglia, resta nell'aria l'odore che dura giorni interi.

Oltre le barriere, dentro la rete d'acciaio s'infilano soltanto i ragazzi in scooter col berretto e la sciarpa, quelli che hanno riempito i muri delle case di scritte da ultras, e che adesso passano su e giù, guardano, controllano, sfiorano e accompagnano, portando ordini, allarmi, messaggi, voci. Alle sette, i blindati della polizia e le camionette col vetro protetto dalla rete mettono in moto, lasciano il parcheggio sotto una stella cometa dorata che non era stata ancora spenta, e se ne vanno in colonna. La notizia corre e risale via della Montagna Spaccata, va oltre l'ultimo sbarramento, scende nella strada al buio e arriva al presidio davanti all'ingresso della discarica. Abbiamo vinto, dicono quattro ragazze trionfanti, Prodi ha capito che avevamo ragione e i poliziotti se ne vanno.

C'è quasi una festa notturna davanti alla discarica, i ragazzi si aggrappano alle reti, salgono sui cancelli, vogliono vedere. Ma i vecchi continuano a spostare i sacchi dei rifiuti, come un'autoprotezione, un esorcismo, una garanzia, come se solo l'immondizia potesse proteggerli. Quando alle nove il sindaco e il governatore Bassolino finiscono la riunione in prefettura, e tra mille cautele dicono che Pianura deve riaprire, certo insieme a tutte le altre discariche della Campania, ma deve riaprire, scatta la delusione, la rabbia, la furia. Un autobus viene trascinato fino alla rotonda Russolillo, messo di traverso come un trofeo, bruciato, un camion paralizza gli accessi in via Sartania.

O la discarica di Pianura riapre, o è finita, dice Bassolino prima di partire per Roma: mi piange il cuore perché l'ho chiusa io, ma non c'è altro modo, in attesa di quel maledetto termovalorizzatore che arriverà tra un anno. Doveva arrivare nel 2007, poi nel 2008, conta a voce alta il sindaco Iervolino, adesso dicono nel 2009. Speriamo che non sia il 2025. E le responsabilità, per favore, se le prenda chi le ha, e anche chi ha i poteri: è il commissario, non siamo noi.

Bassolino ammette che ha pensato di dimettersi, di mandare tutto al diavolo, di finire questa rincorsa infinita all'immondizia che dura da più di dieci anni, visto che già nel '95 doveva scortare personalmente, a piedi, i camion che raccoglievano i rifiuti strappandoli alla camorra che voleva invece bruciarli: ma io, aggiunge, non lascio la città a chi non è in grado di prendersela democraticamente, dopo che contro i termovalorizzatori ho visto marciare tutti, destra e sinistra, giornali e intellettuali, e in prima fila i vescovi con la croce in mano come se ci fosse da respingere il demonio. E con loro, la camorra, naturalmente. Per questo il governatore non vuole andare alla Montagna Spaccata a parlare ai ribelli: quella, dice, è camorra a 18 carati, con loro non tratto. Usiamo un po' di Stato, mettiamo un po' di gente in galera, poi parlamentiamo.

Ma in realtà, come sempre nella disperazione, come spesso a Napoli, con la camorra si mescola la gente comune, che ha paura. Che devo fare, si chiede il prefetto, lanciare le cariche contro questa gente, sapendo che finirebbero sotto le donne, i vecchi e i bambini? Preferisco parlare, trattare, ascoltare, anche se si perde tempo, e noi non ne abbiamo più. Tu prefetto, mi chiedono, manterrai le promesse? Chi ce lo assicura? E io li ascolto, ma penso che siamo con le spalle al muro, il nostro tempo è già scaduto, ormai raccogliamo e smaltiamo solo una piccolissima parte dei rifiuti che Napoli produce. Dobbiamo riaprire subito la discarica di Pianura.

E la discarica è qui, in fondo al buio della Montagna Spaccata. Fuori dai cancelli la gente dice che qualcuno ha bucato il prato davanti alla prima collina con il bastone, ed è uscito un fumo verde. Una donna racconta dei rifiuti delle concerie finiti qui. Un vecchio assicura che hanno sotterrato rifiuti tossici tedeschi.

Uno dice scarichi medicinali. Tutti guardano le montagne intossicate, col falso verde notturno, l'erba malata nata dai rifiuti, gli alberi giganteschi ma con le radici che pescano giù sotto, in quel terreno che si muove e che dopo aver formato una montagna alta 220 metri, negli ultimi undici anni di quiete e di chiusura si è abbassato di venti metri. La verità - dice Cesare Moreno che fa il maestro di strada, rifiuta i sacchi di plastica dai negozi, tiene i rifiuti in giardino - è che noi ci specchiamo nella nostra immondizia, e il cittadino suddito le uniche cose che riconsegna a una classe dirigente che lo amministra male sono gli escrementi.

Vado via dalla montagna del mostro pensando alla crisi di una democrazia che si arrende ai rifiuti in una sua capitale: peggio, che usa i rifiuti per parlare, per protestare, per dialogare con il potere. Poi, in via del Parco Margherita, vedo un signore col cappotto e la sciarpa che porta un'intera cucina davanti al cassonetto stracolmo, e la posa accanto a due valige, come se tutto a Napoli fosse normale, in quel mare di sacchetti abbandonati.

(8 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO - Gli operai di Torino diventati invisibili
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2008, 09:58:00 am
CRONACA

I superstiti della Thyssen un mese dopo il rogo

"Per la politica e il Paese non siamo mai esistiti"

Gli operai di Torino diventati invisibili

di EZIO MAURO


TORINO - "Turno di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel mercoledì sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d'ora prima, ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col mio tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere, operaio alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura. Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho solo un rotolo da fare".

"Allora vado prima a trovare quelli della linea 5, devo dire una cosa ad Antonio Boccuzzi, ma poi arrivano gli altri e si finisce per parlare tutti insieme del solito problema. Il 30 settembre la nostra fabbrica chiuderà, a febbraio si fermerà per prima proprio la 5, stiamo cercando lavoro e non sappiamo dove trovarlo. Duecento se ne sono già andati, i più esperti, i manutentori, molti alla Teksfor di Avigliana. Noi mandiamo il curriculum in giro, con le domande.
L'azienda se ne frega, la città anche. Chiediamo agli amici, ai parenti operai che hanno un posto. Chi può cerca altre cose, Toni "Ragno" dice che ha la patente del camion e prova con le ditte di trasporti: gli piacerebbe, tanto ogni giorno fa già adesso 75 chilometri per arrivare all'acciaieria e 75 per tornare a casa. Bruno ha deciso, il 29 chiude con la fabbrica e apre un bar con Anna, Angelo ha provato a farsi trasferire alla Thyssen di Terni, la casa madre, ma poi è tornato indietro per la famiglia. Parliamo solo di questo, come tutte le notti, abbiamo il chiodo fisso. E' brutto essere giovani e arrivare per ultimi. La Thyssen qui in giro la chiamano la fabbrica dei ragazzi, perché dei 180 che siamo rimasti il 90 per cento ha meno di trent'anni. Ma questo vuol dire che quando tutt'attorno chiude la siderurgia e Torino non fa più un pezzo d'acciaio che è uno, chi ti prende se sai fare solo quello? Eppure siamo specializzati, superspecializzati, non puoi sostituirci con un operaio qualsiasi che non abbia fatto almeno 6 mesi di formazione per capire come si lavora l'acciaio. E infatti ci pagano di più, uno del quinto livello alla Fiat prende 1400 euro, qui con i turni disagiati, la maggiorazione festiva, il domenicale arrivi a 1700 anche 1800 senza straordinario. Non ti regalano niente, sia chiaro, perché lavori per sei giorni e ne fai due di riposo, quindi ti capitano un sabato e domenica liberi ogni sei settimane, non come a tutti i cristiani. Ma la siderurgia è così, lavoriamo divisi in squadre e quando smonta una monta l'altra perché le macchine non si fermano, 24 ore su 24, questo è l'acciaio. Che poi, se ci fermassimo noi si ferma l'Italia perché siamo i primi, senza l'acciaio non si vive, dai lavandini all'ascensore, alle monete, alle posate, siamo la base di tutta l'industria manifatturiera, dal tondino per l'edilizia alle lamiere per le fabbriche, agli acciai speciali. E quando parlo di acciaio intendo l'inox 18-10, cioè 18 di cromo e 10 di nichel, roba che a Torino si fa soltanto più qui da noi, che è come l'oro visto che il titanio viaggia a 35 euro al chilo e noi facciamo rotoli da sei, settemila chili. Eppure tutto questo finirà, sta proprio per finire, Torino resterà senza, siamo come le quote latte. E' chiaro che ne parliamo tutte le sere, come si fa? Comunque, a un certo punto, sarà mezzanotte e mezza, io saluto tutti, e dico che vado a fare quel rotolo che mi aspetta. Salgo, e lì sotto comincia l'inferno. E' una parola che si usa così, come un modo di dire. Ma avete un'idea di com'è davvero l'inferno"?

Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre le tombe monumentali della "prima ampliazione", girare a sinistra dove ci sono i nuovi loculi. Lì in basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio Schiavone, 36 anni (detto "Ragno" per un tatuaggio sul gomito), morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni, morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto, Rosario Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con ustioni sul 95 per cento del corpo e Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni, ultimo dei sette a morire il 30 dicembre dopo 4 interventi chirurgici, una tracheotomia, tre rimozioni di cute con innesti e una pelle nuova che doveva arrivare il 3 gennaio per il trapianto, ed era in coltura al Niguarda di Milano. Ci sono i biglietti dei bambini appesi con lo scotch, come quello di Noemi per Angelo, ci sono le sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col nailon appannato dall'umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per Roberto, quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe, tre Gesù dorati, due lumini per terra. Attorno alle cinque tombe, una striscia azzurra tracciata dal Comune le separa dagli altri loculi. E' un'idea del sindaco Sergio Chiamparino e del suo vice Tom Dealessandri, una sera che ragionavano sulla tragedia della Thyssen. Se tra un anno, cinque, dieci, qualcuno vorrà ricordarla, parlarne, partire da quei morti per discutere sulla sicurezza nel lavoro, ci vuole un posto, e non ci sarà neppure più la fabbrica, non ci sarà più niente: mettiamoli insieme, quelli che non hanno una tomba di famiglia; hanno lavorato insieme e sono morti insieme. Quelle fotografie di ragazzi sono le uniche tra i loculi, le altre sono di vecchi e dove non c'è la foto c'è la data: 1923, 1925, 1935, 1919, anche 1912. Intorno, un telone nasconde lo scavo di una gru nel campo del cimitero, si sente solo il rumore in mezzo ai fiori, ma c'è lavoro in corso. Siamo a Torino, dice un guardiano, è la solita questione: lavoro, magari invisibile, ma lavoro.
 
"Dunque, ero da solo, con la gru in movimento. Il mio lavoro si può fare così. Alla linea 5 invece il turno montante era completo. Mancavano due operai, ma si sono fermati in straordinario Antonio Boccuzzi e Antonio Schiavone, anche se avevano già fatto il loro turno, dalle 14 alle 22. Quella tecnicamente è una linea tecnico-chimica per trattare l'acciaio, temprarlo e pulirlo per poi poterlo lavorare. Stiamo parlando di una bestia di forno a 1180 gradi, lungo 40-50 metri, alto come un vagone a due piani, e lì dentro l'acciaio viaggia a 25 metri al minuto se è spesso e a 60 metri se è sottile, per poi andare nella vasca dell'acido solforico e cloridrico che gli toglie l'ossido creato dalla cottura nel forno. La squadra di 5 operai sta nel pulpito, come lo chiamiamo noi, una stanzetta col vetro e i comandi. Ci sono anche il capoturno Rocco Marzo e Bruno Santino, addetto al trenino che porta il rullo da una campata dello stabilimento all'altra. Manca poco all'una. So com'è andata. Il nastro scorre a velocità bassa, sbanda, va contro la carpenteria, lancia scintille, l'olio e la carta fanno da innesco, c'è un principio di incendio. Loro pensano che sia controllabile, come altre volte. Escono dal pulpito, si avvicinano, provano con gli estintori, ma sono scarichi. Un flessibile pieno d'olio esplode in quel momento, passa sul fuoco come una lingua e sputa in avanti, orizzontale, è un lanciafiamme. Non li avvolge, li inghiotte. Boccuzzi è proprio dietro un carrello elevatore per prendere un manicotto, e quel muletto lo ripara salvandolo. Vede un'onda, sente la vampa di calore che lo brucia per irradiazione, ma si salva. Gli altri sono divorati mentre urlano e scappano. Piomba in finitura il gruista della terza campata, corri mi dice, corri, è scoppiata la 5, sono tutti morti. Non ci credo, ma si avvicina urlando, è bianco come uno straccio e sta piangendo. Corro, torno indietro, metto in sicurezza la gru, corro, non penso a niente, corro e li vedo".
 
I tre funerali sono diversi. Prima lo choc, il dolore, la paura. Poi la rabbia. Egla Scola, che ha vent'anni e due figli di 17 mesi e tre anni, in chiesa ha urlato verso la bara di Roberto: vieni a casa, adesso. La madre di Angelo Laurino gli ha detto: ora aspettami. Il padre di Bruno Santino, anche lui vecchio operaio Thyssen, l'abbiamo visto tutti in televisione gridare bastardi e assassini, con la foto del figlio in mano. Il giorno della sepoltura di Rocco Marzo, arriva la notizia che è morto Rosario Rodinò, dopo quasi due settimane di agonia. Ciro Argentino strappa la corona di fiori della Thyssen, i dirigenti dell'azienda entrano in chiesa dalla sacrestia, se ne vanno dalla stessa porta. Fuori ci sono soprattutto operai, in duomo come a Maria Regina della Pace in corso Giulio Cesare, come nella chiesa operaia del Santo Volto con la croce sopra la vecchia ciminiera trasformata in campanile.

Attorno, il fantasma della Torino operaia che fu. Qui dietro c'erano una volta la Michelin Dora, la Teksid, i 13 mila delle Ferriere Fiat dentro i capannoni della tragedia, poi venduti alla Finsider dell'Iri, che negli anni Novanta ha rivenduto alla Thyssen. Che adesso chiude. Sequestrata per la tragedia, con i cancelli chiusi e un albero trasformato in altare ("ciao, non siamo schiavi", ha scritto un operaio della carrozzeria Bertone), già adesso l'impianto della morte è uno scheletro vuoto, inutile, proprio dove la città finisce e comincia la tangenziale, con le montagne piene di neve dritte davanti. La gente conosce il posto perché lì c'è un autovelox famoso per sparare multe a raffica.
 
Ma non sa la storia della Thyssen. Ciro dice che un pezzo di Torino non sapeva nemmeno dei morti, e alla manifestazione c'erano trentamila persone, ma era la città operaia, e pochi altri. Come se fosse un lutto degli operai, non una tragedia nazionale. Anzi, uno scandalo della democrazia. Chi lavora l'acciaio sa di fare un mestiere pericoloso, dice Luciano Gallino, sociologo dell'industria, perché macchine e materiali che trasformano il metallo sovrastano ogni dimensione umana, con processi di fusione, forgiature a caldo, lamiere che scorrono, masse in movimento. C'è fatica, rumore, occhio, tecnica, esperienza, senso di rischio, concentrazione. E allora, spiega Gallino, proprio qui nell'acciaio non si possono lasciar invecchiare gli impianti e deperire le misure di sicurezza, non si può ricorrere allo straordinario con tre, quattro ore oltre le otto normali. Invece l'Asl dice oggi di aver accertato 116 violazioni alla Thyssen. Le assicurazioni Axa lo scorso anno avevano declassato la fabbrica proprio per mancanza di sicurezza, portando la franchigia da 30 a 100 milioni all'anno. Per tornare alla vecchia franchigia, bisognava fare interventi di prevenzione, tra cui un sistema antincendio automatico proprio sulla linea 5, dal costo di 800 milioni. From Turin, ha risposto l'azienda, dopo che Torino avrà chiuso.

"Il primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio e il telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare all'improvviso, al passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai visto un uomo così. Anzi sì: dal medico, quei tabelloni dov'è disegnato il corpo umano senza pelle, per mostrarti gli organi interni. La stessa cosa. Le fasce muscolari, i nervi, non so, tutto in vista. Occhi e orecchie, non parliamone. Non mi vede, non può vedere, ma sente la mia voce che lo chiama, si gira, barcolla, cerca la voce, mi riconosce. "Avvisa tu mia moglie, Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far preoccupare". Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma non è più pelle, come una cosa dura e sciolta. Un operatore di qualità continua a saltarmi attorno, cosa facciamo? Mando via tutti quelli che piangono, che urlano, che sono sotto choc e non servono, non aiutano. Dico di non toccare Rocco, di scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se se la sente di seguire i compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo mentre dondola e sembra cadere a ogni passo, mi sembra di impazzire. Mi butto avanti, tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di gomma, i tubi con l'acido, i manicotti. Vedo Boccuzzi che corre in giro a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: "Li ho tirati fuori, li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo e sta bruciando lì per terra". In quel momento Schiavone urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e tre le volte Toni Boccuzzi cerca di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo tenerlo, ma lui ripete come un matto: "Il fuoco lo sta mangiando". Dico di portarlo via, fuori. Mi volto, e mi sento chiamare: "Giovanni, Giovanni". Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno Santino e Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco eppure in piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla verso la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato di essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno. Guardo la loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi cercano: "Giovanni, sei qui vicino? Guardaci, guardaci la faccia: com'è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?"

Dicono gli operai che i sette, alla fine, sono morti perché da tempo erano diventati come invisibili. Si spiegano con le parole di Ciro Argentino e Peter Adamo, trent'anni: l'operaio ovviamente esiste, cazzo se esiste, manda avanti un pezzo di Paese, e soprattutto a Torino lo sanno tutti. Ma esiste in fabbrica e non fuori, nel lavoro e non nella testa della politica. Ma lo sapete voi, aggiunge Fabio Carletti della Fiom, che nell'assemblea del Pd appena eletta a Torino non c'è nemmeno un operaio? Che in tutto il Consiglio comunale ce n'è uno, perché il sindacato si è trasformato in lobby e ha minacciato di fare una lista operaia separata, supremo scandalo per la sinistra? Dice Peter che l'invisibilità la senti tutto il giorno, quando vai a comprare il pane, quando esci la sera. Per le storie veloci con le ragazze in discoteca, fai prima a dire che sei un rappresentante, vai più sul sicuro. Non è rifiuto o disprezzo, aggiunge Davide Provenzano, 26 anni, è che sei di un altro pianeta. Credono di poter fare a meno di te. Da bambino, spiega, vedevo con mio padre al telegiornale le notizie sul contratto dei metalmeccanici, "undici milioni di tute blu scendono in piazza", adesso, non si sa quanti siamo, un milione e sette, uno e otto? Il sindaco Chiamparino sa di chi è la colpa: quelli che pensano alla modernità come a una sostituzione, l'immateriale, l'effimero al posto del manifatturiero, mentre invece è moderno chi gestisce la complessità, la fine di una cosa con l'inizio dell'altra, sopravvivenze importanti e novità salutari. "Chiampa" dice che lui non potrebbe dimenticare gli operai, la sua famiglia viene dalla fabbrica, il figlio di suo fratello ha la stessa età e fa il lavoro dei ragazzi della Thyssen, però è vero che si lamenta perché i riformisti non usano più quella parola, operaio. E tuttavia non si può tornare agli anni Settanta.

E la città non è indifferente, non si può misurare il funerale operaio col metro del funerale dell'Avvocato, in quel caso la partecipazione era anche un modo di dire "io c'ero", mentre qui voleva dire "voi ci siete". E poi, pensiamo sempre a Mirafiori, dove cresceva l'erba sull'asfalto, tutto era abbandonato, e tutto è rinato. Il sindaco ha aiutato Marchionne, l'amministratore delegato Fiat ha aiutato Chiamparino. I due si vedono qualche sera per giocare a scopa col vicesindaco e un ufficiale dei carabinieri, ma in pubblico si danno del voi, perché questa è Torino. Anche se Marchionne voleva strappare, e andare al funerale operaio della Thyssen. Poi si è fermato, dice, per paura che la sua presenza diventasse una specie di comizio silenzioso. Ha radunato i suoi e ha detto: che non capiti mai qui. Un incidente può sempre scoppiare, ma non per incuria verso la tua gente e il suo lavoro. Mai, mettetemelo per scritto. Solo in Italia, spiega ancora Marchionne, operaio diventa una brutta parola, nel mondo indica quelli che fanno le cose, le producono.

E tuttavia, avverte il professor Marco Revelli, Torino è sempre più Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo e di alabastro e uno di ferro e di cartone, e una faccia non vede più l'altra. Gli operai della Thyssen, anche per la loro età, non hanno riti separati, tradizioni private, fanno una vita perfettamente visibile nella sua normalità. Dopo la fabbrica si incontrano indifferentemente alla Fiom o al Mc Donald's di via Pianezza, Peter ha la moglie laureata e vede tutta gente del suo giro, ai funerali hanno messo musica dei Negramaro, hanno portato anche la maglia di Del Piero. Ma ti dicono che l'invisibilità sociale li rende deboli, la debolezza e la solitudine portano a scambiare straordinari per sicurezza, il Paese li convince di vivere in una geografia immaginaria, dove per dieci anni ha contato solo la cometa del Nordest, solo l'illusione del lavoro immateriale, solo il consumatore e non il produttore, e persino la parola lavoro è stata poco per volta sostituita da altre cose: saperi, competenze, professionalità. Questa fragilità - culturale? Politica? Sociale? - li espone. Il cardinal Poletto, che ha fatto l'operaio da ragazzo (il mattino in officina, il pomeriggio in canonica) ha detto ad ogni funerale cose semplici ma solide perché autentiche: la città ha reagito ma non basta, serve un sussulto, la ricerca sacrosanta del profitto non può danneggiare la sicurezza o addirittura la vita di chi lavora. La sinistra ha detto meno del cardinale.

"Nessuno sa cosa fare davanti a una cosa così. Due compagni di lavoro carbonizzati, e ancora vivi. Uno ha preso due giacconi, glieli ha buttati addosso. "Giovanni aiutaci - dicevano - portaci via". Ragazzi, ho provato a rassicurarli, l'importante è che siate in piedi, io non so se posso toccarvi, non posso prendervi per mano, ma vi portiamo fuori, vi facciamo da battistrada. Due passi, e trovo per terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola. Statue di cera che si sciolgono, l'olio che frigge, non c'è più niente, i baffi di Rocco, i capelli di Robi, solo la voce. Mi accoccolo vicino a Laurino, gli parlo. Si volta: "Dimmi che starai vicino ai miei". Scola ripete che ha due figli piccoli, "non potete farmi morire". Rodinò sembra più calmo: "Non pensare a me, io sto meglio, occupati di loro". Poi, quando ritorno da lui mi chiede: "Come sono in faccia? Cosa vedi?" Arrivano i pompieri, poco per volta li portano via. Un vigile mi dice che stanno morendo, ma il fuoco gli ha mangiato le terminazioni nervose, per questo resistono al dolore. Non so se è vero, non capisco più niente, ho quei manichini davanti agli occhi. Prendo un pompiere per il bavero, e gli urlo che Schiavone è ancora a terra da qualche parte, devono salvarlo. Mi dice che lo hanno portato via e che devo andarmene, perché il fumo sta divorando anche me. Stacchiamo la tensione a tutta la linea, blocchiamo il flusso degli acidi, dei gas, dell'elettricità. Tutto si ferma alla ThyssenKrupp, probabilmente per sempre. Non ho più niente da fare".

Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili.


da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO - Un'idea malata
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2008, 02:05:38 pm
ESTERI

IL COMMENTO

Un'idea malata

di EZIO MAURO


SARA' un giorno che ricorderemo negli anni, il giorno in cui il Papa non parlò all'Università italiana per la contestazione dei professori e la ribellione degli studenti. Una data spartiacque per i rapporti tra chi crede e chi non crede, tra la fede e la laicità, persino tra lo Stato e la Chiesa.
Fino a ieri, questo era un Paese tollerante, dove la forte impronta religiosa, culturale, sociale e politica del cattolicesimo coesisteva con opinioni, pratiche, culture e fedi diverse, garantite dall'autonomia dello Stato repubblicano, secondo la regola della Costituzione.

Qualcosa si è rotto, drammaticamente, sotto gli occhi del mondo. Il Papa deve correggere la sua agenda e cambiare i suoi programmi, per non affrontare la contestazione annunciata di un'Università che lo aveva invitato con il rettore e il senato accademico, ma lo rifiutava con una parte importante di docenti e studenti. Il risultato è un cortocircuito culturale e politico d'impatto mondiale, che si può riassumere in poche parole: il Papa, che è anche vescovo di Roma, non può parlare all'Università della sua città, in questa Italia mediocre del 2008.

Questo risultato, che sa di censura, di rifiuto del dialogo e del confronto, è inaccettabile per un Paese democratico e per tutti coloro che credono nella libertà delle idee e della loro espressione. È tanto più inaccettabile che avvenga in un'Università, anzi nella più importante Università pubblica d'Italia, il luogo della ricerca, del confronto culturale e del sapere, un luogo che di per sé non deve avere barriere né pregiudizi, visto che non predica la Verità ma la scienza e la conoscenza. È come se la Sapienza rinunciasse alla sua missione e ai suoi doveri, chiudendosi in un rifiuto che è insieme un gesto di intolleranza e di paura.

Sbagliata l'occasione, puerili le proteste e le aggressioni, profondamente inadeguate le reazioni. Sbagliata l'occasione: l'inaugurazione solenne non è, in Italia e nell'università di Stato, un momento di severo bilancio dello stato di avanzamento delle conoscenze, un resoconto di ciò che ricercatori e istituzioni hanno fatto per progredire, un richiamo alle leggi sostanziali che sole governano la possibilità di ricercare e di conoscere ciò che non si sa.
Questo accade in altri luoghi; bisogna leggere il report annuale del Mit per avere un'idea della severità della scienza, non certo i documenti elaborati dalle nostre corporazioni accademiche sempre più immiserite e incanaglite.

L'inaugurazione è solo un momento di teatro, un rito di magniloquenza arcaica, di toghe e di ermellini e di alte uniformi, che si presta come pochi alla parodia e allo sberleffo (Totò lo sapeva bene). Un rito che passa per lo più inosservato - a parte gli intasamenti nel traffico e la noia di chi deve parteciparvi d'ufficio - in un paese dove molto si inaugura e poco si costruisce. Si taglia un nastro, si pronunziano parole solenni e poi le autorità se ne vanno e tutto resta come prima: ospedali, strade, ponti e certo anche i promessi istituti di "alta" ricerca, che fioriscono in luoghi diversi a seconda del ministro di turno.

Nelle università statali italiane di cui La Sapienza è sicuramente la più grande e la più nota la solennità del rito si misura dalle autorità che vi intervengono prima e più che dalle sonanti parole e dalle moralità alte che vi si predicano. E allora perché invitare il Papa? Tutti i giorni, spesso più volte al giorno, la parola del Papa è diffusa da tutte le televisioni italiane con una assiduità che non conosce l'eguale nel mondo. E perché non invitarlo? Gli si fa carico di una frase?

Dunque l'Università o una parte di essa si propone oggi come l'istituzione che ha il diritto di togliere la parola, di censurare un'opinione. Ma questo non è certo un risarcimento a Galileo, non è la vendetta postuma - a quanta distanza - del processo del 1632. E un rovesciamento grottesco dei ruoli grazie al quale l'erede dei giudici che allora imposero il silenzio allo scienziato fiorentino potrebbe - potrà - presentarsi da oggi col segno del martirio, come vittima dell'odiosa censura.

Ed è un vero peccato - nel senso banale della parola, beninteso - che nessuno degli attori, nemmeno il Papa, si sia dimostrato capace di andare al di là del canovaccio prevedibile. Perché rifiutarsi all'incontro? Perché non cogliere l'occasione di trasformare finalmente la seriosa noiosità delle inaugurazioni in una vera esperienza di comunicazione, di discussione, di parola libera e liberatrice in cui ciascuno si mette davvero in gioco abbandonando l'ingessata sicurezza della parola solenne e senza interlocutori? Qualcuno ricorderà il comizio di Lama: altri tempi, altri uomini. E non vogliamo comizi. Piuttosto, sarebbe bello se il mondo accademico italiano e tutte le autorità italiche imparassero il gusto dell'ironia, dell'amabile e graffiante intelligenza di chi ha veramente qualcosa da dire e cerca di dirlo pienamente.

Ora, alla contestazione è seguito il rifiuto. Sfrutterà il Papa quest'occasione di una specie di Porta Pia a rovescio? Ci auguriamo che nel suo animo di professore abituato alle vicende universitarie il senso della maestà offesa non prevalga sulla saggezza dello studioso e dell'insegnante obbligato al dovere di parlare, di ascoltare, di capire gli altri, di aprire le porte del dialogo per dare speranza di futuro alla specie umana in un pianeta a rischio.

Ma, se non lui, altri si occuperanno sicuramente di sfruttare questa censura e di amplificarla allo scopo di rendere ancor più salato il conto da presentare alle impaurite compagini governative, agli scalpitanti candidati alla successione del governo in carica. Tutto questo è anche, inevitabilmente, ridicolo, ma è vietato riderne: è, purtroppo, tragico, Appartiene al ciclo dell'implosione italica che dura da troppo tempo e non accenna ad arrestarsi.

Condividiamo tutto il senso di umiliazione di Vittorio Foa, che trova intollerabile, incomprensibile, stupefacente l'immagine di un'"Italia debole e infragilita" vista con uno sguardo che viene da lontano. Ma Foa sa bene che oggi l'arroganza dell'aggressione clericale viene dai pulpiti più imprevedibilmente: "laici" ne abbiamo un esempio nel rotolare di una parola - "moratoria" - dai seggi dell'Onu agli ambulatori ospedalieri una parola che rotolando muta di significato: significava sospensione della pena di morte, oggi diventa moratoria di quella legge 194, che fu a suo tempo esattamente una moratoria: quella della sentenza capitale incombente sull'aborto clandestino.

Dunque, moratoria della moratoria, sospensione della sospensione. Da chi verrà una parola di chiarezza, di conoscenza libera da bandiere e paraocchi, se le università che dovrebbero praticare l'unica ricerca degna di questo nome - la conoscenza di ciò che ci è oscuro e che ancora non sappiamo, una conoscenza quindi che non è né laica né ecclesiastica ma è solo e soprattutto fatta di libertà intellettuale anche dai propri presupposti del ricercatore - se queste università si abbandonano al gioco infantile del fare dispetti ai potenti, se le forze politiche non si decidono a dare alla scuola e all'università italiana i mezzi e gli strumenti per risalire la china della barbarie in cui vengono fatte precipitare da anni? Eppure questo, solo questo sarebbe un bel modo per celebrare coi fatti la memoria di Galileo Galilei.


(16 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. ...
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2008, 04:45:40 pm
POLITICA IL COMMENTO

Così muore il centrosinistra

di EZIO MAURO


Nemmeno due anni dopo il voto che ha sconfitto Berlusconi e la sua destra, Romano Prodi deve lasciare Palazzo Chigi e uscire di scena, con il suo governo che si arrende infine al Senato dove Dini e Mastella gli votano contro, dopo una settimana d'agonia. È lo strano - e ingiusto - destino di un uomo politico che per due volte ha battuto Berlusconi, per due volte ha risanato i conti pubblici e per due volte ha dovuto interrompere a metà la sua avventura di governo per lo sfascio della maggioranza che lo aveva scelto come leader.

Con Prodi, però, oggi non finisce soltanto una leadership e un governo, ma una cultura politica - il centrosinistra - che tra alti e bassi ha attraversato gli anni più importanti del nostro Paese, segnando la storia repubblicana.

Ciò che è finito davvero, infatti, è l'idea di un'ampia coalizione che raggruppi insieme tutto ciò che è alternativo alla destra, comunque assemblato, e dovunque porti la risultante. Prodi è morto politicamente proprio di questo. È morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera. Mentre faceva firmare ai leader alleati un programma faraonico e velleitario di 281 pagine e un impegno di lealtà perfettamente inutile per l'intera legislatura, Prodi coltivava in realtà un'ambizione culturale, prima ancora che politica: quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale), obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e innovazione, in un patto con i moderati antiberlusconiani.

Quell'ambizione è saltata, o meglio si è tradotta talvolta in politica durante questi due anni, mai in una cultura di governo riconosciuta e riconoscibile.

I risultati positivi di un governo che ha rovesciato il proverbio, razzolando bene mentre continuava a predicare male, non sono riusciti a fare massa, a orientare un'opinione pubblica ostile per paura delle tasse, spaventata dalle risse interne alla maggioranza, disorientata dalla mancanza di un disegno comune capace di indicare una prospettiva, un paesaggio collettivo, una ragione pubblica per ritrovare il senso di comunità, muoversi insieme, condividere un percorso politico.

Anche le cose migliori che il governo ha fatto, sono state spezzettate, spolpate e azzannate dal famelico gioco d'interdizione dei partiti, incapaci di far coalizione, di sentirsi maggioranza, di indicare un'Italia diversa dopo i cinque anni berlusconiani: ai cittadini, le politiche di centrosinistra sono arrivate ogni volta svalutate, incerte, contraddittorie e soprattutto depotenziate, come se la rissa interna - che è il risultato di una mancanza di cultura comune - avesse succhiato ogni linfa. Ancor più, avesse succhiato via il senso, il significato delle cose.

Fuori dal recinto tortuoso del governo, la destra non ha fatto molto per riconquistarsi il diritto di governare. Le sue contraddizioni sono tutte aperte, e la crisi della sinistra regala a Berlusconi una leadership interna che i suoi alleati ancora ieri contestavano. Ma la destra, questo è il paradosso al ribasso del 2008, è in qualche modo sintonica e addirittura interprete del sentimento italiano dominante, che è insieme di protesta e di esclusione, forse di secessione individuale dallo Stato, probabilmente di delusione repubblicana, certamente di solitudine civica. Nella grande disconnessione da ogni discorso pubblico, che è la cifra nazionale di questa fase, il nuovo populismo berlusconiano può trovare terreno propizio, perché salta tutte le mediazioni, dà agli individui l'impressione di essere cercati dalla politica e non per una rappresentanza, ma per una sintonia separata con la leadership, una vibrazione, un'adesione, ad uno ad uno.

Intorno si è mossa e si muove la gerarchia cattolica, che ormai lascia un'impronta visibile non nel discorso pubblico dov'è la benvenuta, ma sul terreno politico, istituzionale e addirittura parlamentare, dove in una democrazia occidentale dovrebbe valere solo la legge dello Stato e la regola di maggioranza, che è la forma di decisione della democrazia. Un'impronta che sempre più, purtroppo, è quella di un Dio italiano fino ad oggi sconosciuto, che non si preoccupa di parlare all'intero Paese ma conta le sue pecore ad ogni occasione interpretando il confronto come prova di forza - dunque come atto politico - , le rinchiude nel recinto della precettistica e se deve marchiarle, lo fa sul fianco destro.

Un contesto nel quale poteva reggere soltanto una politica in grado di esprimere una cultura moderna, cosciente di sé, risolta, capace di nascere a sinistra e parlare all'intero Paese. Tutto questo è mancato, per ragioni evidenti. La vittoria mutilata del 2006 ha messo subito il governo sulla difensiva, preoccupato di munirsi all'interno, col risultato di una dilatazione abnorme di ministri e sottosegretari. Ma i partiti, mentre si munivano l'uno contro l'altro, si disconnettevano dal Paese. Nel loro mondo chiuso, hanno camminato a passo di veti, minacce e ricatti, indebolendo la figura dello stesso Presidente del Consiglio, costretto a mediare più che a indirizzare. Si sono sentite ogni giorno mille voci, a nome del governo. La voce del centrosinistra è mancata.

Oggi che Mastella ha firmato un contratto con il Cavaliere e Dini ha onorato la cambiale natalizia, risulta evidente che Prodi salta perché è saltato quell'equilibrio che univa i moderati alle due sinistre, e come tale poteva rappresentare la maggioranza dell'Italia contemporanea. Tuttavia, senza il trasformismo (non nuovo: sia Dini che Mastella sono ritornati infine a casa) Prodi non sarebbe caduto. Barcollando, il governo avrebbe ancora potuto andare avanti, e questa è la ragione che ha spinto il premier ad andare al Senato, per mettere in piena luce sia la doppia defezione da destra e verso destra, sia l'assurdità di una legge elettorale che dà allo stesso governo la vittoria alla Camera e la sconfitta al Senato.

Da qui partirà il presidente Napolitano con le consultazioni, nella sua ricerca di consolidare un equilibrio politico e istituzionale che ritrovi un baricentro al sistema e al Paese. Il Capo dello Stato dovrà dunque tentare, col suo buonsenso repubblicano, di correggere queste legge elettorale prima di riportare il Paese al voto. La strada è quella di un governo istituzionale guidato dal presidente del Senato Marini, formato da poche personalità scelte fuori dai partiti, sostenuto dalle forze di buona volontà per giungere al risultato che serve al Paese.

Riformare la legge elettorale, e se fosse possibile, riformare anche Camera e Senato, cambiando i regolamenti, riducendo il numero dei parlamentari, correggendo il bicameralismo perfetto. Un governo non a termine, ma di scopo.

Che può durare poco, se i partiti sono sinceri nell'impegno e responsabili nelle scelte, col Capo dello Stato garante del percorso e dell'approdo.
Berlusconi è contrario a questa soluzione perché vuole votare al più presto, con i rifiuti per strada a Napoli (altra prova tragica d'impotenza del centrosinistra, locale e nazionale), con piazza San Pietro ancora calda di bandiere papiste, con il volto di Prodi da esibire in campagna elettorale come un avversario già battuto, in più in grado di imbrigliare l'avversario vero, che è da oggi Walter Veltroni.

(25 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO Il cambiamento
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2008, 10:51:08 am
POLITICA

L'EDITORIALE

Il cambiamento

di EZIO MAURO


COME se ogni volta il Paese aspettasse l'anno zero, dopo lo scioglimento delle Camere la destra guarda al voto di aprile come a un giudizio di Dio ritardato, che dovrà finalmente riconsacrare l'unione tra il Capo e il suo popolo nel destino della nazione. Nient'altro: si sente il filo della spada che taglia corto tra gli indugi della politica, che rassicura gli indecisi e ammonisce gli avversari, mentre raduna i reprobi e i convertiti, dopo l'ora d'aria.

Naturalmente, la sinistra italiana porta la piena responsabilità di tutto questo. In meno di due anni, la finta alleanza dell'Unione ha sperperato l'idea di un'alternativa credibile di governo, di classe dirigente, di cultura. Ha divorato nelle risse intestine i meriti del governo Prodi, ingigantendo nelle polemiche tutti i demeriti. Non ha trovato un'interpretazione dell'Italia capace di parlare al Paese, di portarlo a credere e a scommettere su se stesso. Ha dovuto dichiarare fallimento, riconsegnando le chiavi del governo come se il Paese le fosse non solo ostile, ma addirittura sconosciuto.

Ma con la sinistra colpevole, e dunque obbligata a cambiare radicalmente, nessuno in realtà può considerarsi assolto. Quando il capo dello Stato denuncia "l'anomalia" di uno scioglimento così anticipato delle Camere, parla per tutti e rivela l'impotenza di ognuno. Improduttivo sul piano politico, il sistema è bloccato sul piano istituzionale. E le istituzioni riguardano tutti, anche la destra che non ha saputo cambiare una legge elettorale sbagliata e dannosa, e non ha voluto due riforme essenziali per la governabilità e la legittimità del sistema: la riduzione del numero dei parlamentari (con la fine del bicameralismo perfetto) e la riduzione del numero dei partiti.

Anche su questo giudicherà ora il popolo sovrano. Dopo tante paure ideologiche e altrettante gabbie, il cambiamento sarà la leva del voto, l'innovazione la sua misura. Chi pensa a nuove alleanze finte, a destra e a sinistra, non ha capito il disincanto del Paese, la propensione al cambiamento, l'effetto della nuova solitudine repubblicana che nasce dalla disconnessione di molti cittadini dalla vicenda pubblica. Qualcosa che la destra ha incoraggiato corteggiando l'antipolitica e che oggi potrebbe mutare il quadro, cambiando natura e carattere di quel soggetto delicatissimo di una democrazia che è la pubblica opinione: e nessuno sa come.

(7 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. L'ossessione al governo
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 11:00:02 pm
POLITICA

L'EDITORIALE

Niente pasticci con questa destra
di EZIO MAURO


L'attacco al Quirinale era previsto, ma non così presto, non con questa violenza impolitica, nemmeno con questa improvvisazione istituzionale e costituzionale. E invece ieri Berlusconi, quasi cedendo al crescendo di frenesia che scambia per politica, ha apertamente ipotizzato che la sua vittoria alle urne possa portare addirittura all'uscita di scena del capo dello Stato Giorgio Napolitano, costretto a dimettersi per conformarsi in fretta e furia al nuovo ordine, anzi alla nuova era.

Non eravamo ancora giunti fin qui, nel punto più basso della Repubblica, dove si confondono ambizioni e istituzioni, con il demiurgo che dà gli ordini e le massime cariche dello Stato che si devono adeguare. Il Quirinale, di cui si è misurata nei fatti in questi anni travagliati la funzione di garanzia e di tutela della Costituzione, era rimasto fuori dagli appetiti di lottizzazione, inserito in un gioco istituzionale più alto, a cui si misuravano con rispetto anche le legittime ambizioni dei leader. La cosa grave, è vedere un uomo che ambisce a guidare il Paese fissare per convenienza personale e calcolo privato la scadenza anticipata del settennato della massima magistratura, dopo nemmeno due anni dal suo inizio. La cosa gravissima, è la meschinità impolitica della motivazione: la destra, ha detto il Cavaliere, potrebbe anche pensare di "dare" una Camera all'opposizione se il presidente della Repubblica "decidesse di dimettersi" per "fare un gesto nei confronti della nuova situazione italiana" che dovrebbe nascere da una vittoria del Popolo delle Libertà.

Non sono dunque bastati due cicli da Premier del Paese, la doppia conquista di Palazzo Chigi, per trasformare il Capo della destra italiana in un uomo di Stato.

A quattro giorni dal voto, Berlusconi trascina il presidente della Repubblica (salvo poi, come ormai sempre, correggersi) nella battaglia elettorale, come se l'urgenza di prendere il suo posto ascendendo al Quirinale facesse premio su prudenze politiche, doveri istituzionali, galateo costituzionale. La lotta in corso tra destra e sinistra non è per la conquista del governo, come avviene ovunque in Occidente, ma per l'ascesa al potere supremo e incontrollato. Tanto che la vittoria di Berlusconi determina da sola, nel destino della Patria redenta, uno scarto d'epoca e una nuova gerarchia delle istituzioni: che possono soltanto conformarsi alla moderna presa dello Stato. È ancora e sempre, in questo senso, una concezione tecnicamente rivoluzionaria, che fa ogni volta ricominciare la storia dall'anno zero di ogni nuovo avvento berlusconiano.

Se Berlusconi vince, dunque, non c'è un nuovo governo come ovunque in democrazia, ma "una nuova situazione italiana", perché la vittoria - la riconquista - disegna un nuovo ordine, secondo un'interpretazione schiettamente populista della lotta politica, del confronto tra i partiti, del libero gioco tra maggioranza e opposizione. Di più: il destino personale del Cavaliere scandisce il destino delle istituzioni, fissa i tempi degli organi costituzionali, rompe e riordina la continuità repubblicana. La biografia del leader offerta come moderna ideologia della destra.

Ma a questo punto, c'è ancora qualcosa da dire, e non solo a Berlusconi. Chi sosteneva che destra e sinistra in Italia sono uguali, che Pd e Pdl hanno lo stesso programma e lo stesso linguaggio, che dunque Veltrusconi è la soluzione obbligata e perfetta per risolvere i problemi italiani, oggi improvvisamente tace. È bastato che i sondaggi - unica religione riconosciuta nel paganesimo vagamente idolatra di Berlusconi - rendessero incerto l'esito della contesa, almeno al Senato, e soprattutto mostrassero l'erosione del distacco che la destra aveva accumulato qualche mese fa, per far risuonare la vera lingua del Cavaliere, il suo dizionario politico, la cultura profonda che lo domina.

In due giorni, Berlusconi ha chiesto la perizia psichiatrica per i magistrati che indagano, si è rifiutato di sottoscrivere un patto bipartisan di lealtà repubblicana, ha accusato di comunismo il suo avversario, ha denunciato brogli elettorali prossimi venturi, fino all'attacco al Quirinale e alla denuncia della "mancanza di un regime di piena democrazia nel nostro Paese" perché la sinistra "occupa" tutto. Mentre il suo amico più fidato, costruttore di Forza Italia - Dell'Utri - ha annunciato che la destra dopo la vittoria riscriverà i libri di storia per espellere la Resistenza, e ha indicato agli elettori plaudenti la fulgida figura dello stalliere mafioso Mangano, definendolo (con l'esplicito consenso del leader) un "eroe" perché "condannato in primo grado all'ergastolo" non ha fatto dichiarazioni "contro di me e Berlusconi". Poco importa che i magistrati inquirenti lavorassero in nome del popolo italiano, e al servizio della Repubblica.

Questa "destra reale" che si è infine palesata, non è una novità, ma una costante del quindicennio. La novità è che qualcuno lo dimentichi, ipotizzando le "larghe intese" tra Veltroni e Berlusconi come esito auspicabile del voto. A vantaggio di chi? Non certo del Paese e del quadro repubblicano, che vedrebbe insediato e garantito dal concorso della sinistra il populismo come progetto politico per la nazione, così come vedrebbe il conflitto d'interessi sanato per collusione ed elusione, le leggi ad personam rivalutate come strumento propedeutico alla nuova era consociativa. Proviamo a dire le cose come stanno, o come dovrebbero stare in una normale democrazia dell'alternanza.

1) Chi vince, governa. Non importa quanto grande, o minimo, sia lo scarto. Oggi siamo di fronte ad un bipartitismo che si contende la guida del governo, più altri attori politici. Se Berlusconi prevale, formerà il suo gabinetto, qualunque sia la difficoltà di costruire e reggere una maggioranza governante, e la stessa cosa dovrà fare Veltroni in caso di vittoria. Chi perde, va all'opposizione, possibilmente senza denunciare brogli (come fa il Cavaliere ogni volta che è sconfitto) e preparando la rivincita.

2) La responsabilità politica ed istituzionale davanti alla palese urgenza di alcune riforme (prima fra tutte la legge elettorale, ma anche i regolamenti delle due assemblee elettive, il bicameralismo perfetto, la riduzione del numero di deputati e senatori) va garantita a pari titolo da maggioranza e opposizione.
Ma questa responsabilità si esercita sul piano parlamentare, non su quello del governo. Come dice la lezione della Costituente, ci si confronta anche duramente per mezza giornata dai ruoli divisi e distinti di chi governa e chi si oppone, e per l'altra mezza giornata si collabora in Parlamento cercando di ridare efficienza e funzionalità alle istituzioni con le riforme necessarie.

3) In caso di pareggio, perché chi prevale in una Camera non è riuscito a prevalere nell'altra, si apre uno schema di gioco inedito. Ma in questo caso non è a Berlusconi, alla sua presunta mano tesa, all'improvvisa e necessitata sua buona volontà che il Pd dovrà rispondere. Ma ad un altro soggetto: il Capo dello Stato, che diventa arbitro di una partita senza vincitori, e dunque esplora - nella sua responsabilità non di parte - le soluzioni più utili per sbloccare con le riforme un sistema inceppato e improduttivo, in modo da portare il Paese alle urne con uno schema che consenta agli elettori di decidere davvero, e permetta la governabilità.

Sono tre punti chiari e semplici. Il Paese ha bisogno di chiarezza, di scelte nitide, di responsabilità distinguibili e precise. Ha bisogno, come ogni democrazia normale, che ci sia una destra e una sinistra. Chi punta a confonderle, ha già accettato un destino berlusconiano per l'Italia, che può ancora farne a meno.

(10 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Tra flop e mugugni monta l'ira in An
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 10:34:46 am
POLITICA

È polemica sul blog: "Che fine faremo, saremo invitati a una festa d'altri?"

Malumori anche in Forza Italia: "Se perdiamo nel Lazio sarà solo colpa loro"

Tra flop e mugugni monta l'ira in An

di FRANCESCO BEI

 
ROMA - La questione l'ha posta, senza troppi giri di parole, un militante sul blog di Azione giovani: "Dopo "il predellino" Fini ha attaccato Berlusconi e il suo gradimento fra la base è schizzato alle stelle, ora questo improvviso dietro-front sconcerta, irrita e sorprende". E ancora: "Checché ne dica il Secolo d'Italia, in cui si dipingeva una base tutta felice e contenta, i mugugni all'interno di An sono molti". Il "problema fondamentale", si legge sul blog dei giovani di An, "è questo: sarà una annessione o una fusione? Potremo dire la nostra o saremo solo invitati a una festa altrui?". "Che fine faremo noi di AG? - si è chiesto un altro sconsolato - Ci chiameremo i Ragazzi della libertà?".

Ecco, al di là dei proclami, alla prova dei fatti la fusione tra An e Forza Italia si sta dimostrando tutt'altro che una passeggiata. E basterebbe citare il dato forse più clamoroso, la presenza (meglio, l'assenza) dei militanti nelle piazze, per dare il termometro di come la base di An stia vivendo questo passo indietro del suo leader. Alla chiusura della campagna elettorale a Roma, due giorni fa, un incolpevole Fabrizio Casinelli, ufficio stampa del Cavaliere, è stato mandato davanti ai giornalisti ad annunciare che l'organizzazione stimava 30-40 mila partecipanti.

Peccato che il Tempo, non sospettabile di simpatie veltroniane, nei suoi articoli ne contasse al massimo duemila. La stessa "penuria" di elettori, secondo le notizie interessate della Destra, si è avuta in molti altri comizi di Fini, per non parlare del flop di Palermo. "A Tivoli e Mentana - racconta Storace - per sentire Fini c'erano 200 persone, a Monterotondo doveva inaugurare una sede di An e non s'è fatto vedere, facendo incazzare tutti. A Rieti c'era meno gente che al mio comizio, per non parlare del Corviale".

Già il Corviale. Nel grande falansterio alla periferia di Roma, dove ha preso avvio la campagna di Alemanno (alla presenza di Berlusconi e Fini), sempre le stesse maledette duecento persone. "Io Roma la conosco bene - confidava giorni fa sconsolato ad alcuni amici il forzista Fabrizio Cicchitto - e Alemanno l'avevo avvertito: al Corviale non bisognava andare, è stata una figura micidiale. A parte i giornalisti, i candidati e le scorte, ci saranno stati quattro elettori". Dentro Forza Italia l'umore è questo. Tanti a mezza bocca lamentano il disimpegno di An, riferiscono infuriati che a fare la campagna elettorale è stato solo Berlusconi. E già prevedono una resa dei conti se nel Lazio - tradizionalmente bacino elettorale di An - non dovesse scattare il premio di maggioranza al Senato .

A sentire gli uomini di Fini le cose filerebbero invece lisce come l'olio. "Certo, siamo gente che deve imparare a lavorare insieme - osserva Italo Bocchino - ma questa fusione avviene con il vento in poppa di un pronostico favorevole". Fabio Granata, uno dei meno berlusconiani di via della Scrofa, condivide l'impressione favorevole: "Ci sono dei mugugni, ma meno di quelli che mi sarei aspettato. Gli ambienti più avanzati dei due partiti vivono la cosa in modo naturale". Anche la presunta sottomissione di An al Cavaliere, di cui parla spesso Veltroni, secondo Granata sarebbe una leggenda da sfatare. "Noi abbiamo inciso in maniera considerevole sul piano programmatico - argomenta il responsabile cultura di via della Scrofa-, soprattutto sui temi della legalità e della difesa del patrimonio culturale e ambientale. Mai prima d'ora si era sentito Berlusconi chiedere in Sicilia "un voto contro la Mafia". Vorrà dire qualcosa no?".

La questione vera, al dunque, la riassume il professor Alessandro Campi, che ha appena mandato in libreria un saggio per raccontare proprio il passaggio "Da An al Popolo della libertà" (Rubbettino). "Fiuggi - premette Campi - in fondo è stato un passaggio meno traumatico di quello odierno, perché si trattava di un cambiamento di sigla nel solco di una continuità". Oggi invece Fini ha scommesso sulla disponibilità di Berlusconi a mettersi davvero in gioco, in un partito di cui, in teoria, domani potrebbe non essere più il leader.

"È un investimento di lungo periodo - ammette Campi - e Fini lo sa. Finche Berlusconi vive sarà lui il dominus incontrastato, ma si tratta di immaginare un percorso che vada oltre Berlusconi". Purtroppo, come dice il ritornello dell'inno forzista, per ora "Silvio c'è".


(12 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. L'eterno ritorno del Cavaliere
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 11:56:51 am
POLITICA L'EDITORIALE

L'eterno ritorno del Cavaliere

EZIO MAURO


Questa Italia del 2008 ha infine deciso di scegliere Silvio Berlusconi e la sua destra. È una vittoria elettorale che peserà a lungo sul Paese e sui suoi equilibri, non soltanto per i dati più evidenti, come il distacco di nove punti dall'avversario e la soglia di sicurezza raggiunta alla Camera e soprattutto al Senato grazie anche al concorso decisivo della Lega.

C'è qualcosa di più. Sopravanzato nell'innovazione per la prima volta dall'inizio della sua avventura pubblica, il Cavaliere si è trovato di fronte ad una forte novità politica come il Pd nell'altra metà del campo, capace di chiudere la storia troppo lunga del post-comunismo italiano e di posizionare una sinistra riformista al centro del gioco politico: ristrutturandolo attorno ad un partito a vocazione maggioritaria deciso a parlare a tutto il Paese, dopo essersi separato per la prima volta dalla sinistra radicale. Berlusconi ha inseguito l'avversario, ha inventato su due piedi una costruzione politica uguale e contraria - il Pdl - per impedire che il Pd diventasse il primo partito, si è liberato dei cespugli di destra e di centro, e con questa reincarnazione ha riordinato a sé l'area di centrodestra, riconquistando per la terza volta il Paese.

È questo eterno ritorno la scala su cui va misurato il fenomeno Berlusconi. La vittoria di oggi infatti va letta non tanto come il risultato di una campagna elettorale in do minore ma come il sigillo di un'epoca, cominciata quindici anni fa.

Il Cavaliere l'ha aperta con la sua "discesa in campo", le televisioni, la calza sulla telecamera, il doppiopetto, la riesumazione decisiva di Fini dal sepolcro postfascista, ma anche un linguaggio di rottura, un'ostile difesa di se stesso dalla giustizia della Repubblica, la fondazione di una "destra reale" che il Paese non aveva mai conosciuto, frequentando a quelle latitudini soltanto fascismo o doroteismo.

Quindici anni dopo lo stesso linguaggio che ci è sembrato stanco per tutta la campagna elettorale, lo stesso corpo del leader offerto come simulacro immutabile e salvifico della destra, la stessa retorica politica incentrata sul demiurgo hanno invece convinto ancora e nuovamente gli italiani, siglando il quindicennio. In mezzo, ci sono tre Presidenti della Repubblica, cinque Premier, due sconfitte e due vittorie per il Cavaliere, dunque un'intera stagione politica, che va sotto il nome in codice di Seconda Repubblica. Sopravvissuto a tutto, governi avversi e accuse di reati infamanti cancellati da un Parlamento trasformato in scudo servente e privato, partner internazionali che intanto hanno regnato e si sono ritirati, un conflitto d'interessi così perfetto da passare intatto attraverso le ere politiche, Berlusconi suggella il quindicennio con se stesso, unica vera misura dell'impresa, cifra suprema della destra, identificazione definitiva tra un leader e il destino della nazione, secondo la ricetta del più moderno populismo.

Cos'è questa capacità di mordere nel profondo del Paese, e di tenerlo in pugno? In un'Italia che non ha mai nemmeno rivelato a se stessa la sua anima di destra, ombreggiandola sotto l'ambigua complessità democristiana, il Cavaliere ha creato un senso comune ribelle e d'ordine, rivoluzionario e conservatore, di rottura esterna e di garanzia interna, che lui muove e agita a seconda delle fasi e delle convenienze, in totale libertà: perché non deve rispondere ad una vera opinione pubblica nel partito (che non ha mai avuto un congresso dal 1994) e nel Paese, bastandogli un'adesione, un applauso, una vibrazione di consenso, come succede quando la politica si celebra in evento, i cittadini diventano spettatori e i leader si trasformano in moderni idoli, per usare la definizione di Bauman. Idoli tagliati a misura della nuova domanda che non crede più in forme di azione collettiva efficace, idoli "che non indicano la via, ma si offrono come esempi".

Sta qui - e lo dico indicando l'assoluta novità del fenomeno - il fondamento del risorgente populismo berlusconiano, un populismo della modernità, che supera la cattiva prova di governo del quinquennio di destra a Palazzo Chigi, l'età avanzata, l'usura ripetitiva, la fatica del linguaggio ("sceverando", "mondialmente", "gerarchicizzare"), il gigantismo delle promesse, le ossessioni private trasformate in priorità della Repubblica, come il perenne regolamento di conti con la magistratura. E' un fenomeno che può allargarsi all'Europa, perché in tempi di globalizzazione e di disincanto civico può dare l'illusione di una semplificazione dei problemi, tagliando con la spada del leader i nodi che la politica si esercita con fatica a sciogliere. Ecco perché il populismo può fare da cornice coerente alle paure di cui la Lega è imprenditrice al Nord, rassicurando nella delega carismatica al leader lo spaesamento del Paese minuto, e il suo spavento popolare per ciò che non riesce a dominare.

Così, l'Italia del voto sembra più alla ricerca di rassicurazione che di cambiamento. Ecco perché ha sottovalutato la portata dell'operazione veltroniana di rottura con la sinistra radicale, una scelta che ha dato identità e credibilità al riformismo del Partito Democratico, posizionandolo nell'area della sinistra di governo europea, e che ha ristrutturato in una sola mossa l'intero quadro politico e parlamentare. Ma la novità del Pd non è passata, anzi si è fermata e di fronte ai gravi problemi della parte più debole del Paese è sembrata "politicista". Eppure la semplificazione del gioco politico, con la riduzione drastica del numero dei partiti è in realtà la prima vera riforma della nuova legislatura, e corrisponde a un sentimento diffuso dei cittadini.

Il risultato è un sistema incentrato su due grandi partiti che si contendono la guida del governo, che replicano nel nuovo secolo la coppia destra-sinistra secondo una nuova declinazione, ma restano alternativi. La vera sorpresa, nella scomparsa dal Parlamento di tutte le forze politiche sopravvissute al crollo della Prima Repubblica, è la sconfitta senza appello della sinistra radicale guidata da Bertinotti, che non entra alle Camere: probabilmente perché i cittadini ritengono i partiti dell'Arcobaleno responsabili del gioco di veti, attacchi, critiche e riserve che ha paralizzato e affogato nel dissenso il governo Prodi, e anche perché i militanti e i simpatizzanti non hanno creduto che l'accrocco della lista fosse davvero l'embrione di un nuovo partito-movimento, bensì un espediente puramente elettorale.

Alcuni destini personali dei leader sembravano marciare dritti, da tempo, verso questo esito, sconnessi dalla pubblica opinione. La mancata presenza in Parlamento non solo di una tradizione, ma di una rete di valori, interessi, critiche, opposizioni presenti nel Paese e nella sua storia, indebolisce comunque il discorso pubblico italiano, atrofizza la rappresentanza, riduce il concetto stesso di sinistra. E crea, naturalmente, una responsabilità in più per il Partito Democratico, che deve re-imparare a declinare quel concetto, deve farsi carico di un'attenzione sociale e culturale più che politica, per non lasciare allo sbando e senza voce le domande più radicali del Paese.

Ciò non muta affatto l'identità del Pd, che la leadership di Veltroni ha posizionato nel luogo politico più utile a intercettare consensi dal centro e da sinistra. Quei consensi sono arrivati in misura inferiore alle attese: ma bisogna tener conto dell'abisso di impopolarità che il Pd ha dovuto colmare prima di poter incominciare a competere, un giudizio negativo sulla coalizione che ha divorato il governo Prodi nelle sue lotte intestine.
Veltroni doveva insieme - in questa prima volta - reggere quell'eredità e discostarsene, marcando il nuovo. Il risultato è la sconfitta, ma con una forza riformista del 33 per cento una quota mai raggiunta in passato (anche se bisogna ricordarsi che la sinistra così parla solo a un terzo del Paese) e un partito nuovo che ha retto il varo nella tempesta di una campagna elettorale troppo ravvicinata alla sua nascita. C'è lo strumento adatto ad una partita che il Paese non ha mai conosciuto, la sfida riformista per il cambiamento. Sarebbe un delitto se il cannibalismo tipico della sinistra si esercitasse adesso contro quello strumento e la sua leadership, ricominciando da zero un'altra volta, per procedere di fallimento in fallimento.

Il riformismo, naturalmente, chiede comportamenti conformi anche dall'opposizione, impedisce a chi ne avesse la tentazione di giocare col tanto peggio tanto meglio. D'altra parte la nettezza del successo di Berlusconi ha tolto di mezzo quel miraggio del pareggio che covavano da mesi molti che affollano la periferia della sinistra, pronti ad offrirsi da genio pontiere di un'intesa organica di governo tra Berlusconi e Veltroni. La questione è chiara, come abbiamo provato a dire prima del voto. Chi ha vinto governa.

La responsabilità, anzi il concorso di responsabilità è possibile e doveroso nell'ambito del Parlamento, alla luce del sole, dove si devono discutere con urgenza le necessarie riforme istituzionali. Su queste riforme, sulle regole, il Pd può mettere in campo e alla prova la sua cultura di governo anche dai banchi doverosi dell'opposizione.

In questa distinzione netta, che lascia alla destra il compito esclusivo di governare, ci saranno occasioni di confronto e anche di concordanza, senza scandalo alcuno, perché senza confusione. La speranza, d'altra parte, è che Berlusconi - giunto alla sua terza prova e liberato dal terrore di rendere conto alla giustizia repubblicana - possa sentire l'ambizione di governare davvero, scoprendo l'interesse generale dopo l'abuso di interessi privatissimi. Se questo accadrà, sarà un bene per il Paese, che non ha più né tempo né occasioni da perdere.

Quanto a "Repubblica", ha già fatto l'esperienza della destra, giocando la sua parte, e senza mai inseguire il ruolo di giornale di opposizione, perché non è un partito. Preferiamo semplicemente essere un giornale: con una certa idea dell'Italia, diversa da quella oggi dominante, un'idea certo di minoranza, e che tuttavia secondo noi merita di essere custodita e preservata.


(16 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Lezione capitale
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2008, 05:24:10 pm
POLITICA IL COMMENTO

Lezione capitale

di EZIO MAURO


Mancava soltanto Roma. Ieri è stata conquistata direttamente da An, che con Alemanno porta per la prima volta nel dopoguerra un suo uomo in Campidoglio, da dove si affaccerà non solo sul passato imperiale e sui simboli del ventennio, ma sul nuovo paesaggio politico italiano disegnato dagli elettori. Roma infatti non è soltanto la capitale che ha cambiato segno politico consegnandosi alla destra, mai salita su quel colle, nemmeno all'epoca del trionfale avvento berlusconiano. È, in più, una roccaforte storica della sinistra che l'ha governata ininterrottamente da quindici anni, e che proprio con Roma - come ha spiegato Ilvo Diamanti - usciva dalla tradizionale riserva delle regioni rosse, presentando una geografia politica più articolata e complessa, con la più grande città italiana fiore all'occhiello di una "sinistra dei sindaci" moderna e sperimentale, capace di coniugare buona amministrazione e nuovi linguaggi culturali, sviluppo e comunità, sotto gli occhi di tutto il mondo.

Tutto questo è saltato ieri, completando invece lo scenario politico berlusconiano, che teneva in mano il nord forza-leghista e il sud autonomista e clientelare come due spinte popolari alleate ma separate, senza un centro unificatore che non fosse l'autorità negoziale e politica del Cavaliere. Ora c'è anche il baricentro politico per questa alleanza che ha conquistato l'Italia: la capitale diventata di destra, con un sindaco di Alleanza Nazionale, come ha subito rivendicato Fini, archiviando per una notte il Pdl. Il risultato è chiaro: il Nord alla Lega, il Sud a Lombardo, Roma ad An, e l'Italia a Berlusconi.

Per la potenza dei simboli, che richiamerà a Roma giornalisti da tutto il mondo, il rovesciamento non poteva essere più radicale. Non solo arriva in Campidoglio per la prima volta un uomo venuto dal post-fascismo: ma ci arriva dopo sette anni di governo di un sindaco ex comunista, con un cambio dunque che non è una semplice alternanza ma un cortocircuito a fortissima intensità, che ha appena incominciato a bruciare. Aggiungiamo che Alemanno ha battuto il vicepresidente del Consiglio uscente, che era stato sindaco - e un ottimo sindaco, giovane e innovatore - per due mandati. Ricordiamo ancora che il vincitore fino a quindici giorni fa era dato per sicuro ministro del governo Berlusconi, nella convinzione generale (anche sua) che la battaglia per il Campidoglio sarebbe stata solo di bandiera. Tutto questo può dare l'idea dello spostamento d'aria della bomba capitolina, una bomba di portata nazionale: che tuttavia farà morti e feriti soltanto nel campo del Pd.

Il voto affonda con Rutelli uno dei padri fondatori del nuovo partito, ma colpisce direttamente lo stesso Veltroni, perché al giudizio degli elettori si è presentata anche la sua lunga sindacatura, che pure aveva ottenuto un larghissimo consenso due anni fa, dopo il primo mandato. Già questo dato testimonia l'inclinazione a destra del Paese, che dura da quindici anni, ma che è diventata un precipizio negli ultimi mesi, travolgendo persone, gruppi dirigenti, governi nazionali e locali. C'è nel voto di Roma un dato di "destra reale" così netto, addirittura biografico, fisico, concreto, che deve far riflettere. I moderni pasticceri delle intese più o meno larghe, per i quali tutto è uguale, Alemanno e Rutelli, Veltroni e Berlusconi, assicuravano da settimane che si trattava solo di un voto amministrativo, dove contavano i programmi, e nient'altro. Con ogni evidenza non è così. Non è per il programma che è stato scelto Alemanno, ma perché la sua alterità di post-fascista incarnava fino ad esasperarla in un urlo quella discontinuità di cui i cittadini sentivano il bisogno, e che il Pd non ha avvertito: fino al punto di decidere in una stanza chiusa per pochi intimi - il Pd, partito che ha fatto un mito delle primarie - il cambio di poltrona tra Veltroni e Rutelli. Senza capire che ciò che funziona in termini di esperienza e di attitudine può sembrare all'opinione pubblica, più che mai oggi, un'autogaranzia castale, un'autotutela collettiva, da "classe eterna", nomenklatura, più che da partito aperto.

E tuttavia, c'è un ideologismo pragmatico, sottaciuto ma praticato, ricercato come scelta radicale di cambiamento nella scelta di Alemanno: come uomo di An, e non "nonostante" An. Il nuovo sindaco, che ha subito dichiarato di voler governare a nome di tutti i cittadini, ha conquistato nel ballottaggio centomila voti in più rispetto ai 677 mila del primo turno. Certo, la forza della vittoria nazionale di Berlusconi, così netta, ha trascinato con sé quel pezzo di città indecisa, flottante, al vento, che negli anni precedenti ha votato Veltroni ed è pronta a stare con chi vince. Ma il farsi destra della capitale è impressionante, come i 7 punti e rotti che separano Alemanno da Rutelli. Viene da chiedersi che cosa i cittadini vedano e vogliano da questa classe dirigente finiana che è stata scongelata nel '94, ha rotto con il fascismo e con i padri missini a Fiuggi, ma poi si è fermata, trasformata d'incanto da Berlusconi da post-fascista a statista: anche perché la cultura liberale italiana non l'ha mai stimolata a quei passi avanti e a quel rendiconto a cui invece ha giustamente richiamato per decenni gli ex comunisti.
Certamente i cittadini vedono in questa destra una rottura, più ancora un sovvertimento, quella "modernizzazione conservatrice" di cui parla Berselli: che a Roma diventa subito ribellismo corporativo, con i taxisti che accompagnano col coro dei clacson contro le liberalizzazioni l'ascesa di Alemanno al palazzo senatorio, con la folla che chiede a Veltroni "dacce le chiavi", mentre urla "Roma libera", tra le braccia tese nel saluto romano.
E altrettanto certamente, questa rottura a destra ha un significato anti-establishment, plebeo nel senso politico del termine, dunque popolare. È come se il "rimandiamoli a casa" gridato dal leghismo xenofobo al Nord contro gli immigrati funzionasse anche nella capitale, ma contro il ceto politico di centrosinistra, concepito come forestiero. Il cuore del vero meccanismo politico inossidabile del quindicennio - Berlusconi e il suo sistema - riesce a fuoriuscire da questa maledizione, perché il populismo è esattamente questo: establishment ed outsider nello stesso tempo, ribellismo e professionismo, antipolitica e casta. Un miracolo dell'inganno, ma un miracolo che funziona.
La sinistra, d'altra parte, deve temere soprattutto se stessa. Di fronte alla spinta di destra "realizzata" che ha dato centomila voti in più ad Alemanno, Rutelli ne ha persi 85 mila. In più l'astensionismo ha galoppato a sinistra, favorendo la destra. Non solo.

C'è un dato più inquietante, che lacererà la sinistra italiana per mesi e peserà sul futuro: Rutelli al Comune ha preso 55 mila voti in meno di quanti ne ha conquistati sul territorio cittadino Nicola Zingaretti, neopresidente eletto della Provincia di Roma. Poiché le schede bianche e nulle per Rutelli sono la metà di quelle per Zingaretti, questo significa che decine di migliaia di cittadini - di sinistra, evidentemente - hanno votato per Zingaretti alla Provincia e contro Rutelli (dunque per Alemanno) al Comune. Un voto, bisogna dirlo con chiarezza e subito, del tutto ideologico, che viene in gran parte dalla sinistra radicale, così convinta dalla tesi autoassolutoria che vede nel Pd la colpa della sua scomparsa dal Parlamento, da far pagare al Pd la battaglia di Roma, lavorando contro Rutelli. Per questi cannibali fratricidi, grillisti e antagonisti, Rutelli era il bersaglio ideale, come anche per qualche estremista del Pd: troppo cattolico, importatore della Binetti, amico dei vescovi, come se la scommessa fondativa e perenne del Pd non fosse quella di tenere insieme, a sinistra, cattolici ed ex comunisti. Un ideologismo a senso unico: che serve ad azzoppare la sinistra, facendola perdere, mentre non scatta per bloccare l'uomo di An in marcia verso il Campidoglio. Anzi.

È da qui, oggi, che deve partire Veltroni. Guardando in faccia questo problema grande come una casa, la sindrome minoritaria della sinistra. Con il vantaggio che Roma dimostra - sommando il fuoco amico su Rutelli e le astensioni - come con la sinistra radicale e il suo ideologismo suicida non si possano ipotizzare alleanze, se non per perdere. Ma nello stesso tempo, quel voto reclama una copertura politica dello spazio vuoto a sinistra: cominciando dalla pronuncia di quella parola, l'unica che il dizionario politico veltroniano ha evitato per tutta la campagna elettorale, e tuttavia l'unica che può mobilitare - coniugata con la modernità, con il cambiamento, con l'innovazione, con la capacità di parlare al centro - quella fetta di apolidi messi in libertà dal fallimento dell'Arcobaleno. Cittadini che esistono, che sono una forza potenziale di alternativa al berlusconismo, solo che qualcuno sappia convertire in politica spendibile il loro peso senza rappresentanza.

Veltroni ha incassato due sconfitte pesanti, e tuttavia ha varato un vascello che può andare lontano, un partito della sinistra di governo, che l'Italia non ha mai avuto. Eviti di negare la realtà, come talvolta fa, usi le parole di chi sa di aver perso, ma sa anche dove vuole andare. A cominciare dalla navigazione interna del partito. Un leader ammaccato, depotenziato, frastornato e commissariato non serve a nessuno, se non agli oligarchi. La discussione interna deve essere all'altezza di un partito che è democratico davvero, vuole essere nuovo e non può più accettare procedure d'altri tempi. Valuti Veltroni se non è il caso di strappare di nuovo, per andare avanti, oppure rinunciare. Ci sono sempre quei tre milioni e mezzo delle primarie, pronti a contare nei momenti che contano. Se qualcuno si ricorda di loro.

(29 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. L'ossessione al governo
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:46:24 pm
POLITICA L'EDITORIALE

L'ossessione al governo

di EZIO MAURO


DUNQUE Silvio Berlusconi dice di non essere ossessionato dai giudici. Se così fosse, tutto sarebbe più semplice. Il Cavaliere è il legittimo capo del governo del Paese, ha ottenuto un forte consenso popolare, guida una maggioranza compatta di parlamentari che ha potuto scegliere e nominare personalmente, è alla sua terza prova a Palazzo Chigi, può finalmente trasformarsi in uomo di Stato. Intanto i suoi avvocati lo difendono con sapienza, libertà e ampia fantasia tecnica nel processo di Milano, dov'è imputato per corruzione in atti giudiziari, con l'accusa di aver spinto l'avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri all'estero della galassia Fininvest.

Due poteri dello Stato - l'esecutivo e il giudiziario - svolgono il loro ruolo, nelle loro prerogative autonome, ed entrambi nell'interesse del libero gioco democratico, al servizio della Repubblica. Poi, l'opinione pubblica giudicherà gli esiti. Si chiama separazione dei poteri, è uno dei fondamenti dello Stato moderno, e realizza il principio secondo cui la legge è uguale per tutti, anche per chi ha vinto le elezioni e governa il Paese. Perché l'eguaglianza, come spiega Rawls, "è essenzialmente la giustizia come rispetto della norma".

Ma si può dire che sia così? Stiamo ai fatti. Ieri Berlusconi è entrato tra applausi e invocazioni da stadio all'assemblea della Confesercenti, pronta ad ascoltare la ricetta del governo per una categoria che ad aprile ha visto i consumi in caduta libera (-2,3 per cento), con i piccoli negozi in calo del 4,1, il settore non alimentare del 3,4.

Ma il Cavaliere, dopo aver ringraziato per l'accoglienza "tonificante" ha mimato con le mani incrociate le manette, ha assicurato che "certi pm vorrebbero vedermi così", ha spiegato che i giudici politicizzati sono "una metastasi della democrazia", una democrazia peraltro "in libertà vigilata, tenuta sotto il tacco" dalla magistratura ideologizzata "che vuole cambiare chi è al governo, ledendo con accuse fallaci il diritto dei cittadini a essere governati da chi hanno scelto democraticamente": mentre il Pd, difendendo i magistrati, ha spezzato il dialogo che Berlusconi ormai rifiuta, perché non vuole discutere "con un'opposizione giustizialista".

Siamo dunque davanti alla rappresentazione istituzionale di un'ossessione. Anzi, ad un'ossessione che si fa governo, che si trasforma in legge, che rompe una politica e ne avvia un'altra. Un'ossessione che si fa verbo e carne, misura di una leadership, orizzonte di una maggioranza, cifra definitiva dell'avventura di questa destra italiana talmente impersonata dal Cavaliere da precipitare intera nei suoi incubi.

Si capisce perfettamente la scomodità di fronteggiare un processo per corruzione mentre si è appena riconquistata con un trionfo elettorale la legittimità a governare il Paese. E tuttavia questa scomodità è anche una delle prove della democrazia sostanziale di una Repubblica. Perché non è in gioco, com'è ovvio e com'è evidente, il pieno diritto e la piena libertà dell'imputato Berlusconi a difendersi con ogni mezzo lecito nel processo, facendo valere fino in fondo le sue ragioni, sperando che prevalgano. In gioco, c'è il privilegio improprio di quell'imputato, che può contare sull'aiuto del Premier Berlusconi. Un aiuto attraverso il quale il potere politico diventa ineguale perché abusando della potestà legislativa costruisce con le sue mani - le mani del Presidente del Consiglio, che sono le stesse mani dell'accusato in giudizio - un vantaggio indebito contro un altro legittimo potere della Repubblica (il giudiziario) e contro i cittadini che si trovano nelle sue stesse condizioni, ma non possono contare su quel privilegio.

Per salvarsi da un potere che opera in nome di quello stesso popolo italiano da cui ha avuto un consenso amplissimo, il Cavaliere ha infatti deciso di trasformare il suo personale problema in un problema del Paese e la sua ansia privata in un'urgenza nazionale. Dopo aver ritagliato dentro la procedura penale una misura di sospensione dei processi che ha il profilo della sua silhouette, per bloccare la sentenza in arrivo a Milano, ha provato a trasformare in decreto legge (dunque un provvedimento con carattere di necessità e di urgenza) il nuovo lodo Schifani che per la seconda volta tenta di garantirgli l'immunità penale. Com'è evidente, è proprio l'urgenza di legiferare sotto necessità impellente che rende le due norme inaccettabili, perché patentemente ad personam. È il legame tra le due misure che le svilisce a strumento di salvacondotto meccanico. È tutto ciò, più la coincidenza democraticamente blasfema tra la persona dell'imputato, del capo del governo e del capo della maggioranza legislativa che fa del caso italiano qualcosa di molto diverso dal sistema costituzionale della garanzie per le alte cariche in vigore in alcuni Paesi: dove i Parlamenti - almeno in Occidente - legiferano su tipologie astratte nell'interesse del sistema e non su biografie giudiziare specifiche per dirottarne l'esito nell'interesse privato, spinti dal calendario di un processo in corso.

A due mesi appena da un voto che aveva garantito maggioranza certa, leadership sicura, alleanze blindate, opposizione dialogante, stiamo dunque assistendo ad un incendio istituzionale in cui tutto brucia, nel rogo di un leader che ogni volta consegna i suoi talenti ad un demone, sempre lo stesso. Brucia anche l'autorevolezza del premier e la sua credibilità se non come uomo di Stato almeno come uomo d'ordine: proprio ieri, mentre attaccava i giudici in preda ad un'ira visibile, la platea plaudente dei commercianti ha cominciato a mormorare, poi a rumoreggiare, infine a gridare, con i primi fischi che solcano il miele di questa luna berlusconiana, luminosa per due mesi, e improvvisamente nera.

Dice la commissione del Csm incaricata di preparare il plenum che la norma salvapremier farà fermare oltre la metà dei processi in corso, scegliendo arbitrariamente tra i reati, introducendo casualmente uno spartiacque temporale, violando la Costituzione quando parla di "ragionevole durata" del dibattimento, fino a realizzare nei fatti una "amnistia occulta". Sullo sfondo, per tutte queste ragioni, si annuncia un conflitto con il Capo dello Stato che ancora ieri ha chiesto rispetto tra politica e magistratura, ma senza illudersi: "Con la moral suasion lancio messaggi in bottiglia, non sapendo chi vorrà raccoglierli".

Rotto il dialogo, perché ieri Veltroni ha chiuso definitivamente la porta, il Cavaliere è dunque solo davanti alla sua ossessione. Che non è politicamente neutra, e nemmeno istituzionalmente, perché sta producendo giorno dopo giorno una specialissima teoria dello Stato che potremmo chiamare monocratico, con un potere sovraordinato perché di diretta derivazione popolare (il governo espressione della maggioranza parlamentare) e tutti gli altri poteri della Repubblica subordinati: al punto da diventare illegittimi quando mettono in gioco nella loro autonoma funzione il nuovissimo principio di sovranità che vuole il moderno sovrano legibus solutus. I costituzionalisti hanno previsto questa forma di "autoritarismo plebiscitario", e Costantino Mortati ha parlato di "sospensione delle garanzie dei diritti" per la necessità "di preservare l'istituzione da un grave pericolo che la sovrasta" e per la precisa esigenza "di sottrarre a controlli l'opera del capo": ma nessuno avrebbe detto che eravamo davanti a questa soglia.

E invece, questo è un esito possibile - istintivo e necessitato più che teorizzato, e tuttavia perfettamente coerente - del populismo italiano all'opera da quindici anni, capace non solo di conquistare consenso ma di costruire un senso comune dominante, d'ordine e rivoluzionario insieme, tipico della modernizzazione reazionaria in atto. Nel quale può infine crescere senza reazioni questa sorta di opposizione dal governo tipica della destra populista, una speciale forma di "disobbedienza incivile" come atto contrario alla legge, con la maggioranza che detiene il potere politico impegnata a chiamare il popolo alla ribellione.

Questa, non altra, è la posta in gioco. Si può far finta di non vederla, per comodità, pavidità, complicità o per convenienza. Lo stanno facendo in molti, dentro il nuovo senso comune che contribuiscono a diffondere. Sarà più semplice per Berlusconi compiere il penultimo atto, l'attacco finale alla libera stampa. Poi il privilegio prenderà il posto del governo della legge, rule of law. Ecco dove porta l'ossessione del Cavaliere. C'è ancora tempo per dire di no: non tutta l'Italia è acquisita, indifferente e succube.


(26 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il privilegio che fa del leader un sovrano
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 04:23:07 pm
POLITICA IL COMMENT0

Il privilegio che fa del leader un sovrano

di EZIO MAURO



 
Mancava, Silvio Berlusconi, nell'aula di Montecitorio radunata ai suoi ordini, ieri, per votargli l'immunità disegnata su misura per la sua persona, consentendogli di evitare in extremis la sentenza nel processo per corruzione in atti giudiziari in corso a Milano, dove il Cavaliere è accusato di aver spinto l'avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri Fininvest all'estero. Penso che l'imbarazzo - politico, morale, istituzionale - lo abbia tenuto fuori dalla Camera dove, a due mesi dalla nascita del suo governo, l'abuso della forza ha ieri raggiunto il culmine, rivelando una debolezza che peserà come un destino sul resto della legislatura.

Nel Paese che continua a proclamare la legge uguale per tutti, dopo il voto di ieri e in attesa urgente di quello del Senato il Cavaliere si avvia a diventare "più uguale" dei suoi concittadini, sottraendo l'imputato Berlusconi al suo legittimo giudice che lo sta processando per reati comuni, per nulla legati all'attività politica. Per fare questo, l'imputato ha dovuto chiedere soccorso al premier Berlusconi, che non ha esitato a usare fino in fondo il potere esecutivo per imporre al legislativo una norma capace di bloccare il giudiziario. Anzi, di più. Finché non è stato sicuro dell'approvazione del "lodo", predisposto dal ministro-ombra della Giustizia Alfano (il vero Guardasigilli è l'avvocato del Cavaliere, Ghedini), il premier ha mandato avanti come norma d'urgenza un emendamento che fermava 100 mila procedimenti giudiziari pur di arrestare il suo. Ieri, avuta la sicurezza che l'immunità diventerà subito legge, Berlusconi ha acconsentito a disfare la norma blocca-processi, dimostrando così platealmente che la norma non aveva alcuna urgenza reale ma era solo strumentale alla sua difesa, in una combinazione legislativa meccanica che piegava due volte la procedura penale e l'uguaglianza dei cittadini per costruire un salvacondotto personale su misura ad un imputato eccellente.

Qui sta l'imbarazzo della democrazia italiana, in questa concatenazione tra l'interesse privato e la legislazione pubblica, che forma un abuso, deforma l'imparzialità della giurisdizione, trasforma la separazione dei poteri. Le tre funzioni (legiferare, amministrare, rendere giustizia) nello Stato moderno sono affidate a organi distinti in posizione di reciproca indipendenza e autonomia proprio per garantire che anche l'esercizio delle attività sovrane è sottoposto al diritto. Montesquieu ha spiegato una volta per sempre che "tutto sarebbe perduto se il medesimo uomo facesse le leggi, ne eseguisse i comandi e giudicasse delle infrazioni". Ma che accade quando il medesimo uomo fa le leggi, ne esegue i comandi e così fa in modo che nessuno possa giudicare delle sue infrazioni? Quanto è "perduto" in questo uso abusivo del potere?

Naturalmente questo ragionamento viene evitato dai costruttori del nuovo senso comune berlusconiano. Si prescinde dai fatti (un'ipotesi di reato, un'inchiesta, un processo, e la corsa politica a bloccarne l'esito) e si preferisce ragionare in termini generali: qui - si dice - non si discute di Berlusconi, ma di un sistema di guarentigie, che esiste anche altrove e riguarda le quattro principali cariche della Repubblica. Con ogni evidenza è una mistificazione. A parte il fatto che l'immunità del Capo del governo non esiste nelle democrazie europee, si può discutere in astratto di immunità se e in quanto serva a disegnare un sistema generale di garanzie, non quando urga la necessità di sottrarre un imputato al suo giudizio, strappandolo all'aula del Tribunale che sta per concludere il processo.

Questo anzi è il caso in cui la garanzia si trasforma in privilegio, e l'immunità studiata dalla dottrina costituzionale in considerazione della funzione pubblica e della sua tutela - nell'interesse non già del singolo, ma della collettività -, si riduce a impunità costruita nell'interesse esclusivo non di una carica ma di una persona, che con un vantaggio improprio viene sottratta ad oneri e responsabilità che valgono per tutti gli altri cittadini.

Qui sta tutta l'eccezionalità (uso la parola in senso tecnico) di ciò che sta accadendo in un parlamento ridotto a collegio di difesa di un imputato di corruzione, costretto a votare leggi speciali a sua tutela, impegnato a costruire un regime esclusivo di salvaguardia per un leader a cui non basta la politica, il trionfo elettorale, la forza della maggioranza, la dignità della funzione che ricopre nel nostro Stato. Sul piano culturale, c'è qualcosa di più. Una forzatura nella costituzione materiale del Paese, nella struttura politica del sistema, per cui da questo eccesso d'autorità scaturirà una nuova concezione dello Stato, con la supremazia del Leader che ha vinto le elezioni e per questo è intoccabile perché è un tutt'uno con la volontà dei cittadini, in un'unione sacra al punto che nessuna legge, nessun diritto, nessun potere può intervenire a sindacarla. Attraverso questa concezione, il leader legittimo del Paese diventa sovrano di fatto, perché si appropria di una sovranità che per Costituzione appartiene al popolo: non "emana" dal popolo verso qualche potere come oggi si vuole far credere e come pretende la teoria del moderno populismo, ma nel popolo risiede perché è il popolo che la esercita, "come contrassegno ineliminabile - si disse nella discussione in Costituente - del regime democratico".

Questa è la posta in palio negli eventi a cui stiamo assistendo, nonostante la riduzione interessata a stanca contesa tra politica e magistratura, nonostante la banalizzazione accurata della sostanza politica, istituzionale e costituzionale di questa vicenda: non per caso immersa in un grande pettegolezzo sessuale su presunte intercettazioni in parte già distrutte dai magistrati e in parte prossime alla distruzione e tuttavia evocate e sceneggiate senza posa dai costruttori del paesaggio politico berlusconiano, secondo la modernissima strategia feticista che - come spiega la psicanalista Louise J. Kaplan - "mette in rilievo un dettaglio particolare per poter distrarre l'attenzione da altre caratteristiche considerate inquietanti", "per immobilizzare e ammutolire, vincolare e dominare".

Proprio per questo, a mio parere, è importante e significativo che migliaia di persone abbiano sentito il bisogno martedì scorso di uscire dalla solitudine repubblicana in cui viviamo per andare nella piazza di Roma dov'era annunciata una manifestazione di testimonianza e di protesta per le leggi ad personam predisposte dalla destra berlusconiana. Nella nuova egemonia culturale che domina l'Italia e che mette l'azione e le decisioni del governo al primo posto, trasformando la legittimità in nuova sovranità, e chiedendo alla legalità di non intralciarla, la vera domanda è se c'è una capacità di reazione liberale e democratica, costituzionale e repubblicana. Quella piazza, fatta di cittadini sconosciuti che hanno voluto riconnettersi al discorso pubblico in un momento delicato (e in molti casi hanno dovuto farlo da soli, senza il tradizionale canale dei partiti) è appunto un principio di reazione.

Ma alla domanda tutta politica - finalmente - che veniva dai cittadini in piazza (e dai molti altri che non hanno partecipato per molte ragioni, ma anche perché non si riconoscevano nelle forme, nei modi e nel programma dell'organizzazione) è stata servita una risposta di segno opposto, tutta impolitica. Anzi, antipolitica. Con un crescendo da "Corrida" che mescolava denunce planetarie e racconti da Calandrino sul Cavaliere, accuse a Napolitano (come se fossero le istituzioni di garanzia il vero problema del Paese), e al Pd come principale nemico, secondo la tradizione consolidata della peggior sinistra, per cui il vero avversario è il tuo compagno. Attraverso questo meccanismo che ha sostituito gli "idoli" dello spettacolo ai leader, trasformando il loro linguaggio in discorso politico e riducendo i cittadini a spettatori che applaudono, si è rotta la cornice istituzionalmente drammatica in cui si sta compiendo la prova di forza di Berlusconi. Anzi, si è persa l'"eccezionalità" di quanto la nuova destra berlusconiana sta facendo, l'unicità di questo passaggio, smarrito nella denuncia antipolitica grillina che urlando vuole tutti uguali: dunque Berlusconi è come gli altri e tutti insieme sono "un comitato d'affari", col risultato che lo show convince il cittadino della sua impotenza, lo depriva della sua scelta di partecipare, depotenzia la sua reazione di ogni qualità politica, infine lo restituisce al privato con la convinzione che ogni azione pubblica collettiva è impossibile, peggio, inutile. Salvo battere le mani all'idolo che urla a vuoto, contro tutti e nessuno.

Si possono recuperare le ragioni che hanno portato quei cittadini in piazza, provando a dar loro un indirizzo politico, un percorso democratico, uno sbocco possibile? Molti "girotondi" hanno capito i limiti dell'antipolitica, che probabilmente ha consumato qui la sua stagione. Il Pd dovrebbe aver compreso che il vuoto della politica, anche lui genera mostri, e bisogna costruire un orizzonte riformista che sappia mobilitare e rispondere, dando radicalità ai valori e ai diritti, soprattutto quando sono sotto attacco. La sinistra sparsa, il centro cattolico, i moderati che non accettano il passaggio di sovranità hanno a disposizione un'idea semplice e necessaria: la democrazia come idea comune, nell'Italia sfortunata del 2008.

(11 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. "Non sono Mago Merlino, l'azienda si può salvare solo così"
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 06:58:08 pm
ECONOMIA

Parla il presidente della cordata che prenderà la nuova Compagnia

"Non sono Mago Merlino, l'azienda si può salvare solo così"

"Non ci regalano Alitalia un dovere accettare questa sfida"

"In politica non la penso come Berlusconi, ma non posso autosospendermi

Trattiamo con Air France e con Lufthansa, una delle due è indispensabile"

di EZIO MAURO
 


"COME sto? Glielo dico subito. Sto studiando le carte giorno e notte e l'ultima cosa che vorrei fare è mettermi a chiacchierare perché qui prima di pensare a volare - in tutti i sensi - bisogna chinare la testa e lavorare sodo. Ma sento girare un po' di cose che non capisco o che magari capisco anche, ma che non mi convincono. E allora, se vuole, le spiego perché sto allacciando le cinture e mi imbarco con l'Alitalia".

Roberto Colaninno è il numero uno della cordata che prenderà in mano ciò che resta di Alitalia e appoggiandosi ad un grande vettore europeo (Air France o Lufthansa), la traghetterà in una nuova compagnia aerea libera dai debiti e dagli esuberi, scaricati sullo Stato e sul contribuente. Un'operazione che molti giudicano spericolata dal punto di vista finanziario, spregiudicata davanti alle norme europee e anche semplicemente alle regole capitalistiche di mercato: voluta e benedetta da Berlusconi, che ha chiuso la porta in faccia all'ipotesi di acquisto da parte di Air France, parlando di "svendita" e "colonizzazione". Che ci fa qui Colaninno, che vota a sinistra e crede nel mercato, al punto da scalare un gigante come Telecom fino alla vetta, risanare Piaggio quand'era in mezzo ai guai, puntare addirittura alla Fiat quando tutti la davano per fallita? Si è convertito anche lui, non dal punto di vista politico ma da quello capitalistico, passando dal mercato libero e selvaggio al recinto protetto e garantito del potere berlusconiano? Ecco le sue risposte.

Dunque, Colaninno, che ci fa lei sull'aereo Alitalia? Un'operazione di potere?
"Mi dica lei: davanti a una sfida imprenditoriale coi controfiocchi, dovevo starmene a casa solo perché l'ha proposta Berlusconi e io non la penso come lui? E poi? La sera andiamo tutti insieme al bar, sospiriamo, lanciamo qualche maledizione per la sorte del Paese, e ce ne torniamo a casa, senza fare niente? Mani pulite, ma immobili, anzi inutili. E io dovrei fare l'imprenditore in questo modo, in pratica autosospendendomi? Grazie, ma questo ragionamento non mi convince, e non ci sto".

E qual è invece il ragionamento che l'ha convinta a muoversi?
"Provo a dirlo in modo semplice: la responsabilità. Se fai l'imprenditore, una sfida come questa ti chiama, come un dovere. La proposta è di Berlusconi? Ma lui è il capo del governo, e al governo l'hanno mandato gli italiani. Delle due l'una: o vado via da questo Paese, o ci rimango e provo a fare la mia parte, quel che so fare e che mi piace anche. Naturalmente la responsabilità non si ferma qui, ma mi impone di fare le cose secondo la mia etica e i miei ideali. Ha capito? Miei, non di altri. Vorrei essere giudicato su questo, anche negli errori che farò. Non lo so, magari mi sbaglio, ma sono convinto che se tutti ragionassimo così il Paese si tirerebbe fuori dai pasticci".

E perché la responsabilità dell'imprenditore scatta proprio per Alitalia?
"Perché si chiama come il mio Paese, è un servizio pubblico, ha ventimila dipendenti, è una rete della modernità. Santo Dio, è una partita che non possiamo permetterci di perdere, tutti insieme".

Ma è una partita che si gioca con strane regole costruite su misura per voi, non le pare?
"Senta, spero che a nessuno venga in mente che qui ci stanno regalando qualcosa, prima di tutto perché nessuno mi ha mai regalato niente, e poi perché il rischio è grosso così...".

Ma lei può dimenticare che c'era un'altra opzione in campo, quella di Air France, con costi minori per il contribuente e più rispetto per il mercato?
"Lo so benissimo. Ma chi è stato eletto al governo ha deciso diversamente, per una sua strategia a cui certo io non ho contribuito, e che tra l'altro gli sta portando consensi. Non è affar mio il consenso, non dovrei neanche parlarne. Diciamo che ci siamo trovati con questo quadro davanti, e nient'altro. Mi capisce bene? Nient'altro. Alitalia, così com'è, non se la compra nessuno".

Attento, perché così lei sembra dar ragione a quelli che parlano del vostro piano come di una "bufala". Cosa risponde?
"Ho detto che nessuno compra Alitalia così com'è. E ho detto la verità. Ma a certe condizioni il signor Spinetta, che mi descrivono come un manager molto avveduto e molto capace, l'avrebbe comprata, eccome. Trovava conveniente prenderla a condizioni meno facili di quelle odierne. Allora vuol dire che la bufala fa il latte".

Ma lei, come imprenditore e come cittadino, giudica più serio il piano Spinetta o il progetto Berlusconi?
"Come imprenditore, ma anche come cittadino, rispetto il ruolo della politica, che deve definire il campo di gioco. Io posso decidere se mi conviene giocare o no, e se mi interessa. Ho detto di sì. Altrimenti, davanti ad una sfida che mi attirava, se avessi detto di no per ragioni che stanno tutte fuori dal mio mestiere mi sarei sentito un fariseo. Ma insomma, posso fare l'imprenditore come un semaforo, guardando il colore, se è rosso mi fermo e se è verde passo? No, se la cosa mi convince, appena è giallo io passo. E ripeto: ho un mio modo (una deontologia, un'etica, la chiami come vuole) di intendere l'impresa e il mio ruolo, giudicatemi da questo".

Va bene, ma la sua etica da imprenditore non ha niente da dire sul fatto che tutto il rosso di Alitalia - uomini e debiti - si scarichi sullo Stato, come ai bei tempi democristiani dell'Efim?
"Mi scusi, ma lei sa dirmi come possiamo salvare questa azienda se non si fa così? Io, con tutta la buona volontà, non sono mica mago Merlino. Qui l'azienda è cotta, non c'è più, non c'è più niente. Con il kerosene a 200 dollari a barile, come li fa volare gli aerei? Provi lei a fare un giornale senza carta e senza inchiostro. Alitalia è finita, e non è colpa mia, e per la verità nemmeno di Berlusconi o di Prodi".

Ma mi spiega perché bisogna concedere un'eccezione clamorosa a tutte le regole per voi e non per altri imprenditori e altre imprese?
"C'è un'altra strada. Dire "me ne frego". Vede, l'ho sentito dire tante volte, e solo in questo Paese, stranamente. Me ne frego che i telefoni italiani diventino spagnoli, che l'auto finisca in mani americane, che non ci sia più una compagnia di bandiera. Ma chi se ne frega, in realtà, non è capace a fare quello che dovrebbe fare, è uno sconfitto. Possibile che dobbiamo sempre fare il contrario di quel che fa il mondo? Io dico, proviamoci, a ogni costo. Il caso Fiat dimostra che si può fare. E lei sa che io ne ero convinto, quando tutti, appunto, se ne fregavano".

Tra i costi, c'è lo scarico del rosso sullo Stato: perché il cittadino dovrebbe pagare?
"Perché avrebbe qualcosa che gli serve in cambio, e che serve a rendere il Paese più moderno. Una compagnia aerea efficiente, in un sistema aeroportuale funzionale, in una rete di trasporti razionale. L'Italia può forse farne a meno? E poi, il problema è riprendere Alitalia per i capelli dall'abisso, e riportarla nel mercato. Una volta arrivata lì, coi piedi all'asciutto, lavoreremo secondo le leggi di mercato, com'è evidente. Ma per arrivarci, non c'è altra strada, perché non ci sono risorse. E gli aeroplani a pedali non li hanno ancora inventati".

E lei, perché si affaccia su quell'abisso, e non si tiene stretto il successo della Piaggio?
"Perché ho ottima salute, finché Dio me la mantiene, e allora posso fare quel che mi piace, seguire la mia vocazione. In barca non vado, al casinò nemmeno. Cos'altro dovrei fare? La natura imprenditoriale, ridotta all'osso, è tutta qui: costruire qualcosa, o ricostruire qualcos'altro".

Ma quello spirito imprenditoriale non si ribella almeno un po' nel vedere che nel piano di rilancio c'è di fatto la sospensione dell'Antitrust per i voli Milano-Roma della nuova compagnia che in sostanza assorbirà AirOne con Alitalia e cioè abolirà la concorrenza?
"Antitrust vuol dire concorrenza per servizi migliori a prezzi più bassi. Ma non contiamoci balle: la concorrenza vera nei voli aerei la fai solo se hai certe dimensioni, se no scompari. Dunque, sarò sfacciato, ma le dico che non credo ad un cielo concorrenziale solcato da tante piccole compagnie, ma ad una robusta concorrenza tra pochi vettori grandi e solidi".

Ma così dicendo autorizza di fatto lo Stato a rendere la nuova Alitalia concorrenziale con la sospensione delle regole, mentre le altre compagnie hanno raggiunto la loro dimensione attraverso le regole e il mercato: non le pare un'altra anomalia pesante?
"Senta, Air France ha l'80 per cento dei voli nazionali in Francia, Lufthansa il 90 per cento in Germania, Iberia l'80 in Spagna. E quando lei atterra a Francoforte, sullo schermo le indicano tutte le coincidenze e tutte le connessioni possibili. Cioè si occupano dei passeggeri sia quando sono in volo, sia quando tornano a terra. Voglio dire che la concorrenza si fa a livello di sistema: aerei, certo, ma anche aeroporti, infrastrutture per arrivarci e per tornare a casa. Con l'alta velocità sui treni, ci accorgeremo presto che il concetto di concorrenza è un po' più largo della vecchia coppia Alitalia-AirOne".

Ma tutto questo, non poteva essere garantito quattro mesi fa (e con meno costi per lo Stato e meno anomalie per il mercato) da Air France?
"Non tocca a me rispondere. Ma lei è proprio sicuro che un campione nazionale nel sistema aereo non serva? Io le dico che se non ci fosse, il cittadino italiano non avrebbe certi servizi. Noi, con la nuova compagnia aerea nazionale, possiamo interagire con altri sistemi, e anzi possiamo diventare un soggetto di razionalizzazione di tutto l'insieme".

A che cosa sta pensando?
"Alle vere anomalie che nessuno vede, come la mappa degli aeroporti italiani. Lasci stare se sono grandi o piccoli, guardi dove sono: partendo da Ovest, ecco Cuneo, Torino, Genova, Milano, Bergamo, Vicenza, Trieste, Treviso, e dimentico sicuramente qualcosa. Sul versante tirrenico, Genova, Pisa, Roma, Napoli, Reggio, Latina, Palermo, dall'altra Linate, Bergamo, Bologna, Forlì, Pescara, Bari, Brindisi, Lecce... Come si può soddisfare un numero di aeroporti così diffusi e concentrati? E intanto io per partire da Milano quando arrivo da Mantova ci metto quattro ore, parcheggio e attesa compresi"?

E lei pensa di poter razionalizzare questa Italia del campanile aeroportuale?
"Bisogna arrivarci per forza. Per far partire un aereo, bisogna prima avere una base-clienti più larga e più costante, e bisogna rivolgersi ai gestori degli aeroporti, delle autostrade, delle ferrovie per coordinare una gestione che ottimizzi il sistema. E c'è poco da fare, con un campione nazionale, è più facile fare sistema. Mi dica lei: di questo il Paese ha bisogno oppure no? Con tutto il rispetto, non è come vendere caramelle: stiamo parlando del futuro dell'Italia. E se la sfida è questa, un vero imprenditore come fa a starne fuori? E il colore politico di chi comanda, come fa a bloccarti? Sarebbe come se un avvocato non difendesse un imputato che ha idee politiche diverse dalle sue".

Ma la sfida imprenditoriale è ancora tale quando deve piegarsi al protettorato della destra su Malpensa, invece di puntare su un solo hub italiano, come avviene negli altri Paesi?
"Potrei dirle che è politico o ideologico anche chiudere Malpensa per concentrare tutto a Fiumicino. Ma in realtà le dico che è superficiale. Si faccia un'analisi geofisica del Paese, con tutte quelle montagne. Guardi le città, capirà subito che dietro Milano e Roma non c'è il bacino di Parigi o di Londra. Bisogna lavorare sui due poli, con un bacino strategico molto più largo, uno per tutto il Nord, l'altro per il Centro e il Sud".

Non dipenderà anche dall'alleato? Lei è per Air France o Lufthansa?
"Ho le mie idee, ma almeno su questo sto zitto. Stiamo trattando con entrambi, e vanno alla stessa velocità. Uno dei due ci serve, è indispensabile".

E se uno dei due dicesse vengo, ma solo per comandare?
"Non se ne parla nemmeno. Questo è chiaro a tutti".

Vuol dire che comanderà lei?
"Se comandare vuol dire guidare, sì. Guiderò io. Poi certo avrò un amministratore delegato".

Tratta lei anche con i partner stranieri?
"Non direttamente. Ma ancora una volta mi trovo a negoziare con società non italiane in condizioni di inferiorità. Siamo sempre i più piccoli, sempre svantaggiati. Questo mi fa girare le scatole. Certo, oggi siamo a zero, e sto zitto. Ma tra cinque anni non sarà più così, vedrà".

Cosa glielo fa dire?
"Il mercato che abbiamo alle spalle. E' straordinario: il quarto in Europa e il settimo o ottavo nel mondo. Ecco un modello perfetto per chiudere il nostro discorso: quel mercato, unito alla nostra vocazione imprenditoriale, spiega la sfida capitalistica moderna più di tante parole".

C'è ancora una cosa da spiegare: quella vocazione imprenditoriale, non è in contraddizione aperta con l'idea di scaricare gli esuberi alle Poste?
"E va bene, se vuole proprio saperlo dentro di me la contraddizione la sento. E non mi piace. Ma mi dica lei, è sicuro che saremmo tutti più tranquilli e contenti se in Italia ci fossero cinquemila disoccupati? Potremmo farci carico a cuor leggero della loro frustrazione? O siamo davvero tutti pronti a pagare più tasse per mantenerli? Se il sistema non soddisfa in termini economici questa richiesta di lavoro, cosa diciamo? Dovete morire di fame"?

Ma non le viene in mente che a queste condizioni d'eccezione tutti sarebbero capaci di vincere la sfida?
"E che lo facciano allora, che vengano. Non è che qui ci sia una cosca che si divide protezioni e benefici. Diciamola tutta una buona volta: non ho avuto benefici nemmeno a Telecom, non ho partecipato alle privatizzazioni, ho fatto un'opa pagando le azioni alle vedove irlandesi e ai professori dei fondi di Los Angeles. E non ho pagato tangenti, lo ripeterò fino alla morte. Come qua: nessun privilegio, solo responsabilità".

Con l'utile garantito della vendita tra qualche anno dell'azienda risanata, utile per voi privati, debiti per lo Stato: non è un privilegio?
"Dello Stato abbiamo già parlato. Quanto ai privati, che vendano secondo convenienza fa parte della logica di mercato. Non sfruttiamo il pubblico, cogliamo un'opportunità di mercato, ma attenzione: il risultato sarà dato da quell'opportunità più le nostre capacità e il nostro impegno. Colgo una sfida, mi metto in gioco, seguo la mia etica e pago le tasse. Se a un certo punto vendo perché mi conviene, mi dica, perché no"?

E cosa risponde a chi dice che Berlusconi ha convertito Colaninno?
"Che non è vero. Resto delle mie idee, mi riconosco nella sinistra riformista. Ma so separare il cittadino che giudica e l'imprenditore che agisce. Li ricongiungo nell'etica della responsabilità e dormo tranquillo".

Un'ultima domanda: cosa le ha detto dell'operazione Alitalia suo figlio Matteo, ministro ombra dell'Industria del Pd, che sta all'opposizione di Berlusconi?
"Lui critica le idee di Berlusconi, e io lo rispetto. Lui rispetta me come imprenditore. Andiamo avanti così, e ci vogliamo bene".

(29 agosto 2008)


da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La Chiesa e i precetti dei teocon
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 03:36:28 pm
CRONACA L'EDITORIALE

La Chiesa e i precetti dei teocon


di EZIO MAURO

C'E' PIU' di un segno dei tempi, per chi abbia voglia di leggerlo, nella piccola crisi tra l'Osservatore Romano e il Vaticano che si è consumata in questi giorni, attorno al tema cruciale degli ultimi istanti della vita umana.
I fatti sono chiari: il giornale della Santa Sede ha pubblicato un editoriale di Lucetta Scaraffia nel quale la storica - che fa parte del comitato nazionale di bioetica ed è vicepresidente dell'associazione Scienza e Vita - sosteneva che la morte cerebrale non può essere considerata la morte dell'essere umano, in quanto nuove ricerche "mettono in dubbio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo".

Poiché questa affermazione contraddice non soltanto le risultanze scientifiche comunemente accettate in ogni Paese moderno e la definizione di morte raggiunta quarant'anni fa ad Harvard da medici, giuristi ed esponenti delle religioni, ma la stessa dottrina ufficiale della Chiesa, abbiamo assistito ad un fatto inedito: per la prima volta nei 147 anni della sua storia l'Osservatore Romano è stato smentito dal portavoce del Papa, e il presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale della Salute, Cardinal Barragan, ha dovuto intervenire per spiegare che non c'è alcun mutamento nella linea della Chiesa: dopo sei ore di encefalogramma piatto, la dottrina cattolica accetta la dichiarazione di morte avvenuta e considera la donazione degli organi "un atto di grande carità verso il prossimo".

Fin qui la vicenda. Ma sarebbe sbagliato non riflettere su questo cortocircuito culturale e politico, sicuramente ridotto nelle sue dimensioni, e tuttavia fortemente simbolico per il significato e lo scenario in cui si compie. È probabilmente giunto il momento di dire che il grande ritorno della religione nel discorso pubblico e nello spazio politico (che fa parlare di una nuova stagione di post-secolarismo) non è avvenuto in Italia attraverso il "fatto" cristiano, e cioè il messaggio della rivelazione e del Credo, ma attraverso la precettistica e la dottrina sociale: nel presupposto che coincidano entrambe da un lato con la Verità (e dunque siano in grado di liberare potenziali di significato più profondi e duraturi delle verità laiche, tutte relative) e dall'altro con il diritto naturale, perché la Chiesa ha sempre sostenuto la sua competenza su tutta la legge morale, non solo quella evangelica ma anche quella naturale, in nome della connessione tra l'ordine della Creazione e l'ordine della Redenzione.

Il veicolo di questa riconquista è stato in realtà l'etica, cioè i precetti morali della Chiesa, trasformati quasi in una sovrastruttura della fede, capace di portare il cattolicesimo da religione delle persone a religione civile, come se le società democratiche non potessero ormai più bastare a se stesse per insufficienza di risorse morali, e dunque avessero bisogno di un supporto religioso alla stessa democrazia. In altri tempi e con altri significati, ma profeticamente, don Giussani aveva già parlato di "prevalenza dell'etica rispetto all'ontologia", con l'"avvenimento" cristiano messo in sottofondo. Il passo in più (proprio in questi ultimi anni, e più volte) è stato il tentativo di pretendere che la legge civile basasse la sua forza sulla coincidenza con la morale cattolica, con l'affermazione di fatto di una idea politica della religione cristiana, quasi un'ideologia, che non a caso è stata chiamata "cristianismo".

L'etica cristiana, la precettistica morale della Chiesa, sono dunque diventati in senso largo strumenti di azione politica, dando forma al disegno del Cardinal Ruini, quando sei anni fa vedeva il cristianesimo come seconda "natura" italiana, che proprio per questo può nella visione di sua Eminenza essere trasgredito solo da leggi in qualche modo contro natura, e perciò contestabili alla radice: senza più la distinzione classica tra la legge del creatore e la legge delle creature che è alla base della laicità di ogni Stato moderno.

Questa ideologizzazione morale del cristianesimo, dove la norma e il precetto parlano più del Credo e del Vangelo, ha recintato negli anni di potere del Cardinal Ruini un perimetro nuovo e vasto, inglobando gli atei devoti e la nuova destra paganizzante italiana: a cui la Chiesa ha fornito un deposito di tradizione profonda altrimenti inesistente e addirittura un fondamento di pensiero forte che la prassi vagamente idolatra del berlusconismo non era in grado di elaborare. Era la cornice di una moderna-antica cultura conservatrice per la post-modernità, ben oltre i confini del mondo democristiano ormai inabissato. Di più: era l'ipotesi di un Dio italiano che cammina nel Paese "naturalmente cristiano", che non aveva mai conosciuto una via nazionale al cattolicesimo.

Il ruinismo e la destra non hanno avuto bisogno di unioni pubbliche. Marciavano in parallelo, e la politica poteva permettersi di ignorare sia i comandamenti che la trascendenza accettando lo scambio concreto e terreno sui cinque punti indicati dal Cardinal Sodano nel suo personalissimo esame di maturità ai leader italiani: la vita, la famiglia, la gioventù, la scuola, la solidarietà. Il punto d'incontro è appunto l'etica dei precetti, l'idea che la legge morale della Chiesa tradotta in norma possa creare un'identità collettiva, superando l'idea del parlamento come luogo dove le leggi si fanno con l'unica regola della maggioranza, e ogni verità è relativa e parziale. Ma un altro punto d'intesa, che discende dall'accettazione di quella precettistica come regola naturale e civile, non soltanto religiosa, è il rifiuto comune della moderna religione europea del politicamente corretto, dell'adorazione "pagana" dei diritti, delle élite dell'Europa e della globalizzazione, del vecchio cuore socialdemocratico del Novecento, peraltro già in crisi per conto suo.

Oggi, in qualche modo, si rompono due anelli di questo mondo che tiene insieme vecchio e nuovo. Con Ruini è finita anche l'autonomia del ruinismo, questo potere disarmato ma costituente e fondativo di un'identità cristiano-conservatrice nazionale. Non soltanto la Cei ha cambiato il suo registro, insieme con la leadership. Ma soprattutto, la Segreteria di Stato ha ripreso in mano il rapporto con le istituzioni e con la politica italiana, restituendo l'Episcopato al suo compito tradizionale. Il sistema di relazioni con il mondo politico, l'elaborazione culturale della presenza cattolica nel nostro Paese - il "Dio italiano" - viene dunque riassorbito dal Vaticano, dove c'è oggi un Segretario di Stato, che con ogni evidenza non intende rilasciare deleghe.

Nemmeno - o forse sarebbe il caso di dire soprattutto - di tipo culturale, sul confine tra l'etica e la politica. Il richiamo all'Osservatore Romano lo conferma con chiarezza. L'etica è stata in questi anni un territorio di scorribanda, dove senza nemmeno mai pronunciare il nome di Dio la precettistica della Chiesa è stata usata come pretesto di lotta politica, via via estremizzandola oltre il limite: perché esiste pure un limite tra teologia e ideologia, tra dottrina e politica. Nell'ateo devoto, dopo aver incassato per anni la comoda devozione, la Chiesa riscopre l'ateo. Dunque, ancora una volta, vale il motto dell'Osservatore Romano: "Non praevalebunt". Ma forse oggi è lecito chiedersi: chi?


(5 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Democrazia e fascismo ai tempi della destra
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 04:30:00 pm
POLITICA    IL COMMENTO

Democrazia e fascismo ai tempi della destra

di EZIO MAURO


NON c'è proprio nulla di "vecchio" o di "nostalgico", come si sono affrettati a dire in molti, nella polemica sulla doppia sortita sul fascismo e su Salò di due uomini di prima fila della destra italiana al governo, il sindaco di Roma e il ministro della Difesa: né francamente è interessante sapere se è per fascismo istintivo, naturale, antico, che nascono queste bestemmie istituzionali, o per la nuovissima incultura repubblicana, europea, occidentale che domina il berlusconismo indisturbato e regnante.

Al contrario, quelle frasi parlano di noi e di oggi, di ciò che siamo come Paese e come classe dirigente, come cultura nazionale e come pubblica opinione. Di questo vale la pena discutere, dunque, non delle piccole beghe tra Storace ed Alemanno che secondo alcuni sono l'unico movente e la spiegazione pacifica e rassicurante di una rivendicazione congiunta fatta davanti ai simboli della Repubblica, e non a caso da due "uomini nuovi" (se così si può dire) proiettati in competizione sul dopo-Fini, nel grembo berlusconiano che tutto concede e nulla vieta.

Stanno perfettamente insieme, nel rozzo bisogno di riaggiustare l'identità della destra dopo 14 anni, l'esaltazione dell'eroismo cieco e patriottico (dunque ingenuo e storicamente "innocente") di Salò con la riduzione del fascismo ad esperimento di modernizzazione autoritaria, travolto solo da un "esito" incongruo e tragico dovuto all'errore dell'innesto nibelungico col nazismo, le leggi razziali e la guerra. Si chiarisce l'aspetto tattico della svolta di Fiuggi, per la fretta dell'arruolamento belusconiano e la necessità conseguente di un cambio rapido di parole d'ordine e di riferimenti politici: una svolta appunto politicista, nient'affatto culturale, e tanto meno morale e storica, come confermano gli esiti odierni.

E' facile, sotto il mantello, i numeri e la leadership altrui, diventare ministri e presidenti delle Camere. Più difficile diventare democratici convinti: e addirittura convincenti.

Nell'immaturità della svolta, due elementi appaiono soprattutto fragili, e tra loro collegati. L'orrore e la vergogna delle leggi razziali, insieme con la necessità di un accreditamento internazionale, hanno portato Fini e tutta la classe dirigente di An a periodizzare la loro presa di distanza dal fascismo dal 1938. Tutto ciò che è avvenuto in questo senso è naturalmente doveroso e positivo, a partire dal primo incontro tra Fini e Amos Luzzatto, presidente della comunità ebraica italiana, che "Repubblica" ospitò nel 2003 su richiesta dello stesso Luzzatto, perché il leader di An non poteva andare in Israele senza prima aver fatto i conti con gli ebrei italiani. E tuttavia questo forte passo in avanti (nell'assunzione di una responsabilità storica, e nel discostarsene, condannandola) ha un limite se resta isolato. Perché se non c'è una condanna del fascismo come regime ("antiparlamentare, antiliberale e antidemocratico" come disse Mussolini nel '25) si disconosce la sua stessa "natura", la sua opposizione al principio di uguaglianza attraverso l'elitismo da un lato e il razzismo dall'altro, e dunque si può separare - come appunto fa Alemanno - l'esito tragico del Ventennio dalla tragedia quotidiana che nasceva dalla sua stessa essenza liberticida, dal suo "odio per la democrazia", da quella che Turati chiamò l'"anticiviltà".

Non solo: concentrando il "male" del fascismo nel '38, la condanna di quel male si risolve in un atto di contrizione personale a Yad Vascem, come se l'orrore supremo dell'Olocausto assorbisse in sé tutti gli altri scempi della democrazia compiuti dal regime, ogni altro gesto di riparazione, ogni legittima aspettativa degli italiani che avevano subito torti, abusi, violazioni della libertà. A partire dall'assassinio di Matteotti, per il quale nessun post-fascista ha sentito il bisogno nell'anniversario, ottant'anni dopo, di esprimere una condanna dal palazzo del governo, dopo che dal palazzo del governo Mussolini aveva impartito l'ordine di ammazzare un deputato d'opposizione.

Questo limite ha tre ragioni evidenti. La prima è la mancanza di un'autonoma necessità democratica degli uomini di An a chiudere per sempre la storia del loro passato, assumendo non solo la democrazia come contesto imprescindibile della vicenda odierna, ma i costruttori della democrazia - a partire dalla Resistenza - come Padri di una Repubblica condivisa e accettata nei suoi valori e nei suoi caratteri fondanti, tradotti nella Costituzione. La seconda è il limite naturale del berlusconismo - una specie di autismo politico - che concepisce la sua grandezza nell'edificazione di sé e non nella costruzione di una moderna cultura conservatrice democratica e occidentale che il Paese non ha mai conosciuto, doroteo o fascista com'è sempre stato a destra. La terza è lo strabismo congenito degli intellettuali liberali e dei loro giornali, che non hanno mai incalzato la destra per spingerla a liberarsi dei suoi vizi storici e dei suoi ritardi culturali, risparmiando con avarizia ideologica evidente quel pedagogismo che per decenni hanno opportunamente dispiegato nei confronti dei ritardi e delle colpe del comunismo: e che esercitano ancora - naturalmente a senso unico - anche oggi che il comunismo è per fortuna morto ed è nata una sinistra di governo riformista.

Anzi, dovremmo dire che proprio le indulgenze della cultura italiana e del suo establishment compiacente, la permeabilità azionaria (salvo naturalmente la golden share berlusconiana) del Pdl dove contano solo fedeltà e rapporti di forza, non scommesse culturali e coraggio politico, la nuova predisposizione italiana verso il politicamente scorretto e il "non conforme", rendono possibile ciò che sta accadendo: non nel pensiero politico, che con ogni evidenza non c'è, ma nella prassi di governo della destra. E' come se il contesto italiano di oggi autorizzasse un passo indietro rispetto ai timidi passi avanti di più di un decennio fa.

Oggi, in questa Italia, è evidentemente possibile onorare Salò e rimpiangerla. Oggi è possibile rivalutare il fascismo, poi incespicare in una correzione travagliata costruita con due "non" ("comprendere la complessità storica del fenomeno totalitario in Italia non significa non condannare...) per la difficoltà di dire con nettezza qualcosa di chiaro, di risolto, di comprensibile. Dire, soprattutto, cos'è oggi questa destra, in cosa credono i suoi uomini.

Bobbio aveva avvertito su questo possibile esito dello sforzo decennale del revisionismo per affermare un rifiuto dell'antifascismo in nome dell'anticomunismo: una nuova forma "aberrante" di equidistanza tra fascismo e antifascismo. E' ciò che stiamo sperimentando in questo inizio di stagione, nella distrazione italiana del dopo-ferie, in un Paese in cui il senso comune - con i suoi pregiudizi - si è sostituito alla pubblica opinione (con la sua consapevole capacità di giudizio), la sinistra è prigioniera della sua subalternità culturale prima che politica, manca un principio di reazione perché non è in campo un pensiero alternativo al pensiero dominante: mentre si allarga ogni giorno, per conseguenza naturale, quella che i vecchi sudditi sovietici chiamavano la capacità di "digestione" della società.

Ma lo stesso Bobbio avvertiva che alla base della repubblica (e probabilmente della sua tenuta nel lungo dopoguerra) c'era un sentimento civile condiviso: un'"idea comune della democrazia". E' ciò che oggi manca ed è la dominante della fase che stiamo vivendo. Proverei a dare questa definizione: in Italia oggi si contrappongono due diverse idee della democrazia. Non c'è bisogno di giudizi roboanti o di etichette improprie. È sufficiente guardare la realtà.

Da un lato c'è un'idea repubblicana, nazionale ed europea che potremmo definire di democrazia costituzionale, che si riconosce nello Stato moderno, nella divisione dei poteri e nel principio secondo cui la sovranità "risiede" nel popolo. Dall'altro lato c'è l'idea di una democrazia che potremmo chiamare demagogica, una sorta di autoritarismo popolare continuamente costituente di un ordine nuovo, quasi una rivoluzione conservatrice che sovverte l'eredità istituzionale mentre la governa: in nome di un populismo che crea se stesso come un potere sovraordinato agli altri, nella prevalenza della decisione rispetto alla regola, anzi nella teorizzazione della nuova libertà post-politica che nasce proprio dalla rottura delle regole, perché il nuovo mondo si gerarchizza spontaneamente nella subordinazione volontaria al demiurgo.

Ce n'è abbastanza (basta pensare ai richiami impliciti ma evidenti del futurismo, del dannunzianesimo, dell'irrazionalismo, del nazionalismo, della restaurazione rivoluzionaria) perché l'istinto fascista nascosto ma conservato voglia fare la sua parte, si agiti sotto la cenere di una fiamma mai spenta, chieda di partecipare al banchetto costituente di questa "destra realizzata" che cerca una forma compiuta in Italia, una definizione che vada oltre l'orizzonte biografico berlusconiano e il limite biologico del suo titanismo. Così come si capiscono le responsabilità di tutto questo. Si capisce meno, se questa è la partita, cosa faccia chi per definizione sta dall'altra parte del campo. Se questo, tutto questo è destra (qualcuno può ancora avere dubbi?) si può rinunciare ad essere sinistra, col Pd, sia pure sinistra finalmente risolta, e capace di parlare all'intero Paese? Non solo: quell'idea comune della democrazia - che in gran parte coincide con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, dunque è di per sé "costituente" dell'identità civile del Paese - non si può declinare e costruire già dall'opposizione, con il rischio di scoprire magari che quel sentimento è già maggioranza nella coscienza dei cittadini?

(10 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Tornare al mercato
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:35:48 am
ECONOMIA    IL COMMENTO


Tornare al mercato

di EZIO MAURO


MENTRE Alitalia muore e i mercati vanno in fiamme, gli uomini di Berlusconi hanno avuto ieri sera l'unica preoccupazione di occupare le televisioni per dare la responsabilità alla sinistra, alla Cgil e addirittura al Pd, che in realtà è sembrato piuttosto assente dalla vicenda. In questo modo si conferma soltanto la torsione anomala di una partita che dovrebbe essere economica e industriale mentre è invece politica e ideologica.

Per ragioni di pura convenienza politica in campagna elettorale Berlusconi (aiutato dalla cecità dei sindacati) si è opposto alla soluzione Air France, in condizioni ben più favorevoli dei mercati finanziari e petroliferi. Per ragioni ideologiche ha giocato su Alitalia la doppia carta del salvataggio eroico e dell'italianità preservata, scavalcando Tremonti per avocare a sé la vicenda.

La vittima è il mercato, con le sue regole. Perché è nata una cordata, ed è nata italiana: ma al prezzo di separare gli attivi di Alitalia dai passivi, consegnare i primi alla nuova compagnia e i secondi ai contribuenti, sospendere l'Antitrust, radunare tra i soci una somma impressionante di conflitti d'interesse. Alla fine la corporazione dei piloti ha detto no per difendere privilegi indifendibili, e la Cgil ha preferito non farsi scavalcare, con una posizione più incerta che autonoma.

La partita è sfuggita di mano al salvatore, che probabilmente proverà prima a lucrare sulle resistenze sindacali, poi cercherà un colpo di teatro, anche alla luce dei salvataggi americani. L'interesse del Paese è che il mercato prenda il posto dell'ideologia, almeno in extremis, che Fantozzi faccia il commissario e non il ministro delegato, che gli imprenditori cerchino il rischio e non i favori, che le banche finanzino il mercato e non la politica.

C'è un ultimo spiraglio per far incontrare un vettore aereo europeo interessato al nostro parco viaggiatori con quel tanto di effettiva imprenditorialità italiana residua. Sostituendo infine l'eroismo con il realismo, l'italianità con l'Europa.

(19 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il nuovo disordine mondiale
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2008, 01:46:41 pm
IL COMMENTO

Il nuovo disordine mondiale

di EZIO MAURO



Non è solo finanza, non sono banche e Borsa solamente che stanno bruciando in questo incendio mondiale che sembra voler resettare il secolo dagli ultimi inganni e dall'unica ideologia superstite - un mercato universale senza Stato e senza governo - prima di farlo davvero ripartire. Chi dice che il capitalismo crolla mentre resuscita il socialismo non ha di nuovo capito niente, perché il capitalismo assiste all'incepparsi non di sé, ma del nuovo sistema di scambio simultaneo universale che sfrutta da un decennio lo strumento di reti che avviluppa il mondo abbattendo spazio e tempo, grazie alla potenza del motore tecnologico di internet, capace di vincere la storia rendendo tutto contemporaneo, e persino la geografia, facendo ubiqua ogni cosa. Ma non c'è dubbio che un pezzo di modernità sta saltando insieme alle banche d'affari, e questo ci coinvolge tutti, dovunque e comunque viviamo, perché ciò che va in crisi a Wall Street riguarda non solo l'America ma l'Occidente. In realtà vengono oggi al pettine nodi politici, economici, culturali, che nascono tutti nel Novecento mentre credevano di risolverlo, e sono invece arrivati fin qui senza riuscire a sciogliersi.

La credenza, prima di tutto, di una ricchezza e di una crescita senza il lavoro, senza una comunità di riferimento, dunque senza una responsabilità pubblica e le regole che ne conseguono. La riduzione della complessità della globalizzazione alla sola dimensione economica, anzi finanziaria. Lo scarto tra economia reale e realtà dei mercati finanziari, tra le transazioni valutarie e le transazioni commerciali, tra le merci, la moneta e il clic che invia l'ordine di comprare o di vendere in base a indicatori computerizzati. Il divario tra ricchi e poveri, che il boom tecnologico e finanziario ha accentuato, anche dentro gli stessi Paesi in via di sviluppo. Le nuove, improvvise gerarchie sociali che sono nate da questo sommovimento con una forza culturale che pretende il riordino di competenze, saperi, professioni, gruppi sociali, comunità, quartieri, aree del mondo e Paesi.

Il nuovo disordine mondiale, oggi, nasce proprio da qui.
La prima reazione alla crisi è il timore di rimanere coinvolti nella perdita improvvisa di ricchezza dovuta all'inganno di prodotti finanziari avariati, o alla speculazione sulla perdita di credibilità universale delle banche, o alla paura irrazionale che diventa panico e fuga.

Ma subito dopo, o contemporaneamente, cresce la preoccupazione per una domanda di governo complessiva della situazione, che non trova risposta, perché non sa nemmeno più quale sia il soggetto giusto a cui rivolgere la pretesa del cittadino di essere tutelato. Di vedere all'opera quello strumento di cui la globalizzazione credeva di poter fare a meno, nell'illusione di bastare a se stessa: cioè la politica.

Il problema è che in questi anni è finita fuori gioco non soltanto la politica come tecnica, o come azione delle istituzioni, ma qualcosa di più complesso. La rivoluzione finanziaria internazionale ha sfidato l'autorità tradizionale, la potestà stessa dello Stato-nazione a cui oggi i cittadini si rivolgono, come sempre nei momenti di crisi, accorgendosi improvvisamente che è scavalcato dai flussi e dalle reti della globalizzazione, i quali creano una nuova legittimità transnazionale - e non solo un mercato universale - a cui non corrispondono né uno Stato né un governo. La "bolla" è quanto di più moderno esista, perché non ha luogo, non ha confini, ignora le distanze come le tradizioni, conosce un'unica legge che è quella della crescita. Ma per le stesse ragioni è quanto di più lontano dallo Stato nazionale, dai suoi computi fiscali e dalla sua rete di responsabilità solidali o anche soltanto sociali. Quando va in crisi un sistema finanziario che muove ogni giorno una massa di scambi valutari molto superiore al Pil di vari Paesi, nessuna istituzione statale ha la capacità e la legittimità per controllare quel flusso in movimento.
Ci accorgiamo così che in questo processo non c'era stata soltanto una scissione tra capitale e lavoro, già consumata e evidente a tutti. In realtà è saltata l'alleanza tradizionale tra l'economia di mercato e lo Stato sociale, come dice Ulrich Beck, un'alleanza che ha sorretto per decenni il diritto, le istituzioni, la politica, la legittimità stessa delle classi dirigenti che si alternavano al comando, in una parola la forma pratica e quotidiana della democrazia occidentale. Da qui discendeva l'autorità (estenuata e faticosa, e tuttavia resistente) del governo della democrazia, e da questa autorità nasceva la governance della modernità che conosciamo, probabilmente l'unica possibile. Questa legittimità democratica nel governo della complessità contemporanea risiedeva soprattutto nel tavolo di compensazione tra i premiati e gli esclusi, quello che Bauman chiama il "nesso" tra povertà e ricchezza, una dipendenza che in realtà è un vincolo di responsabilità e attraverso la civiltà del lavoro (con i suoi conflitti) ha tenuto fino a ieri insieme e in gioco i vincenti e i perdenti della globalizzazione.

Se questo è vero, c'è addirittura un contratto sociale da riscrivere, una sovranità da ristabilire, un'autorità democratica che garantisca i diritti anche nel mondo postnazionale, prendendo possesso persino delle bolle senza spazio né tempo della globalizzazione. Anche perché la crisi complica la prospettiva, ma ripulisce lo sguardo. Il broker per strada a Wall Street, con la sua biografia professionale nello scatolone del licenziamento, esce dall'indistinto virtuale del paesaggio elettronico per tornare ad essere una figura sociale, politica, che non abita solo i numeri della finanza globale, ma cammina per la città reale. Così come il consumatore finirà per tradurre su se stesso - cioè su un soggetto di nuovo politico, sociale - il saldo finale del salvataggio americano, attraverso il peso ingigantito del debito. Tornano così ad avere senso quelle categorie che non riuscivano ad afferrare la crisi, perché i suoi paradigmi erano tutti post-moderni, creati per un'altra dimensione: il diritto, la diplomazia, la politica internazionale, addirittura il sindacato. Con l'ambizione di non tornare indietro, né attraverso la regressione di una chiusura insensata nei nazionalismi né attraverso la tentazione di contrapporre Main Street a Wall Street, vellicando le paure per farle popolo, o almeno plebe, comunque forza d'urto populista.

Una rete sociale, culturale, politica e istituzionale (basta pensare all'Europa e ai suoi ritardi) da ricostruire. Che gran compito per la politica: se la politica ci fosse, e soprattutto se fosse capace di pensare se stessa senza pensare politicamente.

(2 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: Pensare l'impossibile.
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 12:11:27 pm
ESTERI - ELEZIONI USA 2008

IL COMMENTO

Pensare l'impossibile

di EZIO MAURO


Un uomo che è l'icona stessa del cambiamento - perché la sua biografia è il suo messaggio politico - entra alla Casa Bianca e nella storia con il voto americano di martedì, un voto che chiude una politica e apre una nuova epoca, per gli Stati Uniti e per il mondo.

Pensando l'impossibile (un nero afroamericano presidente) e riuscendo a realizzarlo, Barack Obama non ha soltanto riconfermato il sogno americano della grande avventura ma ha realizzato fino in fondo il patto fondativo della nazione che coniuga i diritti, la libertà e le opportunità.

Quel patto era incompiuto, perché il colore della pelle agiva ancora come limite per il pieno dispiegamento dei diritti nella più grande democrazia del mondo, e la leadership suprema alla Casa Bianca era fino a ieri il simbolo e il tabù di questo confine immateriale, dopo gli anni della discriminazione razziale.

Nel momento più difficile della sua storia recente, sotto l'attacco del terrorismo, della crisi finanziaria ed economica, delle nuove e vecchie potenze che spezzano ogni sogno egemonico, l'America ha avvertito la coscienza di quel limite e insieme ha deciso che proprio questo è il momento giusto per superarlo, trasformandolo in un'opportunità per la democrazia: realizzando così fino in fondo la sua storia e dando un senso compiuto e simbolico alla retorica nazionale delle possibilità offerte a tutti, indipendentemente dalle condizioni di partenza di ognuno.

Tutto ciò è avvenuto con una scelta netta che è una chiara assunzione di responsabilità da parte del popolo americano, ma anche sotto la pressione del mondo che ha trasformato per la prima volta nella storia la scelta del presidente Usa in una sorta di suffragio davvero universale del pianeta, come testimonia l'ansia dell'Europa, la festa nazionale africana di oggi, la fiducia immediata dei mercati asiatici.

C'è in questo spoglio elettorale globale molto di più dello spettacolo culturale e politico di una minoranza che si fa Stato e conquista la leadership emancipandosi da ogni rivendicazione, dopo aver costruito questo cammino verso l'inedito "nei cortili e nei portici" di Des Moines e di Charleston, come ha detto ieri Obama rivendicando la sua natura di outsider, e non "nei corridoi di Washington".

Nel voto e nel suo significato universale c'è infatti la fine di un'epoca americana, non solo di una presidenza, e soprattutto la fine di un pensiero che ha avuto la pretesa di proporsi al mondo come unico, e dunque di trasformarsi di fatto nella solitaria ideologia superstite del nuovo secolo.

Guardiamo tutto ciò che finisce insieme con l'era Bush nella sua drammatica caduta di consensi, e vedremo che proprio di questo si tratta, una cornice di cultura e di pratica politica che sovrastava l'amministrazione e la determinava quasi a priori: l'unilateralismo, nella convinzione naufragata in Iraq che la superpotenza egemone poteva riassumere in sé il concetto di Occidente - deformandolo - decidendo guerre e interventi militari fuori dal concerto con l'Europa, dalle regole del diritto internazionale e degli istituti di garanzia, con una nuova potestà ideologica che è una derivazione diretta e meccanica della sovranità economica e militare. La deregulation, nella fiducia quasi religiosa nella virtù autonoma del mercato, con il risultato finale di produrre in realtà l'autonomia di una crisi finanziaria che non riconosce alcun principio di governo e nessun centro di autorità. Il cristianismo, cioè l'uso della religione come arma comune di battaglia politica, con la cultura teo-con utilizzata quotidianamente (e programmaticamente) non come valore di riferimento tra altri, ma come strumento di governo e orientamento dell'agire pubblico attraverso l'amministrazione.

C'era in America la possibilità di chiudere con l'ideologia e gli errori di Bush rimanendo però sotto l'ombra del conservatorismo rassicurante di John McCain, un comandante in capo più che un politico, outsider d'esperienza, capace di rompere con gli "old boys" delle dinastie che si passano la staffetta washingtoniana del potere. Ma anche di proteggere una nazione disorientata dalla crisi, inquieta per la sfida della crescita cinese, spaventata dalla riemersione del nemico ereditario a Mosca, con l'anima imperiale che dopo la morte del sovietismo sopravvive nella Russia eterna.

Ma ciò che l'America cercava era di più: un cambio radicale, di innovazione politica e non solo di generazione. Di modernizzazione democratica, potremmo dire, ripartendo proprio dai diritti, come se si aprisse una nuova stagione e non solo una presidenza, come se si chiudesse la lunga epoca del reaganismo e non solo il bushismo durato otto anni. Il risultato nella sua dimensione (62 milioni di voti per Obama contro 55 pro McCain, 349 grandi elettori contro 163, e ancora 52 per cento dei suffragi nazionali contro 46) testimonia proprio questo, il cambiamento come scelta politica, un atto di coraggio che è anche l'assunzione di un rischio, ma è l'espressione della libertà: e dell'energia democratica che l'America custodisce dentro di sé e si traduce in voglia di futuro, speranza, proiezione in avanti nella percezione che qui, nella "frontiera" inesplorata ma disponibile del nuovo, c'è la soluzione dei problemi e la fuoruscita dalla crisi.

Obama ha chiesto il "change" per tutta la campagna, in tutti gli slogan sui cartelli dei comizi, in tutti i suoi discorsi. L'ha impersonato politicamente, culturalmente, soprattutto biograficamente, nell'evidenza della sua avventura umana. Ha disegnato il perimetro della crisi con semplicità: due guerre, un pianeta a rischio, la peggior crisi finanziaria da un secolo. Lo ha aggredito con quattro offerte politiche: lavoro, opportunità, prosperità e pace. Ha minacciato coloro che vogliono distruggere il mondo (non gli Usa): "Vi sconfiggeremo"; ha offerto collaborazione a chi cerca pace e sicurezza: "Vi sosterremo". Ha cancellato l'unilateralismo, perché "uomini con storie diverse condividono lo stesso destino". Soprattutto, ha usato la retorica di una nuova epica politica dai toni kennediani: dal cambiamento può nascere "l'alba di una nuova leadership americana", e anzi il cambiamento di oggi può collegarsi alle altre svolte leggendarie del mondo contemporaneo: "Un uomo ha camminato sulla luna, un muro è caduto a Berlino, un mondo è stato messo in rete dalla nostra scienza e dalla nostra fantasia".

È il contrario del populismo (guai a contrapporre Main Street a Wall Street, ha detto Obama, e guai a pensare che il governo possa risolvere tutti i problemi), è anzi l'indicazione tutta politica di un nuovo modo di esercitare la leadership, dentro l'America e fuori. Con la preoccupazione, che nasce anche dal sentimento politico di una minoranza diventata maggioranza, di unire il Paese e di parlare a tutta l'America. In questo, McCain si è rivelato dopo la sconfitta un partner d'eccezione, assicurando a Obama non solo il suo "rispetto" e la sua collaborazione, ma riconoscendo la valenza "storica" della sua nomina a presidente, così come Bush ha invitato tutti gli americani, democratici o repubblicani, ad essere orgogliosi perché con il voto "hanno fatto la storia".

Adesso tocca ad Obama essere all'altezza non delle sue promesse, ma delle attese e delle speranze che la sua avventura politica ha suscitato nel Paese e nel mondo, proporzionate più ai simboli che ai programmi. Tocca a lui dimostrare che il cambiamento non si esaurisce con la sua stessa figura, con l'incoronazione popolare, con la trasfigurazione presidenziale, ma può diventare una politica. Addirittura una nuova dottrina, capace di creare una moderna cultura democratica per un mondo in crisi, sostituendo un pensiero conservatore che riteneva di essere eterno, e si è arenato proprio nell'incapacità di concepire in forme nuove la politica e il futuro. Mostrando così esaurita la sua rivoluzione davanti alla rivoluzionaria avventura del primo americano nero che ha voluto davvero essere presidente degli Stati Uniti, e riuscendoci ha cambiato la storia.


(6 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il potere unico
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2008, 11:12:17 am
POLITICA
L'EDITORIALE


Il potere unico

di EZIO MAURO


SIAMO dunque giunti al punto. Ieri Berlusconi ha annunciato l'intenzione di cambiare la Costituzione, a colpi di maggioranza, per "riformare" la giustizia. Poiché per la semplice separazione delle carriere non è necessario toccare la carta costituzionale, diventa chiaro che l'obiettivo del premier è più ambizioso.

O la modifica del principio previsto in Costituzione dell'obbligatorietà dell'azione penale, o la creazione di due Csm separati, uno per i magistrati giudicanti e uno per i pubblici ministeri, creando così un ordine autonomo che ha in mano la potestà della pubblica accusa, il comando della polizia giudiziaria e il potere di autocontrollo: e che sarà guidato nella sua iniziativa penale selettiva dai "consigli" e dagli indirizzi del governo o della maggioranza parlamentare, cioè sarà di fatto uno strumento della politica dominante.

Viene così a compiersi un disegno che non è solo di potere, ma è in qualche modo di sistema, e a cui fin dall'origine il berlusconismo trasformato in politica tendeva per sua stessa natura. Il passaggio, per dirlo in una formula chiara, da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico. Un potere incarnato da un uomo che già ha sciolto se stesso dalla regola secondo cui la legge era uguale per tutti con il lodo Alfano, vero primo atto della riforma della giustizia, digerito passivamente dall'Italia con il plauso compiacente della stampa "liberale" ormai acquisita al pensiero unico e alla logica del più forte.

Oggi quel prologo vede il suo sviluppo logico e conseguente. Ovviamente la Costituzione si può cambiare, come la stessa carta fondamentale prevede. Ma cambiarla a maggioranza, annunciando questa intenzione come un trofeo anticipato di guerra, significa puntare sulla divisione del Paese, mentre il Capo dello Stato, il presidente della Camera e persino questo presidente del Senato ancora ieri invitavano al dialogo per riformare la giustizia. Con ogni evidenza, a Berlusconi non interessa riformare la giustizia. Gli preme invece riformare i giudici, come ha cercato di fare dall'inizio della sua avventura politica, e come può fare più agevolmente oggi che l'establishment vola compatto insieme con lui, due procure danno spettacolo indecoroso, il Pd si lascia incredibilmente affibbiare la titolarità di una "questione morale" da chi ha svillaneggiato la morale repubblicana e costituzionale, con la tessera della P2 ancora in tasca.

Tutto ciò consente oggi a Berlusconi qualcosa di più, che va oltre il regolamento personale dei conti con la magistratura. È l'attacco ad un potere di controllo - il controllo della legalità - che la Costituzione ha finora garantito alla magistratura, disegnandola nella sua architettura istituzionale come un ordine autonomo e indipendente, soggetto solo alla legge, dunque sottratto ad ogni rapporto di dipendenza da soggetti esterni, in particolare la politica. Il governo che lascia formalmente intatta l'obbligatorietà dell'azione penale, ma interviene sul suo "funzionamento" - come ha annunciato ieri il Guardasigilli Alfano - attraverso criteri suoi di "selezione" dei reati e "canoni di priorità" nell'esercizio dell'accusa, attacca proprio questa garanzia e questa autonomia, subordinando di fatto a sé i pubblici ministeri.

Siamo quindi davanti non a una riforma, ma a una modifica nell'equilibrio dei poteri, che va ancora una volta nella direzione di sovraordinare il potere politico supremo dell'eletto dal popolo, facendo infine prevalere la legittimità dell'investitura del moderno Sovrano alla legalità. Eppure, è il caso di ricordarlo, la funzione giurisdizionale è esercitata "in nome del popolo" perché nel nostro ordinamento è il popolo l'organo sovrano, non il capo del governo. Altrimenti, si torna allo Statuto, secondo cui "la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome".

Questa e non altra è la posta in gioco. Vale la pena discuterla davanti al Paese, spiegando la strategia della destra di ridisegnare il potere repubblicano dopo averlo conquistato. Ma la sinistra sembra prigioniera di una di quelle palle di vetro natalizie con la finta neve che cade, cercando di aprire (invano) la porta della Rai, come se lì si giocasse la partita. Fuori invece c'è il Paese reale, con il problema concreto di una crisi che ridisegna il mondo. A questo Paese abbandonato, Berlusconi propone oggi di fatto di costituzionalizzare la sua anomalia, sanandola infine dopo un quindicennio: e restandone così deformato.

(11 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Senza indulgenze
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2008, 09:44:13 am
Senza indulgenze

di EZIO MAURO


La richiesta d'arresto di un deputato in Basilicata, per presunte tangenti legate al petrolio, l'arresto del sindaco di Pescara per il sospetto di tangenti sugli appalti. Dopo i casi di Napoli e Firenze, sul Pd l'onda giudiziaria cresce e anche se bisogna ripetere come sempre che dobbiamo attendere i risultati dell'inchiesta prima di formulare giudizi, questo è il momento di afferrare quel partito per i capelli, prima che affondi.

Nessuno può pensare, onestamente, che il Pd sia un rifugio di faccendieri. Ma non c'è alcun dubbio che se nel Paese il problema della corruzione è riesploso, nel confine critico tra la politica e gli affari, i Democratici si mostrano oggi vulnerabili e permeabili al malcostume nella loro periferia assessorile, mentre le speranze e le attese che accompagnarono la nascita del Pd erano ben diverse.

Scricchiolano entrambi gli elementi della coppia con cui il Pd presentò la sua novità: la moralità pubblica, l'innovazione politica. È difficile infatti non legare le notizie che arrivano dalle Procure con la débacle elettorale in Abruzzo, e soprattutto con l'astensionismo di sinistra che l'ha preparata, dando spazio solo a Di Pietro, ambiguo alleato-concorrente.

L'unico rimedio è uno strappo di innovazione che faccia piazza pulita di vecchi apparati e di metodi ancora più vecchi, renda il partito trasparente, contendibile e aperto a forze davvero nuove nella società, col rischio necessario del ricambio. Per fare questo, serve una classe dirigente coraggiosa e consapevole del pericolo mortale che corre, perché indulgenze e ritardi oggi - quando il Paese in crisi avrebbe bisogno di un pensiero e di una politica davvero alternativi alla destra - sono peggio che errori: sono colpe.

(17 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Irresponsabilità istituzionale
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2008, 12:30:36 pm
ECONOMIA     

Irresponsabilità istituzionale

di EZIO MAURO


Che bisogno c'è, da parte del ministro più importante del governo, e in un momento di grave debolezza del sistema, di attaccare il Governatore della Banca Centrale? Che interesse nazionale c'è a fare questo in un consesso internazionale come l'Ecofin, riunito per fronteggiare l'emergenza? E che convenienza c'è, per un Paese che non ha certo bisogno di essere indebolito, ad assistere a scene di questo tipo in una riunione internazionale, come se si dovesse certificare al mondo l'incapacità di fare sistema, addirittura tra il Tesoro e la Banca, persino mentre le Borse crollano?

Incurante del fallimento dell'ideologia liberista in voga a destra fino all'alba della crisi, Giulio Tremonti ha cercato ancora una volta di colpire pubblicamente la credibilità e l'autorità di Mario Draghi, come ha fatto spesso negli ultimi mesi, accusando esplicitamente il Financial Stability Forum presieduto dal Governatore di non aver previsto la crisi.

Ora, o il ministro ha dei pubblici rilievi, articolati e motivati, da muovere al Governatore, e allora farebbe bene a farlo nella sede più istituzionale in cui si esprime la sua responsabilità politica, cioè il Parlamento. Oppure, le sue sono intemperanze nervose che non possono andare al di là della puntura di spillo, della battuta goliardica, e allora farebbe bene a tacere. Perché in questo modo, con ogni evidenza, si somma il doppio effetto negativo dell'irresponsabilità politica e istituzionale del governo, unita alla delegittimazione della Banca d'Italia.

(20 dicembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il caso Eluana nel Paese della doppia obbedienza
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 11:04:35 am
EDITORIALE

Il caso Eluana nel Paese della doppia obbedienza

di EZIO MAURO


In modo probabilmente inconsapevole, ma certamente per lui doloroso, Beppino Englaro sta portando alla luce giorno dopo giorno alcuni nodi irrisolti dello Stato moderno di cui siamo cittadini, e a cui guardiamo - o dovremmo guardare - come all'unico titolare della sovranità. Questo accade, come ricorda Roberto Saviano, perché il padre di Eluana cerca una soluzione alla sua tragedia familiare in forma pubblica, quasi pedagogica proprio perché la rende universale, sotto gli occhi dell'intero Paese, costretto per la prima volta a interrogarsi collettivamente sulla vita e sulla morte, a partire dalla pietà per un individuo. A parte la meschinità di chi cerca un lucro politico a breve da questo dramma personale e nazionale, trasformando in frettolosa circolare di governo le richieste della Chiesa contro una sentenza repubblicana, e a parte i ritardi afasici di chi dall'altra parte si attarda invece a parlare di Villari, quello che stiamo vivendo - e soffrendo - è un momento alto della discussione civile e morale del Paese. A patto di intendersi.

Fa parte senz'altro della discussione pubblica, che deve interessare tutti, l'intervento del Cardinale Poletto. È vescovo di Torino, la città dove la presidente della Regione, Mercedes Bresso, si è detta pronta ad ospitare Eluana e la sua famiglia per quell'ultimo atto che lo Stato ha riconosciuto legittimo con una sentenza definitiva, e che il governo vuole evitare con ogni mezzo. Mentre altri cattolici hanno sostenuto che "la morte ha trovato casa a Torino" il Cardinale non ha usato questi toni, ma ha detto che condanna l'eutanasia, anche se si sente vicino al padre di Eluana, prega per lui e non giudica. Vorrei però discutere pubblicamente, se è possibile, il significato più profondo e la portata di due affermazioni del Cardinale.

La prima è l'invito all'obiezione di coscienza dei medici, che per Poletto devono rifiutarsi in Piemonte di sospendere l'alimentazione forzata ad Eluana, entrando in contrasto con la richiesta della famiglia e con la sentenza che la legittima. Non c'è alcun dubbio che la coscienza individuale può ribellarsi a questo esito, e il medico - credente o no - può vivere un profondo travaglio tra il suo ruolo pubblico in un ospedale statale al servizio dei cittadini e delle loro richieste, il suo dovere professionale che lo mette al servizio dei malati e delle loro sofferenze, e appunto i suoi convincimenti morali più autentici. Questo travaglio può portare a decisioni estreme assolutamente comprensibili e rispettabili, come quella di obiettare al proprio ruolo pubblico e al proprio compito professionale perché appunto la coscienza non lo permette, costi quel che costi: e in alcuni casi, come ha ricordato qui ieri Adriano Sofri, il costo di questa opposizione di coscienza è stato altissimo.

Mi pare - appunto in coscienza - molto diverso il caso in cui i credenti medici vengono sollecitati collettivamente da un Cardinale (quasi come un'unica categoria professionale e confessionale da muovere sindacalmente) a mobilitarsi nello stesso momento e ovunque per mandare a vuoto una sentenza dello Stato, indipendentemente dalla riflessione morale e razionale di ognuno, dai tempi e dai modi con cui liberamente ciascuno può risolverla, dalle diverse sensibilità per la pietà e per la carità cristiana, pur dentro una fede comune. Qui non si può parlare, se si è onesti, di obiezione di coscienza: semmai di obbligazione di appartenenza, perché l'identità cattolica di quei medici diventa leva e strumento collettivo su cui puntare con impulso gerarchico per vanificare una pronuncia della Repubblica.

Questo è possibile perché il Cardinale spiega con chiarezza la concezione della doppia obbedienza, e la gerarchia che ne consegue. Lo Stato moderno e laico, libero "dalla" Chiesa mentre la garantisce libera "nello" Stato, applica la distinzione fondamentale tra la legge del Creatore e la legge delle creature. Poletto sostiene invece che poiché la legge di Dio non può mai essere contro l'uomo, andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo: dunque se le due leggi entrano in contrasto "è perché la legge dell'uomo non è una buona legge", ed il cattolico può trasgredirla. La legge di Dio è superiore alla legge dell'uomo.

Su questa dichiarazione vale la pena riflettere, per le conseguenze che necessariamente comporta. È la concezione annunciata pochi anni fa dal Cardinal Ruini, secondo cui il cattolicesimo è una sorta di seconda natura degli italiani, dunque le leggi che contrastano con i principi cattolici sono automaticamente contronatura, e come tali non solo possono, ma meritano di essere disobbedite. Da questa idea discende la teorizzazione del nuovo cattolicesimo italiano di questi anni: la precettistica morale della Chiesa e la sua dottrina sociale coincidono con il diritto naturale, dunque la legge statale deve basare la sua forza sulla coincidenza con questa morale cattolica e naturale, trasformando così il cattolicesimo da religione delle persone in religione civile, dando vita ad una sorta di vera e propria idea politica della religione cristiana.

Ma se la legge di Dio è superiore alla legge dell'uomo, se nella doppia obbedienza che ritorna la Chiesa prevale sullo Stato anche nell'applicazione delle leggi e delle sentenze, nascono due domande: che cittadino è il cattolico osservante, se vive nella possibilità che gli venga chiesto dalla gerarchia di trasgredire, obiettare, disubbidire? E che concezione ha la Chiesa italiana, con i suoi vescovi e Cardinali, della democrazia e dello Stato? Qualcuno dovrà pur ricordare che nella separazione tra Stato e Chiesa, dopo l'unione pagana delle funzioni del sacerdote col magistrato civile, la religione non fa parte dello "jus publicum", la legge umana non fa parte di quella divina con la Chiesa che la amministra, le istituzioni pubbliche e i loro atti sono autonomi dalle cattedre dei vescovi e dal magistero confessionale.

Il cittadino medico a cui si ordina di agire in nome di una terza identità - suprema - , quella di cattolico, non obietta in nome della sua coscienza, ma obbedisce ad un'autorità che si contrappone allo Stato, e chiede un'obbedienza superiore, definitiva, totale alla Verità maiuscola, fuori dalla quale tutto è relativismo. Solo che in democrazia ogni verità è relativa, anche le fedi e i valori sono relativi a chi li professa e nessuno può imporli agli altri. Perché non esiste una riserva superiore di Verità esterna al libero gioco democratico, il quale naturalmente deve garantire la piena libertà per ogni religione di pronunciarsi su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato, per ribadire la sua dottrina. Sapendo che così la Chiesa parla alla coscienza dei credenti e di chi le riconosce un'autorità morale, ma la decisione politica concreta nelle sue scelte spetta all'autonoma decisione dei laici - credenti e non credenti - sotto la loro responsabilità: che è la parola della moderna e consapevole democrazia, con cui Barack Obama ha siglato l'avvio della sua presidenza.

Dunque non esiste una forma di "obbligazione religiosa" a fondamento delle leggi di un libero Stato democratico, nel quale anzi nessun soggetto può pretendere " di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere di possederla". Ne dovrebbe discendere finalmente una parità morale nella discussione pubblica, negando il moderno pregiudizio per cui la democrazia, lo Stato moderno e la cultura civica che ne derivano sono carenti senza il legame con l'eternità del pensiero cristiano, sono insufficienti nel fondamento. È da questo pregiudizio che nasce la violenza del linguaggio della nuova destra cattolica contro chi richiama la legge dello Stato, le sentenze dei tribunali, le norme repubblicane. Come se per i laici la vita non fosse un valore, e praticassero la cultura della morte. Come se il concetto di libertà per una famiglia dilaniata, di fraternità per un padre davanti ad una prova suprema, di condivisione per il suo dolore che non è immaginabile, non contassero nulla. Come se la coscienza italiana fosse solo cattolica. Infine, come se la coscienza cattolica, in democrazia, fosse incapace di finire in minoranza davanti allo Stato.


(24 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La politica gregaria
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 10:05:14 am
L'EDITORIALE -

La strada più semplice per l'esecutivo è la più vile: quella dei provvedimenti amministrativi

La politica gregaria

di EZIO MAURO


Fermiamoci un momento a ragionare, se possibile, sull'azione del governo nei confronti di Eluana Englaro. La ragazza è dentro una stanza a cui guarda tutta l'Italia, con i dubbi profondi e la trepidazione che questa tragedia provoca in ogni persona non accecata dall'ideologia, e con lei c'è il padre che non chiede affatto silenzio, ma anzi sollecita una discussione pubblica, accompagnata dal rispetto per quella particolare vicissitudine: come quando in ospedale si tira una tenda intorno alle ultime ore di un malato morente. In quella stanza, dopo rifiuti e ricatti, Beppino Englaro chiede allo Stato di poter porre fine ad un'esistenza vegetativa, dopo che per 17 anni si è registrata una situazione irreversibile. Lo fa in nome di una convinzione di sua figlia, di una sentenza della Corte d'Appello di Milano e della Cassazione, e soprattutto lo fa in nome dell'amore e del dolore che lui più di ogni altro prova per Eluana.

Fuori, passando definitivamente dalla testimonianza dei valori cristiani alla militanza, la Chiesa muove fedeli e obiettori, proteste contro l'"omicidio" e l'"assassinio", invocazioni ad Eluana perché si "risvegli", come se questa non fosse purtroppo una superstizione, e come se la scienza che dice il contrario fosse falsa, anzi complice, dunque colpevole.

Questo governo pagano, figlio di una cultura che ha paganizzato l'Italia, è diviso dalla religione dei sondaggi (i quali danno ragione alla scelta del padre di Eluana che vuole infine liberare il corpo di sua figlia da questo simulacro di vita) e il richiamo della Chiesa, che con quel corpo totemico vuole ribadire non solo i suoi valori eterni, ma anche il suo controllo della vita e della morte.

La strada più semplice per l'esecutivo è la più vile, quella dei provvedimenti amministrativi, cioè di un diktat camuffato. Si minacciano ispezioni alla clinica, si chiedono informazioni ufficiali, si cavilla sulla convenzione tra la Regione e la casa di cura, immiserendo la grandezza della tragedia, che impone a tutti il dovere di essere chiamata col suo nome, e di essere affrontata con la responsabilità conseguente, nel discorso pubblico dove la famiglia Englaro l'ha voluta portare: probabilmente per rendere quella morte non inutile agli altri, meno priva di significato.

Quando la pressione aumenta, nella sera di mercoledì, il governo pensa ad un decreto. Uno strumento legislativo di assoluta necessità ed urgenza, che in questo caso sarebbero determinate da un caso specifico, da una singola persona. E soprattutto, contro una sentenza della magistratura passata in giudicato. Tutto ciò si verificherebbe per la prima volta nella storia della Repubblica, con un'anomalia che configurerebbe una vera e propria rottura dell'ordinamento costituzionale. Vediamo perché.

La sentenza della Cassazione non impone la fine della vita di Eluana Englaro: stabilisce che si può procedere con "l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante alimentazione di sondino nasogastrico". Questo atto di interruzione chiesto da un padre-tutore per una figlia in stato vegetativo permanente dal 1992, per la giustizia italiana non rappresenta dunque un omicidio ma l'esecuzione di un diritto previsto dall'articolo 32 della Costituzione, il diritto a rifiutare le cure.

Con questa pronuncia, la Cassazione afferma con chiarezza che l'alimentazione forzata artificiale è un "trattamento sanitario", secondo la formula della Costituzione: mentre il decreto in un unico articolo che il governo ha pensato di varare nega proprio questo principio, e dunque non consente di seguire l'articolo 32, vincolando quindi il malato a quell'alimentazione artificiale per sempre. Per aggirare la Costituzione, si cambia il nome e la natura ad un trattamento praticato nelle cliniche e negli ospedali, lo si riporta dentro l'ambito del cosiddetto "diritto naturale", fuori dalla tutela dei diritti costituzionali.

Ma in questo modo, attraverso il decreto, saremmo davanti ad un aperto conflitto tra due opposte pronunce non solo sulla medesima materia, ma sullo stesso caso: una sentenza della magistratura e un provvedimento d'urgenza del governo con vigore immediato di legge. Solo che nel nostro ordinamento il legislatore può cambiare il diritto finché una sentenza non diventa irrevocabile, cioè non più impugnabile, vale a dire passata in giudicato. Non siamo dunque soltanto davanti ad un conflitto: ma al problema dell'ultima parola in democrazia, al principio dell'intangibilità del giudicato, alla regola stessa della separazione dei poteri. Senza quel principio e questa regola, una qualunque maggioranza parlamentare a cui non piace una sentenza "definitiva" la travolge con una nuova legge, modificando il giudicato, intervenendo come supremo grado di giudizio, improprio, dopo la Cassazione.

Naturalmente il Parlamento è sovrano nel potere di legiferare su qualsiasi materia, cambiando qualsiasi legge, qualunque sia stato il giudizio in merito della magistratura. Ma questo vale per il futuro, non per i casi in corso, anzi per un singolo caso, per un solo cittadino, e proprio per vanificare una sentenza. Si tratterebbe di un decreto contro una sentenza, definitiva: e mentre la si attua. Nemmeno nell'era di Berlusconi, dove si è cambiato nome ai reati, e si è creata un'immunità speciale del Premier, si era giunti fino a questo punto, che rende il legislatore giudice di ultima istanza - quando lo ritiene - e viola l'autonomia della funzione giudiziaria.

Per queste ragioni di patente incostituzionalità è molto probabile che il capo dello Stato abbia frenato ieri sia la necessità che l'urgenza del governo, invitandolo a riflettere. La falsa rappresentazione che vuole la destra capace di parlare della vita e della morte, e gli altri, i laici, prigionieri dei diritti e del diritto, si rovescia in questo cavillare anticostituzionale del berlusconismo gregario, che riprenderà da oggi la strada della viltà amministrativa, usando qualsiasi invenzione strumentale per bloccare la volontà del padre-tutore di Eluana.

Se il decreto salta, si salva il principio dell'autonomia tra i poteri dello Stato. Resta da chiarire, purtroppo, la capacità di autonomia della politica italiana, del suo governo, del Parlamento e di questa destra davanti alle pretese della Chiesa. Che ha tutto il diritto di dispiegare la sua predicazione e di affermare i suoi valori, ma non di affermare una sorta di idea politica della religione cristiana, trasformando il cattolicesimo italiano da religione delle persone a religione civile, con forza di legge.


(6 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La svolta bonapartista
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2009, 05:20:25 pm
IL COMMENTO

La svolta bonapartista

di EZIO MAURO

 
UNA questione di vita e di morte, una tragedia familiare, un caso di amore e di disperazione tra genitori e figlia che cercava di sciogliersi nella legalità dopo un tormento di 17 anni, è stato trasformato ieri da Silvio Berlusconi in un conflitto istituzionale senza precedenti tra il governo e il Quirinale, con il Capo dello Stato che non ha firmato il decreto d'urgenza del governo sul caso Englaro, dopo aver inutilmente invitato il Premier a riflettere sulla sua incostituzionalità, e con Berlusconi che ha contestato le prerogative del Presidente della Repubblica, annunciando la volontà di governare a colpi di decreti legge senza il controllo del Quirinale. Pronto in caso contrario a "rivolgersi al popolo" per cambiare la Costituzione.

Il Presidente del Consiglio non era mai intervenuto in questi mesi nel dibattito morale, politico e culturale sollevato da Beppino Englaro con la scelta di chiedere la sospensione della nutrizione artificiale per sua figlia, ponendo fine ad un'esistenza vegetativa di 17 anni, giudicata irreversibile da 14. Ma ieri l'istinto populista ha consigliato al Premier di scegliere proprio il dramma pubblico di Eluana, giunto al culmine della sua valenza emotiva sollecitata dalla cornice di sacralità guerresca del Vaticano, per sfidare Napolitano su una questione di fondo: il perimetro e la profondità del potere del suo governo, che Berlusconi vuole sovraordinato ad ogni altro potere, libero da vincoli e controlli, dominus incontrastato del comando politico.

È uno scontro che segna un'epoca, perché chiude la prima fase di un quindicennio berlusconiano di poteri contrastati ma bilanciati e ne apre un'altra, che ha l'impronta risolutiva di una resa dei conti costituzionale, per arrivare a quella che Max Weber chiama l'"istituzionalizzazione del carisma" e alla rottura degli equilibri repubblicani: con la minaccia di una sorta di plebiscito popolare per forzare il sistema esistente, disegnare una Costituzione su misura del Premier, e far nascere infine un nuovo governo, come fonte e risultato di questa concezione tecnicamente bonapartista, sia pure all'italiana.

Il caso Eluana, dunque, nel momento più alto della discussione e della partecipazione del Paese, si è ridotto a pretesto e strumento di una partita politica e di potere. Berlusconi aveva infine ceduto alle pressioni del Vaticano e all'opportunità di dare alla sua destra senz'anima e senza tradizione un'identità cristiana totalmente disgiunta dalle biografie e dai valori, ma legata alla precettistica e alle politiche concrete della Chiesa: così ieri mattina ha annunciato al Consiglio dei ministri la volontà di varare un decreto legge di poche righe, per vanificare la sentenza definitiva della magistratura che accoglie la richiesta di Beppino Englaro, e per impedire la sospensione già avviata ad Udine dell'alimentazione e dell'idratazione per Eluana.

Il Presidente della Repubblica, che già aveva spiegato giovedì al governo l'insostenibilità costituzionale del decreto, ha deciso di assumersi su un caso così delicato una pubblica responsabilità, che non si presti ad equivoci davanti all'esecutivo, al Parlamento, alla pubblica opinione. Dando forma e sostanza all'istituto della "moral suasion", ha scritto una lettera a Berlusconi in cui spiega le ragioni che rendono impossibile il decreto, se si guarda - come il Capo dello Stato deve guardare - soltanto alla Costituzione, ai suoi principi, ai criteri che stabilisce per la decretazione d'urgenza. C'è una legge sul fine-vita davanti al Parlamento, dice Napolitano nel messaggio, c'è la necessità di rispettare una pronuncia definitiva della magistratura, se non si vuole violare "il fondamentale principio della separazione e del reciproco rispetto" tra poteri dello Stato, c'è la norma costituzionale dell'uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge, quella sulla libertà personale, quella sulla possibilità di rifiutare trattamenti sanitari. Ci sono poi i precedenti di altri inquilini del Quirinale - Pertini, Cossiga, Scalfaro - che non hanno firmato decreti-legge, e soprattutto c'è la funzione di "garanzia istituzionale" che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Da qui l'invito al governo di "evitare un contrasto", riflettendo sulle ragioni del no del Presidente.

Con ogni probabilità è stato questo richiamo al ruolo di garanzia del Quirinale, unito al gesto pubblico di rendere nullo il decreto del governo, rifiutandosi di emanarlo, che ha convinto Berlusconi a sfruttare l'occasione per aprire la contesa suprema sul potere al vertice dello Stato. In conferenza stampa il Premier ha spiegato la sua scelta sul caso Englaro con motivazioni morali ("Non mi voglio sentire responsabile di un'omissione di soccorso per una persona in pericolo di vita") ma anche con giudizi medico-scientifici approssimativi ("Lo stato vegetativo potrebbe variare"), e con affermazioni incongrue e sorprendenti: "Eluana è una persona viva, che potrebbe anche avere un figlio".

Ma il cuore del ragionamento berlusconiano è un altro: la lettera di Napolitano è impropria, perché il giudizio sulla necessità e urgenza di un decreto spetta per Costituzione al governo e non al Quirinale, mentre il giudizio di costituzionalità tocca al Parlamento. Non solo, ma il decreto d'urgenza è l'unico vero strumento di governo in un sistema costituzionale antiquato. E se il Capo dello Stato "decidesse di caricarsi della responsabilità di una vita", non firmando il decreto, il governo si ribellerebbe invitando il Parlamento "a riunirsi ad horas" per approvare "in due o tre giorni" una legge stralcio che anticipi il testo in discussione al Senato, bloccando così l'esito della vicenda Englaro. Eluana, tuttavia, è già sullo sfondo, ridotta a corpo ideologico e a pretesto politico. Ciò che a Berlusconi interessa dire è che non si può governare il Paese senza la piena e libera potestà governativa sui decreti legge. "Si può arrivare ad una scrittura più chiara della Costituzione. Senza la possibilità di ricorrere a decreti legge, tornerei dal popolo a chiedere di cambiare la Costituzione e il governo".

La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l'unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un'aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all'esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell'urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato. Un Capo dello Stato minacciato pubblicamente dal Premier, se non firma il decreto per un deficit costituzionale, di "caricarsi della responsabilità di una vita". Qualcosa che non era mai avvenuto nella storia della Repubblica, per i toni politici, per i modi istituzionali, per la sostanza costituzionale: e anche per la suggestione umana.

La risposta di Napolitano poteva essere una sola: con rammarico, il Presidente non firma, perché il decreto è incostituzionale. L'assunzione di responsabilità del Quirinale rende nullo il decreto, e costringe Berlusconi a imboccare la strada parlamentare, sia pure con le forme improprie annunciate ieri. Ma la lacerazione rimane, il progetto di salto costituzionale anche. È un progetto bonapartista, con il Premier che chiede di fatto pieni poteri in nome del legame emotivo e carismatico con la propria comunità politica, si pone come rappresentante diretto della nazione e pretende la subordinazione di ogni potere all'esecutivo. Avevamo avvertito da tempo che qui portavano le leggi ad personam, i "lodi" che pongono il Premier sopra la legge, la tentazione continua di sovraordinare l'eletto dal popolo agli altri poteri. Ieri, Napolitano ha saputo opporsi, in nome della Costituzione. La risposta del Premier è stata che il Capo dello Stato non potrà mai più opporsi, e la Costituzione cambierà.

Ecco perché la data di ieri apre una fase nuova nella vita del Paese, una Terza Repubblica basata su una nuova geografia del potere, una nuova legittimità costituzionale, un nuovo concetto di sovranità, trasferito dal popolo al leader. Si può far finta di non vedere cosa sta accadendo, con l'immorale pretesto della tragedia di Eluana? Ieri la voce più forte a sostegno di Napolitano è stata quella del Presidente della Camera, che sembra ormai muoversi in un perimetro laico e costituzionale, da destra repubblicana. Dall'altra sponda del Tevere, mai così stretto, è venuto il plauso a Berlusconi del Cardinal Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, e la sua "profonda delusione" per la scelta di Napolitano di non firmare il decreto. Come se insieme alle chiavi di San Pietro il Vaticano avesse anche la golden share del governo italiano e delle sue libere istituzioni. Certo, sotto gli occhi attoniti del Paese e sotto gli occhi che non vedono di Eluana Englaro ieri è andato in scena uno scambio di favori al ribasso, col Dio italiano consegnato alla destra berlusconiana, come un protettorato, in cambio di una difesa di valori disincarnati e precetti vaticani, da parte di un paganesimo politico servile e mercantile. Dal caso Eluana non nasce una forza cristiana: ma un partito ateo e clericale insieme, che è tutta un'altra cosa.

(7 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Principe e popolo
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 12:13:27 pm
IL COMMENTO

Principe e popolo

di EZIO MAURO


Concepito come una "cerimonia" (lo ha detto Emilio Fede) più che come un congresso, l'atto fondativo del Popolo della Libertà è tutto nel profilo biografico dell'avventura politica berlusconiana che il Cavaliere ha celebrato ieri dal palco, consacrando se stesso non soltanto nel fondatore della destra moderna ma nel destino perenne del Paese, o almeno del 51 per cento degli italiani.

La rivisitazione eroica degli ultimi quindici anni consente al paesaggio politico e retorico attorno al Cavaliere di rimanere immobile, tutto ideologico come nel '94. Così per il Premier la sinistra resta ancora e per sempre comunista, il Pd è un bluff, il riformismo è un'illusione, anzi la sinistra sta addirittura uscendo di scena, e la stessa parola "non piace più". Un ideologismo coatto, che vuole tenere l'Italia dentro uno schema vecchio e impaurito, mentre rinuncia a parlare all'intero Paese.

Non è infatti al Paese che guarda Berlusconi, ma al "popolo", vero soggetto politico del nuovo movimento, strumento di consacrazione quotidiana del carisma egemone, che nel popolo più che nelle istituzioni cerca la sua forza e la sua legittimazione. Anche il concetto di libertà è giocato in questa chiave, con una diffidente separazione-contrapposizione tra il cittadino e lo Stato, come se la politica - adesso che Berlusconi ha compiuto la sua rivoluzione "liberale, borghese, popolare, moderata e interclassista" - si riassumesse nella delega al Principe, con la fine del discorso pubblico così come lo abbiamo finora conosciuto in Occidente.

La Costituzione resta sullo sfondo, citata dopo il Papa, sovrastata da un moderno "patriottismo della nazione", della tradizione, delle radici cristiane dell'Italia in cui si recupera anche la "romanità". E' il profilo classico di una destra carismatica che può forse illudere il Paese di semplificare la complessità della crisi ma che rischia di non governarla: perché il vecchio populismo non può reggere a lungo la sfida della modernità nel cuore dell'Europa.

(28 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Una risposta al premier
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 12:28:41 pm
L'EDITORIALE

Una risposta al premier


di EZIO MAURO

 

È MOLTO facile rispondere alle parole di Silvio Berlusconi pronunciate ieri contro "Repubblica", che nell'inchiesta-documento di Giuseppe D'Avanzo gli aveva rivolto dieci domande per chiarire gli aspetti più controversi del caso politico nato attorno alle candidature delle veline nelle liste Pdl, alla denuncia di "ciarpame politico" di Veronica Lario, alla festa di compleanno della giovane Noemi alla presenza del Premier, nel ruolo indiscusso di "Papi". Molto più difficile, per il Cavaliere, rispondere alle domande del nostro giornale. Anzi, impossibile. Berlusconi non sa rispondere, davanti alla pubblica opinione, perché con ogni evidenza non può. Ciò che ha detto su questa storia, nei lunghi monologhi mai interrotti da una vera richiesta di chiarimento, cozza fragorosamente con ciò che hanno raccontato gli altri protagonisti, e soprattutto con quel che la moglie sa e ha denunciato. Meglio dunque tacere, rifiutare la verità, la trasparenza e il confronto, il che per un uomo pubblico equivale alla fuga. Una fuga accompagnata ovviamente da insulti per il nostro giornale, perché il rumore (domani amplificato dai manganelli di carta al suo servizio) copra il vuoto, la mancanza di coraggio e la scelta necessitata dell'ambiguità.

Ma l'uomo in fuga è il Presidente del Consiglio. Dunque questa incapacità o impossibilità di fare chiarezza, cercando la verità, è immediatamente un fatto politico, un handicap della leadership, una macchia istituzionale qualsiasi cosa nasconda, fosse anche soltanto l'incapacità di accettare un contraddittorio sui lati che restano poco chiari di una vicenda che ha fatto il giro dei giornali e dei siti di tutto il mondo. Una storia nella quale l'unica cosa che non c'entra proprio nulla è la privacy.

Berlusconi è infatti l'uomo che ha unito pubblico e privato fino a confonderli, con la sua biografia trasformata in programma elettorale per gli italiani e spedita nelle case di 50 milioni di elettori all'inizio della sua avventura politica: mentre oggi, quindici anni dopo, continua a vendere sul rotocalco di famiglia gli ex voto elettorali della sua infanzia aureolati nella patina reale del fotoromanzo, con l'immagine adolescente della Prima Comunione poche pagine prima del brindisi anziano di Casoria.

Le domande di "Repubblica" volevano appunto bucare questa nuvola nazional-popolare dove si sta cercando di trasportare nottetempo il caso Berlusconi, lontano dalla responsabilità istituzionale e politica di dire il vero agli italiani. Nascevano semplicemente, come abbiamo detto a Palazzo Chigi proponendo un confronto diretto col Premier, dalla constatazione che a due settimane dall'inizio della vicenda troppe cose rimanevano da spiegare, anche perché nessuna vera richiesta di chiarimento era stata rivolta al Cavaliere, e la sede televisiva del "rendiconto" - quella del suo personale notaio a "Porta a Porta" - si era in realtà rivelata la sede di un lungo monologo: per accusare la moglie ed esigerne le scuse, invece di rispondere alla sua denuncia (la politica che seleziona veline diventa "ciarpame senza pudore", "mio marito frequenta minorenni", "mio marito non sta bene, ho implorato coloro che gli stanno accanto di aiutarlo") rovesciando la realtà davanti agli italiani.

Questa mancanza di chiarezza e di confronto, con domande precise e risposte nette, ha ingarbugliato le cose. Tra il racconto del Premier e i racconti degli altri protagonisti di questa vicenda si sono allargate incongruenze evidenti, pubbliche, inseguite da spiegazioni postume che aprivano nuovi fronti controversi e dunque suscitavano altre domande. In tutto il mondo civile, dove esiste una pubblica opinione e la funzione autonoma della stampa, le contraddizioni del potere e la mancanza di chiarezza sono lo spazio naturale del giornalismo, del suo lavoro d'inchiesta, del suo sforzo documentale e infine delle sue domande.

Questo abbiamo provato a fare, senza dare giudizi e senza una tesi finale da dimostrare. Ci interessa il percorso tra le contraddizioni di un uomo pubblico in una vicenda pubblica, mettendo a confronto versioni e racconti che vanno tra loro in dissonanza, per domandare infine al protagonista di spiegare perché, proponendo la sua verità dei fatti.

Oggi dobbiamo prendere atto che il Presidente del Consiglio, invece di rispondere alle domande, scappa dalle vere questioni aperte che chiamano in causa la sua credibilità, e lo fa insultando, cioè cercando di parlar d'altro. "Invidia e odio", a suo parere, sono i motivi della "campagna denigratoria che "Repubblica" e il suo editore stanno conducendo da giorni" contro il Presidente. Che c'entra l'editore con l'inchiesta di un giornale? Non esistono scelte autonome da parte di un quotidiano nella cultura proprietaria del Premier? Cosa bisogna dunque pensare delle domande che proprio ieri il "Giornale" berlusconiano rivolgeva in prima pagina a Di Pietro? E soprattutto, cosa c'entrano con un'inchiesta giornalistica i sentimenti dell'odio e dell'invidia? Può il Cavaliere concepire, per una volta, che si possa indagare sui suoi atti e persino criticarli senza odiarlo, ma semplicemente giudicandolo? Può rassegnarsi a pensare che esiste ancora qualcuno, persino in questo Paese, che non lo invidia affatto, né a Roma né ad Arcore né a Casoria? Può infine ammettere che dieci domande non costituiscono una denigrazione, soprattutto se le si può spazzare via dal tavolo con la semplice forza della verità?

Il Cavaliere denuncia infine che "attacchi di così basso livello" giungano in prossimità del voto europeo: ma i tempi e soprattutto il livello di questa vicenda non li abbiamo scelti noi, nemmeno la location di Casoria, le luci delle fotografie festose e i comprimari, i monili, la favola bella dei genitori che si baciano in esclusiva per "Chi", la ragazza incolpevole di tutto ma soprattutto sicura che approderà negli show televisivi o in Parlamento, l'uno o l'altro intercambiabili, l'importante è sapere che "deciderà Papi". Non abbiamo deciso noi che tutto questo valesse prima la critica della Fondazione "Farefuturo" di Fini e poi lo strappo di un divorzio pubblico come l'offesa ricevuta, dunque politico come tutto ciò che accade al Cavaliere: da parte di una moglie che il grande rotocalco con cui si impagina oggi l'Italia dipinge come incapace di autonomia, fragile e sola, dunque preda di suggeritori mediatici e politici, unica spiegazione che ripristini la sacralità mistica del carisma intaccato dall'interno, quando una donna ha deciso (prima e unica, in un quindicennio) di rompere il cerchio magico dell'intangibilità sciamanica del Capo.

Per il Cavaliere, chi lo critica non può avere autonomia. Per lui, l'adesione è amore e fede, dunque la critica è tradimento e follia, le domande - non essendo contemplate e per la verità neppure molto praticate, nel conformismo del 2009 - diventano "odio e follia", in un discorso pubblico fatto di vibrazioni, dove tutto è emotivo.

Che cosa concludere? La storia che ha fatto il giro del mondo resta tutta da chiarire, perché il Presidente del Consiglio sa solo minacciare, ma non può spiegare. Dunque continueremo a fare domande, come fossimo in un Paese normale, per quei cittadini che chiedono di sapere perché vogliono capire, rifiutando di entrare nel grande fotoromanzo italiano che sta ingoiando quel che resta della politica.

(15 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Dov'è la vergogna
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:33:40 am
IL COMMENTO

Dov'è la vergogna

di EZIO MAURO


 IMMERSO fino al collo nello scandalo Mills, rispetto al quale le leggi ad personam lo hanno aiutato a fuggire la condanna ma non il disonore, impegnato a lottizzare in fretta e furia la Rai prima delle elezioni, ieri Silvio Berlusconi ha perso la testa insultando "Repubblica". E' successo quando Gianluca Luzi, il nostro notista politico, gli ha chiesto durante una conferenza stampa se e come avrebbe risposto alle dieci domande che gli abbiamo rivolto sul caso del "ciarpame politico" sollevato dalla moglie con la denuncia dei suoi metodi di selezione delle candidate, i suoi comportamenti da "malato" che "frequenta minorenni".

"Vergognatevi", ha intimato il Presidente del Consiglio. Per aver colto le contraddizioni tra le sue versioni dei fatti e quelle degli altri protagonisti della vicenda? Per avergli chiesto di chiarirle? Per aver posto queste domande in pubblico? Per aver rotto il conformismo italiano che è l'altra faccia del cesarismo? O per non aver censurato la denuncia della moglie? Spiace per il premier ma le contraddizioni del potere e le domande che ne nascono sono lo spazio proprio del giornalismo. Che cosa intenda il Capo del governo quando dice che "se Repubblica cambiasse atteggiamento potremmo trovare un accordo" non è chiaro ma è impossibile.

Non cerchiamo "accordi", ma trasparenza. E in ogni caso, non cambieremo atteggiamento anche perché l'imbarazzo di Berlusconi e la sua ira spingono a cercarne le ragioni, come deve fare un giornale. Il premier dovrà rassegnarsi. Non tutto in questo Paese è "arrangiabile", risolvibile con qualche patto oscuro. Se è capace di togliere le sue contraddizioni dal tavolo, lo faccia davanti ai cittadini. Altrimenti, continueremo a dire che non può farlo, e a chiedergli perché.

Per il resto il Presidente del Consiglio ripete la sua invettiva abituale: ora rivendica una dimensione privata, dopo che anche la sua Prima Comunione viene spacciata dai suoi giornali come volantino elettorale. E insiste sull'odio "politico" e l'invidia "personale", come se non fosse possibile la critica dei cittadini che non hanno bisogno di odiarlo e non si sognano nemmeno di invidiarlo, perché gli basta giudicarlo.

"Gli italiani stanno con me, con me", ha urlato alla fine il premier. Intendendo che il numero dei consensi oltre al pieno diritto di governare gli conferisce anche l'immunità da critiche, osservazioni e domande. Non è così in nessun paese democratico, signor Presidente, s'informi, entrando finalmente in Occidente. Ma il fatto che lei lo pensi, per tappare la bocca ai giornali, ci fa davvero vergognare un po'.

(20 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il romanzo della realtà
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:20:55 am
SPETTACOLI & CULTURA      IL COMMENTO

Il romanzo della realtà

di EZIO MAURO


Quando capita che la letteratura operi un disvelamento della realtà, portando il lettore a conoscere, a capire, a prendere coscienza e dunque a diventare compiutamente cittadino, quali obblighi nascono per lo scrittore? Obblighi davanti alle parole, al loro uso e al loro significato, dunque davanti alla scrittura, alla sua funzione pubblica di fronte al Paese e alla comunità dei lettori. La risposta di Roberto Saviano dopo il successo mondiale di "Gomorra" è molto chiara: lo scrittore civile alla fine del libro ha l'obbligo di proseguire il suo lavoro con altri mezzi. Deve continuare a parlare ai suoi lettori, deve rivolgersi alla loro disponibilità a capire, deve occupare lo spazio pubblico che la letteratura gli ha aperto dentro la società.

Così nascono gli articoli di Saviano per i suoi giornali, "Repubblica" e "L'Espresso". Reportage, editoriali, incontri, recensioni rivisitate. Sono i movimenti della criminalità, indagati con la conoscenza dello scienziato, è il dialogo con un altro scrittore, è la curiosità di approfondire il mondo della mafia russa, è una storia di pugili, o un'immersione nella graphic novel. Con il modo di guardare e di raccontare preso dalla letteratura e portato sul quotidiano, e il risultato di un format narrativo inedito e universale, capace di spiegare raccontando.

Ma c'è naturalmente qualcosa di più, nella dimensione civile di questa testimonianza letteraria. C'è una presenza. Ciò che il crimine vorrebbe annullare in Saviano. Il suo esserci, il suo saper guardare e capire, il suo modo di spiegare e di farsi ascoltare. Sul giornale l'impegno di "Gomorra" continua, il patto col lettore si rinnova, mentre un altro libro si prepara il dialogo prosegue, l'indagine dello scrittore va avanti sulla spinta dei fatti quotidiani, si allarga al caso Eluana, aggiunge il Nord al Sud, diventa un'inchiesta permanente sull'Italia.

Tutto questo, dà modo a Roberto di essere presente. Con la fatwa criminale che una società democratica e avanzata come la nostra accetta rassegnata, volevano impedirgli una presenza, una testimonianza continua, una partecipazione. Non potendo più cancellare Gomorra, volevano cancellare il suo autore dalla vita civile, togliergli la parola. Ecco perché Saviano dice qui, in questo libro che raccoglie i suoi articoli, come per lui scrivere significhi prima di tutto esistere, non perdere la parola, la possibilità di darle un significato di realtà, sentendola risuonare nel Paese che tollera la sua condanna ad una vita nascosta.

Si sono presi le sue giornate, le domeniche nel cortile di un carcere giocando a palla col magistrato di guardia, otto agenti che lo circondano per strada prima di ricacciarlo in macchina, le case da cambiare ogni mese e senza l'aria di un balcone. Ma il giornale gli custodisce un pubblico costituito, pronto, recettivo, che non rinuncia a sapere perché vuole capire, dunque gli chiede di parlare, cioè di scrivere. Il giornale lo porta dentro la vita quotidiana, tra la gente che non può fisicamente incontrare.

Il giornale non è letteratura, perché ha altri obblighi, dunque altre regole e altri canoni, altri tempi. Ma può distribuire l'indagine di uno scrittore, può avvolgerla nella vicenda quotidiana, può stimolarla con la realtà, può portarla dove i libri non arrivano, in uno spazio di lettura più breve, nell'arco d'impegno di una pagina, nella ri-costruzione della giornata che abbiamo attraversato, nell'urto della scrittura e delle idee con i fatti. Il giornale, non bisogna stancarsi di dirlo, fa parte della vita di un Paese e non della sua rappresentazione, così come il giornalismo non è un'arte ma una professione civile, soprattutto non è una struttura mimetica, ma vive nel divenire della vicenda quotidiana e del suo primo impatto. Qui, proprio qui e proprio per questo, la scrittura civile può essere dirompente.

Ecco perché non vogliono che Roberto scriva sul suo giornale, e lo hanno detto chiaramente. Ed ecco, semplicemente, perché continua a farlo.


(9 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La crepa
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:23:27 am
IL COMMENTO

La crepa

di EZIO MAURO


L'onda lunga di destra che spazza il Paese si è arrestata domenica sera, quando si sono aperte le urne del voto europeo. Un appuntamento che arriva appena un anno dopo il trionfo berlusconiano alle politiche, con una maggioranza schiacciante, e al culmine di un ciclo in cui il sistema di potere dominante ha sprigionato la sua massima potenza. In un giorno, quella macchina da guerra si è arrestata, nel momento esatto in cui il leader chiedeva e profetizzava il potere assoluto, con il 45 per cento dei voti per sé e l'alleanza con la Lega oltre il 50. Questa era la soglia politicamente sacra, la seconda presa del potere in un anno, la misura che trasforma il consenso in adesione, il governo in comando e il comando in dominio.

Tutto questo non è avvenuto. Ecco perché il Cavaliere tace da due giorni, nonostante nello spoglio delle amministrative, ieri, l'onda si stia richiudendo, con la destra che porta via pezzi interi di Nord trainata dal boom della Lega, conquista Napoli, si incunea nelle regioni rosse, con un Pd in calo ovunque e fortemente indebolito. Delle 51 province che aveva conquistato nel 2004 (solo 8 erano andate al centrodestra) il Pd ne tiene al primo turno appena 15, la destra ne conquista 25, altre 19 vanno al ballottaggio.

La destra italiana rimane dunque fortissima, pesantemente insediata nel territorio, rivitalizzata - e non solo al Nord - dall'energia elettorale e politica del partito di Bossi. Ma se il Pd nella grande sfida delle europee perde 4 milioni di voti, che sono tantissimi, il Pdl ne perde quasi tre milioni (2,8), e inaspettatamente. Si può dunque vincere, come Berlusconi ha fatto, e nello stesso tempo vedere con preoccupazione la grande crepa che si è aperta all'improvviso nel gigantesco monumento equestre che il Cavaliere stava erigendo a se stesso, simbolo perenne dell'alleanza tra il Capo e il suo popolo.
Bisogna partire da qui, dalla sorpresa psico-politica di un Paese che non si consegna mani e piedi al suo incantatore, convinto di averlo sedotto dopo la conquista. Certo, il premier può consolarsi con la netta sconfitta del Pd che cala precipitosamente di 7 punti.

Ma proprio da questo dato nasce una domanda che non si può eludere: di fronte al calo fortemente annunciato del Pd e mentre le sinistre battono in ritirata in tutta Europa, come mai in Italia la destra non se ne avvantaggia, ma anzi perde due milioni di voti, per di più senza che sia suonato un allarme, come un vuoto che si allarga all'improvviso in un meccanismo di consenso che si pensava garantito?

Oltre la soglia dei numeri, che parlano chiaro, c'è in politica una soglia simbolica che parla all'immaginario dei cittadini. Nei due principali partiti l'ultimo anno aveva fissato destini rovesciati. Per il Pd si profetizzava la polverizzazione, lo schianto, la sicura scissione (annunciata pubblicamente proprio dal Cavaliere), dunque la fine dell'avventura cominciata meno di due anni fa con Veltroni. Per il Pdl, al contrario, si annunciava lo sfondamento, con una crescita capace di portare la destra oltre la maggioranza assoluta, in modo da poter cambiare la Costituzione da sola, senza più impacci e condizionamenti. "Il Pdl è al 46 per cento", aveva garantito il premier il 6 maggio. "Siamo sopra il 40 per cento e quindi siamo il partito più forte del Ppe", aveva aggiunto il 16 maggio. "Alle europee l'obiettivo è molto più del 40 per cento e i sondaggi ci danno al 45" aveva spiegato il 23 maggio. "Gli ultimi sondaggi parlano di un Pdl al 43-45 e io sono certo che sarà così", aveva concluso il 30 maggio.

Non è andata così, e il Pdl ruzzola dieci punti più in basso della profezia, perdendo il 2,1 per cento rispetto alle politiche. Soprattutto, si infrange il mito dell'invulnerabilità del Capo, condannato a vincere sempre, dopo la riconquista che lo ha riconsacrato premier nel 2008. La vulnerabilità del Cavaliere era già emersa chiaramente con il volto della paura nell'ultimo mese, sotto l'urto dello scandalo nato dal "ciarpame politico", cioè dalle veline candidate per amicizia e non per merito politico, secondo una denuncia che ha fatto il giro del mondo. Questo scandalo ha portato alla luce altri casi collegati e controversi, da Noemi ai voli di Stato, alle feste in Sardegna, alle fotografie bloccate dalla magistratura. Tutto ciò è diventato un vero e proprio affare internazionale, commentato e giudicato (negativamente) dalla stampa europea e americana, tanto che persino i giornali italiani se ne sono dovuti occupare di rimbalzo. Le contraddizioni del Cavaliere nei suoi affannosi racconti, le diverse versioni messe in campo l'una dopo l'altra, le bugie accumulate inspiegabilmente e mai spiegate, gli insulti a Repubblica e ai giornali stranieri hanno semplicemente minato la credibilità del premier agli occhi dei cittadini, e anche dei suoi elettori.

La crepa si è aperta qui, nel rapporto di fiducia tra un leader e la sua gente, tra un Capo del governo e il Paese, e ha prodotto quella reazione di disincanto molto prima del previsto: con buona pace dei maestrini che per conformismo invitavano a parlare di ben altri problemi (pur di non parlare di questo), come se la menzogna del potere non fosse il problema principale nel rapporto tra la politica e la pubblica opinione, come l'America insegna. Ciò che troppi non hanno voluto capire, e le televisioni hanno attentamente occultato, lo hanno però capito i cittadini: e lo aveva probabilmente ben compreso il Cavaliere, se rivediamo gli ultimi frenetici giorni della campagna elettorale, dove Casoria sembrava aver sostituito Arcore nella geografia simbolica del berlusconismo.

Tutto ciò è costato consenso, in termini politici e addirittura personali. Nel calcolo delle preferenze, il Cavaliere pigliatutto che aveva sfiorato i tre milioni di voti sul suo nome nel 1994 e nel 1999, e aveva promesso di superare questa volta la soglia, si è fermato a quota 2 milioni e settecentomila. Mancano almeno 250 mila preferenze, e in una democrazia carismatica e populista non è un dato da poco.

La crepa dunque è aperta: ma non avvantaggia il Pd. I democratici sono giunti all'appuntamento con il voto logorati da un anno avventuroso, da risultati sempre critici, dal cambio traumatico non solo di un leader, ma del primo segretario, il fondatore. Le due anime assistono guardinghe ad ogni mossa di Franceschini, lo tengono in equilibrio precario, invece di fondersi si misurano a vicenda quotidianamente. Invece di sommarsi si depotenziano nei veti reciproci. Invece di fondare un nuovo riformismo guardano alle vecchie eredità, che non abbandonano per paura e per calcolo cinico. Piuttosto di lasciare spazio ai giovani (Debora Serracchiani, che ha scalato il partito da sola, ha superato nelle preferenze il capolista arrivato da Roma nel Nordest e persino Berlusconi) si stringono nella vecchia foto di famiglia dell'apparato, sempre uguale a se stessa. Così il partito soffoca appena nato e non decolla, mentre dovrebbe essere liberato per prendere il largo, affidato a forze nuove, con i vecchi capi che garantiscono un deposito di esperienza e di tradizione.
E tuttavia, non si può far finta di non sapere che la vera partita del Pd era il "Primum vivere". Per il rotto della cuffia, dopo un anno disastroso, i democratici hanno salvato la pelle, chi pensava a scissioni deve rimandare il progetto a qualche occasione più conveniente, e lo strumento partito c'è. Malandato, arrugginito, ma in qualche modo c'è. È addirittura a disposizione di chi ci crede, di chi ha voglia di reinterpretarlo inventandolo, rendendolo partecipato, contendibile, aperto, e insieme presente nel Paese, insediato, consapevole della sua identità di sinistra, moderna, europea e occidentale: però sinistra, dunque chiaramente e fortemente alternativa alla destra realizzata che Berlusconi mette in campo ogni giorno.

Un partito di questo tipo può mettere in movimento l'intera area di opposizione. Aiutare la sinistra radicale a dare un valore ai voti ancora una volta dispersi, radunandoli dentro un contenitore politico con una leadership capace di parlare ad una fetta di sinistra; ingaggiare con Di Pietro, dopo la sua clamorosa ascesa, una sfida di responsabilità di fronte ai problemi del Paese, perché l'antiberlusconismo è anche questo; chiedere a Casini, dopo il buon risultato della sua corsa autonoma, di scegliersi un destino politico e culturale riconoscibile e riconosciuto. Solo in questo modo le opposizioni possono diventare un'alternativa. La crepa dimostra che si può contendere l'Italia a Berlusconi, senza lasciargli tregua sulla sua credibilità in crisi, incalzandolo con ciò che gli manca: una politica per il Paese. Un Paese in cui si sta rompendo il lungo incantesimo del Cavaliere.

(9 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il Cavaliere e il suo fantasma
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2009, 12:17:13 pm
IL COMMENTO

Il Cavaliere e il suo fantasma

di EZIO MAURO


Dunque siamo giunti al punto in cui il Presidente del Consiglio denuncia pubblicamente un vero e proprio progetto eversivo per farlo cadere e sostituirlo con "un non eletto dal popolo". Un golpe, insomma, nel cuore dell'Europa democratica, come epilogo dell'avventura berlusconiana, dopo un quindicennio di tensioni continue introdotte a forza nel discorso pubblico italiano: per tenere questo sventurato Paese nella temperatura emotiva più adatta al populismo che può dominare le istituzioni solo sfidandole, fino a evocare il martirio politico.

È proprio questa l'immagine drammatica dell'Italia che l'uomo più ricco e più potente del Paese porta oggi con sé in America, all'incontro con Obama.

Solo Berlusconi sa perché dice queste cose, perché solo lui conosce la verità, che non può rivelare in pubblico, della sciagura che lo incalza. Noi osserviamo il dramma di un leader prigioniero di un clima di sconfitta anche quando vince perché da quindici anni non riesce a trasformarsi in uomo di Stato nemmeno dopo aver conquistato per tre volte il favore del Paese.
Quest'uomo ha con sé il consenso, i voti, i numeri, i fedeli. Ma non ha pace, la sicurezza della leadership, la tranquillità che trasforma il potere in responsabilità. Lo insegue l'altra metà di se stesso, da cui tenta di fuggire, sentendosi ghermito dal fondo oscuro della sua stessa storia. E' una tragedia del potere teatrale e eccessiva, perché tutto è titanico in una vicenda in cui i destini personali vengono portati a coincidere col destino dell'Italia. Una tragedia di cui Berlusconi, come se lo leggesse in Shakespeare, sembra conoscere l'esito, sino al punto da evocare la sua fine davanti al Paese.

In realtà, come è evidente ad ogni italiano di buon senso, non c'è e non ci sarà nessun golpe. C'è invece un rapido disfacimento di una leadership che non ha saputo diventare cultura politica ma si è chiusa nella contemplazione del suo dominio, credendo di sostituire lo Stato con un uomo, il governo con il comando, la politica con il potere assoluto e carismatico.

Oggi quel potere sente il limite della sua autosufficienza. Ciò che angoscia Berlusconi è il nuovo scetticismo istituzionale che avverte intorno a sé, il distacco internazionale, il disorientamento delle élite europee, le critiche della stampa occidentale, la freddezza delle cancellerie (esclusi Putin e Gheddafi), lo sbigottimento del suo stesso campo: dove la regolarità istituzionale di Fini risalta ogni giorno di più per contrasto.

Il Cavaliere sente di aver perso il tocco, che aveva quando trasformava ogni atto in evento, mentre lo spettacolo tragicomico dei tre giorni italo-libici dimostra al contrario che le leggi della politica non sono quelle di uno show sgangherato.

Soprattutto, Berlusconi capisce che la fiaba interrotta di un'avventura sempre vittoriosa e incontaminata si è spezzata, semplicemente perché gli italiani improvvisamente lo vedono invece di guardarlo soltanto, lo giudicano e non lo ascoltano solamente. E' in atto un disvelamento. Questa è la crepa che il voto ha aperto dentro la sua vittoria, e che è abitata oggi da queste precise inquietudini.

Il Cavaliere ha infatti ragione quando indica i quattro pilastri che perimetrano il campo della sua recente disgrazia: le veline, le minorenni, lo scandalo Mills e gli aerei di Stato. Giuseppe D'Avanzo, che su questi temi indaga da tempo con risultati che Berlusconi conosce benissimo, spiega oggi perché siano tutt'altro che calunnie come dice il premier. Sono quattro casi che il Cavaliere si è costruito con le sue mani, che lo perseguitano perché non può spiegarli, che lui evoca ormai quotidianamente mentre tenta di fuggirli, e che formano insieme uno scandalo pubblico, tutt'altro che privato: perché dimostrano, l'uno insieme con l'altro, l'abuso di potere come l'opinione pubblica comprende ogni giorno di più.

E' proprio questo il sentimento del pericolo che domina oggi Berlusconi. Incapace di parlare davvero al Paese, di confrontarsi con chi gli pone domande, di assumersi la responsabilità dei suoi comportamenti, reagisce alzando la posta per trascinare tutto - le istituzioni, lo Stato - dentro la sua personale tragedia: di cui lui solo (insieme con la moglie che di questo lo ha avvertito, pochi giorni fa) conosce il fondo e la portata. Reagisce minacciando: l'imprenditore campione del mercato invita addirittura gli industriali italiani a non fare pubblicità sui giornali "disfattisti", quelli che cioè lo criticano, perché la sua sorte coincide col Paese. Poi si corregge dicendo che voleva invitare a non dar spazio a Franceschini, come se non gli bastasse il controllo di sei canali televisivi ma avesse bisogno di un vero e proprio editto. E' qualcosa che non si è mai visto nel mondo occidentale, anche se la stampa italiana prigioniera del nuovo conformismo preferisce parlar d'altro, come se non fosse in gioco la libertà del discorso pubblico, che forma l'opinione di ogni democrazia.

In realtà Berlusconi minaccia soprattutto se stesso, rivelando questa sua instabilità, questa paura. Se sarà coerente con le sue parole, c'è da temere il peggio. Cosa viene infatti dopo la denuncia del golpe? Quale sarà il prossimo passo? E se c'è una minaccia eversiva, allora tutto è lecito: dunque come userà i servizi e gli altri apparati il Cavaliere, contro i presunti "eversori"? Come li sta già usando? Chi controlla e chi garantisce in tempi che il premier trasforma in emergenza?

Attendiamo risposte. Per quanto ci riguarda, continueremo a comportarci come se fossimo in un Paese normale, dove la dialettica e anche lo scontro tra la libera stampa e il potere legittimo del Paese fanno parte del gioco democratico. Poi, ognuno giudicherà dove saprà fermarsi e dove potrà arrivare questo uso privato e già violento del potere statale da parte di un uomo che sappiamo pronto a tutto, anche a trasformare la crisi della sua leadership in una tragedia del Paese.

(14 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il bene del Paese
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2009, 12:55:49 pm
IL COMMENTO

Il bene del Paese

di EZIO MAURO


I Grandi del mondo arrivano a Roma - mentre Hu Jintao deve ripartire per l'urgenza della crisi cinese - in uno scenario inedito: il chairman del G8 è impegnato in una sua battaglia personale contro i giornali, attaccati domenica con una nota ufficiale del governo per la loro "morbosità", e presi a male parole ieri nella conferenza stampa della vigilia, per aver osato criticare la regia italiana del vertice, accennando all'ipotesi che l'Italia possa essere esclusa in futuro dal G8.

Soffocato dagli scandali che ha costruito interamente con le sue mani, Silvio Berlusconi attribuisce ai giornali la causa dei suoi mali, l'"imbarazzo" e il "calo di reputazione" di cui parla il "Financial Times", gli avvertimenti alla Merkel raccolti dal "Wall Street Journal" sulle fotografie del summit con il premier italiano, che potrebbero metterla in difficoltà nelle prossime elezioni.

Ieri il ministro degli Esteri Frattini ha definito "una buffonata" le indiscrezioni del "Guardian" su una supplenza degli Stati Uniti all'Italia nel lavoro preparatorio degli sherpa e Berlusconi nel pomeriggio ha rincarato la dose: "Una grande cantonata di un piccolo giornale". Come sempre, non è mancato l'attacco diretto a "Repubblica": "Prima mi gettate addosso delle calunnie, poi ve la prendete con me perché queste calunnie fanno male all'Italia".

Il presidente del Consiglio ha perfettamente ragione su un punto: mentre si apre un summit, il cui successo è importante per il nostro Paese che lo ospita, c'è qualcosa in queste settimane che fa molto male all'Italia: è il suo comportamento privato unito alle menzogne pubbliche che cercano di giustificarlo. I giornali stranieri e "Repubblica", com'è regola nel mondo libero, non fanno altro che dar conto di questo ai cittadini-lettori. Tutto il resto - campagne, manovre, eversioni - non è nemmeno un giudizio politico: semplicemente, come ha detto ieri il direttore del "Sunday Times", è una "stupidaggine".

(8 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. L'ossessione
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2009, 06:47:36 pm
IL COMMENTO

L'ossessione

di EZIO MAURO

 
Il Presidente del Consiglio, dimenticandosi di essere il chairman del G8, ha esportato ieri in mondovisione la sua ossessione privata, e tipicamente italiana, nei confronti di "Repubblica". Prima ha cercato di non rispondere alla domanda di Gianluca Luzi (l'altroieri aveva accuratamente fatto togliere i microfoni ai giornalisti per garantirsi un monologo), cercando di interromperlo con evidenti segni di nervosismo, nel timore che l'ombra del "ciarpame politico" in cui affonda da due mesi venisse proiettata sul fondale dell'Aquila. Poi, parlando della buona immagine del summit, ha lanciato la solita accusa di disfattismo al nostro giornale: "Non avete raggiunto il risultato che volevate".

Avevamo scritto due giorni fa che per il bene dell'Italia, Paese ospite, il successo del vertice era importante. E ieri Vittorio Zucconi ha analizzato il primo esito, cioè l'assicurazione di Barack Obama sul nostro ruolo tra gli otto Grandi, scrivendo che "questo è il risultato vero che il nostro Paese, il governo Berlusconi e i futuri governi incassano al G8 e che l'Italia può riporre in cassaforte come un capitale".

Un giornale, com'è evidente, sa distinguere tra l'interesse del Paese e il clamoroso interesse negativo che in tutto il mondo suscitano le avventure del Capo del Governo. E' il Premier che non sa distinguere tra se stesso e la Nazione, come accade soltanto nei regimi.

Circondarsi dei Grandi della Terra, uniformandosi per una volta al loro stile e al loro standard, è un esercizio utile per lui e per il Paese, finalmente, e Berlusconi è stato un ottimo padrone politico di casa. Ma se pensa che i sette Grandi si portino via dall'Aquila anche i suoi problemi, s'inganna. In democrazia un leader ha un solo modo per risolvere i suoi guai che hanno fatto il giro del mondo: affrontarli davanti alla pubblica opinione, provando addirittura a dire la verità, e non nasconderli sotto le macerie del terremoto.

(10 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. L'isteria del potere
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2009, 06:54:33 pm
L'isteria del potere


di EZIO MAURO


Un uomo politico che di criminali se ne intende, come provano le condanne inflitte per reati molto gravi ad alcuni dei suoi più stretti amici, ieri si è permesso di attaccare i cronisti politici di Repubblica, indicandoli così: "Quelli sono dei delinquenti".

Bisogna risalire a Richard Nixon nei nastri del Watergate per trovare un simile giudizio nei confronti di un giornale.
Oppure bisogna pensare alla Russia dove impera a carissimo prezzo la verità ufficiale di Vladimir Putin, non a caso amico e modello del nostro premier.

Questa isteria del potere rivela la disperazione di un leader braccato da se stesso, con uno scandalo internazionale che lo sovrasta mandando a vuoto il tallone di ferro che schiaccia le televisioni e spaventa i giornali conformisti, incapaci persino di reagire agli insulti contro la libertà di stampa.

Quest'uomo che danneggia ogni giorno di più l'immagine del nostro Paese e toglie decoro e dignità alle istituzioni, farà ancora peggio, perché reagirà con ogni mezzo, anche illecito, al potere che gli sta sfuggendo di mano, un potere che per lui è un fine e non un mezzo.

Noi continueremo a comportarci come se fossimo in un Paese normale.

In fondo, questo stesso personaggio ha già cercato una volta di comperare il nostro giornale e il nostro gruppo editoriale, ed è stato sconfitto, dopo che - come prova una sentenza - con i suoi soldi è stato corrotto un magistrato: a proposito di delinquenti.

Non tutto si può comperare, con i soldi o con le minacce, persino nell'Italia berlusconiana.


da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il racconto di Titti e Hadengai due dei cinque sopravvissuti ...
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2009, 04:43:25 pm
IL REPORTAGE.

Il racconto di Titti e Hadengai due dei cinque sopravvissuti sul gommone maledetto

Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all'Italia


di EZIO MAURO

 PALERMO - Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell'ospedale "Cervello". Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d'agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all'altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d'istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po' di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d'acqua. La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l'unica donna sopravvissuta - con altri quattro giovani uomini - sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.

Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d'immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna - una vergogna della democrazia - darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l'asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire quell'Italia che cercavano, e incominciare a vivere.

Un'Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un'amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con "L'Aurora". In più, a casa la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell'Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando la bocciano a scuola, l'undicesimo anno, e scatta l'arruolamento obbligatorio nell'esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?

Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d'acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l'Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio finale.

Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov'è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d'acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l'indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transfer, da qualche parte sicura.

Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo da parte il pane e nemmeno l'acqua dalle porzioni razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c'è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci, dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non riescono a trovare spazio, c'è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l'ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c'è l'Italia, Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero. Nient'altro.

"Adei", madre, sto andando, pensa senza dormire. "Amlak", dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c'è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d'uomini, ma non c'è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l'elica. Le donne si coprono la testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l'acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.

La notte fa più paura. Non c'è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.

All'inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l'ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: "Giù, giù, vai in mare, vai". Ma il settimo giorno i problemi cambiano.

Muore Haddish, che ha vent'anni, ed è il prino. Continua a vomitare da ventiquattr'ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. "Mai", acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete "mai" nella testa, c'è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. "E' arrivato - dice all'alba Ghenè - noi siamo in viaggio e lui è arrivato". I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia sottovoce.

Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: "Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera". Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. "Meut", la morte, comincia a dominare tutti i pensieri, riempie "semai", il cielo, verrà dal mare, "bahari". Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà.

Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l'acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l'ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l'idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.

Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c'è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l'unica protezione dal freddo, l'unico cuscino, la coperta, l'unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l'ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c'è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po' nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.

L'acqua è un'ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t'importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l'incubo e comincia la realtà. Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d'uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi.

Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all'amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all'Italia, non sa dov'è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev'essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l'energia o la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott'acqua e sparire, ma vuoi che sia finita. Persa l'Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte, "Adei, Amlak, semai, bahari, meut". Rivede suo padre accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all'improvviso, che c'è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione.

Dentro c'è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l'acqua l'anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti al sole. E' un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve seguire.

Un giorno e una notte. Poi l'ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c'è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov'è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu.

Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d'acqua. Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l'altro naufrago ricoverato al "Cervello", Hadengai, in camera non c'è, l'hanno chiamato per una radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra gonfie, con l'altra mano, dove c'è un anello giallo alto e sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all'Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l'ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po' di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell'Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po' più in là.

I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un'idea di che cosa sia davvero l'Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra l'ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c'è scritto "la vita è un bene prezioso".

(26 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Insabbiare
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2009, 11:22:18 am
EDITORIALE

Insabbiare

di EZIO MAURO


Non potendo rispondere, se non con la menzogna, Silvio Berlusconi ha deciso di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica, per chiedere ai giudici di fermarle, in modo che non sia più possibile chiedergli conto di vicende che non ha mai saputo chiarire: insabbiando così - almeno in Italia - la pubblica vergogna di comportamenti privati che sono al centro di uno scandalo internazionale e lo perseguitano politicamente.

E' la prima volta, nella memoria di un Paese libero, che un uomo politico fa causa alle domande che gli vengono rivolte. Ed è la misura delle difficoltà e delle paure che popolano l'estate dell'uomo più potente d'Italia. La questione è semplice: poiché è incapace di dire la verità sul "ciarpame politico" che ha creato con le sue stesse mani e che da mesi lo circonda, il Capo del governo chiede alla magistratura di bloccare l'accertamento della verità, impedendo la libera attività giornalistica d'inchiesta, che ha prodotto quelle domande senza risposta.

In questa svolta c'è l'insofferenza per ogni controllo, per qualsiasi critica, per qualunque spazio giornalistico d'indagine che sfugga al dominio proprietario o all'intimidazione di un potere che si concepisce come assoluto, e inattaccabile. Berlusconi, nel suo atto giudiziario contro Repubblica vuole infatti colpire e impedire anche la citazione in Italia delle inchieste dei giornali stranieri, in modo che il Paese resti all'oscuro e sotto controllo. Ognuno vede quanto sia debole un potere che ha paura delle domande, e pensa che basti tenere al buio i concittadini per farla franca.

Tutto questo - la richiesta agli imprenditori di non fare pubblicità sul nostro giornale, l'accusa di eversione, l'attacco ai "delinquenti", la causa alle domande - da parte di un premier che è anche editore, e che usa ogni mezzo contro la libertà di stampa, nel silenzio generale. Altro che calunnie: ormai, dovrebbe essere l'Italia a sentirsi vilipesa dai comportamenti di quest'uomo.

(28 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La strategia della menzogna
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2009, 04:12:57 pm
IL COMMENTO

La strategia della menzogna

di EZIO MAURO

POICHE' la sua struttura privata di disinformazione è momentaneamente impegnata ad uccidere mediaticamente il direttore di "Avvenire", colpevole di avergli rivolto qualche critica in pubblico (lanciando così un doppio avvertimento alla Chiesa perché si allinei e ai direttori dei giornali perché righino dritto, tenendosi alla larga da certe questioni e dai guai che possono derivarne) il Presidente del Consiglio si è occupato personalmente ieri di "Repubblica": e lo ha fatto durante il vertice europeo di Danzica per ricordare l'inizio della Seconda guerra mondiale, dimostrando che l'ossessione per il nostro giornale e le sue inchieste lo insegue dovunque vada, anche all'estero, e lo sovrasta persino durante gli impegni internazionali di governo, rivelando un'ansia che sta diventando angoscia.

L'opinione pubblica europea (ben più di quella italiana, che vive immersa nella realtà artefatta di una televisione al guinzaglio, dove si nascondono le notizie) conosce l'ultima mossa del Cavaliere, cioè la decisione di portare in tribunale le dieci domande che "Repubblica" gli rivolge da mesi. Presentata come attacco, e attacco finale, questa mossa è in realtà un tentativo disperato di difesa.

Non potendo rispondere a queste domande, se non con menzogne patenti, il Capo del governo chiede ai giudici di cancellarle, fermando il lavoro d'inchiesta che le ha prodotte. È il primo caso al mondo di un leader che ha paura delle domande, al punto da denunciarle in tribunale.

Poiché l'eco internazionale di questo attacco alla funzione della stampa in democrazia lo ha frastornato, aggiungendo ad una battaglia di verità contro le menzogne del potere una battaglia di libertà, per il diritto dei giornali ad indagare e il diritto dei cittadini a conoscere, ieri il Premier ha provato a cambiare gioco. Lui sarebbe pronto a rispondere anche subito se le domande non fossero "insolenti, offensive e diffamanti" e fossero poste in altro modo e soprattutto da un altro giornale. Perché "Repubblica" è "un super partito politico di un editore svizzero e con un direttore dichiaratamente evasore fiscale".

Anche se bisognerebbe avere rispetto per la disperazione del Primo Ministro, l'insolenza, la falsità e la faccia tosta di quest'uomo meritano una risposta.

Partiamo da Carlo De Benedetti, l'editore di "Repubblica": ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra gli Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse. A questo punto e in questo quadro, cosa vuol dire "editore svizzero"? È un'allusione oscura? C'è qualcosa che non va? Si è meno editori se oltre a quello italiano si ha anche un passaporto svizzero? O è addirittura un insulto? Il Capo del governo può spiegare meglio, agli italiani, agli elvetici e già che ci siamo anche ai cittadini di Danzica che lo hanno ascoltato ieri?

E veniamo a me. Ho già spiegato pubblicamente, e i giornali lo hanno riportato, che non ho evaso in alcun modo le tasse nell'acquisto della mia casa che i giornali della destra tengono nel mirino: non solo non c'è stata evasione fiscale, ma ho pagato più di quanto la legge mi avrebbe permesso di pagare. Ho versato infatti all'erario tasse in più su 524 milioni di vecchie lire, e questo perché non mi sono avvalso di una norma (l'articolo 52 del D. P. R. 26 aprile 1986 numero 131, sull'imposta di registro) che, ai termini di legge, mi consentiva nel 2000 di realizzare un forte risparmio fiscale.

Capisco che il Premier non conosca le leggi, salvo quelle deformate a sua difesa o a suo privato e personale beneficio. Ma dovrebbe stare più attento nel pretendere che tutti siano come lui: un Capo del governo che ha praticato pubblicamente l'elogio dell'evasione fiscale, e poi si è premurato di darne plasticamente l'esempio più autorevole, con i quasi mille miliardi di lire in fondi neri transitati sul "Group B very discreet della Fininvest", sottratti naturalmente al fisco con danno per chi paga le tasse regolarmente, con i 21 miliardi a Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì, con i 91 miliardi trasformati in Cct e destinati a non si sa chi, con le risorse utilizzate poi da Cesare Previti per corrompere i giudici di Roma e conquistare fraudolentemente il controllo della Mondadori. Si potrebbe andare avanti, ma da questi primi esempi il quadro emerge chiaro.

Il Presidente del Consiglio ha detto dunque ancora una volta il falso, e come al solito ha infilato altre bugie annunciando che chi lo attacca perde copie (si rassicuri, "Repubblica" guadagna lettori) e ricostruendo a suo comodo l'estate delle minorenni e delle escort, negando infine di essere malato, come ha rivelato a maggio la moglie.
Siamo felici per lui se si sente in forze ("Superman mi fa ridere"). Ma vorremmo chiedergli in conclusione, almeno per oggi: se è così forte, così sicuro, così robusto politicamente, perché non provare a dire almeno per una volta la verità agli italiani, da uno qualunque dei sei canali televisivi che controlla, se possibile con qualche vera domanda e qualche vero giornalista davanti? Perché far colpire con allusioni sessuali a nove colonne privati cittadini inermi come il direttore di "Avvenire", soltanto perché lo ha criticato? Perché lasciare il dubbio che siano pezzi oscuri di apparati di sicurezza che hanno fabbricato quella velina spacciata falsamente dai suoi giornali per documento paragiudiziario?

Se Dino Boffo salverà la pelle, dopo questo killeraggio, ciò accadrà perché la Chiesa si è sentita offesa dall'attacco contro di lui, e si è mossa da potenza a potenza.
Ma la prossima preda, la prossima vittima (un magistrato che indaga, una testimone che parla, un giornalista che scrive, e fa domande) non avendo uno Stato straniero alle spalle, da chi sarà difeso? L'uomo politico passato alla storia come il più feroce nemico della stampa, Richard Nixon, non ha usato per difendersi un decimo dei mezzi che Berlusconi impiega contro i giornali considerati "nemici". Se vogliamo cercare un paragone, dobbiamo piuttosto ricorrere a Vladimir Putin, di cui non a caso il Premier è il più grande amico.

(2 settembre 2009)


Titolo: EZIO MAURO. "Perdiamo copie? Il premier è disperato e calunnia"
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 10:48:24 pm
Il direttore replica agli attacchi del Cavaliere da Vespa

"Perdiamo copie? Il premier è disperato e calunnia"

Ezio Mauro: "Berlusconi ha perso la testa Repubblica è la sua ossessione"

"Cercano di intimidire Fini con dossier a sfondo sessuale"


ROMA - "Ancora una volta ha perso la testa, definendo farabutti politici, stampa e televisione. Ed ha attaccato Repubblica, la sua ossessione da mesi". Intervistato da Repubblica TV il direttore di Repubblica Ezio Mauro replica così a Silvio Berlusconi che ha pesantemente attaccato il nostro quotidiano nel corso di Porta a Porta in onda ieri sera. Uno show partito dalla consegna delle case ad Onna e proseguito con una serie di attacchi (senza contraddittorio) contro il nostro quotidiano. "Non è in grado di rispondere alle nostre domande e chiede al giudice di bloccarle. E' il primo leader politico al mondo che ha paura delle domande al punto di portarle in tribunale", dice Mauro ricordando le dieci domande a cui Berlusconi non ha mai risposto.

Vede un tentativo in atto per "normalizzare" Rai3, il direttore di Repubblica. Sostituire il direttore della rete e magari metterci uno "spaventapasseri di sinistra" che "decapiti i personaggi scomodi come Travaglio". Una manovra che, in questi giorni, ha visto cancellare la puntata di Ballarò e stendere un velo di incertezza su trasmissioni come Report e Annozero.

Poi l'attenzione torna su Repubblica e gli attacchi del Cavaliere. "Dice che perdiamo copie? Berlusconi è disperato e calunnia. E ieri sera il suo notaio personale (Bruno Vespa, ndr) si è ben guardato da dirgli qualcosa" continua Mauro. Che ricorda la manifestazione per la libertà di stampa che si terrà sabato a Roma.

Tocca a Fini, al suo contrasto con Berlusconi e agli attacchi subito dal Giornale diretto da Feltri e di proprietà della famiglia Berlusconi. "Quello che è evidente è che stanno cercando di intimidirlo preventivamente con minacce di dossier a sfondo sessuale - continua Mauro - Si cerca di bloccare il pensiero di chi non è conforme al berlusconismo. Per questo mi chiedo si può governare l'Italia a colpi di dossier? Si possono usare servizi segreti per preparare dossier su persone non conformi? Si può sostituire alla politica la minaccia? E' questa la questione che riguarda la democrazia e che giustifica la manifestazione di sabato".

(16 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Un'anomalia per l'Occidente
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2009, 10:58:10 am
L'EDITORIALE

Un'anomalia per l'Occidente

di EZIO MAURO


SE è ancora possibile, nel mezzo dello scontro politico che divide l'Italia, vorrei provare ad uscire dagli slogan per ragionare su qualcosa che non è di destra o di sinistra e fa parte dei fondamentali di ogni normale democrazia, così come tutti noi la intendiamo: il diritto dei cittadini di sapere, cui corrisponde il dovere dei giornali di informare. Questo diritto nella democrazia italiana di ogni giorno è a mio parere fortemente indebolito. Il controllo dell'intero universo televisivo da parte di un solo soggetto - che è anche capo di un partito, della maggioranza parlamentare e del governo - è un'anomalia in tutto l'Occidente.

Già questo dovrebbe farci riflettere come cittadini, così com'è anomalo il silenzio che ormai circonda il conflitto di interessi, quasi fosse un male incurabile, con cui convivere finché qualcuno inventerà il vaccino.
Stiamo parlando di lui, del cittadino. Non dei giornali o dei telegiornali, che sono soltanto strumenti della cittadinanza, in quanto libere imprese dell'informazione. Quel cittadino - in nome del quale si svolge oggi a Roma la manifestazione per la libertà di stampa - se esposto soltanto alla luce berlusconiana dei telegiornali pubblici e privati, sa solo ciò che vuole il potere.

Ad esempio, non sa nulla dello scandalo che da sei mesi circonda il Capo del governo, lo ossessiona portandolo ad insultare i giornali che ne parlano, e gli impedisce di far politica liberamente, ostaggio com'è delle sue contraddizioni e delle sue bugie. Qualunque medio lettore di qualsiasi giornale europeo ne sa molto di più. Soprattutto, essendo informato, è in condizione di formulare un'opinione consapevole sulla rilevanza o meno di questo scandalo, e di esprimere un giudizio avvertito e autonomo.

Nei grandi scandali sollevati dalla libera stampa in altri Paesi, infatti, il concerto spontaneo tra i giornali che indagavano e i grandi network televisivi che rilanciavano le notizie ha reso coscienti e partecipi i cittadini, finché i leader politici coinvolti nelle vicende - tra tutti, Richard Nixon - hanno dovuto rispondere e rendere conto non solo alle domande di un'inchiesta giornalistica permanente, ma alla pubblica opinione, il cui peso è stato determinante.

Da noi, è successo il contrario. Quando Repubblica ha notato contraddizioni e bugie nel racconto affannato e affannoso che Berlusconi ha via via fatto della vicenda, gli ha chiesto un'intervista e non avendola ottenuta gli ha rivolto in pubblico dieci domande, quelle bugie e quelle contraddizioni sono rimaste un problema di Repubblica e dei giornali stranieri. Eppure la menzogna del potere è un problema della democrazia, dunque di tutti e principalmente del cittadino elettore: oltre che uno spazio naturale e obbligatorio per ogni libero giornalismo.

Abbiamo dunque avuto di fronte - noi e i grandi giornali europei - una chiara e semplice questione di verità. Non so chiamarla altrimenti. Il silenzio del Premier, riempito da urla e insulti come non accade altrove, ingigantiva infatti un'ultima, definitiva domanda: signor Presidente, qual è la ragione oscura ma a lei ben nota, che le impedisce di dire la verità al suo stesso Paese, e la costringe a mentire ai suoi concittadini?

Sarebbe sufficiente tutto questo, e cioè l'incapacità-impossibilità del potere di spiegare i suoi abusi, per chiedere pubblicamente che il diritto-dovere d'informazione venga rispettato. Ma c'è molto di più. Costretto da se stesso al silenzio su ciò che non può chiarire, il Presidente del Consiglio ha cercato nel crescendo degli ultimi mesi di costringere al silenzio chi indaga su di lui.

Prima ha parlato di complotto della stampa, come se esistesse un'internazionale del giornalismo ispirata dalle cancellerie. Poi di una manovra eversiva per farlo cadere, come se le critiche fossero un golpe. Quindi ha insultato i giornalisti di Repubblica ("delinquenti") che tentavano di rivolgergli una domanda, le poche volte in cui non sfugge ai cronisti. Dalla tribuna di un convegno di Confindustria ha ufficialmente invitato gli imprenditori a non far pubblicità sui giornali che lo criticano e cioè ha tentato di sovvertire il libero mercato per soffocare economicamente Repubblica, come ha spiegato la sera stessa ai cronisti.

Al corrispondente del Paìs colpevole di chiedergli conto del danno provocato all'Italia da questi scandali ha augurato il fallimento del suo giornale. In tre occasioni ha invitato gli italiani a non leggere i quotidiani, denigrandoli, in una quarta ha spiegato che la televisione è la parte buona dell'informazione e la stampa quella cattiva. Sulla sua poltrona più comoda, quella di Porta a Porta, ha proclamato che ci sono troppi "farabutti" nei giornali e in televisione, ovviamente al riparo dalle querele grazie allo scudo che si è costruito con le sue mani.

Davanti alle telecamere della Rai ha definito "inaccettabile" che il servizio pubblico possa criticare il governo, indicando poi per nome le trasmissioni colpevoli. Ha annunciato che risponderà solo a domande di suo gradimento. E ha certificato, definitivamente, che chi lo critica è anti-italiano: come se fosse italiano, e patriottico, registrare in silenzio tutto questo, e far finta di niente.

Veniamo poi all'ultimo atto. Non potendo rispondere alle dieci domande di Repubblica, il Premier le ha portate in tribunale, chiedendo al giudice di farle tacere, cancellandole. Ha denunciato i grandi giornali europei e Repubblica per aver ripreso le loro inchieste, quasi fosse possibile alzare un muro alla libera circolazione in Europa delle idee, delle opinioni e del giornalismo, purché gli italiani non sappiano, rimangano all'oscuro e non possano giudicare. Ha querelato l'Unità per aver riportato sullo scandalo giudizi del senatore Guzzanti che invece non è mai stato querelato, forse perché ha annunciato di avere molte cose da raccontare ai magistrati.

Infine, il killeraggio attraverso i giornali. Ad agosto il direttore del Giornale - di proprietà della famiglia Berlusconi - viene licenziato e spiega nel suo ultimo articolo il perché: ha fatto tutte le battaglie, ma si è rifiutato di rovistare "nei letti di direttori ed editori" di altri quotidiani. Ecco la concezione della stampa e del giornalismo del Presidente editore ed imprenditore. Infatti, col nuovo corso quel giornale colpisce a tutte colonne il direttore di Avvenire (il giornale dei vescovi) colpevole di aver criticato il Premier, rilanciando una vecchia vicenda già pubblicata un anno prima e spacciando per documento paragiudiziario una velina anonima che parla di omosessualità, scritta nel linguaggio dei servizi.

È un ammonimento alla Chiesa, perché non dia giudizi sullo scandalo berlusconiano, e ai direttori di giornale, perché girino al largo, se non vogliono finire nel mirino. Poco dopo, lo stesso giornale lancia un avvertimento con minaccia preventiva a Fini, perché si rimetta in riga se non vuole che si ripeschino vecchie vicende che si fanno balenare con esplicite allusioni sessuali.

Fermiamoci un momento, visto che discutiamo di informazione. Tutti hanno parlato di character assassination, ma nessun giornale ha illuminato la figura gigantesca del mandante. Eppure in ogni criminal story che si rispetti chi preme il grilletto merita poche righe, conta l'ispiratore e il movente. Allora diciamo le cose come stanno. Si è cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato, e lo si è fatto non solo per ciò che Fini ha detto fin qui, ma soprattutto per ciò che potrebbe dire e fare. Colpendo lui, si lavora già per l'agonia berlusconiana, sparando nel buio del futuro per spaventare tutti.

La questione di verità, così, è diventata per forza di cose una questione di libertà. Perché è un vero e proprio problema di libertà - anche se molti fingono di non accorgersene - doversi domandare se il Presidente del Consiglio stia usando i servizi e le polizie contro le ragazze che testimoniano dopo gli incontri con lui, i magistrati che indagano, i giornalisti che fanno le domande. È un problema di libertà il fatto che un gruppo di cittadini in questo Paese usi nelle telefonate, negli incontri, negli spostamenti le stesse cautele che si usavano in altri tempi e in altri Paesi non liberi. C'è un problema di libertà se i giornalisti intimiditi a mezzo stampa devono pensare alla loro sorte personale quando accendono il computer per scrivere un articolo che contenga qualche critica, magari timida, al Presidente del Consiglio.

In ogni Paese, un leader che si sente attaccato ha il diritto di difendersi. Negli altri Paesi, ci si difende usando le armi delle idee, della politica, del ruolo straordinario che una grande leadership ha davanti all'opinione pubblica quando si presenta a dire la sua verità su una questione controversa, e sa assumersene la responsabilità: come ha suggerito più volte a Berlusconi Giuliano Ferrara. In nessun Paese libero si colpisce personalmente o si minaccia esplicitamente di colpire chi critica il potere, riducendo la stampa di proprietà ad arma impropria: salvo dissociarsi alle cinque del pomeriggio, ad esequie della vittima avvenute.

Resta dunque l'ultima questione: si può governare una grande democrazia, nel cuore dell'Europa e del 2009, a colpi di dossier? Che immagine dà di sé un potere spaventato e spaventoso che sostituisce la leadership con l'intimidazione? Che futuro può avere un Premier che annulla la politica con le minacce? E fin dove arriverà, fin dove arriva già oggi, la rete dei ricatti e dei veleni che si allarga sotto il doppiopetto presidenziale?
Insomma, a furia di non rispondere restano solo le domande. E non finiscono mai.

(3 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La forza della democrazia
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:51:45 am
IL COMMENTO / Lodo Alfano, Berlusconi accusa la Corte, la magistratura e il capo dello Stato

Un gesto di disperazione ma anche la prova della sua instabilità istituzionale

La forza della democrazia

di EZIO MAURO


ERA dunque incostituzionale il lodo Alfano, come abbiamo sempre sostenuto, in un Paese dove è saltata l'intercapedine liberale, e l'estremismo del potere viene benedetto da un finto establishment e dai suoi cantori, incapaci di richiamare il rispetto delle regole perché incapaci di ogni responsabilità generale. Ecco dunque il risultato. Il presidente del Consiglio, insofferente dell'autonoma e libera pronuncia di un supremo organo di garanzia, che opera a tutela della Carta fondamentale, dà fuoco alla Civitas e al sistema dei poteri che la regola, travolgendo nelle sue accuse la Corte, la magistratura e persino il capo dello Stato. Un gesto certo di disperazione, ma anche la prova dell'instabilità istituzionale di questo leader che nessuna prova di governo, nessun picchetto d'onore, nessun vertice internazionale è riuscito a trasformare, quindici anni dopo, in uomo di Stato.

Terrorizzato dai suoi giudici, e più ancora dal suo passato, il premier non si è accorto di reagire pubblicamente alla sentenza della Corte come se fosse una condanna. Prima che la grande mistificazione d'abitudine cali sui cittadini dal kombinat politico-mediatico che ci governa, è bene ricordare due aspetti.

Prima di tutto, la Corte ha sollevato un problema di merito e uno di metodo, combinandoli tra di loro, e nel farlo ha guardato soltanto alla Costituzione, com'è sua abitudine e suo dovere. Nel merito, il lodo Alfano viola l'articolo 3 della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, qualunque sia il loro incarico, il loro potere, la loro ricchezza. Proprio per questa ragione - e siamo al metodo - se si vuole sottrarre alla legge il Presidente del Consiglio occorre adottare una norma di revisione costituzionale, e non una norma ordinaria. Dunque il Lodo è illegittimo, perché viola gli articoli 3 e 138 della Costituzione.

Il secondo aspetto riguarda il clima di lesa maestà che ha incendiato la serata della destra, dopo la pronuncia della Corte, come se il Capo del governo fosse stato consegnato dalla Consulta ai carabinieri. In realtà, anche se nessuno lo ricorderà oggi, è doveroso notare che il Primo Ministro attraverso questa sentenza costituzionale viene restituito allo status di normale cittadino, con la piena titolarità dei suoi diritti e naturalmente dei doveri: semplicemente, e com'è giusto e doveroso, dovrà rispondere ai giudizi che lo riguardano pendenti nei Tribunali, che il lodo aveva provvidamente sospeso.

Con questo status e in quelle sedi, uguale a tutti gli altri italiani che sono chiamati in giudizio per rispondere di reati, potrà far valere le sue ragioni, nel rispetto della legge ordinaria: che intanto - e non è cosa da poco - torna da oggi uguale per tutti.

Il puro riferimento alla Costituzione rende limpida la decisione della Corte. Ma oggi che cade il privilegio regale attribuito dal Premier a se stesso (rex è lex, anzi "non c'è limite legale al potere del re, vicario di Dio sulla terra", come diceva Giacomo I nel 1616) bisogna pur notare che quella specialissima guarentigia non era una norma esistente nel nostro ordinamento, ma una legge apposita costruita dal Presidente del Consiglio in fretta e furia per sfuggire al suo giudice naturale e alle sentenza ormai prossima per un reato commesso quando ancora era un semplice imprenditore, lontano dalla politica.

In una formula - aberrante, e salutata con applausi soltanto in Italia - si potrebbe dire che il Capo dell'esecutivo ha in questo caso usato il legislativo per sfuggire al giudiziario, fabbricando con le sue mani e con quelle di una maggioranza prona un salvacondotto su misura per la sua persona, in modo da mantenere il potere senza fare i conti con la giustizia.

La Corte non ha ovviamente considerato questo aspetto che è rilevante dal punto di vista della morale pubblica, della coscienza privata, dell'autorevolezza politica, ma non ha valore Costituzionale. Alla Corte è bastato rilevare ciò che il Paese (e anche alcuni giornali) non volevano vedere: e cioè che attraverso questa procedura d'eccezione, proterva e insieme impaurita, il Premier violava il principio fondamentale del nostro ordinamento che vuole i cittadini uguali di fronte alla legge. Nel ribadirlo, la Corte ha fatto semplicemente giustizia costituzionale. Ma non si può tacere che per giungere a questa pronuncia i giudici della Consulta hanno dovuto nella loro coscienza individuale e di collegio dare prova di libertà intellettuale e personale e di autonomia istituzionale: perché in questo sfortunato Paese sulla Corte Costituzionale, prima della pronuncia, si è abbattuta una tempesta di intimidazioni, di preavvisi e di minacce che tendeva proprio a coartarne la libertà e l'autonomia.

Se è ancora consentito dirlo, in mezzo agli strepiti, la democrazia ha invece dimostrato ieri la sua forza di libertà. Non tutto si lascia intimidire dalla violenza del potere e dei suoi apparati, nell'Italia 2009, non tutto è ricattabile, non tutto è acquistabile. Pur in epoca di poteri che si sentono sovraordinati a tutti gli altri, fuori dall'equilibrio istituzionale della Carta, pur in anni sventurati di unzione del Signore, pur davanti a legali-parlamentari che teorizzano per il Premier lo status nuovissimo di "primus super pares", vige ancora la Costituzione nata con la libertà riconquistata dopo la dittatura, e vige la sua trama di equilibri tra i poteri di una democrazia occidentale. Esistono ancora, anche in questo Paese che ha cupidigia di sovrani e di dominio, gli organismi di garanzia, essenziali nel loro equilibrio e nella loro responsabilità super partes, nonostante gli attacchi irresponsabili dei qualunquisti antipolitici e di quelle opposizioni interessate a lucrare soltanto qualche decimale elettorale in più.

E infatti la reazione rabbiosa del Presidente del Consiglio è tutta contro gli organi supremi di garanzia. La Corte, ridotta per rabbia iconoclasta a congrega di uomini di sinistra. E soprattutto il Capo dello Stato, additato al Paese e al popolo di destra - aizzato irresponsabilmente - come un uomo di parte ("sapete tutti da che parte sta") in uno sfogo sovraeccitato in cui tornano tutti i fantasmi fissi del berlusconismo sotto schiaffo, i magistrati, il Quirinale, la Consulta, i giornali, in un crescendo forsennato di "sinistre", "rossi" e "comunisti": per concludere con il titanismo spaventato di un urlo ("Viva l'Italia, viva Berlusconi") che rivela la concezione grottesca di un Premier che vede se stesso come destino perenne della Nazione.
Napolitano ha risposto ribadendo prima il rispetto per la pronuncia della Corte, poi ricordando che il Capo dello Stato sta, molto semplicemente, con la Costituzione. Viene da domandarsi piuttosto dove sta il Capo del governo, rispetto alla Costituzione, cioè al regolare gioco democratico tra le istituzioni. Ieri ha detto che il modo in cui i giudici costituzionali vengono designati altera l'equilibrio tra i poteri dello Stato: proprio lui che in pochi minuti ha tentato di delegittimare tre magistrature, attaccando i giudici, il Quirinale e la Corte. E siamo solo all'inizio.

Il peggio, infatti, deve ancora accadere. Altro che andare alle urne, come minacciavano nei giorni scorsi gli uomini di destra per far pesare il rischio di ingovernabilità e instabilità sulla Corte. Ieri Berlusconi si è affrettato a dire che il governo è solidissimo come la sua maggioranza, e andrà avanti. In realtà il Premier soffre il suo indebolimento progressivo, sente il rischio dei processi sospesi che tornano a pretendere il loro imputato, avverte soprattutto il peso della corruzione che la sentenza civile sulla Mondadori gli ha scaricato addosso, è consapevole di aver politicamente azzerato negli scandali dell'estate la forza della sua maggioranza parlamentare, sa che il suo sistema non produce più politica da mesi, prigioniero com'è di una vicenda di verità e di libertà.

Non è la Corte che lo denuda: è l'incapacità politica di fronteggiare la sua storia personale, nel momento in cui nodi grandi e piccoli vengono al pettine e l'unica reazione è la furia contro certi giornali. Il futuro del Premier dipende proprio da questo, dalla capacità di un'assunzione convincente di responsabilità, di fronte alla giustizia, al parlamento, alla pubblica opinione: finora non è stato capace di farlo, o forse non ha potuto farlo. Ed è per questo che con tutta la propaganda dei sondaggi che lo circonda, il Capo del governo sente che tutto il sistema politico è al suo capezzale, e ogni giorno gli tasta il polso politico.

Tutto è possibile, in questo quadro, soprattutto il peggio. Ma intanto ieri quindici giudici hanno ricordato al Premier che pretende di rappresentare il tutto, in unione col popolo, che esiste ancora la separazione dei poteri: quando non c'è più, avvertiva Norberto Bobbio quindici anni fa, ciò che comincia è il dispotismo.

© Riproduzione riservata (8 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La responsabilità del potere
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2009, 04:34:26 pm
L'EDITORIALE

La responsabilità del potere

di EZIO MAURO


Per le vie tortuose che ritiene evidentemente più comode, in forma obliqua e non diretta, senza mai citare un fatto concreto e incontestabile, il presidente del Consiglio dopo sei mesi ha finalmente deciso di rispondere alle dieci domande che Repubblica gli rivolge dal 14 maggio, rilanciate dai giornali di tutto il mondo.

È positivo che un leader di governo senta infine la responsabilità di rendere conto all'opinione pubblica, o almeno a quella parte di opinione che lo interroga.
Anche se questo avviene con un ritardo politicamente di grande significato, dopo insulti rivolti ai cronisti del nostro giornale che gli ponevano in pubblico le domande, dopo l'invito alle aziende a non fare pubblicità sui giornali "catastrofisti", dopo l'appello agli imprenditori perché boicottassero Repubblica, dopo l'accusa esplicita di eversione, dopo la decisione di citare le dieci domande per un milione di euro di danni, portandole in tribunale perché un giudice le facesse tacere. Questa strategia del Premier, accompagnata dai violenti attacchi personali - a colpi di dossier - della stampa di famiglia a chiunque criticasse il suo operato, non ha evidentemente pagato.
Le dieci domande sono rimaste al loro posto per il semplice motivo giornalistico per cui erano nate, e cioè per chiedere conto di contraddizioni e bugie sugli scandali che da sei mesi circondano il Capo del governo, dopo la denuncia del "ciarpame politico" da parte della first lady: lo scambio di favori di giovani ragazze in cambio di candidature politiche.

Molto semplicemente, avevamo chiesto al Premier di cancellare quei dubbi, rispondendo alle domande con un'intervista. Dopo i quattro giorni di attesa concordati, non avendo ricevuto una risposta, abbiamo pubblicato le domande. Da allora, le abbiamo ripresentate ogni giorno per la buona ragione che non c'era stata alcuna risposta. Il bisogno di capire, il diritto di sapere, ci hanno autorizzati ad andare avanti, nella convinzione che là dove si aprono spazi di opacità e di menzogna nel potere pubblico, si apre anche uno spazio che noi consideriamo naturale e obbligatorio per il giornalismo.

Questa indagine giornalistica permanente ha provocato molte reazioni in Italia. I lettori hanno risposto con grandissimo interesse, prendendo parte in ogni modo come cittadini a questa richiesta di rendiconto del potere. Alcuni giornali ci hanno spiegato invece che non si fa così, in Italia non usa: e si vede. Più significative due accuse - tra le tante - che in questi mesi sono state lanciate contro Repubblica. La prima sostiene che la critica di un giornale ad un leader è un atto contro la sovranità popolare, contro l'unione in un solo corpo mistico tra il Capo e il suo popolo, intangibile e insindacabile: basta rispondere che nei Paesi democratici il potere è sottoposto ogni giorno al giudizio della stampa e della pubblica opinione, e il voto non è un salvacondotto, anche perché nella nostra Costituzione la sovranità appartiene al popolo, non "emana" dal popolo verso il leader. Ma questa prima accusa prepara la seconda: l'antipatriottismo, l'azione anti-nazionale di chi criticando il potere indebolisce la sacra unzione che consacra l'unione carismatica tra leader e popolo nel destino della nazione.

È ovvio che chi critica il legittimo potere - di fronte a ciò che ritiene un errore, una menzogna, un abuso - ama il suo Paese almeno quanto chi detiene quel potere, o chi sta a guardare: lo ama attraverso la democrazia, la Costituzione, il rispetto delle istituzioni, della regola civica dei diritti e dei doveri che deve valere per tutti, governanti e cittadini. In più, il proprio Paese si serve quando ognuno realizza in libertà e coscienza il proprio compito svolgendo il proprio ruolo. E le democrazie contemplano e annoverano i casi molteplici in cui - nello svolgere ognuno le sue libere funzioni - stampa e potere giungono ad un confronto anche duro, che spesso diventa conflitto.
Con una differenza: negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna le inchieste e le campagne sul potere di giornali che nessuno si è sognato di definire "nemici" o "fabbriche di odio" non sono mai state tacciate di antipatriottismo né di violazione della volontà popolare. Nemmeno quando i leader messi sotto accusa erano eletti dal popolo davvero.

La realtà e la verità sanno comunque farsi strada, in questo falso rumore italiano di comodo. Lo scandalo berlusconiano ha posto prima una questione di verità, con le bugie non spiegate, poi una questione di libertà, con gli attacchi ai giornali. La reazione violenta ha fatto vittime. Il direttore di Avvenire ha perso il posto e il lavoro dopo aver criticato il Premier perché un giornale di famiglia ha pubblicato un foglio anonimo scritto nel linguaggio dei servizi che lo tacciava di omosessualità. Il presidente della Camera, per le sue opinioni costituzionali e dunque non ortodosse è stato ammonito a mettersi in riga, pena il ricorso a presunte vecchie dicerie a sfondo sessuale: si è cioè cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato. Il giudice Mesiano, colpevole di aver pronunciato una sentenza civile non favorevole a Fininvest nella causa con la Cir in seguito all'accertata corruzione che ha deviato fraudolentemente il corso imprenditoriale della Mondadori, è stato pestato mediaticamente, con l'arma del dileggio, sulle televisioni di proprietà del Premier.

È un panorama impressionante, sullo sfondo delle 10 domande. Lo ha disegnato il Capo del governo, pur di non rispondere, pur di non chiarire, pur di non assumersi una responsabilità. Come se una grande democrazia, in mezzo all'Europa e al 2009, si potesse governare a colpi di dossier, di intimidazioni, di minacce, seminando la paura al posto dell'autorevolezza, usando i telegiornali sotto dominio per occultare e re-inventare la realtà, i giornali per colpire non le idee avverse, ma gli avversari fisicamente, togliendoli di mezzo, se possibile rovistando nei loro letti.

Di fronte a questo quadro italiano, i giornali di ogni Paese (di altri Paesi) hanno usato lo stesso canone di Repubblica, con il medesimo allarme, uguali interrogativi e giudizi assai simili. Si sono mossi intellettuali, giuristi, migliaia di cittadini. Roberto Saviano ha spiegato che "la libertà di stampa significa anche libertà di non avere la vita distrutta, senza un clima di minaccia, senza avere contro non un'opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime". Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero e Stefano Rodotà hanno raccolto mezzo milione di firme denunciando l'"intimidazione" contro chi esercita il diritto dovere di informare.
Il direttore del Guardian ha scritto che Repubblica ha "tutti i diritti del mondo" di fare le sue 10 domande. La Nieman Foundation per il giornalismo e la Kennedy School di Harvard hanno spiegato che "il governo deve essere responsabile nei confronti dei cittadini e il ruolo della stampa è pretendere questa responsabilità".

La ragione delle dieci domande, per tutti questi mesi, sta infatti proprio qui: la responsabilità del potere davanti alla pubblica opinione. Ed è la stessa ragione che infine ha sopravanzato - per ora - gli insulti e i dossier, le querele e gli attacchi, costringendo il Premier a rispondere. Lo ha fatto in forma obliqua, evitando il confronto con Repubblica, in forma ambigua, facendosi riformulare le domande dal suo intervistatore-notaio, in un libro edito dalla casa editrice di sua proprietà. Un'operazione politica controllata e protetta, dunque. Dove l'interesse del Premier non è la verità da chiarire, ma la pressione dei giornali da allentare.

Il risultato, come i lettori possono constatare, è una prudentissima navigazione al largo delle vere questioni, senza fatti, senza veri chiarimenti, senza circostanze che possano spiegare la verità ai cittadini. È come la denuncia - tutta politica, esplicita, certificata dal suo notaio, che ieri ha annunciato alle agenzie "la risposta alle dieci domande di Repubblica" - di un limite. Dobbiamo prendere atto di ciò che il Premier ha fatto, e anche del modo in cui ha voluto e potuto farlo: ha dovuto infine rispondere, dopo sei mesi, dimostrando che le domande erano legittime e doverose, com'era doveroso affrontarle, tanto che il ritardo nei confronti dei nostri lettori è politicamente colpevole. E ha risposto nell'unico modo imbarazzato, generico e circospetto che può oggi permettersi. La vera risposta - ecco il punto - è la coscienza politica di questo limite, che mentre il Premier replica, lascia la questione fondamentale della verità intatta, e irrisolta.

Questo è un problema aperto non con Repubblica, ma con il Paese, insieme con un'ultima inevitabile domanda: signor Presidente, qual è la ragione che su queste vicende le impedisce di dire davvero la verità ai suoi concittadini? Come se fossimo in un Paese normale, noi continueremo a chiederlo, finché lo capiremo.

(6 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Dove ci porta lo stato d'eccezione
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 04:31:14 pm
IL COMMENTO

Dove ci porta lo stato d'eccezione

di EZIO MAURO

IERI è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d'eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.

Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l'intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del "partito dei giudici della sinistra" che avrebbe "scatenato la caccia" contro il premier.

Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa "forme e limiti" per l'esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere "profondo rammarico e preoccupazione" per il "violento attacco" del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L'avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.

Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all'opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.

Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell'avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell'ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: "Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?".

La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d'eccezione. Carl Schmitt diceva che "è sovrano chi decide nello stato d'eccezione", perché invece di essere garante dell'ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione ("abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale"), rende l'istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l'unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.

Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d'eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l'assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l'autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.

Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l'ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l'eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell'attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l'unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell'interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell'esclusivo interesse del singolo. L'eccezione, appunto.

Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l'abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all'accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un'ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell'uomo più potente d'Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?

L'eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un'istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.

Per questo, com'è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d'eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell'Italia di oggi.

© Riproduzione riservata (11 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Il dovere di un giornale
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2009, 03:15:09 pm
L'EDITORIALE

Il dovere di un giornale

di EZIO MAURO


Servono due parole per rispondere all'onorevole Cicchitto, che scambiando l'aula di Montecitorio per un bivacco piduista si è permesso di accostare il nome di Repubblica a quello dell'aggressore di Berlusconi in piazza Duomo.

Il presidente Napolitano aveva appena invitato tutti, davanti alla gravità dell'episodio di Milano, a fermare la pericolosa esasperazione della polemica politica. E Berlusconi aveva ricevuto la solidarietà di amici e avversari - da Fini a Casini a Bersani, a Repubblica naturalmente - nella condanna senza riserve, da posizioni che sono e restano diverse, di un gesto folle e criminale.

Ieri Cicchitto si è incaricato di ripristinare immediatamente il clima di guerra, senza il quale l'anima più ideologica e rivoluzionaria (nel senso di Licio Gelli, non di Mussolini) della destra non riesce a sopravvivere e ad esprimersi. Per lui, la mano dell'aggressore di Berlusconi "è stata armata da una spietata campagna di odio, il cui obiettivo è il rovesciamento di un legittimo risultato elettorale". A condurre questa campagna secondo Cicchitto è il network dell'odio composto dal gruppo Repubblica-Espresso, dal Fatto, da Santoro, da Travaglio (definito in Parlamento "terrorista mediatico") dal partito di Di Pietro e dai pubblici ministeri che indagano su Berlusconi.
Poche ore dopo Cicchitto insieme con la Lega e con Tremonti è partito all'assalto del presidente della Camera Fini, che si era permesso di definire la scelta del governo di porre la fiducia sulla legge finanziaria certo legittima, ma "deprecabile" perché impedisce all'aula di esprimersi sulla manovra. Anche il ministro Bondi si è immediatamente accodato all'attacco pubblico a Fini. Chi critica il governo, chi manifesta un'opinione non conforme, sui giornali, in Parlamento o in televisione, diventa un nemico del Paese, un avversario della sovranità popolare, un fomentatore d'odio, e arma fisicamente la mano degli aggressori.

Cicchitto invece è un uomo delle istituzioni. Non sa concepire una via repubblicana al berlusconismo, una declinazione costituzionale del potere, una fisiologia democratica del rapporto tra governo e contropoteri, che preveda un confronto anche duro con l'opposizione e con la stampa. Non conosce il concetto laico di pubblica opinione, solo la raffigurazione mistica del popolo che soppianta i cittadini, con la sacralità e il sacrilegio dei sentimenti contrapposti di amore e odio che prendono il posto del consenso e del dissenso, categorie politiche dell'Occidente, ma non dell'Italia berlusconiana.
A questo avvelenatore di pozzi, piccolo imprenditore dell'odio ideologico che attribuisce ad altri, dobbiamo soltanto ricordare quel che abbiamo scritto domenica sera, quando uno squilibrato ha colpito il presidente del Consiglio: nel discorso pubblico democratico la piena libertà di Berlusconi di dispiegare le sue politiche e le sue idee (che difendiamo senza riserve da ogni assalto violento) coincide con la nostra piena libertà di criticarlo. Lo abbiamo fatto davanti alle sue contraddizioni negli scandali estivi, davanti alle sue menzogne chiedendogliene conto ogni giorno, davanti agli attacchi al nostro giornale e ai grandi media stranieri, davanti agli insulti alla Consulta e al Quirinale, davanti al progetto di squilibrare la Costituzione sovraordinando il suo potere per liberarsi dagli istituti di garanzia. Cicchitto si rassicuri. Lo rifaremo, appena le forzature ripartiranno, com'è inevitabile visto che servono a sfuggire i giudici e la giustizia.

Chi scambia la critica per odio e il lavoro giornalistico per violenza è soltanto un irresponsabile antidemocratico, mimetizzato dietro la connivenza di chi tacendo acconsente. Chi poi vuole usare la debolezza momentanea di Berlusconi colpito al volto e la solidarietà repubblicana che è arrivata al leader per trarne un miserabile vantaggio politico, non merita nemmeno una risposta. Stringere la mano al Premier ferito è doveroso, condannare l'aggressione è obbligatorio, far passare le leggi ad personam è impossibile. Tutto qui. Le mozioni vanno distinte dalle emozioni. Il populismo non può pensare che uno choc emotivo centrifughi tutto, il diritto, la costituzionalità, i doveri dell'opposizione.

Se Cicchitto pensa che questo momento delicato della vita repubblicana possa imbavagliare Repubblica, annacquando il suo giornalismo, si sbaglia. Il Paese, soprattutto nei momenti di confusione, si serve facendo ognuno la sua parte. La nostra è quella di informare: soprattutto degli abusi del potere, nell'interesse dei cittadini.

© Riproduzione riservata (16 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Potere e diritto
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:30:39 am
L'EDITORIALE

Potere e diritto

di EZIO MAURO


DUNQUE il Padre Costituente era un Padre Deformante. La norma del cosiddetto processo breve scardina il diritto dei cittadini ad avere giustizia, il dovere dello Stato di amministrarla, l'interesse del Paese ad una regola di base della convivenza civile come l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Soprattutto, con l'esecutivo che usa come un'arma personale il legislativo per bloccare il giudiziario, quella norma vanifica il principio della separazione dei poteri, senza il quale, come diceva la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789, una società "non ha una costituzione".

Questo è il vero punto su cui istituzioni, partiti e cittadini devono riflettere. È ben chiaro che le regole del gioco di un sistema si cambiano tutti insieme. Ma a patto che nessuno, intanto, manometta per sua personale urgenza alcune regole fondamentali, prima ancora che il confronto abbia inizio. Chi lo fa, è inaffidabile per due ragioni: perché nessuna riforma condivisa inizia con un colpo di mano, e soprattutto perché nessuna stagione costituente può fondarsi su un salvacondotto.

Con questa legge di privilegio, Berlusconi ha in realtà già riformato da solo il sistema, a forza, sovraordinando il suo potere al diritto, mentre il concetto politico-giuridico di Stato punta ad una sintesi tra potere e diritto, eliminando la forza dall'ambito delle istituzioni. Siamo davvero di fronte ad un "brusco spostamento tra politica e giustizia".

La prima regola democratica è prenderne atto, ed essere conseguenti.

© Riproduzione riservata (22 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La Grande Deroga
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2010, 02:07:32 pm
L'EDITORIALE

La Grande Deroga

di EZIO MAURO


CON TUTTO IL RISPETTO DOVUTO - fino a prova contraria - a Guido Bertolaso e con tutto il dispetto generato dalla nuovissima concezione della legalità a percentuale di Silvio Berlusconi ("se uno opera bene al 100 per cento e poi c'è l'uno per cento discutibile, quell'uno va messo da parte"), lo scandalo della Protezione civile non può essere liquidato con le promesse eroiche del super-commissario, pronto a "dare la vita" per convincere gli italiani che non li ha ingannati, e nemmeno con gli insulti rituali del premier ai magistrati: "Si vergognino, Bertolaso non si tocca".
 
Si tratta semplicemente di capire cosa sta succedendo nell'ombra gigantesca e secretata delle Grandi Opere e delle Grandi Emergenze, dove sembra affiorare - grazie all'annullamento di tutti i controlli e di ogni regola - un sistema di corruzione e di appalti pilotati compensato all'italiana con una girandola di favori personali ai funzionari statali: pagati ben volentieri e con larghezza di mezzi dalle imprese che ricevevano i lavori pubblici con scelte totalmente discrezionali, sottratte alla legge e a ogni sorveglianza. Tutto ciò impone un'operazione di trasparenza, davanti ai cittadini. Nell'interesse di Bertolaso, del governo e dei contribuenti, deve cadere il velo che occulta metodi e procedure della Protezione civile, coperti dallo stato permanente d'emergenza.

Un'emergenza che diventa eccezione, dicono i magistrati, e che ha generato un meccanismo di scambio perfetto, dove imprese private e funzionari pubblici maneggiano corruzione, appalti e favori, in una "gelatina" di Stato coperta dalla Grande Deroga berlusconiana.

I fatti, (raccolti nell'ordinanza da un gip che a Milano archiviò l'inchiesta sul Lodo Mondadori, salutato con entusiasmo da Berlusconi: "finalmente c'è un giudice a Berlino") sono semplici: tre pubblici ufficiali incaricati dalla Presidenza del Consiglio di gestire i cosiddetti Grandi Eventi dei mondiali di nuoto, del G8 alla Maddalena e dell'anniversario dell'Unità d'Italia, "hanno asservito" la loro funzione pubblica con risorse e poteri enormi "in modo totale e incondizionato" agli interessi di un imprenditore interessato. Almeno cinque grandi appalti sono stati pilotati e l'imprenditore ha ringraziato con 21 benefit regalati ai funzionari statali infedeli, ai loro amici e ai grand commis circostanti per rispondere ad ogni loro esigenza privata, dalle auto alle colf, alla ristrutturazione delle case, ai favori sessuali, ai viaggi, agli alberghi, alle assunzioni di figli e cognati.

Una "gelatina", appunto, "di ordinaria corruzione", una ragnatela che ha portato a quattro arresti, tra cui il presidente del Consiglio Superiore per i Lavori Pubblici, per corruzione continuata e a quaranta indagati, compreso Guido Bertolaso: l'ordinanza sottolinea "i rapporti diretti" dell'imprenditore beneficato dagli appalti pilotati con il Super-commissario, gli incontri "di persona" in previsione dei quali l'impresario "si attiva alla ricerca di denaro contante, tanto che gli investitori ritengono fondato supporre che detti incontri siano stati finalizzati alla consegna di somme di denaro a Bertolaso".

C'è solo da sperare che gli indagati dimostrino che le accuse non sono vere, non ribellandosi alla giustizia come Berlusconi consiglia a Bertolaso, ma aiutandola a chiarire in fretta. Intanto, purtroppo, sono vere le risate da sciacalli degli imprenditori che pregustano con certezza gli appalti statali per la tragedia dell'Aquila, e poche ore dopo la scossa raccontano al telefono: "Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro il letto".

Ma se questo è il quadro dell'inchiesta, qual è la cornice istituzionale che lo circonda? Si dovrebbe parlare di potere, più che di istituzioni, se si vuole capire. La Protezione civile, che Berlusconi sta trasformando in Spa, è infatti uno straordinario esperimento politico di Stato d'eccezione, con un ramo operativo del governo libero da ogni controllo e sciolto dalla legge. Questo vale naturalmente per le grandi sciagure, le calamità nazionali, le vere emergenze per cui è nata la Protezione. Ma poi, il governo ha esteso lo stesso sistema ai Grandi Eventi, dai giochi del Mediterraneo all'anno giubilare paolino, ai viaggi del Papa in provincia, ai mondiali di nuoto, all'esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Cupertino, alla Vuitton Cup. Nel solo 2009 le opere d'emergenza sono state 78, dal 2002 addirittura 500, con una spesa di 10 miliardi di euro.

Questa emergenza continua, che si estende ovunque, è sottratta per legge al controllo della Corte dei Conti e a quello dell'Autorità per i lavori pubblici, e la Protezione civile può agire in deroga ad ogni disposizione vigente. Libertà totale: dalle leggi sulla trasparenza, sui requisiti dei contratti, sulla concorrenza, sugli appalti, sulla pubblicazione dei bandi, sugli avvisi, sugli inviti, sulle verifiche archeologiche, sulle varianti, sui termini, sulla selezione delle offerte, sull'adeguamento prezzi, sulla progettazione.

È un sistema che, portato fuori dai confini del pronto intervento d'emergenza per le sciagure nazionali, non ha alcun senso nell'equilibrio tra i poteri dell'amministrazione statale. Acquista però un senso politico e istituzionale fortissimo nel disegno di riordino gerarchico che Berlusconi persegue, e che chiama "riforma". Il Presidente del Consiglio ha dimostrato più volte di non accettare controlli e bilanciamenti tra i poteri, ritenendo se stesso, in pratica, una deroga vivente alla Costituzione repubblicana, in quanto investito di quel consenso popolare che lo scioglie da ogni regola e ogni consuetudine, sovraordinandolo rispetto al potere giudiziario e agli organi di garanzia. Le stesse leggi ad personam che stanno bloccando il Parlamento per sottrarre il Premier al suo giudice, sono nello stesso tempo un gesto disperato di fuga e la fondazione di un nuovo ordine, dove la legge non è più uguale per tutti, perché il potere supremo può salvarsi decretando per se stesso l'eccezione, e su questa eccezione fondare una nuova gerarchia istituzionale di fatto.

In questa visione che contiene la sfida suprema e necessitata del berlusconismo, Bertolaso e la Deroga permanente in cui vive e opera rappresentano un test istintivo e naturale, su vasta scala, impiantato su un meccanismo emergenziale fatto di emozioni, dolori e spettacolarità, perfetto per un'interpretazione politica carismatica e populista. Con la Protezione civile che diventa Spa, e sta per usufruire di una speciale immunità presente, futura e retroattiva, la Deroga va al governo: e il modello Bertolaso prefigura la dimensione finale del moderno populismo di destra, con la politica ridotta a pura ideologia interpretata dal leader magari insediato al Quirinale, la partecipazione popolare ridotta a vibrazione periodica di consenso, la forma di governo resettata sul puro tecnicismo elevato a massima potenza. Il governo come solutore di problemi (proprio mentre si rifugge dallo Stato), signore delle leggi in nome di un'emergenza permanente: che rende ogni intervento pubblico octroyée da uno Stato compassionevole e propagandistico, tra gli applausi dei cittadini divenuti spettatori di un discorso pubblico tramutato in format di Grandi Eventi.

Ecco perché l'inchiesta sulla Protezione Civile colpisce il cuore del berlusconismo. Il Cavaliere ha fretta, procede per immunità e scorciatoie, riduce la politica a prospettiva di pura forza che travolge anche ogni orizzonte di riforma costituzionale condivisa. La Grande Deroga è già un cambio materiale della Costituzione, in atto, mentre qualche autorevole esponente dell'opposizione chiede ancora ogni giorno in un'intervista quando si comincia con le riforme.

Ma oggi, la Grande Deroga produce con tutta evidenza la gelatina di Stato della corruzione. E dunque diventa esemplare, dimostrando a chi non vuol capire che l'esercizio del potere fuori dai principi costituzionali che lo costringono dentro forme e limiti sfocia facilmente nell'arbitrio, nella disuguaglianza e nell'esclusione, in quell'abuso che è la vera cifra complessiva di questa destra al governo. Non solo: pregiudica quella "modernizzazione" che vive solo nella propaganda del governo ma di cui il Paese ha bisogno, negando il mercato e la concorrenza, come denuncia apertamente la Confindustria contestando la totale discrezionalità degli appalti, senza trasparenza. Riproduce un'Italia del malaffare che premia la corte e i peggiori, rimpicciolendo le opportunità dell'intero sistema.

Per queste ragioni, il governo oggi dovrebbe vergognarsi di porre la fiducia blindando il decreto che vuole far nascere la Protezione civile Spa. E l'opposizione dovrebbe sentire l'importanza della sfida, la sua portata, ed esserne all'altezza. Dopo che l'inchiesta squaderna la realtà dei Grandi Eventi, della finta emergenza, il parlamento dovrebbe diventare il luogo della trasparenza, non della militarizzazione di una decisione politica che rivela i suoi buchi neri. Questo per rispetto dei cittadini e dello stesso Bertolaso, che deve spiegare se è colluso come pensano i magistrati o se è incauto nello scegliere i suoi collaboratori, e incapace di sorvegliarne l'operato: da questo e solo da questo si capirà se deve dimettersi o può restare al suo posto, chiedendo scusa e cambiando metodo. Noi non diremo mai "diteci che non è vero", come ripetono in molti davanti alla realtà dell'inchiesta: diteci quel che è vero, piuttosto. Diteci la verità. 

© Riproduzione riservata (12 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. I silenzi del premier
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2010, 02:52:19 pm
EDITORIALE

I silenzi del premier

di EZIO MAURO


Sarebbe bene che il Presidente del Consiglio uscisse dall'imbarazzo del suo silenzio ogni giorno più grave per dire la verità sullo scandalo della Protezione Civile davanti al Parlamento e al Paese, assumendosi una responsabilità politica che a questo punto lo riguarda direttamente insieme con il dominus di Palazzo Chigi, Gianni Letta. Non c'è più soltanto la gelatina di Stato di una corruzione che scambia appalti con favori, lucrando sulle deroghe dalla legge e dai controlli previste per l'emergenza. Qui si profila un sistema che riduce lo Stato a partner delle imprese costruttrici, trasformando le sciagure nazionali in "torta" miliardaria e garantita. Con la presenza della camorra e con i soliti miserabili parassiti pubblici di contorno, funzionari, magistrati, dirigenti, grand commis e persino un giudice della Consulta.

Tutto ciò, purtroppo, riguarda anche il disastro dell'Aquila come rivelano le carte processuali. Un disastro scelto come teatro spettacolare del leaderismo carismatico e populista che interpreta le emozioni nazionali riscattandole nell'ideologia "del fare". Ecco cosa nasconde quel "fare". Un sistema di abusi di Stato, garantito direttamente da Palazzo Chigi, che genera extra legem la corruzione, se non ne fa parte, sulla pelle delle popolazioni colpite dalla sciagura. Oggi, in questo quadro, si capiscono le risate degli impresari, la notte del terremoto: sapevano che questo modo politico di "fare" li garantiva, nonostante l'improvvida smentita di Letta.

La deroga permanente della Protezione Civile rappresenta il prototipo di un modello di potere, di governo e di istituzioni che il premier prepara per se stesso: oggi quel modello precipita nella vergogna. L'uomo del "fare" non può più tacere. Lo scandalo Bertolaso è ormai lo scandalo Berlusconi.
 

© Riproduzione riservata (18 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Ci basta la verità
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2010, 03:33:14 pm
L'EDITORIALE

Ci basta la verità

di EZIO MAURO


L'INCHIESTA sulla Protezione Civile è l'irruzione della realtà - una gran brutta realtà - nell'universo magico del berlusconismo che racconta a se stesso e al Paese, dagli schermi asserviti della televisione unica, un'epopea populista di successi ininterrotti, all'insegna del "fare". Oggi si scopre che quel "fare" senza regole nasconde il malaffare. E il disvelamento è immediato, con i cittadini dell'Aquila che entrano a forza nel centro storico morto e sepolto, denunciando la mistificazione televisiva e costringendo il sindaco ad ammettere che "la Protezione Civile ci ha salutati e se n'è andata, e noi dopo dieci mesi siamo davanti a 4 milioni e mezzo di metri cubi di macerie".
Si capisce l'agitazione politica che domina il Presidente del Consiglio.

Prima ha insultato i magistrati ("vergognatevi"), poi ha taciuto per una settimana provando la carta propagandistica di una legge anticorruzione che è durata lo spazio di fanfara di un telegiornale, perché nemmeno nelle favole le volpi possono scrivere i regolamenti dei pollai. Infine ieri è tornato a parlare di complotto "che annulla i risultati miracolosi", ha attaccato l'opposizione e come sempre quando le difficoltà lo sovrastano ha denunciato "il superpartito di Repubblica" come il vero artefice di questo scandalo e di questa crisi.

Vorremmo tranquillizzarlo: un giornale non è un partito. Ma vorremmo anche spiegargli che in Occidente un giornale ha il dovere di illuminare la realtà, raccontandola, e di rappresentare la pubblica opinione che vuole conoscere e sapere, per giudicare. Noi continueremo a farlo. Berlusconi può aiutarci: dica quel che sa sugli appalti, i favori e la corruzione gelatinosa della Protezione Civile, sulla ragnatela che coinvolge Palazzo Chigi. Ancora una volta, la strada è semplice: dica la verità ai cittadini.

© Riproduzione riservata (22 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. L'abuso di potere
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 11:42:24 pm
L'EDITORIALE

L'abuso di potere

di EZIO MAURO


POICHE' «la sostanza deve prevalere sulla forma», secondo il nuovo comandamento costituzionale berlusconiano recitato dal presidente del Senato Schifani, il governo della Repubblica ha sanato ieri con una legge di comodo gli errori commessi dal Pdl, che avevano portato all´estromissione di Formigoni dalle elezioni in Lombardia e della lista berlusconiana a Roma.
Questo gesto unilaterale compiuto dalla maggioranza a tutela di se stessa può sembrare una prova di forza. È invece la conferma di un´atrofia politica di base e di vertice, che somma un vizio finale alle colpe iniziali, rivelando il vero volto che nei sistemi democratici assume la forza quando è senza politica, e fuori dalle regole che la disciplinano e la governano: l´abuso di potere.

Non c´è alcun dubbio che una competizione elettorale senza il principale partito è anomala, e il problema riguarda tutti i concorrenti (non solo gli esclusi), perché riguarda il sistema intero e il diritto dei cittadini di poter esercitare compiutamente la loro scelta, con tutte le parti in campo. Ma se il problema interpella tutti, le responsabilità di questa anomalia - che in forme diverse si è verificata a Roma e a Milano, con firme false e termini per la presentazione delle liste non rispettati - sono di qualcuno che ha un nome preciso: il Pdl. Non c´entra nulla il "comunismo", questa volta, e nemmeno c´entrano le "toghe rosse". È lo sfascio della destra che produce il suo disastro, perché quando la locomotiva della leadership non funziona più, e non produce politica, tutti i vagoni si arrestano, o deragliano senza guida.

Ora chi chiede a tutti i concorrenti di farsi carico del problema nato in Lombardia e nel Lazio, con un gesto di responsabilità politica condivisa nei confronti dell´avversario e del sistema, non ha mai nemmeno pensato di assumersi preliminarmente le sue responsabilità, ammettendo gli errori commessi, chiamandoli per nome, prendendosi la colpa. Non è venuto in mente al leader di dichiarare che si attendono le pronunce delle Corti d´Appello e dei Tar chiamati a dirimere con urgenza i due casi, e deputati a farlo, nella normalità democratica e istituzionale, e nella separazione dei poteri.

Nulla di tutto questo. Soltanto lo scarico delle responsabilità sugli altri, la tentazione della piazza, la forzatura al Quirinale, l´altra notte, con il Presidente Napolitano, nel tentativo di varare un decreto che intervenisse direttamente sulla normativa elettorale, riaprendo i termini ad uso e consumo esclusivo del partito berlusconiano. Quando il Capo dello Stato si è reso indisponibile a questa ipotesi, la minaccia immediata di due Consigli dei ministri, convocati e sconvocati tra la notte di giovedì e la mattinata di ieri. Una giornata in affanno, per il Premier, anche per il fermo "no" che ogni sua ipotesi di forzatura trovava da parte dell´opposizione, da Bersani a Di Pietro a Casini. Infine, l´abuso notturno del decreto, mascherato dalla forma "interpretativa", che va a leggere a posteriori nella mente del ministro le intenzioni di quando dettò le norme elettorali di procedura, ritagliando a piacere una soluzione su misura per gli errori commessi dalla destra a Roma e a Milano.

Le norme elettorali sono materia condivisa e indisponibile per una sola parte in causa, soprattutto quando opera a palese vantaggio di se stessa, sotto gli occhi di tutti, e per rimediare a quegli stessi suoi errori che violando le regole l´hanno penalizzata nella corsa al voto. Intervenire da soli, ex post, con norme retroattive, a meno di un mese dalla scadenza elettorale, scrivendo decreti che ricalcano clamorosamente gli sbagli commessi per cancellarli, è un precedente senza precedenti, che peserà nel futuro della Repubblica, così come pesa oggi nel logoramento delle normative, nella relativizzazione delle procedure, nella discrezionalità degli abusi, sanati a vantaggio del più forte. In una parola, questo abuso pesa sulla democrazia quotidiana che fissa la misura di se stessa - a tutela di ognuno - in passaggi procedurali che valgono per tutti.

Al Presidente del Consiglio non è nemmeno venuto in mente di consultare direttamente le opposizioni. Di chiedere un incontro congiunto con i suoi capi, di presentarsi dicendo semplicemente la verità, e cioè denunciando gli errori compiuti dal suo schieramento, assumendosene interamente la responsabilità come dovrebbe fare un vero leader, chiedendo se esiste la possibilità di un percorso condiviso di comune responsabilità per rendere la competizione completa e reale dovunque, nell´interesse primario dei cittadini elettori. Tutto questo, che dovrebbe essere un elementare dovere istituzionale e politico, è tuttavia inconcepibile per una leadership eroica e monumentale, che non ammette errori propri ma solo soprusi altrui, mentre prepara abusi quotidiani.

Quest´ultimo, con la falsa furbizia del decreto "interpretativo" (la legge da oggi si applica solo per gli avversari, mentre per noi stessi la si può "interpretare", accomodandola), completa culturalmente la lunga collana di leggi ad personam, che tutelano la sacralità intoccabile del leader, sottraendolo non solo alla giustizia ma all´uguaglianza con suoi concittadini. Anzi, è l´anello mancante, che collega la lunga serie di normative ad personam al sistema stesso, rendendolo in solido oggetto dell´arbitrio del potere: persino nelle regole più neutre, come quelle elettorali, scritte a garanzia soltanto e soprattutto della regolarità del momento supremo in cui si vota.

Nella concezione psicofisica del potere berlusconiano, la prova di forza rassicura il Premier, dandogli l´illusione di crearsi con le sue mani la sovranità stessa, fuori da ogni concerto con l´opposizione, da ogni limite di legge, da ogni controllo del Quirinale. Un´autorassicurazione che nasce dal prevalere della cosiddetta "democrazia sostanziale" rispetto a quella forma stessa della democrazia che sono le regole, la trasparenza e le procedure, vilipese a cavilli e burocrazia. Emerge dallo scontro, secondo il Premier, l´irriducibilità del potere supremo, che rompe ogni barriera di consuetudine e di norma se soltanto lo ostacolano, e non importa se la colpa è sua: anzi, da tutto ciò trae l´occasione di fondare un nuovo ordine di fatto, che basa sullo stato d´eccezione, fondamento vero della sovranità di destra.

Ma c´è, invece, qualcosa di crepuscolare e di notturno in questa leadership affannosa e affannata che usa la politica solo per derogare da norme che non sa interpretare nella regolarità istituzionale, mentre è costretta a piegarle su misura della sua necessità cogente e contingente, a misura di una miseria politica e istituzionale che forse non ha precedenti: e non può trovare complici. Le opposizioni, tutte, lo hanno capito. Molto semplicemente, un leader e uno schieramento che hanno bisogno di un abuso di potere in forma di decreto anche per poter continuare a fare politica, non possono avere un futuro.
 

© Riproduzione riservata (06 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Una questione di democrazia
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2010, 11:00:36 am
L'EDITORIALE

Una questione di democrazia

di EZIO MAURO

Non è l'aspetto penale (di cui nulla sappiamo) il punto più importante dell'inchiesta dei magistrati di Trani che indaga il presidente del Consiglio, il direttore del Tg1 e un commissario dell'Authority sulle Comunicazioni. L'ipotesi di concussione verrà vagliata dalla giustizia, e certamente il capo del governo avrà modo di difendersi e di far sentire le sue ragioni, o di far pesare le norme che bloccano di fatto ogni accertamento giudiziario sul suo conto, facendone un cittadino diverso da tutti gli altri, uguale soltanto all'immagine equestre che ha di se stesso.

Ma c'è una questione portata alla luce da questa inchiesta che non si può evitare e domina con la sua evidenza eloquente questa fase travagliata di agonia politica in cui si trova il berlusconismo. La questione è l'uso privato dello Stato, dei pubblici servizi creati per la collettività, della presidenza del Consiglio, persino delle Autorità di garanzia, che hanno nel loro statuto l'obbligo alla "lealtà e all'imparzialità", per non determinare "indebiti vantaggi" a qualcuno.

Siamo di fronte a una illegalità che si fa Stato, un abuso che diviene sistema, un disordine che diventa codice di comportamento e di garanzia per chi comanda.

Con la politica espulsa e immiserita a cornice retorica e richiamo ideologico, sostituita com'è nella pratica quotidiana dal comando, che deforma il potere perché cerca il dominio. Questi sono tratti di regime, perché il sovrano prova a mantenere il consenso attraverso la manipolazione dell'informazione di massa, inquinando le Autorità di controllo poste a tutela dei cittadini, con un'azione sistemica di minaccia e di controllo che avviene in forma occulta, all'ombra di un conflitto di interessi già gigantesco e ripugnante ad ogni democrazia. Il controllo padronale e politico sull'universo televisivo (unico caso al mondo per un leader politico) non basta più quando la politica latita e la realtà irrompe. Bisogna andare oltre, deformando là dove non si riesce a governare, calpestando là dove non basta il controllo.


Così il presidente del Consiglio, a capo di un Paese in perdita costante di velocità, passa le sue giornate tenendo a rapporto un commissario dell'Agcom per confessargli le sue paure non per la crisi economica internazionale, ma per due trasmissioni di Michele Santoro, dove la libera informazione avrebbe parlato del processo Mills e del caso Spatuzza, corruzione e mafia. I due parlano come soci, o come complici, o come servo e padrone, cercando qualche mezzo  -  naturalmente illecito perché la Rai non dipende né dall'uno né dall'altro  -  per cancellare Santoro: e l'uomo di garanzia propone al premier di trovare qualcuno che inventi un esposto (lui che come commissario dovrebbe ricevere le denunce e imparzialmente giudicarle) incaricandosi poi direttamente e volentieri di provvedere all'assistenza legale per il volenteroso.

Poi il premier parla direttamente con il direttore del Tg1, manifestando le sue preoccupazioni, e il "direttorissimo" (come lo chiama il primo ministro) il giorno dopo va in onda puntualissimo con un editoriale contro Spatuzza. Infine, lo statista trova il tempo addirittura per lamentarsi della presenza mia e di Scalfari a "Parla con me", una delle pochissime trasmissioni Rai che ha invitato "Repubblica": si contano sulle dita della mano di un mutilato, mentre il giornalismo di destra vive praticamente incollato alle poltrone bianche di "Porta a porta" e ad altri divani di Stato.

La fluida normalità di questi eventi, che sarebbero eccezionali e gravissimi in ogni Paese occidentale, rivela un metodo, porta a galla un "sistema". Citando Conrad, l'avevamo chiamata "struttura delta", un meccanismo che opera quotidianamente e in profondità nello spazio tra l'informazione e la politica, orientando passo per passo la prima nella lettura della seconda: in modo da ri-costruire la realtà espellendo i fatti sgraditi al potere o semplicemente rendendoli incomprensibili, per disegnare un paesaggio virtuoso in cui rifulgano le gesta del Principe.

Oggi si scopre che il premier è il vero capo operativo della "struttura delta" e non solo l'utilizzatore finale. Lui stesso dà gli ordini, inventa le manipolazioni della realtà, minaccia, evoca i nemici, suggerisce le liste di proscrizione, deforma il libero mercato televisivo, addita i bersagli. Che farà quest'uomo impaurito con i servizi segreti che dipendono formalmente dal suo ufficio, se usa in modo così automatico e disinvolto la dirigenza della Rai e le Autorità di garanzia, istituzionalmente estranee al suo comando? Come li sta usando, nell'ombra e nell'illegalità, contro gli stessi giornalisti che lo preoccupano e che vorrebbe cancellare, in una sorta di editto bulgaro permanente?

La sfortuna freudiana ha portato ieri Bondi a evocare una "cabina di regia" di giudici e sinistre, proprio mentre il Gran Regista forniva un'anteprima sontuosa del suo iperrealismo da partito unico, a reti unificate. La coazione gelliana a ripetere ha spinto Cicchitto a evocare il "network dell'odio", proprio quando il Capo del network dell'amore insulta avversari e magistrati, in una destra di governo ormai e sempre più ridotta alla ragione sociale della P2, che voleva occupare lo Stato, non governarlo. L'istinto ha condotto La Russa ad afferrare per il bavero un giornalista critico del leader, alzando le mani come la guardia pretoriana di un sovrano alla vigilia del golpe, proprio nel momento in cui un collaboratore si chinava in diretta televisiva sul premier suggerendogli la risposta giusta, in un fuori onda del potere impotente che certo finirà nei siparietti quotidiani di Raisat.

La verità è che ogni traccia di amministrazione è scomparsa, nell'orizzonte berlusconiano del 2010, ogni spazio di politica è prosciugato. Questo, è ora di dirlo, non è più un governo (salvo forse Tremonti, che bene o male si ricorda di guidare un dicastero), non è una coalizione, non è nemmeno un partito. Stiamo assistendo in diretta alla decomposizione di una leadership, a un potere in panne, nella sua pervasiva estensione immobile che non produce più nulla, nemmeno consenso, se è vero il declino dei sondaggi.

Era facile prevedere che l'agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile, e le istituzioni pagheranno nei prossimi mesi un prezzo molto alto. Non abbiamo ancora visto il peggio. Ma non pensavamo a questo spettacolo quotidiano di un sovrano sempre più assoluto e sempre meno capace di autorità: costretto in pochi giorni a rimediare con un decreto di maggioranza a errori elettorali del suo partito, mentre è obbligato a bloccare il Parlamento con due leggi ad personam che lo sottraggono ai suoi giudici, sempre più ossessionato dalla minima quantità di libera informazione che ancora sopravvive in questo Paese.

Nessuno di questi problemi, ormai, si risolve nelle regole. La deformazione è il nuovo volto della politica, l'abuso la sua costante. Si pone una questione di democrazia, fatta di sostanza e di forma, equilibrio tra i poteri, rispetto delle istituzioni, ma anche semplicemente di senso del limite costituzionale, di rispetto minimo dello Stato e della funzione che grazie al voto dei cittadini si esercita pro tempore. Questo e non altro  -  la cornice della Costituzione  -  porterà oggi in piazza a Roma migliaia di persone. È un sentimento utile a tutto il Paese, comunque voti. Un Paese che non merita questa riduzione miserabile della politica a calco vuoto di un sistema senza più un'anima, in un mix finale di protervia e di impotenza che dovrebbe preoccupare tutti: a sinistra e persino a destra.

 
© Riproduzione riservata (13 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. La partita da giocare
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2010, 05:54:08 pm
IL COMMENTO

La partita da giocare

di EZIO MAURO

L'effetto simbolico del Lazio e del Piemonte che cambiano di segno politico fa pendere la bilancia elettorale dalla parte di Silvio Berlusconi, che era entrato indebolito nella cabina elettorale e ne è uscito rafforzato: tutto il resto è chiacchiera. In gran parte, il Cavaliere gode per la vittoria altrui a cui ha pagato un prezzo, consegnando alla Lega le chiavi di due grandi regioni settentrionali e dunque il governo diretto del territorio, con il passaggio dalla Padania immaginaria all'Italia reale. Ma intanto Bossi con la sua vittoria personale consegna tutto il Nord al Cavaliere, ad eccezione della Liguria, e dunque consente all'impero berlusconiano di allargarsi da est a ovest, senza veder mai tramontare il sole della destra.

Un'alleanza a ruoli invertiti nel Nord, con Bossi che diventa nei fatti il Lord Protettore di un berlusconismo declinante nella sua parabola, ma ancora capace di costruire vittorie. E un'alleanza sotterranea ma evidente a Roma con la Chiesa, che ha trasformato il Lazio in un totem, abbracciando il Gran Pagano pur di sconfiggere Emma Bonino, con i vescovi che scendono in campo nel 2010 italiano non per difendere un valore ma per dare un'indicazione esplicita di voto, come una qualsiasi lobby secolare, mondana e ultraterrena.

Al centro di questo sistema, un Cavaliere invecchiato e forse stanco, ipnotizzato dai suoi stessi malefici dopo un anno di scandali e rincorse giudiziarie, assorbito da sé oltre la normale patologia, circondato dai falsi movimenti di generali e colonnelli che preparano esplicitamente il dopo senza averne il talento e il coraggio. Un leader incapace da un anno di produrre alcunché - salvo le leggi ad personam per sfuggire ai suoi giudici - né politica né amministrazione, cioè governo. E tuttavia resta una differenza notevole, fortissima, tra il Berlusconi Premier e il Berlusconi campaigner, tra l'uomo di governo e la macchina elettorale. Quella macchina ancora una volta ha funzionato, tra vittimismi, accuse, attacchi, promesse, denunce, spostando a Roma i voti dalla lista Pdl che non c'era alla Polverini, come un alchimista. E anche questa è politica, quando riesce a convincere il Paese, e a riacchiapparlo nelle urne dopo averlo in parte perduto.

L'indebolimento a cui stiamo assistendo da un anno, dunque, non è tanto della leadership che ha una sua forza materiale e sta in qualche modo nella pancia del Paese, in un rapporto tra leader e popolo fatto di protezione reciproca, con il Capo che comanda ma chiede aiuto, quando ne ha bisogno perché si sente assediato dai disastri autofabbricati. L'indebolimento è della proposta politica e della sua capacità di guida, con il nucleo fondante di Forza Italia che ricorda la vecchia Dc declinante, negli anni in cui doveva cedere quote sempre più rilevanti di potere agli alleati con la convinzione di poter conservare il comando. Soltanto che qui la parabola non è ideologica ma biologica, nel senso che la politica e le sue scelte sono una variabile della biografia del leader, non dei valori di un partito o dei bisogni del Paese.

Sei regioni a destra, di cui quattro riconquistate, il segno del comando sul Nord, sono la cifra del successo di Berlusconi. Sotto questo risultato si allarga però la realtà di un declino che ha portato il Pdl al 26,7 per cento contro il 32,3 delle europee del 2009, il 33,3 delle politiche 2008 e il 31,4 delle regionali 2005, dove l'esito fu disastroso. E' la crepa che abbiamo segnalato un anno fa, alle elezioni europee, quando il Cavaliere ruzzolò dieci punti sotto le previsioni trionfalistiche della vigilia, grazie ai suoi scandali personali, quindi politici. Quella crepa dunque lavora, dopo un anno passato dal Premier ad inseguire un guaio dietro l'altro, con abusi di potere, forzature e prepotenze. Anzi, la crepa si allarga, tanto che senza l'energia politica - ma privata - della Lega, la consunzione di Berlusconi sarebbe evidente a tutti.

Paradossalmente, dunque, il Paese è contendibile, dopo un quindicennio di sovranità berlusconiana. Questo è un dato di fatto di grande importanza, confermato dal voto. Nelle 13 regioni dove si è votato, il fragile bipolarismo italiano vede il Pdl al 26,7, il Pd al 26,1, seguiti dalla Lega al 12,28, da Di Pietro al 7,2, da Casini al 5,5 per cento. Il Paese è contendibile, ma questo Pd non è oggi in grado di contenderlo. Ecco il problema. Bersani, che è arrivato da poco alla guida del partito, può contare le sette regioni conquistate contro le sei del Polo, per concludere che il Pd è tornato in gara. Ma non si può pensare di governare un Paese se si è esclusi dal Nord, se si precipita al 28 per cento nel Nordest e se si pensa di parlare ancora al Nordovest dai gloriosi cancelli di Mirafiori: senza sapere che nel nuovo piano Fiat tra pochissimi anni dietro quei cancelli ci saranno appena 2500 persone, perché il mercato del lavoro è cambiato, come la fisionomia di Torino, come la natura stessa del Piemonte, dove in tutta la provincia la Lega, urlando, ha sostituito il mormorio governativo della Democrazia cristiana: e il trapianto è riuscito.

L'astensione che penalizza il Cavaliere (ma non i partiti identitari, come la Lega e il movimento di Di Pietro) precipita anche addosso al Pd. Il che significa, molto semplicemente, che il principale partito d'opposizione non intercetta il malcontento dell'elettorato di maggioranza, e in più produce in proprio ragioni d'insoddisfazione. Dunque non funziona né l'opposizione, né la proposta di alternativa. D'altra parte il Pd si è esercitato principalmente, in questi mesi, nella costruzione di un "meccano" di alleanze, come se la politica fosse riassumibile dalla sola aritmetica, e come se l'identità e la natura di un partito non fossero più importanti di qualsiasi tattica. Gli elettori non sanno se il Pd è un partito laico, in un Paese in cui la Chiesa si muove come un soggetto politico; non sanno se è una forza di opposizione, con tutte le offerte di dialogo che alcuni suoi uomini specializzati rivolgono quotidianamente al Cavaliere, qualunque cosa accada; non sanno nemmeno se è di sinistra, in un Paese in cui la destra - e destra al cubo - mostra il suo vero volto in ogni scelta politica, istituzionale o sociale.

In più, c'è un problema di selezione delle élite, di politica dei quadri, di scelta dei candidati. Che senso ha candidare Loiero in Calabria, per poi fermarsi al 32 per cento? E che senso ha la guerra a Vendola, governatore uscente maledetto dal partito pochi mesi fa senza una ragione logica, e oggi salutato come il vincitore delle regionali da chi lo ha combattuto? La realtà è che il Pd ha un senso se è un partito nuovo non solo dal punto di vista delle eredità novecentesche, ma anche nella forma, nel metodo e nel carattere: un partito forte ma disarmato, nuovo in quanto scalabile, aperto perché contendibile, attento alle risorse, ai talenti e alle disponibilità democratiche che esistono in mezzo alla sua gente, senza che i dirigenti lo sappiano. Come esiste, tra gli elettori di sinistra e anche tra coloro che - sbagliando - si sono astenuti, un orizzonte italiano diverso da quello immobile e unico del berlusconismo. Un Paese che non è "anti", come viene raccontato dai cantori di comodo: è semplicemente diverso, perché conserva l'idea di una moderna democrazia costituzionale, di uno Stato di diritto, della legalità, della libertà, dell'uguaglianza. Un'Italia che per queste ragioni si oppone a Berlusconi, e chiede piena rappresentanza.

Rappresentare fino in fondo quest'Italia significa acquistare autonomia culturale e politica, indispensabili in questa nuova fase in cui le fanfare unificate dei regi telegiornali proclamano già l'avvio del "dialogo" per le riforme, che cominceranno proprio con la giustizia. Un'autonomia che consentirà di approfondire le contraddizioni dentro la destra (come la sconfitta di Brunetta e Castelli, o le dimissioni di Fitto da ministro), di vigilare sulla manomorta della Lega sulle banche attraverso le fondazioni, sui problemi che nasceranno dall'incrocio maldestro del nuovo federalismo col vecchio statalismo che non si lascia smontare.

C'è parecchio lavoro da fare, nell'interesse del Paese, per evitare che l'avventura berlusconiana si compia al Quirinale. Non ultimo, cercare un leader che possa sfidare il Cavaliere e vincere, come avvenne con Prodi: e cercarlo in libertà, anche fuori dai percorsi obbligati di età, di appartenenza e di nomenklatura. Forse, anche a sinistra è arrivata l'ora di un Papa straniero.

da repubblica.it


Titolo: EZIO MAURO. Lo scudo sbrecciato
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2010, 11:00:54 am
EDITORIALE

Lo scudo sbrecciato

di EZIO MAURO


C'E' DEL METODO nella follia che si abbatte sul governo con lo scandalo Scajola, costringe il ministro alle dimissioni, e colpisce con uno sfregio il tabernacolo del potere berlusconiano, di cui l'ex titolare delle Attività Produttive fa parte fin dall'inizio, sedici anni fa.

Dopo che Repubblica aveva dato la notizia dell'inchiesta sulla casa del ministro pagata da un costruttore, il mondo berlusconiano ha tentato di far valere per alcuni giorni anche per Scajola lo specialissimo scudo di dissimulazione, banalizzazione, vittimizzazione che il Premier impiega abitualmente per difendere se stesso, quando spunta un'ipotesi di reato. Ma questa volta si è capito che lo scudo del potere è sbrecciato: di fronte all'evidenza dei fatti, alle testimonianze convergenti, all'incapacità di mettere in campo obiezioni concrete e fondate, la strategia del vittimismo, della "campagna mediatica", del "fango" non ha retto. Il ministro ha dovuto dimettersi davanti alla pubblica opinione prima ancora che davanti ai rilievi dei magistrati e alle domande del Parlamento, dimostrando che Berlusconi alla fine sa proteggere soltanto se stesso, e che i cittadini attraverso i giornali possono far valere le buone ragioni di chi chiede conto al potere dei suoi comportamenti.

Si capisce perfettamente che il presidente del Consiglio, con l'immagine del governo deturpata dalle dimissioni obbligate del ministro, si lamenti dei giornali e del loro ruolo, come fa ogni volta che uno scandalo lo sovrasta. "C'è fin troppa libertà di stampa", ha detto ieri, e non si capisce se è una denuncia o un programma. Effettivamente, la libertà di stampa che il Premier vorrebbe ridurre con la legge sulle intercettazioni ha portato alla luce lo scandalo, ha costretto il ministro a infilare una serie di contraddizioni e di spiegazioni impossibili, ha prodotto documenti e testimonianze di altri attori di questa vicenda, e infine ha indotto Scajola a firmare le sue dimissioni, per la seconda volta in pochi anni: a conferma, almeno statisticamente, dell'imperizia del Cavaliere nella scelta dei suoi collaboratori.

Ma il metodo è altrove, oltre la coazione a ripetere di Scajola, oltre la tentazione a coprire gli scandali del Cavaliere. Questa storia, infatti, promette di essere soltanto all'inizio, pronta ad allargarsi pericolosamente. Vediamo. Il ministro è accusato di essersi fatto comprare (per due terzi) una casa da un costruttore che è nel giro degli appalti di Stato, è al centro del turbine vorticoso della Protezione Civile, è pronto a trasformarsi - dicono le carte dei magistrati - in sbrigafaccende per i potenti che ruotano intorno a Palazzo Chigi. Scajola nega di aver avuto soldi da questo Anemone, ammette che qualcuno a sua insaputa potrebbe aver pagato in parte quell'appartamento a suo nome, parla di intimidazioni nei suoi confronti, fa intendere manovre politiche ai suoi danni, per farlo fuori. Ma non rivela nessun elemento che possa dar corpo ad una operazione orchestrata ai suoi danni, né fa i nomi dei manovratori che - forse nel suo partito - agirebbero contro di lui.

Resta in campo dunque soltanto l'ipotesi di una casa pagata coi soldi di un costruttore: tanto che sotto il peso di questa unica ipotesi, il ministro si deve dimettere. Ma un minuto dopo l'evidenza di questo peso giudiziario e politico, nasce una domanda obbligatoria, a cui Scajola - e non solo lui - deve rispondere anche dopo le dimissioni: perché un costruttore sborsa 900 mila euro per comperare la casa a un ministro? Qual è la ragione, quale la logica, quale il tornaconto? In sostanza: cosa ha fatto quel ministro, cosa ha fatto il governo di cui fa parte, per ottenere quella ricompensa? A quale obbligo di riconoscenza rispondeva il costruttore, per sdebitarsi così generosamente (e imprudentemente) con uno degli uomini più in vista, oggi come ieri, del governo Berlusconi?

Questa è una domanda che non può restare senza risposta. Le dimissioni risolvono un imbarazzo istituzionale ma non sciolgono il nodo di quel favore, la ragione politica, governativa, quindi pubblica, che sta dietro quell'operazione di mutuo soccorso di cui la pubblica opinione conosce soltanto un elemento, i 900 mila euro del costruttore per la casa del ministro. Ma in cambio di che cosa? Di quale favore evidentemente non confessabile, se ha un prezzo così alto e così intimo? Di quale promessa economicamente rilevante, se l'anticipo è di queste dimensioni? Di quale meccanismo di scambio collaudato e sicuro, se lo si olia con 900 mila euro?

Il punto politico è proprio qui, dove comincia il metodo. Scajola sembra essere soltanto uno degli attori di questa vicenda in cui si incontrano il governo, gli appalti, la Protezione Civile, la propaganda, l'emergenza, i grand commis profittatori, i magistrati compiacenti, i costruttori beneficati e benefattori. Un insieme che è stato chiamato la "cricca" impropriamente, perché non è il cast di un film dei Vanzina: è un vero e proprio "sistema" politico-affaristico, con gli appalti di Stato che in nome dell'emergenza sfuggono a ogni regola e a tutti i controlli, movimentano miliardi e producono un ritorno in favori d'ogni genere, dai massaggi alle ristrutturazioni delle case, dagli appartamenti pagati ai conti degli alberghi, alle prostitute, alle assunzioni dei parenti.

Nelle carte dell'inchiesta sulla Protezione Civile, questo sistema è descritto nei dettagli, disegnato con ritratti precisi ed espliciti. Anche se oggi si prova a dimenticarlo, quel "sistema" è venuto in parte alla luce, è sotto gli occhi di chi vuol vederlo, e qualcuno dovrà renderne conto. Proviamo a inserire Scajola e gli ottanta assegni dentro il perimetro di quel sistema e tutto diventa coerente, e comprensibile. Il ministro, probabilmente, non si riteneva immune personalmente, come il suo Capo: ma pensava e sapeva di far parte del "sistema", perché conosceva i meccanismi di funzionamento, il nome e il cognome dei beneficati, le garanzie reciproche di sicurezza che legano gli appalti e i favori, all'ombra del governo.

Che ha da dire il governo, su questo? L'onorevole presidente del Consiglio? Chi spiega ai cittadini perché, e in cambio di che cosa, quel costruttore doveva comprare una casa al ministro? La domanda resta in campo, senza risposta fino ad oggi. La responsabilità penale è certamente personale: ma quella politica è più ampia, e il governo Berlusconi deve risponderne insieme con Scajola.

(05 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/05/news/lo_scudo_sbrecciato-3823585/


Titolo: EZIO MAURO. La menzogna
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2010, 04:30:26 pm
EDITORIALE

La menzogna

di EZIO MAURO

C'è qualcosa che lega insieme l'attacco di Berlusconi a Repubblica, durante l'ultima puntata di Ballarò, (dopo che Massimo Giannini gli aveva ricordato le sue dichiarazioni di sostegno agli evasori fiscali), le accuse all'Ipsos perché Nando Pagnoncelli aveva semplicemente illustrato il suo calo di consensi nei sondaggi, e la legge che vuole imbavagliare la stampa: è l'uso della menzogna come arte di governo, per la paura  -  anzi il terrore  -  che il Premier prova per la verità.

In due occasioni il Presidente del Consiglio (2004 e 2008) aveva pubblicamente spiegato che bisogna considerare "giustificabile" l'elusione o l'evasione quando le tasse sono troppo alte (come in Italia), perché in questo caso l'evasione "è in sintonia con l'intimo sentimento di moralità" del contribuente. L'altra sera ha preferito dimenticarsene, negando platealmente la realtà, pur di rientrare in qualche modo dentro la cornice di emergenza economico-finanziaria disegnata dal suo ministro dell'Economia, che ormai lo commissaria persino in tivù.

L'accusa all'Ipsos e a Pagnoncelli è la conferma di una visione totalmente ideologica del Paese e della politica, dove non c'è spazio per l'irruzione della verità e i sondaggi che non certificano l'immutabilità perenne del consenso e del comando sono automaticamente "fasulli": semplicemente perché non coincidono con l'immagine che il leader ha di sé, e che lo specchio magico dei suoi telegiornali gli restituisce ogni giorno, rassicurandolo nel controllo della realtà.

Il rifiuto di ogni contraddittorio, confermato da quel telefono riagganciato in diretta televisiva dopo il diktat sovrano, è la prova di un arroccamento più impaurito che arrogante, con il Premier ormai incapace di discutere e di accettare un confronto. Si capisce perfettamente, dopo l'ultimo reality show berlusconiano, la legge bavaglio: impediamo ai giornali di raccontare la realtà, così un'unica verità di Stato verrà distribuita ai cittadini del più felice Paese del mondo. Ma le bugie hanno le gambe corte, e il tempo dell'inganno è scaduto.

(03 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/03/news/mauro_3_giugno-4531219/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. Il perché di una pagina bianca
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:03:50 pm
EDITORIALE

Il perché di una pagina bianca

di EZIO MAURO


Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili  -  nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia  -  e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.

La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all'ostruzionismo irragionevole l'attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell'interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L'Aquila.

Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.

Ciò che resta, finché potrà durare, è l'atto d'imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini  -  quello di sapere  -  cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere.
Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.

(11 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/11/news/mauro_pagina_bianca-4742413/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Esercizio di responsabilità
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2010, 08:58:23 am
L'EDITORIALE

Esercizio di responsabilità

di EZIO MAURO

All'improvviso, tutto il Paese ha guardato al referendum di una fabbrica del Sud come a un moderno giudizio di Dio. Dunque gli "invisibili" esistono, contano e pesano, quando prendono la parola, sia pure in condizioni estreme: e l'operaio e l'officina tornano a sorpresa ad essere un soggetto e un luogo politico, in questa Italia 2010, che pure credeva di aver cambiato per sempre il palinsesto. Avevamo dimenticato i produttori, soverchiati dai consumatori, come attori sociali e culturali. Avevamo inseguito le meteore dell'immateriale, avevamo nascosto addirittura il vecchio concetto di lavoro dietro le nuove rappresentazioni dei saperi, delle competenze, della professionalità. E invece quando l'impresa vuol fare i conti con la globalizzazione, deve farli anche con il lavoro, e addirittura con i lavoratori.

Quel giudizio di Dio è stato al contrario un esercizio di responsabilità. Ha vinto il "sì", e nettamente, perché davanti alla possibilità di un investimento industriale che risale al contrario il percorso tipico della società globale (cercare lo sviluppo fuori dai confini del vecchio Stato-nazione, per scaricare invece i problemi che ne nascono sulla rete statale e nazionale) l'istinto di sopravvivenza ha portato la maggioranza dei lavoratori ad approvare il piano Fiat, com'era inevitabile. Ma la forte percentuale di "no" significa che lo scambio tra lavoro e diritti inquieta e non convince le persone coinvolte, che chiedono di tenere il dossier spalancato, per continuare a discutere e negoziare. C'è un problema aperto a Pomigliano, il giorno dopo.

Ora la Fiat fa capire che il risultato la delude, anche perché non la copre politicamente dal rischio di una valanga di ricorsi sui diritti che l'accordo mette in gioco. Il piano "A", cioè lo spostamento a Pomigliano della nuova Panda dallo stabilimento polacco di Tychy, garantendo con le nuove regole dell'accordo separato un investimento da 700 milioni di euro, per l'azienda è in forse. Si pensa al cosiddetto piano "C", che prevede di chiudere Pomigliano e riaprirlo, con una newco, cioè una nuova società che riassuma tutti i lavoratori con il contratto firmato nell'intesa separata.
Diciamo subito che dopo aver caricato di tante attese e di significati epocali questo referendum, le parti dovrebbero sentirsi tutte vincolate al quadro d'intesa che è stato sottoposto al voto. Il risultato obbliga tutti. "Lavoreremo con i sindacati che si sono assunti la responsabilità dell'accordo", dice la Fiat per individuare e attuare insieme "le condizioni di governabilità necessarie per realizzare i progetti futuri". Questo significa escludere la Fiom, che ha detto no e non ha firmato l'intesa, da ogni negoziato e da ogni verifica per l'attuazione dell'accordo? È praticamente impossibile, se si pensa che un lavoratore su tre ha condiviso quella posizione. La gestione del nuovo patto diventerebbe impraticabile nella quotidianità e nella materialità della fabbrica.

L'unica strada ragionevole, a questo punto, è l'apertura di un confronto che abbia alla base il risultato non equivoco del referendum, e cioè l'accettazione di un piano che è passato al vaglio del voto. Tenendo conto che ci sono modifiche possibili, capaci di salvare le ragioni imprenditoriali di produttività, di efficienza e di garanzia dell'investimento e di includere nell'intesa quel terzo di lavoratori che ha seguito la Fiom nel suo "no".

La Fiat fino ad oggi ha messo in campo ragioni di competitività, di compatibilità, di opportunità offerte altrove dal mercato globale. Deve valutare se intende restare su quel terreno che ha contraddistinto l'era di Marchionne, oppure se vuole fare politica, usando Pomigliano come test di una redifinizione non tanto dei rapporti tra produzione e capitale, ma tra lavoratori e impresa, attraverso il ruolo e lo spazio del sindacato. Chi ha parlato con i vertici del Lingotto in questi giorni, ha avvertito una presa di distanza dagli opposti ideologismi in campo, nel governo e nella Fiom. Si tratta adesso di considerare il risultato del referendum, i suoi "sì" e i suoi "no" anche alla luce della ridotta quota di libertà che avevano i lavoratori davanti a un'urna che poteva decretare la cancellazione della loro fabbrica e del loro futuro. Da qui può nascere una tutela delle necessità dell'azienda, coniugata con uno sforzo di responsabilità. E' vero che Marchionne vive nel Dopo Cristo, e questo gli ha consentito di ribaltare una società fallita, ma è anche vero che lui e i suoi uomini non possono ignorare che l'Italia non è per la Fiat un Paese qualsiasi, anche considerando quanto lo Stato ha fatto per Torino.

Nello stesso tempo, un esercizio di responsabilità è necessario anche per la Fiom. Nel "sì" come nel "no" operaio c'è la coscienza del limite a cui è arrivato il confronto di Pomigliano, e il referendum può essere l'occasione di un percorso sindacale di emancipazione partendo proprio dalla compressione dei diritti, che i lavoratori hanno toccato con mano. Ma la forza contrattuale nasce dalla dignità del lavoro e dalla responsabilità che ne consegue: anche per il sindacato. Com'è possibile che la Fiom abbia coperto abusi e distorsioni nel processo produttivo fino a quando Marchionne non li ha usati come denuncia nel confronto di questi giorni?

Sono in campo dopo Pomigliano questioni gigantesche che possono dare al sindacato uno spazio nuovo, e persino formare una nuova coscienza operaia, come si diceva una volta. Perché i vasi comunicanti della globalizzazione che spingono le produzioni verso i mercati emergenti per un dumping favorevole di diritti e di salari, potrebbero funzionare anche in una diversa direzione, estendendo a quei Paesi più poveri la democrazia dei diritti che l'Occidente ha conquistato in più di un secolo, e che fino a ieri considerava acquisiti, parte della sua civiltà materiale e morale, forma stessa del suo modo d'essere. Non pensarlo, non testimoniarlo, significa semplicemente non avere fede nella democrazia, considerarla un concetto relativo, che vale solo alla latitudine occidentale, e non ha valore universale.

Tutto questo dovrebbe valere soprattutto per la politica. Ma quale politica? Pomigliano ha dimostrato clamorosamente che i lavoratori hanno scarsa o nulla rappresentanza, in un'Italia in cui il Presidente del Consiglio corre ad arringare la Federalberghi, si fa applaudire dagli artigiani, abbraccia la Confcommercio. Purtroppo, in questa vicenda il governo ha giocato il ruolo peggiore, gregario e velleitario insieme, all'insegna della pura ideologia: che resiste soltanto in Italia, tra i Paesi europei, e che certo non è uno strumento di risoluzione dei conflitti. I ministri interessati, si sono gettati sull'osso di Pomigliano per un puro ideologismo, cercando riparo nella forza della Fiat per usarla là dove vorrebbero arrivare ma non possono, da soli, e cioè al regolamento finale dei conti con la Fiom e poi con la Cgil. Spaventa vedere un pezzo di governo impegnato nel cuore di una vertenza di portata nazionale esclusivamente per regolare i conti del Novecento, che non è capace di chiudere per via politica, vista la sua mancanza di disegno, di autonomia, di autorità.
E' questo intervento autoritario e parassitario che ha dato un segno di "classe" all'affare Pomigliano, stupefacente negli anni Duemila. Quei ministri che urlavano al nuovo ordine quando credevano di avere una valanga di voti (altrui) in tasca, ieri mattina erano preoccupati di rimanere con il cerino in mano, se la Fiat si ritirava, e battevano in ritirata, come qualche leader sindacale.

Nel piano Fiat di Pomigliano avevano visto e celebrato soprattutto l'attacco al diritto di sciopero, costituzionalmente garantito, per usarlo come testa d'ariete contro la Costituzione, di cui già volevano cambiare l'articolo 41 per cancellare quei "fini sociali" verso i quali va indirizzata l'attività economica secondo la Carta: ignorando che si tratta delle finalità che riguardano il funzionamento del mercato in condizioni corrette di concorrenza, in un sistema di economia di mercato aperto.
Questa ideologia di classe  -  che tiene insieme l'idea di una democrazia senza libertà d'informazione e l'idea di una Costituzione senza lavoro  -  non capisce che senza sicurezza materiale non c'è libertà politica, e questo è il senso dell'articolo 1 della Cosituzione, che eleva il lavoro a fondamento della Repubblica. Non solo. Se si scambiano diritti contro lavoro, salta la distinzione stessa tra politica ed economia, cioè viene meno la sovranità democratica e istituzionale della politica, cui tocca fissare la cornice giuridica e sociale che rende legittima l'azione economica e la sua crescita. Salta il tavolo di compensazione dei conflitti, che tiene insieme i vincenti e i perdenti della globalizzazione: fino ad oggi. Salta, infine, il nesso della modernità occidentale così come la conosciamo, il nesso tra capitalismo, Stato sociale, opinione pubblica e democrazia. Il governo ci pensi, provi a salvarsi, e faccia la parte che gli spetta per dare un esito al referendum di Pomigliano.

(24 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/24/news/pomigliano_ezio_mauro-5104806/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. La verità fa paura
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 04:56:42 pm
La verità fa paura

Berlusconi attacca di nuovo gli organi d'informazione.

Siamo davanti a un premier che usa i vertici internazionali per regolare i conti domestici.

Teme la pubblica opinione.

Ma noi continueremo a fare il nostro mestiere. Perché i cittadini vogliono sapere, per poter giudicare

di EZIO MAURO


IL tycoon delle televisioni ha paura dei giornali. Da San Paolo, dov'è in visita di Stato, il Presidente del Consiglio ieri ha trovato modo di attaccare gli organi d'informazione (quelli che non controlla e che non possiede, naturalmente, abituato com'è alla totale obbedienza televisiva), denunciando "una disinformazione totale e inconcepibile, da molti mesi a questa parte". Poi ha lanciato una proposta inedita: "Bisogna fare uno sciopero dei lettori e insegnare ai giornali italiani a non prenderli in giro".

Siamo dunque davanti ad un Premier che usa i vertici internazionali per regolare i conti domestici con il potere d'informazione, che non è ancora interamente oggetto del suo dominio, e che lo spaventa perché introduce elementi di verità e di critica nel paesaggio televisivo: dentro il quale il leader coltiva il senso comune nazionale, canale di egemonia e di consenso. In Occidente, non si è mai visto un Capo di governo impegnato ad eccitare una impossibile rivolta populista per far tacere le (poche) voci critiche che rompono il coro.

Tutto ciò è ancora più grave se si pensa che l'uomo politico in questione è anche editore, perché non ha mai voluto dismettere il controllo proprietario pieno ed effettivo sulle reti televisive di sua proprietà e sui suoi giornali, variamente appaltati. Che spettacolo, per i brasiliani e gli italiani.

Siamo davanti ad un Presidente del Consiglio che teme la pubblica opinione. E a un editore che teme i giornali.
Possiamo assicurarli entrambi (spaventati dalla verità, e dalla libertà) che continueremo a fare il nostro mestiere: perché i cittadini vogliono sapere, per poter giudicare. E non prendono ordini dal Premier su cosa bisogna leggere, nell'Italia berlusconiana.

(29 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/29/news/ezio_mauro_berlusconi_stampa-5236016/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. Il piano inclinato
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2010, 09:18:55 am
L'EDITORIALE

Il piano inclinato

di EZIO MAURO

È la legge di gravità che ha costretto infine Aldo Brancher a dimettersi ieri da ministro.
Persino in Italia, non si può rimanere sospesi nel nulla governativo senza deleghe, senza ragioni politiche, senza giustificazioni istituzionali, appesi soltanto ad un'urgenza privata di salvaguardia dalla giustizia, per scappare al proprio giudice e all'uguaglianza costituzionale dei cittadini di fronte alla legge, secondo lo sperimentato modello Berlusconi.

 Per questa ragione il Premier è nudo, dopo le dimissioni di Brancher, davanti al sopruso tentato e non consumato. Il sistema - quell'insieme di regole, soggetti, diritti e doveri che reggono la Repubblica democratica - si può forzare fino a un certo punto, non oltre. Il Cavaliere ha toccato con mano questo confine: la sconfitta è pesante proprio perché è la prova di un'impotenza e la conferma che l'arbitrio ha un limite. Quel limite democratico che passa tra la tenuta delle istituzioni responsabili e la reazione della pubblica opinione.

 È un Cavaliere dimezzato quello che nomina Brancher ministro e poi lo ritira, svilendo il governo nelle porte girevoli di un triste vaudeville. Una specie di animale politico ferito perché la prepotenza istituzionale era stata finora la sua vera arma per uscire dalle difficoltà, quando si trovava nell'angolo.

Ora rimane l'angolo, le difficoltà si ingigantiscono sotto gli occhi di tutti, ma la prepotenza non funziona più. Il ruggito del "ghe pensi mi" viene ingigantito dai telegiornali, ma sembra venire dal cimitero degli elefanti, quasi una richiesta d'aiuto. Così l'annuncio roboante di pochi giorni fa, a reti unificate, si rovescia nel preannuncio di una ritirata impaurita, da governo balneare democristiano.

Che cosa resta di questo avventurismo da fine corsa? Le impronte digitali, prima di tutto, sugli annali della Repubblica.
Sono le impronte tipiche di Berlusconi e testimoniano due cose: prima fra tutte, la concezione privata dello Stato, e l'uso del governo e dei ministeri come un qualsiasi appannaggio personale, di cui il Capo può disporre comunque a vantaggio di chiunque, meglio se si tratta di suoi ex dipendenti aziendali.

Ma è ancora più grave, perché rivelatrice, la seconda lezione che si deve trarre dal caso Berlusconi-Brancher.
Ed è il rapporto inconfessabile che lega il nostro Presidente del Consiglio ad alcuni uomini - ieri Previti, oggi Brancher, ieri, oggi e domani Dell'Utri - che conoscono e partecipano il segreto oscuro delle origini. Fra questi personaggi e il Cavaliere il rapporto sotto pressione diventa drammatico e costringente da entrambe le parti. Un rapporto servo-padrone ma con i ruoli che si scambiano, perché è via via sempre più palese che entrambi agiscono in una dipendenza reciproca che li obbliga terribilmente, di cui non possono liberarsi: semplicemente perché ognuno sa ciò che l'altro conosce, e non c'è salvezza fuori da questo legame costrittivo, per sempre.

È una logica da setta ben più che da partito, da gruppo chiuso e non da formazione liberale, è la negazione della trasparenza e della pubblicità che dovrebbe governare la politica, anche nei momenti più difficili, anche nei conflitti. E il vero gran sacerdote, Fedele Confalonieri, ha svelato addirittura la liturgia e il rito ambrosiano separato che regola il cerchio più ristretto del berlusconismo, nel leggendario racconto all'epoca dell'arresto di Brancher per Tangentopoli: quando rivelò che lui e Berlusconi, futuro Presidente del Consiglio italiano, ogni domenica mattina si facevano condurre dall'autista attorno a San Vittore, dove giravano in Mercedes "per entrare in comunicazione spirituale con Brancher detenuto".

Bisogna domandarsi, a questo punto, qual è il grado di libertà personale e politica di un Capo di governo che sente questo tipo di obbligazioni e per rispondervi è costretto a ingannare il Capo dello Stato (che non ci sta) e a compiere atti politicamente autolesionisti per un'evidente urgenza a cui non può permettersi di sfuggire. Un premier che nomina un ministro per un incarico che non c'è e che tiene vuoto l'incarico di un altro ministro che non c'è più, costretto a dimettersi per lo scandalo - tutto ancora aperto - della Protezione Civile.

 La questione, con ogni evidenza, non è giudiziaria, è tutta politica. Brancher, come gli auguriamo, può anche risultare innocente in tribunale, ma resta colpevole la commistione tra i suoi guai privati e il salvacondotto pubblico costruito insieme con il Cavaliere.
La marcia indietro obbligata conferma che non ci sono più coperchi ad Arcore per le troppe pentole fabbricate da diavoli di serie B: e testimonia una debolezza politica ormai evidente nel leader, dopo la condanna di Dell'Utri, la rivolta costituzionale di Fini, gli avvertimenti istituzionali di Napolitano, l'incertezza della manovra, lo scandalo Bertolaso, l'affare Scajola, la forza separata di Tremonti, la febbre della Lega.

L'immagine che riassume tutto è il piano inclinato: sul quale rotola un governo che non governa da mesi, una leadership imponente ma immobile nel suo affanno -salvo colpi di coda-, come una balena spiaggiata. E al fondo della confusione, rotola un ministro ormai abbandonato che va a dimettersi addirittura in quel tribunale a cui voleva sfuggire, con la nomina fantasma del Cavaliere.

(06 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/06/news/editoriale_brancher-5415948/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Il vascello fantasma
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2010, 10:48:47 pm
IL COMMENTO

Il vascello fantasma

di EZIO MAURO

Per sopravvivere, il vascello fantasma del governo Berlusconi getta i corpi in mare. Sono i corpi dei feriti dagli scandali, politici o affaristici, consumati alla corte del Premier e spesso nel suo interesse, e sacrificati quando sale l'onda dell'opinione pubblica e della vergogna istituzionale. Prima Scajola, poi Brancher, oggi Cosentino. Due ministri e un sottosegretario. Il Cavaliere che se ne disfa, sommerso dal malaffare che lo circonda, è in realtà l'uomo che li ha scelti, li ha nominati, se n'è servito fino in fondo. Lo scandalo riguarda lui, e la sua responsabilità.

Per quindici anni, davanti ad ogni crisi, Berlusconi reagiva attaccando, cercando uno scontro e una forzatura, alzando la posta, in modo da creare nel fuoco dell'emergenza soluzioni prepotenti, da cui il suo comando uscisse rafforzato, non importa se abusivamente. Oggi deve rassegnarsi all'impotenza, incassando una sconfitta dopo l'altra e certificando così che gli scandali non sono difendibili.

In più, su Brancher come su Cosentino il Premier perde una partita con l'opposizione del Pd, ma soprattutto con l'antagonista interno Fini. Si scopre che anche nel mondo monolitico del berlusconismo è possibile dire no, fare discorsi di normale legalità e di ovvio rispetto istituzionale, e si può vincere politicamente, al di là dei numeri.
In questo quadro diventa ancora più grave la vergogna delle intercettazioni. È umiliante vedere un intero governo impegnato a boicottare il controllo di legalità e la libertà di informazione quando si squaderna ogni giorno di più lo scandalo P3, che riporta a "Cesare" e ai suoi interessi, con la cupola che cerca di corrompere la Consulta per il Lodo Alfano. "Cesare" a questo punto vada in Parlamento, e parli della P3 e dei suoi uomini disseminati in quel mondo parallelo, tra Stato e affari, come all'epoca della P2. Con la differenza che allora c'era l'intercapedine della politica, oggi è saltata, e quel mondo è direttamente al potere: ma oggi come allora, "comandano per rubare, rubano per comandare".

 

(15 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/15/news/mauro_vascello_fantasma-5594928/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. La centrale del fango
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2010, 11:21:42 am
L'EDITORIALE

La centrale del fango

di EZIO MAURO


PROMEMORIA per l'estate. Mentre Berlusconi parla di "calunnie" e "campagne furibonde" contro il governo, c'è in realtà un metodo nel lavoro e nella ragione sociale della cosiddetta P3, che è venuto alla luce con chiarezza e non ha bisogno di passaggi giudiziari per avere una sua evidente rilevanza politica. È fatto di affari privati legati al comando pubblico, di istituzioni statali usate a fini personali, di relazioni privilegiate intorno a uomini potenti (Denis Verdini lo è, almeno fino ad oggi, e Marcello Dell'Utri altrettanto), di personaggi influenti arruolati per premere su personalità decisive - soprattutto nella giustizia - e infine di faccendieri svelti di mano e pronti a tutto, anche a essere bollati dal Premier come "pensionati sfigati" quando la rete è scoperta. Ma per riuscire, il metodo ha bisogno di qualcosa in più: infangare, delegittimare, distruggere.

La macchina del fango che secondo i magistrati è stata messa in atto contro il candidato del Pdl alla guida della Campania, Stefano Caldoro, è agghiacciante e su "Repubblica" l'ha svelata Roberto Saviano. Si tratta della fabbricazione di un dossier pieno di allusioni sessuali, per creare un caso Marrazzo-bis in Campania, buttare fuori dalla corsa da Governatore Caldoro e favorire Nicola Cosentino.

Ancora più agghiacciante è che questa fabbrica del fango capace di distruggere una persona nasca dentro il Pdl, contro un candidato del Pdl, a vantaggio di un altro uomo del Pdl.

Nelle intercettazioni si parla apertamente di un "rapporto" su Caldoro, si evocano "i trans", si accenna ai "pentiti", si trasmettono "dossier" con "date e luoghi", si fa uscire il tutto su siti regionali e alla fine il capo locale del partito si complimenta per l'operazione.

Ma c'è di più: chi fa capire a Caldoro che deve tremare ("ci sono carte che parlano di te in un certo modo") è addirittura il coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, che lo convoca a Montecitorio, si apparta con lui nel corridoio della "Corea" e gli dice apertamente che sta per informare della vicenda Berlusconi. In realtà, come ha spiegato Saviano, Verdini "sa tutto" del dossier perché gli uomini che ci lavorano sono gli stessi che riceve ripetutamente a casa sua per "aggiustare" la sentenza della Consulta sul Lodo Alfano, a beneficio esclusivo di "Cesare". E attraverso Verdini, naturalmente anche "Cesare" sa "cosa sta facendo la banda del fango". E lascia fare, anche se Caldoro è un suo pupillo, "perché Cosentino è più potente, più utile e sa molte cose", e il Premier vuole capire se la diffamazione di Caldoro può oscurare le accuse di mafia che hanno costretto il sottosegretario a dimettersi. Il fango costruito dalla P3 dentro il Pdl lavora indisturbato, Caldoro rischia di essere distrutto, Verdini tiene informato il Premier che assiste silenzioso ad un'operazione di selezione delle élite basata su dossier, carte false, ricatti. Tutto questo avviene in un Paese democratico, in mezzo all'Europa, in pieno 2010, dentro un partito che si chiama "Popolo delle libertà" ma che il leader, intimamente, preferisce chiamare "Partito dell'Amore".

I giornali conoscono questa vicenda, ma non risultano denunce indignate, editoriali. Gli intellettuali tacciono: siamo in piena estate. E invece è obbligatorio porsi una prima domanda, elementare: se questi sono i metodi usati con i compagni di partito, con gli "amici", che succederà con i "nemici", o sarebbe meglio dire con i critici, i dissidenti? O forse è meglio domandarsi che cosa sta già succedendo. Perché nessuno sa fin dove arrivi la rete di ricatti,  di minacce e di intimidazioni che questo potere può stendere sulla società politica, sul sistema istituzionale, sul mondo dell'informazione. Possibile che tutte quelle firme così preoccupate dalla privacy da accettare allegramente una mutilazione del controllo di legalità e della libertà di informazione (quando poi, come si è visto, la proposta di "Repubblica" del 2008 era la più adatta a tutelare la riservatezza dei cittadini) non abbiano nulla da dire su questo caso esemplare di privacy violentemente deturpata, con metodo e intenzione, come un normale strumento di azione politica?

In realtà se non siamo ciechi o conniventi, dunque complici, dobbiamo ammettere che quel metodo lo abbiamo già visto all'opera, in Italia, e con successo. Lo ha usato e teorizzato proprio il Presidente del Consiglio, nel momento più infuocato dello scandalo sul "ciarpame politico" che gli ha arroventato la scorsa estate. Proviamo a ricordare. Il giornale di proprietà della famiglia del Premier cambia improvvisamente direzione nel mese di agosto, e il direttore uscente scrive che se ne va a malincuore dopo aver fatto tutte le battaglie meno una: rovistare "nel letto di editori e direttori di altri giornali". Evidentemente era quel che si voleva. E infatti il 27 agosto quel giornale opportunamente reindirizzato pubblica un falso documento giudiziario che accusa di omosessualità il direttore del quotidiano dei vescovi, Dino Boffo, colpevole soltanto di aver ospitato le critiche al Premier della Chiesa di base.

Boffo viene killerato mediaticamente, la Santa Sede ne approfitta per regolare i conti con la Cei, aggiungendo miseria vaticana a vergogna italiana, e tutto avviene senza che la maggioranza dei giornali sveli l'operazione in tutta la sua ferocia politica, semplicemente indicando il movente, illuminando il mandante, invece di soffermarsi sull'irrilevanza del killer, che infatti dovrà poi chiedere scusa. La barbarie si compie, anche nei suoi effetti pedagogici, perché l'invito ai giornalisti di girare al largo dalle vicende del Premier è esplicito. Il metodo è al lavoro: è già toccato a Veronica Lario, la moglie che ha osato ribellarsi e che si è vista denudata sui giornali della cantoria berlusconiana, messa alla berlina a seno nudo, accusata di avere un amante. Tocca subito dopo a Fini, che muove i primi passi nel dissenso e viene ammonito sul foglio di famiglia a mettersi in regola con l'opinione dominante, pena il riemergere "di vecchi scandali a luci rosse".

Si cerca cioè, in poche parole, di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato: semplicemente, se fosse stato ricattabile, sarebbe stato ricattato, l'intimidazione preventiva era l'ultimo avvertimento, ecco il Paese in cui viviamo.

Poi finisce nel tritacarne il giudice Mesiano, colpevole di aver scritto una sentenza civile favorevole alla Cir e contraria a Fininvest, e quindi messo allo zimbello dalle telecamere di proprietà del Premier, deriso, fatto passare poco meno che per matto: salvo le scuse, a operazione conclusa. Ma non è finita. Mentre sui suoi giornali si inseguono gli attacchi a Tremonti, a Casini, a "Repubblica", il Premier è personalmente impegnato ad acquisire e visionare il video che ucciderà la carriera politica di Piero Marrazzo: un video che finisce nelle sue mani senza che nessuno gliene chieda conto, in modo che "Cesare" possa avvertire il governatore (di sinistra), tenendolo in pugno invece di spingerlo a svelare e sventare il ricatto. Lo stesso copione, miserabile, avviene con i nastri della telefonata tra Fassino e Consorte che il Premier riceve direttamente dall'imprenditore Favata ad Arcore, insieme con suo fratello, sorridendo compiaciuto:  "Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo"? E infatti, il valore d'uso politico di quei nastri è così urgentemente prezioso che il giornale di proprietà della famiglia del Premier li pubblicherà sette  giorni dopo il "regalo".

Ora, è impossibile non vedere che qualcosa di terribile lega questo metodo insistito e ripetuto, queste vicende che replicano lo stesso copione da parte di un potere che non riconosce limiti controllando insieme servizi e polizie statali, e strutture private (o associazioni segrete come la P3) di fabbricazione autonoma dei dossier: terribile per la democrazia, oltre che per i destini personali dei soggetti coinvolti, con l'unica colpa di essere ex alleati ribelli, partner autonomi, avversari politici, giornalisti critici. Cioè persone che intendono sottrarsi al dominio pieno e incontrollato e ci provano, facendo il loro mestiere come accade nei Paesi normali. Dove i leader, carismatici o no, si difendono e attaccano quando è il caso, ma non hanno giornali di proprietà della loro famiglia o variamente appaltati per uccidere mediaticamente gli avversari con dossier che arrivano da chissà dove, e colpiscono la persona per zittire la funzione. E non controllano l'universo televisivo, usando le telecamere per regolare i conti privati del Premier, dopo aver ogni sera ricostruito con i suoi colori di comodo il paesaggio italiano di fondo. Come ha scritto nel pieno di queste vicende Giuseppe D'Avanzo, nell'ottobre scorso, è un "rito di degradazione, un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole, la libertà di chi dissente e di chi si oppone".

Quanti attori del discorso pubblico, concludeva quell'articolo, sono oggi in questa condizione di sottomissione? Quanti possono esserlo domani? Il problema riguarda con ogni evidenza la "democrazia reale", perché un Paese moderno e democratico non può essere governato dentro una rete di ricatti e di intimidazioni, azionati o tollerati da un potere debole, più spaventato che spaventoso. Se questa è l'estate italiana che ci aspetta, bisogna dire fin d'ora che il Paese - nella sua pubblica opinione, nelle sue autorità di garanzia, negli spazi autonomi della politica di destra o di sinistra - dovrà ribellarsi ai dossier e alle minacce, rigettandoli e denunciandoli, insieme coi loro autori, i beneficiari e i mandanti. Dimostrando così che la libertà è più forte della paura.

(23 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/23/news/ezio_mauro_centrale_fango-5764899/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. L'ora della libertà
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 10:25:36 am
L'EDITORIALE

L'ora della libertà

La costruzione politica e mitologica del più grande partito italiano è andata in pezzi. La legalità è come una bomba nel mondo chiuso del Cavaliere. Fini ha scelto il terreno più proficuo per mettere psicologicamente e moralmente in minoranza la sua potenza, dimostrando la solitudine dei numeri e la debolezza dei muscoli

di EZIO MAURO


L'IRRUZIONE della legalità ha dunque fatto saltare per aria il Pdl, mettendo fine alla costruzione politica e mitologica del più grande partito italiano nella forma che avevamo fin qui conosciuto, come l'incontro tra due storie, due organizzazioni e due leader in un unico orizzonte che riassumeva in sé tutta la destra italiana, il suo passato, il suo futuro e l'eterno presente berlusconiano.

Tutto questo è andato in pezzi, perché la legalità è come una bomba nel mondo chiuso del Cavaliere, dove vigono piuttosto la protezione della setta, l'omertà del clan, il vincolo di servitù reciproca di chi conosce le colpe individuali e il destino comune di ricattabilità perpetua. Trasformando la legalità in politica, Fini ha scelto il terreno più proficuo per mettere psicologicamente e moralmente in minoranza la potenza del premier, dimostrando la solitudine dei numeri e la debolezza dei muscoli. In più, si è posizionato su un terreno elettoralmente e mediaticamente redditizio, dove può nascere una cultura di destra-centro che provi per la prima volta a parlare insieme di ordine e di regole, di moralità e di Costituzione.

Il rispetto delle istituzioni, la fedeltà alla Carta sono infatti l'altro grande fattore di rottura. Dalla semplice, ma insistita regolarità costituzionale con cui il presidente della Camera ha interpretato il suo ruolo e con cui ha segnato ogni suo intervento è nata una cultura politica che è rapidamente e inevitabilmente diventata antagonista rispetto al populismo berlusconiano, alla continua forzatura istituzionale, al primato della costituzione materiale basata su una concezione sovraordinata della leadership "unta" dal consenso popolare, e dunque suprema, libera da ogni separazione e bilanciamento dei poteri.

Sono queste due culture - una tutta prassi, imperio e comando, l'altra alla ricerca di uno spazio costituzionale, europeo e occidentale anche a destra - che non potevano più convivere. Disegnato il perimetro di una nuova destra-centro, Fini si è fermato ad aspettare l'inevitabile, che doveva accadere ed è accaduto. Preannunciato dal pestaggio mediatico sui giornali di famiglia e di altre famiglie asservite, un pestaggio con cui il Cavaliere annuncia sempre il suo arrivo in zona di guerra, ieri si è giunti di fatto all'espulsione, parola che non viene pronunciata nel documento del Pdl solo per un finto pudore di vocabolario, e perché ricorda troppo da vicino la pratica autoritaria del "centralismo democratico" comunista, che anche in Italia non tollerava il dissenso e cacciava i dissidenti.

È un pudore inutile, per due ragioni. La prima è che gli intellettuali e i giornali cosiddetti liberali in Italia sono strabici, e in questi anni sono riusciti a tollerare ogni sorta di sopruso ad personam: dunque ingoieranno questa repressione autoritaria del dissenso senza nemmeno ricordare quel che dicevano quando la minoranza del Manifesto fu cacciata dal Pci. La seconda ragione, è che il documento politico parla comunque chiaro, anzi chiarissimo, per oggi e per domani, fino alla parole con cui il premier rivuole indietro la presidenza della Camera, come se le istituzioni fossero cosa sua. Nessuna distinzione ideale, culturale, politica, organizzativa e soprattutto morale - dice quel testo - è possibile nel cerchio magico del berlusconismo, che giudica automaticamente "incompatibile" chi non la pensa come il leader, senza nemmeno rendersi conto dell'enormità illiberale di questa scelta. L'unica cosa che conta è l'invulnerabilità politica del Capo, anzi la sua intangibilità, nel culto sacrale dei sottoposti. Nella sua debolezza patente, spacciata per prova di forza, il Cavaliere pensa che una volta cacciato Fini il cerchio del potere tornerà a chiudersi su di lui virtuosamente come accade da quindici anni, cingendogli il capo davanti alla nazione prona e riconoscente.

Purtroppo per Berlusconi, le cose non stanno così. Questi ultimi tre mesi dimostrano che i numeri dei dissidenti sono sufficienti già oggi per farlo ballare a piacimento alla Camera, e domani al Senato. Fini ha già detto che non vuole ribaltare la maggioranza, dunque tecnicamente terrà in mano la sorte del governo ogni giorno, acquistando un rilievo evidente come attore politico e non solo come soggetto istituzionale. Ogni volta che vorrà, manderà a bagno il Cavaliere, nelle acque per lui meno salutari: la legalità, la moralità, la libertà d'informazione, l'economia, il federalismo e inevitabilmente il sistema televisivo, con il controllo totale della Rai da parte del padrone di Mediaset.

Tutto ciò, naturalmente, a condizione che il presidente della Camera sappia far politica da solo, in mare aperto, reggendo alle bastonature quotidiane che la fabbrica familiare del fango berlusconiana (sempre aperta) infliggerà a comando: con il risultato inevitabile di portare al pettine politico e parlamentare quanto prima la vergogna e la dismisura del conflitto di interessi, con buona pace dei liberali che da anni fingono di dimenticarlo. Ma Fini ha un obbligo in più: non può fermarsi, come tocca alle formazioni corsare, deve andare avanti, tessendo una politica e una cultura che se restano fedeli alla Costituzione possono essere utili alla repubblica. Vedremo se saprà farlo.

Già oggi, nel giorno dell'espulsione, due risultati politici sono chiari: il primo è il destino della legge bavaglio, sintesi delle pulsioni illiberali del premier - contro la legalità, contro l'informazione, contro un'opinione pubblica consapevole - e ormai apertamente disconosciuta dal suo autore: "Avevamo fatto un bel cavallo - ha ammesso il Cavaliere - ci ritroviamo un ippopotamo". Il fatto è che quel cavallo serviva al leader e ai suoi uomini di vertice per scappare alla vergogna degli scandali che li inseguono, a suon di intercettazioni legali, ed è stato fermato in piena corsa dalla protesta dei cittadini, dei movimenti, dell'opposizione parlamentare, di questo giornale, ma anche dalla tenuta dell'asse istituzionale tra Fini e Napolitano. Il secondo risultato politico è una conseguenza: la rete larga di opinione, di istituzioni e di politica che ha detto no al sopruso berlusconiano rende di fatto impossibile il ricorso da parte del Cavaliere all'arma fine di mondo, le elezioni anticipate.

Indebolito nel presente, bloccato nel futuro, il premier vede andare in frantumi anche l'epopea eroica con cui racconta il suo passato. Ciò che viene meno dopo la rottura con Fini è infatti lo stesso mito fondativo, l'epica primordiale dell'uomo che con l'alito creatore dà vita alla destra, indicandole nello stesso tempo il frutto proibito del dissenso, mentre ammonisce terribile e paterno: "Non avrai altro dio all'infuori di me". Da oggi, il creatore del Pdl torna ad essere una creatura politica come le altre, mentre anche a destra comincia finalmente la stagione inedita del politeismo, che porterà per forza al rifiuto del vitello d'oro: è solo questione di tempo.

L'unica soddisfazione, misera, è per l'istinto padronale di Berlusconi, che non misura la partita in termini di politica, ma di comando. Il Capo è appunto un uomo solo al comando, circondato dai Verdini, i Dell'Utri e i Brancher, che gli devono tutto e a cui lui deve di più, come dimostra l'intreccio esoso delle servitù incrociate, all'ombra degli scandali che circondano il fortino in cui è rinchiuso il governo, senza politica. L'unica politica, l'unico collante, l'unica ragione per rimanere in piedi è ormai il federalismo, un'ideologia altrui, che Berlusconi accetta per placare Bossi: inquieto ogni volta che deve spiegare alla sua gente gli affari, i favori, le manovre segrete della P3.

È un conto alla rovescia, oggi che nel popolo berlusconiano è cominciata davvero l'ora della libertà.

(30 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/30/news/ezio_mauro_pdl-5940641/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. La fiducia avvelenata
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2010, 05:20:33 pm
L'EDITORIALE

La fiducia avvelenata

di EZIO MAURO

DOPO due mesi di esibizione muscolare virtuale, cacciando i finiani, invocando le elezioni immediate, annunciando l'autosufficienza della maggioranza, alla resa dei conti Silvio Berlusconi ieri ha dovuto prendere atto che non ha i voti senza Fini, che la compravendita dei deputati non è bastata, che le elezioni lo spaventano. Ha chiesto i voti ai suoi nemici mortali, ha evitato ogni polemica, ha dribblato tutte le asperità, volando basso. Pur di galleggiare, tirando a campare come un doroteo, fingendo davanti a se stesso e al Paese che dopo la spaccatura del Pdl tutto sia come prima. E invece tutto è cambiato, tanto che il Premier rimane in sella ma in un paesaggio politico completamente diverso: con Fini che vara il suo nuovo partito e si allea con Lombardo, moltiplicando fino a quattro i gruppi di maggioranza, che volevano essere due - Pdl e Lega -, senza bisogno di spartire con altri. Così, potremmo dire che ieri è nato il Berlusconi-bis, perché a numeri intatti la forza elettorale si è trasformata due anni dopo in debolezza patente della leadership.

Il Presidente del Consiglio non è stato capace di accettare la sfida politica che lo tormenta, e invece di saltare l'asticella alzata davanti al suo cammino dai finiani ha preferito passarci sotto, scegliendo il basso profilo, la dissimulazione, la finzione.

Soprattutto, non ha voluto o non ha potuto portarsi all'altezza della cornice drammatica di una crisi conclamata e irreversibile nella sostanza politica, anche se rattoppata temporaneamente nei numeri. La frattura radicale della destra, di cui vediamo solo i primi effetti, manca ancora di una lettura ufficiale e di un interprete responsabile. Il Paese ne ha diritto. Si possono ingannare i telespettatori del tg1 e del tg5, com'è abitudine, ma non si può ingannare la politica, che da ieri assedia Berlusconi con una maggioranza posticcia e instabile, costruita com'è su alleati-rivali, impastata di ricatti, dossier, intimidazioni e paure.

È la strategia del dominio, la mitologia della sovranità assoluta che vanno in pezzi con la fiducia avvelenata di ieri. Berlusconi ha bisogno del salvacondotto, e dunque dei voti di un avversario che prova ad uccidere politicamente e mediaticamente ogni giorno, e che da parte sua lavora non più nel lungo termine, ma nel medio, per far saltare tutto l'equilibrio berlusconiano del comando, costruito per sedici anni. L'esito di questo conflitto sarà politicamente mortale. Con la fiducia, Fini salda un patto con gli elettori (non più col Premier e con il Pdl), e guadagna tempo per costruire il partito che ha annunciato ieri. Berlusconi può fingere di guardare ai numeri e non alla rottura irrimediabile del suo partito, alla crisi plateale dell'ipotesi di autosufficienza dell'asse tra il Premier e Bossi. Dove lo portano dunque quei numeri? Verso quale approdo politico? Per quale progetto? Con quali alleati?

La realtà è che non si è rotta soltanto la macchina politica del '94, ma anche la costruzione ideologica che ha interpretato l'Italia  -  salvo brevi parentesi  -  per sedici anni. La svolta è dunque enorme, e noi vediamo oggi solo il primo atto. La propaganda compilativa in cui si è rifugiato ieri il Premier non può nascondere la realtà. Diciamolo chiaramente: a luglio, con la cacciata di Fini, è finito il Pdl. Ieri, con questa fiducia malata, è finito addirittura il quadro politico di centrodestra così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi: con un signore e padrone assoluto retrocesso a capo di un quadripartito ostile e minaccioso, come all'epoca del peggior Caf, nell'agonia della prima repubblica.

(30 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/30/news/la_fiducia_avvelenata-7567501/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Il ritorno dei cittadini
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2010, 05:41:00 pm
EDITORIALE

Il ritorno dei cittadini

di EZIO MAURO

NON c'è un elemento politico e culturale unificante nelle proteste per i rifiuti che infiammano il Sud e nella rivolta degli studenti che entrano nel Colosseo, per far viaggiare attraverso Internet l'immagine della loro ribellione in tutto il mondo. Non c'è nemmeno uno schema politico d'opposizione organizzata, nonostante l'accorrere di tanti leader sui tetti della protesta, diventati il vero luogo politico provvisorio della contestazione al governo. C'è però qualcosa di più, che si sta raccogliendo in tutto il Paese per scaricarsi nel Palazzo: la sensazione che il sentimento politico degli italiani stia cambiando.

Ci avevano detto che c'era solo il popolo, in dialogo diretto e permanente con il leader: ed ecco che tornano i cittadini. L'irruzione degli attori sociali sulla scena rompe la solitudine del calcolo politico, che rischia di parlare solo a se stesso, con le idee e le persone ridotte a numeri, senza dare le risposte che la parte del Paese in movimento si aspetta, anzi ormai pretende. Indebolita per mesi e mesi dalla crisi economica e finanziaria mondiale, e adesso spaventata dai possibili effetti della tempesta irlandese, l'Italia è stata fino ad oggi un Paese molto responsabile, che ha accettato tagli e riduzioni rimodellandosi ogni volta su misure inferiori e impoverite. Soprattutto nel campo culturale, sanitario, scolastico, e cioè in quel moderno perimetro di un welfare europeo allargato, che per la destra al governo sembra l'unica rendita attaccabile in tempi di difficoltà e ridimensionamento.
In questo senso, possiamo dire che il Paese ha condiviso la crisi e ha riconosciuto autonomia al governo nel decidere le contromisure, facendosene carico in silenzio fin qui.

C'è però un limite alla delega passiva, alla compressione sociale, alla riduzione degli spazi culturali, al carico di tagli e tassazione su scuola pubblica e università: tutto ciò, insomma, "che non si mangia", come ha allegramente spiegato un ministro, illustrando alla perfezione la gerarchia gastrica di questo governo. Ad un certo punto la scelta di scaricare la crisi sul sociale, sul welfare e sulla cultura cambia di misura, diventa un'ideologia, come tale viene riconosciuta, e produce una reazione. Meglio ancora, produce politica, perché rapidamente quella reazione diventa una risposta politica, che si inventa spazi, riti, soggetti e linguaggi. E soprattutto, si manifesta in luoghi simbolici ma imprendibili e diffusi ovunque nella quotidianità del Paese, come i tetti, e dai tetti si sporge verso il Palazzo, sul quale pesa una crisi di governo conclamata, sospesa e rimandata a data destinata, dunque incapace di produrre qualsiasi effetto politico comprensibile e concreto.

La raffigurazione dei due momenti contrapposti della politica italiana di oggi - quello ufficiale, quello sociale - è dirompente. L'attore sociale chiede conto all'attore politico di come ha speso tempo e atti di governo per rispondere alla crisi, che sta toccando con mano. Chiede ragione della selezione sociale che diventa esplicita ed evidente. Chiede il perché delle bugie raccontate a Napoli e dintorni sul miracolismo dei rifiuti, in due anni di visite propagandistiche, con svincolo a Casoria.

La politica non sa rispondere. Anzi, è bastato questo movimento spontaneo nella società per mettere in mora la miserabile compravendita di parlamentari in corso in questi giorni, come se i problemi del Paese si risolvessero con il portamonete e il pallottoliere. Così, la compravendita mostra tutta la nudità di una politica che si riduce alla sopravvivenza extracorporea perché non sa giustificarsi e legittimarsi altrimenti. Anzi, la compravendita proclama la negazione della politica, perché va in scena quando la politica è già finita, e tutto diventa artificiale.
Può pensare il Presidente del Consiglio non di galleggiare, ma di rispondere ai problemi che il Paese ha di fronte a sé con due o tre voti in più, ammesso che li trovi? E soprattutto, non vede il prosciugamento definitivo di valori, progetti, strategie, se tutta la spinta propulsiva della vittoria elettorale di due anni fa finisce per inaridirsi e immiserirsi nel fissare il prezzo di un'astensione, il vitalizio per un cambio di bandiera?

La rottura traumatica della maggioranza è un fatto politico di tutto rilievo. Un leader deve dare una risposta altrettanto politica davanti al Paese, non mercantile e nemmeno di sopravvivenza in carica personale. E la risposta deve partire prima di tutto da un'assunzione di responsabilità, perché il governo ha il dovere di definire la crisi economico-finanziaria, di dare finalmente un nome alla fase che stiamo vivendo, indicando posizione e ruolo dell'Italia, illustrando i punti di tenuta e le fragilità del nostro Paese, e a quel punto decidendo le politiche che ne conseguono. Ma questa assunzione di responsabilità - che in democrazia è un dovere dei governanti - fino ad oggi è mancata.

Le opposizioni dovrebbero capire che questo è un ottimo momento per la politica. Come dice il Presidente della Repubblica, di fronte ai rischi a cui è oggi esposto un Paese fragile c'è bisogno di stabilità. Ma dove va cercata questa stabilità? È la stabilità del sistema Paese che conta, la sua tenuta interna ed esterna, la qualità della sua democrazia. Mentre questo quadro politico disastrato è un elemento di fragilità, non di forza, come dimostra l'incapacità persino di arbitrare i conflitti al suo interno. Si deve avere il coraggio di dire che una cultura politica, quella del populismo berlusconiano che radicalizza a destra il Paese, è al suo esaurimento, anche perché non è in grado di dare risposte ai soggetti sociali - potremmo dire ai cittadini -, abituata com'è a parlare al "popolo" indistinto, e inteso come pura fonte di potere e di comando.

Dunque, questa cultura politica può essere sfidata: in parlamento con la sfiducia, e anche con il tentativo di raccogliere le forze disponibili in una maggioranza di responsabilità repubblicana, se così vogliono le Camere. E in ogni caso questa cultura può essere sfidata pubblicamente davanti ai cittadini, nel voto. E può essere battuta, dopo che si è già rivelata improduttiva. Non bisogna aver paura della democrazia e dei suoi passaggi, né dal centro, né da destra né da sinistra, soprattutto quando un'altra idea d'Italia è possibile.

(26 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/scuola/2010/11/26/news/ezio_mauro_universit-9516250/?ref=HRER3-1


Titolo: EZIO MAURO. Il potere irresponsabile
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 04:43:02 pm
Il potere irresponsabile

di EZIO MAURO

Che cosa sta succedendo?
Con una procedura d'allarme totalmente inconsueta in Occidente il Consiglio dei ministri all'unanimità ha denunciato ieri in un comunicato ufficiale "vicende delicate" che rivelano "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale".
 
Il riferimento è alle prossime rivelazioni di Wikileaks, allo scandalo Finmeccanica, alla "diffusione ripetuta di immagini sui rifiuti di Napoli o sui crolli di Pompei". Quattro realtà che non hanno alcun legame tra di loro, ma che secondo il governo "impongono fermezza e determinazione per difendere l'immagine nazionale" e addirittura "la tutela degli interessi economici e politici del Paese".

È qualcosa di mai visto. Terrorizzato dall'idea che i documenti di Wikileaks svelino il reale giudizio di Washington su Berlusconi, e qualcosa di peggio sulle sue relazioni personali con qualche leader straniero, il governo evoca l'ultimo fantasma populista, il complotto internazionale, al quale mette in conto le sue deficienze più gravi  -  Napoli e Pompei  -  e la sua inquietudine più oscura, per lo scandalo Finmeccanica. Nell'ombra del comunicato, aleggia il non detto sull'eco internazionale dei riti berlusconiani di bunga bunga, e delle nipoti di Mubarak inventate per imbrogliare la questura di Milano.

È il ritorno della strategia della tensione, ad uso e consumo privato di un Premier spaventato che non esita a drammatizzare la sua crisi fino all'estremo,
indebolendo ed esponendo gravemente l'Italia nella percezione delle cancellerie, dell'opinione internazionale, dei mercati. È un gesto pericoloso, che dimostra una totale mancanza di responsabilità. Ed è umiliante che nessun ministro abbia sentito il dovere di distinguersi, con un richiamo alla realtà.

Che cosa si aspetta ancora per formalizzare questa crisi ogni giorno più evidente, restituendo autonomia alla politica e sicurezza al Paese?

(27 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/27/news/potere_irresponsabile-9557403/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Dimissioni
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2010, 04:10:26 pm
L'EDITORIALE

Dimissioni
di EZIO MAURO

In un brutto giorno per l'immagine del nostro Paese nel mondo, il Presidente del Consiglio ha incassato tre sfiducie, che lo rendono ormai palesemente inadatto a governare una grande democrazia occidentale.

In Parlamento Fini, Casini, Rutelli e Lombardo hanno portato tutti i loro uomini a firmare una formale mozione di sfiducia nei confronti del governo e dunque a partire da oggi, sommando queste firme con quelle già pronte del Pd e dell'Idv, il ministero Berlusconi non ha più una maggioranza politica.

Ma dalla valanga di WikiLeaks emerge un altro elemento di drammatica e crescente fragilità. È la insistita e costante diffidenza dell'amministrazione americana  -  espressa nel normale svolgimento del suo lavoro quotidiano riservato e dunque autentica  -  nei confronti del Premier italiano a causa del suo rapporto pericoloso con Putin. Una relazione che la diplomazia americana sospetta basata su affari inconfessabili e addirittura su tangenti, oltre che su un mimetismo machista e autoritario: e che viene descritta nei dispacci riservati come innaturale per un leader occidentale, dunque politicamente allarmante.

Infine, com'era naturale attendersi, questa serie crescente e patente di anomalie (che Repubblica denuncia da anni, ma che molti scoprono solo oggi, di rimbalzo dall'America) provoca delusione, disagio e inquietudine all'interno dello stesso santuario del potere berlusconiano in disfacimento, da dove escono i racconti ormai rassegnati ed esasperati dell'inner circle del Premier: dall'ossessione
per i festini agli scontri con Napolitano, all'uso politico pilotato degli scandali altrui, nel tipico disvelamento che accompagna ogni crepuscolo di regime.

Davanti a queste tre sfiducie il Presidente del Consiglio ha un dovere preciso. Salga dal Capo dello Stato per assumersi per una volta la responsabilità di questo indebolimento del Paese e del suo sistema politico e istituzionale, e annunci subito che si dimetterà un minuto dopo il voto sulla legge di stabilità economica: evitando così di provocare altri danni all'Italia.

(03 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/03/news/editoriale_mauro-9786210/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Il potere irresponsabile
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 09:02:30 am
Il potere irresponsabile

di EZIO MAURO


Che cosa sta succedendo? Con una procedura d'allarme totalmente inconsueta in Occidente il Consiglio dei ministri all'unanimità ha denunciato ieri in un comunicato ufficiale "vicende delicate" che rivelano "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale".
 
Il riferimento è alle prossime rivelazioni di Wikileaks, allo scandalo Finmeccanica, alla "diffusione ripetuta di immagini sui rifiuti di Napoli o sui crolli di Pompei". Quattro realtà che non hanno alcun legame tra di loro, ma che secondo il governo "impongono fermezza e determinazione per difendere l'immagine nazionale" e addirittura "la tutela degli interessi economici e politici del Paese".

È qualcosa di mai visto. Terrorizzato dall'idea che i documenti di Wikileaks svelino il reale giudizio di Washington su Berlusconi, e qualcosa di peggio sulle sue relazioni personali con qualche leader straniero, il governo evoca l'ultimo fantasma populista, il complotto internazionale, al quale mette in conto le sue deficienze più gravi  -  Napoli e Pompei  -  e la sua inquietudine più oscura, per lo scandalo Finmeccanica. Nell'ombra del comunicato, aleggia il non detto sull'eco internazionale dei riti berlusconiani di bunga bunga, e delle nipoti di Mubarak inventate per imbrogliare la questura di Milano.

È il ritorno della strategia della tensione, ad uso e consumo privato di un Premier spaventato che non esita a drammatizzare la sua crisi fino all'estremo, indebolendo ed esponendo gravemente l'Italia nella percezione delle cancellerie, dell'opinione internazionale, dei mercati. È un gesto pericoloso, che dimostra una totale mancanza di responsabilità. Ed è umiliante che nessun ministro abbia sentito il dovere di distinguersi, con un richiamo alla realtà.

Che cosa si aspetta ancora per formalizzare questa crisi ogni giorno più evidente, restituendo autonomia alla politica e sicurezza al Paese?

(27 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/27/news/potere_irresponsabile-9557403/?ref=HREC1-1


Titolo: EZIO MAURO. Il ciclone WikiLeaks e il bisogno di capire Julian Assange...
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2010, 10:57:52 am
L'EDITORIALE

di EZIO MAURO

Il ciclone WikiLeaks e il bisogno di capire Julian Assange, fondatore di WikiLeaks
CHE dice di noi, il ciclone WikiLeaks? Si può cominciare a rispondere, oltre le voci segrete degli ambasciatori americani svelate dai cable che Julian Assange ha rovesciato sul mondo, prima di consegnarsi all'arresto a Londra, per l'accusa di stupro. Questa vicenda parla di tre cose che potremmo riassumere in una formula: informazione, potere e democrazia al tempo di Internet.

Internet, oggi giunto alla sua massima potenza, è lo strumento usato da WikiLeaks per scardinare i forzieri della superpotenza diplomatica americana ed estrarne i segreti che riguardano tutto il mondo, dal Medio Oriente alla Cina, all'Iran, all'Europa, alla Corea. Il primo problema è la vulnerabilità dei segreti di Stato. Ovviamente le democrazie - e una grande democrazia come gli Stati Uniti - sono più esposte a queste infiltrazioni dei sistemi chiusi e bloccati come gli Stati autoritari, sia per la libertà dei mezzi d'informazione e l'autonomia dei soggetti sociali, e sia perché seguono regole e procedure collaudate e conosciute nello scambio interno di dati e notizie su alleati, competitori e avversari.

Gli Stati - e le democrazie tra loro, ovviamente - prevedono procedure riservate nei passi più delicati della loro governance, e anche momenti segreti, a tutela della sicurezza nazionale. Ma gli Stati democratici si muovono sempre più nell'obbligo della trasparenza e della pubblicità, mentre i cittadini grazie alla crescita e alla velocità dell'informazione pretendono ormai di conoscere e monitorare i processi
di scelta e di formazione delle decisioni, senza accontentarsi di commentare il risultato finale. Da qualche anno, potremmo dire, la politica è tutta "esposta", senza riserve, salta il confine tra la scena e il retroscena, il meccanismo decisionale ha rilievo quanto e come l'opzione finale.

Oggi facciamo un passo in più dentro una nuovissima stagione. I mezzi ubiqui, veloci e contemporanei cambiano il concetto di segreto così come cambiano la nozione stessa di trasparenza. Cosa significa il timbro di riservatezza sul dispaccio di un ambasciatore, quando l'intera banca dati diplomatica di una superpotenza può saltare in pochi minuti? E fin dove arriva la nozione di "pubblico", patente e trasparente, nel momento in cui il cittadino è trasportato da Internet dentro il flusso stesso della documentazione protetta, può navigare a suo piacimento tra i segreti, recuperare il passato negli archivi, usare le chiavi personali di lettura, creare percorsi interpretativi che la lettura ufficiale e istituzionale delle carte non solo non prevede, ma neppure conosce?

Tutto ciò che crea un cittadino più informato lo fa anche più esigente. Il cittadino che ha imparato a conoscere, pretende di sapere. Non ritorna a casa, davanti alla televisione. Tecnicamente, non gli importa dell'accusa di stupro ad Assange: sa che seguirà l'inchiesta e l'eventuale processo, e attraverso l'informazione sarà in grado di distinguere tra reato individuale e responsabilità personale da un lato, e interesse generale alla pubblica conoscenza dall'altro. Oggi, il cittadino vuole che quel flusso di informazione continui, perché nessuno rinuncia coscientemente a capire come funziona il mondo, se ne ha la possibilità, o a vivere un pezzo di storia in diretta.
E qui, interviene il giornalismo. Perché 250 mila files, 250 milioni di parole, sono una massa di dati non intellegibili. Si scopre, finalmente, che conoscere non è sapere, che guardare non è vedere, che ciò che conta è capire. Nel grande flusso di Internet, contano le regole del fiume, la velocità di scorrimento dei "pieces of news" e la portata. Ma per capire, serve di più. E Assange ha dovuto rivolgersi al giornalismo, consegnandogli tutta la massa di informazioni sottratte al potere e chiedendogli semplicemente di renderla comprensibile, trovando le chiavi per decifrarla. E il giornalismo ha lavorato, sta lavorando, esattamente per dare al lettore-cittadino la possibilità di decifrare, interpretare, comprendere e alla fine giudicare, a ragion veduta.

Internet apre la porta del potere, e trasporta nel suo flusso i materiali. Il giornalismo legge quei materiali, e riesce a farli leggere, perché opera per l'intelligenza degli avvenimenti. Questo avviene con l'uso degli strumenti tipici del giornalismo quotidiano, davanti ai grandi eventi e agli avvenimenti minori: la selezione delle notizie, la gerarchia tra i fatti, la relazione tra le vicende, il recupero degli antecedenti, l'individuazione dei protagonisti, palesi o occulti, l'illuminazione degli interessi in gioco, legittimi o illegittimi, alla luce dell'interesse generale. E infine, l'esercizio della responsabilità.

Perché il giornalismo è anche coscienza di un limite, uso responsabile di un potere. Il diritto del cittadino di conoscere e di sapere infatti è un diritto assoluto, in democrazia, ma non è un diritto cieco. E infatti i giornali hanno usato la loro responsabilità nella selezione dei materiali, e nel deciderne la pubblicazione. Sono stati esclusi i file con nomi e cognomi di persone esposte in Paesi dove vige la pena di morte. Sono stati informati il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca dei materiali prescelti, e si sono ascoltate le loro osservazioni, a tutela di soggetti a rischio. Infine, è l'ultimo caso, il Guardian ha deciso di non pubblicare l'elenco delle infrastrutture occidentali che gli Usa considerano a rischio di attacchi terroristici. Perché, come scrive Javier Moreno, il direttore del Paìs, "tra gli innumerevoli doveri di un giornale non c'è quello di proteggere i governi da situazioni imbarazzanti", se queste situazioni sono interessanti per i lettori, che hanno il diritto di conoscerle; e il direttore del New York Times, Bill Keller, aggiunge che "illuminare gli obiettivi, i successi, i compromessi e le frustrazioni" della diplomazia di un grande Paese "è di pubblico interesse". Ma nello stesso tempo - e le due cose stanno insieme - il diritto del cittadino di sapere non è disgiunto dal suo dovere di farsi carico della democrazia. E questo, naturalmente, vale anche per il cittadino-giornalista.

L'imbarazzo delle democrazie è l'ultimo elemento, ed è il denominatore comune del caso WikiLeaks. Ma anche qui, c'è un punto su cui riflettere. Dovunque, tra le democrazie occidentali e i loro governi, il Cablegate ha provocato soltanto imbarazzo, qualche problema di galateo internazionale, e nulla più. Leggere che nei dispacci americani Angela Merkel è "teflon", resistente e respingente, non provoca ripercussioni in Germania. Scoprire che per i diplomatici Usa Nicolas Sarkozy è un "monarca impulsivo" non inquieta Parigi. Veder scritto in un cablo al Dipartimento di Stato che Zapatero è "astuto come un felino", non è un problema per Madrid. Perché invece in Italia Wikileaks ha provocato un terremoto politico, addirittura preventivo, col governo che ha evocato addirittura un complotto mondiale contro il nostro Paese, e Frattini che ha parlato di 11 settembre?

Perché i rilievi degli ambasciatori ai leader delle altre democrazie europee, riguardano tutti la parte visibile delle leadership, ciò che si conosce, ciò che è pubblico. I rilievi al Capo del governo italiano riguardano, tutti, la parte invisibile, ciò che è celato, camuffato, nascosto alla pubblica opinione. Legami con Putin incomprensibili dal punto di vista della responsabilità occidentale, e dunque per gli Usa pericolosi e basati su affari inconfessabili. Dichiarazioni private di debolezza per estorcere pubbliche parate congressuali a Washington, da mistificare nelle televisioni italiane come prove di forza. Confessioni amareggiate dell'inner circle del Premier, su un potere che sta ormai evaporando.

La lezione è dunque che il potere italiano traballa più di altri, davanti al ciclone WikiLeaks proprio perché è un potere chiuso, opaco, non trasparente, con elementi di forte anomalia per una democrazia occidentale, con evidenze di fragilità crescente nella capacità di governo unite ad aspetti oscuri che inquietano gli alleati. Si capisce bene, a questo punto, il tentativo berlusconiano di banalizzare le rivelazioni non potendo gestirle, spiegarle, giustificarle, in quanto fanno parte degli arcana imperii che rendono diversa la nostra democrazia. Si capisce meno bene l'impotenza delle altre forze politiche, di vecchia e nuova opposizione, davanti alla portata di questa vicenda. L'unica cosa chiara ai cittadini è che il sistema politico non capisce il cambio di stagione determinato da WikiLeaks perché mentre il ciclone stava già soffiando era come sempre accomodato in poltrona davanti alla televisione italiana a reti unificate: credendo che la vecchia cornice del Tg1 e del Tg5, costruita dalla politica, fosse ancora in grado di inquadrare il mondo, mentre il mondo era già cambiato.
 

(09 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/09/news/il_ciclone_wikileaks_e_il_bisogno_di_capire-9986564/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. La partita comincia ora
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2010, 05:14:54 pm
L'EDITORIALE

La partita comincia ora

di EZIO MAURO

CON tre voti di maggioranza, strappati in extremis ai finiani nell'ultima compravendita notturna, Berlusconi rimane a Palazzo Chigi.
Ma per fare che cosa? Quel margine precario, appeso a mille promesse impossibili, nel giorno per giorno non consentirà al Premier di far approvare più nulla. Ma a Berlusconi i voti non servono per governare: gli servono per comandare. Ieri li ha avuti, e tanto gli basta. La politica può aspettare, il Paese anche.

Per il Cavaliere era più importante la prova di forza con Fini, sulla fiducia. L'ha vinta e, letteralmente, questa vittoria per lui non ha prezzo. Ma da oggi, l'opposizione conta un partito in più, e comperando i pontieri il Premier ha divorato anche l'ultimo ponte coi finiani. L'unico modo per sopravvivere davvero alla vittoria di ieri, è allargare la maggioranza all'Udc. Ma Casini non ha alcuna convenienza a cambiare una linea costruita negli anni, e dirà di no.

La Lega aspetta di intascare il federalismo, e dà i 30 giorni a Berlusconi. O riesce a catturare Casini, o si andrà al voto. Dunque le elezioni sono l'esito più probabile e alla fine più giusto. Ecco perché Fini dovrà dimettersi dalla presidenza della Camera, per fare liberamente la sua battaglia politica decisiva: e farla probabilmente dal centro  -  in una posizione che fa comodo anche al Pd  -  visto che a destra l'eredità post-berlusconiana gli è preclusa.

Insomma, il Cavaliere ha vinto, ma la partita è appena cominciata.



(15 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/15/news/la_partita_comincia_ora-10212884/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Le ragioni di Marchionne e le ragioni di tutti
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2011, 11:22:42 am
FIAT

Le ragioni di Marchionne e le ragioni di tutti

Da una parte c'è la globalizzazione dall'altra si chiama in causa la democrazia.

Senza una società solidale, i singoli devono cercare risposte individuali a problemi collettivi

di EZIO MAURO


DUE, TRE cose sulla Fiat e il Paese prima che si conoscano i risultati del referendum di Mirafiori. Prima, per ragionare fuori dall'orgia ideologica di chi si schiera sempre con il vincitore e di chi pensa che i canoni della modernità e del progresso  -  oggi  -  sono sanciti dal rapporto di forza.

Il voto e la sfida di Torino non disegneranno un nuovo modello di governance per l'Italia, come sperano coloro che oggi attendono da Marchionne quel che per un quindicennio ha promesso Berlusconi, senza mai mantenere. Soprattutto non daranno il via né simbolicamente né concretamente  -  purtroppo  -  ad una fase generale di crescita del Paese. Il significato della partita di Mirafiori è un altro, e va chiamato col suo nome: la ridefinizione, dopo tanti anni, del rapporto tra capitale e lavoro.

Un manager che è lui stesso transnazionale, che ha spostato il baricentro della Fiat da Torino a Detroit, ha liberato la famiglia proprietaria dal vincolo centenario con l'automobile ma anche dalla responsabilità verso il Paese, ha deciso un assemblaggio multinazionale dei prodotti che cambierà per sempre la fisionomia e la natura dell'automobile italiana, cambia a questo punto anche le regole del gioco.

Se devo vendere nel mercato globale  -  dice Marchionne all'operaio  -  devo produrre al costo e alle condizioni di quel mercato, e se in Italia le condizioni e i costi sono diversi devono adeguarsi: solo così io investirò a Mirafiori,
altrimenti andrò in Canada.

Dammi dunque il tuo lavoro secondo le mie necessità, in cambio ti darò più salario e il posto. Non c'è altro perché il posto, in tempi di crisi e di esclusione sociale, diventa la suprema garanzia e ne assorbe ogni altra. Anzi, perché l'investimento sia redditizio, ho bisogno di un controllo totale della produzione, via dunque i diritti (lo sciopero, la rappresentanza) perché sono una variabile indipendente, che rompe il modello di controllo: questo è il nuovo diritto-dovere in cui si esercita la libertà d'impresa. Le ragioni di Marchionne sono quelle della globalizzazione. Ma ci sono anche le ragioni degli altri, che sono le ragioni di tutti, perché chiamano in causa addirittura la democrazia.

Noi vediamo che in questo schema il rapporto tra capitale e lavoro si semplifica perché perde ogni cornice, si rinchiude nella fabbrica, smarrisce ogni valenza nazionale, dunque simbolica, quindi politica. Separato dai diritti, il lavoro torna ad essere semplice prestazione, merce. Ma insieme con i diritti, il lavoro diventava un elemento di dignità e di emancipazione (concetti più ampi del solo, indispensabile salario), dunque di cittadinanza, dando un senso alla Costituzione che lo pone a fondamento della Repubblica proprio per queste ragioni, intendendo in sostanza che senza libertà materiale - nel senso più largo ma anche più concreto del termine - non c'è libertà politica.

Ora, nessuna tra le parti in causa accetterebbe di definire la democrazia come un valore relativo, comprimibile in particolari condizioni davanti a specifiche esigenze. Bene. Ma vediamo oggi che alcune componenti della democrazia, cioè i diritti legati al lavoro (che sono anche i diritti dei più deboli, portatori delle maggiori disuguaglianze) possono essere comprimibili, se il mercato lo vuole, dunque diventano relativi. Soprattutto, questo non rappresenta un problema generale, ma solo dei singoli interessati, che senza più una classe di appartenenza, un partito di rappresentanza, una società con il senso del legame solidale tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, devono ormai cercare risposte individuali ad una questione collettiva: che non riescono più a far diventare una questione di tutti, vale a dire politica nel senso più alto del termine. Mentre le ragioni del mercato, le ragioni della produzione, vengono considerate comunemente come un problema generale, da condividere.

La vicenda si compie nella cornice spettacolare e dirimente del referendum, dove si confrontano apertamente il sì e il no. Ma qual è il grado di libertà dell'operaio di Mirafiori che va a votare (qualunque sia la sua scelta), sapendo di avere in realtà una sola risposta a disposizione, perché il no equivale alla perdita del posto di lavoro, per sé e per gli altri? Sarà anche questo un problema di democrazia sostanziale, appunto di libertà, oppure per gli operai valgono regole a parte?

Dico questo pensando che sia un grave errore non partecipare al referendum e comunque non riconoscerne l'esito, che deve essere in ogni caso vincolante per tutti, anche nelle condizioni date. Non solo: credo anche che l'urto della globalizzazione, che ci costringe a fare i conti non soltanto tra noi e gli altri (i Paesi emergenti), ma tra noi e noi, resettando regole e condizioni, non vada lasciato interamente sulle spalle dell'imprenditore. Ma c'è pure un modo per negoziare produttività, competitività, compatibilità salvaguardando nello stesso tempo i diritti legati al lavoro, semplicemente perché sono a vantaggio di tutti e dunque a carico di ciascuno, in quanto fanno parte del contesto democratico in cui viviamo, della moderna civiltà italiana ed europea.
Per questo è stupefacente l'incultura gregaria della sinistra che ha smarrito il quadrante della modernità e della conservazione, e pensa che l'innovazione sia cedere al pensiero dominante perché non ha un'idea propria del lavoro oggi, delle nuove disuguaglianze, del legame tra modernizzazione, partecipazione e solidarietà, come dice Beck, quindi la London School of Economics, non un'università marxista del secolo scorso: "Se il capitalismo globale dissolve il nucleo di valori della società del lavoro si rompe un'alleanza storica tra capitalismo, Stato sociale e democrazia", quella democrazia che è venuta al mondo in Europa proprio "come democrazia del lavoro". Cosa c'è di più innovatore e progressista che difendere questo nesso della modernità occidentale, che lega insieme l'economia di mercato, il welfare e la democrazia quotidiana che stiamo vivendo in questa parte del mondo?

Gregaria la sinistra, parassitaria la destra di governo, che usa la forza altrui esclusivamente per regolare i conti ideologici del Novecento visto che non è riuscita a saldarli per via politica, non avendone l'autorità. Ed è un puro ideologismo, non un semplice infortunio, il plauso del Capo del Governo all'idea che la Fiat debba lasciare l'Italia se dovesse perdere il referendum, punendo Torino, le famiglie operaie, l'indotto, il Paese per leso liberismo, altrui. Come se il dividendo ideologico (peraltro preso a prestito) fosse per il Capo del governo italiano più importante del lavoro, della sicurezza, del destino di una città e di un Paese.

Il vuoto della politica ha impedito di chiedere a Marchionne, mentre fissa nuove regole agli operai, di spiegare natura, rischi e potenzialità dell'investimento promesso, chiarendo anche, se il costo del lavoro pesa per il 7 per cento nel valore di un'automobile, quali sono le garanzie dell'azienda che anche tutto ciò che dà forma al restante 93 per cento si stia rimodellando in funzione delle nuove esigenze del mercato mondializzato, per riguadagnare le quote perdute di competitività: garantendo profitti e lavoro. Se la sfida è globale, riguarda appunto tutto e tutti.

Ma il vuoto della politica è più grave se si alza lo sguardo da Mirafiori e si raccorda la Fiat all'Italia. Un Paese fermo legge la sfida di Marchionne come una rivoluzione copernicana e una riforma capitale non del sistema di produzione ma delle relazioni di potere che lo governano: come se fosse possibile per la politica acquistare in outsourcing le riforme che non è capace di produrre in proprio, e gestirle senza condivisione.

La realtà è che l'innovazione berlusconiana del '94 si è accontentata della conquista del potere ed è invecchiata esercitandolo, insieme con tutti i protagonisti in campo - sempre uguali, sempre gli stessi - di maggioranza e d'opposizione. Attorno il mondo ha fatto un giro, è nata Google, è rinata al mercato la Cina: l'Italia è ferma. Guidandola, Berlusconi diventa il simbolo di un Paese bloccato, il cui immobilismo non può però certamente dipendere solo da lui. Attorno alla politica nazionale, il sistema non ha più prodotto uomini riconosciuti come quadri internazionali dalla comunità europea e mondiale, come ai tempi di Ruggiero, Prodi, Monti, Padoa Schioppa, Bonino. Tolta l'eccellenza della moda e in particolare del lusso (che non può trainare da solo l'economia di un Paese) è ferma la produttività e la competitività del sistema industriale, quindi della crescita. Ma appassisce persino la stessa vecchia scuola delle Partecipazioni Statali, declina l'università e tutto il sistema d'istruzione - vero investimento a medio e lungo termine sul futuro -, le televisioni sono diventate inguardabili salvo le nicchie di Sky e della nuova "7". L'establishment ha confermato di non esistere, accontentandosi di essere un network di autoprotezione da rotocalco, incapace di svolgere la funzione nazionale di un richiamo alle regole e ai canoni europei, ma preferendo adattarsi al modus vivendi di un Paese rimpicciolito e rattrappito, pur di staccare qualche dividendo di piccolo potere, all'ombra del potere dominante. Così, inevitabilmente, l'immagine complessiva del Paese è declinata fino a raggiungere i più ingiusti stereotipi che ci hanno sempre accompagnati: in modo che nelle cancellerie non si fa nemmeno più lo sforzo di distinguere la realtà italiana dai luoghi comuni, perché la coincidenza è più comoda, e un'Italia debole fa comodo a tanti.

Il debito pubblico, nella sua massa enorme e nell'impotenza anche culturale della politica di affrontarlo per noi e per i nostri figli, è la fotografia di questo blocco. Che rende difficile affrontare gli spiragli di ripresa che gonfiano le vele alla Germania, ma consentono alla Francia di mantenere lo status di grande Paese se non più di grande potenza, ridanno speranza all'America, cambiano con Cina, India e Brasile la geopolitica mondiale.
Si capisce che in questo quadro la Fiat sembri una soluzione, ma è l'indicazione di un problema. Stupisce, piuttosto, che in tutti gli inviti politici alla "responsabilità", alla "pacificazione", all'"emergenza" che coprono il gran mercato della compravendita di deputati (l'unico fiorente) manchi l'unico appello veramente necessario al Paese: quel "patto per la crescita" che può cambiare l'Italia e che sarà l'indispensabile piattaforma di speranza per il dopo-Berlusconi.
 

(14 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/14/news/ragioni_marchionne_altri-11203018/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. Il confine superato
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2011, 05:44:45 pm
L'EDITORIALE

Il confine superato

di EZIO MAURO

ABBIAMO evidentemente superato il livello di guardia se il Papa e il capo dello Stato devono intervenire con un richiamo alla correttezza morale e civile dei comportamenti pubblici. Non siamo davanti a prese di posizione di tipo politico (che per il Pontefice sarebbero improprie) ma ad un preciso gesto di allarme per la gravità dell'ultimo scandalo di Silvio Berlusconi.

Qui siamo oltre le divisioni tra destra e sinistra e le distinzioni tra laici e cattolici. Si tratta di preservare quella base di "moralità comune", come dicono gli uomini di Chiesa, o di "religione civile", come dicono i servitori dello Stato che è alla base dell'agire pubblico. Un nucleo di valori condivisi di decoro e rispetto per se stessi e per gli altri, dunque per la comunità nazionale e per le istituzioni che la guidano e hanno la responsabilità di rappresentarla.

E' la mancanza assoluta di questo senso di responsabilità la vera rivelazione dello scandalo berlusconiano: un leader che ha la dismisura come regola di vita, pubblica e privata, nel disequilibrio di mezzi e di poteri, nell'abuso permanente delle persone e delle regole, con una proiezione di sé e una visione del mondo che non trovano spazio in Occidente.

La grande banalizzazione, la menzogna organizzata, la complicità degli intellettuali cercano di impedire all'opinione pubblica di conoscere, di capire e di reagire. Ma quando il degrado tocca il vertice del governo, ridicolizza l'immagine dell'Italia nel mondo, paralizza la politica in
una difesa furiosa che minaccia altri poteri dello Stato, è la stessa democrazia che è colpita.

Stupisce che nel Pdl non ci sia un soprassalto di dignità, come se tutti fossero dipendenti Mediaset. Non stupisce, ma colpisce ancora una volta il silenzio di un establishment pavido e gregario, incapace di autonomia e di responsabilità nazionale. Eppure, basterebbe dire a Berlusconi di andarsi a difendere davanti ai magistrati, facendo valere le sue ragioni e rispondendo delle accuse: perché la legge è uguale per tutti, e il potere pubblico è fatto anche di doveri e non solo di privilegi e di abusi.

(22 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/22/news/il_confine_superato-11515742/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Riforme e credibilità
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2011, 06:44:47 pm
EDITORIALE

Riforme  e credibilità

di EZIO MAURO


PRENDIAMO sul serio il Presidente del Consiglio quando annuncia che intende finalmente occuparsi dell'economia, della crescita e della necessità di dare la scossa ad un sistema bloccato. Sarebbe ora, dopo che da mesi e mesi l'esecutivo è prigioniero nel bunker del suo presidente, e non produce né politica né governo.

Il problema è proprio qui. Berlusconi non è riuscito in due anni a fare le riforme che aveva promesso e non ci è riuscito quando aveva una maggioranza enorme, una leadership indiscussa, l'autorità politica intatta del vincitore alle elezioni. Pretende di fare quelle riforme oggi, quando ha una maggioranza affidata ai saldi di stagione, una leadership contestata, e ha perso ogni autorevolezza per gli scandali che non sa spiegare e giustificare, se non con le menzogne.

Ora possiamo anche discutere dell'articolo 41 come se fosse il principale problema del Paese, e possiamo far finta di non ricordare che il piano casa è stato annunciato già tre volte a vuoto, e il piano per il Sud almeno due. Ma come si può "tornare alla politica"quando poche ore prima il Premier denuncia come "invenzioni" le accuse della Procura di Milano, quando il suo Guardasigilli è impegnato a costruirgli l'ennesima scappatoia ad personam dai processi, quando lo stesso Capo del Governo annuncia il suo vero programma: "punire i magistrati"?

Un ritorno alla politica è utile, un piano per la crescita è necessario. Ma la politica è credibile
quando le istituzioni sono credibili. Berlusconi dimostri finalmente che la legge è uguale per tutti, e si difenda davanti ai magistrati, senza criminalizzarli. Altrimenti, è lecito pensare che il suo piano economico è un diversivo per sfuggire a uno scandalo che lo sovrasta, perché non può dire la verità agli italiani.

(03 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
repubblica.it/politica/2011/02/03


Titolo: EZIO MAURO. L'urgenza irresponsabile
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2011, 05:47:33 pm
L'EDITORIALE

L'urgenza irresponsabile

Il Capo dello Stato ha invitato il governo a riscrivere il decreto sul federalismo e a ripresentarlo alle Camere.

Ricordando a Berlusconi che bisogna rispettare il Parlamento.

E che le sue urgenze private di sopravvivenza non possono portarlo a scavalcare la legge

di EZIO MAURO


DUNQUE era "irricevibile" il decreto sul federalismo che il governo ha approvato in fretta e furia l'altra sera, senza nemmeno informare il Quirinale e senza rispettare la legge, per correggere con un colpo di mano la bocciatura nella commissione bicamerale ed evitare che Bossi mandasse a casa su due piedi Berlusconi e i suoi ministri.

Il Capo dello Stato ha invitato il governo a riscrivere il decreto e a ripresentarlo alle Camere, ricordando a Berlusconi che bisogna rispettare il Parlamento e che le sue urgenze private di sopravvivenza non possono portarlo a scavalcare la legge. Soprattutto per il Quirinale una riforma di questa portata non si può varare con un voto improvvisato, senza un'intesa con i comuni e le regioni. Non è così che si riforma lo Stato, serve un consenso per impiantare il federalismo nel Paese.

Bossi lo sa perfettamente. Per ora si aggrappa alla bandiera slabbrata di un federalismo monco e zoppo, partito malissimo e senza respiro con questa maggioranza rappattumata nel mercato d'inverno e una leadership a fine corsa. Ma quanto può durare? Per un piatto di lenticchie la Lega sta cuocendo nel brodo indigeribile degli scandali berlusconiani, tra le manovre di palazzo di un leader che perde ogni giorno lucidità e credibilità, e tira a campare come nella più tarda età democristiana.

I danni sono evidenti, per tutti. Ieri il Premier, inseguito al vertice europeo dalle sue vergogne, ha dipinto la repubblica democratica come un Paese in mano ai magistrati golpisti.
Sarebbe questo l'uomo delle riforme e della crescita? Ciò che è irricevibile, insieme con la legge respinta da Napolitano, è questa condotta irresponsabile e antiitaliana, che danneggia il Paese e la democrazia.

(05 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: EZIO MAURO. Gli attacchi di Ferrara a Zagrebelsky.
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2011, 05:22:27 pm
L'EDITORIALE

Il fantasma azionista

Gli attacchi di Ferrara a Zagrebelsky.

L'ossessione della nuova destra nei confronti dell'"azionismo torinese", quasi la torinesità fosse un'aggravante politica misteriosa, una malattia ideologica

di EZIO MAURO


L'UNICA cosa su cui vale la pena ragionare, nell'attacco furibondo di Giuliano Ferrara a Gustavo Zagrebelsky, dopo la manifestazione di "Libertà e Giustizia" di sabato scorso a Milano, non sono gli insulti - di tipo addirittura fisico, antropologico - e nemmeno la rabbia evidente per il successo di quell'appuntamento pubblico che chiedeva le dimissioni di Berlusconi: piuttosto, è l'ossessione permanente ed ormai eterna della nuova destra nei confronti della cultura azionista, anzi dell'"azionismo torinese", come si dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un'aggravante politica misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica invece di essere semplicemente e per chi lo comprende, come ripeteva Franco Antonicelli, una "condizione condizionante".

Eppure la storia breve del Partito d'Azione è una storia di fallimenti, che nel sistema politico ha lasciato una traccia ormai indistinguibile. Gli ultimi eredi di quell'avventura, nata prima nella Resistenza e proseguita poi più nelle università e nelle professioni che nella politica, sono ormai molto vecchi, o se ne sono andati, appartati com'erano vissuti, in case piene di libri più che di potere.
Ma l'idea dev'essere davvero formidabile se ha attraversato sessant'anni di storia repubblicana diventando il bersaglio dell'intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove, mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come il fantasma d'elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali ed urgenti.

È un'ossessione che ritorna, periodicamente: la stessa destra si era già segnalata nel rifiutare pochi anni fa il sigillo civico di Torino ad Alessandro Galante Garrone, uno dei pochi che non aveva mai giurato fedeltà al fascismo, come se questa fosse una colpa nell'Italia berlusconiana. Oppure nel trasformare la lettera di supplica al Duce firmata da Norberto Bobbio in gioventù in un banchetto politico, moralista, soprattutto ideologico: tentando, dopo che il filosofo rifece pubblicamente i conti della sua esistenza (proprio sul "Foglio" di Ferrara) di rovesciarne la figura nel suo contrario, annullando la testimonianza di una vita per quell'errore iniziale, in modo da poter affermare una visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi fanatici, una sorta di natura debole italiana, nulla più.

Oggi, Zagrebelsky, e si capisce benissimo perché. Quando la cultura si avvicina alla politica e la arricchisce di valori e di ideali, cerca il nesso tra politica e morale, si rivolge allo spirito pubblico, invita alla prevalenza dell'interesse comune sul particolare, scatta il vero pericolo, in un'Italia che si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità. Quando ritorna la cifra intellettuale dell'azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si avverte che quell'impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la piccola e velleitaria organizzazione nel '47, ecco l'allarme ideologico. Parte l'invettiva contro il "gramsciazionismo" torinese, considerato due volte colpevole perché troppo severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi rapporti con il comunismo.

Anche questa destra è in qualche modo una rivelazione degli italiani agli italiani, con un patto sociale ridotto ai minimi termini e la tolleranza che diventa connivenza, purché la leadership carismatica possa contare su una vibrazione di consenso, assumendo in sé tutto il discorso pubblico, mentre il cittadino è ridotto a spettatore delegante, ma liberato dall'impaccio di regole e leggi. Un'Italia dove il peggio non è poi tanto male, dove si relativizza il fascismo, un'Italia in cui tutti sono uguali nei vizi e devono tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, mentre le virtù civiche sono fuori corso e insospettiscono perché lo Stato è un estraneo se non un nemico da cui guardarsi, le istituzioni si possono abitare da alieni, guidare con il sentimento dell'abusivo. Un Paese abituato e anche divertito ad ascoltare l'elogio del malandrino, in cui l'avversario viene schernito, il suo tono di voce deriso, il suo accento additato come una macchia, il suo aspetto fisico denunciato come una colpa, o una vergogna. Mentre gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una delegittimazione insieme politica, morale, estetica, camuffata da goliardia quando serve, da avvertimento - nel vero senso della parola - quando è il caso. Fino al punto, come diceva già una volta Moravia, di "vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione".

Bobbio non si spiegava perché nei suoi ultimi anni avesse ricevuto più attacchi che in tutta la sua vita. Ma non era cambiato lui, era cambiata la destra. E per questa nuova destra che cresceva tra reazione di classe e crisi morale, quell'azionismo residuale e tuttavia irriducibile nella sua testimonianza nuda e antica, disarmata, rappresentava il vero ultimo ostacolo per realizzare il cambio di egemonia culturale di quest'epoca, attraverso la destrutturazione del sistema di valori civili su cui si è retta la repubblica per sessant'anni. Un sistema coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne discendono, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione, e rende la nostra libertà democratica almeno in parte riconquistata, e non octroyée, concessa dagli alleati.

Un obiettivo tutto politico, anzi ideologico, che doveva per forza attaccare tre punti fermi della cultura repubblicana: l'antifascismo (Vittorio Foa diceva che la Resistenza era la vera "matrice" della repubblica), il Risorgimento, nella lettura di Piero Gobetti, il "civismo", come lo chiamava Ferruccio Parri, cioè un impegno morale e politico a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. È chiaro che l'azionismo era il crocevia teorico di questi tre aspetti, soprattutto la variante torinese così intrisa di gobettismo, e che tradisce la presunta neutralità liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l'anticomunismo.

Proprio per questo, gli azionisti sono pericolosi due volte. Perché non portano in sé il peccato originale del comunismo, che contrassegna gran parte della sinistra italiana, e perché non scelgono l'anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Anzi, questo liberalismo di sinistra rifiuta l'equidistanza tra fascismo e comunismo, che porta il partito del Premier e i suoi giornali addirittura a proporre la cancellazione della festa della Liberazione, come se il 25 aprile non fosse la data che celebra un accadimento nazionale concreto e storico, la fine della dittatura, ma solo una sovrastruttura simbolica a fini ideologici. Così, Bobbio denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un'altra equidistanza, "abominevole": quella tra fascismo e antifascismo.

Ce n'è abbastanza per capire. Debole e lontana, la cultura azionista è ancora il nemico ideologico, se propone un'Italia di minoranza intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, praticante della religione civile che predica una "democrazia di alto stile". Si capisce che nell'Italia di oggi, dove prevale una politica che quando trova "un Paese gobbo - come diceva Giolitti - gli confeziona un abito da gobbo", quella cultura sia considerata "miserabile". Guglielmo Giannini, d'altra parte, sull'"Uomo Qualunque" derideva gli azionisti come "visi pallidi", Togliatti chiamava Parri "quel fesso". Ottima compagnia, dunque. Soltanto, converrebbe lasciar perdere Gobetti. Perché a rileggerlo, si scoprirebbe che sembra parlare di oggi quando scrive degli "intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che facciano da coro", che diano "garanzia di continuità nella mistificazione", "armati gregari" che sostituiscono "la fede assente", perché "corte e pretoriani furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti".

(08 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: EZIO MAURO. La struttura Delta
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 04:43:18 pm
L'EDITORIALE

La struttura Delta

di EZIO MAURO


UNA versione italiana e vergognosa del "Grande Fratello" è dunque calata in questi anni sul sistema televisivo, trascinando Rai e Mediaset fuori da ogni logica di concorrenza, per farne la centrale unificata di un'informazione omologata e addomesticata, al servizio cieco e totale del berlusconismo al potere. L'inchiesta di "Repubblica" ha svelato fin dove può arrivare il conflitto d'interessi, che questo giornale denuncia da anni come anomalia italiana, capace di corrompere la qualità della nostra democrazia.

Nel pozzo senza fondo di quel conflitto, tutto viene travolto, non soltanto codici aziendali e doveri professionali, ma lo stesso mercato, insieme con l'indipendenza e l'autonomia del giornalismo. Con il risultato di una servitù imposta alla Rai come un guinzaglio per un unico padrone, ben al di là dell'umiliante lottizzazione tra i partiti, e i cittadini-spettatori truffati e manipolati proprio in quella moderna agorà televisiva in cui si forma il delicatissimo mercato del consenso.

Ci sono le prove documentali di questa operazione sotterranea, che ha agito per anni alle spalle dei Consigli di amministrazione, della Commissione di vigilanza, dei moniti del Quirinale sul pluralismo dell'informazione. Si tratta - come ha documentato "Repubblica" - di un'indagine della magistratura milanese sul fallimento dell'Hdc, la holding dell'ex sondaggista di Berlusconi (e della Rai) Luigi Crespi, che è stato per un lungo periodo anche il vero spin doctor del Cavaliere.

Dopo il fallimento del gruppo, nel marzo 2004, sono scattate perquisizioni e intercettazioni della Guardia di Finanza. E gli appunti dei finanzieri sulle conversazioni telefoniche rivelano un intreccio pilotato tra Mediaset e Rai che coinvolge manager di derivazione berlusconiana e uomini che guidano strutture informative, con scambi di informazioni tattiche e strategiche, mosse concordate sui palinsesti per "coprire" notizie politicamente sfavorevoli al Cavaliere, ritardi truffaldini nella comunicazione al pubblico di risultati elettorali negativi per la destra: con l'aggiunta colorita e impudente di notisti politici Rai che si raccomandano a Berlusconi, dirigenti Mediaset che danno consigli alla Rai sulla preparazione del festival di Sanremo. E un lamento, perché durante le riprese televisive dei funerali del Papa, "Berlusconi è stato inquadrato pochissimo dalle telecamere".

Non si tratta, com'è evidente, soltanto di un caso di malcostume politico, di umiliazione professionale, di vergogna aziendale. E' la rivelazione di un metodo che mina alle fondamenta il mito imprenditoriale berlusconiano, perché sostituisce la complicità alla concorrenza, la sudditanza all'autonomia, la dipendenza al mercato. Il tutto in forma occulta, con la creazione di una vera e propria rete segreta che crea un "gioco di squadra" - come lo chiamano le telefonate intercettate - che ha un unico capitano, un unico referente e un unico beneficiario: Silvio Berlusconi.

Trasmissioni d'informazione, come quella di Vespa, per la quale il direttore generale Rai garantisce che il conduttore "accennerà al Dottore ad ogni occasione opportuna", dirigenti della televisione pubblica che quando vengono a conoscenza di un discorso di Ciampi a reti unificate per la morte del Papa hanno come unica preoccupazione quella di organizzare un contraltare di Berlusconi al capo dello Stato, che potrebbe essere messo troppo "in buona luce", serate elettorali in cui si decide di "fare più confusione possibile" nel comunicare i risultati "per camuffare la loro portata".

In che Paese abbiamo vissuto? La politica - avversari e alleati di Berlusconi, tutti quanti defraudati da questa rete sotterranea costruita per portare acqua ad un mulino solo - è consapevole della gravità di queste rivelazioni, che dovrebbero spingerla ad approvare una seria legge sul conflitto d'interessi nel giro di tre giorni? E il Cavaliere, quando sarà sceso dal predellino di San Babila dove le sue televisioni lo hanno inquadrato in abbondanza, vorrà spiegare che mandato avevano i suoi uomini (spesso suoi assistenti personali) mandati ad occupare posizioni-chiave in Rai e Mediaset, se i risultati documentali sono questi?

La realtà è che in questo Paese ha operato e probabilmente sta operando da anni una vera e propria intelligence privata dell'informazione che non ha uguali in Occidente, un misto di titanismo primitivo e modernità, come spesso accade nelle tentazioni berlusconiane. Potremmo chiamarla, da Conrad, "struttura delta". Un'interposizione arbitraria e sofisticatissima, onnipotente perché occulta come la P2, capace di realizzare un'azione di "spin" su scala spettacolare, offuscando le notizie sgradite, enfatizzando quelle favorevoli, ruotando la giornata nel senso positivo per il Cavaliere.

Naturalmente con le telecamere Rai e Mediaset che ruotano a comando intorno a questa giornata artificiale, a questo mondo camuffato, a questa cronaca addomesticata. In una finzione umiliante e politicamente drammatica della concorrenza, del pluralismo, dei diritti del cittadino-spettatore, alterando alla radice il mercato più rilevante di una democrazia, quello in cui si forma la pubblica opinione.

Lo abbiamo già scritto e lo abbiamo denunciato più volte, ma oggi forse anche la politica più sorda e cieca riuscirà a capire. In nessun altro luogo si è formato un meccanismo "totale", così perverso e perfetto da permettere ad un leader politico di guidare legittimamente la più grande agenzia newsmaker del Paese (il governo) e di controllare insieme impropriamente l'universo televisivo, con la proprietà privata di tre canali e la sovranità pubblica degli altri tre.

A mettere in connessione le notizie trattate secondo convenienza politica e i canali informativi, serviva appunto la "struttura delta", ricca del know-how specifico del mondo berlusconiano, specializzato proprio in questo. Da qui alla tentazione di costruire il palinsesto supremo degli italiani, manipolando paesaggio e personaggi della loro vita, il passo è breve. E se la mentalità è quella che punta ad asservire l'informazione alla politica, la politica al comando, il comando al dominio, quel passo è probabilmente quasi obbligato.

E' ora possibile fare un passo per uscire da questo paesaggio truccato, da questa manipolazione della nostra vita. Purché le istituzioni, la libera informazione, il mercato e la politica lo sappiano. Sappiano che un Paese moderno, o anche solo normale, non può sopportare queste deformazioni delle regole e della stessa realtà: e dunque reagiscano, se ne sono capaci. La stessa mano che domani proporrà le larghe intese, è quella che ha predisposto il telecomando con un tasto unico. E truccato.

(22 novembre 2007)
da repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca


Titolo: EZIO MAURO. La misura è colma
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 04:55:26 pm
L'EDITORIALE

La misura è colma

di EZIO MAURO

CI sono elementi di prova sufficienti per mandare subito Silvio Berlusconi a processo. Questa la decisione del gip, ieri, dopo aver vagliato le fonti di prova dei procuratori, in 15 pagine. Dunque l'inchiesta è chiusa e si apre il processo, dal 6 aprile. L'atto d'accusa, che ha già fatto il giro del mondo, riguarda due reati gravissimi per un Primo Ministro: concussione e prostituzione minorile.

Secondo l'accusa si tratta di reati collegati tra loro. Il Capo del governo ha esercitato una pressione illecita sulla questura di Milano per far liberare nottetempo la giovane Ruby, proprio perché voleva impedire che la ragazza parlasse delle notti ad Arcore da minorenne, compreso il bunga bunga di Stato. La vera cifra di questa vicenda è l'abuso di potere. Una concezione di sé e del mondo all'insegna della dismisura sia nel privato che nel pubblico, un potere che non riconosce limiti, sproporzionato e dunque abusivo nella sua pretesa di essere impudente e impunito, fuori da ogni regola, ogni legge e ogni controllo.

Ieri la "struttura Delta" (che si muove sul confine tra azienda e Stato, politica e marketing) aveva organizzato per il Premier una missione di Stato in Sicilia, tra la propaganda e la paura davanti alla nuova ondata migratoria. Ma il Presidente del Consiglio, dopo la decisione del gip, è tornato d'urgenza a Roma dai suoi avvocati annullando tutti gli impegni, e soprattutto la conferenza stampa già fissata. Perché - ecco il punto capitale - non è in condizione di dire agli italiani la verità sui suoi scandali, e non sa assumersene la responsabilità davanti al Paese.

Ora il suo istinto populista lo spingerà a incendiare il Palazzo, attaccando i magistrati e travolgendo le istituzioni, fino alla distruzione del tempio. La politica che lo circonda non ha l'autonomia per distinguere il suo futuro dal destino del Premier, ma è condannata a seguirlo nel pozzo della sua ossessione. Ecco perché la strada maestra, a questo punto, è una sola: il voto, col giudizio dei cittadini. I quali hanno definitivamente capito che la misura è ormai colma. 

(16 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: EZIO MAURO. Con la libertà
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2011, 06:19:53 pm
L'EDITORIALE

Con la libertà
 
di EZIO MAURO

Tutto l'Occidente si interroga sull'esito della rivoluzione che scuote la Libia, con gli insorti che guardano a Tripoli dalle città liberate, il regime che spara sulla folla e promette ora le riforme che non ha voluto concedere per 42 anni.

In Europa, l'Italia è con Malta il Paese più esposto davanti all'esplosione libica. Proprio per questo, se si comprendono le preoccupazioni del governo è giusto anche pretendere chiarezza nei comportamenti, e prima ancora nei giudizi politici.

L'Italia, con il suo Presidente del Consiglio e il suo ministro degli Esteri, è arrivata per ultima a condannare le violenze, e non ha ancora chiamato per nome il regime dittatoriale contro cui il popolo è sceso nelle piazze, sfidando le armi e i mercenari del Colonnello.

Da questa incapacità di giudicare (che nasce dall'imbarazzo per i ripetuti baciamano a Gheddafi di Berlusconi) discende una posizione a-occidentale: perché riduce la questione libica ad un'emergenza domestica per l'ondata immigratoria, mentre è invece una grande questione di libertà che investe l'Occidente.

Incredibilmente, il nostro governo continua a pensare che Gheddafi possa ancora negoziare un piano di riforme con il suo popolo, come se ne avesse la credibilità e la legittimità. Altrettanto incredibilmente, si pensa che il dittatore possa essere protagonista di un piano di riconciliazione nazionale, dopo che Obama ha parlato di una violenza di regime "che viola la dignità umana".

È umiliante che con le navi da guerra nel Mediterraneo il premier tenga governo e Parlamento in scacco per studiare cinque misure di salvacondotto dai suoi processi: prescrizione breve, conflitto di attribuzione, improcedibilità, processo breve, più riforma della Consulta. Qualcuno gli spieghi che quando i popoli possono riconquistare la loro libertà, l'Occidente ha un dovere preciso che viene prima di tutto: stare dalla loro parte. Questa e solo questa è la risposta alla minaccia di una deriva nell'integralismo islamico. Non la mediazione con i dittatori. 

(25 febbraio 2011)
da - repubblica.it/esteri


Titolo: EZIO MAURO. L'invenzione della realtà
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2011, 12:24:16 pm
   
L'EDITORIALE

L'invenzione della realtà

di EZIO MAURO


IN POCHE ore accadono due eventi che riguardano il Presidente del Consiglio, il suo mondo aziendale, politico e personale - che coincidono dall'inizio e per sempre - e il nostro mondo reale, di cittadini ridotti a spettatori.
La prima scena è di ieri mattina. Chiamato a giudizio a Milano nel processo "Mediatrade" con l'accusa di frode fiscale e appropriazione indebita, il Capo del governo annuncia in anticipo che sarà presente in aula. Si può pensare, davanti a questo annuncio, che accetti di sottoporsi al giudizio senza delegittimare come sempre la magistratura che lo indaga e che deve pronunciarsi sui reati che gli vengono contestati, che intenda ascoltare le accuse e far valere le sue buone ragioni, dimostrando così che anche per lui vale il principio secondo cui la legge è uguale per tutti.

Ma in realtà si tratta di un'udienza preliminare, davanti al gup, dove si costituiscono le parti e si fissa il calendario delle udienze. Non è previsto che l'imputato parli, e lui lo sa bene. Dunque la presenza in aula ha una semplice funzione-civetta, serve da richiamo. Il vero evento politico riguarda quell'aula, nel senso che è concepito e messo in scena per condizionarla, ma avviene fuori: prima, e dopo. Prima, il Pdl ha mobilitato i suoi sostenitori per convocarli a Palazzo di Giustizia, replicando in grande l'operazione claque organizzata a tavolino una settimana fa, con la spedizione di anziani figuranti spaesati davanti all'aula del processo Mills, con tanto di coccarda azzurra prefabbricata al bavero, e militanti di partito al fianco.

Sulla piccola folla in attesa, fronteggiata da un drappello di contestatori del partito di Di Pietro, era già scesa poco prima la voce rassicurante e autoassolutoria del Premier, ovviamente dagli schermi di proprietà e dal canale di famiglia. Una dichiarazione titanica, vittimistica e vindice, come accade in queste grandi occasioni: il processo "è un tentativo di eliminarmi", "sono l'uomo più imputato dell'universo e della storia", "il comunismo in Italia non si è mai concluso e non è mai cambiato", "cerca di usare qualsiasi mezzo per annientare l'avversario". Fino al giuramento rituale, in cui accanto ai figli compaiono per la prima volta i giovanissimi nipoti, incolpevoli ma utili a mulinare numeri sempre più roboanti: "giuro sui miei cinque figli e sui miei sei nipoti che nessuno dei fatti che mi vengono imputati è vero".

Dopo questo primo tempo spettacolare, la breve apparizione in aula, utile soltanto ad attirare i riflettori mediatici, nonostante l'udienza preliminare sia a porte chiuse. Ma lo spettacolo politico che conta è fuori da quella porta. Ecco che si apre. Il Premier imputato appare, e già si mostra sorridente. Incede tra la folla, e diventa trionfante. Alza il braccio per rispondere alle acclamazioni e agli applausi, ed è incontenibile. Infatti sale sul predellino, come tre anni fa quando s'incarnò nel popolo di San Babila e nel popolo delle libertà che stava nascendo. È un'apoteosi.

Ma soprattutto, è un ribaltamento politico della realtà, costruita a tavolino come in un reality, e recitato sulla pubblica piazza cercando di ricalcare in tutto la scenografia del Caimano, come ad annunciare la resa dei conti finale e la capacità di rovesciare la verità. Il Premier di un Paese democratico, imputato per gravi reati comuni, non si preoccupa di rassicurare la pubblica opinione, le istituzioni e la società politica che chiederà chiarezza di giudizio e offrirà collaborazione nella trasparenza per arrivare all'unica cosa che conta, cioè l'accertamento della verità.

No: al contrario maledice davanti alle sue telecamere i magistrati che devono giudicarlo, pronuncia in diretta la sentenza con cui si assolve, addita al ludibrio i suoi avversari politici, raduna i suoi sostenitori di fronte al palazzo giudiziario e si unisce a loro in una manifestazione di ribellione alla giustizia, di lavacro popolare, di giudizio anticipato sommario e inappellabile. Una manifestazione di debolezza estrema spacciata per prova di forza, con il populismo che mette in scena se stesso nella fase più estrema e radicale, perché tecnicamente eversiva, con il potere esecutivo che chiama il popolo a contestare il giudiziario: mentre il legislativo cerca di fulminare i processi con leggi ad personam, spargendo il fumo di false riforme sulle opposizioni, sulle istituzioni e sui soggetti incapaci di una vera autonomia culturale e di una concreta libertà di giudizio.

Il secondo evento è tutto televisivo, ed è andato in onda appena venerdì scorso. A Forum, su Canale 5, una signora abruzzese dell'Aquila si presenta a discutere della sua separazione dal marito Gualtiero, e del loro negozio di abiti da sposa lesionato dalle scosse. Incidentalmente, la signora magnifica sulla rete Mediaset l'operato del Presidente del Consiglio e del governo, "l'Aquila ricostruita", "la vita ricominciata", i giovani che "ritornano", i negozi che "riaprono". Distribuisce "ringraziamenti al Premier", conclude che tra i terremotati "chi si lamenta lo fa per mangiare e dormire gratis". Applausi in studio. Solo che la signora non è terremotata, non è dell'Aquila, non è separata, non è sposata con Gualtiero che è figurante come lei, non ha perso alcun negozio nel sisma ma aiuta il vero marito in un'impresa di pompe funebri. Semplicemente, ha recitato una parte: "Sono abruzzese, mi hanno chiesto di interpretare quel ruolo".

Ora, è possibile accettare tutto questo? Inventare una "fidanzatina" per il Premier circondato da troppe ragazze a pagamento, e costruirne l'identikit sul rotocalco della Real Casa. Modellare dal nulla un fidanzato per Noemi Letizia e fotografarlo in un falso abbraccio con lei per proteggere "Papi". Infine fabbricare la falsa terremotata che salmodia le lodi al Premier ricostruttore nell'unico processo accettato sulle reti Mediaset, quello finto di Forum.

Questo meccanismo menzognero e ingannatore si chiama "ricostruzione della realtà". Decostruisce il reale, lo sposta e lo reinventa in un contesto di comodo, ricostruendo il paesaggio politico e sociale ridisegnando il palinsesto non solo televisivo, ma quotidiano della vita italiana. Non è un caso, è un metodo. Nell'ottobre del 2004 uno stretto collaboratore di George W. Bush (si pensa sia Karl Rove) disse al giornalista Ron Suskind queste parole: "Ora noi siamo un impero, e quando agiamo, noi creiamo la nostra realtà. E mentre voi state studiando questa realtà, giudiziosamente, noi agiremo ancora, creando altre nuove realtà, che voi potrete soltanto studiare, e nient'altro". Bene, fatte le proporzioni con la miseria italiana, forse è arrivato il momento per gli spettatori di tornare cittadini, riportando la politica - Presidente del Consiglio compreso - a fare i conti con la realtà.
 

(29 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/03/29/news


Titolo: EZIO MAURO. Nel paese di Ponzio Pilato
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2011, 05:32:06 pm
IL COMMENTO

Nel paese di Ponzio Pilato

di EZIO MAURO

Siamo così arrivati al dunque: la Costituzione nella sua essenza, nei suoi princìpi, nel suo fondamento. Quindi la natura della Repubblica, l'equilibrio tra i poteri che si bilanciano a vicenda, il concerto istituzionale che dovrebbe dare forma repubblicana alla democrazia quotidiana del nostro Paese. Questo è il senso  -  più simbolico che concreto, per ora, e tuttavia oltremodo significativo  -  dell'ultima iniziativa della destra berlusconiana: riscrivere l'articolo 1 della Carta Costituzionale, per sovraordinare gerarchicamente il Parlamento agli altri poteri dello Stato.

Come al solito, e come avviene normalmente per ogni legge ad personam, si parte con un test, perfettamente coerente con i propositi del leader, ma tecnicamente irresponsabile. In questo caso è una proposta firmata da un deputato del Pdl che si muove "a titolo personale", senza impegnare direttamente il partito, in modo che il vertice possa saggiare le reazioni e decidere poi se cavalcare fino in fondo l'iniziativa o attenuarla, o farla cadere. O più semplicemente, come ha fatto ieri Berlusconi, prendere le distanze dal modo e dal momento della proposta, non certo dalla sostanza. Come sempre i deputati ignoti a Roma, o i candidati consiglieri comunali di Milano interpretano non solo e non tanto la volontà del Capo. Ma interpretano anche il suo sentimento politico più profondo, e portano alla luce le pulsioni nascoste e gli obiettivi reali, insieme con l'urgenza di uno stato di necessità. Il risultato è quello che avevamo prefigurato da tempo. Poiché l'anomalia berlusconiana cresce di giorno in giorno, andando a cozzare contro i capisaldi della Repubblica (il controllo di legalità, l'autonomia della magistratura, il sindacato di costituzionalità, l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge), la destra sta proponendo il patto del diavolo al sistema democratico. Costituzionalizza l'anomalia, smetti di considerarla tale, introiettala: ne risulterai sfigurato ma pacificato, perché tutto finalmente troverà una sua nuova, deforme coerenza, e si riordinerà nella disciplina al nuovo potere, riconosciuto infine come supremo.

La questione sostanziale è la separazione dei poteri, il loro reciproco bilanciamento. Quando emblematicamente si vuole porre mano al primo gradino dell'edificio costituzionale, è per cambiare l'equilibrio dell'intero ordinamento. Ecco il senso della "centralità del Parlamento" inserita nell'articolo 1. E l'autore della proposta lo spiega con chiarezza: "Il Parlamento è sovrano, e gerarchicamente viene prima degli altri organi costituzionali come magistratura, consulta e presidenza della Repubblica". Questo perché, secondo il Pdl, oggi il Parlamento "è troppo debole" ed è "tenuto sotto scacco da magistratura e Consulta".

Va così a compimento quel tratto di "populismo reale", o realizzato, che trasforma una legittima cultura politica  -  la demagogia carismatica  -  in sistema, in forma di Stato. E prevede, fin dalla Costituzione, che il voto popolare trasfiguri con la sua unzione la maggioranza vincitrice nel dominus non soltanto del governo, ma di tutto l'ordine costituzionale, sovraordinando come logica conseguenza il Capo di quella maggioranza ad ogni altro potere, e liberandolo da ogni controllo. Si supera così il principio costituzionale secondo cui la sovranità non "emana" dal popolo verso i vincitori delle elezioni, ma nel popolo "risiede" anche dopo il voto, perché il popolo continua ad esercitarla, a "contrassegno ineliminabile  -  come dice il dibattito nella Costituente - del regime democratico".

È la negazione di quel "concerto" che deve guidare i vertici dello Stato nell'esercizio delle loro potestà, per una concezione antagonista e gerarchizzata delle funzioni e delle istituzioni che, se si introduce il principio di primazia e dunque di soggezione, devono subordinarsi e accettare il comando. Ed è anche la trasformazione  -  metapolitica a questo punto  -  del presidente del Consiglio in Capo, titolare di comando, supremazia e privilegio sugli altri poteri dello Stato. Con questa mutazione, cambia la natura stessa del sistema. Formalmente, siamo sempre nella democrazia parlamentare, potenziata semmai dal richiamo formale del Parlamento come fondamento dell'intero sistema repubblicano. Di fatto, com'è ben evidente dalla prassi di questi anni che con la riscrittura della Carta diventerebbe meccanismo costituzionale, entreremmo nella fase di un inedito bonapartismo costituzionale: con l'istituzionalizzazione del carisma e con il leader eletto dal popolo che in quanto vincitore e Capo della maggioranza parlamentare si pone al vertice dello Stato libero da ogni bilanciamento. Fino a prevalere sullo stesso Presidente della Repubblica, addirittura per definizione gerarchica.
C'è un'altra questione, che non riguarda solo le istituzioni, ma chiama in causa tutti noi. Come dovrebbe essere ormai evidente, la destra oggi al potere sta saggiando il perimetro del sistema, per vedere se i muri maestri reggono, o se per sfuggire alle difficoltà del suo leader gli sfondamenti sono possibili. Purtroppo, ha verificato negli ultimi due anni che ogni forzatura è praticabile, perché le anomalie in Italia non vengono più chiamate con il loro nome, perché ogni superamento del limite non viene giudicato, anzi viene derubricato a "conflitto", mettendo sullo stesso piano chi deforma e chi difende le regole. Le stesse regole che hanno retto il sistema per decenni, sono ormai considerate in fondo come un'ossessione privata e residua di pochi ostinati, insultati di volta in volta come "bardi", "puritani", "parrucconi", secondo la necessità di difesa del leader. Anzi, è nato il concetto nuovissimo di "regolamentarismo": è il richiamo alle regole, o alla legalità, o al diritto, trasformato in ideologismo, in burocraticismo, noioso e antiquato freno capace solo di impacciare e limitare la spada populista del comando. Una spada che se invece fosse libera e fulgida potrebbe tagliare d'un sol colpo - tra gli applausi generali, e a reti unificate - i nodi intricati della complessità contemporanea, che la politica si attarda ancora a cercare di sciogliere, perché è stata inventata per questo, prima che la riformassero.

Di chi sto parlando? Di chi ha responsabilità istituzionali, prima di tutto, e magari tace per tre giorni davanti ai manifesti ignobili sui giudici brigatisti del Pdl a Milano, e si muove solo dopo che il Capo dello Stato è intervenuto con una netta condanna. È un problema di responsabilità, com'è evidente, e di autonomia. E si capisce a questo proposito come uno degli obiettivi della destra sia stato in quest'ultimo anno quello di de-istituzionalizzare  -  senza riuscirci  -  il presidente della Camera, proprio per depotenziare questa assunzione autonoma di responsabilità istituzionale: mentre con il presidente del Senato ovviamente il problema non si pone.

Ma il tema della responsabilità, e della coscienza del limite riguarda anche la cultura, gli intellettuali italiani. Sempre pronti a parlar d'altro, a trasformare tutto in "rissa", senza distinguere chi ha lanciato il sasso e chi ha reagito, anzi invitando sempre tutti a rientrare ugualmente nei ranghi, a darsi una calmata come se fossimo davanti ad una questione di galateo e non di sostanza democratica, o come se la difesa della legalità o delle istituzioni potesse o dovesse essere messa sullo stesso piano degli attacchi. Com'è evidente, non è qui un problema di destra o sinistra. Si può essere di destra, io credo, ma dire no a certe forzature e agli eccessi che danneggiano il Paese e indeboliscono la qualità della democrazia. Il discorso vale anche per i corpi intermedi, per l'intercapedine liberale che un decennio fa il Paese aveva e che oggi non si vede, per quel network che si considera classe dirigente, e che per diventare establishment non solo da rotocalco dovrebbe dimostrare di avere a cuore certo i suoi legittimi interessi, ma talvolta anche l'interesse generale. Vale infine per la Chiesa, che ha scambiato in questi anni con questa destra, sotto gli occhi di tutti, i suoi favori in cambio di legislazioni compiacenti, e che oggi sembra incapace di una libera e autonoma lettura di ciò che sta accadendo in Italia.
Questi silenzi, queste disattenzioni, questa finta neutralità tra la forza e il diritto lasciano non soltanto solo  -  com'è destino al Colle  -  ma fortemente esposto agli attacchi, alle polemiche e alle insofferenze il Presidente della Repubblica. Il quale si trova spesso a dover intervenire per primo e in prima persona per segnalare che si è passato un limite, perché nessuno ha sentito il dovere di farlo prima di lui: che è il garante supremo, ma non può essere l'unico ad avvertire una responsabilità che è generale, e ci riguarda tutti.

Si tratta, semplicemente, di aver fiducia davvero nella democrazia. Di credere quindi che le anomalie vadano chiamate per nome, che le forzature debbano essere segnalate come tali a un'opinione pubblica che  -  se informata  -  saprà giudicare autonomamente: nulla di più. Sapendo che la destra sta giocando una partita per lei decisiva e che questi eccessi nascono in realtà dal profondo delle sue difficoltà, perché il rafforzamento numerico frutto della compravendita nasconde una debolezza politica ormai evidente. Dunque, la partita è aperta. Dipende da ognuno di noi giocarla (per la parte che ci compete) o accettare di vivere nel Paese di Ponzio Pilato.

(22 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/22/news/


Titolo: EZIO MAURO. Il simbolo abbattuto
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2011, 05:55:13 pm
L'EDITORIALE

Il simbolo abbattuto

di EZIO MAURO

PIU' DI TREMILA giorni sono passati dall'11 settembre, dieci anni per inseguire e infine colpire l'uomo che ha organizzato e rivendicato l'attacco al cuore degli Stati Uniti e del sistema occidentale. In tutto questo periodo, tra minacce e attentati era cresciuto il mito dell'imprendibilità di Osama bin Laden, il terrorista numero uno che teneva in scacco il mondo democratico, mentre invece Al Qaeda poteva colpire ovunque, come e quando voleva. Oggi questo mito si spezza, Al Qaeda è decapitata e il suo Capo che annunciava morte all'Occidente è stato ucciso. "Giustizia è fatta", dice Obama agli americani festanti, rivelando il peso di un incubo presente ogni giorno per dieci anni.

Noi europei avremmo preferito che Bin Laden fosse stato catturato e processato, perché l'esecuzione ripugna alla nostra cultura, ma l'America - dove vige la pena di morte - aveva bisogno di colpire chi l'aveva colpita così duramente nella potenza del Pentagono, nel simbolo delle Torri gemelle, nelle vite umane innocenti. Cercare Bin Laden, non dimenticare le sue responsabilità, in questi anni ha significato far valere le ragioni della democrazia occidentale, del rendiconto, della giustizia e del diritto. La vittoria di Obama (che ha voluto condividerla con Bush e Clinton, dando il senso della continuità e dell'unità americana nella lotta al terrorismo) è la miglior risposta a chi - come Trump - gli chiedeva il certificato di nascita sospettandolo di intelligenza con l'islamismo radicale. Eccolo nei fatti il certificato di Obama, che mette a nudo l'ideologismo primitivo della destra americana.

Naturalmente a un anno dal voto il presidente sa che dovrà fronteggiare la reazione terroristica, con Al Qaeda che agisce ormai più come un preambolo politico e simbolico che come un'organizzazione, e dunque legittima e libera forze spontanee capaci di attacchi autonomi. Ma la morte di Bin Laden cade in una primavera araba che cambia radicalmente il quadro rispetto a dieci anni fa. Le piazze, dall'Egitto alla Libia, mentre si ribellano agli autocrati rifiutano anche la soggezione ad Al Qaeda. Potremmo dire che è nato un nuovo soggetto politico che assomiglia alla pubblica opinione, e niente sarà più come prima. In questo senso, Bin Laden muore quando il suo mondo ha cominciato a voltargli le spalle.

(03 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EZIO MAURO. Realizzare i nostri sogni nella disciplina delle libertà
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2011, 07:34:12 pm
IL DIALOGO

Realizzare i nostri sogni nella disciplina delle libertà

Anticipiamo un estratto da "La felicità della democrazia" (Laterza).

Regole, lavoro, immigrazione, populismo: nel saggio di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky un dialogo su un modello politico, sulle sue forzature e sulle sue virtù

di EZIO MAURO, GUSTAVO ZAGREBELSKY



EZIO MAURO. (...) Sei stupito se ti dico che la democrazia deve rispondere addirittura alla grande questione della felicità?

GUSTAVO ZAGREBELSKY. Vuoi introdurre questo tema? Ti avverto subito ch'io, in materia, mi sento alquanto leopardiano. In ogni caso, "se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare". Comunque sia, procediamo pure e chiediamoci che cosa la democrazia abbia a che fare con la felicità.

MAURO. Ci penso da tempo, è una questione cruciale. In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l'idea che la felicità e la soddisfazione dell'individuo possono essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell'abuso e del privilegio, che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il "regolamentarismo" e il politicamente corretto, ed è la rivolta molto più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando il "sonno della legge". C'è un singolare e arbitrario rovesciamento persino di D'Annunzio, come se andare a destra oggi significasse andare "verso la vita", mentre dall'altra parte ci sarebbe spazio solo per una fioca esistenza in bianco e nero, fatta di conformismo e senza sentimenti: un neopuritanesimo in grisaglia, che non sa amare la forza bruta della vita nella sua sregolatezza più feconda, nel caos rigeneratore che nasce dalla licenza e dall'eccesso, contro l'ordine regolare del mondo. È un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell'urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l'esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura. Che felicità può esserci quando, come scrive Durkheim, "si è talmente al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne è talmente consapevoli, che si prova il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale corrente"?

ZAGREBELSKY. Tu cosa rispondi?

MAURO. Molto semplicemente che c'è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e libertà, molto più che altrove. E dunque nelle regole che liberamente si è data. La vita comune fatta di passioni e di errori, di amori e di meraviglie, di dolori e sconfitte: la vita vera, insomma, quella di tutti, che non ha bisogno di aggettivi e di spiegazioni. Quella che si compone con le vite degli altri, "esseri che si somigliano" nel riconoscimento dei diritti e dei doveri, dunque della loro libertà reciproca e dei suoi confini, ecco il punto. C'è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini.

ZAGREBELSKY. Nell'essenziale, sono d'accordo teco, anche se la definizione della vita come felicità, o come possibilità di felicità, secondo la tua descrizione, dovrebbe essere approfondita. Che cosa è la felicità, questo sentimento fugace che subito, appena l'hai provato, si dissolve in angoscia per il timore della perdita? Qualcuno potrebbe dire che proprio in quella trama di relazioni libere e responsabili che è alla base della democrazia e che spetta a noi di tessere sta la nostra infelicità. La libertà è felicità o infelicità? Il tema è discusso. Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l'umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori. Tolta la libertà, gli esseri umani si accontenteranno dell'unica felicità loro possibile, una felicità mediocre e bambinesca, l'appropriazione di cose materiali, la felicità del consumatore, precisamente ciò di cui ante-parlavano Tocqueville e Montesquieu, già citati. Io mi accontenterei di dire che, nell'appropriazione dei propri compiti di "individuo morale", nel senso detto sopra, può stare la soddisfazione del dovere compiuto e che questa soddisfazione cresce proporzionalmente al numero di coloro con i quali si riesce a stabilire rapporti di cooperazione. La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica, invece, la felicità era la vita buona e la vita buona non era il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù. In fondo, non sei molto lontano quando parli di esercizio della libertà nel riconoscimento del limite. Questa è la virtù democratica. Naturalmente, ripeto, questo non ha niente a che vedere con la libertà come pretesa di fare tutto quello che si può (nel senso di ciò che è attualmente possibile), cioè con l'assenza di regole.

MAURO. Contrapponi l'éthos al páthos, in qualche modo. Sei però d'accordo con me nel collegare democrazia e felicità?

ZAGREBELSKY. Nel senso di soddisfazione per il dovere compiuto, sì. Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l'abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi. L'affamato di felicità non esita a farsi beffe della virtù, a esibire come un vessillo il proprio lato più laido. L'archetipo è Faust che vende l'anima al demonio e il demonio, per quanti sforzi si facciano per adeguarsi ai tempi, non è propriamente l'immagine della virtù. Ammetto d'essere un pesce fuor d'acqua. Mi sento piuttosto leopardiano, come ho subito premesso quando hai impostato il tuo discorso.

MAURO. Cioè?

ZAGREBELSKY. (....) Mi riferisco a quel passo di Sigmund Freud contenuto in Il disagio della civiltà dove si mette in rapporto di tensione felicità e istituzioni (...) e che chiude così "L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza". (...)

MAURO. Ma le istituzioni sono dei vincoli e dei riferimenti d'obbligo che ci siamo liberamente dati e che scegliamo di rinnovare a scadenze fisse. Perché - e questo per me è il punto essenziale - siamo convinti che la felicità o la "vita buona", come si diceva, non vada cercata per forza nella trasgressione abusiva o nel "sacrilegio sociale", come lo chiama Roger Caillois, ma nella nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate con meccanismi di garanzia scelti da tutti per tutti, e come tali riconosciuti e accettati.

ZAGREBELSKY. (...) Forse dal punto di vista della felicità-infelicità, potremmo dire così: la democrazia è il modo più sopportabile di sopportare l'infelicità, il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l'infelicità dell'humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni. (...)

MAURO. Ma qui siamo (...) in un terreno sociale, di scelta, dunque politico e morale. Nel "confortarsi insieme", "tenersi compagnia", incoraggiarsi", "darsi una mano e soccorso", nella stessa parola "scambievolmente" c'è il concetto politico e umano di solidarietà, c'è un legame sociale di riconoscimento e obbligazione reciproca, anche se è visto come difesa dalla fatica del vivere. Lo stesso legame, la stessa impresa solidale può vigere e operare al di là della mutua assistenza nella necessità, per arrivare a determinare costruzioni positive, spazi per meriti e per crescite, soddisfazione di bisogni, consensi su obiettivi comuni. Mi accontenterei di dire che la democrazia è un legame sociale positivo, quindi, non solo un meccanismo di tutela.

ZAGREBELSKY. (...) Se ci pensi, la ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli infelici, cioè degli oppressi quali si sentivano gli americani al tempo della loro rivoluzione anticoloniale. Oggi, il senso s'è rovesciato. Sono i potenti che la rivendicano come diritto, la praticano e l'esibiscono, quasi sempre oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il suo bambino morire di fame, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia. Un minimo di giustizia è ciò che ha preso il posto della felicità.

(05 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/05/05/news


Titolo: EZIO MAURO. Cambiare è possibile
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 12:58:23 pm
L'EDITORIALE

Cambiare è possibile

di EZIO MAURO

DA MILANO e Napoli, con percentuali che soltanto un mese fa sembravano impossibili, l'Italia dei Comuni manda un chiaro segnale a Silvio Berlusconi: è finito il grande incantamento, il Paese vuole cambiare pagina. La svolta nasce nelle città che scelgono i sindaci di centrosinistra e bocciano la destra, ma il segnale è nazionale ed è un segnale politico che parla ormai chiaro.
Dopo il primo turno i ballottaggi confermano che Berlusconi è sconfitto al Nord come al Sud, è sconfitto in prima persona e attraverso i candidati che ha scelto e sostenuto, è sconfitto nel bilancio negativo che gli italiani hanno fatto non soltanto del suo governo, ma ormai della sua intera avventura politica.

Nell'Italia pasticciata di questi anni, il voto fa chiarezza, perché è univoco. Dopo Torino e Bologna, riconfermati già al primo turno, passano ora al centrosinistra con Milano anche Trieste, Novara, Pordenone e Cagliari, mentre De Magistris addirittura sfonda a Napoli, quasi doppiando il suo avversario. Il tentativo di rimpicciolire il risultato, d'incantesimo, a una dimensione locale (dando tutta la colpa della sconfitta ai soli candidati-sindaco) è patetico, da parte di chi lo ha trasformato in un test nazionale per un mese intero, mettendo a ferro e fuoco la campagna elettorale.

Quando a Milano il sindaco uscente è stato fermato sotto il 45 per cento da Pisapia, salito al 55,1, è chiaro che la capitale spirituale e materiale del berlusconismo si è ribellata a questo ruolo,
riprendendo la sua autonomia e chiudendo un ventennio. Quando a Napoli De Magistris ha stravinto con il 65,4, lasciando Lettieri al 34, 6, vuol dire che le promesse di Berlusconi sui rifiuti e gli abusi edilizi non sono state credute, e l'alternativa al malgoverno della città è stata cercata non a destra ma a sinistra, dov'era presente una forte discontinuità. Berlusconi non convince quando governa coi suoi sindaci, non vince quando si propone coi suoi uomini come alternativa. Ma perde anche nelle roccheforti della Lega, come nel novarese o a Gallarate, portando la sua crisi personale e politica come una bomba nel corpo inquieto del grande alleato: che dopo aver lucrato elettoralmente (e in termini di potere) nella corsa al traino del Pdl oggi scopre la negatività di quel legame così stretto da soffocare ogni identità autonoma dentro gli scandali del premier, nell'incapacità di governare, nell'annuncio continuo di una pseudoriforma della giustizia che è in realtà un puro privilegio personale del sovrano, alla ricerca ossessiva di un volgare salvacondotto.

È a tutto questo che si è ribellato il Paese. E soprattutto alla falsa rappresentazione di sé, con una propaganda forsennata e suicida che ha presentato Milano come la capitale del male, in balia di tutto ciò che secondo Berlusconi può spaventare una borghesia immaginaria e da strapazzo, zingari, islamici, gay e terroristi: una città che può essere salvata e redenta soltanto dalla mano del Grande Protettore. Con questa predicazione di sventura (ripetuta dopo la sconfitta: "Vi pentirete"), l'ex "uomo col sole in tasca" non si è accorto di proiettare un'idea spaventosa e malaugurante dell'Italia, che i cittadini hanno giudicato pretestuosa, negativa e menzognera.
La prima lezione è che non si può guidare un Paese, dopo aver ottenuto il consenso popolare, e contemporaneamente parlare come se si fosse all'opposizione di tutto, lo Stato, le sue istituzioni, i suoi legittimi poteri, persino il buonsenso. Questo estremismo ideologico sta perdendo Berlusconi, e ha rotto l'incantamento, insieme con le promesse mancate, la compravendita ostentata, gli scandali, la legislazione ad personam.

La cifra complessiva che unisce tutto ciò è la dismisura, la disuguaglianza, l'abuso di potere e il privilegio. Ma questo abuso trasformato in legge, la dismisura che si fa politica, la disuguaglianza che diventa norma, il privilegio che deforma l'equilibrio tra i poteri, sono ormai la "natura" di questa destra, risucchiata per intero - dopo l'espulsione della corrente finiana, l'unica capace di autonomia - dentro il vortice berlusconiano che nella disperazione travolge ogni cosa pur di aprirsi un varco di sopravvivenza. Per questo sono ridicoli i distinguo degli araldi berlusconiani che solo nelle ultime ore hanno incominciato ad imputare al Capo i suoi errori, dopo averlo eccitato ad ogni eccesso nei mesi della fortuna, quando vincere non bastava, bisognava comandare, e governare non era sufficiente, si doveva dominare.

È questa gente che ha aiutato Berlusconi a disperdere il tesoro di consenso conquistato due anni fa, e oggi non sa suggerirgli altro che qualche capriola pirotecnica, qualche giochetto da predellino, qualche invenzione nelle sigle e nella toponomastica politica, come se il problema del Premier e della destra fosse di pura tattica e non di sostanza - di "natura", appunto - e tutto si risolvesse nella propaganda, amplificata dai telegiornali. Invece quando si esce dall'incantamento bisogna fare i conti con la politica. Il Paese non è governato, e il voto lo conferma. La compravendita a blocchi dei parlamentari dà un'illusione di forza numerica, ma non dà vita ad una coalizione politica coerente e coesa. L'attacco forsennato alla magistratura, alla Consulta, al Quirinale, ai cittadini che la pensano diversamente sfibra il Paese e lo calunnia nelle sue istituzioni, cioè nel suo fondamento costituzionale e repubblicano, che andrebbe preservato dalla battaglia politica.

Berlusconi trasmette sempre più - fino alla drammatica immagine del colloquio con Obama - l'idea di un leader alieno nelle istituzioni che dovrebbe non solo guidare, ma rappresentare. È un uomo che sfida lo Stato e non vi si riconosce appieno, e che oggi ha perduto anche il contatto con quel "popolo" che ha sempre contrapposto alla Repubblica e persino al cittadino. Un uomo di Stato, dopo una simile sconfitta, con la posta fissata così in alto, dovrebbe dimettersi. Ma conoscendo il Premier non è il caso di pensarlo: per ora. Assisteremo a proclami roboanti e promesse mirabolanti, e non sarà difficile riconoscere dietro le parole l'ansia di un leader che perde terreno, deve alzare ogni giorno l'asticella, avverte il distacco dell'alleato e la diffidenza del suo stesso partito. Per questo il Premier dopo un breve travestimento da moderato tornerà irresponsabile, dando fuoco a tutte le sue polveri, infiammando di bagliori anti-istituzionali un'agonia che - come diciamo da anni - sarà terribile.

Così facendo, sarà lui a suscitare un arco di forze davvero responsabili, repubblicane, che si troveranno fatalmente insieme a difendere ciò che deve essere difeso, dalla Costituzione al Quirinale, alle istituzioni di controllo e di garanzia. In questo quadro, il Pd sta dimostrando di essere una struttura servente della democrazia repubblicana, perno dell'opposizione e di ogni alternativa, e il suo leader prende forza ad ogni passaggio. Il Terzo Polo ha dato prova di essere irriducibilmente autonomo dal potere di questa destra, e portatore di una cultura delle istituzioni, che dà un senso al moderatismo, sopravvissuto alla maledizione berlusconiana. L'area di Vendola e Di Pietro sa proporre a tutta la sinistra (e persino al centro) uomini e soluzioni nuove, per vincere.

La novità infatti è il vero segno di De Magistris e Pisapia, insieme con la diversità dal modello berlusconiano. E la prima diversità è la serenità, la sicurezza, l'ironia. Anche per questo il cupo arrocco berlusconiano, che tenterà di chiudere a pugno le forze residue intorno ad un governo già condannato, è una risposta vecchia e disperata alla crisi che da oggi è aperta. L'Italia non può essere imprigionata nel pantano perdente di Berlusconi, dopo che con il voto ha scelto di cambiare. Un'altra politica è possibile, un altro Paese la pretende.

(31 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/31/news/editoriale


Titolo: EZIO MAURO. Fango sul paese
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 12:59:30 pm
L'EDITORIALE

Fango sul paese

di EZIO MAURO

C'è un primo ministro, nel vertice del G8 a Deauville, che utilizza il palcoscenico internazionale per danneggiare il suo Paese, vilipenderlo con i leader delle grandi democrazie mondiali, e presentarlo come uno Stato che è fuori dalle regole dell'Occidente, anzi in pericolo di dittatura.
Quel premier ha evidentemente perso la testa. Sommerso dall'affanno per il suo destino, guidato dal sentimento dell'avventurista che si gioca ogni volta l'intera posta perché vive d'azzardo e colpi di mano, ha perduto anche il senso delle proporzioni, oltre che il comune buonsenso, di cui si vantava d'essere campione. Così abbiamo dovuto assistere alla scena penosa di un presidente del Consiglio vistosamente fuori posto e fuori luogo nel vertice dei Grandi (che chiede a Gheddafi di cessare le violenze sul suo popolo), prigioniero com'è della sua ossessione privata trasformata da anni in questione di Stato: e da ieri purtroppo anche in questione internazionale. Nell'imbarazzo di Merkel e Sarkozy, abbiamo visto quel leader di un Paese europeo correre da Barack Obama, per investirlo inopinatamente con il tema della sua presunta "riforma della giustizia", assicurando che "per noi è fondamentale", quasi a chiedere aiuto al Presidente degli Stati Uniti, per poi lanciargli l'allarme finale disperato: "In Italia in questo momento esiste quasi una dittatura dei giudici di sinistra". Obama nella solennità di Westminster aveva appena rilanciato il concetto di Occidente, invitando Europa e America a ridare a quel concetto dignità politica. Quel Premier che come Capo del potere esecutivo attacca il potere giudiziario e definisce dittatura la nostra democrazia istituzionale dimostra di non sapere nemmeno cos'è l'Occidente. Va fermato con il voto, nell'interesse di tutto il Paese.


(27 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/27/news/


Titolo: EZIO MAURO. Il flauto magico spezzato
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2011, 06:21:18 pm
L'EDITORIALE

Il flauto magico spezzato

di EZIO MAURO


IL FLAUTO magico si è spezzato, gli italiani dopo vent'anni rifiutano di seguire la musica di Berlusconi. Quattro leggi volute dal premier  -  una addirittura costruita con le sue mani per procurarsi uno scudo che lo riparasse dai processi in corso  -  sono state bocciate da una valanga di "sì" nei referendum abrogativi che hanno portato quasi 27 milioni di italiani alle urne. E la partecipazione è il vero risultato politico di questo voto. Berlusconi, come Craxi, aveva invitato gli italiani a non votare, andando al mare, e gli italiani gli hanno risposto con una giornata di disobbedienza nazionale scegliendo in massa le urne, dopo quindici anni in cui i referendum non avevano mai raggiunto il quorum. Una ribellione diffusa e consapevole, che dopo la sconfitta della destra nelle grandi città accelera la fine del berlusconismo, ormai arenato e svuotato di ogni energia politica, e soprattutto cambia la forma della politica nel nostro Paese.

L'uomo che evocava il popolo contro le istituzioni, contro gli organismi di garanzia, contro la magistratura, è stato bocciato dal popolo nella forma più evidente e clamorosa, dopo aver provato a mandare a vuoto proprio la pronuncia popolare degli elettori, di cui aveva paura, cercando di far saltare il quorum fissato dalla legge.

Così facendo il premier non si è reso conto di denunciare tutta la sua angoscia per le libere scelte dei cittadini e la sua incapacità ogni giorno più evidente di indirizzare queste scelte politicamente,
orientandole verso il "sì" o il "no". Legittimo formalmente, l'invito a non votare è in questa fase del berlusconismo una conferma di debolezza, quasi una dichiarazione di resa, soprattutto una prova politica d'impotenza, senza futuro.

Temeva le emozioni, il presidente del Consiglio, dopo il disastro di Fukushima: come se le emozioni non facessero parte semplicemente della vita, e come se lui stesso non fosse anche in politica un imprenditore di emozioni oltre che di risentimenti. Ma i risultati dimostrano che gli italiani non hanno votato per paura, bensì per una libera scelta, con serenità e coscienza, perfettamente consapevoli del merito dei singoli quesiti referendari - con l'abrogazione del legittimo impedimento che ha avuto praticamente gli stessi voti dei no al nucleare o alla privatizzazione dell'acqua - ma anche della portata politica generale di questo appuntamento elettorale.

Dunque la sconfitta è doppia, per il capo del governo. Nel merito di leggi che ha voluto e ha varato, e che (il nucleare) ha anche cercato di manipolare per ingannare gli elettori, scavallare il referendum e tornare a proporre le centrali subito dopo. Nel significato politico, perché il voto è anche contro il governo, contro Berlusconi e contro il proseguimento di un'avventura ormai completamente esaurita e rifiutata dagli italiani. E qui c'è la sconfitta più grande: il plebiscito dei cittadini che vanno a votare (anche quelli che scelgono il no) con percentuali sconosciute da decenni, nonostante il governo abbia deportato il referendum nel weekend più estivo possibile, lontanissimo dalle normali stagioni elettorali. È Berlusconi che non sa più parlare agli italiani, così come non li sa ascoltare, perché non li capisce più. E gli italiani gli hanno voltato le spalle.
Qui conviene fermarsi a riflettere, perché dove finisce Berlusconi comincia una nuova politica. Anzi, Berlusconi finisce proprio perché è nata una domanda di nuova politica, che sta cercandosi le risposte da sola, e in parte le ha già trovate.

Se mettiamo in sequenza i tre voti ravvicinati del primo turno amministrativo, del ballottaggio e del referendum, troviamo una chiarissima affermazione di autonomia dei cittadini. Questo è il dato più importante. Il voto al referendum e il voto nelle città sono infatti prima di tutto disobbedienza al pensiero dominante. Di più: sono il rifiuto di una concezione verticale della politica, con il leader indiscusso ed eterno che parla al Paese indicando l'avvenire mentre il partito e il popolo possono solo seguire il carisma, che soffia dove il Capo vuole.

Vince una politica reticolare, a movimento, incentrata sui cittadini più che sulla adulazione del popolo. Cittadini consapevoli che aggirano l'invasione mediatica del Cavaliere sulle televisioni di Stato, mandano a vuoto l'informazione addomesticata dei telegiornali, si organizzano sulla rete, prendono dai giornali i contenuti che servono di volta in volta, fanno viaggiare in rete Benigni, Altan e l'Economist a una velocità e un'intensità che le veline del potere non riescono a raggiungere. Cittadini giovani, che fanno naturalmente rete e movimento, e in un sovvertimento generazionale e di abitudini diventano opinion leader nelle loro famiglie, portando genitori e amici a votare, chiarendo i quesiti, parlando dell'acqua e del nucleare, spiegando come il "legittimo" impedimento aggiri l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Dentro questo movimento orizzontale la leadership a bassa intensità (ma a forte convinzione) del Pd galleggia sorprendentemente meglio del Pdl, una specie di fortezza Bastiani che vede nemici dovunque, dipinge il Paese con colori cupi, nell'egotismo autosufficiente e chiuso in sé del suo leader è incapace di strategie, alleanze o anche soltanto di un normale scambio di relazioni politiche: che Bersani intesse invece ogni giorno alla luce del sole, con Vendola e di Pietro ma anche con Casini e Fini.

Questo spiega in buona parte perché i cittadini decidono oggi di indirizzare a sinistra la nuova domanda di autonomia politica: perché qui i partiti stanno imparando a stare dentro il movimento, giocando di volta in volta la parte della guida o della struttura di sostegno, al servizio di un obiettivo più grande. Ma c'è qualcosa di più. È la fine di un'egemonia culturale, perché come dice Giuseppe De Rita a Ida Dominijanni del Manifesto un ciclo finisce quando esplode la stanchezza per i suoi valori portanti: oggi si comincia a percepire "che la solitudine e l'individualismo non sono un'avventura di potenza ma di depressione e la sregolatezza personale è un prodotto dell'egocentrismo, in una fase in cui i riconoscimenti sociali scarseggiano, perché non fai più carriera, non riesci a fare impresa, non ti puoi gratificare con una vacanza". È il ciclo della "soggettività" che si spezza, anche per l'inconcludenza della politica che lo sostiene e ne ha beneficiato per anni. Torna, come ci avverte Ilvo Diamanti, il bisogno di aggregazione, di solidarietà, di regole, di normalità.

È un cambio di linguaggio, dopo vent'anni. Le manifestazioni delle donne, i post-it contro la legge bavaglio, il boom per Fazio e Saviano, l'allegria della piazza di Pisapia e Vecchioni a Milano contrapposta alla paura e alla cupezza stanno cambiando la cultura quotidiana dell'Italia, il modo di comunicare, l'immaginario che nasce finalmente fuori dalla televisione, la domanda stessa della politica. Davanti a questo cambio, le miserie dei burocrati spaventati che reggono la Rai per conto di Berlusconi sembrano ormai tardive e inutili: chiudono la stalla di viale Mazzini con l'unica preoccupazione di lasciar fuori Saviano e Santoro, per autolesionismo bulgaro, e non si accorgono che gli spettatori sono intanto scappati altrove.

Faceva impressione, ieri pomeriggio, vedere tanti politici e giornalisti pronti a celebrare il funerale politico di Berlusconi dopo che per anni si erano rifiutati di diagnosticare la malattia di questa destra, la sua anomalia. Stesso strabismo dei "nextisti" che invitano a preparare il domani pur di saltare il giudizio sull'oggi, il giudizio ineludibile - proprio per evitare opacità e confusione - sulla natura del berlusconismo. Questo spiega lo stupore italiano davanti ai giornali europei di establishment, che rivelano quella natura e denunciano quelle anomalie - come Repubblica fa da anni - giudicandole semplicemente estranee ad un normale canone europeo e occidentale. Ci voleva molto? Bisognava aspettare l'Economist? L'Italia della cultura, dei giornali, dell'establishment si è rifiutata di vedere e di capire, finché gli italiani non hanno visto e capito anche per lei. A quel punto, come sempre, si è adeguata in gran fretta.

Adesso, Berlusconi proseguirà con gli esorcismi e le sedute spiritiche cui lo consigliano i suoi fedeli, incapaci di imboccare la strada di un tea party italiano che ricrei un movimento anche a destra, riprenda la leggenda della "rivoluzione" conservatrice delle origini e spari su un quartier generale arroccato e spaventato, preoccupato solo di difendere rendite di posizione in conflitto tra loro. Sullo sfondo, Bossi continua a ballare da solo sulla musica di Berlusconi che il Paese non ascolta più, e intanto perde contatto con la sua gente, scopre che il Nord è autonomo anche dalla Lega, decide per sé e va a votare con percentuali dal 91 al 96 per cento, disubbidendo dalla Liguria al Trentino. Ancora una volta, come nel '94, la sovrapposizione con Berlusconi soffoca la Lega: che alla fine staccherà la spina, portando anche il Parlamento - in ritardo - a sanzionare quel cambio di stagione che ieri hanno deciso i cittadini.

(14 giugno 2011) © Riproduzione riservata
DA - repubblica.it/politica/2011/06/14/news/editoriale_mauro-17663373/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Un problema di democrazia
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 09:59:00 am
L'EDITORIALE

Un problema di democrazia

di EZIO MAURO

Un potere ormai terrorizzato da se stesso, dagli scandali che mettono a nudo la sua debolezza, dal consenso in fuga, decide di alzare il ponte levatoio e chiudersi nel Palazzo assediato, separandosi dai cittadini. È questa la vera ragione della legge bavaglio che per la seconda volta Berlusconi vuole calare sulla stampa e sulle inchieste con la cancellazione delle intercettazioni telefoniche, impedendo ai magistrati di indagare sul crimine e ai cittadini di conoscere, di capire e di giudicare.

È un'altra legge ad personam, costruita per proteggere il vertice del governo dall'inchiesta sulla P4, che infatti ieri il ministro Alfano ha attaccato come "irrilevante", dimenticandosi di essere Guardasigilli: perché l'inchiesta svela il malaffare di una centrale governativa di potere occulto e piduista per condizionare le istituzioni, l'economia e la Rai, minacciando, promettendo e proteggendo.

Un potere indebito, di fronte al quale si genuflettono incredibilmente ministri, grand commis e uomini di un falso establishment tarlato, incapace di autonomia e di dignità, valvassori che chiedono insieme protezione e libertà di saccheggio. Ma questa deviazione  -  ecco il punto  -  nasce nel cuore del berlusconismo, e riporta al vertice del governo, per conto del quale si promettono nomine, si minaccia fango, si imbandiscono affari.

È questo che gli italiani non devono sapere. Dunque, legge bavaglio bis: i magistrati non potranno perseguire i reati secondo le procedure di tutti i Paesi
civili. I cittadini potranno conoscere le notizie sui crimini nella misura che il governo vorrà.

Con ogni evidenza è un problema di democrazia, che riguarda tutti. Già una volta l'opinione pubblica ha bloccato il bavaglio, con la battaglia del post-it. Lo farà ancora, perché l'Italia di oggi non può accettare un abuso sui doveri dello Stato, sui diritti dei cittadini, sulla libertà.

(24 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/06/24/news/problema_democrazia-18149549/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Doppio disonore
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2011, 05:20:53 pm
L'EDITORIALE

Doppio disonore

di EZIO MAURO


FORSE la vergogna, più probabilmente lo stop del Quirinale, hanno portato Berlusconi a ritirare in tutta fretta la norma salva-Fininvest che aveva infilato di soppiatto nella manovra, aggirando il Tesoro e lo stesso Consiglio dei ministri. Era una norma suicida, incostituzionale e soprattutto spudorata, perché trasformava l'interesse economico di una sola persona in legge dello Stato, disprezzando il diritto e l'interesse generale.

Una vera e propria prova di forza, che in sole 24 ore si è rovesciata in una nuova sconfitta. Con un disonore politico doppio per il premier: per averci provato, e per non esserci riuscito.
 
Il capo del governo ha voluto sottolineare, nel momento della ritirata, che la norma "era giusta e doverosa", ma veniva tolta dalla manovra davanti alla "crociata" delle opposizioni. Ha poi minacciato la corte d'Appello che deve pronunciare a giorni la sentenza sul risarcimento Cir per la corruzione con cui Fininvest "comprò" il Lodo Mondadori: se la sentenza di primo grado non fosse annullata, si verificherebbe "un'assurda e incredibile negazione di principi giuridici fondamentali".
 
La realtà parla tutt'altra lingua. Il Quirinale ha fatto sapere a Palazzo Chigi che la norma era inaccettabile, il presidente della Camera l'ha definita "totalmente inopportuna", l'Anm "iniqua e incostituzionale", le opposizioni vergognosa.

Non solo. Tremonti si è smarcato, e la Lega ha fatto filtrare in mattinata lo sconcerto
dei suoi tre ministri, Bossi, Maroni e Calderoli. Il Cavaliere ha così toccato con mano la sua debolezza, la forza tranquilla del Quirinale, il concerto delle opposizioni, le reazioni della pubblica opinione e questa volta persino dei giornali che quando il premier era più forte avevano avallato molte leggi ad personam. Ha dovuto prendere atto che non tutto è possibile, l'Italia sta cambiando, le istituzioni riconquistano coscienza e autonomia, persino nella maggioranza di fronte alle continue forzature il vaso comincia ad essere colmo.

La sconfitta è bruciante, a conferma di una parabola in caduta libera. Ma la questione politica, anche dopo la sconfitta, resta intatta.
Da chi siamo governati? C'è un premier occidentale che a pochi giorni da una sentenza di risarcimento a carico della sua azienda, in seguito a una condanna per corruzione di magistrati, prova a costruirsi una piccola, miserabile uscita di sicurezza patrimoniale manipolando la manovra con una norma ad hoc. Quest'uomo è evidentemente capace di tutto e non ha timore di nulla, nemmeno della reazione di un Paese che ha appena bocciato a maggioranza enorme un'altra legge ad personam, il legittimo impedimento. Lo muove la disperazione, la consapevolezza che il suo tempo è scaduto. Per questo è pericoloso. Ma la democrazia è più forte e ieri ha dimostrato che non si lascia deformare.

(06 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/06/news/doppio_disonore-18725416/


Titolo: EZIO MAURO. La responsabilità nel Paese in tempesta
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2011, 04:37:13 pm
L'EDITORIALE

La responsabilità nel Paese in tempesta

di EZIO MAURO

LA SPECULAZIONE è partita all'assalto dell'Italia per tre ragioni ben evidenti: l'enorme massa di debito pubblico, che equivale al 25 per cento del Pil di tutta l'area euro; la debolezza e l'incertezza della manovra, che sposta le vere misure consistenti al 2013 e al 2014, affidandole in pratica al prossimo governo; lo sfarinamento della leadership di Silvio Berlusconi, che non è più garante politico ed istituzionale di nulla, né dentro il Paese né fuori, con una maggioranza puramente numerica, tarlata dagli scandali.

 Tutto questo è sufficiente per scatenare l'attacco all'euro attraverso la fragilità dell'Italia. Troppo grande per fallire, si diceva fino all'altro ieri del nostro Paese, troppo grande per poter essere salvato. Oggi i timori rischiano di prevalere. Siamo palesemente un Paese esposto, e purtroppo senza guida. Il Capo del governo ha capito di non essere spendibile per rassicurare i mercati, soprattutto dopo la sentenza civile Fininvest-Cir che lo descrive come corruttore. Come non sono spendibili, davanti ai fucili puntati dei mercati, le sue accuse di "rapina a mano armata" per una sentenza di risarcimento, le sue manovre parlamentari per garantirsi l'insolvenza con leggi ad personam.

Così il Premier tace, col Paese nella tempesta. Il risultato è l'assenza di politica, in un momento in cui c'è bisogno di regole certe, impegni solidi, indirizzi di marcia sicuri. Supplisce il Capo dello Stato, grazie alla sua credibilità e alla sua autorità. Il
suo invito alla responsabilità è stato accolto dalle opposizioni, e ora la manovra può essere approvata in fretta, anticipando parte delle misure che erano state posticipate, se il governo capisce la necessità di rispondere ai mercati. Poi, la responsabilità di fronte alla crisi deve portare a un nuovo governo, senza un leader costretto al silenzio perché sa di non essere credibile, come se fosse consapevole di una sorta di impeachment che si è costruito da solo, a forza di scandali.

(12 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/12/news/editoriale_mauro-18999787/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Ora il premier deve dimettersi
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2011, 10:49:22 am
L'EDITORIALE

Ora il premier deve dimettersi

di EZIO MAURO


I MERCATI danno la caccia all'Italia. È una doppia fragilità quella che espone il nostro Paese. La prima è strutturale, con un debito pubblico enorme e una manovra finanziaria che non prevede misure per la crescita ma taglia soltanto - con un segno di classe - aumentando le imposte, deprimendo consumi e investimenti e spostando ad un futuro incerto gli interventi decisivi.

La seconda è politica, con la liquefazione della leadership di Silvio Berlusconi che palesemente non guida più né il governo, né la maggioranza né il Paese, oggi in balia dei venti come non è mai stato nemmeno nei momenti peggiori della prima Repubblica.

I mercati giudicano le debolezze e ne traggono profitto. Il premier è di fatto commissariato dall'autorità dell'Unione Europea, del Quirinale e di Bankitalia, con l'obbligo di varare una manovra che non voleva, che ha avversato e che ha votato contestandola. In mezzo alla tempesta della speculazione, il presidente del Consiglio non è stato in grado di spendere una parola di credibilità e di governo, si è preoccupato soltanto di chiedere l'impunità per l'onorevole Papa, il membro del suo partito su cui pende una richiesta di arresto per concussione e favoreggiamento.

Per tutte queste ragioni, per gli scandali che lo circondano, per le lotte interne ad una maggioranza costruita con la compravendita di parlamentari, Berlusconi è oggi un chiaro elemento di debolezza di un Paese fortemente a rischio: lo ha sottolineato
la stampa europea, lo ripetono gli analisti finanziari, lo certificano i sondaggi.

Alla responsabilità dell'opposizione, che ha consentito il varo della manovra a tempo di record, deve corrispondere la responsabilità della maggioranza. Si prenda atto che il Paese non è governato in un passaggio pericoloso, quando serve uno sforzo congiunto che non si può realizzare attorno a questo esecutivo, e se ne traggano le conseguenze. Berlusconi può fare finalmente qualcosa di utile per l'Italia: dimettersi, al più presto.

(19 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/19/news/premier_dimissioni-19303949/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. LA MORTE DI D'AVANZO. La forza e il coraggio
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:26:04 am
LA MORTE DI D'AVANZO

La forza e il coraggio

di EZIO MAURO

Sembra impossibile credere che la forza di Peppe D'Avanzo, uno dei segni distintivi del suo carattere e del suo mestiere, abbia dovuto arrendersi, ieri mattina, quando la morte è arrivata troppo presto, a 57 anni. La forza, e il coraggio. Volersi far carico - e saperlo fare come nessun altro - delle situazioni più complicate e difficili, correre il rischio, accettare ogni volta la sfida, e vincerla.
Fino all'ultima, ieri, che non ha potuto nemmeno combattere.

Il tempo appena di chiamare "Attilio", e morire tra le braccia di Attilio Bolzoni, l'amico con cui aveva indagato per anni sui misteri criminali della mafia. Il giornalismo è così, brucia giornate e settimane intere di lavoro nello spazio di un articolo, di un titolo, di una fotografia. Sembra una condanna all'effimero, dove nulla dura abbastanza per acquistare sostanza e tutto è subito sopravanzato dall'urto della cronaca. E invece, qualcosa si deposita ogni giorno, dal fondo di questo mestiere, mentre si compie. È un accumulo di conoscenza e di sapere, non di semplice esperienza, quella che si può davvero chiamare l'intelligenza degli avvenimenti. E insieme (più difficile da riconoscere nei tempi convulsi in cui il giornale prende forma e si fa, ogni giorno) è un deposito di umanità e di passione, che lega le persone nelle loro diversità e anche nella naturale competizione: attraverso il gioire e il patire insieme, condividendo campagne e battaglie, o anche lo sforzo semplice ma necessario di comprensione dei fenomeni che abbiamo davanti.

È il sentimento del giornale, che è il senso di un'avventura comune. Per questo noi di "Repubblica" piangiamo prima di ogni cosa il nostro compagno, con cui abbiamo diviso passaggi difficili e momenti esaltanti, attraverso arrabbiature, soddisfazioni, tentativi, scoperte, per trovare al giornalismo quella strada che gli consentisse ogni volta di venire a capo di tutto, e risolvere ogni cosa. Perché questo interessava a D'Avanzo: il giornalismo. Poter fronteggiare la realtà, poterla indagare e decifrare applicando gli strumenti e le regole del mestiere, senza risparmiarsi mai, con un'adesione quasi fisica alla sua passione che era diventata una missione. Nelle situazioni più complesse, quando la realtà apparente sembrava dar torto al nostro lavoro, D'Avanzo sapeva richiamare se stesso, noi e dunque i lettori alla realtà vera delle cose, badando alla sostanza.

Durante le grandi campagne di stampa di cui è stato protagonista, quando il rapporto di forza tra un giornale e il potere dominante sembrava sproporzionato e squilibrante, se qualcuno domandava dov'era il punto d'arrivo, la via d'uscita, lui rispondeva sicuro: non ce n'è bisogno, noi abbiamo messo in moto qualcosa di importante, il potere reagirà e il nostro giornalismo deciderà da solo come rispondere. È semplice. Sapeva rendere semplici situazioni complesse.

Il suo giornalismo era cresciuto negli anni, ma ancora lo esaltava la grande cronaca, stava ragionando su un'inchiesta in val di Susa sulla Tav, voleva tornare a Napoli per i rifiuti, era attirato dallo scandalo della pedofilia in Vaticano e dalle convulsioni della Rai. Ma con gli anni, aveva imparato a trarre da ogni vicenda il filo invisibile che riporta al potere, e svela come il potere agisce. In questo la sua capacità di analisi si era affinata, attraversava la politica, l'economia, la giustizia, e gli consentiva ogni volta di arrivare al cuore del potere italiano, dandone una rappresentazione impietosa perché veritiera. Era ormai il protagonista di un'operazione giornalistica e culturale senza uguali, un'indagine permanente sul potere. Che infatti lo temeva più di qualsiasi altro giornalista.

Non si può dimenticare che D'Avanzo è stato spiato e pedinato nel corso delle sue inchieste più delicate, che una delle varie diramazioni miserabili dei nostri servizi segreti (che dovrebbero servire lo Stato democratico e le sue istituzioni) preparava dossier su di lui, che l'ansia impaurita di questi funzionari deviati li aveva spinti più volte a chiedere a giornalisti infedeli su che cosa stava lavorando D'Avanzo, che cosa stava scrivendo, che articolo preparava per il giorno seguente. Sapeva perfettamente di essersi spinto in territori pericolosi, sapeva che la forza delle sue inchieste lo esponeva personalmente, soprattutto davanti ai metodi obliqui e irresponsabili di quella che aveva svelato e battezzato come la "macchina del fango". Da qui, anche, la sua solitudine, il sentimento individuale del rischio, la ricerca continua di una condivisione necessaria con il vertice del giornale. E la scelta di vivere senza mai potersi permettere un errore, dunque senza nessun rapporto con i potenti, uomini della politica o dell'economia, decidendo ogni volta cosa scrivere in base ai dati nudi della realtà, e a nient'altro, senza condizionamenti di alcun genere.

Tutto ciò già dagli anni di Falcone, del lavoro sulla mafia. Poi nelle grandi inchieste internazionali, come il caso Abu Omar e il Nigergate. O lo scandalo delle tangenti Telekom Serbia, svelato su "Repubblica" quando al governo c'era la sinistra, e poi smontato nella gigantesca calunnia successiva, quando la destra organizzò una campagna diffamatoria e falsa contro Prodi, Dini e Fassino. Fino al lungo lavoro finale su Berlusconi e sull'anomalia della destra italiana, quando dallo scandalo di Noemi Letizia, dalla denuncia di Veronica Lario e dalle contraddizioni del premier nacquero le 10 domande, scritte da D'Avanzo e finite sui giornali di tutto il mondo, a prova dell'irresponsabilità del potere. Il caso Ruby innescò una nuova inchiesta giornalistica, questa volta con l'indicazione di dieci bugie del Presidente del Consiglio, pubblicate ogni giorno per sei mesi, senza che Palazzo Chigi potesse smentirle. In più, il lavoro di anni sulla "struttura Delta", quella macchina del consenso che D'Avanzo vide per primo, al crocevia tra politica ed editoria, e che orchestrava l'informazione Rai e Mediaset a danno dei lettori e a vantaggio dell'azienda e della politica del premier.

Infine, la battaglia sulle leggi ad personam, che ha visto sempre D'Avanzo in prima linea, fino a dirottare (insieme con i lettori e altre forze capaci di reagire) la "legge bavaglio" sulle intercettazioni telefoniche. Ecco perché i lettori avevano imparato a considerarlo non semplicemente un giornalista, ma un punto di riferimento. Lo era anche per me, nelle telefonate mattutine, quando cercavamo di capire la direzione in cui si muoveva la giornata, commentavamo i segnali che arrivavano dai giornali, provavamo ad anticipare le mosse del potere, per poterle intercettare giornalisticamente. Adesso quelle telefonate non ci saranno più.

Non riesco nemmeno a guardare le foto di Peppe mentre lavora, a immaginarlo quando entra nella mia stanza e dice "C'è roba". Quando s'incazza, e non c'è verso di fargli cambiare idea. Quando critica, magari esagerando, ma sempre con un fondo di passione autentica per il giornalismo, per cui ogni volta - come ripetevamo tra noi - "vale la pena". Quando svela, come ancora giovedì scorso, incurvando le spalle, sentimenti delicati e profondi, che il mestiere regala senza dirtelo, dopo anni passati insieme. Su quelle spalle potenti, abbiamo caricato il peso di alcune partite giornalistiche tra le più difficili che "Repubblica" ha dovuto e voluto giocare, e che ha portato avanti grazie alla comune fiducia nel giornalismo, in democrazia, Ora quelle spalle che Marina ieri ha abbracciato per l'ultima volta, non hanno più retto. E noi alla fine piangiamo senza rimedio Peppe, il nostro compagno che non c'è più.

(31 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/07/31/news/ezio_mauro_d_avanzo-19830428/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. Berlusconi sconfitto sulle dieci domande
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 10:36:21 am
IL COMMENTO

Berlusconi sconfitto sulle dieci domande

di EZIO MAURO

Silvio Berlusconi ha perso. Per togliere di mezzo le dieci domande che Repubblica con Giuseppe D'Avanzo gli ha rivolto ogni giorno per sei mesi (chiedendogli conto di bugie e falsità sullo scandalo del "ciarpame politico" sollevato dalla first lady per lo scambio tra candidature e favori sessuali) il Presidente del Consiglio aveva denunciato il nostro giornale per diffamazione, chiedendo una condanna a un milione di euro per danni al suo onore e alla sua reputazione. La sentenza del Tribunale di Roma respinge la richiesta di risarcimento del Capo del governo (e anzi lo condanna a rifondere le spese processuali) con questa motivazione: le dieci domande "costituiscono legittimo esercizio del diritto di critica e lecita manifestazione della libertà di pensiero e di opinione garantita dall'articolo 21 della Costituzione".

Il caso senza precedenti di un leader politico che denuncia delle domande, perché non può rispondere, ha fatto il giro del mondo, così come gli insulti del Premier ai nostri giornalisti e il suo invito agli industriali a boicottare la pubblicità su Repubblica. Tutto inutile. Perché il tribunale ha stabilito che è legittimo anche in Italia  -  per un giornale che intenda farlo  -  svelare le menzogne del potere e chiederne conto, è legittimo incalzare un Premier su vicende poco chiare finché non si assuma la responsabilità di spiegarle davanti alla pubblica opinione. La pretesa di Berlusconi di soffocare un'inchiesta scomoda e di zittire
un giornale è stata sconfitta.

Ma è stato respinto anche il tentativo di delegittimare il ruolo della stampa, con il timbro della magistratura. Il Presidente del Consiglio aveva infatti definito le dieci domande "retoriche, diffamatorie e discreditanti". La sentenza le considera invece espressione del diritto di cronaca e del diritto di critica, le giudica "fondate su un solido nucleo di veridicità", le ritiene "civili" e "corrette". Soprattutto, la sentenza sancisce che "in un Paese democratico è diritto-dovere della stampa chiedere conto e ragione dei propri comportamenti a chi ricopre cariche politiche e di governo" in modo che i cittadini possano giudicare l'uomo pubblico "non solo sull'attività svolta, ma anche con riferimento al suo patrimonio etico e alla coerenza dei comportamenti".

È quello che Repubblica e D'Avanzo hanno sostenuto in questa battaglia giornalistica. Che oggi continua, perché nel mezzo della crisi ci sono molti altri punti oscuri che attendono dal Premier qualche risposta. A risentirci.

(13 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/13/news/mauro_10_domande-21583550/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. La coscienza dello Stato
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 05:10:01 pm
L'EDITORIALE

La coscienza dello Stato

di EZIO MAURO


IERI Giorgio Napolitano ha rotto un pezzo dell'incantesimo che blocca il Paese in questa lunga agonia del berlusconismo. Spazzando via false credenze, mitologie e leggende politiche che pure hanno imprigionato e condizionato l'attività di questo governo, il Capo dello Stato ha detto chiaramente quel che la politica (anche di opposizione) non riesce a spiegare: non esiste un popolo padano, pensare ad uno Stato lombardo-veneto che competa nella sfida della globalizzazione mondiale è semplicemente grottesco, e una via democratica alla secessione è fuori dalla realtà.

Dopo queste parole, vivere nella finzione non sarà più possibile. Ci vuole coraggio istituzionale - quindi responsabilità - nel pronunciarle, perché l'Italia politica ha accettato per anni che crescesse dentro la cultura della destra berlusconiana questa leggenda nera della secessione possibile, della Padania immaginaria, fino alla buffonata delle false sedi ministeriali al Nord, col ritratto di Bossi appeso ai muri. Oggi, semplicemente e finalmente, lo Stato dimostra di avere coscienza e nozione di sé, e dice di essere uno e indivisibile, frutto di una vicenda nazionale e di una storia riconosciuta.

È una frustata alla politica, Lega, governo e maggioranza in primo luogo: ma anche all'opposizione. Napolitano infatti denuncia la rottura del rapporto tra eletti ed elettori, come se la politica si sentisse irresponsabile. E proprio nel giorno in cui le firme per il referendum abrogativo hanno raggiunto un milione e duecentomila,
chiama in causa per questo il Porcellum: voluto e votato da Berlusconi e dalla Lega, colpevole di aver spostato la scelta dei parlamentari nelle mani dei capi-partito, spezzando il collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Presidente chiede espressamente una nuova legge elettorale per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.

Guai se le parole del Quirinale restassero inascoltate, al punto in cui è giunta la disaffezione dei cittadini verso il sistema politico-istituzionale. È un invito a dire la verità, a farla finita con gli inganni, a restituire la parola ai cittadini, a "cambiare aria" nel Palazzo. Se accadrà, anche la finzione di governo che si arrocca a Palazzo Chigi avrà vita breve.
 

(01 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/01/news/la_coscienza_dello_stato-22502289/


Titolo: EZIO MAURO. Fiducia mutilata
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2011, 05:29:13 pm
L'EDITORIALE

Fiducia mutilata

di EZIO MAURO

DUNQUE il governo è salvo. Ma è politicamente vivo? Questo aveva chiesto Napolitano a Berlusconi dopo il voto negativo sul rendiconto di bilancio: i numeri sono fondamentali, ma davanti all'evidenza di litigi continui nell'esecutivo, di tensioni nella maggioranza, di indecisioni patenti su misure fondamentali, il Premier è in condizione di garantire una tenuta politica del suo governo?

Berlusconi ha risposto con un voto di fiducia risicato e faticoso, dopo una mattinata di fibrillazioni, passata ad inseguire l'ultimo dei cosiddetti "Responsabili" sull'uscio della Camera. Ma non ha potuto rispondere alla vera questione, che riguarda la salute e la forza del suo ministero. Cioè la sua capacità di governare l'Italia, soprattutto in un momento difficile, con la fiducia da riconquistare nei mercati, nelle istituzioni internazionali e nella pubblica opinione.

La crisi latente che sovrasta Berlusconi - e purtroppo il Paese con lui - continua quindi dopo il voto, intatta. Il Premier vanta come una vittoria una fiducia mutilata, dopo aver perso altri pezzi per strada, affondando ogni giorno di più. Non c'è un significato politico, non c'è alcun valore ideale, non c'è più nessuna capacità d'amministrazione in questa avventura che s'incupisce mentre non sa finire.

Al punto in cui siamo, la fiducia non serve per governare, visto che il Premier non sa garantire né coesione né visione. Serve soltanto per comandare, per rimanere chiusi nel bunker del potere,
per difendersi e attaccare. Rimanendo a Palazzo Chigi, il Premier non affronterà le emergenze che premono il Paese ma le sue personali urgenze, con la legge sulle intercettazioni e la prescrizione breve. Più che mai il Paese ha bisogno d'altro: e lo avrà.

(15 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EZIO MAURO. Un regime vuoto
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 05:07:31 pm
L'EDITORIALE

Un regime vuoto

di EZIO MAURO


INCAPACI di salvare l'Italia, tentano disperatamente di salvare se stessi. A questo si è ridotta la forza titanica del berlusconismo, la "rivoluzione liberale", il governo "del fare", il vento del Nord leghista. Un ceto politico spaventato, timoroso ormai di mostrarsi al suo stesso popolo, impotente a governare la crisi, non riesce a dare le risposte di governo di cui il Paese ha bisogno.

L'unica risposta è un accordo al ribasso, inadeguato e probabilmente inutile, nella speranza che possa imbrogliare l'Europa garantendo uno spazio ulteriore di sopravvivenza alla disperazione congiunta di Bossi e Berlusconi, chiusi nel recinto di governo trasformato in ultimo bunker.

L'Europa aveva imposto il principio di realtà ai trucchi contabili italiani e alla falsa rappresentazione dei conti del Paese. Passata la dogana, anche Berlusconi aveva dovuto parlare di crisi, negata per mesi nei comizi telefonici e nei comunicati imperiali che rimbalzano perfetti nei telegiornali di corte. Una manovra riscritta quattro volte, sotto il diktat europeo, era la prova regina del governo dell'impotenza e del commissariamento europeo, con Napolitano ormai unico punto di riferimento, dentro il Paese e fuori.

Poi l'atto finale. Con la leadership sostanziale dell'Europa (Sarkozy-Merkel) e quella formale (Van Rompuy e Barroso) che notificano a Berlusconi l'obbligo di varare in tre giorni le misure necessarie per far uscire l'Italia dal girone infernale della Grecia. Il Premier dice di sì. Poi torna in Italia e si scontra col
muro della Lega, con la crisi aperta dentro il suo partito e in quello di Bossi, con l'ingovernabilità della maggioranza, con l'esaurimento patente della leadership e di ogni sua autorità.

Dovrebbe dimettersi, consentendo al Paese di provare a salvarsi, finché è in tempo. Ma non è un uomo di Stato, e il suo destino personale gli preme più del destino dell'Italia. Si rinchiude in un'agonia democristiana, da tardo impero, che potrà produrre un accordo con il minimo comun denominatore, ma non produrrà più né politica né governo. L'Europa e i mercati giudicheranno questo vuoto di responsabilità. Intanto dobbiamo prendere atto che, mentre i governi cadono regolarmente quando una fase politica si esaurisce, solo i regimi non sanno finire.
 

(26 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EZIO MAURO. Un atto di dignità
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2011, 11:22:26 am
EDITORIALE

Un atto di dignità

di EZIO MAURO

Giunto al fondo della sua avventura, Silvio Berlusconi scopre di aver perso insieme la fiducia del suo Paese e del mondo. Il vertice G20 di Cannes è stato un calvario per il premier, isolato tra i Grandi e costretto a impersonare la parte del sorvegliato speciale dell'Occidente.  Per anni Berlusconi ha ingannato l'Italia con una falsa rappresentazione della realtà. Ma oggi il quadro è cambiato perché la crisi espone il vuoto della sua politica davanti alla governance mondiale delle democrazie, dove valgono le regole e dove le anomalie non sono tollerate.

L'Italia, dice Cristine Lagarde, ha un problema di credibilità: che investe il presidente del Consiglio in primo luogo, perché impersona le istituzioni di governo e una maggioranza che si sfarina, nella fuga dalla nave che affonda, quando soldi, ricatti e promesse non bastano più e la politica si vendica. Tutto è consumato. Il Premier ha un'unica strada per uscire di scena con dignità. Vada in Parlamento, ammetta di non avere la maggioranza, chieda aiuto all'opposizione per approvare il pacchetto di Risanamento europeo, annunciando un minuto prima che si dimetterà un minuto dopo il voto. Così si dimostrerà che l'Italia ha le energie e la responsabilità per salvarsi. E Berlusconi uscirà di scena, dopo tanti danni, con un gesto utile al Paese.

(05 novembre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EZIO MAURO. Il governo del presidente
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2011, 07:27:14 pm
EDITORIALE

Il governo del presidente

di EZIO MAURO

NASCE il governo del riscatto e dell'equità, per uscire dall'emergenza e recuperare la fiducia dei mercati, dell'Europa, dei cittadini. È l'impegno che si sono scambiati ieri Giorgio Napolitano e Mario Monti, nel momento in cui il Capo dello Stato  -  condotte a tempo di record le consultazioni  -  ha affidato al professore l'incarico di formare il governo che guiderà l'Italia nel dopo-Berlusconi. La crisi preme ma tono e forma ieri al Quirinale hanno segnato un cambio d'epoca, non solo di governo. Nessun sorriso, molta preoccupazione: ma anche la convinzione che l'Italia possa farcela, e il ritorno a concetti come "dignità", "scrupolo", "servizio", soprattutto "responsabilità" e "bene comune". Cambiano i protagonisti cambia il lessico e il contesto, con una svolta culturale e concettuale, dunque politica, che non poteva essere più netta.

È un governo del Presidente, il ministero Monti, perché il Capo dello Stato ha cercato in tutti i modi di evitare il vuoto politico di una campagna elettorale in un Paese che da oggi ad aprile  -  come ha ricordato ieri  -  dovrà ricollocare sul mercato 200 miliardi di buoni del Tesoro che andranno in scadenza: e per farlo ha voluto affidarsi a un uomo fuori dalla mischia, la cui competenza è nota a tutta l'Europa. Ma è un governo che nasce nel pieno rispetto per il Parlamento e per i partiti, cui Napolitano e Monti si rivolgono
per trovare sostegno a quello "sforzo straordinario" richiesto dall'emergenza, senza perdere altro tempo in "rivalse faziose" o "sterili recriminazioni".

Basta dunque con lo scontro furioso dell'era berlusconiana, ormai conclusa. Napolitano chiama a concorrere alla salvezza del Paese sia i vincitori del 2008, ricordando loro che in questi anni la maggioranza si è divisa e ridotta nei numeri, sia l'opposizione, garantendo che il governo Monti non sarà un ribaltone né una cancellazione dell'alternanza: ma un gabinetto d'emergenza, che unisce forze diverse per salvare l'Italia, nell'attesa che possa ripartire il confronto a tutto campo tra partiti e schieramenti, una volta che il Paese sia tornato in condizioni di sicurezza. Mentre ricordavano l'urgenza della crisi, Monti e Napolitano hanno sottolineato due impegni, oltre al risanamento finanziario per riportare i conti sotto controllo: la crescita e l'equità sociale. "Lo dobbiamo ai nostri figli - ha spiegato Monti - che hanno diritto ad un futuro di dignità e speranza".

Proprio in questo spazio tra i sacrifici e l'equità, tra le misure europee di risanamento e la ricerca di un percorso di crescita e lavoro, sta lo spazio "politico" in cui si giocherà la qualità dell'esperimento legato al nome di Mario Monti. Il professore è stato scelto come la guida più autorevole e meno parziale per uno schieramento di necessità, che vede insieme forze divise per quasi vent'anni in Parlamento e nel Paese. E anche perché la sua competenza e il suo rigore possono rassicurare le istituzioni europee e i mercati, dopo la crisi verticale di credibilità del ministero Berlusconi. Ma Monti da oggi, con l'incarico del Quirinale, non è un supercontrollore dei conti, nemmeno un emissario di Bruxelles o un legato di Francoforte. È un Capo di governo che ha una missione urgentissima e prioritaria (uscire dall'emergenza finanziaria), e tuttavia ha e deve avere anche l'ambizione di una politica per il Paese. Non solo i numeri e gli spread, dunque, non soltanto la logica - indispensabile - dei parametri di Bruxelles e dei saldi di Francoforte, ma accanto al rispetto degli impegni e alle misure d'emergenza una ricerca autonoma e libera, nazionale e orgogliosa di ripresa e rilancio del Paese, a partire dalla sua affidabilità, dal recupero di fiducia interna e internazionale. Quella che il professore ha chiamato la "sfida del riscatto, che l'Italia deve vincere".

Risanamento e crescita, dunque, credibilità e responsabilità, scrupolo, urgenza e soprattutto "accresciuta attenzione all'equità sociale". Un segno che Monti sente la pressione della disuguaglianza, la vera grande questione di questo inizio di secolo, uno squilibrio che aggrava la crisi, sfiducia la governance dell'Occidente e rischia di corrodere anche il sentimento della democrazia, che è il principale "bene comune" delle nostre società europee moderne. È qui il patto di responsabilità e d'ambizione tra Monti e Napolitano, che ieri lo ha illustrato alle forze politiche, dopo averle guidate con grande sapienza nei giorni della crisi sospesa sul percorso che portava inevitabilmente al nome di Monti. Solo la Lega sembra sottrarsi all'impegno comune di cui il Paese ha bisogno, ma Bossi dopo aver perduto ogni autonomia e ogni libertà d'azione nel vincolo berlusconiano sembra oggi impegnato soprattutto a inseguire i suoi elettori disorientati, e a tenere insieme su parole d'ordine di battaglia un gruppo dirigente in piena guerra di successione.

I due partiti maggiori danno il via libera a Monti con strategie opposte e sentimenti politici divaricati. Il Pd da tempo chiedeva un governo di salvezza nazionale e oggi lo privilegia rispetto agli interessi contingenti di partito, perché tutti i sondaggi dicono che partirebbe nettamente in testa in una corsa elettorale: di cui però il Paese oggi non ha certo bisogno. Il Pdl ha chiesto per giorni e giorni il voto come l'ultima ordalia salvifica e riparatrice di un berlusconismo morente. Oggi arriva al consenso per Monti per timore che il "no" significhi no all'unica chance concessa dal contesto internazionale alla salvezza dell'Italia, col rischio di intestare a Berlusconi non solo una politica fallimentare davanti alla crisi, ma il default del Paese. Il Premier, ridivenuto Cavaliere, ieri ha voluto leggere al gobbo un messaggio solenne al Paese, l'ultimo, con tanto di bandiera a fianco. Ha dichiarato di essersi dimesso per "responsabilità" e "generosità", ha ripetuto di non essere stato sfiduciato, ha evitato di ricordare che in Parlamento il governo era andato sotto perché la sua maggioranza era ormai svanita. Si è lamentato per i fischi e gli insulti che sabato hanno accompagnato il suo percorso verso le dimissioni, dimenticando quante volte ha incendiato il Paese rivolgendosi alla folla, mentre i cittadini che lo attendevano al Quirinale non erano convocati da nessun partito, da nessun movimento, da nessun giornale, ma volevano salutare la fine di un'epoca.

Il Cavaliere appoggia infine lo sforzo di Napolitano e sosterrà Monti, assicurando che non uscirà di scena. Anzi, nel momento dell'addio ripete come un mantra il Credo del '94, proprio quello che i suoi elettori gli imputano di aver tradito. La qualità dell'appoggio di Berlusconi a Monti resta un'incognita. L'ex Premier ha un partito diviso radicalmente tra un'ala moderata e governativa, che vuole lasciarsi alle spalle la stagione degli eccessi, e un'ala radicale che chiede le elezioni: ma in realtà teme che il governo Monti amputi e normalizzi l'anomalia berlusconiana, l'eccezionalità populista e carismatica alimentata dall'inizio dell'avventura e per tutti questi anni, spegnendo il fuoco "rivoluzionario" che ha arroventato il sistema, ma ha protetto il leader in mezzo a tante disavventure. Oggi i falchi sono stati sconfitti. Ma Berlusconi è il vero capo del loro stormo, ed è difficile pensare che accetti a lungo un quadro politico e istituzionale che riunendo le forze non contempla eccezionalità e non ammette anomalie, mentre recupera - finalmente - la Costituzione come orizzonte condiviso e comune. Ieri i toni del Cavaliere sono sembrati responsabili. Poi vedremo. Dipenderà da Monti, certamente. Ma anche da un Paese che sembra essersi risvegliato da un lungo sonno, riscoprendo la soddisfazione e il valore di una "democrazia d'alto stile" (come si diceva nei primi anni della Repubblica) guardando ieri il Presidente e il Professore al vertice del nostro Stato.

(14 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/14/news/editoriale_mauro-24969049/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Ora le riforme
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2011, 04:55:09 pm
EDITORIALE

Ora le riforme

di EZIO MAURO


IN QUINDICI giorni è cambiato tutto anche in un Paese immobile, non solo il governo ma il tono del discorso pubblico, il contesto politico e istituzionale, lo spirito repubblicano che sembrava scomparso. Adesso comincia il percorso di guerra di Mario Monti per portare il Paese in zona di salvezza, per recuperare fiducia sui mercati e in Europa.

 Ma c'è un'altra fiducia che va recuperata, ed è quella dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni. In questo senso, la tregua imposta dalla crisi con il governo Monti è una specie di tempo supplementare concesso al nostro sistema dei partiti per rimettersi in sintonia con la pubblica opinione, fermando la crescita dell'antipolitica. Non c'è e non ci può essere un'alleanza tra forze di destra e di sinistra duramente contrapposte per 17 anni, e che sono destinate nuovamente a contendersi il campo. Ma c'è un concorso necessario di responsabilità - vedremo quanto sincero da parte del Pdl - per affrontare l'emergenza, appoggiando lo sforzo di Monti.
Ora, i partiti e tutto il sistema istituzionale hanno una straordinaria occasione, per non restare con le mani in mano mentre Monti governa la crisi: e cioè se vogliono - come debbono e possono - affiancare alla dimensione tecnica dell'esecutivo la forza della buona politica, cogliendo la spinta popolare al suo rinnovamento, come hanno dimostrato i referendum.

Questo è il momento. Si sfrutti la tregua aprendo una vera fase di riforme, partendo dalla legge elettorale e restituendo
la sovranità di scelta ai cittadini, per arrivare a un taglio spettacolare dei costi della politica, nel momento in cui si chiedono sacrifici alle famiglie: e si recuperi il terreno perduto in anni di ideologismo leghista sul piano dei diritti degli immigrati, un altro deficit italiano in Europa. Insomma: mai la politica può avere tanto spazio e tanta ambizione come oggi, con il governo tecnico del professore a Palazzo Chigi.

(17 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/17/news/ora_riforme-25136772/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Il sentiero stretto
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2011, 11:04:09 am
L'EDITORIALE

Il sentiero stretto

di EZIO MAURO

Il sentiero stretto Il premier Mario Monti
 

"Siamo stati chiamati per salvare l'Italia, davanti a una crisi gravissima. Insieme ce la faremo". Mario Monti è partito da questo drammatico appello rivolto direttamente ai cittadini per annunciare la manovra da 30 miliardi che il governo ha varato ieri, 17 giorni dopo il suo insediamento. Una manovra pesante per i contribuenti, e tuttavia indispensabile per evitare il default del nostro Paese, che segnerebbe la fine dell'euro e di ogni ambizione politica dell'Europa.

È una vera e propria manovra d'emergenza, dunque, perché l'Italia è chiamata a muoversi a grande velocità su un sentiero molto stretto e difficile. L'esito non è assicurato, nemmeno a prezzo di sacrifici, perché la fuoriuscita dall'eurozona non dipende solo da noi. Ma da noi, e interamente, dipende il recupero di credibilità dell'Italia e la sua possibilità di pesare nelle decisioni che l'Europa dovrà prendere per rispondere alla crisi.

Il governo era atteso a misure strutturali, proprio per queste ragioni. La più strutturale di tutte, quella sulle pensioni, è radicale e costosa per i cittadini, come confermano le lacrime del ministro Fornero, ma probabilmente definitiva per un sistema traballante con sacche di privilegio. Poi la casa, il vero bene-rifugio delle famiglie, che vede il ritorno dell'Ici. Quindi qualche taglio ai costi della politica (sforbiciata alle Province, in vista della loro abolizione) e qualche intervento a sostegno della competitività delle imprese, per la crescita.

Dunque tasse, come sempre, per far fronte all'emergenza. Ma anche qualche spazio per l'equità, con la rinuncia all'aumento dell'Irpef e l'introduzione travagliata di un prelievo dell'uno e mezzo per cento per i capitali scudati già rientrati in Italia: che è un primo abbozzo di patrimoniale e consente di creare le risorse per alzare fino alla soglia di mille euro la fascia protetta delle pensioni che recuperano l'aumento dell'inflazione, escluso per quelle più alte.

C'è dunque il rispetto degli obblighi europei, imposti dalla crisi: ma c'è uno spazio di autonomia nazionale e politica, che fa di Monti il capo di un governo, non il legato di Bruxelles e Francoforte.

(05 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/05/news/il_sentiero_stretto-26099697/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Giorgio Bocca, energia e talento quel provinciale maestro di stile
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2011, 05:53:13 pm
IL GIORNALISTA

Giorgio Bocca, energia e talento quel provinciale maestro di stile

di EZIO MAURO


IL "magone" dei piemontesi che vivono fuori è una specie di peso dell'anima ogni volta che si entra a Torino, o spuntano le colline delle Langhe, o torna davanti agli occhi la cerchia delle montagne, in qualunque stagione.

Giorgio Bocca sorvegliava quel magone permanente per la sua terra, che aveva perso e voleva sempre riconquistare, e portava dentro di sé quei mondi cui non aveva mai rinunciato, perché erano le radici e l'identità, e un "posto" bisogna pure averlo. Così è per tanti. Ma Giorgio era riuscito a trasformare tutto questo  -  le montagne della battaglia di gioventù, la tipografia notturna di corso Valdocco a Torino con Calvino, Pavese e Raf Vallone, Nuto Revelli che racconta nel negozio a Cuneo, i cortili delle Langhe d'estate, con Bobbio e gli altri  -  in un paesaggio morale che ha fatto da sfondo costante al suo giornalismo d'eccezione, dandogli forza e tenuta.

Diceva che nei primi tempi, dopo aver messo il foglio dentro la macchina per scrivere, traduceva mentalmente dal piemontese. Sarà per questo che andava giù dritto, e le parole sembravano cose, e suonano autentiche ancora oggi: non capita a tutti. Bisogna leggerle le vecchie cronache di Giorgio cronista, quelle su Gazzetta Sera, per esempio nel primi Cinquanta, magari quando scopre il delitto nel retrobottega di Emilio Olmo, il calzolaio assassino di Alessandria. Una ruvidezza robusta, che è già schiettezza, lo sguardo che si stupisce fermandosi su un dettaglio nel negozio buio con le serrande a metà, la città che si muove intorno, come un coro inconsapevole, ma presente. O la voglia di cercare il nuovo nelle inchieste, i fiori che parlano a Sanremo, le porte arrugginite che sbattono a vuoto nelle risaie senza più mondine a Vercelli, una curiosità finale sussurrata nelle ultime righe e in mezzo a piazza Galimberti a Cuneo: ma perché qui il bollito è diverso, è più buono, cosa lo rende speciale? E infine, e sempre, il magone mentre arrivava in macchina a Torino da Milano, passava i quartieri di periferia come barriere coralline e tornava a fare i conti eterni con quella città e con quella gente, sua ma così difficile da acchiappare fino in fondo.

Giorgio aveva dovuto in qualche modo saltare Torino, gli anni difficili della Gazzetta del Popolo per conquistare l'Italia da Milano. La città gli si era aperta, si era rivelata, si era fatta prendere e scalare, conoscere. L'Europeo e la scuola dei settimanali, l'inchiesta che lo portava a viaggiare e a conoscere l'Italia per poi reinventarla sulla pagina accanto alle grandi fotografie di un mondo che precedeva la televisione, la Rizzoli che gli ronzava intorno la sera mentre lui faceva l'amore con una segretaria in archivio, poi il Giorno con quel direttore-partigiano, Italo Pietra, che prima di farlo partire per un'inchiesta aveva sempre la stessa raccomandazione, fantastica: "Mi raccomando, sparagli dentro".

Sarà per questo che Tullio Pericoli sulla copertina del vecchio Vita di giornalista scritto con Tobagi disegna Giorgio in piedi, con la fronte squadrata tipica delle valli occitane e la penna stilografica portata in spalla, come un fucile. Il partigiano infatti non era mai andato in pensione, incalzava il giornalista e gli dava l'anima, radunava ricordi, valori, paesaggi e compagni: quella scelta di gioventù restava come scelta di vita, come fondamentale, e diventava il filtro e la lente con cui leggere le persone e gli avvenimenti, come metro personale di condotta ma anche di giudizio. Le maestre-staffette in Val Grana, i fienili d'alta montagna alla Chialvetta, i muli su per il vallone di Elva erano ricordi. Ma la pedagogia politica di Giustizia e Libertà era la vera scuola, e quella non finiva mai.

Troppo basico, come diranno poi quelli che hanno cambiato idea e non sopportavano quel substrato culturale di "Resistenza permanente" nel lavoro di Bocca? Una logica troppo primitiva e binaria, che spaccava il mondo in due selezionando con certezza e per sempre amici e nemici? Ma nell'Italia molle e opportunista in cui abbiamo vissuto, e nei suoi giornali, tutto questo diventava una forza e dava certezza di riferimento, sicurezza nello sguardo. In più disegnava un'Italia di minoranza come il vecchio azionismo, valori forti e presenza debole, una vita di testimonianza e di impegno che poteva ben essere scambiata per ostinazione e testardaggine, visto che stava fuori dal circuito ufficiale del potere. Perché tutto questo consentiva a Bocca di vivere nel luogo che più gli piaceva, in quanto più adatto a lui: fuori, dove c'è l'impegno civile più che l'impegno politico diretto, dove contano gli stili di vita e ciò che si manifesta di sé attraverso il lavoro, dove il potere si incontra per conoscerlo e per giudicarlo, raccontandolo ma senza mai farne parte. Giorgio conosceva bene il craxismo come il comunismo togliattiano, che aveva studiato e avversato, il berlusconismo nascente come sedicente miracolo milanese, il mondo della grande impresa, lo Stato nella forma e nella solitudine quasi eroica dei grandi funzionari che facevano della guerra al crimine un faticoso mestiere.

Era una strada solitaria e ruvida, dove fatalmente Bocca incontrò Repubblica, il suo giornale. In comune, un modo di essere di sinistra, ma senza appartenenze. Soprattutto, una certa idea dell'Italia. Ancor di più, antenati simili, punti di riferimento uguali, culture e storie condivise, da Bobbio a Gobetti, all'Espresso, all'innovazione dei primi anni del Giorno. Viaggiando l'Italia, il giornalista divenne scrittore. Cercando ogni volta di scoprire, di capire, di restituire scrivendo ciò che aveva incontrato e compreso, il cronista diventò uomo di idee, un editorialista, come si dice. "Non sapevo di sapere queste cose  -  confessò una sera rispondendo ai complimenti del giornale per un commento  -  . Certe volte mi capita di pensare che le cose che io firmo sono già dentro la macchina per scrivere, basta premere e tasti e vengono fuori". Era la conferma del talento, e della scuola quotidiana a cui quel talento si sottoponeva. Le idee nascevano proprio così, dall'urto tra i grandi fatti di cronaca e un sistema di valori, di esperienze e di saperi concreti (una cultura), e il risultato era qualcosa di nuovo che ogni volta spostava in avanti la conoscenza e aggiornava la mappa di quei sentimenti e risentimenti pubblici dei quali si parla ogni giorno con i lettori, dando forma  -  per i grandi autori  -  ad un pubblico costituito, come quello che Giorgio aveva.

Aggiungiamo qualcosa di ineliminabile. La testa dura di Bocca, quel carattere che corrispondeva ad un modo di essere, per nulla compiacente, capace di mettersi contro il senso comune dominante di un'Italia inclusiva attraverso il compromesso, accomodante. Uno sguardo mai complice, schietto e ruvido, abituato ad andare al sodo, come se avesse sempre da fare. Anche se gli piaceva raccontare, curiosare con le domande su aspetti minimi, rispondersi da solo con uno schema che aveva costruito per conto suo nelle giornate della vecchiaia dietro la grande scrivania, in mezzo agli scaffali disposti a schiera dei suoi libri, che puntavano tutti verso di lui. "Tutto il mondo che vedo è ormai questo", spiegò in una delle ultime cene sul terrazzo, indicandomi i tetti, le finestre, le ringhiere, e cercando conferma nello sguardo di Silvia. Pensai alle antenne del giornalismo, o qualcosa di simile, la sapienza che consentiva di prendere quel poco di mondo visibile e di metterlo in relazione con l'invisibile, costruendo una scala di riferimenti viva, forte, capace di svelare ciò che restava celato, e di farcelo capire.

La scrittura spiega il resto. Asciutta, modernissima, incapace di invecchiare, mai leziosa, nemica della complessità e della metafora, ma anche del banale, del riduttivismo. L'animava la coscienza dello sguardo provinciale nel senso più alto del termine, la consapevolezza che c'è sempre qualcosa da scoprire più in là, un orizzonte da conquistare che può stupirci: per poi raccontare le storie con cura conservando la loro ricchezza e l'unicità, perché in provincia passano pochi fatti, bisogna saperli rendere simbolici per farli durare a lungo, d'inverno.

L'ultima volta mi ha chiesto se ero stato a Dronero, al Caffè Teatro, se ero salito in Val Maira dalle nostre montagne. Diceva che lo "tiravano per la giacca", le cercava nella mente come quando da partigiano era sceso la prima volta nelle Langhe e fuori dalle montagna si sentiva "come un pesce fuor d'acqua", stupito che si potesse vivere e far la guerra altrove, ad esempio in quella terra piana di canne, viti e pane bianco. In realtà, per lui come per Bobbio la torinesità era solo una "condizione condizionante", un'altra testarda fedeltà ad un modo d'essere. Il resto, puro ricordo che in vecchiaia diventa mitico e fa piacere, come la scoperta da giovane della grande città, la partenza in treno al mattino presto, il Po, i portici, poi allo Standa "a vedere le commesse", nei casini di via Conte Verde e infine al Lagrange per il caffè concerto, "e per mangiare dieci tramezzini e pagarne due".

Ciao Giorgio, sarà bello e facile ricordarci di te attraverso il lavoro e il tuo giornale, che è fatto di persone singole che si sono scelte attraverso una storia comune: cercando come te quel che bisogna sapere, ciò che merita ricordare. Quel che resta da capire.

(27 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/27/news/paesaggio_morale_mauro-27247118/?ref=HRER3-1


Titolo: EZIO MAURO. Il sentiero stretto
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2012, 10:31:18 am

L'EDITORIALE

Il sentiero stretto
di EZIO MAURO



 

"Siamo stati chiamati per salvare l'Italia, davanti a una crisi gravissima. Insieme ce la faremo". Mario Monti è partito da questo drammatico appello rivolto direttamente ai cittadini per annunciare la manovra da 30 miliardi che il governo ha varato ieri, 17 giorni dopo il suo insediamento. Una manovra pesante per i contribuenti, e tuttavia indispensabile per evitare il default del nostro Paese, che segnerebbe la fine dell'euro e di ogni ambizione politica dell'Europa.

È una vera e propria manovra d'emergenza, dunque, perché l'Italia è chiamata a muoversi a grande velocità su un sentiero molto stretto e difficile. L'esito non è assicurato, nemmeno a prezzo di sacrifici, perché la fuoriuscita dall'eurozona non dipende solo da noi. Ma da noi, e interamente, dipende il recupero di credibilità dell'Italia e la sua possibilità di pesare nelle decisioni che l'Europa dovrà prendere per rispondere alla crisi.

Il governo era atteso a misure strutturali, proprio per queste ragioni. La più strutturale di tutte, quella sulle pensioni, è radicale e costosa per i cittadini, come confermano le lacrime del ministro Fornero, ma probabilmente definitiva per un sistema traballante con sacche di privilegio. Poi la casa, il vero bene-rifugio delle famiglie, che vede il ritorno dell'Ici. Quindi qualche taglio ai costi della politica (sforbiciata alle Province, in vista della loro abolizione) e qualche intervento a sostegno della competitività delle imprese, per la crescita.

Dunque tasse, come sempre, per far fronte all'emergenza. Ma anche qualche spazio per l'equità, con la rinuncia all'aumento dell'Irpef e l'introduzione travagliata di un prelievo dell'uno e mezzo per cento per i capitali scudati già rientrati in Italia: che è un primo abbozzo di patrimoniale e consente di creare le risorse per alzare fino alla soglia di mille euro la fascia protetta delle pensioni che recuperano l'aumento dell'inflazione, escluso per quelle più alte.

C'è dunque il rispetto degli obblighi europei, imposti dalla crisi: ma c'è uno spazio di autonomia nazionale e politica, che fa di Monti il capo di un governo, non il legato di Bruxelles e Francoforte.

(05 dicembre 2011)© Riproduzione riservata

da - corriere.it


Titolo: EZIO MAURO. Il dovere della riforma elettorale
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 04:51:23 pm
L'EDITORIALE

Il dovere della riforma elettorale

di EZIO MAURO

LA QUESTIONE della legge elettorale è molto complicata dal punto di vista tecnico, ma è molto semplice dal punto di vista politico.

Prima di tutto, è pacifico che siamo di fronte ad una sorta di mostro che tutti hanno rinnegato: una "porcata", come l'autore l'ha definita, con nomi, cognomi e responsabilità precise, costruita a colpi di maggioranza nel pentolone nero di Berlusconi e Calderoli per favorire lo schieramento di destra.

È altrettanto chiaro che la legge espropria i cittadini elettori del diritto di scegliere i loro rappresentanti, consegnando ai leader dei partiti il potere di decidere non sulla candidatura, ma sull'elezione dei loro protetti, o di chi a loro si è venduto: perché abbiamo assistito anche a questo fenomeno, favorito proprio dal potere che la "porcata" assegna ai capipartito.

In passato ci siamo battuti in molti contro le preferenze, oggetto di mercato e di scambio. Ma le procedure elettorali sono strumenti della democrazia e dunque il loro valore d'uso cambia secondo la sensibilità del Paese. In una fase in cui i cittadini chiedono di partecipare direttamente alle decisioni pubbliche mentre diminuisce la fiducia nei partiti, è evidente che il potere di scelta degli eletti va riconsegnato agli elettori: attraverso collegi uninominali che evitano proprio il mercato delle preferenze.

Dopo che la Corte ha bocciato il referendum il Capo dello Stato ha invitato le Camere a raccogliere comunque la spinta al cambiamento. I partiti
hanno dunque ora la straordinaria occasione di fare per scelta, in autonomia e libertà, ciò che il referendum li avrebbe spinti a fare per obbligo.

Per i partiti e il Parlamento è un'opportunità e una sfida. Possono essere soggetti del cambiamento della politica, oppure saranno costretti a subirlo. Sono capaci ad aprire subito un confronto per rifare la legge? Ma prima ancora: sono pronti a impegnarsi fin d'ora, subito, a non andare alle prossime elezioni con questa legge elettorale?

Se l'intesa per una riforma non fosse possibile, resta una strada, radicale e decisiva: il Pd, che le ha già sperimentate per la scelta del suo leader, decida che si impegna oggi stesso  -  se la legge non cambierà  -  a scegliere tutti i suoi candidati attraverso le primarie. In questo modo, restituirebbe da solo ai cittadini ciò che la "porcata" ha loro tolto. E diventerebbe l'apriscatole del sistema.
 

(19 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/19/news/dovere_riforma_elettorale-28395622/


Titolo: EZIO MAURO. Restituire un futuro al vecchio Continente
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2012, 12:51:57 pm
L'Europa e la crisi

Restituire un futuro al vecchio Continente

di EZIO MAURO

ATENE in fiamme, il Parlamento che approva la manovra di tagli e sacrifici, i mercati che applaudono. E il popolo, ci domandiamo tutti, e i cittadini? Sembra che il nuovo ordine europeo possa instaurarsi prescindendo dal consenso, dalla  pubblica opinione, dalla fiducia. L'Europa si presenta come una grande banca, un'istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz'anima, dominato dall'unica religione dei parametri e impegnato nell'unica battaglia di contenimento del debito, prima e assoluta emergenza del continente. Ma l'emergenza può sostituire la politica, soppiantandola? E c'è qualcosa di vivo dietro i tagli, i sacrifici e i parametri europei?

La Repubblica ha condotto su questo tema una grande discussione pubblica, con gli interventi dei direttori delle grandi testate giornalistiche occidentali. Tutti, anche gli inglesi con il loro spirito critico sulla costruzione istituzionale e monetaria europea, hanno convenuto che si esce dalla crisi con più Europa, non con meno.

E tutti hanno denunciato la debolezza della politica che rende l'Europa, come dice il direttore del Times James Harding, "senza leadership e senza soluzione", un continente senza visione, senza coraggio, e dunque incapace di offrire ai cittadini traguardi simbolici che possano ricostruire una speranza oltre l'orizzonte preoccupante della fase che stiamo vivendo. Ma non solo.

Per gli osservatori europei i rischi sono molto maggiori di quelli che vediamo a occhio nudo. Le tre "A" che davvero ci interpellano (Asia, America, Africa) rischiano secondo Erik Izraelewicz, direttore di Le Monde, di marginalizzare l'Europa, troppo piccola e divisa per le nuove sfide globali. Per Arianna Huffington (Huffington Post) e per John Micklethwait, direttore dell'Economist stiamo diventando un continente "sadomasochista" che punta tutto sull'austerity, un'austerity che non farà altro che alimentare la recessione, perché come spiega Laurent Joffrin, direttore del Nouvel Observateur, il rimborso del debito non può fare le veci di una politica europea che non c'è.

Ma il vero allarme è quello per la democrazia. I direttori di due giornali tedeschi, Giovanni di Lorenzo della Zeit e Heribert Prantl della Sueddeutsche Zeitung pongono la questione apertamente: "Il pericolo dall'interno è la sfiducia verso la democrazia, la tendenza a chiedersi se è ancora il sistema più efficiente oppure no. A lungo termine la sfida dell'Europa è questa", dice di Lorenzo.

Se i governi nazionali e la Commissione pensano di difendersi da soli si sbagliano, aggiunge Prantl: "Per farcela hanno bisogno del sostegno delle società dei Paesi membri, della fiducia dei cittadini, perché senza questa fiducia qualsiasi ombrello resta instabile". Come dire che i saldi dell'auterità da soli non bastano. Anzi, avverte il direttore del Guardian Alan Rusbridger, se gli sforzi per la convergenza finanziaria "dovessere essere la causa dello smantellamento dei sistemi di redistribuzione e di welfare dai quali dipendono milioni di europei dei ceti meno abbienti", si rischierebbero "reazioni nazionalistiche e populiste anche violente in quasi tutti gli Stati".

È il problema posto infine del direttore del País, Javier Moreno: la legittimità delle scelte europee: "Con quanta legittimità si possono prendere decisioni per salvare l'Europa senza tener conto degli europei? È accettabile sacrificare la sovranità nazionale per salvare l'Unione Europea? Abbiamo accettato definitivamente l'idea che sia possibile governare senza chiedere ai cittadini il loro parere?".

 Il nodo che viene al pettine è vecchio come l'euro. Un nodo di sovranità, di potestà, di responsabilità intrecciate e mai definitivamente risolte. La moneta unica è stata insieme un atto di fede e di coraggio, dunque un gesto politico che la storia economica del mondo moderno non aveva mai conosciuto, per di più nato nel cuore del Vecchio Continente dove nel Novecento erano nate le guerre e i totalitarismi, con le ideologie trasformate in Stati e partiti.

Ma l'euro non è diventato un principio costituente del nuovo ordine europeo, perché si è realizzato sotto la linea d'ombra della politica, riducendosi a strumento più che a soggetto, mentre ogni passo della sua costruzione fingeva ipocritamente di ignorare il successivo, non guardando al contesto.

Con la moneta unica l'Europa poteva trasformarsi da mercato a soggetto politico, e invece l'euro è nato politicamente e culturalmente sterile, come se fosse soltanto la proiezione geometrica dei parametri di Maastricht e poco più: parametri indispensabili per forzare la convergenza di base e l'uniformità tra i Paesi, ma sordi e ciechi per definizione, in quanto non contemplano la variabile decisiva della pubblica opinione e sono indifferenti ad un problema capitale delle democrazie occidentali, quello appunto della fiducia, della partecipazione e della condivisione, vale a dire del consenso.

La moneta è rimasta un "caffè freddo", come dicevano i tedeschi nel 2001, una moneta nuda perché è senza uno Stato che possa batterla, senza un esercito che sappia difenderla, senza un governo che riesca a guidarla, senza una politica estera che la rappresenti e soprattutto senza un sovrano capace di "spenderla" politicamente nel mondo.

E tuttavia quel gesto di coraggio è il punto simbolico e concreto più alto raggiunto dalla politica nel nostro continente, dopo le divisioni delle guerre. Oggi ci accorgiamo che l'inclusione del consenso è indispensabile, per non far perdere all'Europa e all'euro la fiducia degli europei. Ma dobbiamo anche dire che questa difesa improvvisa delle sovranità e delle autonomie nazionali davanti a Bruxelles e Francoforte nasconde un problema: l'incapacità di molti governi (e delle loro pubbliche opinioni, giornali compresi, va aggiunto) di rispettare le regole comuni che tutta l'Europa si era data, e che sono state per troppi anni disattese o addirittura aggirate.

 Il problema è che tutto il sistema di governance dell'Occidente deve essere rivisto sotto l'urto della crisi. Per la prima volta scopriamo che la ripresa americana rischia di non trainare l'Europa, appesantita dal carico dei debiti sovrani, dalla miopia di un'austerity che non stimola la crescita: se il problema-opportunità della Cina trasformerà nel secondo mandato Obama in un presidente "asiatico" il nostro continente toccherà con mano un isolamento a cui non è abituato e soprattutto non è preparato, avendo abitato per decenni il concetto di Occidente senza una precisa idea di sé, e senza una politica estera conseguente.

Ma gli altri problemi sono tutti indigeni, nascono e crescono in Europa. Come regoleremo il nuovo rapporto di sovranità tra gli Stati nazionali oggi esautorati dall'Europa e le istituzioni comunitarie? Come armonizzeremo la leadership europea di fatto (Merkel) con quella di diritto (Barroso e Van Rompuy)? Come ci comporteremo con una Banca Centrale benedetta perché compra il debito pubblico degli Stati, ma sempre più soggetto attivo e diretto dell'Europa, senza avere alcuna rappresentanza dei cittadini? E infine, come risponderemo a quelle spinte nazionali e sociali (le parole sono proprio queste) che stanno riemergendo a destra e a sinistra davanti ad una politica europea che non sembra una politica, ma il bando di un sovrano a cui dobbiamo soltanto ottemperare?

La parola, per fortuna e come sempre, tocca alla politica, all'establishment europeo, alle cancellerie e alla cultura: anche se la dominante è la crisi, siamo in realtà all'inizio di un processo di fondazione istituzionale, e un nuovo europeismo può diventare l'unica ideologia superstite e utile, dopo la sconfitta di tutte le altre. Tocca alla classe dirigente europea, nel suo insieme, riprendere il coraggio incompiuto dell'euro e usare la moneta e il mercato, dopo un decennio di strumentalità neutra, come suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche: per riunire l'Europa, la politica e i cittadini in un destino condiviso del continente, in un'idea forza e in una visione. Che non può essere soltanto tagli e sacrifici. Una speranza europea è ancora possibile, anzi è l'unica arma contro la crisi.

(14 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/14/news/restituire_un_futuro_al_vecchio_continente-29843553/


Titolo: EZIO MAURO. Putin: No alla forza, credo nella democrazia.
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 11:53:37 am
L'INTERVISTA

Putin: "No alla forza, credo nella democrazia. - Monti un kamikaze per il bene dell'Italia"

Il premier russo, candidato presidente nelle elezioni di domenica, racconta la sua visione della Russia e del mondo.

"Se ci saranno brogli? C'è il tribunale"; "Al potere 24 anni? Se la gente è d'accordo"; "L'Iran? Ha diritto al nucleare civile".

E su Berlusconi dice: "Siamo ancora grandi amici"

di EZIO MAURO


NOVO-OGAREVO (MOSCA) - La terza candidatura alla presidenza della Russia, più un mandato da premier? "Perfettamente normale, io passo attraverso le elezioni, la gente decide". I brogli elettorali? "Non mi risulta, ma per questo ci sono i tribunali". La piazza in protesta che denuncia "Russia Unita" come un partito di malfattori? "Puri slogan elettorali, battute da comizio". Vladimir Putin risponde per due ore e mezza alle domande sui problemi di democrazia in Russia.

Presenta il suo programma per i sei anni di presidenza se domenica sarà eletto, scioglie i dubbi e ricandida ancora una volta Dmitrij Medvedev come premier, si impegna a non usare il pugno di ferro con l'opposizione e affronta i grandi temi aperti in politica estera: la Siria ("Noi vogliamo evitare che succeda quel che è successo in Libia, con quell'esecuzione medievale di Gheddafi"), l'Iran ("Ha diritto di avere il suo programma nucleare civile, sotto il controllo internazionale"), gli Stati Uniti ("Quando l'ho incontrato Obama in questa stessa sala, mi sono riconosciuto nelle sue idee").

Infine, l'Italia: "Monti è un kamikaze, sta facendo tutto benissimo, me l'ha detto proprio ieri Silvio Berlusconi, di cui continuo ad essere un grande amico".

Ci sono più poliziotti qui che nel centro di Mosca, anche nella zona del Cremlino. Si abbandona la Rubliovka (una volta circondata solo da dacie di legno e betulle, mentre adesso le vecchie case si trovano di
fianco vetrine Ferrari e Maserati, il Luxury Village, addirittura un Billionaire) e si gira a destra per una strada silenziosa e vuota col divieto d'accesso in cima, in mezzo ad un bosco pieno di neve. In fondo un grande muro bianco sormontato dall'aquila imperiale della Russia.

Quando si apre il gigantesco cancello di ferro si entra nella zona proibita di Novo-Ogarevo, il comprensorio del nuovo potere russo. A destra nel parco c'è la casa dove abita Putin, invisibile a tutti. A sinistra la pista per gli elicotteri. Davanti, adesso, un altro cancello con soldati di guardia in mimetica. Ed ecco la dacia dove Putin da dodici anni fa gli onori di casa a Capi di Stato e di governo e riceve i suoi ospiti ufficiali. Una grande costruzione gialla in stile moscovita virato al classico, con le colonne bianche sotto una piccola terrazza curva.

Al primo piano, la sala da pranzo dove durante la cena si è svolta l'intervista con i direttori di alcuni tra i principali giornali internazionali: James Harding del Times, Gabor Steingart di Handelsblatt, John Stackhouse del Globe and Mail, Yoshibumi Wakamiya dell'Asahi Shimbun, Sylvie Kauffmann direttrice editoriale di Le Monde, e Repubblica. Ecco il testo dell'intervista.

Il giorno dopo il voto per la Duma, è rimasto sorpreso di vedere così tanta gente in piazza a protestare?
"Perché dovrei sorprendermi? Non c'è nulla di strano. Allora da voi, con migliaia di persone in strada per la crisi? Io sono contento, perché questo significa che le strutture del potere devono reagire, sono costrette a farsi venire delle idee per risolvere i problemi. Questa è una cosa costruttiva, una grande esperienza per la Russia".

Ma lei non dà ascolto agli oppositori, non parla mai con loro. Perché?
"Io parlo con tutti, anzi una volta ogni dieci giorni sono fuori da Mosca a incontrare dirigenti, operai, sindacati, gente della strada. Questa è la caratteristica della mia esperienza nel potere russo. L'altro giorno, quando è esplosa ad Astrakan una casa per il gas con morti, feriti e gente senza tetto, sono andato da loro, sono salito sull'autobus dove avevano trovato rifugio e ho pensato che questo è il mio dovere: il rapporto con la gente, di qualunque colore politico sia".

Ma lei non dialoga mai con la piazza e coi suoi leader. Come mai?
"Un momento, io li rispetto. Anche se molti di loro erano leader già in passato e non possono vantare grandi risultati per questo Paese. Per me, non sono i dibattiti o le promesse che fanno la differenza. La fiducia viene dai risultati raggiunti in questi anni".

I sondaggi dicono che lei può vincere le elezioni al primo turno. Ma come si sente quando ascolta gli slogan urlati in piazza che definiscono il suo partito, Russia Unita, come una formazione di ladri e malfattori?
"Queste sono frasi ad effetto, puri slogan. I loro capi sono stati al potere, hanno ricoperto cariche. Discutere in base a un linguaggio populista non è buona cosa. Non dicono mai niente che serva a risolvere i problemi".

Ma non crede che questo scambio ripetuto di incarichi al vertice tra lei e Medvedev dia vita ad una sorta di oligarchia politica e a un sistema bloccato?
"Senta, e allora Kohl, sedici anni al potere, cos'era? Di Berlusconi non parlo perché è un mio amico. Ma il Premier canadese, altri sedici anni. Perché solo noi diventiamo oligarchi? Penso che candidarci sia un nostro diritto purché si agisca nell'ambito della legge e della costituzione. Di che oligarchia andiamo parlando...".

Ma vediamo in concreto: lei nominerà Medvedev al suo posto come Primo Ministro?
"Sì, se sarò eletto, lui sarà il mio Premier".

Ma dove ha sbagliato Medvedev? Perché lei pensa di essere più adatto di lui alla presidenza della Russia, e di meritarsela di più?
"Ma quando mai ho detto una cosa simile? Noi abbiamo un accordo preciso, che si basa su questo: se i risultati della nostra opera sono buoni e le cose migliorano, noi dobbiamo valutare insieme serenamente chi ha più chance di essere eletto, e gode di maggior fiducia tra i cittadini. Cosa c'è di strano? Alla fine di quest'anno abbiamo visto che toccava a me perché il mio consenso era più alto di due punti percentuali. E non poteva che essere così, visto che i poveri si sono dimezzati e il reddito è cresciuto di 2,4 volte, mentre abbiamo ripreso in mano un Paese a pezzi e abbiamo rianimato l'esercito, risollevando perfino l'indice di natalità, problema di tutta l'Europa. La gente sa che queste cose le ha fatte il governo. Ecco dove nasce la mia ricandidatura".

Ma lei pensa di ricandidarsi anche per il prossimo mandato, rimanendo al potere addirittura 24 anni?
"Se alla gente va bene, perché no? Ma in realtà non lo so, non ci ho proprio pensato".

Lei ha il consenso delle campagne e della periferia, ma la nuova classe media urbana, quella delle grandi città, aperta alle nuove tecnologie e alla modernizzazione del Paese vuole cambiare ed è contro di lei. Cosa risponde?
"Siete proprio sicuri che la classe media sia contro di me? Magari in questa fascia di popolazione il consenso per me si riduce, ma è sempre la maggioranza. E poi, bisogna essere obiettivi: loro sono la novità, la Russia moderna, ma il nuovo non sta tutto qui. Anche nell'agricoltura, ad esempio, è in atto un processo di modernizzazione tecnologica. Non facciamo errori, ci vuole equilibrio. Però, certo, ammetto che la classe media è più esigente, e si scontra direttamente coi problemi, la corruzione, il malfunzionamento della burocrazia. E noi dobbiamo dare risposte. Ma questo riguarda tutto il sistema politico".

Parlando con i leader degli oppositori, si avverte il timore che lei dopo il voto possa avere la tentazione di una prova di forza contro il dissenso. Cos'ha da dire?
"Ma di che hanno paura? Perché dovrei farlo, se stiamo agendo esattamente in senso contrario? La nostra strategia è quella del dialogo. Del resto anche Medvedev ha presentato una legge per rinnovare e aprire il sistema politico, rendendo più facile la nascita di nuovi partiti e introducendo nuovi criteri per le elezioni della Duma. Quindi non capisco da dove nascano questi timori".

Nascono dalle denunce di brogli e falsificazioni alle ultime elezioni politiche. Lei minimizza, ma non crede che questi episodi gettino un'ombra sul sistema di potere russo?
"Non so, ma esiste una legge: rivolgersi al tribunale. In passato è successo, gruppi di persone si sono rivolti alla giustizia e i risultati sono stati modificati. Ad esempio a San Pietroburgo".

Ma quando un leader dell'opposizione come Aleksej Navalnyj denuncia sul suo sito la marcia della corruzione attraverso la Russia, tema sensibilissimo, lei cosa ne pensa?
"Molte persone anche nelle alte sfere del potere sono stati inquisiti e processati. Però bisogna avere le prove, deve esserci un processo. Non faremo mettere in galera la gente se non esistono riscontri indiscutibili sulla loro colpevolezza. È uno sport che nel passato del nostro Paese si è praticato troppo, e ha fatto molte vittime innocenti coi processi sommari. Non lo ripeteremo".

La corruzione sembra dilagare soprattutto nei quadri intermedi, non nel vertice. Perché?
"Ripeto, ogni caso va dimostrato in un libero tribunale. Navalnyj? Anche un suo consigliere ha avuto problemi per abuso in atti d'ufficio. Ma voglio dire che scoprire casi di corruzione corrisponde sempre all'interesse dello Stato. Quello che non mi piace è che tutto questo venga usato a fine politico".

Perché non rivelate i vostri redditi come in Occidente? Negli Usa un candidato deve addirittura quasi calarsi i pantaloni. Da voi?
"Calarsi i pantaloni, forse, darebbe qualche impulso al voto. Ma non è necessario. Noi abbiamo tutto a posto, non vi preoccupate, e già diciamo quanto guadagniamo".

Lei pensa che il peggio della crisi economico-finanziaria sia passato? E appoggia l'austerità di Merkel e Sarkozy o crede più utile puntare sulla crescita?
"Non so rispondere. Ma penso che per superare davvero la crisi bisogna affrontare i fondamentali, che sono l'overproduzione e la saturazione dei mercati. Ci vuole un cambio di priorità, passare dalla finanza all'economia reale. Non voglio dare giudizi su Merkel e Sarkozy, so che la situazione è molto difficile, e al loro posto avrei forse scelto la stessa politica. Non si può superare un burrone in due balzi, bisogna farlo con un salto solo. Basta però non esagerare con l'imposizione della disciplina economica e della rigidità, se no si arriva al collasso e alla stagnazione. C'è una sottile frontiera che dobbiamo stare attenti a non varcare. Se i bond europei potranno aiutare, noi saremo d'accordo, così come se la Bce dovesse fare emissioni per contrastare il debito. Noi comunque daremo una mano, nel limite delle nostre possibilità".

Quale pensa sarà il futuro della Ue e dell'euro?
"Il nostro maggior partner commerciale è l'area euro, arriva al 50 per cento. Ecco perché siamo molto interessati alla crescita della Ue e al suo risanamento e ci auguriamo che l'euro mantenga le sue posizioni. Non dimenticate che il 40 per cento delle riserve della Russia è in euro".

C'è molta preoccupazione in Occidente per ciò che succede in Siria. Le armi usate sono russe, nell'ultimo mese sono morte centinaia di persone. Come si pone lei il problema di fermare questa violenza?
"La gente guarda la Siria coi vostri occhi, ciò che voi mostrate sui giornali e in tv. C'è un conflitto civile armato, e il nostro obiettivo non è di aiutare governo o opposizione armata, ma di arrivare ad una pacificazione. Non voglio che si ripeta la Libia. Ve la ricordate quell'esecuzione medievale di Gheddafi? E dopo? Donne violentate a centinaia, bambini che muoiono, gente che soffre. Lo avete scritto? Troppo poco. Noi non vogliamo che in Siria succeda niente di simile. Quanto alle armi, il nostro interesse non è più alto di quello che può avere la Gran Bretagna, Non abbiamo con la Siria nessun rapporto speciale, ma vogliamo costringere entrambe le parti a fermare la violenza".

Perché non avete firmato la risoluzione dell'Onu sulla Siria?
"Ma voi l'avete letta? Io sì. C'è scritto che bisogna portare via le truppe governative dai villaggi dove si trovano. Ma perché non dire che deve ritirarsi anche l'opposizione armata? Così Assad non avrebbe mai accettato. Facciamo sedere le parti ad un tavolo, apriamo le trattative, questa è la strada".

Ma lei crede che Assad dopo tutto questo possa restare al potere?
"Non lo so, sono le parti che si devono mettere d'accordo. Con gli sforzi congiunti di Unione Europea, Stati Uniti e Russia possiamo farcela. Una cattiva pace è sempre meglio di una buona guerra".

Cosa pensa delle minacce iraniane nei confronti di Israele?
"Stiamo parlando di una regione esplosiva, discorsi troppo bellicosi in quell'area possono essere molto pericolosi. Ma l'Iran ha diritto ad avere un suo nucleare civile, certo sotto il pieno controllo delle organizzazioni internazionali e dell'Aiea".

Se l'Iran verrà attaccato, che farà la Russia?
"Per anni, e negli ultimi dieci in particolare, la Russia ha avuto una posizione precisa. I nostri soldati non escono dalle frontiere della Russia, e questa è una impostazione ferma, di principio, per la pace. Negli ultimi dieci anni si è ricorsi troppo spesso all'uso della forza per risolvere i conflitti internazionali. E questo lascia un'impronta negativa nelle relazioni tra Stati, e spinge certi Paesi a cercare l'arma nucleare come strumento di difesa".

Come sono i rapporti con gli Usa?
"Proprio in questa sala ho visto Obama due anni fa. Mi è sembrato franco e sincero, e molte cose che diceva sono le stesse che penso io. Io non so se riuscirà nei suoi intenti, ma non si può dire che i nostri rapporti non siano buoni. Le discussioni sullo scudo stellare? Le ho avute anche con Bush. Noi non vogliamo che lo scudo ci minacci, loro dicono che è orientato solo verso sud, noi chiediamo che ce lo mettano per scritto: loro dicono che ci dobbiamo fidare. Ecco la questione".

Lei è stato amico molto stretto con Silvio Berlusconi, costretto a dimettersi dal calo di fiducia e di consenso. Cosa pensa dei primi mesi del suo successore Mario Monti?
"Di Berlusconi non 'ero' amico, lo sono sempre. Monti mi sembra che stia facendo tutto bene, assolutamente. Certo, il suo compito è molto difficile. Il primo ministro italiano è un kamikaze. I compiti che devono affrontare i leader dell'Italia e della Grecia possono essere svolti solo da persone che non hanno ambizioni politiche per il futuro, uomini responsabili, che amano il loro Paese, professionisti. Monti mi sembra una persona molto capace e tenace, me lo ha detto proprio Silvio ieri, aggiungendo di avere molto rispetto per lui. Ha aggiunto: lo aiuteremo".

Un'ultima domanda personale. Sua moglie non si vede da molto tempo: come mai?
"Mia moglie non è un personaggio pubblico. Quando lo sei, devi avere a che fare con i mass media, che non sono sempre delicati. Mia moglie e la mia famiglia non fanno politica, non fanno business, io voglio che le cose restino così, anche per la loro sicurezza".

Qualche grave errore che si rimprovera in questi dodici anni di potere?
"Sbagli sì, tanti errori di valutazione. Ma un errore veramente grave non riesco a vederlo".

L'intervista è finita. Putin guarda l'orologio, si fa portare due fette di pane dopo il dessert e il tè e saluta: il corteo di auto nere lo porta a giocare a hockey con le sue guardie del corpo, qui vicino, mentre ormai è notte intorno alla dacia del potere.
 

(02 marzo 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/esteri/2012/03/02/news/intervista_a_putin-30795772/


Titolo: EZIO MAURO. La caduta degli idoli
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2012, 11:50:26 am

L'EDITORIALE

La caduta degli idoli

di EZIO MAURO
 
CADONO ad uno ad uno gli idoli della destra italiana che fino a ieri guidavano il Paese, trasmettendo attraverso il loro potere alieno alle istituzioni l'immagine di un'Italia da comandare, più che da governare. Le dimissioni di Umberto Bossi, affondato dalla nemesi di uno scandalo per uso privato di denaro pubblico, azzerano la politica e persino il linguaggio della Lega, rovesciando sul Capo fondatore quelle accuse spedite per anni contro "Roma ladrona" e contro lo "Stato saccheggiatore". I ladroni la Lega li aveva in casa, anzi a casa Bossi. E il saccheggio lo aveva in sede, a danno del denaro dei contribuenti.

La Lega è il più vecchio partito italiano, nato nell'agonia pentapartitica della prima repubblica, sopravvissuto e cresciuto nella bufera di Tangentopoli che ha cambiato per sempre la geografia politica. Poi alleata con l'altro figlio legittimo della prima repubblica, quel Berlusconi protetto dal Caf, abile più di tutti a infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite nel muro del sistema, e a ereditarne il comando come presunto uomo nuovo, esterno ed estraneo.

L'unione di convenienza dei due leader - al di là della rottura del '94, quando Bossi tuona contro "il mafioso Berlusconi" e la sua "porcilaia fascista" - via via si rinsalda su una prassi e un istinto ideologico, che dà vita all'esperimento italiano di una "destra reale", o realizzata.

Qualcosa di inedito nelle culture di governo dell'Occidente, nel suo mix populista di potenza economico-finanziaria e paganesimo localista, di cesarismo carismatico e telematico e di fazzoletti verdi agitati nel perimetro padano, eccitato dal federalismo alla secessione, fino alla xenofobia.

Quella destra "reale" ed estrema che da oggi, dopo la caduta di Bossi e Berlusconi, non vedremo mai più nella forma con cui l'abbiamo conosciuta.

Bossi viveva se stesso come il Capo indiscusso e perenne di una potenza straniera, che aveva ricevuto dalla decadenza del sistema italiano di rappresentanza politica l'occasione di governare l'Italia come una colonia da spolpare. Parlava contro lo Stato viaggiando sulle sue auto blu, oltraggiava il tricolore rappresentandolo nelle istituzioni, attaccava la Costituzione dopo averle giurato, da ministro, fedeltà repubblicana.

Tutto ciò in combutta con un leader a cui permetteva e perdonava tutto, scandali, vergogne, eccessi ed errori, in cambio di rendite di posizione parziali per sé e per il suo gruppo dirigente. Con il miraggio eterno della terra promessa, la Padania autonoma nello Stato federale e nemico, e la promessa finale (in cambio dei voti sulle leggi ad personam) della più prosaica e concreta Lombardia, per il dopo-Formigoni ormai alle porte.

Invece è arrivato il ciclone dei rimborsi elettorali usati a fini di famiglia. Si è finalmente capito di che pasta era fatto quel "cerchio magico" che proteggeva e ingabbiava il Capo, e quale cemento lo univa, lubrificandolo a spese del contribuente italiano. I soldi dello Stato, per Bossi e i suoi, erano come i beni di un Paese occupato, che bisogna spogliare.

Il "cerchio" alimentava se stesso, tiranneggiando il tesoriere, e muniva così il suo potere. Dentro il cerchio, la famiglia lucrava per sé, piccoli e grandi vizi, la casa del Capo e l'auto del figlio, le spese minute per tutti, e soldi  -  dicono le carte  -  anche per quel Calderoli che oggi pretende di sopravvivere a se stesso e alla vergogna nel ruolo di reggente, insieme con Maroni e Manuela Dal Lago.

La verità è che la Lega non c'era più da tempo, e oggi ciò che ne resta affonda insieme con Bossi. Il capo barbaro degli inizi aveva un istinto politico fortissimo, un linguaggio basico dunque nuovo nella sua spregiudicatezza, un legame istintivo coi militanti, una pratica politica di estraneità al sistema politico declinante, dunque anche ai suoi vizi. La prima auto blu ha trasformato Bossi. La malattia ha fatto il resto, depotenziando il vigore di un leader in cui la fisicità (metaforizzata come virilità politica) era icona del comando, testimonianza di una ribellione perenne, conferma di una irriducibilità permanente.

All'impedimento fisico si è accompagnato una sorta di ottundimento dell'istinto, quindi della manovra politica, alla fine dell'autonomia e della libertà. Da scelta negoziata, Berlusconi è diventato necessità, appoggio, rifugio. Nato come partner, libero e autonomo fino ad andarsene e tornare, il Bossi malato è finito nella tasca capiente e sapiente di Berlusconi, prigioniero volontario di un'alleanza come assicurazione senile di potere.

Il "cerchio magico" ha funzionato da coro greco, impedendo che l'autonomia perduta dal Capo venisse recuperata ed esercitata dal partito, tenuto in minorità permanente, costretto a ricevere e ad ascoltare dai sacerdoti del "cerchio" la traduzione delle parole d'ordine del Capo, elevato (in realtà ridotto) da leader a totem. Un Bossi totemico, simbolo indebolito di se stesso, che non governava ormai più, ma esercitava un potere mediato attraverso il "cerchio". Che in questo modo aveva in mano il controllo del partito ed impediva la crescita di ogni discussione, di qualsiasi articolazione di leadership ausiliaria, di tutte le ipotesi di delfinato. Il punto è che il "cerchio magico" si è impadronito della malattia del Segretario. E quindi, come in un brutto romanzo sudamericano tradotto in dialetto padano, ha cercato di perpetuare l'immobilismo totemico di un potere bloccato ma refrattario ad ogni soggetto esterno, per esercitare così un comando derivato.

Come in tutti i sistemi impaludati e stagnanti, anche nelle acque ferme del vertice leghista si è fatta strada la corruzione, probabilmente come strumento di arricchimento privato, dei singoli membri e della famiglia reale, ma anche come mezzo di potere e di controllo nei confronti degli altri, avversari o pretendenti. Per la Lega, e per Bossi stesso, è il cappio padano che cambia collo, e dalle odiate grisaglie di Stato e di regime passa indosso alle camicie verdi.

Peggio di una tangente, dei soldi corruttori di qualche imprenditore in cambio di un appalto, se si può fare una scala in queste cose: perché si tratta di denaro pubblico, finanziamento dello Stato, soldi di Roma, che il "cerchio" e la famiglia (culmine sacro e pagano di tutto) intascavano a loro profitto, truffando tre soggetti in un colpo solo: lo Stato, i contribuenti, e il partito, derubato da chi lo comandava.

La stessa retorica leghista viene annichilita da questo scandalo, che si racconta al contrario delle leggende bossiane, perduta quella purezza che dava forza e credibilità alla denuncia contro gli sprechi "romani" e lo Stato burocrate, oppressore delle sane abitudini padane. Ecco perché Bossi si è dimesso, ed ecco perché - soprattutto - le dimissioni erano inevitabili, e molto probabilmente non basteranno.

Passata da più di un anno dalla guerra di secessione a quella di successione (che Maroni non ha mai dichiarato formalmente, per non uccidere politicamente Bossi con le sue mani, ma sentendosi l'unico erede), adesso la Lega deve giocare una battaglia di sopravvivenza, che riguarda tutti. Non è credibile che gli altri capi e capetti (da Calderoli a Castelli allo stesso Maroni) non sapessero. I militanti ripeteranno l'ultima leggenda, quella della cospirazione esterna.

Ma gli elettori, i simpatizzanti, si sentono definitivamente truffati da un gruppo dirigente confiscato da un piccolo cerchio di potere con pratiche umilianti, che comandava per rubare  -  come nella peggiore Tangentopoli  -  e rubava per continuare a comandare.

Resta il problema enorme della rappresentanza del Nord, storica, culturale, politica. Rappresentanza simbolica e di interessi concreti. Non è affatto detto che questi interessi debbano coniugarsi per forza alla xenofobia, alle paure per la globalizzazione, all'invettiva spaventata contro l'euro e l'Europa.

Un'altra rappresentanza è possibile, se i partiti avranno la forza, la capacità e l'ambizione di concorrere per dare ascolto e soddisfazione alla parte più forte e moderna del Paese, liberandola dei falsi miti, unendola alle istituzioni e al destino repubblicano e nazionale. Facendole capire che la politica non è una cosa sporca, l'Europa è il nostro destino, e destra e sinistra  -  finalmente  -  non sono soltanto le due sponde del sacro Po: restituito ieri da falso nume a fiume, come accade nel Paese reale in cui vorremmo vivere.

(06 aprile 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/06/news/la_caduta_degli_idoli-32837369/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. "I partiti vanno cambiati, non abbattuti"
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2012, 10:37:07 am
L'INCONTRO

Ezio Mauro, Monti e la sinistra

"I partiti vanno cambiati, non abbattuti"

Pienone a Perugia e boom su twitter per il direttore di Repubblica, intervistato in sala e via web.

E alla fine l'annuncio: nasce "La Repubblica delle Idee", un appuntamento annuale con la community del giornale, in programma quest'anno dal 14 al 17 giugno a Bologna

Ezio Mauro con Arianna Ciccone al Festival di Giornalismo di Perugia (foto: Paolo Visone)


PERUGIA - "La cifra della nostra epoca è la parola disuguaglianza. Monti aveva promesso rigore ma anche equità, crescita, sviluppo. Ora va incalzato, perché abbiamo visto solo il rigore". "L'antipolitica è il rischio più grave che sta correndo il paese. I partiti vanno scossi e riconnessi alle energie dei cittadini: vanno cambiati, non abbattuti". Ezio Mauro arriva al festival del giornalismo di Perugia e occupa la scena anche in rete, diventando trend topic di Twitter. Sala dei Notari gremita, ragazzi assiepati alle pareti e appollaiati sulle boiserie sotto gli affreschi quattrocenteschi, telefonini, flash e videocamere.  Tanta gente fuori. Con l'evento che si conclude con una torta per i 16 anni di direzione di Repubblica, con l'annuncio di un futuro in cui "c'è una storia che attendo di scrivere da 22 anni, e molte cose che restano da capire". E l'arrivederci al prima festa di Repubblica, si chiamerà proprio "La Repubblica delle Idee" e si farà ogni anno: prima edizione dal 14 al 17 giugno a Bologna.

Intervistato da Arianna Ciccone, fondatrice della kermesse,  il direttore di Repubblica ha risposto anche alle domande della sala e a quelle arrivate da Twitter, con i messaggi che scorrevano sullo schermo alle sue spalle. Ma non si è parlato solo di politica. C'è stato spazio anche per una notizia su Lilli Gruber, che non sarà direttore dell'edizione italiana dell'Huffington Post, per l'ordine dei giornalisti da abolire  e per gli occhi lucidi nel ricordare Giuseppe D'Avanzo, il giornalista di Repubblica morto nel luglio dello scorso anno, "il mio compagno".

Arianna Ciccone chiede: Ezio, vieni qui da sei anni, d'improvviso è cambiato tutto. Silvio Berlusconi non è più premier. Umberto Bossi non è più segretario ed Emilio Fede non è più direttore.
"E' accaduto quel che doveva accadere, ed è successo secondo le forme sane della democrazia. Il governo aveva perso la fiducia delle parti sociali e delle cancellerie, dei mercati, buona ultima della chiesa e dei cittadini. Berlusconi era ormai al 23% dei consensi, non poteva sfidare la legge di gravità. Non è la crisi economica che ha fatto cadere Berlusconi, quello è stato l'elemento finale. La chiave è stata la perdita di connessione del Grande Comunicatore con il suo popolo. Alla fine gli italiani hanno capito".

Il berlusconismo però è ancora vivo...
"Il berlusconismo è un'avventura centrata sulla leggenda autoraccontata di un uomo che si è fatto da sé, mentre in realtà si tratta del figlio del sistema di potere della prima repubblica. Berlusconi è un uomo che è riuscito a deviare la realtà, a decomporla e ristrutturarla sotto forme diverse. Sono convinto che una macchina poderosa di potere politico, economico e mediatico come questa non ci sarà più. Resiste Berlusconi. E' l'inventore della pietra filosofale che ha dato legittimità alla destra. Ma le basi culturali sono effimere, è il destino del carisma populista che brucia nel momento in cui salta nel cerchio di fuoco".

Cos'hai fatto il giorno delle sue dimissioni?
"Quando si è dimesso era sabato, siamo saliti al Quirinale mia moglie e io,  c'era un sacco di gente. Non erano convocati da nessuno. Volevano essere lì in quel giorno per conservare sulla retina l'immagine di quel momento. Quando ho sentito i cori "ladro, ladro", me ne sono andato".

Dai tuoi tweet emerge una presa di distanza dal  linguaggio del governo dei  tecnici, di Mario Monti, di Elsa Fornero.  Che visione hai del loro uso delle parole? Qual è la linea di Repubblica?
"Il giornale non ha una linea, ha una certa idea dell'Italia. Monti è l'indicazione di uno stato di necessità, il tentativo di trovare una soluzione. Ora il resto del giudizio se lo deve guadagnare, sono i cittadini a dare i voti al governo, non il contrario".

Sull'articolo 18 Repubblica si è spaccata?
"Non esageriamo.  Scalfari riteneva che la lezione di responsabilità dello storico leader della Cgil Luciano Lama dovesse essere di guida per l'attuale segretario Susanna Camusso. Ma noi abbiamo sempre sostenuto la concertazione di fatto, affinché venisse conservato il diritto dei lavoratori di rivolgersi a un magistrato per chiedere il proprio reintegro. La democrazia materiale è composta di conquiste dovute alle dinamiche sociali, il governo avrebbe dovuto essere fiero di difenderle".

Il linguaggio del governo è spesso discutibile.
"È sicuramente anni luce lontano dalla natura della destra che abbiamo visto in Italia. I cittadini apprezzano questa lontananza dalle abitudini precedenti, la misura invece della dismisura. Monti uscendo dallo studio del presidente Giorgio Napolitano, al momento di ricevere l'incarico di formare il governo, ha pronunciato quattro parole:  rigore, crescita, equità, sviluppo. Abbiamo visto la prima, ora va incalzato sulle altre tre".

Mentre la legge sulla corruzione, la concussione, la riforma della Rai, sono lì, in attesa...
"La Rai interpella Mario Monti profondamente, non può non riconoscere in questa vicenda la centralità di termini come  libertà, autonomia e concorrenza, che sono state le parole guida del premier in Europa. Ora si tratta di portarle in Rai.

Si parla di candidati per il 2013. Ti piace Matteo Renzi?
"Non particolarmente, ha aspetti bulleschi".

E tu cosa voterai? Oggi non sembrano tutti uguali?
"In quel momento mi chiederò cosa sia più utile al paese e alla sinistra, credo che gli interessi della sinistra si possano combinare con quelli del paese, certo bisognerebbe che la sinistra lo sapesse. Sono stato molto critico con il Pd, ma sarei un pessimo cronista se non vedessi chi si è opposto alle leggi ad personam, chi non ha creduto alla fola di Ruby nipote di Mubarak. È un elemento di giudizio che non si può saltare. Ora la sinistra ha la possibilità di lavorare sulla disuguaglianza".

E l'antipolitica?
"I partiti vanno presi a spintoni, vanno fatti cambiare. Devono capire che  sono forti in quanto contendibili, scalabili. Sono seduti su una montagna di disponibilità democratica. I cittadini esprimono una tensione di cambiamento, i partiti non li devono guardare con diffidenza. Qella connessione è la loro forza, si devono aprire. Che senso hanno le Primarie in stile americano appiccicate con la colla sull'album della politica italiana?"

Ferrara (e parte il filmato di radio Londra) ti ha accusato di antipolitica per aver aperto la riunione di redazione con il ritorno di Valter Lavitola in Italia, alimentando lo sdegno dei cittadini sulle ruberie, d'intesa con alcune Procure.
"Ci sono persone che non possono vivere senza di noi, guardano la riunione di redazione di Repubblica invece di pensare al mondo che ha intorno, dimostrando una mancanza di autonomia culturale. L'antipolitica è pericolosa, il più grosso rischio che sta correndo il paese, rischiamo il disincanto culturale, la crisi può  cambiarci profondamente. L'antipolitica è il terreno di coltura che prepara il populismo. Nel '92 ne uscimmo con Bossi e Berlusconi. La politica si riduce a evento, il cittadino non partecipa, aderisce battendo le mani. Tutto è compresso a una semplificazione elementare. Io non voglio questo".

Ma come si arriva al ricambio della classe dirigente?
"Il ricambio è indispensabile per evitare il rischio di oligarchie. Insieme con altre misure. Il dimezzamento dei parlamentari, il finanziamento dei partiti per il quale va trovato un sistema trasparente. L'antipolitica avvelena i pozzi del linguaggio, procedendo per cortocircuiti. Il vaffanculo-day non è politica. Non è un problema di galateo, è un problema di sostanza. La semplificazione del linguaggio non è neutrale".

Ricambio della classe dirigente, ma non tocca anche a chi comunica? Lilli Gruber, bravissima, direttore dell'edizione italiana dell'Huffington Post è un segnale di novità?
"Non credo sarà lei, anche se non spetta a me sceglierla. Io sono direttore da vent'anni, ma un direttore di giornale  si può cacciare in qualsiasi momento. Guardo ai giornali e vedo che in questi anni ci sono stati molti nuovi direttori che si sono formati, il rinnovamento esiste. Oggi i giornali sono molto articolati al loro interno. Guarda noi, c'è Repubblica.it, ci sono i supplementi. I giornali hanno saputo rispondere alla complessità. C'è il sito per il tempo reale, gratuito; c'è il giornale di carta, letto in forma digitale a pagamento ormai da 50mila persone. Il sistema sta cercando il suo punto d'equilibrio economico, lo troverà".

Giuseppe D'Avanzo, ti va di parlarne?
"Mi manca il giornalista, mi manca la persona che entrava nella mia stanza e mi diceva 'C'è roba'. Quel c'è roba mi accendeva qualcosa dentro".

(M.R.)
 
27 aprile 2012) © RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/27/news/ezio_mauro-34065350/


Titolo: EZIO MAURO. Il tabù rovesciato
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2012, 04:34:48 pm
EDITORIALE

Il tabù rovesciato

di EZIO MAURO

   
DUNQUE "se il Paese non è pronto" il governo potrebbe anche lasciare. Non è una frase felice quella pronunciata a Seul dal Presidente del Consiglio riguardo all'articolo 18. Chi certifica infatti quando il Paese è "pronto" e in base a quale canone? E soprattutto non siamo a scuola e non tocca ancora ai governi dare il voto ai cittadini: semmai l'opposto.

Non c'è alcun dubbio che se fino ad oggi il voto dei sondaggi per Monti è stato così alto, questo è dovuto in gran parte a due caratteristiche del Premier: il disinteresse personale e la capacità di decidere. C'è dunque un timbro di sincerità quando il Capo del governo spiega che non tirerà a campare pur di durare e non lascerà snaturare dalle Camere quello che considera "un buon lavoro".

Tuttavia la terza caratteristica di Monti è sempre stata, finora, il buonsenso governante. E qui nascono due questioni, una formale ed una sostanziale. La prima è che quando si sostiene che il Parlamento sovrano è il principale interlocutore del governo, bisogna poi saper ascoltare la discussione che si svolge nelle sue aule, rispettando la decisione finale.

La seconda è il carico improprio di ideologismo con cui la destra sta avviluppando quella che chiama "la libertà di licenziare", e che rischia di trasformare l'articolo 18 in un nuovo tabù, questa volta rovesciato. Per la "feroce gioia" di chi non guarda al lavoro ma intende solo regolare per legge conti sospesi dal secolo scorso con la sinistra e con il sindacato.

Occorre tornare in fretta al merito del problema, de-ideologizzandolo. Il modello tedesco non penalizza certo la produttività e la competitività delle imprese, ma lascia al giudice la possibilità di decidere il reintegro per il licenziamento economico, se si rivela illegittimo. È la forza del buonsenso governante: il Paese è già "pronto". 

(27 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/27/news/tabu_rovesciato-32260166/


Titolo: EZIO MAURO. Per chi suona la campana
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 09:43:07 am
EDITORIALE

Per chi suona la campana

di EZIO MAURO


LA QUESTIONE non è Grillo. È la richiesta esasperata di cambiamento che i cittadini rivolgono alla politica dopo anni di occasioni perdute che hanno divorato la fiducia nei partiti e nel Parlamento, portandola al livello più basso d'Europa. La crisi fa il resto, erodendo le basi stesse della democrazia, come accade quando la perdita del lavoro si rivela perdita della libertà materiale, senza la quale non c'è libertà civile. Ci si può stupire, a questo punto, se il voto diventa un ciclone in grado di cambiare il panorama politico italiano?

In realtà siamo solo all'inizio. Non ci sono più strutture politiche e culturali in grado di reggere (si chiamavano partiti), lo Stato è indebolito, la democrazia infragilita. Mezzo Paese, addirittura, non crede più nel voto, come se scegliere chi ci governa non fosse importante. Come se il cambiamento fosse impossibile, o peggio, inutile. È facile prevedere che in questa crisi acuta di rappresentanza ogni voto diventerà un redde rationem, ogni antagonista al sistema verrà applaudito, ogni semplificazione sarà premiata. Non si capisce per quale strada e con quali strumenti si potrà costruire una nuova classe dirigente del Paese, perché la protesta non lascia intravvedere nessuna proposta. Ma si capisce benissimo che per la classe dirigente attuale sta suonando il segnale dell'ultimo giro.

Grillo è la spia di tutto questo, ed è una valvola di sfogo. L'impoverimento progressivo della politica,
la sua perdita di efficienza, la sua separatezza dai cittadini ha prodotto negli ultimi anni solitudini civiche sparse, smarrimenti individuali del sentimento di cittadinanza, secessioni personali: la platea italiana ideale per essere radunata ogni volta che la politica si riduce ad uno show, quando la battuta di un comico cortocircuita in una risata una situazione complessa, mentre il cittadino è trasformato in spettatore, la partecipazione diventa audience, la condivisione prende la forma di un applauso.

È questa la nuova politica, o è la sua caricatura estrema e paradossale? E tuttavia quanti cittadini delusi e comunque interessati alla cosa pubblica accettano questo elettrochoc per desiderio di cambiamento, per una sacrosanta voglia di facce nuove, di criteri di selezione aperti e trasparenti? Per una domanda - ecco il punto - di autonomia e libertà della politica, aperta alla società e alla sua disponibilità a trovare nuove forme di coinvolgimento, di responsabilità e di impegno?

 Il paradosso è vedere ciò che resta dell'armata berlusconiana votare Monti alla Camera, con il rigore e l'austerità, e votare nello stesso tempo Grillo a Parma, con il vaffa e lo sberleffo. Come l'impiccato che compra la corda per il suo boia. Forse il Pdl pensa che i populismi siano tutti uguali, interscambiabili, perché parlano alla pancia degli elettori, ne sollecitano gli istinti, si presentano come alieni al potere, come esclusi, o almeno come outsider. Grillo ha favorito questa scelta, senza mai distinguere tra destra e sinistra, anzi facendo di Parma una questione nazionale ha trasformato il Pd nel suo principale avversario.

Ma questo non basta per spiegare la nemesi del grande populista italiano che va politicamente a morire in braccio ad un comico scegliendolo per disperazione come leader-rifugio, mentre qualche anno fa gli avrebbe offerto tutt'al più un ingaggio serale in qualche drive-in.

 In realtà il Pdl cammina barcollante come un partito cieco, senza rotta e senza guida, polverizzato nel voto dei cittadini e nel consenso dei gruppi sociali: non esiste più. La crepa che gli scandali privati (in realtà tutti politici) di Berlusconi hanno aperto tre anni fa nel suo rapporto con gli italiani si è allungata fin qui, fino a decretare dentro le urne municipali quella sconfitta definitiva che l'ex premier e i suoi cantori cercano di dissimulare nella larga coalizione che sostiene Monti.

Berlusconi ha perso il vero piffero magico che aveva nel '94, quando è sceso in campo, e che ha conservato in tutti questi anni: il potere di coalizione. Oggi non coalizza più a destra, con la Lega spappolata dagli scandali contronatura, e nemmeno al centro, dove Casini ogni giorno chiude la porta in faccia ad Alfano, perché non intende tornare sotto padrone, finché Berlusconi rimarrà proprietario dei resti del suo partito.

 Il potere di coalizione è invece la vera arma che tiene in piedi il Pd, vittorioso in tutti i calcoli elettorali: ma spesso con candidati altrui, come succede a Palermo e Genova dopo Milano e Napoli. Tuttavia il Pd resiste più degli altri partiti, proprio perché ha una naturale capacità di coalizzare a sinistra, con Di Pietro e Vendola, e un'ipotesi addirittura di allargamento al centro, verso un centrosinistra europeo con Casini. In più, Bersani gode della rendita di posizione di chi vede il suo avversario affondare: anche se dovrebbe domandarsi perché della crisi di Berlusconi beneficia spesso (e clamorosamente) Grillo, mentre dopo l'anomalia berlusconiana in un sistema che funziona dovrebbe essere la sinistra ad avvantaggiarsi direttamente della scomparsa della destra.

Tutto questo dovrebbe consigliare al Pd di non fare sonni tranquilli. La spinta al cambiamento investe di petto anche la sinistra, le domande di rinnovamento sono qui anzi più radicali e più motivate. Perché la grande novità rispetto allo sconvolgimento post-Tangentopoli del '92-94, è che questa volta sono in crisi i valori dell'individualismo, del desiderio, del privato e del liberismo che consentirono a Berlusconi di incanalare a destra il malcontento, di modellarlo sulla sua figura, di ricostruirlo come struttura doppia di ribellione e di consenso per una leadership fortemente anomala rispetto ai partiti moderati e conservatori occidentali.

Oggi questa stagione è tramontata, sepolta in Italia dalla prova di malgoverno e dagli abusi, nel mondo dalla crisi. Il sentimento dominante è quello della percezione della disuguaglianza, con il rifiuto della sproporzione di questi anni, della dismisura, con la richiesta di equità, di giustizia sociale. La vera domanda è una domanda di lavoro, e cioè di obbligazione reciproca davanti alla necessità, di legame sociale, di dignità e di responsabilità. Ecco perché la sinistra è direttamente interpellata dall'esigenza di cambiamento, a cui in questi anni non ha saputo rispondere ma a cui non può più sottrarsi oggi.

O si cambia, semplicemente, o si muore. Bisogna ridare un senso alla politica, alla funzione democratica dei partiti, rendendoli forti perché contendibili, sicuri perché scalabili, finalmente aperti. Bisogna recuperare "l'onore sociale" dei vecchi servitori dello Stato, il potere in forza della legalità, in forza della "disposizione all'obbedienza", nell'adempimento di doveri conformi ad una regola. Il senso dello Stato e del suo servizio: separandosi - e già il ritardo è colpevole - dagli abusi dei costi troppo alti della politica, dai riti esibiti del potere, da tutto ciò che rende la classe politica "casta", cioè qualcosa di indistinguibile, che nel privilegio e nella lontananza annulla opzioni, voti e scelte diverse, che pure esistono, e contano.

Se il Pd pensasse che la domanda di cambiamento radicale della politica non lo riguarda, si suiciderebbe consegnando il campo all'antipolitica. Anche perché la geografia dell'Italia che andrà al voto non sarà quella di oggi. Il vuoto e i voti in libertà a destra cercano un autore, un padrone, un idolo, magari anche soltanto un leader: e qualche nuovo pifferaio sta sicuramente preparando il suo strumento. Se il Pd non cambia, rischia di risultare vecchio davanti a qualche incarnazione post-berlusconiana spacciata come novità.

L'antipolitica genera storie più che biografie, personaggi più che uomini di Stato, semplificazioni più che progetti. Ma un Paese disorientato e disancorato da ogni tradizione politica e culturale occidentale, può finir preda di qualsiasi illusione. Perché l'antipolitica è sempre la spia dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di una coscienza nazionale.

Per questo l'establishment italiano (che prepara la corsa ad ereditare qualche spazio politico di supplenza dal vuoto dei partiti) non può ritenersi assolto gettando tutte le colpe sulla politica: ma deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo impoverimento del sistema-Italia, dello smarrimento di ogni spirito repubblicano condiviso. O si cambia, o la campana suona per tutti.

(23 maggio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/23/news/per_chi_suona_la_campana-35737222/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Il Corvo e il Cardinale, i segreti della guerra che scuote il Va
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2012, 10:15:50 am
LA STORIA

Il Corvo e il Cardinale, i segreti della guerra che scuote il Vaticano

Il braccio di ferro nella Santa Sede sul potere di Bertone.

"Qui c'è una buona quantità di ricattatori, di ricattati e una percentuale ridotta di uomini di fede: tra questi i Santi che tengono i piedi la Chiesa". Padre Georg è il canale per informare il Papa senza transitare dalla Segreteria di Stato

di EZIO MAURO

IL VOLO del corvo sulle mura vaticane (dove un tempo s'innalzava nei mosaici di San Pietro la più nobile fenice, simbolo della verginità immacolata ma ancor più della dignità della Chiesa che non muore) è in realtà soltanto il penultimo atto di una battaglia medievale spostata nel ventunesimo secolo. Dunque spettacolare per i media, infarcita di simboli come un romanzo popolare sui poteri occulti, clamorosa nel rovesciamento pubblico di quel "segreto" che è buona parte del mistero della potestà papale fin da Bonifacio VIII che ebbe la cura e la preveggenza, dopo aver nominato il suo cameriere, di non rivelarne mai il nome, per evitare pubblici guai.

Oggi tutto il mondo conosce il nome di Paolo Gabriele, il maggiordomo di Benedetto XVI finito in una cella vaticana di quattro metri per quattro, con l'accusa di essere l'uomo della cospirazione: appunto il corvo. Ma chi vive all'interno delle Mura sa che la partita è più larga, conta molti protagonisti in più, e soprattutto dura da molto tempo. La vera posta è la Segreteria di Stato, cioè il governo della Santa Sede, la carica ecclesiastica più alta sotto il trono papale. Per cominciare bisogna andare indietro negli anni, alla prima insofferenza organizzata di 15 cardinali contro Tarcisio Bertone, pochi mesi dopo la sua nomina a Segretario di Stato al posto di Angelo Sodano.

A Bertone, fedelissimo del Papa fin dagli anni passati all'ex Sant'Uffizio, nessuno
rimprovera incapacità e inesperienza nel ruolo importantissimo che svolge. Piuttosto l'ambizione di occupare spazi altrui (come dimostra il conflitto permanente con la Cei, cioè con Bagnasco, sulla titolarità del "protettorato" da esercitare nei confronti della "cattolicissima Italia"), la disinvoltura nelle relazioni con il mondo italiano della politica e della finanza, i metodi salesiani e sbrigativi all'interno, nella costruzione meticolosa di un sistema di potere.

Contro Bertone si muovono cardinali in gruppo e isolati. Le Eminenze che possono, ne parlano al Papa, com'è successo un anno fa durante un pranzo a Castel Gandolfo con i cardinali Ruini, Scola e Bagnasco; altri gli scrivono; chi non arriva al pontefice, si lamenta negli uffici e nei corridoi. "Qui dentro - dice chi mi fa da guida e mi aiuta a capire - c'è una buona quantità di ricattatori, un numero uguale di ricattati, una massa di employé, e una percentuale ridotta di uomini di fede: tra questi ci sono i Santi, che tengono in piedi la Chiesa. E in questa fase di disorientamento tutti vanno dai Santi, per avere un conforto, qualche certezza". Anche perché a chi gli ha parlato criticando Bertone, Benedetto XVI ha risposto più volte nello stesso modo: "Noi siamo un Papa vecchio": come a dire che non ha un lungo orizzonte di pontificato davanti a sé, e non se la sente di rovesciare la governance della Santa Sede, ricominciando a 85 anni con un nuovo Segretario di Stato con il quale non ha consuetudine, proprio lui che ascolta preferibilmente gli uomini con cui ha un'amicizia antica, meglio se storica, comunque collaudata e a prova di inquietudini e sorprese.

Sul tavolo del Papa si sono così accumulati messaggi d'ogni tipo, giusti e anche ingiusti, contro il suo collaboratore più vicino, persino l'ultima velenosa accusa - documentata e inedita - sull'uso di aerei di Stato italiani per i suoi spostamenti veloci. Ma il Pontefice sa bene che i capi d'imputazione veri sono contenuti in tre lettere - rivelate dal "Fatto" e dalla trasmissione "Gli Intoccabili" - che proprio il corvo ha fatto uscire dai Sacri Palazzi negli ultimi mesi. Una missiva del segretario del Governatorato della Città del Vaticano, arcivescovo Carlo Maria Viganò (oggi rimosso da Bertone e inviato a Washington come Nunzio apostolico), che denuncia una serie di malversazioni, traffici e complotti in Vaticano ma soprattutto sostiene - dietro gli omissis, dice chi ha letto gli originali - che il Segretario di Stato è influenzato da personaggi esterni e da "ambienti massonici", che gli tolgono autonomia. Poi la lettera del cardinale Dionigi Tettamanzi indirizzata direttamente al Papa per chiedergli se davvero ha ispirato la richiesta che Bertone ha rivolto a nome di Benedetto XVI all'ex vescovo di Milano, spingendolo a lasciare la presidenza dell'istituto Toniolo, che controlla due giganteschi centri d'influenza e di potere come l'università Cattolica e il Policlinico Gemelli. Infine, la lettera del cardinale Attilio Nicora, presidente dell'AIF, l'Autorità di Informazione Finanziaria del Vaticano, che denuncia il rifiuto dello Ior, la Banca della Santa Sede, di dare informazioni trasparenti su movimenti bancari sospetti prima dell'entrata in vigore della legge vaticana antiriciclaggio, il 1° aprile 2011.

Sono tre accuse pesanti per il cardinal Bertone: condizionamento esterno nella guida del governo vaticano; abuso della delega papale nel rapporto coi vescovi; mancanza di chiarezza nella gestione dei fondi Ior, la banca che ha già coperto misteri vergognosi. La questione finanziaria è talmente delicata e rilevante che ha portato più di un anno fa alla rottura tra Bertone e Ettore Gotti Tedeschi, suggerito al Segretario di Stato come presidente dello Ior direttamente dal Papa, con cui aveva collaborato per la stesura dell'enciclica "Caritas in veritate". Gotti riceve da Benedetto XVI il mandato di rendere lo Ior "limpido". Lavora per portare la banca nella white list dove stanno le democrazie occidentali, fa approvare una legge antiriciclaggio e istituisce un'autorità di controllo interna, l'Aif. Ma subito dopo, si accorge che il Vaticano dice una cosa e ne fa un'altra, vede le norme cambiare, l'autorità scavalcata, la trasparenza ingannata. Rompe con Bertone e minaccia le dimissioni. Ma il Segretario di Stato lo precede - forse temendo rivelazioni - e restando ufficialmente all'oscuro di tutto lo fa sfiduciare all'unanimità dal Consiglio di Sovrintendenza dello Ior con un attacco ad personam del Cavaliere di Colombo Carl Anderson, per delegittimare preventivamente le eventuali notizie scomode che Gotti potrebbe dare un giorno.

Sulla Banca si gioca uno scontro di potere concreto. In passato per i forzieri dell'Istituto per le Opere di Religione è transitato di tutto: dal conto "omissis" di Andreotti ai soldi del democristiano Prandini, che aveva affittato addirittura il conto del demonologo Padre Balducci, ai fondi di Luigi Bisignani, l'ultimo faccendiere di Stato campione di tutti gli intrighi che cominciano con la lettera P, cioè P2, P3 e P4. Ma il problema non riguarda tanto il passato, con storie che sembrerebbero pittoresche se non fossero ignobili anche per una banca non religiosa, quanto il futuro immediato. Con tutti i Paesi democratici che dopo l'11 settembre si adeguano alla trasparenza dei movimenti finanziari, l'opacità voluta, insistita e ricercata dallo Ior può essere una finestra d'opportunità criminale per operazioni d'ogni genere, con il rischio - denunciato nella sua lettera dal cardinal Nicora - "di un conseguente colpo alla reputazione della Santa Sede".

È quello che gli avversari di Bertone ripetono al Papa, ogni volta che possono. E questa insistenza ha creato involontariamente un antagonista di Bertone, proprio alla Seconda Loggia. È Padre Georg Gaenswein, il segretario del Papa: un uomo che non ha mai creato correnti e non ha ambizioni di potere, ma "vuole soltanto il bene del Papa, e quindi della Chiesa", come dice chi lo conosce da vicino. Ma Georg, nella vecchiaia distante di Ratzinger, è diventato l'orecchio a cui si indirizzano tutte le proteste, e soprattutto il canale per trasmettere informazioni dirette al Papa, senza transitare come si faceva prima dalla Segreteria di Stato: basta passare dal salottino ristretto con due sedie imbottite davanti a una scrivania minuta, dove Monsignore compare entrando da una porta mimetizzata nella parete di sinistra. Ci passano in molti. Fatalmente Padre Georg senza volerlo si è così trovato ad incarnare l'immagine di uno dei due duellanti dello scontro in atto attorno all'Appartamento papale. Il segretario contro il Segretario.

Così, arriviamo al penultimo atto. Non ottenendo una reazione immediata dal Papa alle loro denunce, gli avversari di Bertone inventano il corvo, un gruppo organizzato di persone che rivela documenti riservati scritti contro il Segretario di Stato, con il doppio scopo di mostrare al Papa la clamorosa verità di una governance che fa acqua da tutte le parti, e di minare all'esterno l'autorità di Sua Eminenza, mettendolo in difficoltà per cercare di spingerlo a lasciare. Un'operazione primitiva e modernissima nella sua violenza elementare, fatta di carta e d'inchiostro nell'epoca del web. Trasportare all'esterno i veleni e gli intrighi fino a ieri coperti dalle Sacre Mura, nell'abitudine anagrafica e curiale di metterli per scritto, colpendo i nemici in bella calligrafia e chiamandoli sempre Eminenze Reverendissime. Per poi farli rimbalzare, quei veleni e quegli intrighi, all'interno dei Palazzi, ingigantiti dal clamore pagano - divertito e scandalizzato - del mondo di fuori. Ma la reazione di Bertone è intelligente e mirata: prima di tutto, un clima di polizia dentro le mura, con tutti che si sentono controllati nella persona, negli incontri, nelle conversazioni telefoniche, e non importa che lo siano davvero. Basta sia chiaro che se il Papa ha le chiavi di Pietro, e può serrare o disserrare le porte del Cielo, le chiavi del regno terreno sono saldamente in mano al Segretario di Stato, che può chiudere o aprire carriere e percorsi di laici, monsignori e porporati. Poi, l'avvertimento a Padre Georg e soprattutto a chi si rivolge troppo frequentemente a lui: quel maggiordomo così interno all'Appartamento, così vicino alla "famiglia" ristretta che circonda il Pontefice, e così ingigantito nella dimensione criminale da riassumere in sé - per comodità investigativa, politica e strategica - la molteplicità dei corvi che si sono mossi insieme in questi mesi: chi ha dato per anni fiducia al corvo-maggiordomo? Chi doveva vigilare sull'inviolabilità dell'Appartamento, e soprattutto sulla sicurezza delle carte del Papa? Come a dire: invece di lasciar attaccare la Segreteria, guardatevi in casa. "Da Innocenzo III - spiega la nostra guida - il Papa viene detto anche "dominatore dei mostri": bene, come ognuno di noi, deve purtroppo cominciare da quelli domestici".

In realtà il Papa assiste a questa profana guerra non di religione ma di religiosi senza saper come intervenire. La sapienza e la tradizione non lo aiutano. La storia vaticana è piena di lettere segrete del pontefice, che venivano contrassegnate proprio dal sigillo dell'anello piscatorio, simbolo di Pietro, che consegnava al segreto in perpetuo anche i "brevi", scritti su pelle di agnello nato morto dai segretari del pontefice. E già da Benedetto III in poi la cancelleria apponeva alle lettere papali più delicate delle "bolle" di piombo con le sacre immagini di Pietro e Paolo, segno della gran cura religiosa necessaria per custodire con fede la riservatezza degli "interna corporis", quando riguardano il Papa. Ma oggi, non è più tempo di piombo e soprattutto non è tempo di agnelli. Al Papa piuttosto qualcuno in questi giorni ha ricordato le parole di Geremia: "Issate un segnale verso il muro di Babilonia, rafforzate le guardie, ponete sentinelle, preparate gli agguati".

Già, ma cosa può fare il Papa? Sembra di risentire le parole del cardinal Poupard nel dicembre 2000, era finale del woytjlismo: "In Vaticano si vive in regime di inadempienza costituzionale. Il Santo Padre non controlla la Curia. Il Segretario di Stato procede in proprio. I dossier vanno e vengono privi di firma o di sigla. Si dubita che il Papa possa avere l'energia sufficiente per leggerli. E soprattutto non si sa neanche se gli vengono sottoposti". Sullo sfondo dei suoi silenzi, Benedetto XVI vede avvicinarsi l'ombra del conclave, le guerre di posizione, gli schieramenti, i giochi degli "italiani", i dubbi degli stranieri, la Curia sotto choc, tutto il mondo che improvvisamente rivaluta le trame di Dan Brown che fino a ieri sembravano infantili ed esagerate, e oggi sono sopravanzate dalla realtà vaticana. Tanto che lo stesso Gotti Tedeschi, dicono, si è confidato con un amico cardinale confessando che "è finito un sogno, ma soprattutto è finito un incubo".

Chi preme sul Papa contro Bertone spiega che lo fa per difendere il ruolo e l'autorità della Chiesa cattolica apostolica e romana, e il Pontefice. Ma come si può voler difendere il Papa, e poi forzare il suo silenzio con l'evidenza clamorosa del corvo, che toglie ogni immagine di sacralità e di fraternità alla vita oltre le Sacre Mura? Voi laici, dice chi mi accompagna, non capite che è in gioco qualcosa di più del galateo profano e della stessa bontà d'animo cristiana, qualcosa che interpella il soprannaturale. Perché il Papa è ascoltato nel mondo quando parla del bene e del male proprio in quanto la sua autorità non è solo terrena e pertanto non viene messa in discussione. Bene, oggi siamo al punto in cui viene in discussione la credibilità del Papa, la sua autorità: e se il Papa perde credibilità, è la fine della Chiesa.

Tuttavia il Papa vive nell'attitudine consolatoria di precetti che parlano di compassione, di distinzione tra peccato e peccatore, soprattutto di perdono, come sacramento insito nella confessione e nella penitenza. Da qui la tendenza a non condannare mai, ad aspettare. Cambiare Segretario di Stato adesso, proprio nell'urto dello scandalo? Solo se ci fosse qualche evidenza documentale, dice chi conosce bene il Papa e la sua prudenza.

Allontanare Padre Georg, nominandolo vescovo in Germania, per ristabilire l'unità della Santa Sede attorno al Segretario? Sarebbe un'amputazione papale, per di più ingiusta, e significherebbe introiettare la colpa per quieto vivere. Aspettare dicembre, il compleanno di Bertone, e fingere un normale avvicendamento? "Ma ogni giorno che passa qui affondiamo di più, e si perde fiducia nella Chiesa e alla fine nel Papa".

Così continua la battaglia medievale sotto il regno di Benedetto XVI. Fino a quando, e fin dove? Siamo giunti con ogni evidenza all'ultimo atto di questa lunga partita. Chi dietro le Mura ne ha viste molte ("non così, però: mai"), adesso cita il Faust e pensa che alla fine il Papa riuscirà a trasformare il male in bene, operando il necessario rinnovamento. Nel suo pensiero e nei suoi libri, Joseph Ratzinger sa che tocca al Papa "essere un argine contro l'arbitrio", perché lui "incarna l'obbligo della Chiesa a conformarsi alla parola di Dio". Può farlo non per la qualità degli uomini diventati pontefici, ha scritto Benedetto XVI, ma "per un'altra forza, non umana: quella forza che era stata promessa a Pietro, dicendo che le porte degli inferi non prevarranno". D'altra parte, anche la fenice del mosaico di San Pietro ogni cinquecento anni incendiava il suo stesso nido e battendo le ali faceva crescere il fuoco fino a bruciare nelle fiamme, risorgendo viva e vitale dalle braci. Solo che qui, intanto, gracchia il sacro corvo. E chi sa, dice che non è finita.

(01 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/01/news/corvo_bertone_papa-36328059/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Un giornale, le procure e il Quirinale
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2012, 05:43:45 pm
L'EDITORIALE

Un giornale, le procure e il Quirinale

Gli italiani hanno il diritto di conoscere la verità sulla trattativa Stato-mafia dopo vent'anni di depistaggi.

L'inchiesta di Palermo è meritoria ma è un falso palese dire che si vuole fermare il lavoro dei magistrati.

Anzi, è un inganno ai cittadini in buona fede

di EZIO MAURO


MA IO, che cosa penso? Me lo chiedono gli avversari di sempre, stupiti di trovare su questo giornale (che hanno presentato per anni come un partito) ciò che sono incapaci di avere sui loro, e cioè un dibattito aperto tra idee diverse, nate da uno stesso filone culturale: una prova di libertà e di ricchezza, soprattutto quando ad argomentare sono persone come Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky, con la loro autorità e la loro passione democratica.

Sconcertati per la libertà di "Repubblica", sperano almeno di trovare me in difficoltà: Gustavo è per una fortuna della vita un mio grande amico, discutere con lui mi appassiona, lo faccio ogni volta che posso  -  anche da lontano  -  e imparo sempre qualcosa. Con Eugenio c'è qualcosa (molto) di più dell'amicizia. C'è un'avventura comune per noi importantissima, che si chiama "Repubblica" e va al di là di noi, c'è il fatto che ci siamo scelti tanti anni fa e continuiamo a farlo ogni giorno.
Tutto questo complica? No, semplifica, perché obbliga alla verità. Noi tre conosciamo non solo le idee l'uno dell'altro ma anche i punti di dissenso di cui parliamo spesso, conosciamo soprattutto la nostra natura, che è alla base delle amicizie vere.

Infine e prima di tutto, c'è poi per me il giornalismo. E poiché molti lettori mi chiedono un'opinione è soprattutto a loro che rispondo. Con le parole di due mesi fa. Perché il giornalismo ha questo di bello: che le parole dette o scritte in pubblico restano, e non si cancellano.

Appena è nato il caso della trattativa Stato-mafia e del contrasto tra la Procura di Palermo e il Quirinale ne ho parlato più volte a "Repubblica domani", davanti a due milioni e mezzo di utenti unici del nostro sito che trasmette ogni giorno (salvo il mese delle ferie) la riunione di redazione di "Repubblica", con gli archivi a disposizione di tutti. Che cosa dicevo allora, ed era la fine di giugno? Quel che penso oggi e che riassumo qui.

Prima di tutto gli italiani hanno il diritto di conoscere la verità sulla trattativa Stato-mafia dopo vent'anni di nascondimenti, di menzogne e depistaggi.

Compito delle Procure non è scrivere la storia ma accertare gli illeciti. Bene, l'indagine della Procura di Palermo, indagando tutto ciò che si è mosso sotto la linea d'ombra delle legalità, può aiutarci a capire cos'è successo tra Stato e crimine organizzato in anni terribili per la Repubblica, all'insaputa dei cittadini, senza alcuna discussione pubblica sulla trattativa, nessuna trasparenza, quindi senza nessuna assunzione politica di responsabilità.

Dunque l'indagine è meritoria, come dicevo due mesi fa. Ma oggi  -  aggiungo  -  chi la ostacola? La Procura l'ha conclusa con le richieste di rinvio a giudizio, in piena libertà, com'è giusto, ora tocca al Gip decidere sugli indagati eccellenti. E allora? È un falso palese dire che si vuole bloccare il lavoro di Palermo, anzi è un inganno ai cittadini in buona fede. La Procura continuerà su altre strade  -  immagino  -  il suo difficile lavoro di frontiera, una frontiera impegnativa, per cui il compito dei magistrati di Palermo va seguito con attenzione e rispetto. Ma senza evocare fantasmi che non esistono, alla prova dei fatti.

E veniamo al secondo punto. Un testimone di rango, poi indagato, l'ex ministro degli Interni Mancino, si agita molto per l'inchiesta. Essendo stato presidente del Senato e vicepresidente del Csm ha accesso al Quirinale, ai collaboratori più stretti del Presidente, ai quali telefona continuamente senza sapere di essere intercettato. Così come parla col Capo dello Stato. Ho già detto, e ripetuto, che il comportamento dei consiglieri di Napolitano secondo quelle telefonate è imprudente e improprio, perché sembrano consigliare più il testimone Mancino che il Presidente della Repubblica: e innescano iniziative del Colle tutte legittime, ma sollecitate da una parte in causa  -  Mancino  -  che ha una possibilità di accesso al Quirinale che altri cittadini non hanno.

Napolitano, per dichiarazione degli stessi procuratori e di chi li guida, non compie alcun atto illegittimo e soprattutto non dice nella conversazione registrata con Mancino nulla che abbia qualche rilevanza con l'indagine. Ma il Presidente non ritiene che i testi delle sue conversazioni private debbano essere divulgati, a tutela delle sue prerogative più che del caso specifico. Solleva un conflitto di attribuzione su un "buco" normativo: può il Capo dello Stato essere intercettato, sia pure indirettamente? Questo conflitto è perfettamente legittimo. Può non essere opportuno, ed è una valutazione politica: io non lo avrei aperto. Ma è legittimo e a mio parere non vale dal punto di vista logico (lo dico al mio amico Gustavo che conosce quel che penso) l'argomentazione secondo cui il peso delle parti è squilibrato essendo il Quirinale troppo più forte di una Procura: perché allora tanto varrebbe non prevedere la possibilità di ricorrere all'arbitrato della Consulta, per manifesta superiorità del Quirinale.

Ma sollevo una questione di semplice buon senso repubblicano, di cui non si è ancora parlato. Il lavoro del Presidente della Repubblica, fuori dagli impegni istituzionali solenni e pubblici, è in gran parte fatto di colloqui, incontri, conversazioni (anche telefoniche) attraverso i quali il Capo dello Stato raccoglie elementi di conoscenza e di valutazione e esercita la sua moral suasion al servizio della Costituzione. Ora, rispondiamo a una domanda: è interesse di Napolitano (posto che non si parla in alcun modo di reati) o è interesse della Repubblica che queste conversazioni non vengano divulgate? Secondo me è interesse di tutti, con buona pace di chi allude senza alcuna sostanza a misteriosi segreti da proteggere, già esclusi da tutti gli inquirenti. Facciamo un'ipotesi astratta, di scuola.

Quante telefonate avrà dovuto fare il Capo dello Stato nelle due settimane che hanno preceduto le dimissioni di Berlusconi da palazzo Chigi? Quante conversazioni avrà avuto, quando le cancellerie europee non parlavano più con il governo, i mercati impazzivano, il Paese era allo sbando senza una guida esecutiva e molti di noi temevano il colpo di coda del Caimano? Se quelle conversazioni  -  che hanno necessariamente preceduto e preparato l'epilogo istituzionale di vent'anni di berlusconismo  -  fossero diventate pubbliche, quell'esito sarebbe stato più facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a rivelarsi impossibile?

Questa realtà semplice ed evidente viene incupita da sospetti e distorta da allusioni ed evocazioni complottistiche come se fossimo davanti a chissà quale mistero di Stato, o come se il Quirinale fosse addirittura il principale problema del Paese, il centro dei suoi mali. Tutto questo, prima ancora che falso sarebbe ridicolo, se non fosse un nuovo inganno ai danni dei cittadini.

Ecco perché due mesi fa parlavo di manovra contro il Quirinale, vedendola nascere. Con quel che l'Italia ha passato in questi vent'anni, e con l'emergenza economico-finanziaria che ci getta ai margini dell'Europa, togliendo lavoro e futuro ai giovani, com'è possibile rappresentare la crisi italiana come una manovra di palazzo, orchestrata da un uomo che gli altri Paesi considerano come uno dei pochi punti fermi della nostra democrazia?

Io ho una mia risposta, che non piacerà ai miei critici sui due spalti contrapposti. Il fatto è che l'onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra. Una destra diversa dal berlusconismo, evidentemente, ma sempre destra: zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza e dell'emancipazione, delega alle Procure non per la giustizia ma per la redenzione della politica, considerata tutta da buttare, come una cosa sporca.

Si capisce perfettamente che per chi ha questa posizione la cosiddetta "casta" non contempla differenze al suo interno, chi ha umiliato il parlamento sostenendo col voto che la ragazza Ruby era nipote di Mubarak è e deve essere uguale a chi ha resistito votando contro: facendo di ogni erba un fascio in modo da legittimare il lanciafiamme che redima il sistema.
Io penso al contrario che il compito di ogni organizzazione culturale, politica, giornalistica, intellettuale, sia quello di fornire ai cittadini non la famigerata "narrazione", bensì gli strumenti utili per poter distinguere, che è l'unico modo per potere davvero giudicare, dunque prendere parte.

Ma per chi ha queste posizioni, cultura è già una brutta parola. Meglio alzare ogni giorno di più i toni chiamando i politici "larve", "moribondi", "morti". Meglio alimentare la confusione, fingere che la destra sia uguale alla sinistra, che è il vero nemico, come il riformismo è stato sempre il nemico del massimalismo,

Ecco perché per coloro che sostengono queste posizioni Berlusconi non è mai stato il vero avversario, ma semplicemente lo strumento con cui suonare la loro musica. Per questa nuova destra, Napolitano e Berlusconi devono essere uguali, ingannando i cittadini. E infatti, mentre D'Avanzo rivolgeva le nostre dieci domande a Berlusconi ogni giorno, la nuova destra canzonava il Cavaliere in un linguaggio da Bagaglino, con un "calandrinismo" che rompeva la cornice drammatica in cui stava avvenendo quella prova di forza: deridendo i nomi (incolpevoli, almeno loro) delle persone, scherzando coi loro difetti fisici, stilemi tipici da sempre della destra peggiore. Non Montanelli, per favore, ma il Borghese degli anni più torvi.

Altro che guerra civile a sinistra. Siamo davanti a parole e opere tipiche di una nuova destra che lavora trasversalmente e insidia il campo "democratico" per la debolezza culturale e lo scarso spirito di battaglia della sinistra italiana, e per l'eccessiva indulgenza che tutti abbiamo avuto con l'antipolitica, davanti all'inconcludenza della politica italiana. Finché questo equivoco finirà, e dopo la definitiva uscita di scena di Berlusconi la destra starà finalmente con la destra e la sinistra con la sinistra.

Ecco quel che io penso. Ce n'è abbastanza perché "Repubblica" faccia ricorso a tutte le sue intelligenze e le sue passioni per portare avanti le battaglie di sempre, anche se in minoranza e anche se controvento, a partire dalla tutela della libertà di cronaca se verrà manomessa la normativa sulle intercettazioni telefoniche. Semplicemente in difesa della democrazia e della Costituzione, parlando anche a chi è attratto dall'antipolitica ma non è né antipolitico, né di destra. Nell'interesse di un Paese con il diritto di sapere che non vive in un eterno complotto: ma in una democrazia che dobbiamo rinnovare e migliorare, ma nella quale possiamo persino credere.

(24 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/24/news/un_giornale_le_procure_e_il_quirinale-41384249/?ref=HREC1-1


Titolo: EZIO MAURO. Marchionne: Manterrò Fiat in Italia con i guadagni fatti all'estero
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2012, 04:51:26 pm
L'INTERVISTA

Marchionne: "Manterrò Fiat in Italia con i guadagni fatti all'estero"

Parla l'ad: "Risponderò al governo, ma ognuno faccia la sua parte".

E replica alle critiche: "In giro vedo troppi maestri d'automobile improvvisati. Non si investe in un mercato tramortito dalla crisi, ma io non mollo e sono qui. Non dipingetemi come l'uomo nero"

di EZIO MAURO


Sergio Marchionne, in poche righe di comunicato lei ha seminato il panico sul futuro della Fiat in Italia, poi se n'è andato in America senza spiegare niente. Qui ci si interroga sul destino di stabilimenti, famiglie, comunità di lavoro, città. Cosa sta succedendo, e che cosa ha in mente?
"Sta succedendo esattamente quello che avevamo detto alla Consob un anno fa. Ho dovuto ripeterlo perché attorno a Fabbrica Italia si stava montando una panna del tutto impropria, utilizzando il nome della Fiat per ragioni solo politiche: a destra e a sinistra, perché noi siamo comunque l'unica realtà industriale che può dare un senso allo sviluppo per questo Paese. Capisco tutto, ma quando vedo che veniamo usati come parafulmine, non ci sto, e preferisco dire la verità".

E qual è la verità, il blocco degli investimenti in Italia dando tutta la colpa alla crisi?
"No, questa è semplicemente una sciocchezza. Abbiamo appena investito circa un miliardo per la Maserati in Bertone (una fabbrica rilevata da noi nel 2009 che non aveva prodotto vetture dal 2006), altri 800 milioni per Pomigliano: le sembra poco?".

La sua verità, allora?
"Semplice. La Fiat sta accumulando perdite per 700 milioni in Europa, e sta reggendo a questa perdita con i successi al'estero, Stati Uniti e Paesi emergenti. Queste sono le uniche due cose che contano. Se vogliamo confrontarci dobbiamo partire da qui: non si scappa".

La paura è che stia scappando lei, dottor Marchionne. Bassi investimenti in Italia, zero prodotti nuovi. Non è così che muore un'azienda che ha più di cent'anni di vita?
"Mi risponda lei: se la sentirebbe di investire in un mercato tramortito dalla crisi, se avesse la certezza non soltanto di non guadagnare un euro ma addirittura  -  badi bene  -  di non recuperare i soldi investiti? Con nuovi modelli lanciati oggi spareremmo nell'acqua: un bel risultato. E questa sarebbe una strategia manageriale responsabile nei confronti dell'azienda, dei lavoratori, degli azionisti e del Paese? Non scherziamo".

Ma i suoi concorrenti sono europei come la Fiat, operano sullo stesso mercato, eppure non hanno alzato le braccia. Tutti incoscienti e irresponsabili, anche quando guadagnano quote di mercato a vostro danno?
"Senta, perché non guardiamo le cifre che parlano da sole, molto meglio della propaganda? Lei le conosce? In Italia l'automobile è precipitata in un buco di mercato senza precedenti, un mercato colato a picco nel vero senso della parola, ritornato ai livelli degli anni Sessanta. Sa cosa vuol dire? Che abbiamo perso di colpo quarant'anni. E si capisce, se uno è capace di guardarsi attorno. Il Paese soltanto un anno fa era fallito, lo avevamo perduto. Solo l'intervento di un attore credibile ha saputo riprendere l'Italia dal baratro in cui era finita e risollevarla. Ce lo siamo dimenticato? E qualcuno vorrebbe che la Fiat, in mezzo a questa tempesta, si comportasse tranquillamente come prima, quando c'era il sole? O è un'imbecillità, pensare questo, o è una prepotenza, fuori dalla logica".

Ma lei guida la Fiat dal 2004. Molti, come Diego Della Valle, dicono che è colpa sua. Cosa risponde?
"Che tutti parlano a cento all'ora, perché la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e alto prezzo che compravo anch'io fino a qualche tempo fa: adesso non più. Ci sarebbe da domandarsi chi ha dato la cattedra a molti maestri d'automobile improvvisati. Ma significherebbe starnazzare nel pollaio più provinciale che c'è, davanti ad una crisi che ci sfida tutti a livello mondiale. Finché attaccano me, comunque, nessun problema. Ma lascino
stare la Fiat, per rispetto e per favore".

È normale che il Paese si preoccupi davanti al rischio che la Fiat vada via dall'Italia, che lei scelga l'America, che si perda la sapienza del lavoro nell'automobile. Perché lei non ha risposto a queste paure?
"Se vuol dire che potevamo comunicare meglio, possiamo discuterne. Ma la sostanza non cambia".

Ma lei dopo cent'anni di storia intrecciata tra la Fiat, Torino e l'Italia, con creazione di lavoro e di ricchezza ma anche con un forte sostegno dello Stato, non sente oggi un dovere di responsabilità nazionale?
"Scusi, se il quadro è quello che le ho fatto, e certamente lo è, si immagina cosa farebbe qualunque imprenditore al mio posto? Cosa farebbe uno straniero, in particolare un americano, un uomo d'azienda con cultura anglosassone? Dovreste rispondervi da soli ".

Qui sta la sua responsabilità nei confronti del Paese?
"In questa situazione drammatica, io non ho parlato di esuberi, non ho proposto chiusure di stabilimenti, non ho mai detto che voglio andar via. Le assicuro che ci vuole una responsabilità molto elevata per fare queste scelte oggi".

Ma due anni fa lei aveva detto a Repubblica che le quattro lettere Fiat avrebbero
conservato il loro significato: ancora Fabbrica, sempre Italiana, per produrre Automobili, e tutto questo a Torino. Oggi se la sente di confermare?
"Siamo qui. Anzi, io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia. Non mollo, se è questo che vuole sapere".

Ma lei ha appena detto che Fabbrica Italia è superata. Questo significa che l'impegno di investire in quel progetto 20 miliardi non viene mantenuto. Non si sente in colpa?
"Quell'impegno era basato su cento cose, e la metà non ci sono più, per effetto della crisi. Lo capirebbe chiunque. Io allora puntavo su un mercato che reggeva, ed è crollato, su una riforma del mercato del lavoro, e ho più di 70 cause aperte dalla Fiom. Soprattutto, da allora ad oggi il mercato europeo ha perso due milioni di macchine. C'erano e non ci sono più. Tutto è cambiato, insomma. E io non sono capace di far finta di niente, magari per un quieto vivere che non mi interessa. Anche perché puoi nasconderli, ma i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco, siamo in quel momento. Io indico i nodi: parliamone".

Cala il mercato europeo, ma dentro quel mercato Fiat crolla molto più di altri. Perché?
"Perché il mercato italiano per noi è assolutamente preponderante, pesa più di quello degli altri Paesi messi insieme: e il mercato italiano e spagnolo sono quelli che hanno perduto di più. Non è un'equazione troppo difficile".

Ma gli altri produttori europei continuano a sfornare modelli. Fiat è ferma, vuota e assente. Non è anche così che si lascia andare a picco il mercato?
"Se io avessi lanciato adesso dei nuovi modelli avrebbero fatto la stessa fine della nuova Panda di Pomigliano: la miglior Panda nella storia, 800 milioni di investimento, e il mercato non la prende, perché il mercato non c'è. Provi a pensare: se quell'investimento io lo avessi moltiplicato per quattro, se cioè avessi pensato in grande, diciamo così, la Fiat sarebbe fallita entro il 2012 e adesso saremmo qui a parlare d'altro. Io dovrei andarmene in giro col cappello in mano, chiedendo soldi non so a chi: agli azionisti, al governo, ad un altro convertendo".

Ma la rinuncia a nuovi modelli non è una resa, una rinuncia al mestiere e a stare sul mercato?
"Con un modello nuovo, nelle condizioni di oggi, magari avrei venduto trentamila macchine di più, glielo concedo. Ma magari, mi conceda lei, avrei perso due miliardi di più".

Il rischio è di disperdere un know how, una sapienza del lavoro, un universo dell'indotto, un marchio storico. Non ci pensa?
"Le rispondo così: lei non può saperlo, ma nei piani strategici del 2004 la Peugeot aveva considerato la Fiat fallita, e aveva programmato la conquista delle sue quote di mercato, come se la nostra azienda non ci fosse più. Fallita, cancellata, capito? Oggi la situazione è completamente diversa. Bisogna solo capire in che mondo viviamo. C'è un rapporto di Morgan Stanley secondo cui nello scorso decennio General Motors ha pompato 12 miliardi di euro in Europa, a fondo praticamente perduto".

Questo cosa vuol dire? Che tutte le colpe sono del mercato e non vostre?
"Lasci stare le colpe, parliamo di numeri. Vuol dire che il mercato non c'è. In Italia siamo sotto un milione e 400 mila automobili vendute, ciò significa che ne abbiamo perse un milione e centomila in cinque anni".

E come vede l'anno prossimo?
"Male, molto male. D'altra parte la gente non ha più potere d'acquisto, magari ha perso il lavoro, i risparmi se ne sono andati, non ha prospettive per il futuro. Ci rendiamo conto? L'auto nuova è proprio l'ultima cosa, non ci pensano nemmeno, si tengono la vecchia ben stretta. È un meccanismo che si può capire ".

È anche colpa degli incentivi, che hanno spinto a comprare senza necessità?
"Sono stati una droga, non c'è dubbio".

Ma ne avete beneficiato largamente anche voi, non ricorda?
"Ne abbiamo beneficiato tutti, noi, i francesi, i tedeschi. Ho sempre pensato che la droga avrebbe tramortito il mercato. Pensi che vendevamo un "Cubo" a metano a meno di 5 mila euro, 4.990: drogato al massimo".

Sono i famosi aiuti di Stato all'automobile, di cui oggi non dovreste dimenticarvi, non le pare?
"Già l'ultima volta ho detto di no. Vedevo crearsi una bolla che gonfiava d'aria i tubi del mercato, per poi farli saltare prima o poi. Semplicemente si posticipava una crisi, una difficoltà e un problema, invece di affrontarli".

Ecco, oggi la paura è proprio questa: che una Fiat americana non affronti il problema della produzione automobilistica in Italia, e non contrasti la crisi. Cosa risponde?
"Io gestisco un'azienda che fa 4 milioni e 100 mila vetture all'anno. La scorsa settimana sono andato a Las Vegas per un incontro con i concessionari: tra novità e restyling gli abbiamo fatto vedere 66 vetture. Si rende conto? È il segno di un'espansione commerciale fantastica di un'azienda globale. Che va giudicata in termini globali. Chi cresce a questi ritmi negli Usa e anche in America Latina, forse sa fare automobili, forse capisce il mercato".

E l'Italia? Lei non può ignorarla.
"Ma lei non può pensare alla Fiat come a un'azienda soltanto italiana. Sarebbe in ritardo di dieci anni. La Fiat non è più un'azienda solo italiana, opera nel mondo, con le regole del mondo. Per essere chiari: se io sviluppo un'auto in America e poi la vendo in Europa guadagnandoci, per me è uguale, e deve essere uguale".

Se non fosse per quel problema della responsabilità nazionale, nei confronti del Paese e di chi lavora, non crede?
"E qui lei dovrebbe già aver capito la mia strategia. Gliela dico in una formula: cerco di assecondare la ripresa del mercato Usa sfruttandola al massimo per acquisire quella sicurezza finanziaria che mi consenta di proteggere la presenza Fiat in Italia e in Europa in questo momento drammatico. Fare diversamente, sarebbe una follia".

Siete specializzati in utilitarie: non c'è l'idea di un'auto per la crisi?
"I modelli non invecchiano bene. Io posso lanciare la migliore automobile in un momento di mercato tragico come quello attuale, senza ottenere risultati: ma due anni dopo, quando magari le condizioni di mercato cambiano, quel modello è vecchio, e i soldi del mio investimento non li riprendo mai più".

Però state per lanciare la 500L, prodotta in Serbia. Quanto ci punta la Fiat?
"L'ho presentata agli americani lunedì scorso, l'accoglienza è stata fantastica, su quel mercato sono tranquillo perché andrà benissimo. E questo ci aiuterà. Ma se dovessi puntare solo sui risultati europei, non ce la farei mai e poi mai. E le aggiungo una cosa: io venderò la 500L a 14.500 euro. La Citroen ha deciso di vendere la C3 Picasso, che è un competitor, a meno di diecimila, per smaltire le giacenze. È una quota che sta sotto il mio costo variabile. Questo le dice come sta oggi il mercato in Europa".

Come spiega agli americani il successo a Detroit e il disastro a Torino?
"Quando spiego, loro fanno due conti e mi dicono cosa farebbero: chiusura di due stabilimenti per togliere sovracapacità dal sistema europeo".

E lei?
"I conti li so fare anch'io. Se mi comporto diversamente, ci sarà una ragione".

Cosa vuol dire?
"Che non parlo di eccedenze, non parlo di chiusure, dico solo che non c'è mercato per fare attività commerciale garantendo continuità finanziaria all'azienda".

E quando vede un cambio di mercato?
"Fino al 2014 non vedo niente. Per questo investire nel 2012 sarebbe micidiale. Salvo che qualcuno mi dica che per noi le regole non valgono. Ma deve mettermelo per scritto. Perché quando siamo entrati in Europa, non sono solo saltate le frontiere, è saltata anche l'abitudine di fare un po' di svalutazione nei momenti di crisi. Ora questo lusso non c'è più, e finché Monti e Draghi hanno le mani sul timone, per fortuna dall'euro non usciremo. E allora, dobbiamo rispettare le regole".

Sembra un discorso riferito al governo. La stanno cercando e vogliono chiarimenti: li vedrà?
"Se mi cercano li vedrò, certo. Immagino che incontrerò Passera, Fornero. Ma poi?".

Le chiederanno garanzie per la Fiat in Italia e vorranno sapere qual è il suo disegno strategico. Cosa dirà?
"Sopravvivere alla tempesta con l'aiuto di quella parte dell'azienda che va bene in America del Nord e del Sud, per sostenere l'Italia, mi pare sia un discorso strategico".

Lei dunque s'impegna?
"Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell'Italia. Io la mia parte la faccio, non sono parole. Quest'anno la Fiat guadagnerà più di 3 miliardi e mezzo a livello operativo, tutti da fuori Italia, netti di quasi 700 milioni che perderà nel nostro Paese. È la prova di quel che le ho detto".

Ma anche Romiti sostiene che lei ha colpe precise, ha letto?
"Mi dispiace, ma il mondo Fiat che abbiamo creato noi non è più quello di Romiti. E anche la parola cosmopolita non è una bestemmia, come sembra intendere qualcuno. È l'unica salvezza che abbiamo. Ancora una cosa: io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri".

Cosa intende dire?
"Che non sono l'uomo nero".

Col sindacato sì, sembra aver dichiarato una guerra ideologica alla Fiom, da anni Sessanta.
"Storie. Io voglio una riforma del lavoro, che ci porti al passo degli altri Paesi. Se la Fiat vuole essere partner di Chrysler, deve essere affidabile. Lo so che la Fiat di Valletta aveva asili e colonie, ma si muoveva in un mondo protetto dalla competizione, dazi e confini, che sono tutti saltati. Noi siamo in ballo, il gran ballo della globalizzazione: non è detto che mi piaccia ma come dicono in America il dentifricio è fuori, e rimetterlo nel tubetto non si può più".

Ma lei si rende conto che il lavoro oggi è il primo problema del-l'Italia?
"Sì, da qui la mia responsabilità nei confronti del Paese, che va di pari passo con quella nei confronti dei miei azionisti. Ma "repubblica fondata sul lavoro" vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni. Questa cultura da noi manca".

Il professor Penati oggi su Repubblica, cercando di capire la sua strategia, le ha chiesto di essere coerente e di vendere le partecipazioni editoriali, per dimostrare che la crisi colpisce tutti i settori in crisi e non penalizza solo l'automobile. Può rispondere?
"Proprio a me venite a chiedere dei salotti buoni? Non li ho mai frequentati. E quando abbiamo avuto bisogno di qualcosa da loro, ho visto solo buchi nell'acqua".


(18 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2012/09/18/news/fiat_intervista_marchionne-42748612/?ref=HRER3-1



Titolo: EZIO MAURO. Cambiare subito
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 02:30:37 pm
L'EDITORIALE

Cambiare subito

di EZIO MAURO

Ormai è una questione di decenza, e anche di sopravvivenza. La legge anti corruzione non può rimanere ostaggio di una destra allo sbando, arroccata nelle paure personali del suo leader, politicamente suicida al punto da non avvertire l'urgenza assoluta di mettere il nostro sistema al passo con l'Europa: ma anche, e soprattutto, con la sensibilità acutissima del Paese, che non tollera più abusi e furbizie.

La cintura di illegalità corruttiva che soffoca l'Italia e la sua libertà tiene lontani gli investimenti stranieri, penalizza le imprese, altera il mercato. Ma soprattutto pesa sul sistema per 60 miliardi all'anno, una cifra enorme che è il segno dell'arretratezza del Paese e del condizionamento di una diffusa criminalità quotidiana.

A tutto ciò si aggiungono l'uso disinvolto del denaro pubblico e gli sprechi del sistema politico. Lo scandalo della Lombardia, con le vacanze pagate al presidente Formigoni da un faccendiere della sanità, e la vergogna del Lazio, con cifre da capogiro intascate dai consiglieri regionali per spese private, fanno ormai traboccare il vaso. Ieri Napolitano ha definito la corruzione "vergognosa", il giorno prima Monti aveva denunciato "l'inerzia" della destra.

Ora non ci sono più alibi. Il governo non può fare il notaio delle inerzie altrui: vada avanti con forza e il Premier chieda al Parlamento di approvare subito la legge. Chi non la vuole, se ne assuma la responsabilità.

E l'opinione pubblica faccia sentire la sua voce. Il cambiamento può cominciare qui, oggi.

(26 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/26/news/polverini_commento_mauro-43295628/


Titolo: EZIO MAURO. Come difendere la democrazia malata
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2012, 04:01:29 pm
L'EDITORIALE

Come difendere la democrazia malata

di EZIO MAURO


Ma dove viviamo? Ciò che vediamo a Milano, con l'evidenza dell'incredibile, non deve farci dimenticare il quadro d'insieme. In meno di un mese è saltato per aria il governo della Regione Lazio, affondato nell'abuso privato del denaro pubblico e nell'estetica esemplare di una politica ridotta a festa onnipotente ed esibizione impunita, la Finanza è entrata negli uffici regionali dell'Emilia e del Piemonte, un assessore della Lombardia è finito in carcere 1 perché comprava i voti direttamente dalla 'ndrangheta, una grande città come Reggio Calabria è stata commissariata perché i clan comandavano la cosa pubblica. Stiamo tornando al '92, vent'anni dopo, dicono tutti. In realtà, è molto peggio.

Siamo infatti davanti a un pervertimento della politica, divenuta per molti un mestiere, un sistema di collocamento ad alta rendita, dove spariscono valori, ideali, tradizioni e difesa di interessi legittimi, i quattro elementi che fanno muovere le bandiere di un partito e parlano ai cittadini, offrendo identità, testimonianza, partecipazione e rappresentanza. Qui si ruba per comandare e si comanda per rubare. La politica troppo spesso è ridotta a strumento del potere, meccanismo di supremazia, sistema di garanzia. Le istituzioni, invase e dominate in molte parti d'Italia da questa nuova classe di potentati famelici, diventano semplicemente il luogo fisico dove
avviene questo scambio sotterraneo e continuo tra una politica disincarnata da ogni dignità e l'arricchimento dei singoli o delle loro bande.

L'unico vero punto in comune con il '92, è la perdita di efficienza della nostra macchina democratica, che gira a vuoto e non produce risultati proprio perché alimentata in troppe sue parti da una politica che ha obiettivi diversi dalla funzionalità istituzionale, e perché la corruzione alza i prezzi, uccide la concorrenza, sottrae risorse e mentre soffoca ogni autonomia estende il ricatto, la sottomissione e la paura. Siamo una democrazia pesantemente infiltrata e condizionata, abbiamo dovuto imparare a dubitare della selezione della nostra classe dirigente e oggi tocchiamo con mano che anche il giudizio supremo del popolo sovrano, attraverso il voto, rischia di non essere libero e trasparente, per l'infiltrazione dei clan mafiosi e il loro mercato delle preferenze.

Che tutto questo accada a Milano è per molti finalmente uno scandalo. Ma quando comincia e dove finisce questo scandalo? Davvero solo oggi veniamo a sapere che il Nord è infiltrato, quando soltanto negli ultimi due anni sono stati sciolti i Consigli comunali di Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia e Leinì? E non è uno scandalo retroattivo l'indignazione governativa della Lega e dei suoi alleati, un anno fa, quando Roberto Saviano denunciò 2 la fine dell'innocenza mafiosa del Nord e la Rai si piegò ad una puntata di riparazione con il ministro dell'Interno Maroni 3 che recitava le sue giaculatorie ideologiche in diretta? La stessa Lega che oggi si indigna e fa la voce grossa ieri fingeva di non vedere quel che tutti sapevano. Una vera forza politica legata al territorio avrebbe invece avuto il dovere della responsabilità: denunciare il pericolo, chiamare alla vigilanza, organizzare una difesa, una ripulsa popolare e un'azione di contromisura, visto che governava le tre grandi regioni del Nord, una moltitudine di città e guidava il Viminale.

Bisogna avere il coraggio di dire che la vera "infiltrazione" mafiosa è nella politica. I verbali delle intercettazioni telefoniche tra i boss calabresi arrestati per i voti comprati e venduti a Milano parlano chiaro. Le preferenze si pagano a tariffa (50 euro l'una), le mafie garantiscono quasi sempre il risultato e l'elezione del candidato sponsorizzato dal crimine diventa a questo punto un affare perpetuo, per tutti. La presenza mafiosa infatti non si esaurisce con la raccolta dei voti ma si trasforma in ricatto permanente, che mette il politico nelle mani dei clan, i quali pretendono di essere ricompensati con il denaro degli appalti pubblici. È lo stesso meccanismo delle varie P3 e P4 che abbiamo visto crescere e prosperare negli anni della decadenza attorno al potere declinante di un berlusconismo indebolito dai ricatti e dalle paure: debolezze crescenti, favori continui, personaggi pericolosi, ricatti permanenti e appalti richiesti, promessi, assegnati e goduti, con avide risate di felicità notturna quando il terremoto fa tremare L'Aquila.

Bisogna pur dire che il sistema Fiorito a Roma e l'asservimento mafioso dell'assessore Zambetti a Milano prosperano all'ombra del centro-destra, quasi che la decadenza di quel mondo avesse aperto le porte a qualsiasi abuso, dopo che gli anni della dismisura berlusconiana avevano abbassato la soglia della tolleranza e addormentato ogni capacità di reazione. Come ha detto l'ex ministro Galan, "volevamo fare la rivoluzione liberale, e siamo finiti con le teste di maiale". Ma la sinistra sta ancora balbettando ogni volta che deve pronunciare il nome di Penati, di cui noi chiediamo dal primo giorno le dimissioni dal Consiglio regionale. E Di Pietro dovrebbe prima o poi spiegare alla sua gente quel tocco da Re Mida che gli fa scegliere ogni volta ladroni o voltagabbana da infilare sorridendo nelle sue liste.

Vent'anni fa il sistema politico si sentiva forte, prima di Tangentopoli, tanto da creare un meccanismo di mazzetta naturale e obbligatoria per un'imprenditorialità abituata comunque a essere gregaria e nient'affatto indipendente e libera. Oggi la situazione è molto più grave, se si possono fare classifiche di questo tipo. La politica indebolita è presa a schiaffi dalla criminalità che la possiede nelle sue parti più avide e più fragili, e mentre la domina la disprezza. Il disprezzo dei boss per i politici è la cosa che più colpisce nei verbali di Milano, è la vera cifra dell'epoca. I capiclan si raccontano la scena dell'assessore impaurito quando gli mostrano il "pizzino" del patto scellerato, "piangeva, per la miseria, si è cagato sotto, cagato totale". Si trasmettono giudizi definitivi: "'sti politici di merda, piccoli e grandi, sono uno peggio dell'altro". Si vantano: "Grazie a questi spiccioli è stato eletto, altrimenti sai quanto prendeva?". Minacciano: "Gli facciamo un culo così". E infine si rassicurano: "Guarda, Zambetti ce l'abbiamo in pugno".

Certamente il senso d'impunità seminato in questi anni, l'elogio continuo del malandrino, l'irrisione del moralismo e di ogni giudizio etico, l'attacco al principio di legalità, il sentimento dell'onnipotenza giustificato dall'esercizio del potere spiegano molte cose. Ma è soprattutto la perdita di autonomia della politica, l'indebolimento del suo significato e lo stravolgimento della sua natura (ridotta a pura infrastruttura per la raccolta del consenso prima, e poi per l'esercizio del comando) che ci hanno portati fin qui. In questo senso la democrazia formale è stata salvata, ma la sua sostanza è deperita sotto le sembianze apparentemente intatte. C'è dunque una politica che ha rinunciato a se stessa, diventando pura tecnica di un potere economico-politico indifferenziato. Perché stupirsi se questa tecnica gregaria e autoriferita, svuotata di ogni valore, di ogni realtà autenticamente popolare, dunque di ogni controllo, finisca in mano a quell'altra gigantesca macchina di potere e di denaro che nel nostro Paese è la criminalità organizzata?

La nostra democrazia era corrosa dalle tangenti nel '92, oggi è malata. C'è la possibilità di salvarla, prima di tutto evitando i giudizi sommari che impediscono di capire, dunque di distinguere, quindi di giudicare e infine di scegliere con il voto. La parola "casta" è uno degli inganni della fase in cui viviamo, perché annulla questa capacità di distinguere e di discernere, crea il fascio che tutto accomuna, disarmando il cittadino quando lo indigna a vuoto, perché gli fa credere che il cambiamento sia impossibile o peggio inutile, mentre lo rassicura facendolo sentire diverso e migliore.

Tocca invece a noi, cittadini e pubblica opinione, esercitare la fatica della coscienza e della consapevolezza, dunque della responsabilità, sporcandoci le mani. È stupefacente come un'opinione pubblica sedata non voglia oggi essere protagonista davanti a quel che accade: non con le monetine (che sono state poi raccolte da Bossi e Berlusconi), ma con l'indicazione di una disponibilità democratica al cambiamento, con la richiesta forte della vera riforma di cui il Paese ha bisogno, quella dell'onestà, della legalità, del rispetto non soltanto formale della Costituzione e della democrazia repubblicana. Partendo da Milano, dove Formigoni deve dimettersi per gli scandali altrui ma soprattutto per il proprio, incapace com'è di dire la verità ai cittadini sulle vacanze pagate da un faccendiere della sanità regionale.

Tocca poi al governo e alla parte più responsabile del Parlamento fare il resto. Non c'è tempo da perdere, e ci sono almeno tre urgenze: cambiando la vergogna del Porcellum, come si può pensare di riportare sulla scheda elettorale le preferenze, dopo lo spettacolo di Fiorito a Roma e di Zambetti a Milano? Cosa si aspetta a chiedere conto alle banche anche in Italia delle operazioni col denaro sporco, con l'evasione fiscale, col riciclaggio? Come si può infine pensare di varare una legge anticorruzione come chiedono milioni di cittadini (e trecentomila firme di "Repubblica") scendendo a compromessi con una destra che punta a manipolare fattispecie di reati, pene e prescrizioni in vista di possibili utilizzi privati del suo Capo, con qualche resto per i Penati di turno?

La politica che vuole salvare se stessa ha l'occasione per farlo. Guai se venisse perduta. Oggi una riforma vera del sistema, in nome della legalità, non può trovare resistenze serie che abbiano il coraggio di manifestarsi alla luce del sole. Dunque si può: basta avere il coraggio di parlar chiaro al Paese, chiedendo il sostegno dell'Italia onesta.

(12 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/12/news/difendere_democrazia_malata-44361002/


Titolo: EZIO MAURO. Non solo spread
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2012, 04:00:21 pm
L'EDITORIALE

Non solo spread

di EZIO MAURO


NO, signor Presidente del Consiglio: non può essere "soddisfatto" se la legge anticorruzione verrà approvata così com'è alla Camera.
Questo è quanto vogliamo dire a Mario Monti, anche a nome dei 330 mila cittadini che hanno firmato l'appello di "Repubblica" per varare al più presto la legge, chiedendo però al governo "di non essere il notaio delle inerzie altrui" e delle resistenze della destra berlusconiana.

Quei cittadini, come molti altri, non chiedono una legge qualunque, di facciata, che possa essere esibita in Europa ma risulti inutile o dannosa in Italia. Questo avevamo detto consegnando le prime 250 mila firme al ministro Severino con urgenza, con la raccolta in corso, proprio perché il governo avvertisse in tempo l'impegno e la partecipazione della pubblica opinione, "un'opportunità, ma soprattutto una grande responsabilità".

Monti oggi ammette che il governo avrebbe voluto fare di più e "andare più in là", e fa notare che nessun governo precedente, di qualsiasi colore, ha fatto meglio. Il Guardasigilli aggiunge che il governo è composto da persone "oneste". Ma tutto questo, che è vero, non giustifica: anzi obbliga ancora di più.

La corruzione sta taglieggiando i cittadini, sta corrodendo le istituzioni, sta avvelenando la politica, sta pesando sull'economia.
Gli scandali si moltiplicano, e sono clamorosi. Il governo non può non vederli. E non può non sapere, in coscienza, che, come dice il Csm, la legge è "un passo indietro" pericoloso, soprattutto sul falso in bilancio, sulla concussione, sul voto di scambio, sull'antiriciclaggio, sulle prescrizioni.

Il governo non può limitarsi a registrare i veti e le pretese di chi non vuole una legge seria ed efficace. Il Paese non ha più tempo. Dunque il Premier e il Guardasigilli devono alzarsi in Parlamento per proporre le modifiche che rendano concreta la lotta contro la corruzione, in modo che chi è contrario se ne assuma la responsabilità davanti ai cittadini. Onestà non significa soltanto non rubare, ma fare ciò che è giusto e utile al Paese. E il dopo-Monti, di cui tanto si parla, si misura su queste cose e non solo sullo spread.

(20 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/20/news/non_solo_spread-44898879/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Non basta vincere, cambiare è un obbligo
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2012, 05:13:14 pm
Non basta vincere, cambiare è un obbligo

di EZIO MAURO


Sembrava che l'unica parola fosse ormai quella dell'antipolitica. E invece si è visto che quando la parola torna ai cittadini perché i partiti danno loro la possibilità di esprimersi, di prendere parte e di contare, l'antipolitica tace, o addirittura deve inseguire. Dunque uno spazio per la politica e per i partiti esiste, anche in questo Paese dove appariva corroso e consumato: a patto che i partiti si aprano invece di arroccarsi e che la politica, di conseguenza, torni a parlare la lingua popolare della gente.

Non capita spesso, da noi, che metà dello schieramento politico metta completamente in gioco la sua leadership, il profilo di governo, la sua stessa identità affidando la scelta ai cittadini-elettori. Questa volta è accaduto, perché erano in campo due ipotesi divaricate per età, programmi, stili, progetti di alleanza e modelli culturali. Renzi aveva con sé la forza della rottura (che ha premiato nelle primarie tutti coloro che sparavano sul quartier generale), l'evidenza dell'età, l'energia del cambiamento. Tutti elementi in lui quasi antropologici, come se dicesse: sinistra e destra sono dell'altro secolo, la mia biografia è il mio programma e la garanzia del cambiamento.

Bersani aveva il peso dell'apparato ma anche il vantaggio dell'esperienza, dell'arte di governo, la capacità di trasmettere un'idea di sinistra aggiornata all'epoca che viviamo e all'Europa, un sentimento politico di sicurezza sociale che non rinnega il merito ma insegue l'uguaglianza.

Come se promettesse: la sinistra c'è ancora, è diversa dalla destra che abbiamo conosciuto e ha qualcosa da dire per governare la crisi.

Vincendo una sfida vera, senza rete di protezione, il segretario diventa leader. Ma sbaglia se pensa di aver sconfitto la voglia di cambiare, confinandola al 40 per cento. Quella domanda deborda, contagia, attende risposte. Se mai - e su questo è Renzi che deve riflettere - le primarie dicono che il tema del cambiamento è più ampio della pura questione generazionale e che il concetto di sinistra non si riduce al solo cambiamento.

Ma guai se Bersani si farà riagguantare dagli "elefanti" del partito, se si farà rinchiudere nel recinto del suo gruppo di vertice, interessato al dividendo della vittoria. Ormai è chiaro che quel partito è forte solo se è contendibile, scalabile, aperto, nuovo davvero. E qui Renzi, apriscatole del sistema, può essere più utile del "renzismo": con un'alleanza per rinnovare metodi e politica e per battere la destra, visto che l'avversario - finite le primarie - torna a star fuori e non dentro il partito. Oggi la sinistra può vincere anche per le debolezze altrui, restando ferma. Ma per convincere e governare, deve cambiare davvero, partendo da se stessa. Il cammino è cominciato: soprattutto, è obbligatorio.

(04 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EZIO MAURO. Monti: "Preoccupato ma non potevo evitare le dimissioni"
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2012, 11:25:10 pm
Monti: "Preoccupato ma non potevo evitare le dimissioni"

Il presidente del Consiglio il giorno dopo la decisione di lasciare spiega: "Le parole di Alfano erano un attestato di sfiducia anche se non espressa in modo formale". "Il mio futuro in politica? Ora non lo so"

di EZIO MAURO

IL GIORNO dopo è senza amarezza, ma con molte preoccupazioni. "Sono convinto di aver fatto la cosa giusta  -  spiega Mario Monti a chi lo chiama per un saluto nel momento in cui si apre la crisi del suo governo  -  e in ogni caso non potevo farne a meno, dopo quel che è successo. Ma sono preoccupato, naturalmente: non per me, ma per quel che vedo". Quel che il presidente del Consiglio  vede, lo si osserva anche dall'estero, e la preoccupazione per la deriva politica, istituzionale, finanziaria dell'Italia è ancora maggiore. A Monti, alla sua persona e alla sua politica, è legato il recupero di credibilità faticosamente riconquistato dall'Italia in questi tredici mesi, dopo il baratro di fiducia e di consenso in cui era precipitato il nostro Paese nei mesi di agonia del governo Berlusconi, prima della caduta del Cavaliere nel novembre di un anno fa. E questo clima internazionale di incertezza sul futuro dell'Italia e sulle capacità del Paese di rimanere ancorato all'Europa con una politica autonoma di responsabilità si somma all'apprensione per le mosse di Berlusconi.

Per tutta la giornata Monti (e anche Giorgio Napolitano, dal suo appartamento al Quirinale) hanno dovuto prendere atto di questo allarme internazionale, che può innescare una nuova spirale di sfiducia nei confronti dell'Italia, allargandosi dalle cancellerie europee agli Stati Uniti, ai mercati. "Sì, ho avuto molte telefonate dall'estero", si limita a dire Monti. Telefonate per capire cos'era successo e soprattutto che cosa può succedere adesso, in un Paese che non ha ancora compiuto il suo risanamento, e resta in una situazione complicata e difficile.

Nessuna telefonata, invece, a nessun uomo politico prima di discutere sabato sera con Napolitano al Quirinale la scelta delle dimissioni. Nemmeno i ministri più importanti erano stati avvertiti. "La mia decisione non ha avuto bisogno di un confronto politico - spiega il Capo del governo - Non è vero che mi sono consultato con gli onorevoli Bersani e Casini prima di andare al Quirinale. Non ne avevo il tempo, e in qualche modo potrei dire che non ne ho avvertito la necessità. Nel senso che mi era ben chiaro che cosa dovevo fare. Ecco perché non ne ho parlato nemmeno con esponenti del governo. Ho voluto confrontarmi soltanto con il Capo dello Stato. Poi, a cose fatte, ho chiamato Bersani e Casini. E dopo anche l'onorevole Alfano".

Ma quando è salito al Quirinale, in ritardo sull'appuntamento per colpa dell'aereo che lo riportava in Italia da Cannes, Monti in realtà aveva già preso la sua decisione. Non un orientamento per le dimissioni, ma la decisione vera e propria di lasciare, in modo irrevocabile, sottoposta soltanto alla verifica istituzionale del Presidente della Repubblica, con il quale l'intesa è stata fortissima in tutti questi mesi, e soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà interna e internazionale. "Avevo in realtà deciso da pochissime ore - dice il Premier - e più esattamente proprio durante il volo da Cannes a Roma. Ho avuto modo di pensare, inevitabilmente, a cosa aveva rappresentato per l'Italia Cannes lo scorso anno, con quel G8 all'inizio di novembre in cui il nostro governo fu messo alle strette". Le cronache ricordano l'isolamento di Berlusconi tra i Capi di Stato e di governo degli altri Paesi, la sfiducia palpabile nei confronti dell'Italia, precipitata in coda ai Pigs, dopo la Spagna e appena prima della Grecia, con i dubbi diffusi sulla nostra capacità di sfuggire al rischio default insieme con Atene.

Anche quel ricordo ha consigliato Mario Monti a scegliere la giornata festiva di sabato per la resa dei conti finale: "Ho preferito che la decisione e l'annuncio cadessero in un giorno di mercati chiusi, con ventiquattro o trentasei ore di tempo per riassorbire un eventuale "colpo", nella speranza naturalmente che il colpo non ci sia. Spiegando subito, in ogni caso, che le dimissioni diventeranno effettive solo dopo l'approvazione della legge di stabilità, che spero proprio arriverà come previsto".
La dichiarazione di Alfano che annunciava la presa di distanza del Pdl e la fine dell'esperienza del governo Monti è stata la causa definitiva della scelta del Professore perché meditata e circostanziata, dopo gli attacchi e i preannunci di crisi da parte di Silvio Berlusconi. "L'ho interpretata veramente come un attestato di sfiducia - dice Monti - anche se non espressa in modo formale. Ma non era necessario, tutto era ormai chiaro".

Chiaro anche il preannuncio di un Vietnam parlamentare, con il Pdl che puntava ad avere le mani libere in una lunga campagna elettorale, boicottando ogni provvedimento del governo (a partire dal taglio delle Province e dall'incandidabilità per i condannati) senza assumersi formalmente la responsabilità di una crisi. Monti dunque sarebbe stato rosolato a fuoco lento sulla graticola parlamentare. "È possibile, anzi è probabile - spiega il Professore -, ma non è stato questo l'elemento determinante nella mia decisione. Il fatto importante e per me decisivo è un altro: io non sento più intorno a me una maggioranza che, sia pure con riserve e magari anche a malincuore, sia capace di sostenere con convinzione la linea politica e di programma su cui avevamo concordato".

Questo venire meno agli impegni presi, questo venire meno della responsabilità condivisa da parte della maggioranza anomala che aveva accettato di far fronte al risanamento necessario, dividendosi il costo politico ed elettorale dei sacrifici, ha convinto Monti a prendere l'iniziativa formale della crisi, con un chiarimento definitivo. "Non potevo fare altrimenti - chiarisce il presidente del Consiglio -. Non sarebbe stato giusto, e nemmeno possibile. E oggi, non ha molta importanza vedere che una parte di quella maggioranza incrinata dica che non ha mai dichiarato la sfiducia in modo formale. Le cose sono chiare".
Che cosa resta? Il bilancio di quest'anno di governo in condizioni drammatiche, e Monti troverà il modo di farlo. Le telefonate di riconoscimento per l'impegno del Paese in questi mesi, venute dall'estero. E gli inviti, ripetuti, ad andare avanti, a non interrompere qui questa avventura politica e culturale nel segno dell'Europa. Molti spingono per una candidatura, per una scelta decisa, per la benedizione a qualche lista, scommettendo che Monti in politica non si fermerà qui. "Non lo so - risponde il Professore -, non lo so proprio. Se dovessi candidamente dire il mio sentimento oggi, direi che sono molto preoccupato. E non mi riferisco soltanto a quella parte politica da cui è venuto questo epilogo, con le mie dimissioni. No, la mia preoccupazione è più generale".

C'è come un senso di solitudine, il giorno dopo. Come concluderà la domenica di crisi il Professore? "Telefonando al Presidente Ciampi, per gli auguri del suo compleanno. Una voce autorevole, e amica".

(10 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/10/news/monti_preoccupato-48431560/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Canone occidentale
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:40:55 pm
Canone occidentale

di EZIO MAURO

Dove sta l'onore di una nazione? Di fronte alle critiche che sono piovute sulla decisione di Silvio Berlusconi di ricandidarsi alla premiership, spingendo Mario Monti alle dimissioni, ritorna l'accusa di "offesa" a un intero Paese. Attaccando Berlusconi, dunque, si attaccherebbe l'Italia, la sua libertà e la sua autonomia nel momento delle scelte elettorali. Quindi quelle critiche vanno respinte e rigettate dall'intero Paese perché "antiitaliane", lesive appunto dell'onore della nazione.

In realtà non siamo affatto un Paese a sovranità limitata. Gli elettori scelgono liberamente, destra e sinistra si sono alternate al potere più volte, con piena legittimità. Solo che in democrazia il consenso bisogna ogni giorno riguadagnarselo, in patria e fuori. E in Occidente, bisogna saperlo trasformare in capacità di governare, cioè in politica coerente, efficace e credibile.

Il Cavaliere e il suo partito dovrebbero dunque domandarsi perché l'establishment europeo, il Ppe, le cancellerie e l'opinione pubblica rappresentata dai giornali esprimano queste preoccupazioni all'idea di un ritorno berlusconiano: quali ricordi e quali tracce hanno lasciato la politica e il governo della destra negli ultimi anni? Quali effetti hanno prodotto, per il Paese e la sua credibilità, i comportamenti più disinvolti e scandalosi che confondevano pubblico e privato? Quali giudizi hanno provocato le norme ad personam ripetute e insistite nel tentativo, del tutto inedito in Europa, di dimostrare
che la legge non è uguale per tutti? Quale memoria resta nel continente della dismisura come regola di vita politica e personale? E quale promessa di futuro può nascere oggi dall'irrisione dello spread, unita all'attacco alla Germania e alla nostalgia della lira?

È questo che l'Italia paga, ed è da tutto questo che deve sentirsi offesa, per il danno subito e per il costo nel suo onore internazionale. Ciò che scrivono i giornali, ciò che dicono i Cancellieri è soltanto la conferma che il canone occidentale non è quello di Arcore, cui hanno acconsentito per anni gli intellettuali italiani, una Chiesa accomodante, un establishment prono fino alla crisi del Cavaliere, quando si poteva rialzare la testa. E attenzione: il populismo antieuropeo che Berlusconi prepara per la campagna elettorale è un'altra volta un'eccezione. Che spaventa l'Europa, più dell'idea incredibile del suo ritorno.

(12 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/12/news/mauro_berlusconi_ritorno-48567653/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. La demagogia irresponsabile
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2013, 06:51:30 pm
La demagogia irresponsabile

di EZIO MAURO

A tre settimane dalle elezioni, i mercati hanno votato ieri, segnalando tutto il loro allarme. Borsa in calo di 4 punti e mezzo (la più debole d'Europa), le banche che arrivano a perdere più di 6 punti, lo spread che risale di 20 punti base, a quota 285. La tregua è finita, il recupero di credibilità del governo Monti rischia di essere mangiato pezzo a pezzo, insieme col rigore e le riforme dell'ultimo anno, dalla confusione politica che porta nuovamente a galla  -  com'è inevitabile  -  tutte le debolezze drammatiche dell'Italia. Un Paese, non dimentichiamolo, che nel 2013 dovrà collocare sul mercato ben 410 miliardi di titoli per finanziarsi il debito: appena 60 in meno del 2012, l'anno peggiore del dopoguerra.

Quel che è successo è sotto gli occhi di tutti. Gli scandali Mps e Saipem trasmettono l'immagine di un sistema inaffidabile, che trucca i conti in un caso e nell'altro inganna la stessa vigilanza: Siena in più manda il segnale d'allarme di una contiguità di interessi e di potere tra la terza banca del Paese e la politica (in questo caso la sinistra), e soprattutto getta un'ombra sul mondo bancario italiano, fino ad oggi più riparato di altri mondi davanti all'urto della crisi.

In questo paesaggio di fragilità e di nuovi dubbi sull'Italia, irrompe il fattore Berlusconi. I report di tutte le banche d'affari occidentali, ieri, lo citano espressamente, per nome e cognome. Gli operatori finanziari, com'è evidente, non inseguono la piccola politica quotidiana, badano agli scarti di sistema, alle svolte, alle incognite, ai rapporti di forza. Non hanno certo in simpatia la sinistra, in qualunque Paese operi. Non è dunque il recupero di qualche percentuale da parte di Berlusconi che spaventa i mercati. È la combinazione tra il populismo elettorale, di propaganda, della destra italiana, e le possibili conseguenze che questa avventura politica rischia di proiettare sull'azione del prossimo governo, sulla linea della futura maggioranza, sullo spirito del nuovo parlamento. Sul ruolo quindi che l'Italia giocherà in Europa.

È evidente a tutti che la campagna elettorale è il luogo della radicalità, degli slogan, delle promesse, e dunque di un linguaggio forte e persino estremo. Ma in politica, almeno da parte di chi compete per governare, la radicalità elettorale va combinata con la responsabilità dell'amministrazione. Bisogna sostenere le promesse con la credibilità che si è conquistata quando si governava. Bisogna misurarle con la sostenibilità della fase in cui si governerà. Ora è evidente a tutti che l'annuncio di Berlusconi di voler cancellare l'Imu sulla prima casa (3,7 miliardi) e di restituire "in contanti" quella già pagata (altri 3,7 miliardi, per un totale di mezzo punto di Pil) è una promessa impossibile, resa non credibile dalle promesse non mantenute dal passato governo, e resa semplicemente insostenibile dalle condizioni in cui si trovano l'Italia e i suoi conti pubblici.
Ma ciò che allarma l'Europa è l'assoluta irresponsabilità politica e di governo che c'è dietro questo populismo demagogico, nel senso letterale di adulazione del popolo, attraverso i suoi istinti e i suoi interessi a breve. L'uomo che promette di cancellare l'Imu lo ha votato, per scelta libera e autonoma, nel parlamento della repubblica. L'uomo che vuole scardinare le politiche di rigore e di risanamento che Monti ha dovuto varare per rimediare ai disastri del suo governo è lo stesso leader che si è fatto garante con l'Europa del fiscal compact, prendendo impegni precisi a nome dell'Italia con la Ue e con la Bce in un momento drammatico della crisi finanziaria che minacciava di travolgere il nostro Paese. Che credibilità può avere nel suo ultimo voltafaccia?

L'irresponsabilità è massima quando si pensa che Berlusconi sa che non toccherà a lui governare, e quindi non dovrà onorare le promesse, o farsi carico delle bugie elettorali. Quindi può tranquillamente drogare il mercato elettorale alzando la posta senza pagare dazio, introducendo dinamiche politiche impazzite, perché cozzano contro la condotta tenuta fino a ieri dal suo partito in parlamento, contro gli impegni e i vincoli precisi che lui personalmente ha sottoscritto con l'Europa, compreso il pareggio di bilancio imposto a partire da quest'anno dalla Costituzione. Soprattutto, Berlusconi sa che gli avversari non possono seguirlo sul terreno dell'irresponsabilità: Monti infatti ha detto che quello dell'ex premier è un tentativo di "comprarsi i voti" dei cittadini con i soldi dei buchi di bilancio che proprio lui ha lasciato, una sorta di tentativo di corruzione elettorale, prendendo a schiaffi i sacrifici degli italiani. E Bersani ha parlato di "barzellette da Bengodi" per strizzare l'occhio agli evasori, come la proposta del Cavaliere di un nuovo condono tombale.

Ma la demagogia sull'Imu del Cavaliere cade su un terreno già dissodato dal populismo, abbondantemente arato dall'antipolitica: dunque pronto ad accogliere il seme dell'irresponsabilità nei confronti del futuro governo e del patto fiscale europeo che quel governo dovrà onorare. Se i politici sono tutti uguali e il "vaffa" mortuario di Grillo è la cifra politica della fase che stiamo vivendo, allora perché non puntare il voto sulla riffa berlusconiana e scommettere sull'ennesimo vantaggio privato - lo sconto fiscale - a danno dei conti pubblici? Basta col rigore, basta con l'Europa e magari basta anche con l'euro come dice Berlusconi ammiccando prima di ritrattare. L'Italia può farcela da sola, in fondo si stava meglio quando si stava peggio, nessuno diceva la verità e il governo procedeva nell'inganno ottimista, perché sacrifici e rigore hanno un costo elettorale che il leader populista non può permettersi, innocente e invulnerabile com'è nel cerchio perenne del carisma perfetto.

Due disperazioni rischiano di unirsi: quella politica di Berlusconi, che ha perso tutto compreso l'onore e gioca qualsiasi carta titanica pur di vincere in un campionato a parte, che è quello dell'interdizione e del condizionamento, mandando in stallo il sistema; e quella di cittadini che si sentono senza rappresentanza, soli davanti a tasse troppo alte, impoveriti e indifesi. E si capisce perché.

Ciò che non si capisce è perché la sinistra sia sulla difensiva sul tema delle tasse, come se non fosse evidente a tutti che il fisco è arrivato a livelli eccessivi nel nostro Paese, l'evasione cresce e dunque il tema è per forza di cose centrale nella contesa elettorale. Il Pd dovrebbe affrontarlo a testa alta, all'attacco, nella convinzione che i suoi strumenti culturali e politici possono essere i più adatti ad affrontare l'emergenza e la crisi, se sono capaci come dovrebbero di coniugare rigore ed equità, cioè proprio quel che è mancato a Monti. La questione fiscale deve essere discussa davanti al Paese, spiegando come la tassazione faccia parte di uno scambio civico tra lo Stato e il cittadino, che quando va a votare giudica anche la qualità e la quantità dei servizi forniti dall'amministrazione pubblica in cambio del pagamento delle tasse, in un circuito di andata e ritorno e non di solo prelievo. È questo il "capitale simbolico" che lo Stato accumula con il fisco, insieme con il capitale economico centrale, ed è questo che dà legittimità alla tassazione moderna, a differenza dei gabelli medievali imposti dal sovrano ai sudditi come "dono".

Dentro questo quadro, bisogna ricordare ai cittadini che la tassazione è cresciuta per il malgoverno di Berlusconi, la dissipazione di una maggioranza enorme, l'incapacità di realizzare le riforme promesse, il negazionismo davanti alla crisi più pesante degli ultimi decenni. Bisogna dire con chiarezza che la tassazione è troppo alta, senza lasciare questa carta alla demagogia della destra. E bisogna spiegare che si proverà a ridurla puntando sui redditi più bassi e sul lavoro, con responsabilità e coerenza davanti all'Europa. Non perché l'Europa è un vincolo: ma perché è l'unica scelta di sopravvivenza e di garanzia che il Paese può liberamente fare per il suo futuro.
Chi ci guarda, vede il rischio che la demagogia porti voti a Berlusconi proprio mentre mina le politiche di rigore e dunque la credibilità italiana. Un doppio rischio per l'Italia e per l'Europa, secondo i mercati: che il Cavaliere torni competitivo, dopo essersi rivelato incapace di governare, e che la sua predicazione irresponsabile condizioni l'opinione pubblica e dunque il futuro parlamento e il governo, facendo credere agli italiani che la crisi è passata solo perché elettoralmente conviene a Berlusconi.

Davanti a questo pericolo, si capisce che i mercati vedano, capiscano e reagiscano. Si capisce meno che non facciano altrettanto gli italiani.

(05 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EZIO MAURO. I caimani
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2013, 06:36:10 pm
   
I caimani

di EZIO MAURO

UN PRESUNTO uomo di Stato, che ha avuto l'onore di guidare per tre volte il governo di un Paese democratico, ieri ha organizzato una gazzarra davanti al Tribunale di Milano schierando i deputati e i senatori Pdl contro la magistratura che lo indaga per reati comuni e portandoli addirittura a rumoreggiare di fronte all'aula del processo Ruby. La scena finale resterà nelle memorie peggiori del Paese, con i parlamentari in fila contro lo Stato come dei caimani in versione Lacoste, che purtroppo trasformano in piazza l'Inno di Mameli in una marcia antirepubblicana ed eversiva.

L'ordalia finale di un leader soffocato dalla sventura costruita con le sue stesse mani  -  nella dismisura degli abusi e della corruzione, all'ombra dell'impunità  -  ha travolto infine i sedicenti moderati della destra, cancellandoli in un'omologazione estremista che annulla ogni autonomia di destino per il Pdl, costretto all'identificazione fanatica col destino padronale, nella vita come nella morte politica.

La verità è che non c'è più politica, in questo salto nel cerchio di fuoco che tutto consuma, compresi (per fortuna) i piani di qualche statista per arrivare ad un governo Pd-Pdl. Ma prima ancora, l'avventurismo berlusconiano brucia ogni ruolo istituzionale della destra, qualsiasi condivisione riformista, persino l'agibilità del Parlamento, che infatti Alfano minaccia di abbandonare come protesta per "l'emergenza democratica".

Ci aspettavamo che Napolitano non ricevesse al Colle chi dopo aver chiesto udienza al Quirinale trascina il Parlamento in piazza. Ma dal Capo dello Stato Alfano e Berlusconi impareranno che il Quirinale non è un quarto grado di giudizio. Così come dovranno capire che in democrazia non si porta il potere legislativo in strada contro il potere giudiziario. E soprattutto che la legge è uguale per tutti, anche per chi alza la voce perché non può dire la verità sugli scandali che lo avvolgono: e maschera la sua disperazione politica da prova di forza, trasformando un partito in un bullo collettivo, come se la democrazia fosse una taverna.

(12 marzo 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EZIO MAURO. Rivoluzione a San Pietro
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 03:49:00 pm
Rivoluzione a San Pietro

di EZIO MAURO

Un Papa a sorpresa, venuto dalla fine del mondo quasi a dire basta agli intrighi e ai ricatti italiani della Curia e alla paralisi di governo che ha indebolito la vecchiaia di Benedetto XVI fino alla rinuncia. Ma un Papa che evidentemente la Chiesa preparava da tempo, se è vero che già nel 2005 Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, era uno dei due candidati forti del Conclave, sostenuto dai riformatori che poi lui stesso portò a convergere su Ratzinger, per evitare una scelta più conservatrice. Per due volte a distanza di otto anni, dunque, due Conclavi hanno elaborato la candidatura a Papa del cardinale argentino, e bisogna tener presente che nel frattempo la composizione del Sacro Collegio è cambiata per quasi il 50 per cento. La considerazione di Bergoglio è dunque alta, forte e costante nei vertici della Chiesa universale. Ma questa volta gli scandali vaticani hanno pesato in suo favore.

E hanno chiuso la porta al ritorno di un Papa italiano (cioè a Scola, il vescovo più qualificato e conosciuto) per metter fine a un sistema di potere simbolicamente impersonato dalle figure del Decano del Collegio Cardinalizio e del Camerlengo, Sodano e Bertone, che scadono con la fine della Sede Vacante. L'addio al pontificato di Ratzinger ha dunque lasciato un "segno" visibile nel Conclave. La scelta di successione a Benedetto XVI rappresenta infatti un rovesciamento geografico e culturale del potere curiale vaticano talmente evidente e simbolico da diventare un gesto politico che scuote Roma parlando al mondo. Un gesto di apertura e di speranza che chiude un'epoca e porta il Papa fuori dai Sacri Palazzi, liberandolo dal potere per sperare di ritrovarlo pastore.

Questo significato del Conclave, che ha appreso fino in fondo il "mistero" dell'impotenza coraggiosa di Ratzinger, è stato potenziato ed ampliato dalle primissime mosse del nuovo Papa, ben consapevole fin dal suo apparire sulla Loggia di San Pietro della necessità di una rottura con un mondo e un modello di potere che ha finito per imprigionare se stesso, fino a consumare la stessa azione di Ratzinger, in una sovranità infine esausta perché immobile. Bergoglio infatti nelle sue prime parole non si è mai definito Papa (cioè sovrano e Vicario di Cristo) ma vescovo, quindi pastore, e ha annunciato che il vescovo di Roma e il suo popolo cammineranno insieme.
Un richiamo quasi giovanneo, tanti anni dopo, un conferimento della maestà alla comunità cristiana, una suggestione di collegialità, in quell'invito insistito e convinto  -  prima della benedizione apostolica del Pontefice ai fedeli  -  alla preghiera della piazza e del mondo per il Papa, per non lasciarlo solo, per dargli quella forza che deriva certo da Dio per chi crede, ma anche dalla convinta e fraterna partecipazione del popolo cristiano. Mentre questa preghiera avveniva in silenzio, per la prima volta durante il rito solenne dell'Habemus Papam Jorge Bergoglio ha curvato la maestà papale verso la folla, nell'umiltà di un inchino del Sommo Pontefice che sulla Loggia non si era mai visto.

Tutto questo senza titubanze e cedimenti, ma con la sicurezza spontanea di chi si sente pronto, il sorriso di chi chiede aiuto non per timore, ma per scelta. E la prova più grande di questa umiltà personale unita all'ambizione del cambiamento viene dalla scelta del nome, che nessun Papa aveva mai osato pronunciare per sé come successore di Pietro: Francesco. Un nome che è un progetto e un vincolo per il pontificato, quasi la denuncia programmatica della necessità di un gesto estremo, un ritorno alle origini, al Vangelo, all'Annuncio, alla missione di una Chiesa disincarnata dal potere e dalle sue pompe.

Quasi un punto e a capo, nella scelta di un nome che non ha precedenti nella lunga storia del pontificato, e che suona come una promessa agli ultimi e una minaccia ai potenti. L'indicazione di un Papa che sa di dover camminare tra i lupi, che è pronto a spogliare il Vaticano dei suoi ricchi mantelli, che proverà a rinunciare alle ricchezze occulte dello Ior, che testimonierà col solo risuonare del suo nome nei Sacri Palazzi quel sogno che spinse il frate di Assisi a Roma da Innocenzo III, dopo aver avuto la visione terribile del Laterano  -  sede del Papato  -  che minacciava di crollare disfacendosi.

E' come se il Papa, già anziano nei suoi 76 anni, sentisse di non avere molto tempo di fronte all'irreparabile, la consunzione del ruolo della Chiesa attraverso gli scandali, le lotte di potere, i corvi, i peccati di Curia contro il sesto e il settimo comandamento, la rete di ricatti che da tutto ciò è cresciuta, avviluppando il visibile e l'invisibile della potestà vaticana e deturpandone il volto, come dice l'ultima drammatica denuncia di Ratzinger dopo la rinuncia. Papa Francesco potrà essere soltanto un uomo di rottura con questo viluppo di bassi poteri. Nel segno della preghiera come affidamento, della sobrietà come obbligo di coerenza coi valori di fede, della povertà come scelta. Quella croce semplice, di metallo su una veste tutta bianca era già la conferma di uno stile diverso anche per il Capo della Chiesa cattolica. In coerenza con la predicazione pratica del vescovo di Buenos Aires, ortodosso e fermo nella dottrina (la fede in Cristo come "alleanza" non solo "informativa ma performativa", perché non è un semplice annuncio, ma un cambiamento di tutta la vita), rivoluzionario nella scelta di stare dalla parte degli ultimi, dei più poveri, degli sconfitti e degli "schiavi", nella convinzione che su questo si svolgerà il Giudizio nell'ultimo giorno.

Questo avvento di pontificato che ribalta evidentemente la geopolitica eurocentrica della Chiesa, probabilmente grazie ad una convergenza su Bergoglio dei cardinali americani, avviene dunque nella scelta di un nome che è una profezia di cambiamento, come se dopo l'immediata preghiera con la piazza per Joseph Ratzinger il nuovo pontefice avesse fretta di voltare pagina. Il rinnovamento ha naturalmente un costo. Papa Francesco dovrà capire che nei suoi doveri universali c'è anche quello della piena trasparenza sui suoi rapporti con la dittatura militare argentina, sugli scandali di compromissione che lo hanno chiamato in causa come gesuita in vicende mai chiarite. Dovrà farlo per avere le mani libere. E poi, non potrà tornare indietro rispetto alla novità che rappresenta, al mondo finito che lo ha preceduto, alle necessità di rinnovamento dell'istituzione cristiana, al rapporto tra l'universalità della Chiesa e la chiusura del Vaticano. Al peso, al dovere e all'obbligo che deriva dalla scelta di chiamarsi Francesco.

© Riproduzione riservata (14 marzo 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/esteri/conclave-papa-elezioni2013/2013/03/14/news/rivoluzione_a_san_pietro-54521580/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Un nome da offrire al Paese
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2013, 03:00:01 pm
Un nome da offrire al Paese

di EZIO MAURO

   
COME succede a chi sta fermo, il Pd rischia di importare all'interno del suo recinto la crisi che paralizza un sistema impazzito. Per ora le polemiche - furibonda quella tra Renzi e Finocchiaro - dividono il gruppo dirigente. Ma se il Pd non sceglie un nome per il Quirinale, subendo l'iniziativa e le preferenze di Grillo e di Berlusconi, il gruppo dirigente rischia di dividersi dalla sua opinione pubblica di riferimento e il partito di avere un ruolo gregario nella grande partita per il Colle.

Scegliere è complicato perché il Pd ha il diritto-dovere d'iniziativa, guidando i due gruppi parlamentari più forti, ma non sa sciogliere tre nodi decisivi: vuole il voto anticipato oppure no? Vuole ancora il governo Bersani o è pronto a soluzioni diverse? Soprattutto, vuole giocare le carte condivise per il Quirinale nella metà campo col Pdl o in quella con i grillini? Su ognuna di queste opzioni, dopo l'insuccesso elettorale e un mese di logoramento sul governo impossibile, il partito, che sta già bollendo ad alta temperatura, rischia di esplodere.

C'è una sola strada per riprendere l'iniziativa, ed è una strada maestra, sia dentro il Pd che fuori. Bersani scelga un nome degno, con sicura sensibilità istituzionale e costituzionale, fuori dalla nomenklatura di partito. Chieda subito ai gruppi parlamentari di sostenere la scelta all'unanimità. Poi lo presenti al Paese, spiengado le ragioni e le caratteristiche per cui quel nome può essere di garanzia per tutte le culture politiche presenti in Parlamento: tutte, non una in particolare.

E con tutti a questo punto può partire il confronto. Con le carte in tavola, alla luce del sole e i cittadini che giudicano. Senza bisogno dello streaming.

© Riproduzione riservata (16 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/16/news/un_nome_da_offrire_al_paese-56730565/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. Dopo il naufragio
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:38:03 pm
Dopo il naufragio

di EZIO MAURO

PRIMA di tutto il Paese. Ma il Paese vive anche delle istituzioni che lo reggono e garantiscono la funzionalità quotidiana della democrazia.
Oggi le istituzioni sono in panne, e ieri si è clamorosamente capito perché. Non solo manca una maggioranza e manca un governo, ma il Parlamento è incapace di eleggere il capo dello Stato per lo spappolamento drammatico della sinistra. Quel perno non c'è più e per questo sul palazzo di Montecitorio sventola bandiera bianca. Il sistema è bloccato. Ma bisogna pur dire che l'epicentro della crisi è il Partito democratico. In pochi giorni il Pd ha travolto nella battaglia per il Quirinale un uomo antico e rispettabile come Franco Marini, gettato nella mischia senza convinzione e senza preparazione, come minimo comun denominatore di un'intesa con Berlusconi avversata e respinta dalla base del partito.

Ieri il cannibalismo cieco dei parlamentari ha bruciato addirittura Romano Prodi, padre dell'Ulivo, l'unico quadro dirigente europeo di cui dispone oggi la sinistra. Ribellione, mancanza di guida, cupio dissolvi, dipendenza dal flusso dei tweet più che da qualche corrente di pensiero. Le spiegazioni sono tutte valide e tutte stupefacenti, salvo una: la mediocrità di un gruppo dirigente e di una classe parlamentare che non risponde più a niente, nemmeno all'istinto di sopravvivenza.

Le dimissioni di Bersani sono doverose. Ma intanto tutti, segretario, fondatori e rottamatori devono essere all'altezza dell'emergenza: propongano un nome fuori dalla nomenklatura esausta del partito, scegliendo uomini che siano già un segno dell'indispensabile rifondazione della sinistra. Poi chiedano un atto di responsabilità al Parlamento e prima di tutto al partito, che da perno di una democrazia bipolare sta rischiando di diventare uno strumento inservibile della democrazia italiana. Un'altra sinistra è possibile, nell'interesse del Paese, a partire da questo naufragio.

© Riproduzione riservata (20 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/20/news/naufragio_pd-57056120/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Il bene del paese
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2013, 06:50:05 pm
Il bene del paese

di EZIO MAURO


Il Paese prima di tutto, avevamo detto qualche giorno fa. Oggi possiamo aggiungere: in particolare nei momenti di difficoltà. Ma dove sta il bene del Paese? Proviamo a ragionare, se è ancora possibile fare una discussione serena anche con chi non si riconosce nel pensiero dominante di questa primavera italiana 2013. O almeno col tentativo di usare l'emergenza politica per un cambio di stagione generale e definitivo, che trucchi i conti della piccola storia italiana di questi anni. Non voltando pagina, perché questo accade spesso. Ma riscrivendola.

Tre punti mi sembrano non controversi. 1) - L'Italia è in difficoltà, la crisi dell'economia reale sta sopravanzando il rischio finanziario rivelandosi in tutta la sua gravità per le aziende, per i lavoratori, per la coesione sociale. 2) -  Un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi. La Spagna proprio in questi giorni ha negoziato con Bruxelles due anni in più di tempo per il rientro del deficit, dimostrando che un esecutivo con conti e programmi alla mano può farsi ascoltare in Europa fino a bucare il muro dell'austerity dogmatica. 3) - Dopo aver sfiorato il default finanziario, il sistema ha rischiato il default istituzionale.

E questo perché le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo, e addirittura non sono riuscite a dare forma all'istituzione suprema, la presidenza della Repubblica. Da qui il corto-circuito che ha portato tre partiti a chiedere a Napolitano di ricandidarsi perché il parlamento era bloccato, accettando nel contempo la richiesta del capo dello Stato di impegnarsi a far nascere un governo, due mesi dopo il voto. Quindi un governo di necessità, una situazione estrema, una soluzione eccezionale fortemente contraddittoria, perché trova unite questa destra e questa sinistra, che si sono contrapposte duramente per vent'anni.

Com'è chiaro, non sono le responsabilità che devono spaventare. Ci sono parecchie cose che non solo si possono, ma si devono fare insieme tra forze politiche molto diverse (Scalfari ha ricordato Togliatti) e riguardano le regole del gioco e le sue varie forme, quindi la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto, il taglio dei costi della politica: tutte misure che potrebbero ridare efficienza alla macchina democratica, ma soprattutto potrebbero avviare un recupero di fiducia nel rapporto in crisi tra partiti, istituzioni e cittadini. Anzi, le politiche di cambiamento e di novità (come la scelta da parte di Enrico Letta del ministro per l'Integrazione Cecile Kyenge) sono l'unica strada per governare la contraddizione politica di questa maggioranza, provare a superarla nei fatti e guardare avanti, ricordando che la premiership viene dal Partito democratico e deve averne il segno.

Il punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un'alleanza di emergenza come uno stato d'animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un'opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L'operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista - quello della destra, con le sue convenienze - come fondamento oggettivo della nuova fase. È evidente a tutti che Berlusconi, giunto terzo alle elezioni, arriva al tavolo delle grandi intese per scelta, con un'opinione pubblica che si sente premiata, una classe dirigente che appare miracolata. Dall'altra parte, il Pd - sconfitto politicamente nel momento in cui prevaleva numericamente - arriva alla condivisione di governo per obbligo, con un'opinione pubblica contraria e frastornata, un gruppo dirigente disorientato e diviso. La sinistra vuole governare per fare poche riforme necessarie, affrontare la crisi del lavoro, rinegoziare la stretta dell'austerity con l'Europa e andare al voto. La destra vuole rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi, vuole istituzionalizzare la carica "rivoluzionaria" che aveva in passato portandola dentro il sistema, vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo da padre della Repubblica: senatore a vita, o presidente della convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finche servirà a questo scopo.

In sostanza è come se la destra dicesse al sistema: l'anomalia berlusconiana (composta dalle leggi ad personam e dal rifiuto di accettare il giudizio dei tribunali, dal conflitto di interessi, dallo strapotere economico e mediatico, da una cultura populista che intende il potere eletto dal popolo sovraordinato rispetto agli altri poteri, dunque insofferente per natura speciale ad ogni controllo) è troppo grande e troppo permanente per essere risolta. Il sistema è stremato per lo scontro senza soluzione con la presenza fissa di questa anomalia. Dunque al sistema conviene costituzionalizzarla, introiettandola: ne uscirà in qualche misura sfigurato ma definitivamente pacificato, perché a quel punto tutto troverà una sua nuova deforme coerenza. Per questo, la grande coalizione è un'occasione irripetibile, guai a non sfruttarla ben al di là del governo.

Per arrivare fin qui, al vero scopo, è necessario lavorare sul "contesto". Ingigantire l'aura di questo governo, parlando di "pacificazione", di uscita dalla "guerra civile". Bisogna cioè creare un senso comune accettato che ricrei le basi del confronto politico e rinneghi la lettura di questo ventennio, sia la lettura di destra che quella di sinistra (quella centrista o liberale non conta, perché è sempre al traino della cultura dominante in quel momento). E il senso comune è quello della grande omologazione nazionale, dove si scopre all'improvviso che destra e sinistra sono uguali, le vicende di questi ultimi anni non contano più per gli uni e per gli altri, non hanno lasciato segni nella storia, nella cultura istituzionale, nella piccola vicenda dei partiti, nel loro rapporto che pure è stato per lunghi tratti vivo, vitale e addirittura vivace con le opinioni pubbliche di base.

Ne discendono norme nuove di comportamento, inviti insistenti. Valga per tutti "il principio di realtà", quindi non le culture di riferimento, gli interessi legittimi che si rappresentano, addirittura gli ideali diversi. No, conta solo la "realtà", cioè il dato di oggi che prevale sul futuro e sulla storia italiana di questi anni. La politica si conformi. I giornali cambino addirittura tono, abbassando la voce, come se ci fosse un tono prefissato secondo le stagioni di governo, e i toni non fossero ogni volta la reazione a precise azioni dei protagonisti, dichiarazioni, proclami. Il risultato da ottenere è evidente: una grande amnistia culturale deve scendere sul ventennio, non lo si deve più ricordare per non giudicarlo, tutto è alle spalle, tutto si confonde, gli statisti non sono a targhe alterne ma in servizio permanente effettivo.

E qui, il nuovo senso comune ben coltivato porterà all'esito finale di tutta l'operazione: la fine del giudizio penale ancora in corso per definitiva autoconsunzione, in quanto il nuovo clima dominante di conciliazione governante prevarrà sul clima che pretendeva giustizia, o sosteneva per anni la pretesa di volere addirittura la legge uguale per tutti. Giuliano Ferrara lo ha detto lucidamente: la strada maestra per Berlusconi è spingere per la grande politica, "obliterando in questo modo ogni valore morale delle condanne che lo riguardano". Vale a dire che il nuovo senso comune spodesterà quello precedente, vivo per anni, maggioritario o di minoranza secondo le fase, e tuttavia vivo. Alla fine si presenterà tutto questo come una vittoria della politica, mentre è un'altra cosa. L'abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica si estenderà prosaicamente alla salute privata di qualcuno. E quando questo clima sarà instaurato, potranno venire come al solito le norme ad personam, visto che a quel punto non sembreranno più un vulnus, ma un esito naturale e accettato.

Nella lettura a reti unificate che i giornali danno della grande intesa, si vedono tutti i segni di questa costruzione complessa che si richiama alla "realtà", ma che configura un'iper-realtà politica di comodo, addirittura ideologica. È una lettura dalla quale ci discostiamo. Si possono - si devono - fare le cose che servono al Paese, ma salvando il vero principio di realtà, che consiste nel preservare le diverse "visioni sostantive" del Paese, le identità distinte di destra e sinistra, le letture degli ultimi vent'anni che sono state fatte in forme tutt'affatto difformi nei due campi, le due diverse idee dell'Italia. Qui c'è la base di un'onesta responsabilità condivisa, proprio perché qui c'è la coscienza dei limiti dell'emergenza, il rispetto delle pubbliche opinioni, la consapevolezza del fatto che il Paese ha bisogno di una maggioranza e di una minoranza, a cui si deve tornare appena i nodi principali sono stati sciolti. Qui, nelle differenze occidentali, nel rispetto onesto delle diversità, sta la base del futuro scontro elettorale, della ripartenza del Paese e del confronto democratico. Ecco perché tutto questo ci sta a cuore. Perché non tutto è emergenza, e nelle differenze culturali sta il bene del Paese.

(30 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/30/news/il_bene_del_paese-57743153/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Il fronte occidentale
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2013, 11:15:02 am
Il fronte occidentale

di EZIO MAURO

Una mano rossa di sangue è quel che ci resta dell'assalto di Londra, l'ultima icona del terrorismo mutante. Nell'altra mano c'è il machete che ha appena tagliato il collo a un giovane di 25 anni, colpevole di essere soldato semplice, e di indossare la maglietta con la scritta "Help for Heroes". La decapitazione spiega il sangue sulle mani del terrorista. Subito dopo è corso verso una donna che dall'altro lato della strada lo stava filmando, si è messo in posa, e ha urlato la sua condanna dentro quel telefonino che l'avrebbe subito portata ovunque nel mondo, moltiplicandola: "L'unica ragione di questo gesto è che ci sono musulmani che muoiono ogni giorno. Questo soldato è occhio per occhio, dente per dente. Chiedo scusa alle donne che hanno visto tutto questo, ma nella nostra terra le donne vi assistono tutti i giorni". Una pausa, e poi la minaccia che vuole essere eterna come una maledizione: "Non sarete mai al sicuro".

Adesso proviamo a voltarci e a guardare dall'altra parte del telefonino che sta filmando. Un'aiuola, un marciapiede e un cassonetto, un palo della luce, una casa, un balcone con tre camicie stese ad asciugare, un cartello stradale a triangolo con la figura di due bambini per indicare alle auto di andar piano, in vicinanza di una scuola. È il paesaggio quotidiano delle nostre vite ordinarie: perché dall'altra parte ci siamo noi, la combinazione casuale delle esistenze che si incrociano per strada.

Che si fermano ai semafori, si mettono in coda, secondo le semplici regole che ci diamo vivendo, per scambiarci garanzie reciproche mentre usciamo di casa, portiamo i nostri figli all'asilo, riuniamo i nostri parlamenti, preghiamo o ragioniamo da soli. È il normale paesaggio della democrazia nelle nostre periferie, quello che fa da sfondo agli attentati di Boston, di Tolosa lo scorso anno, di Madrid nel 2004, di Londra nel 2005. Sempre uguale, tanto che il bersaglio è unico e costante dovunque i terroristi colpiscano. Sempre lo stesso, perché è il canone occidentale.

I due ragazzi assassini di Londra lo conoscono bene: ci sono nati, e poi cresciuti dentro. Nascere in Inghilterra vuol dire essere europei (uno di origine nigeriana), anzi cittadini britannici. Crescere nel quartiere di Woolwich significa fare le scuole inglesi, arrivare all'università di Greenwich, vedere i nostri film, conoscere le canzoni che cantano tutti, corteggiare le ragazze del quartiere e del pub, la sera, andare alla partita dell'Arsenal, cercare un lavoro come tutti, dentro la crisi che riguarda ognuno di noi. Cioè usare la libertà quotidiana che nasce dalla democrazia materiale di ogni giorno, ci fa sentire cittadini ad alta o bassa intensità, ma con i diritti, le istituzioni, le difficoltà e le opportunità che nascono da questo sistema di vita che consideriamo civiltà.

A un certo punto (dieci anni fa? Un anno fa?) i due ragazzi scartano. L'offerta civile, la proposta di cittadinanza che viene dal nostro mondo non li attira più, li delude, non riempie la loro vita. La respingono. Escono dal contesto in cui noi crediamo, in cui viviamo, accettandolo con tutto il carico inevitabile delle delusioni e delle disperazioni democratiche. Noi parliamo contro la politica, lo Stato, chi ci rappresenta e dovrebbe tutelare i nostri diritti. Ma stiamo dentro il contesto, anche se vorremmo cambiarlo sappiamo di esserne parte. Loro si portano fuori. Lo guardano come un nemico. Poco per volta il mondo in cui vivono, i suoi valori e i suoi ideali diventa un mondo da abbattere. Si convertono all'Islam (erano cristiani) quando hanno già scelto l'islamismo. Quindi decidono di entrare dentro un ideologismo politico-culturale che strumentalizza una religione, e la scaglia contro la democrazia, contro l'Occidente.

Le guerre occidentali sono probabilmente il detonatore. L'Afghanistan è stata la risposta all'11 settembre? Per loro, per i due ragazzi, la logica dello Stato moderno, il concetto di monopolio della forza, la sicurezza nazionale, non contano nulla. Rifiutano il concetto della deliberazione democratica dei parlamenti, per decisioni giuste o sbagliate che nella procedura della democrazia si possono sempre correggere, o cambiare. No: è quella procedura che è un inganno, quel parlamento che è un nemico, la democrazia che è il male. È il sistema di vita dell'Occidente col suo cuore freddo che va abbattuto, perché viene vissuto come un'ideologia di sopraffazione, di false libertà, di adorazione pagana dei diritti, con la politica che vuole soppiantare la vera fede, con la democrazia che, dopo aver prevalso nei conti finali del Novecento, crede di essere diventata un credo universale e accettato, addirittura l'unica religione superstite.

E invece la democrazia per gli islamisti è semplicemente il sistema di comando di una società imperiale e corrotta, da abbattere.
I due ragazzi di Woolwich l'hanno sperimentata, poi l'hanno rifiutata. Adesso la prendono d'assalto, per tagliarle la gola. Non sono invasati, con la loro intera vita protesa ad un gesto che, una volta consumato, li annichilisce svuotandoli perché tutto è compiuto. No. Il gesto non ha nulla del "sacrificio", o del sacrilegio, e infatti dopo l'uccisione il gesto continua, diventa politico, anzi ideologico, perché si preoccupa di fissare il significato, universalizzandolo in una minaccia perenne: "Giuriamo nel nome sommo di Allah che non smetteremo mai di combattervi". Tutti, dunque chiunque.

Chiedono di essere fotografati, cercano chi li riprenda col cellulare per poter parlare al mondo. Il terrorista islamista che chiede al telefonino con la mela (simbolo occidentale supremo del contemporaneo) di inquadrare la sua minaccia alle democrazie, appena dopo aver invocato Allah mentre uccideva, è un testa-coda perfetto. È la metafora di come si può "usare" il nostro mondo vivendoci dentro per combatterlo, ribaltandone i valori fino ad ucciderli nella pubblica piazza di una qualunque periferia europea. Facilitati in questo dal nostro (parlo di noi europei, di noi occidentali) essere soggetti miscredenti della democrazia, fragili, insicuri, soprattutto infedeli.
 
Ma c'è qualcosa di più, che naturalmente ci riguarda. Per uccidere un uomo indifeso che cammina libero in una città aperta in tempo di pace, non c'è bisogno dell'organizzazione frammentata di Al Qaeda, di cellule compartimentate, di strategie complesse. Basta il singolo individuo che sceglie di diventare terrorista, magari con un compagno: soprattutto se l'attentato avviene sotto la linea d'ombra del pensiero occidentale, fuori dal calcolo cartesiano di costi e benefici per ogni azione, senza la predisposizione di una via di fuga e di un'uscita di sicurezza perché non ci sarà salvezza, in quanto il gesto è il significato, l'atto omicida è la politica, la pubblica uccisione e le sue ragioni sono l'ideologia. In questo senso la decapitazione di Londra è anche un suicidio, perché l'attentatore non scappa dopo l'assassinio ma anzi si offre e si rivela, vuole che il suo corpo - la sua mano destra - si esibiscano e spieghino tutto, diventando il simbolo di ogni cosa: la biografia del terrorista, la sua fede, il suo programma di morte eterna che qualcuno da qualche parte in qualche futuro riprenderà.

Qui e qui soltanto (ma basta e avanza per riflettere) c'è un punto di congiunzione con il suicidio ribelle dello storico di estrema destra francese Dominique Venner, che si è sparato martedì dentro la cattedrale di Notre Dame. Potremmo dire che i tre protagonisti così diversi e opposti (i due ragazzi di Londra, il professore di Parigi) erano dominati per ragioni contrarie da un'ossessione comune, l'Occidente. Lo dicono, se li vogliamo ascoltare, se sappiamo capire. Gli islamisti inglesi temono il suo contagio nichilista e dominatore, il francese teme al contrario il suo declino finale come un sistema di credenze esausto e consumato, fino alla sostituzione che ridurrà l'Europa senza più anima ad una pura entità geografica.

Ma il punto non è qui. È piuttosto nell'espressione estrema di Venner, che varrebbe anche nella periferia di Londra, perfettamente uguale: per scuotere le coscienze anestetizzate servono oggi gesti nuovi, spettacolari e "simbolici". Ecco la parola. Il corpo, la persona, diventa simbolo, ma soprattutto il singolo quando è sopraffatto da problemi che non riesce a dominare non cerca più (non trova più) risposte collettive a problemi individuali.
È la dichiarazione di morte della politica, se ci pensiamo bene. Perché significa che sono saltate tutte le reti che dal basso crescono per incanalare in una dimensione pubblica - di gruppo o di categoria o di interesse, comunque in una dimensione ampia, addirittura comune - i disagi, le speranze e i tormenti privati. Quando non c'è più questo sistema fatto di connessioni, di riconoscimenti, di relazioni e di rappresentanza non resta altro che la trasformazione di ciò che sentiamo e soffriamo in "evento", dunque spettacolarizzato, quindi per forza simbolico.
 
Ecco perché sarebbe bene che l'Occidente sotto attacco avesse nozione di sé, mentre soltanto chi vuole abbatterlo sembra sapere oggi cos'è.
Malato e malandato come le nostre democrazie, tuttavia è come loro bersaglio e va difeso. Cominciando col credere nella politica come strumento della democrazia: e pretendere che funzioni, cambiando finalmente se stessa e tornando a rappresentarci.

(24 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/05/24/news/fronte_occidentale-59503452/?ref=HREC1-6


Titolo: EZIO MAURO. Nessuna scorciatoia
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2013, 04:48:35 pm
Nessuna scorciatoia

di EZIO MAURO


Quando non siamo capaci di usare uno strumento collaudato, ottenendo i risultati previsti, la colpa è nostra, non dello strumento. Prima di gettarlo via, dovremmo provare a cambiare i nostri metodi e la nostra mentalità, tornando a un corretto utilizzo delle regole e delle tecniche. Invece il sistema politico, dopo la clamorosa prova di impotenza dell'elezione presidenziale dominata dai franchi tiratori del Pd, vuole cambiare le regole, passando al presidenzialismo con il Capo dello Stato eletto dal popolo. Come se il fallimento cui abbiamo assistito increduli fosse dovuto alle procedure, e non alla mancanza di una politica degna di questo nome.

Il presidenzialismo (o meglio il semi-presidenzialismo, perché di questo si tratta) non è in sé un tabù.
È la vocazione e la qualificazione costituente di questi partiti che lascia molti dubbi.

Si mette mano alla Costituzione senza un disegno generale e un sentimento dello Stato condivisi, cercando in tal modo di far durare il governo per ragioni esterne, di semplificare i meccanismi istituzionali nella direzione del leaderismo carismatico, soprattutto di creare un'ideologia artificiale di riferimento ad una maggioranza anomala. In più, si procede attraverso un meccanismo di scambio tra poteri, non attraverso la ricerca di una comune cultura repubblicana, capace di adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla.

Prima che sia tardi, ricordiamo che questo sistema ha dato al Paese presidenti come Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Einaudi e Pertini.
E non dimentichiamo che la scorciatoia presidenzialista sembra una corsia privilegiata per i due opposti populismi che occupano in questa fase la scena. Attenzione, dunque, a mettere le mani sulla Costituzione cercando nelle sue modifiche quei rimedi che la politica dovrebbe trovare in se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini senza quell'adulazione del popolo che si chiama demagogia.

(03 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/03/news/nessuna_scorciatoia-60228088/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Berlusconi condannato, l'abuso e la dismisura
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2013, 08:06:10 am
Berlusconi condannato, l'abuso e la dismisura

C'è un metro di giudizio che viene prima della sentenza.

Si basa su due elementi politici. La Consulta ha fatto il suo dovere ricevendo in cambio accuse vergognose.

E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo


di EZIO MAURO


Un'Italia compiacente e intimidita si chiede che cosa succederà adesso, dopo la sentenza sul caso Ruby del Tribunale di Milano che condanna in primo grado Silvio Berlusconi a sette anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nessuno si pone la vera domanda: cos'è successo prima, per arrivare ad una sentenza di questo genere? Cos'è accaduto davvero negli ultimi vent'anni in questo sciagurato Paese, nell'ombra di un potere smisurato e fuori da ogni controllo, che concepiva se stesso come onnipotente ed eterno? E com'è potuto accadere, tutto ciò, in mezzo all'Europa e agli anni Duemila?

La condanna sanziona infatti due reati molto gravi - concussione e prostituzione minorile - sulla base del codice penale, dopo un processo di due anni e due mesi, con più di 50 pubbliche udienze. L'accusa ha dunque avuto ragione, vedendo un comportamento criminale nel tentativo di Silvio Berlusconi di sottrarre una minorenne accusata di furto al controllo della Questura, imponendo ai funzionari la sua autorità di presidente del Consiglio, addirittura con l'invenzione di uno scandalo internazionale, perché Ruby era "la nipote di Mubarak".

La difesa sostiene che non ci sono vittime per i reati ipotizzati, non ci sono prove e c'è al contrario la criminalizzazione di uno stile di vita e di comportamenti privati (le cosiddette "cene eleganti"), distorti da una visione voyeuristica
e moralista che li ha abusivamente trasformati in crimine, fino alla sanzione di un Tribunale prevenuto, anche perché composto da tre donne.

Io credo in realtà che ci sia un metro di giudizio che viene prima della condanna e non ha nulla a che fare con il moralismo. Si basa su due elementi che Giuseppe D'Avanzo quando rivelò questo scandalo richiamò più volte - da solo e ostinatamente - sulle pagine di "Repubblica". Sono la dismisura e l'abuso di potere. Di questo si tratta, e cioè di due categorie politiche, pubbliche, e impongono un giudizio politico per un leader politico che nel periodo in cui è scoppiato il caso Ruby aveva anche una responsabilità istituzionale di primissimo piano, come capo del governo italiano. "La questione - scriveva D'Avanzo - non ha nulla a che fare con il giudizio morale, bensì con la responsabilità politica. Questo progressivo disvelamento del disordine in cui si muove il premier e della sua fragilità privata ripropone la debolezza del Cavaliere, tema che interpella la credibilità delle istituzioni", perché tutto ciò "rende vulnerabile la sua funzione pubblica, così come le sue ossessioni personali possono sottoporlo a pressioni incontrollabili".

La dismisura dunque come cifra dell'eccesso di comando, grado supremo della sovranità carismatica, con il voto che cancella ogni macchia e supera ogni limite, rendendo inutile ogni domanda, qualsiasi dubbio, qualunque dovere di rendiconto. E l'abuso di potere come forma politica di quella sovranità sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Perché nel sistema berlusconiano, dice D'Avanzo, "il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici, senza scrupoli e apertamente. Con l'intervento a favore di Ruby quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo pubblica finanche la sfera privatissima dell'Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Nell'infelice Italia invece l'abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica".

Questo è ciò che ci interessa. Il disvelamento clamoroso di comportamenti privati di un uomo politico che imbarazzano le istituzioni e addirittura le espongono al ricatto, e spingono quel leader ad alzare la posta dell'abuso, imprigionandosi ogni volta di più in una rete di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi: fino al momento in cui si avvera la profezia di Veronica Lario sul "ciarpame senza pudore" delle "vergini offerte al Drago", si costruisce un castello di menzogne sui rapporti con la minorenne Noemi, si soffoca nel taglieggiamento incrociato dei profittatori e mezzani Lavitola e Tarantini, e infine si inciampa nel codice penale sul caso Ruby, perché qualcosa di inconfessabile spinge il premier a strappare quella ragazza dalla Questura, affidandola ad una vedette del bunga-bunga spacciata per "consigliere ministeriale", per scaricarla subito dopo da una prostituta brasiliana.

Si capisce che questo processo milanese, costruito sull'inchiesta di Ilda Boccassini, sia stato vissuto da Berlusconi come la madre di tutte le accuse. L'ex premier nei due anni del dibattimento ha potuto giocare tutte le carte della sua difesa, compreso lo straordinario peso mediatico di un leader politico che ha invocato "legittimi impedimenti" ogni volta che ha potuto spostando ad hoc persino le sedute del Consiglio dei ministri, e ha addirittura imbastito due serate di gran teatro televisivo (una prima della requisitoria, l'altra prima della sentenza) sulle reti di sua proprietà con una sceneggiatura che sembrava anch'essa di sua proprietà, per parlare direttamente alla pubblica opinione sanzionando in anticipo la propria innocenza.

Questo "concerto" aveva da qualche mese una musica di fondo: la "pacificazione", che è il concetto in cui l'egemonia culturale berlusconiana tenta di trasformare la ragione sociale del governo Letta, nato dall'emergenza e dalla necessità, e dunque senza radice e cultura ideologica, com'è naturale per un esecutivo che tiene insieme per un breve periodo gli opposti, cioè destra e sinistra. Questa necessità, e questa urgenza, per il Pdl e per i suoi cantori sono diventate invece qualcosa di diverso, quella "pacificazione" che dovrebbe chiudere i conti con il passato, sacralizzare Berlusconi come punto di riferimento istituzionale del nuovo quadro politico e del nuovo clima, farlo senatore a vita o vertice di un'improvvisata Costituente, in modo da garantirgli un salvacondotto definitivo.

Praticamente, è la proposta di prendere atto che lo scontro tra la legalità delle norme e delle regole e la legittimità berlusconiana derivata dal voto popolare sta sfibrando il sistema senza un esito possibile. Dunque il sistema costituzionalizzi l'anomalia berlusconiana (reati, conflitti d'interesse, leggi ad personam, strapotere economico e mediatico) e la introietti: ne risulterà sfigurato ma infine pacificato - appunto - perché nel nuovo ordine tutto troverà una sua deforme coerenza.

L'egemonia culturale crea senso comune, che in Italia si spaccia per buon senso. E dunque la destra pensava che il "clima" avrebbe prima addomesticato la Consulta, chiamata alla pronuncia definitiva sul legittimo impedimento che avrebbe ucciso il processo Mediaset, dove l'ex premier è già stato condannato a quattro anni. Poi l'"atmosfera" avrebbe dovuto contagiare il Tribunale di Milano, già avvertito fisicamente del cambio di clima dalla manifestazione dei parlamentari Pdl sul suo piazzale e nei corridoi. Infine la "pacificazione" dovrebbe salire le scale della Cassazione, per il giudizio Mediaset, sfiorare il Colle che ieri Brunetta chiamava in causa dopo aver definito la sentenza "atto eversivo", bussare alla porta di Enrico Letta (che ha già detto di no) e soprattutto del Parlamento, visti i tanti vagoni fantasma che aspettano nell'ombra delle stazioni morte il treno del decreto svuota-carceri, pronti ad assaltarlo con il loro carico di misure salva-premier, dalle norme sull'interdizione dai pubblici uffici fino all'amnistia, generosamente suggerita dai montiani. Il disegno berlusconiano prevede colpi di mano e maggioranze estemporanee, col concorso magari di quei parlamentari cannibali del Pd che nel voto segreto hanno già dimostrato di essere buoni a nulla e capaci di tutto.

Da ieri tutto questo è più difficile. La Consulta ha fatto il suo dovere, ricevendo in cambio accuse vergognose. E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo - che è il risultato più importante - assicurando giustizia e uguaglianza del trattamento dei cittadini davanti alla legge nonostante le intimidazioni preventive. Nella sentenza c'è un giudizio di condanna durissimo, per due reati molto gravi, soprattutto per un uomo di Stato che ha rappresentato le istituzioni. Non solo: il Tribunale ha trasmesso gli atti che riguardano 32 testimoni alla Procura, perché valuti se hanno reso falsa testimonianza in dibattimento. Sono ragazze "olgettine", a libro paga del Cavaliere, amici suoi e stretti collaboratori, funzionari della Questura come Giorgia Iafrate. Con questa decisione, il Tribunale sembra convinto di aver individuato una vera e propria rete di organizzazione della falsa testimonianza di gruppo. Sarà la Procura a valutare se è così e chi è l'organizzatore, mentre è già chiaro che il beneficiario è Berlusconi. L'influenza economica, l'abuso di potere potrebbero arrivare fin qui.

Restano le conseguenze politiche. La più netta, la più chiara, sarebbe il ritiro di Berlusconi dalla politica, come accadrebbe dovunque. Ma in Italia non accadrà. La politica è il vero scudo del Cavaliere. E il governo, con la sua maggioranza di contraddizione, è l'ultimo tavolo dove cercherà di trattare, assicurando qualsiasi cosa (la durata dell'esecutivo fino alla fine della legislatura, la personale rinuncia a candidarsi alla Premiership) in cambio di un aiuto sottobanco. Altrimenti, salterà il banco, e dopo la breve parentesi da statista, il Cavaliere tornerà in piazza, incendiandola. Perché il populismo ha questa concezione dello Stato: o lo si comanda o lo si combatte, nient'altro.

(25 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/25/news/abuso_dismisura-61793183/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Dimissioni, subito
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2013, 06:17:16 pm

Dimissioni, subito

di EZIO MAURO


Manca soltanto un tripode con un catino pieno d'acqua  -  come per Ponzio Pilato  -  in cui lavarsi pubblicamente le mani sul piazzale del Viminale o della Farnesina: sarebbe l'ultimo atto, purtroppo coerente, della vergognosa figura in cui i ministri Alfano e Bonino hanno sprofondato l'Italia con il caso Ablyazov. La moglie e la figlia del dissidente kazako vengono espulse dall'Italia con una maxioperazione di polizia e rimpatriate a forza su un aereo privato per essere riconsegnate al pieno controllo e al sicuro ricatto di Nazarbaev. Un satrapo che dall'età sovietica, reprimendo il dissenso, guida quel Paese e le ricchezze oligarchiche del gas, che gli garantiscono amicizie e complicità interessate da parte dei più spregiudicati leader occidentali, con il putiniano Berlusconi naturalmente in prima fila.

Basterebbero questa sequenza e questo scenario per imbarazzare qualsiasi governo democratico e arrivare subito alla denuncia di una chiara responsabilità per quanto è avvenuto, con le inevitabili conseguenze. Ma c'è di più. Alfano, vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno, ha pubblicamente dichiarato che non sapeva nulla di una vicenda che ha coinvolto 40 uomini in assetto anti-sommossa, il dipartimento di Pubblica Sicurezza, la questura di Roma, il vertice  -  vacante  -  della polizia. Un ministro che non è a conoscenza di un'operazione del genere e non controlla le polizie è insieme responsabile di tutto e buono a nulla: deve dunque dimettersi.

C'è ancora di più. Come ha accertato Repubblica, l'operazione è partita da un contatto tra l'ambasciatore kazako a Roma e il capo di Gabinetto del Viminale che ha innescato l'operatività della polizia. Se Alfano era il regista del contatto, o se ne è stato informato, deve dimettersi perché tutto riporta a lui. Se davvero non sapeva, deve dimettersi perché evidentemente la sede è vacante, le burocrazie di sicurezza spadroneggiano ignorando i punti di crisi internazionale, il Paese non è garantito.

Quanto a Bonino, la sua storia è contro il suo presente. Se oggi fosse una semplice dirigente radicale, sempre mobilitata più di chiunque per i diritti umani e le minoranze oppresse, sarebbe già da giorni davanti all'ambasciata kazaka in un sit-in di protesta. Invece difende il "non sapevo" di un governo pilatesco. Parta almeno per il Kazakhstan, chiedendo che Alma e Alua siano restituite al Paese dove avevano scelto di tutelare la loro libertà, confidando nelle democrazie occidentali. E per superare la vergogna di quanto accaduto, porti la notizia  -  tardiva ma inevitabile  -  delle dimissioni di Alfano.

(15 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/15/news/dimissioni_subito-62994846/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. La vera riforma è abolire il porcellum
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2013, 11:01:44 am
   
La vera riforma è abolire il porcellum

di EZIO MAURO


In questo Paese sospeso, che vive una crisi economico-finanziaria molto pesante, una crisi di rappresentanza evidente e una crisi di fiducia preoccupante, sembra quasi che si sia rinunciato alla politica come strumento-guida di un sistema disorientato.

Le elezioni con due sconfitti (Pd e Pdl) e un outsider egoista  -  M5S  -  hanno imballato il Parlamento. Il suicidio del Pd nel voto per il Quirinale ha certificato l'impotenza finale del sistema, con la politica che non riesce a dar forma alle istituzioni, nemmeno a quella suprema.

Il governo di necessità che è nato da questo quadro disperato porta con sé tutte le contraddizioni della fase, a partire da una alleanza contronatura tra destra e sinistra che si giustifica solo se fa quattro cose indispensabili per sgombrare la strada ostruita della politica e riportare il Paese al voto: cambiare la legge elettorale, ridurre i costi della politica, negoziare con l'Europa un diverso rapporto tra austerità e crescita, affrontare il dramma del lavoro. Letta sta negoziando seriamente con Bruxelles e Berlino: tutto il resto è invece avvolto dalla nebbia del minimo comun denominatore, unico possibile risultato di un'alleanza tra culture contrapposte. In più il Pd paga da solo  -  fino all'autolesionismo  -  il prezzo della responsabilità di governo a cui il Pdl è estraneo, come dimostra la vergogna del caso Alfano.

Perché il sistema ritrovi ossigeno, autonomia e libertà, serve almeno l'abolizione immediata del Porcellum, per rendere agibile il percorso elettorale quando servirà. Come ha scritto Eugenio Scalfari, "la legge elettorale che è stata infilata (non si capisce perché) nella legge costituzionale affidata all'apposita commissione dei 40, va rimessa a disposizione del Parlamento. Non si può infatti correre il rischio che un ritiro della fiducia al governo da parte di un partito avvenga senza l'abolizione del Porcellum. Si tratta di una legge ordinaria ma fondamentale e non può essere sottratta alla libera disponibilità del Parlamento".

Perché il Pd non fa questa scelta, subito? Per una volta guiderebbe l'agenda invece di subirla, farebbe l'interesse del Paese e ritroverebbe persino la sua opinione pubblica, sconcertata dallo scandalo Alfano.


(24 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/24/news/la_vera_riforma_abolire_il_porcellum-63577457/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. Le conseguenze della verità
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 08:13:22 am

Le conseguenze della verità

di EZIO MAURO


Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta, trascinando nella rovina vent'anni di storia politica travagliata del nostro Paese.

La Corte di Cassazione ha infatti confermato la condanna di Berlusconi a quattro anni per frode fiscale, chiedendo alla Corte d'Appello di rideterminare il calcolo della pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici, dopo che il Procuratore Generale aveva proposto di ridurla. La condanna diventa dunque definitiva, il crimine è accertato, e tutto il mondo oggi sa che Berlusconi ha frodato il fisco, la sua azienda, gli altri azionisti e il mercato, per costruirsi una provvista illecita di fondi neri all'estero da usare per alterare un altro mercato, quello delicatissimo della politica.

Di questa storia titanica ed enormemente dilatata dalla dismisura populista e dalla sproporzione economica, tutto viene a morire dentro la sentenza di Cassazione, azienda, politica, affari, partito e infine, e soprattutto, una concezione illiberale e poco occidentale della destra, concepita e teorizzata come il territorio degli abusi e dei soprusi, legittimati dal carisma del leader, talmente "innocente" per definizione da sottrarsi ad ogni controllo di legittimità e di legalità.

Questa era in realtà la vera posta in gioco, e pesava infatti quasi fisicamente sulle toghe dei giudici che leggevano ieri in piedi la sentenza in nome del popolo italiano: sapendo che da oggi si trasformeranno in bersagli polemici e personali per la furia iconoclasta della destra, nello sciagurato Paese in cui ci vuole coraggio anche solo per amministrare la giustizia secondo diritto.

La posta in gioco era dunque arrivare non alla condanna, come abbiamo sempre detto, ma alla sentenza. Dimostrare che anche in Italia vige lo Stato di diritto, e vale la separazione dei poteri. Confermare che per davvero la legge è uguale per tutti, com'è scritto sui muri delle aule di giustizia.

Per giungere a questo esito - rendere compiutamente giustizia - ci sono voluti 10 anni di indagini, 6 anni di cammino processuale continuamente accidentato dai "mostri" giudiziari costruiti con le sue mani dal premier Berlusconi per aiutare l'imputato Berlusconi, minando il codice e le procedure con trappole a sua immagine e somiglianza. Una impressionante sequela di abusi ad uso personale e diretto, senza vergogna, dal Lodo Alfano ai "legittimi" impedimenti, alle prescrizioni brevi, ai processi lunghi: abusi in serie che nessun cittadino imputato avrebbe potuto permettersi, e nessun leader occidentale avrebbe potuto praticare.

Rivelatisi infine inutili anche i "mostri", che hanno menomato il processo ma non sono riusciti a ucciderlo, è scattato il ricatto psicologico su istituzioni deboli e partiti disancorati da ogni radice identitaria.

E' la pressione fantasmatica del "dopo", che impedisce di leggere il presente giudicando il passato, e dunque tiene la politica prigioniera in un'unica dimensione, quella di un precario presente, trasformando la stabilità non in un valore (come avviene ovunque) ma in un tabù: che viene prima delle identità distinte da preservare nella loro diversità e addirittura prima delle responsabilità che i partiti hanno di fronte alla loro opinione pubblica.

Ecco dunque le minacce sul "dopo", gli "eserciti di Silvio" già schierati con le armi al piede, il leader diviso come sempre da vent'anni tra la tentazione rivoluzionaria di rovesciare il tavolo nell'ultima ordalia e la prudenza democristiana di restare aggrappato al legno del governo come all'ultimo spazio possibile di negoziazione.

Qualcosa di quasi metafisico, che dimostra come la politica sia prigioniera. Nessuno ha parlato del reato in discussione, della sua gravità e delle sue conseguenze e tutti hanno guardato solo all'autore del reato, come se fosse possibile separare le due cose, e la specialità del soggetto annullasse il crimine, o lo derubricasse, amnistiandolo di fatto nel senso comune.

Ma il senso comune è il prodotto di un'operazione politica, che tende a occultare la clamorosa evidenza dei fatti. Perché ciò che è successo ieri con la sentenza è frutto di comportamenti precisi, almeno 270 milioni di euro sottratti a Mediaset e agli azionisti, diritti su film comprati a cento dagli intermediari berlusconiani e rivenduti a Mediaset a mille, per costruire nei passaggi intermedi un tesoro illegale di fondi neri in Svizzera, a Montecarlo, alla Bahamas, nella disponibilità piena e illecita del Cavaliere.

Altro che processo politico. La Cassazione ha sanzionato ieri definitivamente una frode imprenditoriale gigantesca, da parte dell'imprenditore "che si è fatto da sé" e che "ama il suo Paese".

Adesso sappiamo qual è la sostanza di questo amore e di quella costruzione industriale e politica.

Gli stessi sottosegretari sbandati che ieri sera annunciavano di andarsi a dimettere "nelle mani di Berlusconi" non si accorgono che stanno confermando come tutta questa destra italiana si muova dentro uno Stato a parte, dove valgono altre leggi, diverse sudditanze, logiche separate e gerarchie autonome.

Tutto questo porta a credere che il governo non cadrà, ma per impotenza. Il governo è infatti l'ultima espressione politica che resta a questa destra senza più leader, l'unico strumento per tenerla viva, e insieme. Anzi, Berlusconi - che già attacca la magistratura "irresponsabile" - proverà a trasferire la sua tragedia personale dentro la maggioranza e nelle istituzioni, contagiandole con la sua anomalia, ieri certificata nelle televisioni e nei siti di tutto il mondo.

L'unica salvezza per la sinistra e per le istituzioni è leggere con spirito di verità quanto è avvenuto in questi anni e la Cassazione ha certificato ieri, dando un giudizio preciso sulla natura di questra destra e del suo leader, senza nascondere la testa dentro la sabbia, perché su questa natura si gioca la differenza per oggi e per domani tra destra e sinistra, cioè il nostro futuro.

Non è la destra che deve decidere se può restare al governo dopo questa sentenza. E' la sinistra. Perché la pronuncia della Cassazione non è politica: ma il quadro che rivela è politicamente devastante. Per questo chi pensa di ignorarlo per sopravvivere avrà una vita breve, e senz'anima.

(02 agosto 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/02/news/condanna_berlusconi_conseguenze_verita-64148806/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Perché bisogna dire no
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2013, 05:22:36 pm

L'EDITORIALE - Perché bisogna dire no

di EZIO MAURO

DI CHE cosa stiamo discutendo? Non più della responsabilità di Berlusconi definitivamente accertata dalla giustizia (frode fiscale, reato penale, truffa al mercato, fondi neri per 270 milioni di euro), perché la destra ha accuratamente spazzato dal tavolo tutto questo un minuto dopo la sentenza, con il contributo decisivo di una sinistra sordomuta e di un giornalismo che evita i fatti concreti: come se non fossero il cuore del problema, di cui rendere avvertita e consapevole la pubblica opinione.

No: stiamo invece parlando di come costruire un salvacondotto a posteriori per Silvio Berlusconi, perché nella leggenda epica con cui lui stesso racconta le sue gesta non si contempla un potere esterno di controllo sul leader scelto dal popolo, quindi non è prevista una sentenza e semplicemente non si può accettare una condanna.

La questione è tutta qui, elementare come sa essere il populismo nelle sue formulazioni più estreme, assolutamente inedita nella storia delle democrazie occidentali. Ma il punto è questo.

Si parli di grazia, di amnistia, di pena commutata, di sanatoria ad personam, di agibilità elettorale, di errori inopportuni come le dichiarazioni del presidente Esposito ieri, la destra chiede al sistema politico, parlamentare e soprattutto istituzionale di sanzionare la sovranità speciale di cui Berlusconi si sente investito, mettendolo al riparo dalla legge, anzi sopra, o meglio fuori. Dove? In un luogo quasi più mistico che politico, un mondo a parte, quasi uno Stato parallelo, dove il suo carisma possa soffiare libero e intangibile in modo da diventare eterno, magari proprio attraverso la successione dinastica e familiare, che avrebbe il pregio di perpetuare il conflitto d’interessi del partito azienda, consacrando nei secoli la potenza e la diversità di questa anomalia costitutiva e sproporzionata della destra italiana.

Tutto questo teoricamente avviene nel nome del “popolo”, gli otto milioni di elettori, la folla portata in pullman in via del Plebiscito per assistere alla commozione del leader amareggiato, ferito, ma comunque “innocente” di fronte alla congiura dei giudici e quindi invulnerabile nel cerchio immobile del carisma perenne. Ma come in tutta la rappresentazione ormai ventennale di questa vicenda formidabile e terribile, fin dal primo messaggio in cassetta tivvù, il popolo è la platea e la piazza, da cui sale l’unzione elettorale, la delega e la vibrazione di consenso.

La ragione vera del salvacondotto sta nella “specialità” di Berlusconi. I suoi cantori, i suoi uomini, i suoi collaboratori non lo dicono esplicitamente, ma la ragione è questa. Spiegano che non si può arrestare un leader politico, e si accorgono che questa affermazione cozza con la storia, con la cronaca, con la logica. Allora aggiungono che Berlusconi deve essere lasciato libero «per la sua storia», perché non è un leader come gli altri, perché la sua stessa anomalia è un monumento politico di diversità che lo rende non fungibile, non sostituibile, non ereditabile. Unico, dunque, non soltanto fondatore della destra ma suo continuo ed esclusivo generatore. Appunto, speciale.
Il fatto è che in democrazia, e vigente una Costituzione, non c’è modo di trascrivere questa specialità nel diritto, nei suoi codici e nelle procedure. I cittadini sono tutti uguali, svolgono ruoli diversi, ma sono ugualmente sottoposti alle leggi e ai principi della legge fondamentale, a garanzia della convivenza civile, della libertà di tutti, i più forti e i più deboli.

Naturalmente tutti abbiamo interesse, nel libero gioco politico, che il leader legittimamente scelto da un movimento e dai suoi elettori lo rappresenti e lo impersoni, cioè faccia politica: ma abbiamo un interesse uguale e ugualmente legittimo al sistema costituzionale dei controlli, tra il controllo di legalità, vale a dire l’accertamento della giustizia nelle forme previste dalla legge, uguali per tutti. Dunque anche quell’uomo politico legittimato dal consenso dei suoi sostenitori che lo hanno scelto come leader, anche lui è soggetto alla legge. E agendo sulla scena pubblica, e puntando ad amministrare la cosa pubblica, la sua legittimità in tutti i Paesi democratici dipende anche dalla sua capacità di rispettare la legge e lo Stato di diritto.

Qui – e solo qui – sta avvenendo l’opposto. Nel momento della condanna, Berlusconi chiede di non essere più considerato cittadino, e pretende che il suo ruolo di leader gli garantisca uno statuto speciale, perché così vuole il popolo che lo ha scelto. Sembra di sentire D’Annunzio in un altro momento supremo, a Fiume: “Io sono rientrato nel popolo che mi generò, sono mescolato alla sua sostanza”.
Ma mentre un Capo rivoluzionario può reclamare la sua intangibilità in nome del popolo, perché dalla massa e dalla fede guadagna quel rapporto di forza che userà contro l’ordine costituito, un leader occidentale moderno sa di non poterla nemmeno concepire, questa intangibilità speciale: perché si muove dentro un meccanismo di costituzione e di istituzioni da cui – tra un voto e l’altro – riceve quotidianamente potestà ma anche limiti, forza e garanzia, in una parola quella speciale autorità che chiameremmo volentieri repubblicana.

Per queste semplici ragioni un capo dell’esecutivo che usasse il legislativo per crearsi uno scudo personale contro il giudiziario (è accaduto, purtroppo, e solo qui) commetterebbe un abuso, che è anche arbitrio, perché il potere si sente talmente forte da utilizzare la sua discrezionalità in forma estrema. Ma che dire quando tutto questo avviene dopo una condanna, per mandarla a vuoto, considerarla nulla, cancellarla per sopruso sovrano davanti agli occhi dei cittadini?

Siamo tecnicamente davanti (la politica e le istituzioni non possono ignorarlo) allo “stato d’eccezione”. Carl Schmitt diceva che è effettivamente sovrano chi ha il potere di decidere sullo stato d’eccezione, ha cioè la capacità e la forza – il potere – in queste circostanze speciali non di garantire l’ordinamento esistente, ma di romperlo e di ricrearlo rifondando le leggi e il diritto in base alla propria nuova, suprema legittimità, e ottenendo obbedienza.

Ma dobbiamo infine dare un nome alle cose: nella filosofia politica, il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento dei poteri concorrenti si chiama assolutismo, il potere che non riconosce i suoi limiti si chiama autoritarismo, il potere che istituzionalizza il carisma, bonapartismo. Naturalmente non siamo a questo punto, per sproporzione evidente dei protagonisti in campo. Ma la disperazione berlusconiana sta raccogliendo tutti gli elementi sparsi della cultura ventennale di una destra populista, carismatica, a-occidentale, per comporre una testa d’ariete e forzare istituzioni deboli, partiti prigionieri della loro indeterminatezza, soprattutto identitaria.

Perché non c’è alcun dubbio che una sinistra consapevole di sé e della Repubblica dovrebbe leggere i pericoli e i segnali di questo passaggio, e dare subito un altolà definitivo. Anche per non lasciare il Capo dello Stato unico bersaglio di questo urto di sistema, con la destra che prova a trasformare la politica in forza per farla prevalere sul diritto. Il ricatto sul governo è ovviamente irricevibile (come ha spiegato Eugenio Scalfari e come ha fatto capire Enrico Letta) e si smonta da solo: sia perché il governo è l’unico spazio di negoziazione rimasto a Berlusconi, che dunque non lo annullerà, e sia soprattutto perché la stabilità è un valore ma non una moderna divinità sul cui altare si può sacrificare tutto, principi, separazione dei poteri, stato di diritto e democrazia.

Basta semplicemente dire no, a testa alta, davanti al Paese. Spiegando che questo non è l’ultimo atto di una rissa ideologica. Ma il prologo di un cambio di sistema, dove un cittadino può provare a nominarsi sovrano e bandito insieme, perché vuole fondare il suo potere proprio così: calpestando la legge.

(07 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/07/news/l_editoriale_-_perch_bisogna_dire_no-64398348/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. Il mondo rovesciato
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2013, 11:31:42 pm

Il mondo rovesciato

di EZIO MAURO


Come nelle epoche maledette, quando la politica diventa impostura, stiamo assistendo a un rovesciamento clamoroso del senso, a un sovvertimento della realtà.

Il reato commesso da Berlusconi e sanzionato da tre gradi di giudizio è scomparso, nessuno chiede conto all'ex Premier del tesoro illegale di 270 milioni di euro costruito a danno della sua azienda e dei piccoli azionisti per giocare sporco nel campo della giustizia, della politica, dell'economia, alterando regole, concorrenza e mercato.

Nel mondo alla rovescia in cui viviamo si chiede invece ad un soggetto politico  -  il Pd  -  e a due soggetti istituzionali (il Presidente del Consiglio e il Capo dello Stato) di compromettersi con la tragedia della destra, costretta a condividere in pubblico i crimini privati del suo leader. Compromettersi trovando un'uscita di sicurezza dalla condanna definitiva del Cavaliere, piegando il diritto, la separazione dei poteri e la Costituzione, cioè l'uguaglianza dei cittadini. E tutto questo con una minaccia quotidiana che dice così: la politica e le istituzioni sono talmente deboli che la disperazione conclusiva di Berlusconi può tenerle prigioniere, piegandole per poi farle sopravvivere deformi per sempre. Napolitano ha già risposto che le sentenze si eseguono.

Ma le pressioni non si fermano, puntano alla creazione di un nuovo senso comune, urlano al sacrilegio politico, invocano l'eccezione definitiva che faccia di Berlusconi il "fuorilegge istituzionale", il primo cittadino di uno Stato nuovo, fondato sulla trasgressione elevata a norma, sulla forza che prevale infine sul diritto. Bisogna essere consapevoli che questa è la vera posta in gioco oggi. Si può rispondere se si è capaci di mantenere autonomia politica e culturale. E soprattutto se si sa conservare la coscienza di vivere in uno Stato di diritto e in una democrazia occidentale, che non vuole diventare una satrapia dove la nomenklatura è al di sopra della legge e un uomo solo tiene in pugno il Paese.

(21 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/21/news/il_mondo_rovesciato-65062497/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. La vera ferita
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 08:50:00 am
   
La vera ferita

di EZIO MAURO


Silvio Berlusconi è davvero un "soggetto speciale" come dicono i suoi uomini chiedendo alle istituzioni e alla politica di salvarlo dalla condanna definitiva proprio per l'eccezionalità della sua storia: e infatti la Corte di Cassazione ieri lo ha confermato, scrivendo nelle motivazioni della sentenza che è "pacifica e diretta" la responsabilità del Cavaliere "nell'ideazione, nella creazione e nello sviluppo" del "gioco di specchi sistematico che rifletteva una serie di passaggi senza giustificazione commerciale" dei diritti cinematografici, con un continuo aumento dei prezzi che truffava il fisco italiano mentre andava ad "alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere".
Cioè fondi neri di un leader politico, da usare chissà come.

Qui sta la "specialità" di Berlusconi. Che invece di spiegare agli italiani come tutto questo sia potuto succedere, ieri ha parlato di "sentenza allucinante e fondata sul nulla", nonostante tre gradi di giudizio abbiano confermato il meccanismo criminale che lo ha visto per anni dominus indiscusso, mentre frodava fisco, azienda e azionisti di minoranza, oltre agli italiani cui aveva raccontato la favola del libero mercato. Ora il quadro è chiaro e soprattutto è definitivo. La politica, ovviamente, non c'entra nulla, trattandosi di una truffa perpetrata a lungo, poi svelata, quindi provata e infine sanzionata secondo il codice penale. Ieri affacciandosi dalle sue televisioni Berlusconi ha detto che ogni tentativo di eliminarlo attraverso la sentenza sarebbe "una ferita per la democrazia".

Ma il leader del Pdl dovrebbe rendersi conto, leggendo le motivazioni, che lui solo è l'autore della sua sventura, fabbricata con le sue stesse mani nei giorni dell'onnipotenza, inseguendo un potere improprio perché il potere legittimo non gli bastava.

Applicare la legge, perseguire i reati, pronunciare le sentenze ed eseguire le condanne fa parte in Occidente del normale funzionamento della democrazia che riconosce la separazione dei poteri e la loro libera autonomia. La vera "ferita" è una sola, l'eccezione al diritto e all'uguaglianza in nome della forza, del ricatto, della casta. O della paura.

(30 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EZIO MAURO. L'eversione bianca
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2013, 07:46:21 pm

L'eversione bianca

di EZIO MAURO



Adesso Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi di sistema che sta provocando. Anche se ha costretto i suoi parlamentari a firmare dimissioni in bianco per tentare un ultimo atto di forza che è in realtà una dichiarazione estrema di debolezza e di paura, è istituzionalmente solo.
 
La minaccia di un Aventino di destra ha infatti costretto il Capo dello Stato a denunciare "l'inquietante" strategia della destra, l'"inquietante" tentativo di forzare il Quirinale a sciogliere le Camere, la "gravità e l'assurdità" di evocare colpi di Stato e operazioni eversive contro Berlusconi, ricordando infine che le sentenze di condanna definitive si applicano ovunque negli Stati di diritto europei, così come Premier e Presidente della Repubblica non possono interferire con le decisioni di una magistratura indipendente, nel mondo in cui viviamo.

La gravità di questo richiamo, su elementari principi di democrazia, segnala l'emergenza istituzionale in cui siamo precipitati. Bisognava fermare per tempo - istituzioni, opposizioni, intellettuali, giornali, un establishment degno di questo nome - la progressione di un'avventura politica che costruiva se stessa come sciolta dalle leggi, dai controlli, dalle norme stesse della Costituzione: disuguale nella pratica abusiva, nel potere illegittimo e nella norma deformata secondo il bisogno. Ora si vedono i guasti, con la disperata pretesa di unire in un unico fascio tragico i destini di un uomo, del governo, del parlamento e del Paese, nell'impossibile richiesta di salvare dalla legge un pregiudicato per crimini comuni.

Bisogna fermarlo, subito. Tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione devono dire basta, difendere i fondamentali della Repubblica, respingere l'estorsione politica, sconfiggere questa anomalia nel parlamento, nella pubblica opinione, nel voto. In Occidente non c'è spazio per questo sovvertimento istituzionale, per questa eversione bianca strisciante e ora firmata e conclamata. Chi non la combatte è complice.

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/27/news/eversione_bianca-67366386/?ref=HRER3-1


Titolo: EZIO MAURO. Adesso Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi ...
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:56:11 pm
di EZIO MAURO


Adesso Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi di sistema che sta provocando. Anche se ha costretto i suoi parlamentari a firmare dimissioni in bianco per tentare un ultimo atto di forza che è in realtà una dichiarazione estrema di debolezza e di paura, è istituzionalmente solo.
 
La minaccia di un Aventino di destra ha infatti costretto il Capo dello Stato a denunciare "l'inquietante" strategia della destra, l'"inquietante" tentativo di forzare il Quirinale a sciogliere le Camere, la "gravità e l'assurdità" di evocare colpi di Stato e operazioni eversive contro Berlusconi, ricordando infine che le sentenze di condanna definitive si applicano ovunque negli Stati di diritto europei, così come Premier e Presidente della Repubblica non possono interferire con le decisioni di una magistratura indipendente, nel mondo in cui viviamo.

La gravità di questo richiamo, su elementari principi di democrazia, segnala l'emergenza istituzionale in cui siamo precipitati. Bisognava fermare per tempo - istituzioni, opposizioni, intellettuali, giornali, un establishment degno di questo nome - la progressione di un'avventura politica che costruiva se stessa come sciolta dalle leggi, dai controlli, dalle norme stesse della Costituzione: disuguale nella pratica abusiva, nel potere illegittimo e nella norma deformata secondo il bisogno. Ora si vedono i guasti, con la disperata pretesa di unire in un unico fascio tragico i destini di un uomo, del governo, del parlamento e del Paese, nell'impossibile richiesta di salvare dalla legge un pregiudicato per crimini comuni.

Bisogna fermarlo, subito. Tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione devono dire basta, difendere i fondamentali della Repubblica, respingere l'estorsione politica, sconfiggere questa anomalia nel parlamento, nella pubblica opinione, nel voto. In Occidente non c'è spazio per questo sovvertimento istituzionale, per questa eversione bianca strisciante e ora firmata e conclamata. Chi non la combatte è complice.


(27 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/27/news/eversione_bianca-67366386/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. L'eccezione è finita
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 06:48:57 pm
L'eccezione è finita

di EZIO MAURO

28 novembre 2013
TUTTO è consumato, dunque. Quasi quattro mesi dopo la condanna definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi deve lasciare il Parlamento perché il Senato lo dichiara decaduto, e non potrà candidarsi per i prossimi sei anni. Tutto questo in forza del reato commesso, della sentenza pronunciata dalla Cassazione e di una legge che le Camere hanno approvato un anno fa a tutela della loro onorabilità istituzionale, come risposta alla corruzione montante e agli scandali crescenti della malapolitica. Persino in Italia, quindi, anche per un leader politico, addirittura per uno degli uomini più potenti del ventennio, valgono infine le regole democratiche dello Stato di diritto, e la legge si conferma uguale per tutti. Un processo è riuscito ad andare fino in fondo, l'imputato ha potuto difendersi con tutti i mezzi leciti e anche con quelli impropri, finché tutto si compie e le sentenze si eseguono, con tutte le conseguenze di legge. È certo una giornata particolare quella in cui si decide l'espulsione dal Senato di un uomo di Stato che ha guidato per tre volte il Paese come premier. Ma l'eccezione non è la decadenza, che segue la norma, una norma che il Paese si è dato da sobrio per essere regolato quand'è ubriaco, quando cioè il comportamento improprio dei suoi rappresentanti prende il sopravvento e viene certificato e sanzionato.

No, nonostante la propaganda. L'eccezione è che il leader di un grande partito che ha avuto l'onore di servire tre volte come presidente del Consiglio si sia macchiato di un reato così grave da subire una severa condanna, innescando con la sanzione del suo profilo criminale la norma di decadenza.

Questa verità è sparita dalla discussione, dall'analisi politica, dai giornali. Anzi, si è spezzato scientificamente il nesso tra l'inizio (il reato) e la fine della vicenda, cioè la decadenza. Con la scomparsa del nesso, si è smarrito il significato e il senso dell'intero percorso politico e istituzionale del caso Berlusconi. Domina il campo soltanto l'ultimo atto, privato dalla propaganda di ogni logica, trasformato in vendetta, camuffato da violenza politica. E così, il Cavaliere ha potuto evitare di affrontare politicamente e istituzionalmente la sua emergenza nella sede più solenne e propria, l'aula di Palazzo Madama che si preparava a farlo decadere, rinunciando a far valere le sue ragioni e a trasformare in politica le sue accuse. Ha scelto invece la piazza, dove i sentimenti contano più dei ragionamenti e i risentimenti cortocircuitano la politica, umiliandola in un vergognoso attacco alla magistratura di sinistra paragonata con incredibile ignoranza alle Brigate Rosse, mentre un cartello usava l'immagine tragica di Moro per trasportare Berlusconi dentro un uguale, immaginario e soprattutto abusivo martirio.

"Lutto per la democrazia", "Colpo di Stato", "Legge calpestata". "Persecuzione senza uguali", "Plotone di esecuzione". Uscendo dall'aula del Senato per arringare la piazza con queste parole, Berlusconi è uscito nello stesso momento definitivamente - per scelta e per rinuncia, in questo caso, non per decadenza - dall'abito dell'uomo di Stato per indossare il maglione da combattimento, la sua personale mimetica da predellino populista. Una cornice straordinaria, bandiere nuove di zecca e palette pre-distribuite con scritte contro il "golpe", una ribellione di strada contro il Parlamento e la decadenza, dunque contro le istituzioni e la legge. Ma in questa cornice, è andato in scena un discorso ordinario, faticoso nella pronuncia e nell'ascolto, già sentito decine di volte, virulento nelle accuse ma rassegnato nell'anima. Riassunto, alla fine, nell'ostensione del leader alla folla nel momento in cui si schiude l'abisso, il re pastore che incontra il suo popolo ma non sa andare oltre la tautologia fisica, affidandole la residua politica estenuata: "Siamo qui, non ci ritiriamo, noi ci siamo". Come se mostrarsi ai suoi fosse l'unica garanzia oggi possibile: per loro, ma soprattutto per se stesso, la sopravvivenza scambiata per l'eternità. Con un'ultima, minima via d'uscita per l'immediato futuro: "Si può essere leader anche fuori dal Parlamento, come Renzi e Grillo". Con la differenza - taciuta - che i due avranno piena libertà di movimento nei prossimi nove mesi, Berlusconi no, oltre a non essere candidabile per sei anni. Subire infine la realtà che si continua a negare è possibile solo se si vive in un universo titanico, dove non valgono regole e ogni limite può essere violato. L'universo personale del ventennio, per il leader della destra italiana. Il guaio per il Paese è che questa visione dilatata che scambia la libertà con l'abuso è diventata programma politico, progetto istituzionale, mutazione costituzionale di fatto. Dal giorno in cui per Berlusconi è cominciata l'emergenza giudiziaria fino a domenica (quando il Quirinale ha richiuso la porta ad ogni richiesta impropria) il tentativo di imporre alla politica e ai vertici istituzionali una particolare condizione di privilegio per il leader è stata costante e opprimente. Questo tentativo poggia su una personalissima mitomania sacrale di sé, l'unto del Signore. E su una concezione della politica culturalmente di destra, che fa coincidere il deposito reale di sovranità col soggetto capace di rompere l'ordinamento creando l'eccezione, e ottenendo su questo consenso.

La partita della democrazia a cui abbiamo assistito aveva proprio questa posta: l'eccezione per un solo uomo, l'eccezione permanente. Prima deformando le norme, allungando il processo, accorciando la prescrizione, chiamando "lodo" i privilegi, trasformando in norme gli abusi. Poi contestando non l'accusa ma i magistrati, inizialmente i pm, in seguito i giudici, da ultimo l'intera categoria. Quindi contestando il processo. Naturalmente rifiutando la sentenza. Infine condannando la condanna.

E a questo punto è incominciato il mercato dei ricatti. Si è capito a cosa serviva la partecipazione di Berlusconi al governo di larghe intese: a usarlo minacciando la crisi se non si fosse varata la grande deroga, con buona pace degli interessi del Paese. Minacce continue, sottobanco e anche sopra. Tentativi di accalappiare il Pd, scambiando l'esenzione berlusconiana con il via libera alle riforme. Blandizie e pressioni per il Quirinale, perché trasformasse i suoi poteri in arbitrio e la prassi in licenza, pur di arrivare alla grazia tombale.

Una grazia non chiesta come prescrive la norma, quindi uno schietto privilegio. Ecco la conferma che il Cavaliere non cercava solo una scappatoia, ma un'eccezione che confermasse la sua specialità, sanzionando definitivamente la sua differenza, già certificata dal conflitto d'interessi, ogni giorno, dall'uso sproporzionato di denaro e fondi neri (come dice la sentenza Mediaset) su mercati delicati e sensibili, come quello politico e giudiziario, alla legislazione ad personam. Abbiamo dunque assistito a un vero e proprio urto di sistema. E il sistema non si è lasciato deformare, ha resistito, la politica ha ritrovato una sua autonomia, le istituzioni hanno retto, persino i giornali - naturalmente per ultimi, e quando la malattia della leadership era stata ampiamente diagnosticata dai medici - hanno incominciato a rifiutare i costi della grande deroga, scoprendo un'anomalia che dura in realtà da vent'anni, e non ha uguali in Occidente.

Il ricatto sul governo è costato a Berlusconi la secessione dei ministri, coraggiosi nel rompere con un potere che usa mezzi di guerra in tempo di pace, molto meno coraggiosi nel dare a se stessi un'identità repubblicana riconoscibile. Questa può nascere soltanto nel riconoscimento e nella denuncia dell'anomalia radicale del ventennio, una denuncia che determina una separazione politica e non solo fisica, una differenza culturale e non soltanto ministeriale, una scelta "repubblicana", come dice Scalfari.

Per il momento il governo è più forte nei numeri certi (i dissidenti non possono certo rompere con Letta dopo aver rotto con Berlusconi), in una maggiore omogeneità programmatica, soprattutto nella libertà dai ricatti. Il governo usi quella libertà, questa presunta omogeneità e quei numeri per uno strappo sulla legge elettorale, offrendo al parlamento la sua maggioranza come base sufficiente di partenza per una riforma rapida, che venga prima di ogni altro programma, non in coda. Perché con Berlusconi libero e disperato, la tentazione lepeniana è a portata di mano per la destra italiana, un'opposizione a tutto, l'Italia, l'euro, l'Europa, e non importa se il firmatario del rigore con Bruxelles è proprio il Cavaliere, colpevole non certo di aver creato la crisi ma sicuramente di averla aggravata negandola.

Il governo è più forte, ma il quadro politico è terremotato. La tenuta delle istituzioni in questa prova di forza deve essere trasformata in un nuovo inizio per la politica: per riformare il sistema, dopo aver sconfitto il tentativo di deformarlo.

© Riproduzione riservata 28 novembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/28/news/eccezione_finita-72145474/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. L'ultima occasione
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2013, 11:50:02 pm
L'ultima occasione

di EZIO MAURO
04 dicembre 2013

Eppur si muove. Sulla soglia della dichiarazione d'impotenza, paralizzato dall'attesa della Consulta, il sistema politico affronta finalmente in extremis il nodo del Porcellum che imprigiona insieme cittadini, partiti, Parlamento e istituzioni.

Palazzo Chigi sta dialogando con Renzi e Alfano per una doppia mossa: una sola Camera e una drastica riforma elettorale con il doppio turno di collegio. Se il dialogo andrà avanti, se la soluzione verrà timbrata da chi vincerà le primarie del Pd domenica, Letta potrebbe avanzare la proposta nel discorso in Parlamento già mercoledì.

Da giorni sosteniamo che dopo lo strappo con Berlusconi il governo dovrebbe mettere la sua maggioranza a disposizione del Parlamento come superficie utile e sufficiente per far prendere il largo alla riforma elettorale, disponibile a convergenze da destra e da sinistra: ma a patto di arrivare a un risultato chiaro e netto in tempi certi, abbandonando impropri scenari di ridisegno costituzionale.

Questo può essere il punto d'inizio di una nuova stagione per il Pd e anche per il governo, se il governo saprà dimostrare di svolgere un servizio al sistema, facendo buon uso della libertà ritrovata dai veti e dai ricatti personali di Silvio Berlusconi che hanno imprigionato il Paese troppo a lungo. Il dopocristo deve pur cominciare.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/04/news/l_ultima_occasione-72639604/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. Le ceneri
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:47:51 pm
Le ceneri

di EZIO MAURO
   
Qualcosa sta cambiando nel patto repubblicano che tiene insieme maggioranza e opposizione e le vede divise radicalmente sulle scelte politiche, ma unite nella tutela delle istituzioni e della loro libera funzionalità democratica.
 
Oggi il Movimento 5Stelle esce da questo patto, inaugurando un'opposizione di sistema. Nudi di politica, per il rifiuto ostinato di entrare in relazione con gli altri per un cambiamento possibile, i grillini vivono di campagna elettorale permanente, spettacolarizzando la decadenza del Paese fino a scommettere su un collasso istituzionale, indifferenti ai rischi per la democrazia.

Tutto ciò porta a privilegiare i mezzi sui fini riducendo la politica a conflitto, lo Stato a nemico, il Parlamento a teatro eroico dell'opposizione. È il rifiuto dell'atto politico (faticoso, ma utile a smuovere le cose) in nome del gesto politico che consuma se stesso mentre si compie, in un salto permanente nel cerchio di fuoco.

Questa trasfigurazione estetica punta sul superamento di ogni distinzione tra destra e sinistra, perché tematiche tradizionalmente progressiste possano essere emulsionate in format nichilisti: proponendo al cittadino esasperato un corto-circuito permanente capace soltanto di produrre cenere politica, però dopo l'illusione di un bagliore consolatorio, col botto finale.

Bisogna sapere che di questo si tratta, non d'altro. Un'illusione rivoluzionaria che si nutre di disprezzo per la democrazia. Alla quale si può rispondere solo con un cambiamento autentico che restituisca legittimità alla politica, e fiducia ai cittadini.

© Riproduzione riservata 01 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/01/news/le_ceneri-77429468/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. L'azzardo dell'acrobata
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2014, 10:51:25 am
L'azzardo dell'acrobata

di EZIO MAURO
   
DUNQUE tocca a Renzi, in anticipo sui tempi, cortocircuitando i modi, a dispetto forse perfino delle convenienze. Il sindaco di Firenze ha cambiato la scena in tre mosse, sempre muovendosi su un terreno di gioco parallelo a quello che voleva conquistare. Prima, puntando al governo, ha guadagnato la leadership del partito con le primarie. Poi, guardando alle elezioni, ha fatto ripartire in quindici giorni il treno delle riforme istituzionali bloccato da anni. Infine, scommettendo sul Pd, ha portato il governo sull’orlo del piano inclinato guardandolo scivolare ogni giorno più giù, fino a diventarne la naturale alternativa.

Nei confronti dell’esecutivo ha usato la formula “né aderire, né sabotare”. Lo ha trattato da governo “amico”, ma non da governo del Pd. Tutto questo ha accentuato la fragilità congenita del ministero, forte dalla cintola in su (per il buon credito di Enrico Letta in Europa), debole in Italia per la gestione troppo prudente di una somma algebrica dei veti incrociati in una maggioranza spuria, con il minimo comun denominatore come risultato. Era inevitabile che il protagonista delle riforme diventasse primattore politico. Era probabile che questo ruolo lo candidasse ad alternativa di governo. Era sperabile che tutto ciò avvenisse in forme e modi po-litici, attraverso un percorso condiviso e guidato da un partito in cui i contendenti si riconoscono e che parla al Paese più dei loro caratteri e dei loro progetti personali. Guida, comunità, condivisione non ci sono state.

Renzi ha badato solo all’opportunità da cogliere, accettando la sfida con tutti i pericoli che comporta. Letta ha reagito all’esaurimento del suo progetto provando a resistere per un giorno, ma la delusione personale non è un progetto politico e non cammina. Soprattutto se a lato cresce la calamita di una leadership forte, che attira a sé i soggetti di una politica debole e promette di dar loro un futuro o almeno quell’orizzonte che finora è mancato.

L’arma usata appare infatti semplice e antica: la promessa del tempo, l’impegno a usarlo per cambiare il Paese. Il sistema politico, parlamentare e istituzionale aveva introiettato il sentimento della propria precarietà, vivendo dall’agonia di Berlusconi in poi su un terreno instabile, con maggioranze innaturali, alleati-nemici, veti incrociati, programmi senza ambizione, elezioni inefficaci, prospettive di breve termine, navigazione a vista. Soprattutto, aveva assorbito come naturale la condanna all’interruzione permanente della legislatura, il ricorso alle elezioni anticipate come rimbalzo continuo più che come rimedio definitivo. Anche oggi, anzi fino a ieri, il cammino del governo e il cammino delle riforme erano destinati a congiungersi a breve in un unico punto terminale, con le Camere sciolte e il ricorso agli elettori, questa volta almeno nella speranza di una nuova legge elettorale.

Renzi ha detto che questo paesaggio poteva cambiare, perché non era una condanna obbligata. Il sistema poteva cioè provare a vivere di vita autonoma, come se fosse normale, impegnando la legislatura fino al suo termine naturale, cioè quattro anni, per provare a cambiare davvero il Paese. Una tentazione irresistibile per i piccoli partiti, terrorizzati dal voto mentre devono ancora definire la loro incerta identità, ma anche per il Pd, che per la prima volta può far pesare per quattro anni la massa dei suoi parlamentari, conquistati grazie al Porcellum: e nel Pd la tentazione è forte sia per la maggioranza che può portare al governo il suo leader e la sua voglia di cambiare, sia per la minoranza che può allontanare il momento della formazione delle liste elettorali nelle mani di Renzi, e può anzi contare intanto su un rimescolamento interno al partito.

Gli alleati — partitini, minoranza Pd — hanno dunque aperto la strada a Renzi, minando il governo in carica. Restavano due ostacoli materiali, Letta e soprattutto Napolitano, che in questo Paese senza maggioranza si è dovuto assumere il compito di Lord Protettore del governo, in nome della stabilità, garantendo sul piano internazionale per l’Italia e proteggendola sui mercati. Di fronte ad un trasloco del quadro politico, che ha cambiato il suo riferimento da Letta a Renzi credendo di trovare qui più forza, più durata, più garanzia soprattutto di dare quello scossone di cui il Paese ha necessità per uscire dalla crisi, il Presidente ha preso atto, ha dismesso il ruolo di protezione necessitata, ha riconosciuto l’autonomia ritrovata della politica e ha detto ai partiti: fate il vostro gioco, purché mi garantiate stabilità, riforme e solidità nei numeri. Il piano delle riforme, il piano del governo diventano a questo punto concentrici, nelle mani di Renzi, con due maggioranze diverse. Il sindaco ha ottenuto in poco più di un mese una sovraesposizione smisurata, quasi più una solitudine che una delega, qualcosa che concentra nelle sue mani buona parte dell’avventura politica del 2014 perché arriva addirittura a interpellare il berlusconismo, all’opposizione del governo, al tavolo per le riforme, alla finestra della curiosità mimetica per l’esperimento della novità renziana davanti alla sterilità politica di una destra con troppi delfini ma senza un erede.

In un sistema politico estenuato che perde forza, efficacia e fiducia a destra e sinistra — per non parlar del centro — è quasi una superstizione da ultima spiaggia questo investimento al buio che tutti fanno in Renzi, come se il Paese avesse toccato il fondo, immobile, e solo l’energia di cambiamento che il sindaco promette potesse farlo ripartire, più ancora di un progetto o di un programma. Se è così, siamo un passo oltre la personalizzazione della leadership: è l’antropologia che oggi viene scelta per dar carattere, natura e sostanza all’agire pubblico trasformandolo in meta-politica, psicopolitica, performance.

In questo senso Renzi non fa promesse di cambiamento, “è” una promessa di cambiamento. Qualcosa di biologico, pre-politico, naturale, addirittura primitivo. Per chi accetta questa scommessa il modo di realizzarla è secondario, conta il dispiegarsi della leadership. Anzi, la contraddizione è parte dell’azzardo, che è una componente della sfida, la quale a sua volta è indispensabile alla rappresentazione in forma nuova di una politica che invece di procedere con prudenza cammina ogni volta sul filo. Si sta col naso all’insù per applaudire l’acrobata alla fine, se ce la fa, ma anche per l’emozione che trasmette il rischio consapevole di vederlo cadere.

Tutto ciò ha delle conseguenze: l’attore politico in questo nuovo teatro è tecnicamente spregiudicato perché gli interessa solo essere se stesso e arrivare in fondo, è quindi disancorato da tradizioni ed esperienze precedenti perché vive della propria leggenda e deve raccontare di continuo solo quella, è ideologico perché la sua forza è la contemporaneità, anzi l’adesione istantanea a tutto ciò che è contemporaneo, senza legami, obblighi e carichi pendenti, come se contasse solo la storia che ogni volta si inaugura, non quella che si è già compiuta.

Questa sollecitazione permanente al cambiamento, in mezzo ai riti stanchi del passato replicati senza vita, appare moderna, anzi innovativa, certamente diversa. Seleziona dunque attenzione e consenso nei due poli opposti, i delusi e gli innovatori, riattiva automaticamente un meccanismo di interesse e di attenzione, spinge a prendere parte. In questo preciso significato, la novità (generazionale, di modi, di forma e di linguaggio) diventa forza, o almeno energia politica, prefigurazione di potere.

Accade quindi che un sistema traballante si affidi a questa opzione, con motivazioni diverse e addirittura contraddittorie: c’è chi spera davvero di cambiare la sinistra, il governo, il Paese; chi si augura che la velocità possa almeno essere un surrogato della politica; chi crede nei nuovi metodi per spazzare le troppe incrostazioni del passato; chi calcola almeno di guadagnare tempo mentre la novità si dispiega e magari si consuma. C’è anche chi progetta di dar corda a Renzi premier in attesa che la premiership lo bruci, o perché non sarà all’altezza o perché l’Italia — definitivamente — non è riformabile. Messa alla prova, l’anomalia renziana potrebbe ridimensionarsi banalizzandosi, fino ad essere riassorbita in una medietà sfiduciata e omologante nella quale si affonda lentamente e definitivamente, tutti insieme.

Prima di prendere il comando Renzi sa benissimo di dover affrontare la contraddizione — grande come le sue ambizioni — che ha costruito tra le sue parole e le opere. Non è tanto il fantasma di D’Alema che lo imbarazza. È piuttosto la mitologia di sé costruita tutta contro il Palazzo e le sue manovre, dove il sindaco era sempre uno sfidante esterno, un outsider che invocava le regole contro le rendite di posizione, puntando tutto sulla democrazia diretta e il rapporto con i cittadini contro gli apparati, in una perenne riconsacrazione dal basso. Andare al governo perché la maggioranza lo ha deciso a tavolino, senza la legittimazione del voto popolare è un problema soprattutto per l’uomo delle primarie. Ma anche per il segretario del Pd che non ottiene l’investitura attraverso la battaglia elettorale, battendo la destra. E infine e soprattutto per il leader della sinistra, che va a palazzo Chigi ancora una volta dall’ascensore di servizio e non dallo scalone d’onore.

L’unica risposta possibile viene dalla prova del nove, dal cambiamento. Se il governo sarà capace di dare una scossa nei tempi, nei modi, nei nomi, nei fatti, allora è possibile che il Paese si rimetta in piedi e che la contraddizione venga scusata dai risultati, perché l’Italia è ancora in grave ritardo davanti alla crisi e non può più perdere tempo: il “tutti per Renzi” si spiega così, finché dura. Altrimenti, la sinistra avrà divorato un altro leader e un’ultima occasione. Per queste ragioni palazzo Chigi per Renzi non è un punto d’arrivo, ma una partenza. E il cambiamento non è un’opzione politica, ma una magnifica condanna.
© Riproduzione riservata 14 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/14/news/l_azzardo_dell_acrobata-78534398/?ref=HRER3-1


Titolo: EZIO MAURO. A misura di premier
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 06:03:00 pm
A misura di premier
di EZIO MAURO
22 febbraio 2014
   
È UN governo Renzi, e poco altro. Molte novità, poche personalità. Molte donne, finalmente, molti giovani. Una qualità politica non troppo diversa da quella del governo Letta, come conferma l'alternanza tra Padoan e Saccomanni. Una piattaforma ministeriale che dopo le avventure carismatiche e tecniche sembra dar vita ad un esecutivo leaderistico. Finita la stagione dei governi del Presidente nasce così un governo del Premier.

Il vero sforzo del Presidente del Consiglio è stato quello di non avere un vice, per formare un governo Renzi e non Renzi-Alfano. Questo risultato riduce l'anomalia di un capo della sinistra che guida un ministero con la destra, mentre l'alleanza di necessità proiettandosi sui quattro anni di legislatura diventa quasi una scelta, dunque una contraddizione per il Pd. Ma Renzi sembra puntare tutte le carte su se stesso, sulla sua energia politica, come se affidasse alla promessa di cambiamento il compito di sciogliere i nodi che la politica non sa sciogliere, compresa la scorciatoia scelta per arrivare a palazzo Chigi.

Con Padoan e con il pieno appoggio manifestato da Napolitano la linea di politica economica non cambia, ma con un esecutivo su sua misura Renzi si prepara a rinegoziare con l'Europa il rapporto tra crescita e rigore, anche sfruttando in prima persona la guida italiana del semestre europeo.

A questo punto, proprio la cifra "strumentale" del governo espone Renzi come non mai, su tutti i fronti. La responsabilità è totale, il rischio anche. L'acrobata è sul filo, da solo e senza rete. Auguriamoci che riesca: dopo restano solo i clown degli opposti populismi.

© Riproduzione riservata 22 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/22/news/a_misura_di_premier-79312377/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Correre o morire
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 07:38:09 am
Correre o morire

di EZIO MAURO
14 marzo 2014
   
AVEVAMO detto che Renzi è un performer politico. Questo significa che per lui la politica risiede nei contenuti, ma anche nel gesto che li comunica e nella leadership che sceglie l’uno e gli altri, e li governa insieme, enfatizzandoli e certificandoli di persona.

Così è avvenuto, plasticamente, con la manovra economica. Non un annuncio ma una performance, appunto, nella conferenza stampa di mercoledì e ieri a «Porta a porta». La prova di un nuovo esercizio delle leadership, in cui il Premier fissa un obiettivo, lo comunica prima che il Consiglio dei ministri scriva nei decreti le coperture finanziarie e si assicuri il timbro della Ue, lo trasforma in slogan efficace (10 miliardi in busta paga per 10 milioni di italiani) e fissa addirittura la data di scadenza dell’operazione, mettendo in gioco la propria credibilità: se il bonus non arriva il 27 maggio, datemi del buffone.

In questo modo di procedere c’è qualcosa di più e di diverso dall’eterno annuncio italiano. C’è infatti l’azzardo di legare la propria sorte politica a una velocità del fare, e dunque la necessità di cortocircuitare tempi e modi del meccanismo decisionale del governo, del parlamento, del sistema. Renzi corre perché se si ferma è morto, come ha capito dalle imboscate di questi ultimi giorni. La sua sorte è nella sua promessa di cambiamento, dove sta anche il consenso, e dove risiedono le sue contraddizioni, dunque l’azzardo.

Correndo deve anticipare la politica che vuole realizzare, per mettere le resistenze parlamentari, amministrative, della tecnostruttura davanti a un’opinione pubblica continuamente sollecitata da una scommessa di cambiamento in cui non credeva più di poter credere.

C’è dunque una prova di forza in atto, dietro i sorrisi e le battute di una politica pop. Dopo meno di un mese, Renzi si presenta come l’apriscatole possibile di un sistema bloccato. Questa è la partita. Se vince, Renzi apre un meccanismo che sembrava irriformabile. Se non funziona, il sistema arrugginisce e anche l’apriscatole diventa inservibile.

© Riproduzione riservata 14 marzo 2014

DA - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/14/news/correre_o_morire-80958880/?ref=HREC1-1


Titolo: EZIO MAURO. Cambiare per fermare i populismi
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2014, 04:46:34 pm
Cambiare per fermare i populismi

di EZIO MAURO
   
La Patria che si sostituisce alla Republique, il popolo ai cittadini, la nazione all'Europa.

Questa è la lezione generale che viene dalla Francia, dopo l'avanzata del Fronte di Marine Le Pen. Ma c'è qualcosa di più, che può riguardarci da vicino, e che conviene analizzare per tempo.

Il primo dato è la spoliazione repubblicana operata dalla crisi, che mette in causa lavoro, risparmio, aspettativa di futuro, ruolo sociale, sicurezza. La reazione è di spaesamento e di abbandono, con la percezione di un impoverimento politico per l'incapacità di governare da soli fenomeni complessi come la globalizzazione, che determinano una sensazione di perdita generale di controllo. A questo sentimento di dispersione identitaria si accompagna la crisi dei canali di intermediazione e di rappresentanza, dalle categorie ai sindacati ai partiti.

Smarrito nella solitudine repubblicana, il cittadino ritorna individuo: e deve fronteggiare privatamente le nuove paure pubbliche che la crisi ingigantisce e che nessuna cultura comunitaria ha avuto il tempo e il modo di elaborare, riducendole a politica e smitizzandole.

Bisogna avere il coraggio di ammettere che la destra è più attrezzata a cavalcare questa onda d'urto che frantuma identità e appartenenze. Anzi il più attrezzato è un populismo-nazionalista che unisce modernità e tradizione nella coltivazione delle paure, rinchiudendole dentro frontiere immaginarie innalzate contro la nuova sfida transnazionale e globale. Per essere più esatti siamo davanti alla crescita di forze che si presentano come "né di destra né di sinistra" (la definizione preferita che Marine Le Pen dà oggi del Fronte) o addirittura come il superamento della dicotomia del Novecento (il Movimento 5 Stelle). Come tali queste forze uniscono un culto strumentale della tradizione ad una critica radicale della globalizzazione che porta con sé una denuncia degli esiti estremi del capitalismo finanziario e del liberismo selvaggio, che la sinistra non sa più fare.

Questo profilo ideologico apparentemente costruito sul superamento delle famiglie culturali del secolo scorso (e delle loro proiezioni terrene, politiche) porta davanti a noi soggetti che si presentano come nati dal nulla, o comunque ri-generati dall'esplosione del vecchio sistema, dunque "vergini", quindi innocenti e per definizione incolpevoli, proiettati soltanto nel mondo che verrà e anzi unici custodi del focolare dell'appartenenza identitaria, i soli capaci di custodirla nel passaggio dal vecchio al nuovo. Movimenti che hanno per conseguenza un unico vero comandamento generale: la sfida al sistema nel suo insieme, quindi una lettura della realtà politica che faccia sempre e comunque di ogni erba un fascio, che non distingua tra le storie e le culture politiche e che consenta ai populismi di presentarsi non come uno sfidante tra vari competitori, ma come "la sfida" vera e propria all'intero sistema ridotto a un insieme da distruggere, perché da questa prospettiva nichilista di sostituzione totale non c'è niente da salvare.

Covano nei nuovi populismi elementi culturali da tea party, com'è evidente, o da moderna rivoluzione conservatrice europea, che usa gergalità di sinistra e modalità radicali mosse da un'autentica anima di destra nel senso che Salvemini dava al "disprezzo per la democrazia" o che Croce attribuiva alla "feroce gioia" contro le istituzioni. È la rivincita contro l'occidentalizzazione del mondo, che va in crisi proprio da noi, in Europa. L'irrisione dei grandi racconti della modernità, considerati superati come i concetti e le definizioni che hanno prodotto. Anzi, è la fine del moderno in politica, con la crisi delle categorie classiche che l'hanno interpretata per oltre un secolo. Viene alla luce una novità: una speciale modalità del populismo di essere "popolare", cioè di adulare il popolo rappresentandolo nelle sue paure e nei suoi fantasmi, ma anche nella sua proletarizzazione culturale, con la perdita di riferimenti e di meccanismi di lettura e di interpretazione del contemporaneo, senza più categorie del reale.

Il populismo chiede una relazione empatica, dunque anche d'istinto. Più che elaborare le paure, le stereotipizza, facendole diventare soggetti politici minacciosi, dunque bersagli. In cambio promette protezioni primitive organizzate ognuna sempre attorno al concetto delle frontiere, immaginarie o reali, storiche o culturali: perché il nemico è tutto ciò che è transnazionale, che si muove da un mondo all'altro e li attraversa tutti d'abitudine, l'immigrazione naturalmente, ma anche le élites, il cosmopolitismo, l'euro, l'Europa e la globalizzazione. La risposta è la chiusura in una sicurezza immaginaria, separata e isolata, antica e autarchica con le monete di una volta, le barriere e i confini, gli Stati teorizzati come pure comunità di discendenza, il welfare riservato agli indigeni, i diritti degli altri che pagano dogana.

È la risposta più radicale di fronte all'impatto radicale della crisi. La Francia segnala al continente (e all'Italia in particolare) questa sfida e anche un altro pericolo, nuovissimo e di grande portata: l'impotenza del riformismo. Il rischio cioè che la sinistra di governo, alla fine del suo lungo travaglio, non sia in grado di trovare in se stessa gli elementi per una lettura altrettanto radicale della fase e per una proposta di contromisure forti, e finalmente diverse dall'antipolitica crescente. Come se le vecchie parole della tradizione riformista fossero inservibili, mentre invece il concetto di uguaglianza potrebbe essere la leva politica da cui ripartire, nel momento in cui le disuguaglianze sono la cifra dell'epoca. Come se, soprattutto, riformismo equivalesse a moderatismo, incertezza identitaria, accettazione di un'egemonia culturale altrui, mancanza di autonomia politica, dispersione nel senso comune dominante.

E invece governare oggi significa cambiare, radicalmente. Il Paese è esausto nella sua forma di sistema, esasperato nella sua forma d'opinione. Questo esaurimento non è solo un problema di efficienza perduta, sta diventando un problema di democrazia rinnegata. Il cambiamento - cioè la riforma del sistema - è lo strumento più radicale che la sinistra ha a disposizione per fronteggiare la vera sfida politica che ha davanti a sé con il nuovo populismo antipolitico. È l'unico modo per ricostruire un circuito di fiducia tra le istituzioni e il Paese, tra i cittadini e la politica. Perché provare a cambiare davvero un Paese - soprattutto se pare irriformabile come il nostro - è più utile che prenderlo a calci, scommettendo ogni giorno sul peggio.

© Riproduzione riservata 01 aprile 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/01/news/cambiare_per_fermare_i_populismi-82429505/?ref=HREC1-1


Titolo: EZIO MAURO. La grande amnesia italiana
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2014, 10:56:07 am
La grande amnesia italiana
di EZIO MAURO

12 maggio 2014
   
Vent'anni dopo, bisogna dire che la seconda Repubblica non è mai cominciata. Veder replicare le stesse trame di Tangentopoli, sulla stessa scena milanese, con gli stessi personaggi rivela una continuità di costume, di pratiche, di abitudini e soprattutto di concezione della politica che ha attraversato due decenni, rimanendo intatta. Non solo: i nomi eterni di Frigerio, Greganti e Grillo sembrano paradossalmente valere come una garanzia di competenza per il nuovo malaffare. Della grande crisi italiana di Mani Pulite, dunque, oggi non resta la riprovazione, l'immunizzazione, la condanna sociale e l'impegno comune a voltar pagina. Al contrario, Tangentopoli è diventata un know-how, un'esperienza professionale, un biglietto da visita per continuare a rubare nello scambio tra politica e affari.

Com'è stato possibile che personaggi discreditati, con evidenti responsabilità criminali accertate e una pericolosità sociale conseguente potessero restare sulla scena delle grandi opere pubbliche italiane, lì dove il sistema ha già dimostrato ampiamente di essere più fragile e più esposto? Restarci, bisogna aggiungere, con l'expertise di un vasto sistema di relazioni intatto, capace di lucrare e distribuire guadagni, percentuali, promozioni e protezioni.

Com'è stato possibile, in particolare, che il "compagno G" sia rimasto sulla scena del Pd, anello perfetto di congiunzione e di scambio tra politica, imprese, cooperative, appalti, tangenti e faccendieri di altri partiti? Chi nel Pd, a livello nazionale e locale, continuava a parlare con Greganti, riconoscendogli evidentemente un ruolo e una funzione, perché lo faceva, a nome di chi, con quale obiettivo e con quale tornaconto? Che è successo tra cooperative e partito, attorno alla percentuale sempre garantita di Greganti, tangente vivente ed eterna maledizione della sinistra? Vogliamo sapere, per capire se cambiando a sinistra le sigle dei partiti restano intatti i metodi. Se il presidente del Consiglio, come ha detto, si tiene fuori dalla vicenda lasciando che la magistratura lavori, potrebbe però intanto chiedere al segretario del Pd di muoversi, e di fare quella pulizia che è più utile e più doverosa della rottamazione.

Ma l'accusa vale anche per il mondo delle imprese, che come vent'anni fa preferisce evidentemente essere taglieggiato nelle tangenti ma garantito negli appalti dalla complicità illegale coi faccendieri della politica piuttosto che confrontarsi con un mercato vero, all'onor del mondo, vincendo e perdendo davanti a una regola chiara, e cioè competendo. Mai una denuncia, dagli imprenditori, sempre pronti a berciare contro la politica. Mentre l'Expo dimostra invece che sono soci, gregari e complici della politica intesa nel modo peggiore.

Il problema dunque riguarda la classe dirigente del Paese nel suo insieme. Un establishment che non c'è perché il suo posto e il suo ruolo sono usurpati da "giri" chiusi di autogaranzia e di cooptazione, e da network che tutelano il proprio potere e il comando, ma sono incapaci di produrre garanzia di autonomia per sé - nella divisione degli ambiti tra pubblico e privato - e garanzia di rispetto delle regole per tutti.

L'impasto, la relazione, la percentuale e lo scambio sono la vera cifra di un Paese che affonda, senza soggetti nitidi, autonomi, e soprattutto liberi davanti al mercato, alle leggi, alla pubblica opinione. Un Paese disperato e già vinto, se mette la sua più importante opera pubblica degli anni della crisi alla mercé di un manipolo di anziani malfattori, che potrebbero sembrare le caricature lombarde degli ultimi Jack Lemmon e Walter Matthau, col contorno tipicamente italiano di ristoranti milanesi, falsi circoli culturali, immancabili cardinali devoti al denaro e al potere. Una caricatura, se non avessero le mani sull'Expo. E bisogna ancora vedere fin dove arrivano quelle mani, esperte di cooperative rosse per Greganti, di sottomondo democristiano per Frigerio, di berlusconismo e sottobosco bancario per Grillo.

Ma evidentemente, come notava ieri Eugenio Scalfari, non sta molto bene nemmeno la pubblica opinione, che abbiamo appena citato tra i protagonisti assenti. Nei Paesi di democrazia diffusa, e attiva, è un soggetto ben distinto dal potere, capace di controllarlo, giudicarlo e soprattutto di pretendere un costante rendiconto. Eccitata da Tangentopoli, credendo di essere diventata protagonista, la pubblica opinione italiana ha affidato la sua fuoruscita da quella stagione a un presunto uomo nuovo che era in realtà il figlio legittimo, perfetto e riconosciuto del Caf, cioè quell'alleanza di potere più che di governo tra Craxi, Andreotti e Forlani, con cui l'agonia della Prima Repubblica cercò di prolungare se stessa prima di sprofondare nelle tangenti.

Per convenienza e per natura, si potrebbe dire per vizio e per calcolo, Berlusconi appena arrivato al potere attraverso la breccia di Tangentopoli l'ha subito richiusa, murando insieme con quel periodo anche le questioni della trasparenza e della legalità. Grandioso interprete del senso comune mutevole degli italiani, abile fabbricatore lui stesso di senso comune, lo ha portato via via a sostituirsi alla pubblica opinione. Con la differenza - capitale - che il senso comune non è autonomo, ma è tutt'uno con il potere, che lo indirizza, lo guida e spesso lo sceneggia.

Si spiega così (e così soltanto) la grande amnesia italiana che ha realizzato questa straordinaria banalizzazione del ventennio. Operazioni criminali devitalizzate nel giudizio sociale, legami organici con le mafie ridotti ad episodi romanzeschi, inchieste raccontate come persecuzioni, manipolazioni dei codici ad personam spacciate come riforme di interesse generale, condanne definitive deprivate di ogni significato, pene spettacolarizzate, misure giudiziarie vendute come volontariato, la legalità trasformata in un optional, anzi un fastidio personale e un impaccio nazionale. Una continua, insistita mistificazione della realtà, un'accorta epopea del banale per nascondere evidenze criminali vere e proprie: pervertendo infine e soprattutto la politica, che è la capacità di giudicare la realtà, creando consenso o dissenso su questo giudizio.

Assistiamo così, con il contemporaneo arresto di Claudio Scajola e la condanna definitiva a Marcello Dell'Utri, a una rappresentazione clamorosa di contiguità operativa e politica con le mafie da parte del vertice di Forza Italia, il cui capo si dice "addolorato": perché la pubblica opinione non gli chiede qualche parola di più. Non gli chiede di spiegare che cos'era quel partito, che vede il leader ai servizi sociali dopo una sentenza per frode contro lo Stato, il suo braccio destro e quello sinistro - Dell'Utri e Previti - condannati definitivamente per reati infamanti per qualsiasi politico a qualunque latitudine (salvo che in Italia), il suo reclutatore della prima ora, Scajola, in carcere per aver favorito la latitanza di un ex parlamentare colluso con le 'ndrine. Le parole hanno ancora un significato, in Italia? E i fatti, contano qualcosa?

La grande amnesia ha funzionato da amnistia generale, preventiva e definitiva. Il Paese abbassa la sua soglia di sensibilità, sembra non sentire più il dolore, oppure gli antibiotici non funzionano più. Il virus galoppa anche per colpa nostra. Eppure il momento è questo, e siamo già in ritardo di vent'anni: bisogna pretendere da Renzi misure immediate e forti sugli appalti e sulle gare, perché il cambiamento comincia da qui, evidentemente. Subito. Bisogna che la magistratura vada avanti senza che qualcuno la blocchi con false riforme. Ma bisogna anche che i partiti non deleghino alle procure la pulizia al loro interno, e prendano posizione su quel che sta accadendo separandosene nei fatti, buttando fuori finalmente gli uomini compromessi e stabilendo regole nuove.

Solo così si tutela il mercato e il denaro pubblico, si crea nei cittadini un'opinione consapevole e avvertita, si trasmette la sensazione che il Paese può liberarsi dalla schiavitù della tangente, può cambiare. Dal '92 ad oggi gli Stati Uniti sono passati dall'economia dell'hardware a Google, Amazon, Twitter, Facebook e Whatsapp. Al padiglione dell'Expo noi rischiamo di esporre Greganti, Frigerio e Grillo, eterni talenti nazionali di un Paese che rischia di morire soffocato.

© Riproduzione riservata 12 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/12/news/grande_amnesia_italiana-85884755/?ref=HRER1-1


Titolo: EZIO MAURO. Il riformismo diventa maggioranza
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 12:22:35 pm
Il riformismo diventa maggioranza

Di EZIO MAURO
27 maggio 2014
   
Dunque è "un'Italia di pensionati", si suppone vecchia, impaurita e stanca, che ha sbarrato la strada alla trionfale avanzata di Beppe Grillo e al suo forcone già pronto ad infilzare in un colpo solo Napolitano e Renzi, aprendo così il primo processo del popolo decretato da un comico contro tutta la classe dirigente del Paese, in nome dell'unica rivoluzione al mondo proclamata sui divani bianchi di Vespa: solo che gli italiani, finito lo spettacolo e spaventati dal programma, hanno cambiato canale e la ghigliottina è rimandata.

È tipico del populismo auto-ipnotico dare la colpa agli altri dei propri errori e non saper leggere le ragioni della propria sconfitta. E infatti Silvio Berlusconi nasconde il suo declino dietro una campagna "dolorosa e sofferta per la condizione di uomo non libero", dimenticando che questa riduzione della libertà di movimento (non politica) è causa dei reati che ha commesso, accertati e sanzionati da tre Corti della Repubblica, dunque deriva interamente dalla sua responsabilità, non da una congiura.

L'identica reazione spaesata e fuori dalla realtà indica il parallelo declino dei due populismi (uno di destra, l’altro anche) che si contendevano la guida del grande malessere italiano sotto la pressione di una crisi senza fine, della rabbia dei cittadini per una politica inconcludente e perennemente inceppata, del disamore per una democrazia sempre più fondata sulle disuguaglianze e sui privilegi, dov’è saltato il tavolo di compensazione dei conflitti che ha tenuto insieme per anni — attraverso il lavoro, e i diritti che ne conseguono — i vincenti e i perdenti della globalizzazione.

Precipitato Berlusconi nel loop terminale di una parabola ormai asfittica, il rischio concreto era che i due populismi si passassero la staffetta, nella scorciatoia urlata e mimata nei palchi di tutt’Italia da chi promette soluzioni semplici a problemi complessi, in nome di un rifiuto non solo dell’Europa e dell’euro ma della politica tout court e di tutti i suoi rappresentanti. In una falsificazione che li vuole tutti uguali e tutti ugualmente colpevoli in attesa dell’angelo vendicatore grillino, smarrendo così la percezione politica dell’anomalia berlusconiana del ventennio e della prova che questo Paese ha attraversato, trasformata in avventura goliardica trasgressiva.

E invece gli elettori hanno rifiutato questo scambio al ribasso tra il voto e l’antipolitica che scommetteva sull’inferno quotidiano in nome dell’aldilà grillino. Invece di prendere a calci il sistema, come suggerivano gli imprenditori della rabbia, hanno preferito provare a cambiarlo. E il cambiamento, ecco la scommessa del voto, passa attraverso il governo, e quella parola antica che sembrava travolta dall’ondata montante del risentimento nazionale, il riformismo. Non solo: per la prima volta nel dopoguerra il progetto riformista supera il 40 per cento, doppia il livore grillino, riduce ai minimi termini Berlusconi e il partito che dominò il Paese umiliandolo. Improvvisamente, acquista un significato quella vocazione maggioritaria con cui era nato il Partito Democratico. E anche quella costruzione politica che traghettava oltre la stagione del Muro le due tradizioni dei cattolici democratici e dei comunisti (questi ultimi con il loro rendiconto tardivo e incompiuto) prende finalmente corpo come spina dorsale del sistema e si affaccia all’Europa come protagonista.

Renzi è l’attore di questa svolta. Ha probabilmente combinato metodi da opposizione e cultura di governo, ha sicuramente unito la pancia e la ragione degli elettori, ha certamente esagerato negli annunci e nelle promesse. Ma ha indicato un approdo di cambiamento governato ad un Paese eternamente in transito, nevrotizzato dagli estremismi berlusconiani e grillini, e dalle loro pulsioni diversamente unite in una radicalità di destra, con una “feroce gioia” comune contro le istituzioni repubblicane. È sorprendente che gli elettori abbiano accettato questa proposta politica nel mezzo di una crisi infinita e pesante, che ormai penalizza l’Italia più degli altri Paesi proprio per i ritardi e le ambiguità dei governi che si sono succeduti.

In tutto il continente l’antieuropeismo dilaga, triplicando le sue forze, con un testacoda spettacolare in Francia dove il socialismo del presidente Hollande scende sotto la legge di gravità e la nuova-vecchia destra lepeniana diventa primo partito. L’euroscetticismo ha ragioni fondate, con la divaricazione tra il potere (la potestà di fare le cose) e la politica (la capacità di scegliere le cose giuste da fare), le istituzioni lontane e meccaniche, l’Unione percepita soprattutto come un vincolo, senza che venga più percepita la legittimità di quel vincolo. Anche qui l’Italia poteva scegliere la scorciatoia cieca del gran rifiuto, per finire a galleggiare libera ma disancorata in mezzo al Mediterraneo. Ha scelto invece di provare a cambiare l’Europa. Cioè, nella stagione trionfante dell’antipolitica, ha scelto la politica.

Incredibilmente, l’Italia può provare ad essere agente del cambiamento europeo usando due strumenti che fino a ieri non aveva: la leva comunitaria della presidenza di turno dell’Unione, nel secondo semestre dell’anno, e la leva politica del Pse, di cui il Pd è oggi il primo partito. E qui diventa decisivo l’approdo al Pse di un Partito Democratico che per tre segreterie aveva galleggiato nell’indistinto europeo, bloccato dai vari Fioroni democristiani e da vecchi complessi comunisti, come se non fosse ben chiaro qual era la famiglia delle forze riformiste e di progresso europee. Invece bastava volerlo, bastava farlo. Adesso il Pse va usato per cambiare il codice europeo della crisi, aggiungendo le priorità assolute della crescita e del lavoro all’austerità, sotto la minaccia della deflazione.

Renzi ha dunque l’Europa come prima partita, la più ambiziosa. Le riforme sono la seconda, e dovrà strappare sulla legge elettorale, per chiudere al più presto, e trovare invece un compromesso ragionevole sul futuro del Senato, salvandolo ma superando definitivamente il bicameralismo perfetto. La terza sfida, è il suo partito. Nato come costruzione a tavolino, ora può diventare una comunità, un’agenzia culturale di cambiamento, un luogo di forte mobilità politica e di selezione di nuove classi dirigenti, sbarrando per sempre la strada ai troppi Greganti e agli eterni Penati, promettendo di ripulire le liste alle prossime elezioni, di cambiare la legge sulla corruzione, di fare la guerra alle mafie. Da qui, e non solo dalla riduzione delle auto blu, passa la modernizzazione del Paese.

Questa infatti è la vera posta in gioco. Chi — come dice la vignetta di Altan — mastica amaro a sinistra per la vittoria di Renzi e parla di ritorno della Dc, non legge la nuova geografia politica italiana che oggi Ilvo Diamanti illustra: la vittoria al Nord dopo la chiusura difensiva nella dorsale appenninica, la riconquista del Piemonte dopo la Sardegna e insieme all’Abruzzo, il boom di Milano, Verona, Varese, Como non sono solo segnali territoriali ma dislocazioni di ceti e soggetti sociali che vogliono un cambiamento perché l’arretratezza del Paese è una palla al piede per le loro attività. La sinistra può dunque parlare ad un centro non politico o ideologico, ma di interessi, che dopo l’illusione del laissez faire berlusconiano e l’inutile ruggito grillino può essere per la prima volta coinvolto in un progetto di cambiamento.

Guai se il cannibalismo professionale, l’aridità storica e l’albagia abituale del gruppo dirigente democratico disperdessero questa occasione nazionale. Guai se Renzi non capisse, proprio oggi, che per cambiare un partito bisogna rappresentarlo e rispettarlo. Guai se Grillo continuasse a sotterrare i talenti del consenso elettorale (ridotto) invece di spenderli in una sfida aperta e trasparente per le riforme, passando dalla politica recitata e minacciata alla politica reale. Resta Berlusconi, al bivio della successione tra la democrazia (un congresso, un vero confronto interno, le primarie) e la dinastia, un familiare cui trasmettere uno scettro spezzato e il conflitto d’interessi intatto. Sceglierà questa strada, semplicemente perché è quella che più garantisce la sua persona: e avvererà la profezia secondo cui tutto ciò che ha creato, lo distruggerà.

© Riproduzione riservata 27 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/27/news/il_riformismo_diventa_maggioranza-87334015/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO... il terrore che Ruby restasse in mano alla questura.
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2014, 06:06:13 pm
Una questione politica

Resta da spiegare la ragione di tanta fretta, i motivi di quelle bugie enormi, il terrore che Ruby restasse in mano alla questura


di EZIO MAURO
19 luglio 2014
   
A un anno di distanza, la sentenza d'appello sul caso Ruby assolve completamente Silvio Berlusconi dai due reati di concussione e prostituzione minorile, ribaltando del tutto la condanna di primo grado a sette anni che era andata addirittura oltre la richiesta del Pubblico Ministero Boccassini. Un rovesciamento clamoroso che cancella due accuse infamanti per chiunque ma insopportabili per qualunque uomo politico, e toglie l'ostacolo penale più grande dal pesante percorso giudiziario del Cavaliere, già condannato definitivamente a quattro anni per frode fiscale nel processo Mediaset e oggi indagato a Milano nel caso Olgettine per corruzione in atti giudiziari, imputato a Napoli per la compravendita di senatori nel processo De Gregorio, sotto richiesta di rinvio a giudizio a Bari per aver pagato Tarantini inducendolo a mentire sulle escort.

Il processo Ruby era la madre di tutte le battaglie di Berlusconi con la magistratura, anche perché riassumeva in sé molti degli elementi di un potere legittimo che concepiva se stesso come sciolto da ogni limite e ogni controllo, dunque sproporzionato nella concezione dei privilegi privati e degli abusi pubblici, intrecciati tra loro. Una storia che aveva fatto il giro del mondo, con la vergogna politica di far votare ad un parlamento succube la favola capace di trasformare una minorenne marocchina in nipote di Mubarak, dunque in caso internazionale.

Oggi la Corte d'Appello sanziona che non c'è stata concussione nella telefonata in cui il presidente del Consiglio ordinò al capo di gabinetto della questura di Milano di consegnare immediatamente e nottetempo la ragazza Ruby ad una vedette del bunga-bunga spacciata per "consigliere ministeriale": che appena dopo averla sottratta alla polizia abbandonò la minorenne da una prostituta brasiliana. Il fatto non sussiste, anche perché nella riforma approvata in fretta e furia all'epoca del ministro Severino la fattispecie della concussione si restringe e occorre dimostrare un vantaggio per il funzionario concusso. Così come non c'è, secondo la Corte, il reato di prostituzione minorile, probabilmente perché l'utilizzatore finale (come lo ha chiamato l'avvocato Ghedini) non conosceva l'età della minorenne nelle notti ad Arcore.

Resta tuttavia da spiegare - se il Paese e i giornali volessero saperlo - la ragione di tanta fretta e di un così grande affanno, i motivi di quelle bugie enormi, il terrore che Ruby restasse in mano alla questura o nella tutela del tribunale dei minori, la necessità di costruire ad ogni costo non un aiuto alla ragazza (la prostituta brasiliana non può esserlo) ma una scappatoia notturna a interrogatori, domande, possibili risposte. Perché questa impalcatura avventurosa, quest'ansia notturna che spinge un presidente del Consiglio ad interferire nelle procedure abituali della polizia dopo un furto, a far balenare addirittura un incidente diplomatico, a mandare una fidatissima olgettina a "esfiltrare" Ruby dalla questura per poi subito abbandonarla a missione evidentemente compiuta?

Non si tratta più di ipotesi criminali, dopo la sentenza d'appello. Si tratta tuttavia di interrogativi logici e perfettamente legittimi, soprattutto se riguardano un leader politico che al momento aveva anche responsabilità di governo. Nulla di moralistico, come dicono i cantori, nulla di voyeuristico. Siamo dentro il territorio pieno della politica, del profilo pubblico di un Primo Ministro, dell'uso privato che fa della sua carica e del suo peso istituzionale. Dell'imbarazzo repubblicano - come accadrebbe in ogni democrazia occidentale - per questa vulnerabilità costante che spinge ogni volta un Capo di governo a sporgersi oltre il limite alzando la posta dell'abuso per i potenziali ricatti, imprigionato in una rete evidente di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi, e il contorno di taglieggiamenti incrociati di profittatori e mezzani come Lavitola e Tarantini.

Scriviamo oggi le esatte parole che abbiamo usato un anno fa, al momento della condanna in primo grado: la questione è politica, non soltanto giudiziaria, nient'affatto moralistica. Questa evidente fragilità privata del Cavaliere rende vulnerabile la sua funzione pubblica, spiega l'eccesso di comando - grado supremo della sovranità carismatica - come forma politica di una potestà sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Un potere statale che protegge se stesso con ogni mezzo e in ogni forma e, dopo aver sempre privatizzato la funzione pubblica, nel caso Ruby rende pubblica persino la sfera privatissima del Capo.

Risolto il caso giudiziario (in attesa della Cassazione), rimane dunque ancora molto da capire: o da spiegare, senza giudizi morali, ma piuttosto con responsabilità politica. Forse adesso, liberato dall'incubo di una condanna che sommandosi alla pena del processo Mediaset avrebbe potuto cancellare i benefici dei servizi sociali, il Cavaliere può dare qualche spiegazione al Paese. Svelando il movente inconfessabile che lo ha spinto a rischiare una condanna a 7 anni per non lasciare una giovane ragazza ladra una notte in questura, fuori da ogni controllo della potestà di Arcore. Perché la polizia di Stato era un pericolo? E per chi?

Ci sono molte cose da chiarire, e Berlusconi potrebbe cominciare a farlo. Anche perché finisce con questa sentenza la leggenda della persecuzione giudiziaria nei confronti del Cavaliere: sarebbe bene che finisse anche la persecuzione politica della destra berlusconiana nei confronti della giustizia, con intimidazioni preventive come la marcia incredibile dei parlamentari davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, e con rivendicazioni postume, come chi oggi dopo l'Appello vuole brandire la riforma della giustizia come una clava.

Per noi, come un anno fa a sentenza ribaltata, conta il fatto che sia resa giustizia e cioè che i processi possano arrivare fino in fondo nonostante impedimenti di ogni tipo, assicurando uguaglianza di trattamento dei cittadini davanti alla legge. E perché ciò si compia, serve la reciproca autonomia tra politica e magistratura. Ecco perché è sbagliato, oltre che ridicolo, il corto-circuito che Forza Italia tenta un minuto dopo la sentenza, riscrivendo in forma eroica il disastroso addio del Cavaliere al governo, quasi fosse un "colpo di Stato" prodotto dal caso Ruby e non la presa d'atto finale dello sfarinamento di una leadership. Si tratta di un pretesto ideologico per costruire un'epica ideologica a posteriori, che nella dissimulazione della condanna e delle imputazioni esistenti narra al Paese la falsa leggenda della vittima innocente per costruire un percorso impossibile che arrivi alla grazia.

Ieri la cornice di pretesto era la pacificazione: oggi l'assoluzione. Lo Stato è come sempre il mezzo strumentale, prima la maggioranza di governo delle larghe intese, poi l'intesa per le riforme. Ma lo Stato, la sua ri-definizione istituzionale di norme e regole, non sopportano scambi sottobanco, ricatti, patti segreti di garanzia invisibile. Oggi Berlusconi è stato assolto da due reati infamanti per un Premier: si deve dargliene atto. La sua vicenda giudiziaria resta complicata e pesante, per il passato e per il futuro immediato: deve prenderne atto.

Questa è la realtà dei fatti. Berlusconi può riagguantare un partito stremato e diviso, immediatamente impaurito dal suo ritorno a capotavola. Ma non può riagguantare un intero sistema politico sottoponendolo nuovamente ad un ricatto istituzionale, per scambiare riforme costituzionali con salvacondotti privati. Ci proverà, ma inutilmente, e a quel punto minaccerà di far saltare il tavolo delle riforme. Anche qui inutilmente, per due ragioni: perché esistono altre maggioranze riformatrici possibili. E soprattutto perché nessuna riforma vale il prezzo dell'autonomia delle politica e delle istituzioni e al contrario, della loro deformazione.

© Riproduzione riservata 19 luglio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/19/news/questione_politica-91921352/?ref=HREC1-2


Titolo: EZIO MAURO. L'Occidente da difendere
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 05:31:08 pm
L'Occidente da difendere

di EZIO MAURO
05 settembre 2014
   
La terza Nato nasce in Galles dopo la prima, figlia della Guerra Fredda e la seconda dell'età di mezzo, quando con la caduta del Muro sembrò aprirsi un secolo lungo senza più nemici per le democrazie che avevano infine riconquistato il Novecento. La guerra di Crimea riporta nel cuore d'Europa, dove sono nate le due guerre mondiali, truppe, missili, carri armati, morti, feriti, aerei abbattuti. Ritorniamo a guardare i nostri cieli e le nostre mappe con quella stessa inquietudine per il futuro dei nostri figli che i nostri padri avevano ben conosciuto, e noi non ancora. E dagli arsenali della politica, della cultura, della diplomazia e della strategia militare rispuntano insieme con vecchie paure i concetti dimenticati delle "zone d'influenza", dei "blocchi", delle "esercitazioni", dei Muri, della frontiera europea tra Occidente e Oriente, con l'Ovest che ritrova il suo Est e il Cremlino fisso nuovamente nella parte del "nemico ereditario".

Misuriamo con uguale inquietudine gli sconfinamenti ucraini di Putin e la sua popolarità crescente in patria, nonostante le sanzioni. Scopriamo quel che dovevamo sapere, e cioè che l'anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile, dunque non è una creatura ideologica del sovietismo ma lo precede, lo accompagna e gli sopravvive. Anzi: dopo gli anni di interregno, con il pugno di ferro interno e la spartizione oligarchica del bottino di Stato, l'Oriente russo torna a marcare un'identità forte, una sovranità territoriale e politica che mentre si riprende la Crimea non nasconde velleità su Kiev e tentazioni sui Paesi baltici, come se Mosca si ribellasse alla storia e alla geografia d'inizio secolo, contestandole e impugnandole davanti alla sua ossessione ritrovata: l'Occidente.

Nello stesso momento il Califfato islamista appena proclamato tra Siria e Iraq non ha ancora un vero Stato, una capitale, un sistema di relazioni, ma ha un pugnale puntato alla gola di uomini scelti per simboleggiare nel loro martirio individuale una sorta di sfida universale, che va addirittura oltre lo spettacolo di morte dell'11 settembre. La morte sceneggiata come messaggio estremo alla potenza americana, sotto gli occhi di tutto il mondo, rito primitivo del fanatismo religioso e marketing modernissimo del deserto. Nella sproporzione assoluta tra l'inermità innocente del prigioniero e la potestà totale del suo assassino (uno squilibrio miserabile, che esiste soltanto fuori dallo Stato di diritto, dai tribunali, dalle garanzie e dai diritti) si radunano i simboli e le vendette per la guerra del Kuwait dopo l'invasione di Saddam, la caccia ad Al Qaeda in Afghanistan con la ribellione all'attacco contro le Torri, la guerra in Iraq, l'uccisione di Bin Laden, ma anche la sfida islamista tra ciò che resta di Al Qaeda e l'Is, lo Stato Islamico, una partita aperta per l'egemonia politico-religioso-militare del fanatismo. Costruire sul terrore il Califfato significa soprattutto cancellare ogni rischio di contagio democratico anche parziale nei Paesi islamici, ogni istituto prima ancora di ogni istituzione, in nome di quell'"isolazionismo" che Bin Laden predicava e minacciava per cacciare dalla penisola musulmana "i soldati della croce", con i loro "piedi impuri" sui luoghi sacri. Il nemico definitivo è dunque chiaro: l'Occidente.

Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l'avversario eterno, l'Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all'altezza della sfida? Ha almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola, mentre Putin sta rialzando un muro politico e diplomatico che fermi l'America, delimiti l'Europa e blocchi la libertà di destino dei popoli? La risposta della politica è inconcludente, quella della diplomazia non va oltre le sanzioni. Resta la Nato, il vertice del Galles, la polemica sulle spese, il progetto di esercito europeo. Ma la domanda si ripropone oltre la meccanica militare: la Nato può funzionare e avere un significato da protagonista delle due crisi senza una soggettività politica chiara dell'Occidente? In sostanza, il nemico (o meglio: colui che ci elegge a nemico) ha una nozione di noi più chiara di quella che noi abbiamo di noi stessi.

Per tutto il breve spazio "di pace" che va dalla caduta del Muro all'11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della guerra fredda e non come un elemento della nostra identità culturale, istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto dall'avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua durata. Anche gli scossoni geografici nell'Europa di mezzo, seguiti alla caduta del blocco sovietico, e le proposte di allargamento dell'Unione sono stati gestiti con parametri più economici, di mercato e di potenza che ideali. Quel pezzo di Occidente che si chiama Europa è sembrato a lungo incapace di avere un'idea di sé che non nascesse per differenza dal confronto con il comunismo orientale, e quando il sovietismo è caduto è parso in difficoltà a definirsi, a concepirsi come la terra dov'è nata la democrazia delle istituzioni e la democrazia dei diritti. Qui sta la ragione della comunità di destino - e non solo dell'alleanza - con gli Stati Uniti, e stanno anche le ragioni specifiche che l'Europa porta in questa intesa, il rispetto degli organismi internazionali di garanzia e delle regole di legalità internazionale, che per un'alleanza democratica (anche quando è guidata da una Superpotenza) valgono sempre, anche quando è sotto attacco: perché la democrazia ha il diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa.

Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l'11 settembre) che non è l'America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori, abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è l'abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l'oggetto dell'attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere - sia pur riconoscendo la sua legittimità - e coltiviamo la libertà del dubbio.

Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l'Is. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?

La sfida è anche all'interno del nostro mondo. Perché nell'allontanamento dalla politica e dalle istituzioni dei cittadini dell'Occidente c'è la sensazione che siano diventate strumentazioni inutili di fronte alla grande crisi economica e alle crisi locali aperte nel mondo. E che la stessa democrazia oggi valga soltanto per i garantiti, lasciando scoperti dalle sue tutele concrete gli esclusi. La somma delle disuguaglianze sta infatti facendo traboccare il nostro vaso: sono sempre esistite, nella storia dei nostri Paesi, ma erano all'interno di un patto di società che prevedeva mobilità sociale, opportunità, libertà di crescita e questo teneva insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle varie congiunture, dello sviluppo, della globalizzazione. Oggi si è rotto il tavolo di compensazione dei conflitti, il legame sociale tra il ricco e il povero, la responsabilità comune di società. Tra i precari fino a quarant'anni e licenziati di 50, produciamo esclusi per i quali la democrazia materiale non produce effetti: e perché per loro dovrebbe produrne la democrazia politica, la partecipazione, il voto?

Contemporaneamente, una parte sempre più larga di popolazione ha la sensazione davanti alle crisi che il mondo sia fuori controllo. E cioè che il sistema di governance che ci siamo dati faticosamente e orgogliosamente nel lungo dopoguerra si sia inceppato, e non produca governo dei fenomeni in atto. Per la prima volta si blocca quello scambio tra il cittadino e lo Stato fatto di libertà e diritti in cambio di sicurezza. Ci si sente cittadini dentro lo Stato nazionale, ma si percepisce che lo Stato-nazione non controlla più nessuno dei fenomeni che contano nella nostra epoca, non ha prodotto istituzioni e democrazia in quello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e informativi dove non per caso la nostra cittadinanza - il nostro esercizio soggettivo di diritti - è puramente formale. Delle istituzioni sovranazionali a noi più vicine - la Ue - sentiamo nitidamente il deficit di rappresentanza e quindi di democrazia. Portiamo in tasca una moneta comune senza sapere qual è la faccia del sovrano che vi è impressa, senza un'autorità capace di spenderla politicamente nelle grandi crisi del mondo, senza un esercito che la difenda. Alla fine dell'Europa sentiamo il vincolo, certo, ma non la sua legittimità.

La stessa America, che doveva essere la Superpotenza superstite al Novecento e dunque egemone, avverte la crisi della sua governance proprio quando l'elezione di Obama aveva dispiegato tutta l'energia democratica di quel Paese, come se quel voto avesse avvertito la coscienza dell'ultimo limite (la differenza razziale come impedimento ad un pieno dispiegamento dei diritti) e la necessità infine di superarlo. Ma nel momento in cui spezzando l'unilateralismo bushista Obama, dopo aver offerto invano il dialogo all'Islam, porta l'America fuori dalle guerre sul terreno, chiudendo un'epoca, la democrazia americana si scopre disarmata e in difficoltà a tradurre la sua forza in politica, e vede Mosca riarmarsi e Pechino lucrare vantaggi competitivi all'ombra delle crisi che investono direttamente Washington.

È come se stessimo testando il confine della democrazia, quasi non riuscisse più a produrre rappresentanza, governo e istituzioni capaci a rispondere alle esigenze dell'epoca. Come se fosse una costruzione del Novecento, giunta esausta a questo pericoloso inizio di secolo. Non sarebbe la fine di un'ideologia, ma di tutto il fondamento dello Stato moderno, di una cultura politica, di un'identità. Per questo l'Occidente oggi va difeso, con ogni mezzo, da chi lo condanna a morte. Anche Vladimir Putin dovrebbe riflettere sulla sfida islamista, domandandosi per chi suona la campana, magari recuperando negli archivi del Cremlino la lettera che l'ayatollah Khomeini scrisse all'ultimo segretario generale del Pcus nel gennaio del 1989: "È chiaro come il cristallo che l'Islam erediterà le Russie".

© Riproduzione riservata 05 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2014/09/05/news/l_occidente_da_difendere-95037708/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Il dramma del lavoro che spacca l'identità della sinistra
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:31:54 am
Il dramma del lavoro che spacca l'identità della sinistra

di EZIO MAURO
05 novembre 2014
   
Dice il presidente del Consiglio che non bisogna usare il tema del lavoro per spaccare l'Italia. In realtà più che un tema è un dramma, con la disoccupazione al 12,6 per cento, e un ragazzo  -  quasi  -  su due che non ha un posto, nemmeno precario: l'Italia è in realtà già spaccata, e nel modo peggiore, tra chi è garantito e chi no. Dunque non possiamo permetterci strumentalizzazioni. Ma nemmeno ideologizzazioni. E invece ci sono state, in abbondanza. Anzi, per settimane abbiamo assistito ad una dichiarata trasformazione dell'articolo 18 in tabù, totem e simbolo per entrambe le parti in causa, governo e sindacati. Finché l'ideologia ha prevalso sulla sostanza. E nello scontro tra le opposte ideologie ha vinto quella dominante: perché anche i mercati e la Ue ne hanno una, capace di resistere persino all'evidenza della crisi che dovrebbe sconfessarla.

Bisogna dunque essere onesti, e dire che l'occasione ideologica è stata colta al volo da Renzi e dalla sinistra sindacale per un'evidente ragione identitaria, con obiettivi contrapposti. Per il Premier, un blairismo a portata di mano (in un Paese che però ha avuto vent'anni di Berlusconi, non di Thatcher: populismo demagogico invece di estremismo liberista), e soprattutto una carta da giocare sull'altare del rigore europeo, per provare a guadagnare credito da convertire in flessibilità per la crescita. Per la Cgil un plusvalore politico immediato, che richiama la tradizione, recupera la storia, costituisce l'identità, crea automaticamente un campo.

E infatti la minoranza interna del Pd si è immediatamente iscritta a quel campo, recuperando un significato generale per la sua battaglia particolare di resistenza al potere renziano.

Già qui, ci sarebbe da riflettere sull'importanza culturale della questione-lavoro, se nel 2014 è ancora capace di attribuire soggettività e dignità politica, di creare una piattaforma strategica, di costituire un perimetro identitario. Altro che Novecento, altro che post-fordismo, altro che stella morta. C'è un'evidente sostituzione tecnologica in atto con il capitale che tenta di farsi direttamente lavoro, c'è una lunga generazione che è diventata adulta restando precaria, c'è una nuova fascia di espulsi cinquantenni che perdendo il posto rischiano di perdere anche la fiducia nella democrazia materiale, sospettata in questi anni di crisi di far valere i suoi buoni principi soltanto per i garantiti. Ma la questione resta centrale per qualsiasi Paese, per qualunque governo: e per ogni sinistra contemporanea, di vecchio o nuovo conio.

Alla questione del lavoro si legano infatti i valori a cui la sinistra non può fare a meno di far riferimento, anche nel nuovo secolo, le opportunità, i bisogni, la nuovissima necessità  -  come dice il Premier francese Valls  -  di "orientare la modernità per accelerare l'emancipazione degli individui". Infine e come sempre l'uguaglianza, questa volta in forma difensiva. Perché non c'è dubbio che le disuguaglianze stiano diventando la cifra dell'epoca. E se in passato la crescita e l'ascensore sociale di una società in espansione "scusavano" le disuguaglianze, oggi la crisi del lavoro le trasforma in vere e proprie esclusioni, che una democrazia molto semplicemente non può permettersi, perché non le contempla.

Questo significa che Renzi doveva fermarsi sull'articolo 18? No, ho già spiegato le ragioni del suo calcolo europeo, di cui non conosciamo ancora l'esito. Ma c'era e c'è ancora una modalità diversa di governare la questione, cioè una cultura e una consapevolezza che sono il segno distintivo di un leader di sinistra, e a mio giudizio non tolgono efficacia all'azione di cambiamento, anzi l'aumentano.

Il Premier poteva infatti spiegare al Pd che tocca alla sinistra di governo affrontare la riforma del lavoro perché altrimenti lo farà la crisi che non è un soggetto neutro, ma trasformando in politica il dogma della necessità mette i Paesi con le spalle al muro, tagliando a danno dei più deboli e non riformando nell'interesse generale. Nello stesso tempo poteva richiamare davanti ai suoi ministri il rischio che la crisi comprima soltanto i diritti del lavoro, come se fossero  -  unici tra tutti  -  variabili dipendenti, diritti nani, pretendendo quindi un'attenzione particolare alle tutele degli ammortizzatori sociali.

Poi poteva dire agli imprenditori che non ci sono pasti gratis neppure per loro, e che dopo la modifica dell'articolo 18 e il taglio dell'Irap dovevano fare la loro parte contribuendo a mantenere i costi della democrazia, quindi del welfare, di quella qualità complessiva del sistema sociale di cui tutti ci gioviamo, qualunque sia il nostro ruolo. Quindi doveva avvertire tutti i soggetti sociali del rischio che si rompa il vincolo tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, con i primi (abitanti degli spazi sovranazionali dove si muove il vero potere dei flussi informatici e finanziari) che non sentono più alcun legame di comune responsabilità con i secondi, segregati nello Stato-nazione che non ha più alcun potere di intervento e di controllo sulla crisi, salvo subirne tutti i contraccolpi. E infine, doveva avvertire il sistema politico e istituzionale, e addirittura l'Europa, del pericolo che attraverso il lavoro salti il nucleo stesso della civiltà occidentale, ciò che ha tenuto insieme per decenni capitalismo, democrazia rappresentativa e welfare state.

Di questo si tratta: e capisco che sia difficile comprimere la questione in un tweet. Ma in politica non tutto è istantaneo e non tutto è istintivo, se non vuole diventare tutto isterico, e alla fine instabile. Renzi è percepito come un politico capace di cambiare, e la sua spinta al cambiamento ha tagliato le gambe al populismo della vecchia destra berlusconiana e al furore anti-istituzionale della nuova destra grillina. Dunque il processo di riforma può essere utile al Paese e persino ad un sistema politico screditato ed estenuato, di cui il Pd oggi è nonostante tutto la spina dorsale. Ma qui nasce una seconda domanda: per Renzi il Pd è uno strumento opportunistico attraverso cui conquistare il potere o è una scelta culturale, politica, identitaria di responsabilità?

Io credo sia una scelta di convinzione, come dimostra anche il fatto che Renzi è il primo segretario democratico che ha portato il Pd nel Partito Socialista Europeo. Ma questa scelta comporta alcune conseguenze che possono sembrare obblighi, e a mio parere sono invece opportunità. Non mi spaventa l'idea di fare del Pd un partito-nazione, se questo significa non certo cambiare nome, natura e impianto, ma saper rappresentare l'interesse generale chiedendo un consenso maggioritario, nella scia del country-party contrapposto al court-party chiuso in sé. La sinistra italiana ha non solo il diritto, ma il dovere (come in altre democrazie) di parlare all'intero Paese. Ma a patto che lo faccia in nome e per conto della sua identità: questo è il punto. Un'identità certo risolta, compiuta, modernizzata, ma che si può testimoniare a testa alta senza camuffarla o renderla ambigua. Per intenderci: nel New Labour di Tony Blair c'è certo il new, inseguito da Renzi, ma c'è pur sempre il labour, che il Premier non vede.

Diventa dunque singolare che nella sua spinta al cambiamento il segretario del Pd non consigli al Premier di usare anche l'altra metà del partito, quella di non stretta osservanza renziana, e il suo deposito di valori, di passioni, di storia e di tradizione. Diventa incomprensibile che a questa metà regali addirittura la bandiera del lavoro, con tutti i riflessi  -  anche condizionati  -  che comporta, compresa la costituzione immediata di un'identità storico-culturale, dunque politica. Da anni il Pd attendeva un'occasione di allargamento della sua base elettorale, e se la leadership di Renzi la realizza (come testimonia la ricerca di Ilvo Diamanti sui ceti sociali e le professioni), questa è un'occasione per il partito, per la sinistra, per il Paese. A condizione di non cambiare la propria natura. Io credo, in sostanza, che la sinistra vada modernizzata in senso europeo, occidentale, riformista, intendendo con questo la capacità di assumersi le responsabilità che la sfida di governo comporta, compresi i compromessi, compresi gli strappi. Ma credo che la sinistra debba ricordarsi di sé cambiando, non smarrirsi. Anzi, più è cosciente di se stessa, e insieme della necessità di cambiare, più può spiegare al Paese che gli strumenti politici che ha nello zaino sono i più adatti a gestire questa lunga fase di crisi: non i manganelli di Alfano nei cortei degli operai che hanno perso il lavoro.

La sfida è tutta qui, e non è poco. D'altra parte lo ricordava proprio lunedì una vecchia lettera di un antifascista liberale come Franco Antonicelli riproposta da Repubblica: "Ci vuole molto, molto amore per distruggere a fondo, molto e tenace orgoglio del passato per rinnovarsi davvero".

© Riproduzione riservata 05 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/05/news/il_dramma_del_lavoro_che_spacca_l_identit_della_sinistra-99781591/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. Una nuova stagione
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:33:41 pm
Una nuova stagione

Di EZIO MAURO
12 gennaio 2015
   
IL LUTTO, le lacrime. Ma insieme, la riconferma e anzi la riconquista di uno spazio di libertà violato dai terroristi assassini nella redazione di un giornale e in un negozio ebraico. Con due milioni di persone in strada che cantavano la Marsigliese e il resto della città ad applaudire dalle finestre e dai balconi, Parigi ha testimoniato ieri qualcosa di più del dolore per le vittime e della resistenza al terrorismo: è la coscienza risvegliata del valore della democrazia in cui viviamo.

"Democrazia, tolleranza, laicità" lo dicevano migliaia di distintivi, manifesti, messaggi scritti a mano, così come gli applausi alla pattuglia superstite di Charlie Hebdo celebravano nella libertà di espressione la passione per la libertà intera. Cinquanta capi di Stato e di governo hanno davvero fatto di Parigi ieri la capitale di un mondo che ripudia la violenza e l'odio perché vuole vivere in pace difendendo  -  ad ogni costo  -  i diritti di tutti e di ciascuno e l'idea di libertà che è alla base del progetto di Europa.

E l'Europa politica si è vista forse per una volta per le strade di Parigi in questa difesa della democrazia da parte di cittadini consapevoli di avere qualcosa per cui lottare e in cui credere perché è qualcosa che vale. Davvero, come ci ha detto in italiano il premier Valls in un boulevard intitolato a Voltaire, quello di ieri a Parigi può essere un giorno di svolta per l'Europa, l'inizio di una nuova stagione.

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/01/12/news/una_nuova_stagione-104761771/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. Nel frattempo crescono Grillo e Salvini
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2015, 11:57:51 am
Il Pd, per la irriducibile mancanza di legittimazione reciproca tra Renzi e la sua sinistra, ha disperso un patrimonio politico.
Nel frattempo crescono Grillo e Salvini

Di EZIO MAURO
02 giugno 2015
   
DIETRO la mappa rossa dell'Italia che lascia tre sole Regioni alla destra, e dietro la vittoria numerica di domenica per 5 a 2, c'è una sconfitta politica per il Pd di Matteo Renzi. Prima di tutto perché una destra scompaginata e divisa è riuscita comunque a mantenere le posizioni di cinque anni fa, con due successi netti e un profilo fortemente competitivo in Campania e persino in Umbria, segnalando che anche le Regioni rosse possono diventare contendibili. Poi perché il trionfo di Zaia sulla Moretti in Veneto e la conquista della Liguria da parte di Toti segnalano che l'innamoramento del Nord per il centrosinistra alle elezioni europee in realtà era solo un flirt. Aggiungiamo che la destra ha cambiato driver e al sole spento di Berlusconi, un leader ridotto ai minimi termini, si è sostituita la stella lepeniana di Salvini, con la forza d'urto del collezionista di paure e inquietudini crescenti nel grande tinello italiano, davanti all'universalismo senza governo.

Lì di fianco, nel territorio senza insegne dell'antipolitica, il Movimento 5 Stelle conferma la sua presa sul malcontento e sul risentimento, ma con un embrione di classe dirigente che sta prendendo volto e coraggio, in una crescente autonomia tecnico-parlamentare dalle liturgie web-autoritarie di Grillo. A un anno dal trionfo renziano alle Europee, oggi il secondo e il terzo partito italiano sono forze anti euro e anti sistema stabilmente insediate nell'elettorato e nel meccanismo istituzionale che contestano. Quelle elezioni europee del 40 per cento sembrano molto lontane. Il deperimento nei numeri e nelle percentuali del Pd lo rende oggi un vincitore barcollante e incerto, con le cifre di un'astensione selvaggia che evidenziano la crepa aperta tra il Pd, Renzi e la pubblica opinione.

È ancora forte l'investimento di fiducia nel leader rottamatore, nella convinzione che sia oggi l'unica vera leva di cambiamento per la politica nazionale. Ma il crinale che divide la retorica della rottamazione dalla predicazione dell'antipolitica è sempre stato molto stretto, e coltivando la prima si rischia di annaffiare la seconda. Così, specialmente al Sud, le vittorie del Pd portano il volto di due leader della sinistra populista come Emiliano e De Luca, super-sceriffi abili e diversamente disinvolti, insediati dal voto come potenze sempre più autonome da tutto, dalle regole, dalla distinzione tra destra e sinistra, dal Pd e naturalmente da Renzi. Ce n'è abbastanza per ballare politicamente, altro che fotografarsi davanti alla Playstation dopo la lettura dei risultati, per trasmettere agli elettori un segnale di tranquillità da oratorio, che è invece un segnale del nulla, senza significato e dunque inquietante come tutte le false sicurezze. Bisognava forse pensare, l'altra sera, che c'era un popolo disperso che davanti ai siti e alle tv si interrogava sul destino di questo Paese alla fine di una transizione eterna, e persino sul destino della sinistra, ritenendola lo strumento politico più adatto a gestire la fuoruscita dalla crisi, coniugando opportunità e equità.

Qui sta il nodo che tiene insieme lo stop elettorale per Renzi e le chance per il futuro. Col voto delle europee, con la debolezza degli avversari, con il credito renziano per il cambiamento, il Pd poteva profilarsi non solo come il partito di maggioranza relativa ma come la spina dorsale del sistema politico-istituzionale. E infatti il capolavoro dell'elezione di Sergio Mattarella aveva confermato il Pd nel ruolo di player centrale e indiscusso. Invece di capitalizzare questo risultato, con un patto interno al partito per affrontare una stagione forte di riforme condivise in Italia e in Europa, si è disperso un patrimonio politico, gettando al vento un'opportunità straordinaria. Ciò è avvenuto per una ragione ben più profonda del conflitto verticale tra Renzi e la sua sinistra, andato in scena pubblicamente ogni giorno. La ragione è culturale e sta racchiusa in una mancanza permanente e irriducibile di legittimazione reciproca. La minoranza considera Renzi un abusivo, non un Papa straniero ma il capo di un manipolo di invasori alieni, mentre è evidente che il premier ha legittimamente conquistato il partito così come legittimamente aveva perso le primarie contro Bersani. Questo atteggiamento porta al paradosso, per alcuni, di preferire una sconfitta del leader a una vittoria del partito. Dall'altro lato, Renzi in questi mesi ha diffidato più della sua sinistra interna che della destra berlusconiana, dimenticando che quella è una cultura e una classe dirigente fondatrice del Pd, dunque indispensabile alla sua storia, alle sue ragioni e al suo futuro. In realtà a ben guardare si contrappongono due logiche fortemente minoritarie: quella di una sinistra che fa gioco di interdizione invece di pensare in grande, nel campo aperto, parlando al Paese attraverso il Pd e aiutando-sfidando il premier con la forza delle idee del riformismo occidentale, non con il rimpiattino che trasforma ogni proposta del governo in una trincea d'opposizione; e quella del segretario del più grande partito italiano che incredibilmente si riduce a guidare solo la sua metà di stretta osservanza e si accontenta di comandarlo invece di rappresentarlo. Con il risultato di pensare a vincere più che a cambiare il Pd, soprattutto nel Mezzogiorno, dove si è lasciata marcire una situazione inconcepibile dal punto di vista della legittimità del capolista e della legalità di molti candidati impresentabili: favorendo infine la scomunica mai vista in Occidente di un capolista da parte della Commissione Antimafia a poche ore dal voto, con un'irritualità democratica che sa di guerriglia esportata dal partito alle istituzioni, come ha spiegato qui Roberto Saviano.

Si tratta infine, com'è evidente, di sciogliere quel nodo concettuale e culturale che stringe il Pd. È chiaro che la sinistra oggi deve cambiare, e infatti ha ottenuto il miglior risultato di sempre su una promessa di cambiamento, con un leader che la incarna. Ma per arrivare dove, come, e con chi? Se il partito della nazione vuol dire che l'albero e il fusto cresciuti saldamente nel campo della sinistra sanno prolungare le fronde fino al centro, allora è ciò che si aspettava da sempre, ciò che hanno fatto Mitterrand, Blair e anche Hollande parlando e convincendo ceti e interessi di centro in nome dell'identità risolta e sicura di una sinistra moderna, europea, occidentale, che vuole governare. Se invece il partito della nazione è il partito della sostituzione, con un trapianto centrista che soppianta i rami nati e cresciuti a sinistra, allora diventa un'altra cosa, e lascia sguarnita una parte rilevante e indispensabile del campo e di conseguenza del corpo elettorale, cambiando la natura dell'insieme. Le responsabilità del voto di domenica e della notte elettorale agitata del Pd sono di tutta una classe dirigente non all'altezza delle occasioni che la fase offriva, e che forse sono già svanite. Ma naturalmente la responsabilità maggiore sta al capo di quel partito, che ha oggi un enorme potere essendo anche capo del governo. Per continuare fino al 2018 c'è bisogno non solo del premier, ma anche del segretario del Pd, che spesso latita, e che invece deve imparare a usare lo strumento-partito nell'interesse del Paese. Per andare a votare, poi, c'è bisogno dell'intero Pd, capace di ritrovarsi comunità, all'interno e con i suoi elettori. Solo così si potrà coniugare il cambiamento con la responsabilità. Anche perché fuori, intanto, prospera una doppia alternativa radicale. Dopo vent'anni di berlusconismo, non saranno né il moderatismo, né il moderno conservatorismo europeo, tantomeno il liberalismo ad ereditare il guanto di sfida lasciato ormai cadere dall'ex Cavaliere, ma l'estremismo che forza le porte del sistema e dell'Europa. Le due campane di Grillo e Salvini hanno lo stesso rintocco, e suona per noi.

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02 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-regionali-edizione2015/2015/06/02/news/per_chi_suonano_le_due_campane-115847586/?ref=HRER3-1


Titolo: EZIO MAURO. Matteo senzaterra
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:13:13 pm
Matteo senzaterra

Di EZIO MAURO
16 giugno 2015
   
MATTEO senzaterra. Questa la nuova immagine del presidente del Consiglio e soprattutto del segretario del Pd, man mano che i Democratici cedono terreno a Grillo e alla destra perdendo Nuoro, Fano, Arezzo, Gela, Augusta, Enna e soprattutto Venezia, capitale simbolica di questa sconfitta incubata nei municipi e nei territori, proprio dov'era nata la sfida renziana.

Avevamo avvertito che le regionali erano una vittoria numerica, ma una chiara sconfitta politica. Adesso la crisi del Pd, nonostante i successi a Mantova, Lecco, Segrate, Trani e Macerata, è anche numerica ed è davanti agli occhi di tutti: negarla è impossibile per cinque ragioni evidenti.

L'astensione che supera il 50 per cento anche in elezioni comunali conferma che l'incantamento è rotto e il renzismo si deve guadagnare il pane nella lotta di tutti i giorni, senza rendite di posizione: diventa uguale agli altri. L'inseguimento del partito della nazione ha lasciato sguarnito il fianco di sinistra, e la disaffezione si vede e soprattutto si conta. La rincorsa al centro arranca perché il cambiamento ristagna. Il Pd è il luogo del conflitto e non delle idee, del risentimento e non del sentimento di una sinistra moderna.

Lo scandalo ininterrotto di Roma e gli impresentabili ammucchiati attorno all'impresentabile De Luca in Campania entrano in contraddizione con la retorica della rottamazione e la annullano: soprattutto quando il vertice tace, e come dice il proverbio in qualche modo acconsente.

O Renzi fa il Capo del governo e libera l'autonomia del Pd, trasformandolo in quel soggetto politico che non è, oppure deve occuparsi del partito, dotandolo del fondamento culturale che ancora manca, e che è la base e la fonte sicura di ogni scelta politica consapevole: com'è possibile ad esempio che sui migranti non sia ancora nata una moderna cultura di sinistra, capace di coniugare la domanda di sicurezza con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, lasciando invece il campo libero al pensiero unico e feroce di Salvini? E non sarebbe questo il miglior terreno di protagonismo e di sfida per la sinistra interna, invece del ruolo meccanico e subalterno che si limita a dire no a ogni proposta del premier?

Il test amministrativo conferma che la destra è ormai una presenza fissa sulla scena italiana  -  così come l'antipolitica grillina  -  anche quando è allo stato gassoso, senza un recipiente e un'etichetta. Berlusconi non lascia un erede perché non lascia una cultura, ma ha evocato un mondo, che continuerà ad essere abitato a destra dopo di lui.

Ma a ben guardare, il test dice qualcosa di più. Paradossalmente gli sfidanti in crescita, M5S e destra, oggi non hanno leadership nazionale ma hanno un'identità politica e la radicalità di una proposta, due elementi che in politica creano un "campo" riconoscibile e riconosciuto. Il Pd ha leadership, e poco altro. In un Paese frastornato, non basta più.

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16 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/16/news/matteo_senza_terra-116947397/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. Il corpo degli altri
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2015, 06:56:03 pm
Il corpo degli altri

Di EZIO MAURO
05 settembre 2015
   
Come in guerra, contano solo i corpi. I corpi, l'acqua che li porta e la terra: come se fosse da difendere o da riconquistare, adesso che i corpi la attraversano. Naturalmente ci sono i numeri, che danno la dimensione del fenomeno che chiamiamo migrazione, e le sue proiezioni politiche. Ma parlano il linguaggio della razionalità, dunque contano poco, di fronte alla forza simbolica dei corpi e alle paure che suscitano. I corpi degli altri, naturalmente. Noi siamo un insieme, una collettività, una società, una serie di appartenenze e di identità di gruppo che consentono di agire attraverso i nostri rappresentanti, senza spingere i corpi in prima linea. Loro - gli altri - non sono nulla di tutto questo. Non persona, non individuo, non cittadino, senza qualcuno che li rappresenti e spieghi i loro diritti o anche soltanto le loro ragioni: né un partito, né uno Stato, né un sistema d'informazione. Così per forza i corpi agiscono e insieme spiegano se stessi.

Corpi disarmati, nudi, senza nient'altro che una pretesa ostinata e incontenibile di sopravvivere, aprendosi uno spazio nella porzione di terra che consideriamo nostra, dopo essere scampati al mare.

Mentre guardiamo quei corpi azzerando per loro ogni valenza umanitaria, giuridica, civile, cioè eliminando l'universalità dei diritti dell'uomo e la soggettività del cittadino, noi azzeriamo senza accorgercene la politica, la mettiamo fuorigioco. Se non ha a che fare con persone, individui, cittadini ma con cose - strumenti scomodi d'ingombro - la politica infatti è impotente, anzi inutile. Così i corpi possono mostrarsi in tutta la loro evidenza: neri, diversi, straccioni, disperati, affamati, disposti a tutto. Senza la mediazione della politica agiscono in proprio come messaggio d'allarme per la popolazione indigena che siamo noi. Soprattutto la parte più fragile, sola e indifesa, anziani che vivono nei piccoli centri e magari non sono mai usciti dal Paese, e oggi trovano gli " altri" sulle panchine delle aiuole sotto casa. Una fascia di cittadini che si sente minacciata dalla contiguità della diversità, teme confusamente per la sicurezza, per le infiltrazioni jihadiste, per il lavoro, in realtà per la perdita di uniformità, nella paura che venga meno la coesione di esperienze condivise, di fili biografici intrecciati in una unità di luogo, di storia, di esperienza e di tradizione. Come perdere la memoria, e con la memoria il futuro.

Senza la politica in gioco, una sua sottospecie domina intanto il campo. Sono i piazzisti della paura, che non vogliono rispondere a queste inquietudini diffuse ma coltivarle, per trarne un grasso quanto ignobile reddito elettorale. Dunque non propongono soluzioni, ma immagini fantasmatiche, come le ruspe, slogan che non reggerebbero ad una prova di governo ma sono perfetti per raggiungere la solitudine delle paure domestiche dallo schermo tivù. Sono commercianti di corpi, ne hanno bisogno per trasformarli in ideologia nel senso più classico: l'impostura di un blocco sociale che costruisce il dominio attraverso un sistema di credenze erronee e di pregiudizi. Ma la debolezza culturale della sinistra, che non ha saputo elaborare un pensiero autonomo sulle migrazioni, sugli ultimi, capace di rassicurare la parte più debole ed esposta dei cittadini - i penultimi - e di ricordare nello stesso tempo i doveri di una democrazia occidentale, fa sì che quell'ideologia sia diventata dominante, e costituisca il substrato di ogni ragionamento politico corrente, senza più distinzioni. Ciò significa che la posta in gioco delle future elezioni - tutte, dalle comunali alle politiche - è già fin d'ora fissata sulla paura e sulla sicurezza, dunque sull'uso di quei corpi più che sul destino di quelle persone, che sembra non interessare a nessuno. È un problema politico, ma può diventare un problema della democrazia, chiamata a dare una doppia risposta, con una contraddizione evidente: deve rispondere al sentimento diffuso d'insicurezza dei suoi cittadini, e non può non rispondere alla domanda di disperazione e di libertà che viene dai migranti. Può la democrazia restare insensibile ad uno di questi suoi doveri contrapposti e rimanere intatta, o almeno innocente, dunque credibile?

Quando tutto ritorna agli elementi primordiali - il mare, la terra, i corpi, l'acqua, i muri, il commercio di uomini, il filo spinato - la democrazia entra in difficoltà, come se fosse soltanto un'infrastruttura della modernità, incapace di governare questa regressione a condizioni estreme non previste dal sistema politico, istituzionale, culturale che ci siamo faticosamente costruiti nel dopoguerra per garantire noi e gli altri, e per proteggerci nel nostro tentativo di vivere insieme. Valori che abbiamo sempre professato come universali alla prima grandiosa prova dei fatti - un'emergenza demografica, politica, umanitaria - ripiegano su se stessi e rattrappiscono, perché sembrano riservati solo a noi. Le garanzie per i garantiti: che non le vogliono spartire, hanno paura di condividerle, e ne svalutano il valore globale nell'uso privato e parziale.

Quei corpi segnalano infatti prima di tutto la differenza e la difficoltà (che ne deriva) di condividere il concetto di libertà, la sua traduzione pratica. Camminando in Occidente, se fossero accolti, i corpi riscoprirebbero di avere dei diritti, di poter diventare cittadini attraverso il rispetto delle costituzioni e delle leggi, di poter crescere nell'autonomia attraverso il lavoro: di ritornare uomini. Ma quando arrivano in Europa cercano molto meno, pretendono soltanto libertà, una sponda sicura dove appoggiare il futuro dei loro figli. Anzi, quando sbarcano sul nostro suolo inseguono qualcosa di ancora più primitivo e disperato, la sopravvivenza. Perché spogliati della cittadinanza, della soggettività dei diritti, di ogni condizione giuridica se non quella di clandestino, come spiega Giorgio Agamben sono "nuda vita di fronte al potere sovrano". Vita che vuole vivere, nient'altro. C'è qualcosa di evidentemente sacro in questa interpellanza che ci giunge da una condizione così radicale ed estrema. E c'è dunque qualcosa di sacrilego nel considerare ciò che è una riduzione violentemente elementare dell'individuo-cittadino alla nuda vita, soltanto come un corpo. Corpi che possono essere marchiati fisicamente, numerati e catalogati nella loro estraneità da bandire, perché portatori della forma nuovissima e definitivamente incancellabile del peccato originale: il peccato d'origine.

Nel momento in cui accettiamo di fissare fisicamente questa differenza come discrimine nell'utilizzo della libertà, reso parziale, e dei diritti, non più universali, noi non ci accorgiamo che simmetricamente questa operazione sta agendo anche su di noi. E sta agendo con modalità diverse ma sulla stessa scala primordiale che applichiamo agli altri, dunque interviene anche per noi sulla fisicità, addirittura sul nostro corpo, se solo sapessimo vederlo. Tutte le nostre reazioni e le nostre separazioni dal fenomeno migranti, l'affermazione della nostra diversità fissa silenziosamente anche noi in un'identità bio-politica come quella che attribuiamo agli altri, soltanto rovesciata: risveglia infatti il fantasma dell'uomo bianco, qualcosa che l'Italia non aveva ancora vissuto nelle sue mille convulsioni e anche nelle sue tentazioni xenofobe. Non ci chiediamo infatti mai che cosa significano quei muri (di filo spinato o d'indifferenza) per chi giunge fin qui dalla disperazione e ci guarda da fuori, respinto. Testimoniano paura, privilegio, egoismo, parzialità nell'esercizio dei diritti. Quel muro tiene fuori i corpi altrui. Ma nello stesso tempo recinta i nostri, li perimetra e li rinchiude, riducendo la nostra identità a quella fisica del bianco indigeno, ciò che certamente noi siamo - la maggioranza di noi - ma che non ci accontentiamo di essere, perché abbiamo rivestito quel carattere originario di sovrastrutture culturali, storiche, politiche che hanno dato forma ad una figura articolata e in movimento, aperta, autonoma e complessa.

L'uomo bianco, nella regressione identitaria delle paure, viene dopo l'uomo occidentale ed europeo, è una sua riduzione unidimensionale, dunque una sconfitta. Rinasce come figura biopolitica quando neghiamo i valori dell'Occidente, i doveri dell'Europa: garantire sicurezza, ordine e governo a chi lo chiede (soprattutto se è un cittadino disorientato e spaventato), ricostruire la proporzione dei fenomeni tra le cause e l'effetto, rispondere a quella domanda biblica ma anche politica di libertà e di umanità che arriva dalle migliaia di vite nude ammassate sui barconi, in fila davanti a un recinto, accampati in una stazione in attesa di un treno europeo. In nome di una fiducia ostinata, contro la storia contemporanea, nell'universalità della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni. Una democrazia che, mentre tiene fuori i dannati credendo di difendere se stessa, rischia di perdere l'anima occidentale dell'Europa, riducendosi a un corpo di leggi inutili e di principi ipocriti: anch'essa un corpo vuoto.

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05 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/05/news/il_corpo_degli_altri-122242519/?ref=HRER2-1


Titolo: Il populismo d'Occidente che cancella i moderati. - Di EZIO MAURO
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 26, 2016, 11:52:17 am
Il populismo d'Occidente che cancella i moderati
In Europa come in Usa un vento radicale piega la destra moderna

Di EZIO MAURO
26 febbraio 2016

DUE parole faticano oggi a farsi largo in Occidente: moderato e conservatore. Nella semplificazione politica e giornalistica, esprimono ormai lo stesso concetto, una destra moderna, non reazionaria, con il senso delle istituzioni e il sentimento della tradizione. In un Paese sfortunato come il nostro, questa destra manca da sempre e il suo vuoto è stato riempito parzialmente per decenni dal post-fascismo, dal doroteismo democristiano, dal populismo berlusconiano, così com'è mancata simmetricamente per decenni una forte sinistra di governo, occidentale e riformista, che ha poi faticosamente preso corpo (ma non ancora anima) con il Pd.

Nelle altre democrazie europee, e negli Stati Uniti, quella tradizione politica moderata esiste e quella forma-partito conservatrice anche. Soltanto che ovunque, in Europa come in America, una spinta radicale di destra oggi piega i moderati come canne al vento: o li sfida direttamente con candidati estremi o impone l'agenda politica con i suoi temi e le sue ossessioni, o si costituisce in fronda interna autorizzata e organizzata, facendo saltare la cornice comune che per un secolo ha tenuto insieme i vecchi partiti. E in ogni caso, ovunque esercita un'egemonia negli stili e nei linguaggi, rendendo i moderati gregari riluttanti degli estremisti. E creando una nuova creatura ideologica imperniata sull'alleanza tra Dio e il capitale, nazione e reazione, suolo, sangue e frontiera, in un Paese immaginario che parla la neolingua del politicamente scorretto. Una neolingua per una neodestra, appena nata nella culla dell'antipolitica e della crisi economica più lunga del secolo. Proprio la fine delle paure del primo Novecento, con i tabù del totalitarismo spiega questa emersione improvvisa. Ritenendo la democrazia una conquista ormai consolidata al punto da essere usurata, oggi ci si prende la libertà di forzarne il confine, la forma e la sostanza, a patto di mantenerne intatta e lucida la superficie, sempre più sottile. Si disprezzano le istituzioni puntando a comandarle più che a guidarle, riducendole così a puro strumento dell'ideologia. Viene meno infatti anche il sentimento costituzionale, il rispetto naturale delle regole fondamentali e dei principi di legittimità democratica a cui si ispiravano, come se fossero fenomeni transitori, legati al ciclo di una o due generazioni, quelle appunto novecentesche. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con una rincorsa estrema a scavalcare il limite che ogni volta si sposta più avanti, perché c'è sempre qualcuno pronto a non riconoscerlo. Non avere un limite, è infatti il primo comandamento scorretto.

Così l'Europa si sta spezzando ovunque, con Bruxelles che patteggia e rattoppa nelle varie capitali, dove ognuno ha capito che può alzare il prezzo dell'Unione a suo piacimento. Con Cameron che contratta fino all'ultimo il suo no al Brexit mentre indice il referendum, e deve però fronteggiare in casa la ribellione di un terzo dei suoi ministri e del sindaco della città più cosmopolita del continente, Londra, schierato contro l'Europa in un radicalismo conservatore che è già una piattaforma della nuova destra. E se l'Unione deve fronteggiare la ribellione di Vienna, che vuole limitare l'ingresso dei rifugiati nel Paese, alla seconda destra austriaca questo non basta: l'area xenofoba di Heinz-Christian Strache continua infatti a crescere nei sondaggi e chiede un no deciso all'Europa, amicizia con Putin, tolleranza zero contro i migranti. In Polonia la Chiesa appoggia i nazionalisti euroscettici e clericali di "Diritto e Giustizia" guidati da Jaroslaw Kaczynski in una politica che ha paralizzato la Corte costituzionale, ha epurato radio e tv, controlla e censura internet. L'ideologo e stratega di questa radicalizzazione a destra è naturalmente Viktor Orbàn, il premier ungherese al potere dal 2010 col suo partito nazional-conservatore che dopo aver normalizzato le magistrature e i media ha costruito il suo Muro e ora vuole estenderlo al confine romeno: ma intanto a destra di questa destra sta già prosperando il partito estremo Jòbbik, apertamente antisemita e nostalgico. Crescono i populisti in tutti e cinque i Paesi della Comunità nordica, con un partito anti-immigrati e anti-Ue che vola in Svezia nonostante un'economia che segna un + 3,5 per cento, gli ultra-conservatori che sono partner di governo in Norvegia e in Finlandia, gli xenofobi danesi all'opposizione, ma forti del 21 per cento.

Resta la Germania, dove la crisi dell'immigrazione e la polemica contro la Merkel ha ridato fiato al partito Afd, che opponendosi agli stranieri e a ogni trasferimento di sovranità sfiora nei sondaggi il 12 per cento. E infine c'è l'aperta rivendicazione di Marine Le Pen per guidare la Francia dall'Eliseo col suo partito di eredità post-fascista e di pratica antieuropea, che costringe i repubblicani di Sarkozy sulla difensiva. Se si aggiunge il fenomeno Trump, ormai apertamente in grado di terremotare non solo le primarie ma il sistema politico americano, il quadro è completo. C'è poi, ad aggravare la situazione, quel fenomeno particolare e non ancora indagato che potremmo chiamare la "sinistra mimetica". Movimenti nati a sinistra, o con base sociale in gran parte a sinistra, che mutuano modi e linguaggi dalla destra più radicale per rimanere sulla cresta dell'onda securitaria e islamofoba, sperando di lucrare una quota del dividendo elettorale della neodestra. È il caso del presidente xenofobo e russofilo della Repubblica Ceca, Milos Zeman che nasce di sinistra, del premier socialdemocratico di Slovacchia Robert Fico: ma anche, com'è evidente, del Movimento 5 Stelle in Italia, con le movenze di sinistra, l'elettorato composito e coltivato trasversalmente, e una chiara predicazione antieuropea e antieuro.

Che cosa spiega questo slittamento che restringe l'area moderata in tutto l'Occidente? La spiegazione economico-sociale poggia sulla crisi, che partita come fenomeno economico-finanziario ha finito per corrodere tutta l'impalcatura intellettuale, politica e istituzionale della democrazia materiale che ci eravamo costruiti nel dopoguerra per proteggere la nostra vita in comune.

Scopriamo improvvisamente, in questi ultimi anni, che il meccanismo democratico da solo non ci protegge. Anzi, potremmo dire che la scoperta è più radicale: la democrazia non basta a se stessa. Nasce il disincanto della rappresentanza, la nuova solitudine repubblicana. Tutto diventa fragile e transitorio, nulla merita un investimento a lungo termine, dunque la stessa politica tradizionale finisce fuorigioco perché cerchiamo risposte individuali a problemi collettivi.

C'è un elemento in più. Prima della crisi il ceto medio emergente aveva tentato di diventare soggetto politico mettendosi in proprio, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato: in Italia questa avventura aveva avuto come demiurgo Berlusconi con la promessa di uno Stato più leggero, di una forte riduzione delle tasse, di un sovvertimento della classe dirigente. Il fallimento del progetto berlusconiano - che non aveva evidentemente nulla di moderato e ben poco di conservatore - e il gelo della crisi hanno frustrato due volte questo tentativo di emancipazione di soggetti sociali che perdono la speranza di produrre politica direttamente dai loro interessi legittimi, si proletarizzano per le difficoltà finanziarie e ripiegano sconfitti in quella che De Rita chiama la "grande bolla" del ceto medio.

L'esito di questi percorsi collettivi è il riflusso da ogni discorso pubblico o appunto la ribellione, l'antipolitica. Nella convinzione che il cittadino possa disinteressarsi dello Stato, senza accorgersi che nello stesso tempo lo Stato si disinteressa di lui, perché quando la sua libertà non si combina con quella degli altri e l'esercizio dei suoi diritti resta soltanto individuale, lui diventa un'unità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi.

Si capisce che a questo crocevia tra la solitudine e la ribellione stia accampato il populismo, interessato ad entrambe. Tutti diversi tra loro, i leader radicali hanno un tratto in comune: propongono soluzioni semplici a problemi complessi (il "puerilismo", lo chiamava Huizinga) danno sempre la colpa ad un nemico esterno, attaccano un potere gigantesco e indefinito, berciano sulle élites, si rinchiudono nell'ossessione territoriale, immaginano complotti perché investono su un indebolimento dello spirito critico a vantaggio di una visione mitologica dell'avventura presente. I problemi veri - il lavoro che manca, la crescita che arranca, Daesh che uccide - vengono evocati e cavalcati, ma in forma fantasmatica, all'insegna di una sfiducia perenne nei confronti delle istituzioni e della stessa democrazia.

Noi vediamo chiaramente che tutto questo fa emergere i campioni della neodestra, gladiatori incontrastati di una fase in cui tutto vacilla. Ma non ci accorgiamo che parallelamente si corrode la cornice del pensiero liberaldemocratico, proprio nella fase in cui si è insediato (lo diceva anni fa Galli della Loggia) come l'unica dimensione politica comunemente accettata e condivisa, dopo le tragedie nel Novecento: e infatti il dogma di Orbàn è "il fallimento del liberalismo", da cui ricava la possibilità di demolire la separazione dei poteri. In realtà la neodestra più che un pensiero ha una superstizione del mondo e un'ideologia di sé, unita ad una feroce volontà di escludere e alla capacità di offrire nel contempo una fruizione politica dei risentimenti e delle paure. È la ricetta semplice e forte del fondamentalismo che negando valore ad ogni teoria divergente o preesistente costruisce quel senso di falsa sicurezza tipico di chi vive murato all'interno delle fortezze, pensando - come spiega Bauman - di tagliare fuori così "il caos che regna all'esterno". È il destino della destra italiana che spento il fuoco pirotecnico del berlusconismo consegna le sue ceneri a Salvini, rassegnandosi dopo il titanismo del Cavaliere all'imitazione da Asterix padano del lepenismo.

Prezzolini, guardandosi intorno sancirebbe a questo punto la sconfitta del "vero conservatore", come lo idealizzava lui: capace di non confondersi con i reazionari, i tradizionalisti, i nostalgici, di non rifiutare i mutamenti purché avvengano gradualmente, di conservare le istituzioni, soprattutto "di non confondere gli uomini con gli angeli o con i diavoli".

Oggi la neodestra italiana sembra invece cercare disperatamente un diavolo qualunque da scritturare, per farlo sedere a capotavola spaventando gli elettori nell'evocazione dell'inferno permanente, perché nel suo fondamentalismo non c'è spazio nemmeno per un angolo di purgatorio, figuriamoci il buon vecchio paradiso terrestre. Il problema, naturalmente, non riguarda soltanto la destra ma l'intero sistema, cioè la cultura di governo. Perché senza un vero conservatore non può esserci un vero riformista. E infatti...
 
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26 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/26/news/il_populismo_d_occidente_che_cancella_i_moderati-134259511/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. Primarie Pd, l'anima smarrita
Inserito da: Arlecchino - Marzo 10, 2016, 06:21:35 pm
Primarie Pd, l'anima smarrita

Di EZIO MAURO
09 marzo 2016

DOV'ERA l'anima? Questa è la vera domanda che il Partito democratico dovrebbe rivolgere a se stesso due giorni dopo le primarie di Roma, Napoli, Trieste e Benevento. Capisco che è una domanda scomoda in tempi in cui quasi nessuno crede più alla metafisica dei valori e degli ideali, come se la politica fosse tutta e soltanto prassi, slogan e immagine, concretezza e fisicità da esibire e consumare sul momento: per domani si vedrà.
 
Il risultato è che il corpo del partito ha votato, anzi ha votato lo scheletro che lo tiene in piedi, l'apparato che vive di politica professionale, il suo riverbero sociale interessato, più gli irriducibili che si lamentano insoddisfatti tra un'elezione e l'altra e poi si presentano puntuali ogni volta che in città spunta un seggio qualunque, perché considerano - per fortuna - il voto un dovere civico cui non riescono a venir meno. Ma l'anima democratica non si è presentata al gazebo, almeno per metà, e sarà sempre più difficile farla uscire di casa.

Questo è il dato politico delle ultime primarie, che i giornali titolano come un "flop" del Pd. Un elettore su due in fuga dai seggi a Roma, 15 mila in meno a Napoli, le due grandi città dove vincono nettamente i candidati renziani. Poi c'è la vergogna del denaro passato di mano a Napoli nei seggi di Scampia, San Giovanni a Teduccio, Piscinola in cambio del voto per la candidata della maggioranza, con Bassolino (sconfitto per una manciata di voti) che parla giustamente di "mercimonio inammissibile" e "ferita gravissima", e c'è il mistero romano di 3700 schede bianche con verbali spariti, che fa pensare ad una partecipazione gonfiata nel suo disastro. Ma non c'è nemmeno bisogno di arrivare fin qui. Basta la debolezza civica complessiva della giornata elettorale in due grandi capitali per suonare l'allarme. Ammesso che si voglia dire la verità, senza nascondere gli errori sotto il tappeto della propaganda.

Naturalmente è vero che se si guarda il sistema politico nel suo insieme il Pd è un'eccezione. I Cinque Stelle, in attesa che il Politbjuro controlli magari la posta dei nuovi eletti, procede ad una selezione ridicola nei numeri e nella trasparenza, in una devozione elettronica fine a se stessa. La destra gioca di rimbalzo a Milano e non riesce a mettere uno straccio di squadra in campo nella capitale, dove Salvini e Bertolaso trovano un'intesa solo sulla litania miserabile delle "ruspe contro i rom". Ma il punto è che il Pd, tagliate le radici con le sue tradizioni novecentesche, è nato nell'auto-mitologia delle primarie e la stessa leadership di Renzi ha fondato la sua promessa di cambiamento nel rapporto diretto con gli elettori, rottamando il vecchio gruppo dirigente per spostare il baricentro dal Palazzo ai cittadini. Oggi è quel baricentro socio-politico che rischia di saltare, se anche le primarie vengono viste come un rito usurato e inutile di auto-conferma di una nomenklatura minore.
Per fortuna i meccanismi elettorali sono dei semplici strumenti della politica, non dei soggetti politici essi stessi. Come tali, corrispondono funzionalmente e psicologicamente alle diverse fasi che un Paese vive e che l'opinione pubblica interpreta. Questo vale per i differenti sistemi di voto (maggioritario, proporzionale), ma vale anche per le primarie. Quello che nella fase di nobiltà della politica si chiamava il processo di selezione delle élites è avvenuto per anni dentro un procedimento interno ai singoli partiti dove le diverse componenti (maggioranza, minoranza, centro, periferia) si confrontavano e si controllavano indicando alla fine il candidato che rispondeva nello stesso tempo alla rappresentanza del potere interno e alla speranza di vincere all'esterno. Gli scandali politici, la consumazione delle storie e delle tradizioni novecentesche, l'atrofia dei gruppi dirigenti, la disaffezione dei cittadini hanno convinto il neonato Pd, per una scelta veltroniana, a sposare il meccanismo delle primarie trasferendo la scelta dei candidati di spicco ai cittadini, o almeno consegnando loro il sigillo della selezione finale su un parterre di vertice: con gli anni, le primarie sono anzi diventate l'unica religione ufficialmente accettata e universalmente praticata in un partito per il resto miscredente, senza nessuna fede riconoscibile e riconosciuta.

L'importazione del modello americano nel sistema italiano ci portava ovviamente in casa anche alcune contraddizioni: negli Stati Uniti i partiti sono un network d'affezione dal vincolo blando che li trasforma in comitati elettorali non certo intorno al segretario, ma intorno ai candidati delle primarie, e poi della corsa presidenziale vera e propria. Da noi i partiti esistono, anche se la loro esistenza è travagliata per la discussione infinita e mai risolta sulla loro natura "liquida" o "solida": ma intanto esistono, vivacchiano, creano e alimentano gruppi dirigenti, compongono una moderna nomenklatura, come in tutte le democrazie europee. E poi, al momento delle candidature, la mettono in stallo per far scegliere l'uomo giusto dall'esterno. C'è in questo meccanismo la convinzione - giusta - che il cittadino abbia più fiducia nella politica se può determinarla come singolo e come gruppo, portando nella vita di un partito quella "risonanza" (come la chiama Habermas) che i problemi sociali hanno nelle sfere private della vita. E c'è, con ogni evidenza, un sentimento di inferiorità della politica, che delega ogni volta le sue scelte supreme come se dovesse farsi perdonare quotidianamente un peccato originale permanente. Il risultato - come dimostra la storia recente del centrosinistra italiano, ma come rivela lo stesso fenomeno Trump in America - è che nelle fasi di forte crisi economico- sociale, con la politica ufficiale in ovvia difficoltà, qualunque candidato si presenti come anti-sistema parte con un vantaggio notevole in tasca, perché diventa l'uomo al centro dello show.

È quella che potremmo chiamare la "dote populista", il moderno favore che incontrano a destra e a sinistra le posizioni più radicali a cui i cittadini non chiedono soluzioni ma emozioni, performance e non programmi, sintonie istintive più che progetti, la notorietà al posto della fama, la celebrità prima ancora della stima.

Purché si spari sul quartier generale e si alzi ogni giorno il tono apocalittico della denuncia generica e della condanna indifferenziata: appunto la ruspa e la ghigliottina, che dovrebbero ormai finire sulle schede come i più autentici simboli della vera destra e della falsa sinistra, che occupa mimeticamente una porzione di elettorato a sinistra, con schemi, intenzioni e linguaggi in realtà di destra.

Basta questo rischio sistemico per abbandonare lo strumento delle primarie? Ovviamente no. La politica è troppo debole, paradossalmente, per riappropriarsi di scelte che non è palesemente in grado di compiere. E l'elettore si è abituato al meccanismo-primarie, e si sentirebbe giustamente defraudato se gli fossero sottratte. Ma una riflessione di metodo è indispensabile, a sinistra. Prima di tutto non basta scrivere qualche nome a caso sulla scheda perché i cittadini si mobilitino e sentano il richiamo civico del voto: com'è possibile che il più grande partito italiano, che governa il Paese, non abbia sentito il dovere di scegliere una personalità di spicco, romana ma di statura e esperienza nazionale, per proporsi al governo di una capitale che esce dallo scandalo mafioso del malaffare e dall'agonia pasticciata della giunta Marino? In secondo luogo, l'America dimostra che i candidati dello stesso partito anche più lontani tra loro se le suonano di santa ragione ma dentro un recinto che considerano comune, coperto da un tetto che riconoscono condiviso, dentro una casa che non si sognano nemmeno di abbandonare in caso di sconfitta. Là dove il partito è davvero "liquido", il legame è più solido. Qui dove i partiti esistono, anche tra un'elezione e l'altra, è il legame comune che si è liquefatto.

E qui viene l'ultima questione, decisiva, come ha spiegato Stefano Folli. Non si capisce più qual è la cornice comune. Renzi incredibilmente si accontenta di guidare mezzo partito, invece di rappresentarlo per intero. La minoranza invece di porre lealmente le grandi questioni al segretario sembra cercare ogni giorno la miseria di un trabocchetto. La verità è che a forza di far trascolorare il partito nella narrazione di governo, il Pd da soggetto diventa oggetto, forza di complemento. Deve pur esistere anche in Italia, come ovunque in Europa, un pensiero di sinistra moderno, europeo, occidentale, finalmente risolto, a cui il segretario Renzi ha non solo il diritto, ma il dovere di dare una sua interpretazione e quindi una sua impronta e a cui la minoranza deve concorrere. Questa e solo questa è la cornice possibile, peraltro antidoto e risposta ai soccorsi verdiniani sulle riforme in Parlamento, che devono trovare l'autonomia concettuale e politica di una risposta culturale da parte del partito. Senza questa cornice di valori e di riferimenti culturali - che in Europa si chiama sinistra - per cosa si va a votare? Per guidare davvero il Pd, bisogna ricongiungere la sinistra e il suo popolo. E per salvare le primarie, bisogna crederci ed essere credibili.

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09 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/09/news/primarie_pd_l_anima_smarrita-135070039/?ref=HRER2-2


Titolo: EZIO MAURO. Come innaffiare la rosa appassita del riformismo
Inserito da: Arlecchino - Aprile 06, 2016, 11:35:17 pm
Come innaffiare la rosa appassita del riformismo
Là dove all'inizio del secolo si poteva viaggiare da Inverness in Scozia a Vilnius in Lituania senza incontrare un solo Paese governato dalla destra, la geografia è completamente stravolta.
La destra tradizionale soffre una crisi parallela e simmetrica e crescono soltanto gli opposti populismi


Di EZIO MAURO
05 aprile 2016
   
C'È una rosa appassita nel giardino d'Europa. Sfiorisce e avvizzisce sulle pagine del’ “Economist", che dedica un lungo servizio al declino del centrosinistra in tutti (o quasi) i Paesi del continente, come se il riformismo invece di essere l'esito compiuto e finalmente risolto di una vicenda secolare travagliata fosse in realtà la moderna malattia senile del socialismo. Cifre e mappe sono implacabili. Là dove all'inizio del secolo, dice il settimanale inglese, si poteva viaggiare da Inverness in Scozia a Vilnius in Lituania senza incontrare un solo Paese governato dalla destra, la geografia è completamente stravolta: i socialisti governavano in Scandinavia, guidavano la Commissione Europea, se la giocavano per la preminenza nel Parlamento di Strasburgo, mentre ora il loro consenso elettorale si è ridotto ad un terzo, faticano dove hanno vinto le elezioni come in Francia, rischiano in Italia, si riducono a junior partner nel governo altrui in Olanda e nel Paese più importante dell'Europa, la Germania. La rosa perde i petali, dunque, l'uno dopo l'altro. E quei petali, comunque, hanno via via perduto il loro colore e certamente il profumo.

Fortunatamente numeri e grafici non dicono tutto, altrimenti ci sarebbe da consegnare le chiavi della modernità a qualcuno in grado di governarla, rinchiudendosi in casa. La destra tradizionale - in Francia la chiamano repubblicana - soffre infatti di una crisi parallela e simmetrica, mangiata viva dal radicalismo xenofobo che non sa arginare e che s'ingozza delle paure dei cittadini convertendole in una falsa moneta politica, tuttavia redditizia. Crescono soltanto gli opposti populismi, a destra come a sinistra, e la rabbia che non si appaga nello specchio di questa semplificazione qualunquista antisistema ingrossa le fila del "partito del sofà", dove siedono i delusi che si rifiutano di partecipare e di votare, ritirandosi con la bassa marea politica da ogni discorso pubblico.

Quel che le cifre non dicono è il contesto. Quando questa vicenda è cominciata, nel 2007, sulle democrazie dell'Occidente si sono abbattute tre crisi concentriche, crisi delle banche, del debito, dunque della crescita. Negli ultimi anni si sono aggiunte due emergenze epocali: l'onda lunga dei migranti che cercano nell'Europa salvezza, sopravvivenza e futuro, dunque l'unica speranza, e la sfida del Califfato che dopo le Torri Gemelle ha annunciato la guerra all'Occidente e porta la morte direttamente nelle città del nostro continente. Ciò che ne deriva è un sentimento politico di insicurezza e dunque di sfiducia, la ricerca di protezione in identità primitive di chiusura, la solitudine repubblicana, lo smarrimento di ogni senso di cittadinanza.

È la fine del "sociale", il venir meno dei legami collettivi che non siano quelli di sangue e di clan contrapposti agli "invasori", il ribaltamento del welfare visto non più come una conquista da estendere ma come un egoismo da difendere, la consumazione della politica che nel sistema occidentale era nata proprio per organizzare tutto ciò, la società, il nesso tra l'individuale e il collettivo, la sicurezza dello "Stato- benessere" come strumento di coesione e soprattutto come proiezione del lavoro e del suo valore sociale. Scopriamo terrorizzati che tutta l'impalcatura - culturale, istituzionale, politica - che ci siamo costruiti nel dopoguerra per difendere e garantire l'incrocio tra la nostra vita e le vite degli altri è entrata in crisi. Diciamo la verità: scopriamo che la democrazia non basta a se stessa. È insediata ma non ci protegge, tanto da farci venire il dubbio che funzioni veramente soltanto negli anni della crescita e della redistribuzione, mentre quando cambiano i tempi si fa da parte, cede il governo del sistema e contempla l'azione della crisi. Siamo a un passo dal pensare che la società stessa, il suo concetto, non siano esportabili dentro il territorio universale della globalizzazione, quasi come se fossero creature dello Stato nazionale.

Verrebbe da dire che tutto questo segna per forza di cose la fine del "secolo socialdemocratico". Anzi, di più, perché tutto congiura affinché il pesce socialista non possa nuotare in un eco-sistema di questo tipo. Ma non abbiamo ancora aggiunto l'ingrediente fondamentale: il lavoro. Basta leggere i dati sulla disoccupazione, e quelli sul lavoro giovanile, per capire che il vero attore sociale colpito dalla crisi è il lavoro, che la nostra Costituzione codifica come un diritto e che dunque per molti è un diritto negato, uno strumento impossibile per affermare la propria dignità personale e pubblica, sapendo che senza libertà materiale non c'è una vera libertà politica. Non è un problema economico soltanto, che si può rinchiudere nelle statistiche del Pil. Perché il legame tra la democrazia, l'Occidente e il lavoro è intrinseco. Non solo perché il ciclo virtuoso delle democrazie europee si è basato sempre sul rapporto tra crescita, lavoro, occupazione, benessere, consenso. Ma perché la democrazia in Europa è nata come democrazia del lavoro, col lavoro e il reddito che ne deriva il cittadino provvede alla sua famiglia ma anche ai diritti politici e sociali di tutti. Se salta questa consapevolezza, salta ciò che tiene insieme capitalismo, Stato sociale, democrazia rappresentativa e pubblica opinione. Cioè cambia la fisionomia del sistema democratico occidentale così come lo abbiamo fin qui conosciuto.

Sono meccanismi che fino all'insorgere della crisi erano ormai accettati da tutti, destra di governo, sinistra riformista. Diciamo che in più la socialdemocrazia trovava in questo dispositivo politico-culturale la propria ragion d'essere. Qui infatti, proprio qui, ha operato per anni il tavolo di compensazione dei conflitti, che ha tenuto insieme i vincenti e i perdenti delle diverse congiunture, legando il ricco e il povero - nella diversità dei loro percorsi e nella sproporzione dei loro destini - in un vincolo di responsabilità almeno in parte comune. Finché il vento della globalizzazione non ha rinchiuso anche quel tavolo e il moderno ricco che vive nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d'informazione non ha più nessun bisogno - nemmeno territoriale, neppure fisico - di sentirsi vincolato al moderno povero che vive nel sottosuolo degli Stati nazionali e che ha preso una nuova configurazione: è l'escluso che non si vede più, e di cui quindi si può fare a meno.

Una buona parte della sinistra non ha più un vocabolario autonomo perché ritiene che queste parole e questi concetti facciano parte del Novecento e non meritino di passare la dogana del secolo post- ideologico, perché suonerebbero retoriche. Così si parla con parole altrui e la neolingua della neodestra è l'unica che risuona. Ma proviamo a ribaltare il discorso per non rimanere prigionieri del luogo comune dominante: quali sono gli indici fondamentali della modernità, oggi, se non i diritti civili, la sicurezza sociale, la ricostituzione di una effettiva autonomia dell'individuo e di una reale libertà del cittadino, anche dalle paure che imprigionano la parte più debole e più esposta della popolazione? Perché la sola questione che valga oggi a sinistra, come dice il premier francese Manuel Valls, è appunto "come orientare la modernità per accelerare l'emancipazione degli individui, e dunque di ciascuno". Creando una nuova ragione sociale capace di tenere insieme gli esclusi, i salvati e gli emergenti, quei fabbricatori e manipolatori di simboli, come li chiama Alain Touraine, che comprano e vendono il moderno quotidiano di cui viviamo.

Il riformismo - che significa poi semplicemente sinistra con cultura di governo - ha sorprendentemente le carte più in regola per affrontare le esigenze della fase, e ha nel suo zaino gli strumenti più propri per riuscire: responsabilità, opportunità, solidarietà, la nuova triade di valori che può collegare la tradizione con la modernità e portare il guscio socialdemocratico (nelle sue diverse colorazioni e denominazioni) a ricostruire un legame sociale di soggetti capaci di pretendere e realizzare un cambiamento che consenta alla cultura politica occidentale di superare la crisi salvando se stessa. Sapendo che esiste un modello economico europeo di cui siamo scarsamente consapevoli: è l'economia sociale di mercato, che da Bad Godesberg in poi libera pienamente l'iniziativa economica capace di crescere e produrre lavoro e ricchezza, con la mano pubblica incaricata di mantenere con discrezione l'equità del sistema, realizzando così quel "capitalismo con correzioni sociali" che è stato una risposta concreta alle vicende del fascismo e del comunismo.

C'è dunque ancora qualcosa da fare, prima di disarmare. Anche perché dall'altra parte del giardino europeo, il pensiero liberale è oggi attaccato frontalmente come il principale nemico dai populismi xenofobi che stanno scalando il cuore del continente, nei Paesi che arrivano dall'Est. È il giardino stesso d'Europa che va difeso, dunque. E se infine provassimo ad annaffiarla, quella rosa?

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05 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/05/news/come_innaffiare_la_rosa_appassita_del_riformismo-136928087/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. La scappatoia del funambolo "Berlusconi, il creatore del 'campo'...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 30, 2016, 04:56:09 pm
La scappatoia del funambolo
"Berlusconi, il creatore del 'campo', certifica che da oggi le destre in Italia sono due, una estremista e apertamente lepenista, anti europea, l'altra necessariamente più moderata"


Di EZIO MAURO
29 aprile 2016
   
LA NATURA una e trina di Silvio Berlusconi (estremista, moderato, populista) si è sciolta all’improvviso come il sangue di San Gennaro, davanti al sacro Graal del Campidoglio romano, inafferrabile per la destra. Dopo aver inventato dal nulla la candidatura a sindaco di Guido Bertolaso, incarnazione postuma dell’emergenzialismo berlusconiano spacciato per arte di governo, ieri il leader di Forza Italia ha ritirato d’urgenza dalla corsa l’ex capo della Protezione Civile per portare ciò che resta del suo partito a convergere sulla candidatura civica di Alfio Marchini, rifiutando in extremis l’alleanza con la destra estrema di Salvini e Meloni. Forza Italia, che ha dominato il panorama politico per vent’anni, non avrà dunque un suo uomo nella gara per il sindaco della capitale. E i manifesti strappati e inutili di Bertolaso sorridente sui muri di Roma sono la lapide alla memoria di un’avventura politica che non ha più ragioni per vivere ma non sa come morire. Naturalmente sono come sempre i sondaggi che hanno armato la scelta di Berlusconi.

Bertolaso non è mai decollato come candidato sindaco, e il rischio di mancare il ballottaggio avrebbe sottolineato ancora di più la perdita del tocco magico con cui l'ex premier trasferiva sui suoi prescelti l'unzione sacra di cui si riteneva investito per natura. Ma non c'è solo il calcolo delle percentuali, dietro la decisione di appoggiare Marchini: c'è anche un calcolo politico che per la prima volta porta Berlusconi a scegliere la ragione invece dell'istinto politico, l'identità piuttosto che la rendita di posizione, e infine soprattutto il moderatismo invece dell'estremismo, che pure l'ex presidente del Consiglio ha tollerato, frequentato e impersonato per anni. Vediamo perché.

L'avventura politica di Berlusconi, che lo ha portato per tre volte a guidare il governo, è stata possibile non soltanto perché il Capo di Forza Italia ha risvegliato l'istinto di destra dormiente nel Paese, ma perché ha saputo creare un "campo". Lo ha fatto nel 1994 costruendo un partito mediatico-aziendale capace di colmare l'alveo vuoto del Caf, l'alleanza moderata suicidatasi con Tangentopoli, e collegando in un blocco anticomunista gli ex fascisti di Alleanza Nazionale e i secessionisti della Lega di Umberto Bossi. Berlusconi non era soltanto la risultante geometrica di questo campo, ne era il collante, la ragion d'essere e quindi il leader indiscusso: fino a divenirne, come spesso gli capita negli affari, il padrone. Quando è venuta meno l'autorità del Capo, è finita anche la sua sovranità, semplicemente perché è finito il campo.

Bertolaso in questo senso era anche un esperimento dinastico, il primo vero trasferimento diretto di sovranità, per un berlusconismo senza Berlusconi. La ribellione di Meloni e Salvini sulla scena spettacolare di Roma dimostra per oggi e per domani che questo transfert non è possibile. Tanto che la scheggia leghista e post-fascista esce rumorosamente dal campo e pensa di potersi mettere in proprio abbandonando anche la mitologia del ventennio berlusconiano per cercare nuove stelle polari estreme in Marine Le Pen e oggi addirittura in Donald Trump: purché siano figure capaci di incarnare il nuovissimo populismo securitario, egoista e xenofobo.

Delfini e pesci minori di Forza Italia, interessati al loro personale futuro ben più che al Paese, hanno insistito per mesi con Berlusconi perché scegliesse Giorgia Meloni, ricostituendo d'incanto il campo che lo aveva portato a vincere per tre volte le elezioni nazionali. L'ex Cavaliere alla fine ha detto no, cosciente che il campo non esiste più dal momento in cui lui non ne è più padrone, anzi da quando due ex stallieri della destra hanno lanciato una vera e propria Opa ostile sui territori del loro Signore. Scegliere la Meloni a questo punto non significava sottoscrivere una candidatura, cosa che il cinismo berlusconiano è sempre stato ben pronto a fare in base a calcoli di convenienza: il significato era quello di una pubblica abdicazione, con l'ex sovrano che accetta di farsi paggio degli usurpatori, chinando il capo di fronte ad una religione non sua.

Marchini, incolore, è una scappatoia perfetta perché il funambolo di Arcore può lasciar credere addirittura che il civismo possa diventare l'esito senile del berlusconismo declinante. In realtà il sigillo berlusconiano di Forza Italia è talmente marcato che rompe l'equilibrio dell'equivoco politico su cui Marchini si è retto fin qui, e lo connota pesantemente a destra. Ma nello stesso tempo il creatore del "campo" certifica che da oggi le destre in Italia sono due, una estremista e apertamente lepenista, anti europea, l'altra necessariamente più moderata. Se fosse una scelta culturale convinta e consapevole, sarebbe una nuova semina nel territorio della destra, vent'anni dopo. Una semina finalmente moderata, da parte di un leader populista per vent'anni, e radicale: in colpevole ritardo, ma benvenuta. Molto più probabile che di consapevole, culturale e soprattutto moderato non ci sia niente, e che l'ex Cavaliere si limiti a inseguire i suoi elettori in libera uscita, incapace ormai di guidarli e senza una meta.

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29 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/29/news/la_scappatoia_del_funambolo-138684149/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 13, 2016, 05:43:56 pm
I superstiti dell'Apocalisse
"I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro contraddizioni proprio perché non hanno fatto la scelta di responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la condivisione di un destino democratico del sistema"


Di EZIO MAURO
13 maggio 2016
   
È possibile provare a ragionare sul sistema politico italiano e i suoi rapporti con la giustizia senza scadere nel derby quotidiano e miserabile tra Pd e Cinque Stelle sugli indagati, le sospensioni dagli incarichi e le dimissioni? Diciamo subito che quel derby il Pd lo ha perso platealmente, perché il numero di amministratori di quel partito coinvolti in inchieste giudiziarie dovrebbe da solo far capire all'intero gruppo dirigente che c'è nella principale forza della sinistra un problema di selezione delle cosiddette élite grande come una casa, secondo solo al problema della nuova permeabilità clamorosa di quel mondo alla corruzione. I grillini, che pensavano di fischiare comodamente dagli spalti nella partita tra la politica e la magistratura, si trovano improvvisamente in campo mentre i fischi oggi sono per loro, impreparati e incapaci di gestire l'incoerenza patente tra i doveri pretesi dagli altri e le indulgenze domestiche. Ecco perché l'avviso di garanzia al sindaco di Parma Pizzarotti, dopo i casi di Livorno e di Quarto, offre l'occasione per una riflessione fuori da ogni polemica sul triangolo tra la legalità, la politica e l'antipolitica.
 
E' un triangolo che dovrebbe avere una base comune, e condivisa: la legalità. In un sistema democratico trasparente nelle procedure e nei controlli, la legalità dovrebbe essere una condizione preliminare dell'agire politico, insieme con l'onestà dei suoi attori. In questo Paese si è trasformata invece in un vero e proprio programma politico da parte del movimento grillino, assorbendone ogni identità, proprio a causa delle forme di illegalità diffusa che le inchieste giudiziarie hanno portato alla luce nei partiti tradizionali insieme con la disonestà di molti amministratori pubblici, generosamente distribuiti in tutto lo schieramento partitico. Questo fa sì che il triangolo entri in crisi: da un lato, la politica dei partiti si chiude sulla difensiva, maledice a bassa voce i magistrati ritenendoli intrusi abusivi, incredibilmente incapace di rispondere alla sfida del malcostume corruttivo con misure interne (forte pulizia, selezione rigorosa, guardia alta) e con provvedimenti di legge che raccolgano l'allarme sociale per la diffusione di pratiche illegali e stabiliscano subito contromisure efficaci. Dall'altro lato, l'antipolitica delega ai magistrati (che non devono e non vogliono esercitarlo) il compito di realizzare quel rinnovamento del sistema che è incapace di attuare in proprio. In più tende a identificarsi esclusivamente con la legalità considerandola un suo schema privato e non una pre-condizione di buon funzionamento dell'intero sistema, da rivendicare e pretendere per tutti. Il risultato è la spoliazione di ogni altro carattere "politico", come se la legalità fosse un programma, un progetto, una politica, e non il metodo indispensabile di ogni buon amministratore.

Si potrebbe dire che la bandiera dell'onestà rappresenta comunque un passo avanti e una buona garanzia di base, nelle attuali condizioni del Paese. In realtà è una condizione indispensabile, ma non sufficiente, in quanto rischia di ridurre la politica ad una sola dimensione, di non chiederle altro, di accontentarsi di ciò che è già dovuto ai cittadini e alla comunità che si governa. La modernità, insieme con la costituzionalizzazione dell'intero universo politico-culturale nei Paesi occidentali aveva superato la concezione della politica come scontro tra Bene e Male, usandola anzi come strumento di neutralizzazione dei conflitti. Oggi si rischia una neutralizzazione della politica perché il sistema viene additato dai nuovi populismi come interamente colpevole, completamente colluso, totalmente complice e dunque definitivamente perduto. Non resta che aspettare l'ora "x" in cui "Dio sputerà sulla candela" e si spegnerà la luce su questa Seconda Repubblica, in attesa dell'avvento politico del Redentore.

Ovviamente è uno schema che getta a mare (insieme con le responsabilità dei corrotti e con l'incapacità dei partiti storici di reagire all'ondata di corruzione che li sommerge, dopo aver sradicato il sistema) anche le speranze nella democrazia, la fiducia nelle sue risorse, la capacità soprattutto di distinguere e di graduare i giudizi, che dovrebbe essere il compito di chi fa politica, oltre che di chi fa informazione. Siamo ormai al fascio di ogni erba, purché sia o sembri erba cattiva: e se un po' di grano finisce in mezzo al loglio non importa, si fa buon peso. Lo prova il turbine mediatico di dichiarazioni che ha inseguito l'avviso di garanzia per un possibile abuso d'ufficio in una nomina al teatro al sindaco di Parma Pizzarotti, a cui si fa pagare tutto il conto del banchetto polemico imbastito per mesi su ogni apertura d'inchiesta e su ogni arresto, quasi senza distinzione. Seguono, da parte dei Cinque Stelle, dichiarazioni imbarazzate da vecchi sottosegretari democristiani, per prendere tempo nell'incapacità di garantire in proprio ciò che si pretende meccanicamente da ogni indagato degli altri partiti.

Tutto questo è inevitabile quando si scommette sulla crisi del sistema a fini di profitto politico: che succede quando la crisi coinvolge (sia pure in minima parte) chi la alimenta, soffiando sul peggior fuoco con quella che Croce chiamava la "feroce gioia" contro le istituzioni? Qual è il segno culturale che questo atteggiamento porta nelle istituzioni, e nel rapporto tra le istituzioni e i cittadini, già consumato dalla crisi di legalità che rischia ogni giorno di più di diventare crisi di legittimità? Cioran definisce il reazionario come "un profittatore del terribile, il cui pensiero irrigidito per calcolo calunnia il tempo". Certamente questa scommessa sul peggio avviene in un luogo politico che non appartiene alla storia della sinistra anche se ne mima i linguaggi e i codici, raschiandone efficacemente l'elettorato. Non c'è infatti nessuna rappresentanza sociale di interessi, nessuna tutela di diritti, nessuna attenzione di classe ai più deboli, nessuna costruzione culturale in questa delega della politica al disvelamento del malaffare altrui, che annulla ogni soggettività e qualsiasi autonomia dell'antipolitica, ridotta appunto ad accontentarsi di essere "anti".

Tutto si tiene in questo mondo chiuso della diversità che si mangia la politica: la cabala informatica spacciata come trasparenza, l'idolo blog venduto come partecipazione diffusa, il rifiuto degli "altri", anche quando propongono una buona legge. Com'è evidente, in questo schema il problema democratico non è la radicalità delle accuse che vengono rivolte al sistema dei partiti, e ancor più ai corrotti, che in alcuni casi meriterebbero giudizi ancora più severi: il problema è il sentimento di "alterità", che consente ai Cinque Stelle di vivere in un immaginario altrove dove non sono permesse contaminazioni, accordi, concorsi nelle decisioni utili al Paese e condivisioni di responsabilità, ma conta solo marcare la diversità sperando in questo modo di ereditare il sistema. Ereditieri del collasso del sistema, più che soggetti attivi del cambiamento: è la riduzione della politica alla sola dimensione di denuncia, tribunizia, nel senso degli antichi Tribuni che parlavano a nome di tutto il popolo, apostrofando il potere. Mentre nella concezione liberale dello Stato moderno il fondamento morale pubblico non risiede nel sentimento etico soggettivo (naturalmente necessario) ma nel rispetto di regole e procedure stabilite per tutti nell'interesse di tutti.

Distinguere (perché non è vero che "così fan tutti"), pretendere il rispetto della legge, lavorare perché il sistema politico salvi se stesso rientrando nel rispetto della legalità, invece di scommettere sul suo affondamento. Rispettare le istituzioni anche quando l'offerta politica è modesta e la disaffezione allo Stato è alta. I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro contraddizioni proprio perché non hanno fatto questa scelta di responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la condivisione di un destino democratico del sistema, che dovrebbe interessare a tutti gli attori, di maggioranza e di opposizione. L'alternativa è continuare a vivere nel presunto "altrove" aspettando l'Apocalisse prossima ventura, per delegarle la cancellazione del sistema invece di usare la politica per cambiarlo. Solo che l'Apocalisse è il libro "di coloro che si pensano come superstiti" e come tale è il rifiuto della politica, la rinuncia al cambiamento, un gesto di superbia. E poi, cosa succede quando i superstiti sono coinvolti?

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13 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/13/news/i_superstiti_dell_apocalisse-139682130/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. I superstiti della Thyssen un mese dopo il rogo "Per la politica e..
Inserito da: Arlecchino - Maggio 13, 2016, 05:46:12 pm
CRONACA
I superstiti della Thyssen un mese dopo il rogo "Per la politica e il Paese non siamo mai esistiti"
Gli operai di Torino diventati invisibili


Di EZIO MAURO

TORINO - "Turno di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel mercoledì sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d'ora prima, ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col mio tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere, operaio alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura. Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho solo un rotolo da fare".

"Allora vado prima a trovare quelli della linea 5, devo dire una cosa ad Antonio Boccuzzi, ma poi arrivano gli altri e si finisce per parlare tutti insieme del solito problema. Il 30 settembre la nostra fabbrica chiuderà, a febbraio si fermerà per prima proprio la 5, stiamo cercando lavoro e non sappiamo dove trovarlo. Duecento se ne sono già andati, i più esperti, i manutentori, molti alla Teksfor di Avigliana. Noi mandiamo il curriculum in giro, con le domande. L'azienda se ne frega, la città anche. Chiediamo agli amici, ai parenti operai che hanno un posto. Chi può cerca altre cose, Toni "Ragno" dice che ha la patente del camion e prova con le ditte di trasporti: gli piacerebbe, tanto ogni giorno fa già adesso 75 chilometri per arrivare all'acciaieria e 75 per tornare a casa. Bruno ha deciso, il 29 chiude con la fabbrica e apre un bar con Anna, Angelo ha provato a farsi trasferire alla Thyssen di Terni, la casa madre, ma poi è tornato indietro per la famiglia. Parliamo solo di questo, come tutte le notti, abbiamo il chiodo fisso. E' brutto essere giovani e arrivare per ultimi. La Thyssen qui in giro la chiamano la fabbrica dei ragazzi, perché dei 180 che siamo rimasti il 90 per cento ha meno di trent'anni. Ma questo vuol dire che quando tutt'attorno chiude la siderurgia e Torino non fa più un pezzo d'acciaio che è uno, chi ti prende se sai fare solo quello? Eppure siamo specializzati, superspecializzati, non puoi sostituirci con un operaio qualsiasi che non abbia fatto almeno 6 mesi di formazione per capire come si lavora l'acciaio. E infatti ci pagano di più, uno del quinto livello alla Fiat prende 1400 euro, qui con i turni disagiati, la maggiorazione festiva, il domenicale arrivi a 1700 anche 1800 senza straordinario. Non ti regalano niente, sia chiaro, perché lavori per sei giorni e ne fai due di riposo, quindi ti capitano un sabato e domenica liberi ogni sei settimane, non come a tutti i cristiani. Ma la siderurgia è così, lavoriamo divisi in squadre e quando smonta una monta l'altra perché le macchine non si fermano, 24 ore su 24, questo è l'acciaio. Che poi, se ci fermassimo noi si ferma l'Italia perché siamo i primi, senza l'acciaio non si vive, dai lavandini all'ascensore, alle monete, alle posate, siamo la base di tutta l'industria manifatturiera, dal tondino per l'edilizia alle lamiere per le fabbriche, agli acciai speciali. E quando parlo di acciaio intendo l'inox 18-10, cioè 18 di cromo e 10 di nichel, roba che a Torino si fa soltanto più qui da noi, che è come l'oro visto che il titanio viaggia a 35 euro al chilo e noi facciamo rotoli da sei, settemila chili. Eppure tutto questo finirà, sta proprio per finire, Torino resterà senza, siamo come le quote latte. E' chiaro che ne parliamo tutte le sere, come si fa? Comunque, a un certo punto, sarà mezzanotte e mezza, io saluto tutti, e dico che vado a fare quel rotolo che mi aspetta. Salgo, e lì sotto comincia l'inferno. E' una parola che si usa così, come un modo di dire. Ma avete un'idea di com'è davvero l'inferno"?

Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre le tombe monumentali della "prima ampliazione", girare a sinistra dove ci sono i nuovi loculi. Lì in basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio Schiavone, 36 anni (detto "Ragno" per un tatuaggio sul gomito), morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni, morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto, Rosario Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con ustioni sul 95 per cento del corpo e Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni, ultimo dei sette a morire il 30 dicembre dopo 4 interventi chirurgici, una tracheotomia, tre rimozioni di cute con innesti e una pelle nuova che doveva arrivare il 3 gennaio per il trapianto, ed era in coltura al Niguarda di Milano. Ci sono i biglietti dei bambini appesi con lo scotch, come quello di Noemi per Angelo, ci sono le sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col nailon appannato dall'umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per Roberto, quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe, tre Gesù dorati, due lumini per terra. Attorno alle cinque tombe, una striscia azzurra tracciata dal Comune le separa dagli altri loculi. E' un'idea del sindaco Sergio Chiamparino e del suo vice Tom Dealessandri, una sera che ragionavano sulla tragedia della Thyssen. Se tra un anno, cinque, dieci, qualcuno vorrà ricordarla, parlarne, partire da quei morti per discutere sulla sicurezza nel lavoro, ci vuole un posto, e non ci sarà neppure più la fabbrica, non ci sarà più niente: mettiamoli insieme, quelli che non hanno una tomba di famiglia; hanno lavorato insieme e sono morti insieme. Quelle fotografie di ragazzi sono le uniche tra i loculi, le altre sono di vecchi e dove non c'è la foto c'è la data: 1923, 1925, 1935, 1919, anche 1912. Intorno, un telone nasconde lo scavo di una gru nel campo del cimitero, si sente solo il rumore in mezzo ai fiori, ma c'è lavoro in corso. Siamo a Torino, dice un guardiano, è la solita questione: lavoro, magari invisibile, ma lavoro.

"Dunque, ero da solo, con la gru in movimento. Il mio lavoro si può fare così. Alla linea 5 invece il turno montante era completo. Mancavano due operai, ma si sono fermati in straordinario Antonio Boccuzzi e Antonio Schiavone, anche se avevano già fatto il loro turno, dalle 14 alle 22. Quella tecnicamente è una linea tecnico-chimica per trattare l'acciaio, temprarlo e pulirlo per poi poterlo lavorare. Stiamo parlando di una bestia di forno a 1180 gradi, lungo 40-50 metri, alto come un vagone a due piani, e lì dentro l'acciaio viaggia a 25 metri al minuto se è spesso e a 60 metri se è sottile, per poi andare nella vasca dell'acido solforico e cloridrico che gli toglie l'ossido creato dalla cottura nel forno. La squadra di 5 operai sta nel pulpito, come lo chiamiamo noi, una stanzetta col vetro e i comandi. Ci sono anche il capoturno Rocco Marzo e Bruno Santino, addetto al trenino che porta il rullo da una campata dello stabilimento all'altra. Manca poco all'una. So com'è andata. Il nastro scorre a velocità bassa, sbanda, va contro la carpenteria, lancia scintille, l'olio e la carta fanno da innesco, c'è un principio di incendio. Loro pensano che sia controllabile, come altre volte. Escono dal pulpito, si avvicinano, provano con gli estintori, ma sono scarichi. Un flessibile pieno d'olio esplode in quel momento, passa sul fuoco come una lingua e sputa in avanti, orizzontale, è un lanciafiamme. Non li avvolge, li inghiotte. Boccuzzi è proprio dietro un carrello elevatore per prendere un manicotto, e quel muletto lo ripara salvandolo. Vede un'onda, sente la vampa di calore che lo brucia per irradiazione, ma si salva. Gli altri sono divorati mentre urlano e scappano. Piomba in finitura il gruista della terza campata, corri mi dice, corri, è scoppiata la 5, sono tutti morti. Non ci credo, ma si avvicina urlando, è bianco come uno straccio e sta piangendo. Corro, torno indietro, metto in sicurezza la gru, corro, non penso a niente, corro e li vedo".

I tre funerali sono diversi. Prima lo choc, il dolore, la paura. Poi la rabbia. Egla Scola, che ha vent'anni e due figli di 17 mesi e tre anni, in chiesa ha urlato verso la bara di Roberto: vieni a casa, adesso. La madre di Angelo Laurino gli ha detto: ora aspettami. Il padre di Bruno Santino, anche lui vecchio operaio Thyssen, l'abbiamo visto tutti in televisione gridare bastardi e assassini, con la foto del figlio in mano. Il giorno della sepoltura di Rocco Marzo, arriva la notizia che è morto Rosario Rodinò, dopo quasi due settimane di agonia. Ciro Argentino strappa la corona di fiori della Thyssen, i dirigenti dell'azienda entrano in chiesa dalla sacrestia, se ne vanno dalla stessa porta. Fuori ci sono soprattutto operai, in duomo come a Maria Regina della Pace in corso Giulio Cesare, come nella chiesa operaia del Santo Volto con la croce sopra la vecchia ciminiera trasformata in campanile.

Attorno, il fantasma della Torino operaia che fu. Qui dietro c'erano una volta la Michelin Dora, la Teksid, i 13 mila delle Ferriere Fiat dentro i capannoni della tragedia, poi venduti alla Finsider dell'Iri, che negli anni Novanta ha rivenduto alla Thyssen. Che adesso chiude. Sequestrata per la tragedia, con i cancelli chiusi e un albero trasformato in altare ("ciao, non siamo schiavi", ha scritto un operaio della carrozzeria Bertone), già adesso l'impianto della morte è uno scheletro vuoto, inutile, proprio dove la città finisce e comincia la tangenziale, con le montagne piene di neve dritte davanti. La gente conosce il posto perché lì c'è un autovelox famoso per sparare multe a raffica.

Ma non sa la storia della Thyssen. Ciro dice che un pezzo di Torino non sapeva nemmeno dei morti, e alla manifestazione c'erano trentamila persone, ma era la città operaia, e pochi altri. Come se fosse un lutto degli operai, non una tragedia nazionale. Anzi, uno scandalo della democrazia. Chi lavora l'acciaio sa di fare un mestiere pericoloso, dice Luciano Gallino, sociologo dell'industria, perché macchine e materiali che trasformano il metallo sovrastano ogni dimensione umana, con processi di fusione, forgiature a caldo, lamiere che scorrono, masse in movimento. C'è fatica, rumore, occhio, tecnica, esperienza, senso di rischio, concentrazione. E allora, spiega Gallino, proprio qui nell'acciaio non si possono lasciar invecchiare gli impianti e deperire le misure di sicurezza, non si può ricorrere allo straordinario con tre, quattro ore oltre le otto normali. Invece l'Asl dice oggi di aver accertato 116 violazioni alla Thyssen. Le assicurazioni Axa lo scorso anno avevano declassato la fabbrica proprio per mancanza di sicurezza, portando la franchigia da 30 a 100 milioni all'anno. Per tornare alla vecchia franchigia, bisognava fare interventi di prevenzione, tra cui un sistema antincendio automatico proprio sulla linea 5, dal costo di 800 milioni. From Turin, ha risposto l'azienda, dopo che Torino avrà chiuso.

"Il primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio e il telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare all'improvviso, al passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai visto un uomo così. Anzi sì: dal medico, quei tabelloni dov'è disegnato il corpo umano senza pelle, per mostrarti gli organi interni. La stessa cosa. Le fasce muscolari, i nervi, non so, tutto in vista. Occhi e orecchie, non parliamone. Non mi vede, non può vedere, ma sente la mia voce che lo chiama, si gira, barcolla, cerca la voce, mi riconosce. "Avvisa tu mia moglie, Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far preoccupare". Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma non è più pelle, come una cosa dura e sciolta. Un operatore di qualità continua a saltarmi attorno, cosa facciamo? Mando via tutti quelli che piangono, che urlano, che sono sotto choc e non servono, non aiutano. Dico di non toccare Rocco, di scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se se la sente di seguire i compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo mentre dondola e sembra cadere a ogni passo, mi sembra di impazzire. Mi butto avanti, tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di gomma, i tubi con l'acido, i manicotti. Vedo Boccuzzi che corre in giro a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: "Li ho tirati fuori, li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo e sta bruciando lì per terra". In quel momento Schiavone urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e tre le volte Toni Boccuzzi cerca di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo tenerlo, ma lui ripete come un matto: "Il fuoco lo sta mangiando". Dico di portarlo via, fuori. Mi volto, e mi sento chiamare: "Giovanni, Giovanni". Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno Santino e Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco eppure in piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla verso la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato di essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno. Guardo la loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi cercano: "Giovanni, sei qui vicino? Guardaci, guardaci la faccia: com'è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?"

Dicono gli operai che i sette, alla fine, sono morti perché da tempo erano diventati come invisibili. Si spiegano con le parole di Ciro Argentino e Peter Adamo, trent'anni: l'operaio ovviamente esiste, cazzo se esiste, manda avanti un pezzo di Paese, e soprattutto a Torino lo sanno tutti. Ma esiste in fabbrica e non fuori, nel lavoro e non nella testa della politica. Ma lo sapete voi, aggiunge Fabio Carletti della Fiom, che nell'assemblea del Pd appena eletta a Torino non c'è nemmeno un operaio? Che in tutto il Consiglio comunale ce n'è uno, perché il sindacato si è trasformato in lobby e ha minacciato di fare una lista operaia separata, supremo scandalo per la sinistra? Dice Peter che l'invisibilità la senti tutto il giorno, quando vai a comprare il pane, quando esci la sera. Per le storie veloci con le ragazze in discoteca, fai prima a dire che sei un rappresentante, vai più sul sicuro. Non è rifiuto o disprezzo, aggiunge Davide Provenzano, 26 anni, è che sei di un altro pianeta. Credono di poter fare a meno di te. Da bambino, spiega, vedevo con mio padre al telegiornale le notizie sul contratto dei metalmeccanici, "undici milioni di tute blu scendono in piazza", adesso, non si sa quanti siamo, un milione e sette, uno e otto? Il sindaco Chiamparino sa di chi è la colpa: quelli che pensano alla modernità come a una sostituzione, l'immateriale, l'effimero al posto del manifatturiero, mentre invece è moderno chi gestisce la complessità, la fine di una cosa con l'inizio dell'altra, sopravvivenze importanti e novità salutari. "Chiampa" dice che lui non potrebbe dimenticare gli operai, la sua famiglia viene dalla fabbrica, il figlio di suo fratello ha la stessa età e fa il lavoro dei ragazzi della Thyssen, però è vero che si lamenta perché i riformisti non usano più quella parola, operaio. E tuttavia non si può tornare agli anni Settanta.

E la città non è indifferente, non si può misurare il funerale operaio col metro del funerale dell'Avvocato, in quel caso la partecipazione era anche un modo di dire "io c'ero", mentre qui voleva dire "voi ci siete". E poi, pensiamo sempre a Mirafiori, dove cresceva l'erba sull'asfalto, tutto era abbandonato, e tutto è rinato. Il sindaco ha aiutato Marchionne, l'amministratore delegato Fiat ha aiutato Chiamparino. I due si vedono qualche sera per giocare a scopa col vicesindaco e un ufficiale dei carabinieri, ma in pubblico si danno del voi, perché questa è Torino. Anche se Marchionne voleva strappare, e andare al funerale operaio della Thyssen. Poi si è fermato, dice, per paura che la sua presenza diventasse una specie di comizio silenzioso. Ha radunato i suoi e ha detto: che non capiti mai qui. Un incidente può sempre scoppiare, ma non per incuria verso la tua gente e il suo lavoro. Mai, mettetemelo per scritto. Solo in Italia, spiega ancora Marchionne, operaio diventa una brutta parola, nel mondo indica quelli che fanno le cose, le producono.

E tuttavia, avverte il professor Marco Revelli, Torino è sempre più Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo e di alabastro e uno di ferro e di cartone, e una faccia non vede più l'altra. Gli operai della Thyssen, anche per la loro età, non hanno riti separati, tradizioni private, fanno una vita perfettamente visibile nella sua normalità. Dopo la fabbrica si incontrano indifferentemente alla Fiom o al Mc Donald's di via Pianezza, Peter ha la moglie laureata e vede tutta gente del suo giro, ai funerali hanno messo musica dei Negramaro, hanno portato anche la maglia di Del Piero. Ma ti dicono che l'invisibilità sociale li rende deboli, la debolezza e la solitudine portano a scambiare straordinari per sicurezza, il Paese li convince di vivere in una geografia immaginaria, dove per dieci anni ha contato solo la cometa del Nordest, solo l'illusione del lavoro immateriale, solo il consumatore e non il produttore, e persino la parola lavoro è stata poco per volta sostituita da altre cose: saperi, competenze, professionalità. Questa fragilità - culturale? Politica? Sociale? - li espone. Il cardinal Poletto, che ha fatto l'operaio da ragazzo (il mattino in officina, il pomeriggio in canonica) ha detto ad ogni funerale cose semplici ma solide perché autentiche: la città ha reagito ma non basta, serve un sussulto, la ricerca sacrosanta del profitto non può danneggiare la sicurezza o addirittura la vita di chi lavora. La sinistra ha detto meno del cardinale.

"Nessuno sa cosa fare davanti a una cosa così. Due compagni di lavoro carbonizzati, e ancora vivi. Uno ha preso due giacconi, glieli ha buttati addosso. "Giovanni aiutaci - dicevano - portaci via". Ragazzi, ho provato a rassicurarli, l'importante è che siate in piedi, io non so se posso toccarvi, non posso prendervi per mano, ma vi portiamo fuori, vi facciamo da battistrada. Due passi, e trovo per terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola. Statue di cera che si sciolgono, l'olio che frigge, non c'è più niente, i baffi di Rocco, i capelli di Robi, solo la voce. Mi accoccolo vicino a Laurino, gli parlo. Si volta: "Dimmi che starai vicino ai miei". Scola ripete che ha due figli piccoli, "non potete farmi morire". Rodinò sembra più calmo: "Non pensare a me, io sto meglio, occupati di loro". Poi, quando ritorno da lui mi chiede: "Come sono in faccia? Cosa vedi?" Arrivano i pompieri, poco per volta li portano via. Un vigile mi dice che stanno morendo, ma il fuoco gli ha mangiato le terminazioni nervose, per questo resistono al dolore. Non so se è vero, non capisco più niente, ho quei manichini davanti agli occhi. Prendo un pompiere per il bavero, e gli urlo che Schiavone è ancora a terra da qualche parte, devono salvarlo. Mi dice che lo hanno portato via e che devo andarmene, perché il fumo sta divorando anche me. Stacchiamo la tensione a tutta la linea, blocchiamo il flusso degli acidi, dei gas, dell'elettricità. Tutto si ferma alla ThyssenKrupp, probabilmente per sempre. Non ho più niente da fare".

Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili.



(11 gennaio 2008)

Da - http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/cronaca/incendio-acciaieria-1/thyssen-mauro/thyssen-mauro.html?ref=HREC1-3


Titolo: EZIO MAURO. Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta.
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2016, 06:07:47 pm
Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40 anni"
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica: "Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò".
"Ora Renzi fa un errore capitale se personalizza il confronto"


Di EZIO MAURO
27 maggio 2016
   
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
"Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella".

Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
"Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico".

Di cosa avevate timore?
"Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori".

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
"Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica".

Come mai quell'idea non ha funzionato?
"Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia".

Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?
"Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi".

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
"Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato".

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
"Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole".

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
"E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?".

E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?
"Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche".

Quali?
"Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente".

E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?
"Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti".

Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
"Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente".

Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
"La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?".

Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?
"No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?".

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
"Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele".

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
"Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio".

Sta dicendo che rifiuta il "no"?
"Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni".

Dunque?
"Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana".

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
"E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi".

E a sinistra?
"Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze".

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?
"Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer".

E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
"E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia
pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".

© Riproduzione riservata
27 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/27/news/massimo_cacciari-140687187/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. IL BUON VECCHIO "che fare?" dopo aver perseguitato la sinistra...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 08, 2016, 11:23:32 am
È andato a votare per il Pd il corpo stanco del partito, mobilitando ciò che resta dell’apparato e i gruppi d’interesse intorno ai candidati

Ezio MAURO

IL BUON VECCHIO "che fare?" dopo aver perseguitato la sinistra da più di cent'anni oggi dovrebbe modestamente essere aggiornato così: che fare del Pd? La domanda è sul tavolo del presidente del Consiglio o almeno ronza nelle sue orecchie, visto che è anche il segretario di quello che momentaneamente è il maggior partito italiano. Dire "non siamo soddisfatti del risultato" (usando per la sconfitta il plurale, dopo una vita vissuta al singolare) non basta più. Non basta oggi, soprattutto, quando in nessuna delle grandi città al voto il Pd è riuscito ad eleggere un suo sindaco al primo turno, quando a Napoli è addirittura fuori dal ballottaggio e a Roma è distanziato dai grillini che lo insidiano persino a Torino, mentre nella vera capitale politica del voto - Milano, dove si giocava l'esperimento renziano più ardito - la destra resuscita miracolosamente appaiando al primo turno il candidato cui è stata affidata l'eredità vincente di Pisapia cambiando base sociale, profilo culturale, paesaggio politico.

Ripetiamo oggi le cose che scriviamo da mesi: il corpo stanco del partito è andato a votare, mobilitando ciò che resta dell'apparato, i gruppi d'interesse che si muovono attorno ai candidati e quello strato di pubblica opinione che non si rassegna a rimanere spettatore della politica, e che continua a investire sulla tradizione della sinistra italiana, seguendola nelle sue varie trasformazioni, per un senso di appartenenza a una storia più che alla cronaca attuale e per una testimonianza di valori che hanno contribuito a costruire la civiltà europea e occidentale così come la conosciamo. Ma l'anima, come dicevamo il giorno dopo il flop delle primarie, è rimasta a casa, ed è difficile ritrovarla dopo averla smarrita per noncuranza. Come se un partito fosse soltanto un riflesso del governo e come se vivesse di performance invece che di interessi legittimi, di improvvisazioni estemporanee invece che di tradizioni e progetti, di ottimismo come ideologia invece che come promessa ragionevole in un discorso di verità rivolto al Paese.

Non è certo un deficit di leadership quello che oggi pesa sul risultato elettorale: Renzi è un leader molto attivo e presente ovunque, soprattutto sulle reti televisive, ha il coraggio della sfida in prima persona e dà ogni volta l'impressione di giocarsi l'intera posta sulle questioni che deve affrontare per cambiare un Paese bloccato da cautele democristiane per troppi anni, e ancor più irrigidito dalla ruggine di una crisi economico-finanziaria senza fine. Il deficit, evidentissimo e da lungo tempo, è di identità. Renzi ha scalato il partito non tanto per usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione italiana, ma come uno strumento indispensabile per arrivare alla guida del governo. Giunto a palazzo Chigi, ha mantenuto la segreteria del Pd per controllare la sua massa politica di manovra e di voto, ma dando l'impressione di non saper più che farsene. Soprattutto, di non aver l'ambizione di guidarlo, ma soltanto di comandarlo. Ma i partiti, persino in questi anni liquidi, chiedono in primo luogo di essere rappresentati, e non soltanto indossati, perché non sono dei guanti.

Il problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader temporaneamente alla guida. Bisogna avere il sentimento delle generazioni che passano, dei lasciti e degli errori, per caricarsi del peso della memoria rispettandola, sapendo che una forza politica è un soggetto collettivo che raccoglie intelligenze ed esperienze diverse, fuse in una tradizione comune che tocca legittimamente al leader impersonare secondo la sua cultura, il suo carattere e la sua personalità. Tutto questo cozza contro l'aspirazione di Renzi a presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di "papa straniero" della sinistra italiana? No se si ha il modello di Blair, di Valls, di Clinton, che innovano la politica rispettando storia, valori, tradizione. Diverso è se si pensa che la fonte battesimale del nuovo potere sia la rottamazione non della vecchia politica ma delle persone e delle loro storie, quasi come se una ruspa domestica (esclusivamente contro i tuoi compagni) potesse diventare il vero emblema della sinistra e l'avvento di un leader non fosse l'inizio di una delle tante stagioni politiche che si avvicendano ma un religioso, settario Anno Zero.

La domanda che ripetiamo da tempo è proprio questa: Renzi ha coscienza di far parte di una storia che ha tutto il diritto di innovare, anche a strappi e spintoni, ma che gli è stata consegnata come un patrimonio di testimonianza repubblicana, civile, democratica (insieme ad altre storie politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga riconosciuto, aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui? Questo è ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di potere e d'interesse, e distingue la leadership dal comando. Una forza come il Pd non si può amministrare nei giorni dispari e nei ritagli di tempo, né può essere affidata a funzionari delegati a funzioni da staff. Ha bisogno di vita vera, di uscire da quei tristi incunaboli televisivi del Nazareno, di prendersi qualche rischio di pensiero autonomo e di libera progettazione, per aiutare il governo e soprattutto se stesso, parlando al Paese. E' difficile capire, al contrario, perché un politico ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito, rinunciando a rappresentare l'intero universo del Pd, che unito potrebbe essere ancora - forse - la spina dorsale del sistema politico e istituzionale italiano. C'è in questo uno spirito minoritario da piccolo gruppo eternamente spaventato, una cultura da outsider che non riesce a diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e amicali che per ogni incarico lo spingono a cercare il più fedele dei suoi uomini piuttosto che il migliore d'Italia. Con un misto di localismo e velleitarismo che può portare all'imprevedibile, come quando il renziano Nardella proclama "la morte della socialdemocrazia": che ha tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a diagnostici improvvisati e sproporzionati alla sua storia.

Questi limiti del renzismo sono fortemente ricambiati, a piene mani, dall'ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza interna, che continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come era stato legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una minoranza che se possibile ha il respiro ancora più corto. Perché non ha un'alternativa, non ha un leader e soprattutto non ha una proposta politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di interdizione che apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta un contributo d'idee capace di impegnare il Premier, di aiutarlo nel governo, parlando così alla base del partito e al Paese. Entrambi i soggetti - il leader, la minoranza - si muovono come se non avessero più un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che altrove in Europa, sotto nomi diversi (laburismo inglese, socialdemocrazia tedesca, socialismo mediterraneo) fa riferimento a un'identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi chiamiamo riformismo, cioè sinistra di governo.

E qui siamo alla questione finale. Il grande tema che potremmo intitolare "quale sinistra per il nuovo secolo" interessa a Renzi? Se si assume quell'identità, sia pure nella sua interpretazione più radicale e personale, bisogna sapere che questo comporta degli obblighi. L'obbligo di spiegare ad esempio che il cosiddetto "partito della nazione" non è non può essere un "partito della sostituzione", che taglia a sinistra per inglobare a destra, ma mantenendo ben salde ed evidenti le sue radici porta le fronde del suo albero a coprire anche il centro. L'obbligo di chiarire lo scambio oscuro con Verdini, quando dal concorso autonomo in Parlamento sulla riforma si passa ad una sorta di unione di fatto inconfessabile in pubblico. L'obbligo di tener conto della storia del sindacato italiano a tutela dei diritti nati dal lavoro, che la crisi sta riducendo a semplici "spettanze" comprimibili nei momenti di difficoltà. L'obbligo di usare talvolta con la destra le cattive maniere che si impiegano abitualmente con la sinistra interna: o, simmetricamente, di trattare la minoranza del Pd con il garbo che si riserva di solito a Berlusconi, senza mai dare una lettura pubblica del suo ventennio e della sua avventura politica. In proposito il pensiero di Renzi è sconosciuto.

C'è un patto sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce al racconto delle eccellenze italiane che il Premier fa ogni giorno la responsabilità nei confronti dei mondi più deboli, degli sconfitti e dei perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa carico, e che possono finire risucchiati negli opposti populismi del lepenismo padano di Salvini o dell'antipolitica grillina (che stanno già preparando le "nozze del caos" per il secondo turno). Perché con il disfacimento della destra di governo, il naufragio di ogni ipotesi centrista, civica o tecnica, ad una moderna sinistra toccherebbe il compito di difendere il sistema, cambiandolo. Opponendo il sentimento repubblicano al risentimento che divora ogni giorno la politica. Si può fare, vale la pena farlo. Ma il Pd, lo sa?

Da - http://m.repubblica.it/mobile/r/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/alla_ricerca_del_pd_perduto_al_partito_serve_l_anima_non_l_uomo_solo_al_comando-141458412/?ref=HREC1-1&refresh_ce


Titolo: EZIO MAURO. Referendum, Zagrebelsky: "Il mio No per evitare una democrazia...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2016, 08:11:50 am
Referendum, Zagrebelsky: "Il mio No per evitare una democrazia svuotata"
Per l'ex presidente della Consulta la riforma del Senato sommata all'Italicum "realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie"


Di EZIO MAURO
26 maggio 2016

PROFESSOR Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del "no" alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos'è successo?
"Nel "fronte del no" convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L'atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l'allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?".

Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
"Non penso a una "Spectre", per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l'autoritarismo, di "democratura". Ripeto: non c'è da preoccuparsi?".

Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
"Il Senato è un dettaglio, o un'esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all'insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall'altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l'umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è "non ci sono alternative", e così il pensiero è messo fuori gioco".

Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
"Con "i vertici" ho poche occasioni d'incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell'alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l'insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli".
Ad esempio?
"Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c'è l'esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone".

Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l'economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare?
"Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all'enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il "sì" spianerebbe una strada; il "no" farebbe resistenza".

Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
"Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all'impotenza e all'irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità".

Anche lei pensa che l'Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
"Per nulla. Ma l'Europa è una scelta, non un guinzaglio. L'articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l'Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un'abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L'Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia".

Sta dicendo che l'Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
"È l'opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un "plebiscito d'ogni giorno" dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi".

Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
"C'è un pensiero unico in campo, tra l'altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L'implosione è sempre in agguato".

Professore, non è troppo pessimista?
"Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile".

Sta facendo un problema di forma?
"Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l'obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità".

Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
"Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis! ".

Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all'eterna tentazione del consociativismo?
"A patto di non considerare la vittoria come un'unzione sacra che permette di insultare chi non è d'accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l'idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato".

Ma nel Paese dell'eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
"Perché "diretto" sarebbe "non democristiano"? A me pare che proprio l'idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d'essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c'è stata e c'è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?".

Lei teme l'abuso del vincitore?
"Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della "paura del tiranno". Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c'è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene".

Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell'esecutivo: è così?
"Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della "velocità" nella politica e dell'elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato".

Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
"Semplice: perché c'erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi".

Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
"Non voglio personalizzare. Tra l'altro oggi c'è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano".

Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
"Lo voglio anch'io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all'antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente".

Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
"L'idea di Ingrao era la "centralità del Parlamento". Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi".

E' questa la vera ragione del suo "no"?
"E' fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono "designati" dagli elettori non possono essere "eletti" dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio".

Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
"Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni".

Dal governo non può venire niente di buono?
"Perché? Sono buone le unioni civili, l'autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del "a casa nostra" verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto".

Professore, non l'ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?
"Potrei dirle che l'antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l'ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica".

A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
"Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?".

Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
"C'è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce
il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell'esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l'eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell'oggi e improvvisa".

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26 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/26/news/referendum_riforme_zagrebelsky-140616373/?ref=HREC1-2


Titolo: EZIO MAURO. La storia rottamata
Inserito da: Arlecchino - Giugno 22, 2016, 06:33:52 pm
La storia rottamata

Nei municipi delle città che si aprono alla vittoria dei Cinque Stelle, nasce così davvero la Terza Repubblica tanto spesso annunciata e ogni volta incapace di realizzare una vera svolta nel meccanismo politico-istituzionale

Di EZIO MAURO
21 giugno 2016

Con tutto il vento seminato in questi ultimi anni, il Pd non può certo stupirsi della tempesta che ha raccolto domenica sera nelle urne. Quando la sorte e le circostanze trasformano un partito da forza di maggioranza relativa in perno del sistema politico-istituzionale e questa occasione storica viene dissipata, la politica si vendica, l'opinione pubblica si ribella e il voto lo certifica. Da ieri il perno non c'è più, il sistema gira su se stesso, imballato, e l'energia politica residua prende l'unica via di fuga rimasta dopo il fallimento parallelo di destra e sinistra, trasformando il voto comunale in un certificato nazionale di protesta, e chiedendo alla protesta di governare, cambiando.

Nei municipi delle città che si aprono alla vittoria dei Cinque Stelle, nasce così davvero la Terza Repubblica tanto spesso annunciata e ogni volta incapace di realizzare una vera svolta nel meccanismo politico-istituzionale. In realtà dopo Tangentopoli, la morte dei grandi partiti storici e l'era berlusconiana durata vent'anni, abbiamo vissuto fino ad oggi nella palude finale della Seconda Repubblica, segnata da un confronto-scontro tra destra e sinistra che ha prodotto l'alternanza anche se non è riuscito in due decenni a riformare il sistema e a cambiare il Paese.

Tutto questo è finito domenica. La destra non ha più un'identità riconoscibile, è divisa tra lepenismo d'accatto e moderatismo improvvisato, non ha un leader capace di incassare l'eredità di Berlusconi, che come erede concepisce peraltro soltanto se stesso. La sinistra ha un leader, e nient'altro: l'eredità storico-politica, che fa parte della storia migliore del Paese, è stata derisa e svenduta a saldo, come se le idee e gli uomini si potessero rottamare al pari delle macchine. Ma dopo il salto nel cerchio di fuoco, spenti gli applausi, rimane solo la cenere.

Quando si destrutturano i valori e i fondamenti culturali di storie politiche che hanno attraversato il secolo, rimane un deserto politico da presunto Anno Zero: teatro solo di performance, come se la politica fosse pura rappresentazione e interpretazione di pièce improvvisate ed estemporanee, senza un ancoraggio nella carne della società, nei suoi interessi legittimi, nelle sue forze vive. La destra, come il talento di Berlusconi ha dimostrato troppo a lungo, può vivere di questo teatro dilatato ed estremo, nella ricerca titanica di una fisionomia culturale che il populismo camuffa secondo il bisogno. La sinistra no. Sganciata dal sociale e dalla storia, si perde nel gesto politico fine a se stesso, dove tutto è istintivo e istantaneo, fino a diventare isterico.

Desertificato di riferimenti culturali (che certo sono ingombranti, perché obbligano terribilmente) il campo della contesa disegnato dalla sinistra al potere diventa basico e nudo, con parole d'ordine elementari e radicali. Una su tutte: il cambiamento ma senza progetto, senza alleanze sociali, senza uno schema di trasformazione, cambiamento per il cambiamento, dunque soprattutto anagrafico, spesso con una donna al posto di un uomo. La rottamazione della storia si è portata via anche il deposito di significato, la traccia di senso che la storia lascia dietro di sé, comprese le competenze e naturalmente le esperienze, quel legame tra le generazioni che forma il divenire di una comunità e si chiama trasmissione della conoscenza, del sapere, delle emozioni condivise. Tutte cose che altrove fanno muovere le bandiere di un partito, consapevole di avere un popolo che in quelle insegne si riconosce. Solo da noi la bandiera della sinistra, ammesso che ci sia ancora, è floscia come se vivessimo sulla luna, dove non c'è vento.

È evidente che una forza nata dal nulla dunque geneticamente "nuova" come i Cinque Stelle, si è trovata il campo politico spalancato. Anzi di più: irrigato con la sua acqua, concimato col suo stesso fertilizzante. Prima Berlusconi ha preso a pugni le istituzioni, dal Capo dello Stato alla magistratura, alla Corte costituzionale, rifiutando ogni loro controllo. Poi la sinistra ha predicato per tre anni che nulla della sua storia civica e politica valeva la pena d'essere salvato e indicato come riferimento, solo la germinazione spontanea del nuovo meritava attenzione, mentre la classe dirigente non andava rinnovata ma sostituita, come si fa con una gomma bucata.

Ed ecco i nuovi gommisti all'opera. Non hanno storia, solo una feroce gioia per la crisi delle istituzioni, da combattere in attesa di comandarle. Soltanto un rifiuto senza distinzioni di tutto il sistema politico del Paese, come dice quella "V" incastonata nel simbolo per ricordare il "vaffa", supremo riassunto di un movimento e del suo programma. Infine, com'è ovvio, non scelgono tra destra e sinistra: sono la creatura perfetta del nuovo mondo. Una promessa facile e basica, che semplifica la politica riducendola appunto a un "vaffa". E alla prima resa dei conti, molti cittadini tra il "cambiamento di governo" di Renzi e il "cambiamento contro tutti" di Grillo hanno preferito la spallata. Perché governare e rottamare insieme è difficile, quasi impossibile. E soprattutto, governare senza una storia politica a far da cornice e dei valori di riferimento, diventa un'interpretazione autistica, staccata dal corpo sociale. Si irrideva alla competenza e all'esperienza, promuovendo ministro la famosa cuoca di Lenin? Bene, ecco gli apprendisti cuochi di Grillo, più nuovi del nuovo, digiuni delle cucine del potere, totalmente inesperti da sembrare ignoranti, così politicamente "ignoranti" da apparire innocenti, talmente innocenti da funzionare come garanzia non solo di novità ma molto di più: di alterità, come se venissero da un altrove ingenuo e incontaminato, per molti cittadini il mondo ideale residuo, dopo che della politica si è voluto coscientemente fare un deserto, chiamandolo partito della nazione.

Roma viene conquistata facilmente dai grillini, sia per la debolezza del candidato di sinistra (simbolo capitale della debolezza del Pd di pensare in grande su una platea internazionale come quella del Campidoglio) sia per la sciagurata gestione del surreale caso Marino. Milano viene vinta d'un soffio dal centrosinistra, bloccando per il momento l'emorragia sui due fianchi, destro e sinistro. Torino riserva la sorpresa più significativa, perché qui con Fassino battuto dalla rimonta grillina s'infrange una storia ventennale di guida della città da parte della sinistra, storia di competenza e di buongoverno, che improvvisamente non conta più nulla. Il Pd e il suo segretario dovrebbero riflettere su questa spinta "contro", che nel ballottaggio coaliziona chiunque comunque contro il candidato che rappresenta la sinistra al potere e il governo nazionale: oltre ad alcune lobby cittadine che si autogarantiscono sulle poltrone del potere da qualche decennio, come se a Torino ci fosse un "fordismo" politico superstite anche dopo che il fordismo di fabbrica non c'è più, come anche la fabbrica.

E qui, c'è l'ultima questione. Perché l'irruzione delle forze antisistema nel campo vuoto della politica è sicuramente una sirena d'allarme per Renzi, che forse ha esaurito il capitale politico della sua avventura, e oggi dopo aver svuotato il Pd fa i conti con la sua assenza. Ma è una campana a morto per il cosiddetto establishment, incapace di proiettare un'immagine civica di sé e di costruire una vera classe dirigente del Paese in grado di coniugare gli interessi particolari legittimi con l'interesse generale: più facile da domattina — scommettiamo? — lusingare il nuovo potere nascente, per mantenere una rendita di posizione, come sempre. Questa è la verità: gli antisistema vincono perché non c'è più il sistema. Ecco perché oggi la campana suona per tutti, suona per noi.

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21 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/21/news/mauro_elezioni-142473406/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. Il rancore degli esclusi e la politica che abdica
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 11:59:14 am
Il rancore degli esclusi e la politica che abdica
Una clamorosa asimmetria sentimentale tra europeismo e antieuropeismo pesa sul voto


Di EZIO MAURO
25 giugno 2016

Cosa si muove nel sentimento profondo del popolo? Come se la vita fosse senza dubbi, e la vita pubblica senza sfumature, il referendum sembra costruito apposta per questi tempi radicali, radicalizzando i due corni dell'opinione pubblica nelle loro forme estreme, dove c'è spazio soltanto per essere totalmente a favore o definitivamente contro.

Sembra il massimo dell'espressione democratica, la parola al popolo, come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l'espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e l'istinto, l'emozione e la frustrazione, l'individuale e il collettivo. In questo senso, il pronunciamento popolare è il più ricco di contenuto e di ingredienti soggettivi. In un senso più generale, è un'altra prova di abdicazione della politica organizzata nella sua forma storica tradizionale, che oggi rinuncia ad assumersi i suoi rischi e ricorre al popolo per rincorrere in realtà il populismo che la sta mangiando a morsi e bocconi.

Quei due estremi oggi rivelano che la speranza britannica in un futuro capace di conciliare la storia dell'isola con la geografia del continente e con la politica dell'Occidente è minoritaria. Mentre la chiusura nella coscienza di sé, l'autocertificazione dell'orgoglio identitario e l'investimento esclusivo sul proprio destino prevalgono dirottando la politica del Paese. Tutto questo, come dicono gli istituti di ricerca, costerà caro alla Gran Bretagna e alla sua economia? Ma che importa, se è vero quel che diceva Nietzsche: "La decadenza è scegliere istintivamente ciò che è nocivo, lasciarsi sedurre da motivazioni non finalizzate". Ci sono momenti in cui l'istinto di dare una forma politica visibile alla decadenza in cui viviamo prevale su tutto, anche sulle convenienze. L'insularità storica e spirituale, orgogliosa, dei britannici è certo un elemento specifico decisivo di questa scelta. Ma il meccanismo politico e morale con cui si è costruito questo esito — l'istinto dei popoli, appunto — parla per tutti, parla per noi. Vale dunque la pena di cercare i caratteri generali di un fenomeno che è esploso a Londra, ma che sta covando come una febbre sotto la pelle di tutta l'Europa.

Prima di tutto sul voto ha pesato un'asimmetria sentimentale clamorosa. L'europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi. L'antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque. La radicalizzazione delle scelte senza mediazioni, come quella del referendum, realizza un processo alchemico strepitoso e inedito nel dopoguerra, trasformando immediatamente e definitivamente il risentimento in politica, quella politica in vincolo, quel vincolo in destino generale. Tutto ciò che un processo storico lento, prudente e tuttavia visionario ha costruito in decenni, si spezza così in una sola giornata, probabilmente per sempre. Minoritario sugli scranni del parlamento, il populismo anti-sistema e anti-istituzionale ha dunque portato a termine la sua vittoria nelle piazze, sommando le frustrazioni individuali, le separazioni e le solitudini, lo smarrimento delle comunità reali nella ricerca artificiale di una comunità di sicurezza e di rassicurazione che non è più territoriale e nazionale (nonostante lo slogan "Brexit") ma è spirituale e politica, una sorta di secessione dalla forma istituzionale organizzata che i popoli europei si erano costruiti nel lungo dopoguerra di pace, per crescere insieme cercando un futuro comune.

Il risentimento ha le sue ragioni, tutte visibili a occhio nudo. L'impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione tra problemi sovranazionali (la crisi, l'immigrazione, il terrorismo) e le sovranità nazionali a cui chiediamo protezione. Poi la lontananza burocratica dell'Unione Europea, che percepiamo come un'obbligazione disciplinare senza più rintracciare la legittimità di quella disciplina. Quindi il peso ingigantito delle disuguaglianze che diventano esclusioni, la nuova cifra dell'epoca. In più la sensazione tragica che la democrazia e i suoi principii valgano soltanto per i garantiti e non per i perdenti della globalizzazione. Ancora la rottura del vincolo di società che aveva fin qui unito — nelle differenze — il ricco e il povero in una sorta di comunità di destino, mentre il primo può ormai fare a meno del secondo. Infine e soprattutto il sentimento di precarietà diffusa e dominante, la mancanza di sicurezza, la scomparsa del futuro e non solo dell'avvenire, la sensazione di una perdita complessiva di controllo dei fenomeni in corso: di fronte ai quali l'individuo è solo, immerso nel moderno terrore di smarrire il filo di esperienze condivise, vale a dire ciò che gli resta della memoria, quel che sostituisce l'identità.

E' evidente come tutto questo favorisca un linguaggio di destra, una semplificazione demagogica, una banalizzazione antipolitica, uno sfogo nel politicamente scorretto e una via di fuga nell'estremismo, come mostrano i banchetti imbanditi coi cibi altrui da Le Pen e Salvini. In realtà, c'è uno spazio enorme per una riconquista della politica, se sapesse ritrovare una voce credibile e per la costruzione europea, se sapesse riscoprire l'ambizione di sé. Altrimenti varrà, a partire proprio dal Brexit, la profezia di George Steiner, secondo cui l'Europa ha sempre pensato di dover morire. Mentre ormai soltanto gli immigrati vedono nella nostra terra quel che noi non sappiamo più vedere: semplicemente "una dimora, e un nome".

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25 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/06/25/news/la_politica_che_abdica-142765654/?ref=HRER2-2


Titolo: EZIO MAURO. Cacciari:Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2016, 12:31:41 pm
Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40 anni"
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica: "Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò". "Ora Renzi fa un errore capitale se personalizza il confronto"


Di EZIO MAURO
27 maggio 2016

Massimo Cacciari
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
"Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella".

Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
"Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico".

Di cosa avevate timore?
"Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori".

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
"Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica".

Come mai quell'idea non ha funzionato?
"Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia".

Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?
"Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi".

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
"Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato".

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
"Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole".

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
"E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?".

E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?
"Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche".
Quali?
"Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente".

E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?
"Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti".

Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
"Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente".

Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
"La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?".

Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?
"No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?".

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
"Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele".

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
"Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio".

Sta dicendo che rifiuta il "no"?
"Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni".

Dunque?
"Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana".

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
"E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi".

E a sinistra?
"Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze".

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?
"Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer".

E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
"E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".

© Riproduzione riservata 27 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/27/news/massimo_cacciari-140687187/


Titolo: EZIO MAURO. Il Pd è un soggetto politico dimezzato, in una guerra di posizioni.
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 15, 2016, 07:56:21 pm
Le occasioni perdute
Il Pd è un soggetto politico dimezzato, in una guerra di posizioni.
E adesso rischia di consumarsi la funzione stessa della sinistra

Di EZIO MAURO
11 ottobre 2016

D'ACCORDO: prima sono finite le ideologie, che nella loro luce artificiale e meccanica recintavano un campo. Poi in quel campo si è arenata la politica, che non è più vista dai cittadini come lo strumento pubblico per la soluzione di problemi individuali. Infine si è smarrita la coscienza di sé, che è poi la ragione di esistere. E tuttavia resta un dubbio: era inevitabile questa deriva del Partito democratico, prosciugato di ogni sostanza identitaria come una conchiglia ormai vuota e abbandonata sulla spiaggia italiana del 2016, battuta da tutte le maree?

Probabilmente no, a patto di sapere che i partiti sono qualcosa di più di un'organizzazione di tutela di interessi legittimi che sempre li animano e di un apparato di sostegno per le leadership che temporaneamente li guidano. Hanno, soprattutto, due prolungamenti indispensabili in alto e in basso: da un lato le radici, che poggiano nella storia del Paese e nella vicenda di ceti, classi, soggetti sociali che chiedono rappresentanza ed espressione; e dall'altro lato un orizzonte che li proietta al di là del quotidiano e del contingente, soprattutto adesso che il mitico "avvenire" ha fortunatamente lasciato il posto a un più incerto ma più laico "futuro". Un'idea di Paese da difendere e da costruire, un'avventura collettiva in cui possa riconoscersi una comunità politica, ritrovando le ragioni per collegare la propria vita con la vita degli altri, riscoprendo ognuno il senso di responsabilità per un destino comune.

Questi semplici comandamenti valgono per tutti i partiti, e infatti le difficoltà sono distribuite equamente a destra e a sinistra. Ma è la crisi che non è neutrale, e nemmeno equidistante. Se è vero che accentua le disuguaglianze, che trasforma la povertà in esclusione sociale, che attacca il lavoro come strumento di crescita e di cittadinanza, che fa nascere un'inedita gelosia del welfare, che suscita paure primordiali, allora la sinistra dovrebbe capire che è investita direttamente e in pieno dalla più alta ondata del secolo e non le basta l'ordinaria manutenzione. In gioco infatti c'è lo stesso concetto di sinistra, un progetto cioè di riconoscimento, tutela ed emancipazione che unisca le opportunità e le necessità per un Paese più forte e più giusto.

Non è una sfida da poco. Si potrebbe scoprire che anche la sinistra è una creatura arenata nel Novecento, come le sue forme storiche, il comunismo, il socialismo e la socialdemocrazia. Che la caduta del muro l'ha risolta, segnando la sconfitta del comunismo, e insieme l'ha svuotata. Che la nuova solitudine repubblicana, lo smarrimento di cittadinanza, il sentimento d'impotenza democratica la stanno rinsecchendo, a vantaggio di nuove forme politiche mimetiche che eccitano la rabbia e il malcontento con un impianto culturale tipicamente di destra (una feroce gioia contro le istituzioni, una criminalizzazione dell'intera classe dirigente, un invito esplicito a non distinguere per fare di ogni erba un fascio da bruciare comunque) mascherato da linguaggi di pseudo-sinistra, in realtà da vecchio Borghese . In sostanza il rischio è uno scostamento di classi e soggetti sociali dal sistema all'anti-sistema, con un conseguente slittamento della rappresentanza del pensiero critico, da una politica di sinistra all'antipolitica.

In ritardo perenne con la storia (i conti col comunismo in Italia sono stati risolti per delega con il crollo del Muro, e manca ancora un pubblico bilancio) per una volta la sinistra del nostro Paese era in anticipo sulla cronaca. Il Pd, infatti, era nato prima che questi fenomeni di disgregazione del sistema politico e del meccanismo di rappresentanza si evidenziassero. Il profilo era l'unico possibile per un Paese che aveva nel Pci un partito che era durato troppo a lungo, senza saper risolvere il problema della sua identità autonoma, e nel Psi una forza che era durata troppo poco, suicidandosi con le tangenti e facendo mancare in Italia quel pesce pilota riformista che sotto nomi diversi concorre da decenni a governare le altre democrazie occidentali. Ecco dunque con il Pd la scelta di disegnare quel profilo riformista tipico di una sinistra di governo moderna e occidentale, innervata dalle due grandi tradizioni socialcomunista e cattolico-democratica.

Pochi anni dopo quel partito si trova senza radici e senza orizzonte, con le fonti inaridite e l'identità incerta: un capolavoro. Le tradizioni sono state cancellate dallo stesso segretario nella mistica dell'"anno zero" e della rottamazione, come se il renzismo fosse una forma politica nuova e non una legittima interpretazione della forma-partito che esisteva prima e che - almeno in teoria - dovrebbe continuare ad esistere anche dopo. Soprattutto, come se i partiti fossero modelli da indossare secondo le stagioni e le mode, e non realtà presenti e riconoscibili nella storia del Paese, purché il leader sappia rivestirsi della maestà di quella storia complessiva, interpretandola poi secondo il proprio carattere e la propria visione politica. L'orizzonte è stato invece tarpato dagli avversari interni di Renzi, disinteressati a usare il Pd come uno strumento comune per battaglie condivise, preferendo interpretarlo come un'arena permanente dove duellare ogni volta con il premier, affermando la propria identità nel duello e non nelle idee, perché l'idea di fondo è l'illegittimità di questa leadership.

Il risultato è evidente. Il Pd è un soggetto politico dimezzato con le due metà brandite l'una contro l'altra in una guerra di posizioni che l'elettore segue con scarso interesse. Anche perché il Pd nonostante tutto in Parlamento è ancora la forza di maggioranza relativa e come dimostra la vicenda dell'elezione di Sergio Mattarella al Quirinale avrebbe la possibilità (ma più ancora il dovere) di giocare ogni partita semplicemente come spina dorsale del sistema politico e istituzionale, soggetto del cambiamento. E invece il Pd ha rinunciato al privilegio di questa responsabilità, preferendo giocare ogni volta due partite contrapposte, come sul referendum. Ci voleva tanto a capire in tempo utile che bisognava partire dalla ricerca concreta e testarda di un'unità del partito su un'ipotesi di modifica della legge elettorale, da portare poi all'esame delle altre forze politiche, riducendo il conflitto sul referendum? Non si è nemmeno provato, fino ad oggi, perdendo tempo e accumulando ruggine interna, fino all'invalidità permanente del Pd. Sprecando così un'opportunità clamorosa, in questa fiera perenne delle occasioni perdute.

La destra che si riorganizza, i populismi arrembanti, non contano più e non fanno nemmeno suonare l'allarme: se non ciechi, Dio rende almeno sordi coloro che vuole perdere. Insieme con loro, perde il Paese che ha già visto consumarsi una tradizione politica e una lingua comune, in un deserto di cultura politica. Adesso rischia di consumarsi la funzione stessa della sinistra. Proprio mentre intorno tutto è destra, vecchia e nuova.

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11 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/10/11/news/le_occasioni_perdute-149516963/?ref=HREA-1


Titolo: EZIO MAURO. L'incontro impossibile a Palazzo Chigi
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2016, 05:44:53 pm
L'incontro impossibile a Palazzo Chigi
Come dovrebbe reagire in Italia il Partito Democratico alla vittoria di Trump

Di EZIO MAURO
12 novembre 2016

ROMA - Se la retorica non fosse insopportabile, bisognerebbe incominciare con queste parole: ho fatto un sogno. Nel senso che so perfettamente come quel che sto dicendo sia astratto, teorico, senza un fondamento nella realtà: ma forse non inutile. Dunque mi sono immaginato che anche i leader politici, più o meno come noi, siano sotto shock per la forza con cui Trump ha sbaragliato i democratici, ha dirottato i repubblicani e si è preso la Casa Bianca e l’America.

Avranno pensato, come abbiamo fatto noi, che l’Occidente rischia di andare in crisi e che l’Europa soffrirà perché il trumpismo radicalizzerà le sue tensioni interne tra i neo-nazionalismi della Mitteleuropa e gli altri Paesi.

Avranno osservato con preoccupazione l’immediata deriva opportunistica dei due populismi italiani, convinti che la loro ora sia giunta, basta dare un calcio al sistema di casa nostra. Soprattutto, avranno capito la cosa più grave: che il pensiero democratico classico di impianto liberaldemocratico, che ha dato forma culturale alle nostre istituzioni e alla nostra vita civile europea, può diventare minoranza.

Ce n’è abbastanza, mi pare, perché nulla (come comunemente si dice) sia più come prima. Mi sono dunque immaginato che le agenzie battessero un breve comunicato alle otto del mattino: l’onorevole Bersani, leader della minoranza di sinistra del Pd, e il presidente del Consiglio Renzi si incontreranno oggi a palazzo Chigi. Gran folla di fotografi, cronisti e televisioni alla sede del governo a mezzogiorno, ma nessuna dichiarazione prima dell’incontro. Un’ora di colloquio. Poi un breve passaggio con la stampa italiana e straniera, dei due leader insieme.

Per primo parlerebbe Bersani. "Ho chiesto questo incontro perché la situazione è nuova, preoccupante e dobbiamo essere all’altezza della fase visto il ruolo che giochiamo nel Paese, come partito e come governo. Abbiamo evidentemente posizioni diverse e le abbiamo espresse in questi mesi, anche in forma estrema. Ma oggi, abbiamo convenuto che serve uno sforzo comune di responsabilità. Per questo affidiamo al Presidente del Consiglio, che è anche segretario del Pd, una dichiarazione libera e responsabile sulla legge elettorale, che ci consenta finalmente di avere una posizione comune sul referendum. E da qui partiremo per un discorso democratico che punti a rafforzare il concetto di un’Italia giusta, sicura e solidale, l’idea di Europa e di Occidente, insieme con i nostri alleati nell’azione di governo e in Parlamento e nel Paese con tutte le forze repubblicane disponibili".

Poi prenderebbe la parola Renzi. "Ho detto subito di sì alla proposta dell’onorevole Bersani, perché viene da un autorevole protagonista della storia politica italiana ma soprattutto perché è un segno di responsabilità e di generosità politica, a cui siamo tutti poco abituati. Noi dobbiamo avere grande fiducia nella forza della democrazia americana e nelle sue risorse, e collaboreremo come sempre con quel grande Paese e con la sua nuova guida. Ma non c’è dubbio che la cultura democratica occidentale nella quale siamo cresciuti nella libertà ha bisogno di una forte e costante manutenzione, e le semplificazioni demagogiche dei populismi crescono anche nel nostro continente, raggiungendo spesso le fasce più fragili e impaurite delle nostre popolazioni. Noi abbiamo il dovere di rispondere con una cultura delle istituzioni, a testa alta, dicendo la verità e garantendo insieme solidarietà e sicurezza. Siamo in condizione di farlo".

"Lo faremo. Mi assumo l’impegno di annunciare alla direzione del mio partito, che oggi stesso convocherò le mie modifiche alla legge elettorale, andando incontro alla minoranza e salvando lo spirito della riforma, in modo che il Pd possa esercitare tutta la sua libertà e la sua forza con una posizione comune sul referendum. Porteremo queste proposte all’attenzione e alla responsabilità degli alleati e di tutte le forze politiche in Parlamento. Ma soprattutto chiederemo un impegno repubblicano a tutti coloro che ci stanno, per rafforzare la cultura democratica dell’Occidente, dando finalmente una vera vita alle istituzioni europee che spesso hanno dato ai cittadini l’impressione di vivere di vita artificiale. Lo faremo insieme. Credo sia una giornata proficua per il Paese e ne sono lieto".

Stretta di mano, che i fotografi fanno ripetere a lungo. Poi la politica riparte, facendo un giro. Ma naturalmente, siamo fuori dalla realtà.

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12 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/12/news/l_incontro_impossibile_a_palazzo_chigi-151847121/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Inserito da: Arlecchino - Novembre 22, 2016, 11:43:51 pm
La sottile linea rossa
Viaggio in Italia cercando la sinistra
Dov'è finita la sinistra? La nostra inchiesta parte da Torino, dal tram numero 3 che taglia e ricuce due città: quella del salotto e quella dei nuovi esclusi. Sono loro che hanno gonfiato il vento dei grillini

Di EZIO MAURO
20 novembre 2016

CERCANDO LA SINISTRA conviene salire sul tram numero 6 al capolinea di piazza Hermada nell’Oltrepò torinese e poi proseguire col 3 da corso Tortona. Sulla vettura c’è scritto “Vallette”, il nome della stazione d’arrivo dopo nove chilometri di viaggio, ventiquattro fermate, un’ora di tempo per attraversare la città: partendo dai piedi della collina con le case più belle nascoste nel verde per arrivare al ghetto dormitorio di periferia che qualcuno negli anni Sessanta ha cosparso di nomi dei fiori, via dei Gladioli, via delle Primule, via delle Pervinche, attorno a viale dei Mughetti e ai sedicimila vani costruiti per gli immigrati del sud trasformati in operai.

I torinesi dicono che è una linea che non arriva da nessuna parte e non porta in nessun posto. Ma bisogna salire sul “3” con Marco Revelli, professore di scienza della politica e in realtà speleologo sociale appassionato della natura profonda di Torino per scoprire che tra i due capolinea si invertono i quozienti elettorali del Pd e del M5S, con Piero Fassino che parte da piazza Hermada con il 53 per cento dei voti contro il 47, mentre Chiara Appendino arriva alle Vallette addirittura con il 74 per cento dei consensi contro il 26 della sinistra. Inspiegabile? Mica tanto, se si scopre che tra le due stazioni c’è una differenza nell’aspettativa di vita di sette anni e dunque è come se a ogni chilometro percorso dal “3” dalla precollina alla periferia si perdesse poco meno di un anno di vita.
 
Eccola qua la Moriana di Calvino, dice Revelli, città con una faccia di marmo e di alabastro e una di latta e di cartone. Ma il punto è che nei marmi vive la sinistra, mentre sopravvive invece debole e insignificante nel mondo costruito con materiali più fragili e senza colori, rovesciando la sua storia e forse il suo destino. Sul computer del professore c’è la mappa di questa separazione e mentre il mouse passa sui seggi elettorali si vede il Pd afflosciarsi man mano che dal centro dov’è in testa si va nelle “barriere”, come qui chiamano le periferie ex operaie, oggi popolate da pensionati che dopo una vita in fabbrica, grazie alla crisi, stringono in mano un pugno di mosche: prepensionati che si sentono ancora attivi senza poterlo più essere, con figli torinesi di seconda e terza generazione che capiscono il dialetto ma non capiscono più la città. Suprema eresia in una Torino che pareva disegnata in fabbrica con le sue linee rette e squadrate e poi montata fuori con gli stessi strumenti operai delle officine, tanto da far dire a Herman Melville che “sembrava costruita da un unico capomastro per un unico cliente”.
 
Vado con Paolo Griseri a vedere la “ciambella”, come lui la chiama, quegli atolli intermedi e quelle isole periferiche che circondano il centro e che Giorgio Bocca arrivando da Milano attraversava come barriere coralline disposte a protezione del cuore di Torino. La sinistra non abita più qui, o ci abita in affitto. I Cinque Stelle vincono quasi dovunque, più ci allontaniamo dal salotto torinese più crescono. Quelle isole coralline si ribellano, tutte insieme, tornano vulcaniche formando una specie di città circolare che pensa e parla e borbotta diversamente dal nucleo centrale così sabaudo e insieme straniero, pieno com’è oggi di turisti che riscoprono la sua antica bellezza. Ma c’è qualcos’altro da capire, e come capita spesso la lezione torinese rischia di valere per tutta l’Italia. Basta camminare per piazza Foroni (ribattezzata piazza Cerignola dai pugliesi arrivati in massa fin qui), dove si vendono taralli cerignolesi originali a tre euro e cinquanta ogni mezzo chilo, per avere la percezione che la separazione non è puramente geografica e non è nemmeno soltanto economica, neppure esclusivamente sociale.
 
Gli studiosi dei flussi e delle tendenze dicono che a Torino i grillini hanno vinto senza avere una tradizione. E questo si sa, anche se la città era stata tre anni fa la capitale dei “Forconi” (movimento effimero nato e bruciato per autocombustione dopo aver bloccato per due giorni piazza Castello) e anche se qui era andato in scena uno dei primi “Vaffa day”, con piazza San Carlo piena zeppa ad ascoltare gli insulti lanciati a mezzo mondo dal comico leader di fianco al “Caval d’Brons” impassibile. Ma hanno vinto anche senza insediamento politico, senza organizzazione, senza base sociale. Questo perché hanno saputo trasformarsi in “vela” per il vento che soffiava, vento di rabbia e di frustrazione, un vento che si è gonfiato proprio qui nelle barriere torinesi, mescolando cassaintegrati cronici, professori incazzati, piccoli imprenditori dell’indotto Fiat abbandonati dalla crisi, da Confindustria e dall’internazionalizzazione dell’azienda. È il sentimento — anzi, il risentimento, potente e nuovissimo — dell’esclusione.

La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: l'interno del tram numero 3 che parte da Corso Tortona e attraversa la città fino alla periferia nord.

Tutte le immagini pubblicate in questo reportage sono di Lorenzo Palmieri e raccontano il suo viaggio sulle tracce della sinistra.
Il fotografo, nato a Benevento nel 1981, ha iniziato lavorando per un'agenzia e poi ha deciso di dedicarsi ai reportage e ai progetti personali, come freelance, pubblicando su testate nazionali e internazionali.

Gli esclusi
L'élite
La borghesia
Le due sinistre
Il vocabolario
I poveri
Gli immigrati
Il populismo
Gli sceriffi
I fondatori
Il lavoro
Il sentimento
Gli esclusi

QUEL TRAM CHE TAGLIA E RICUCE LA CITTÀ disegna dunque un’inedita e sottile linea rossa, tra la sinistra e gli “esclusi”. Non sono necessariamente poveri, e neppure quantitativamente, tanto meno professionalmente, ma come dice Ian Buruma hanno un’”auto- immagine” di impoverimento sociale, civile, morale. Sono i tagliati fuori, quelli che scoprono che la democrazia formale è intatta nelle sue espressioni ma rimpicciolita nella sua sostanza, gli ascensori sociali si sono bloccati, il circuito della rappresentanza si è rotto, loro hanno perso il collegamento. Percepiscono i diritti democratici come un sistema di garanzie che vale solo per i garantiti e a un certo punto si scoprono a coltivare un sottile disincanto per la stessa democrazia, che sembra non incidere più sulla materialità della loro esistenza, sulla concretezza delle loro condizioni di vita.
 
Naturalmente la democrazia, se potesse parlare, direbbe loro di rivolgersi alla politica, che è stata inventata proprio per tradurre in forme concrete e pratiche i principi della cornice democratica repubblicana. Ma per gli esclusi la politica è lenta, senza vocabolario e lontana, soprattutto si mostra indifferente, quasi insensibile alle domande che arrivano da un ceto medio proletarizzato nelle speranze se non nel reddito, nelle aspettative rovesciate in delusioni. È quel ceto che nel pendolo sociale si è alleato negli anni Settanta alla sinistra per scrollarsi di dosso almeno un po’ il morbido giogo democristiano profumato d’incenso, e che nei primi Novanta ha creduto a Berlusconi che lo invitava a mettersi in proprio, diventare soggetto politico autonomo, prendersi la politica.
Erano due modi, opposti, di accettare la regola della politica e la sfida delle istituzioni, addirittura di crederci. Oggi, al contrario, siamo davanti al ribellismo del ceto medio che si sente depredato del presente, altro che futuro, mentre si accorge di camminare all’ingiù nella scala sociale e avverte che le classi sociali sono diventate gabbie in cui si entra per nascita e solo molto faticosamente si esce per istruzione e per merito. Gli spostati — che Donald Trump ha appena battezzato forgotten men togliendoli dall’oscurità, segnalandoli al mondo e facendone la sua base politica — si sentono messi di lato rispetto al mainstream, a cui non credono più perché non li riguarda e perciò diventa parziale e menzognero, li inganna. Lo spostamento è decisivo, perché è proprio quel nuovo spazio grigio la terra di nessuno in cui si percepisce la perdita di senso sociale e cresce la delusione, la nuova solitudine repubblicana, la silenziosa secessione democratica.
 
Intendiamoci, dice l’ex sindaco Piero Fassino che questa deriva l’ha vista arrivare prima del ballottaggio, non è vero e non è possibile che la società di oggi provochi un fenomeno così ampio e cosciente di esclusione; ma è vero che genera questa sensazione, questa rappresentazione di singoli e di gruppi che si sentono esclusi, ed è ciò che conta, soprattutto politicamente. Aggiunge una spiegazione: poiché la linea rossa di separazione divide chi si sente ancora rappresentato e chi invece vive nella solitudine politica, senza rappresentanza, noi paghiamo qui la crisi di tutti i corpi intermedi, sindacati, Confindustria, Confcommercio e quant’altro. Pezzi di ceto, parti di professione, gruppi di interesse, singoli individui fuoriescono e si sentono “spostati” come dopo l’uragano, fuori da ogni tutela, da qualsiasi possibilità di trovare un’espressione comune ai loro problemi personali. Vento che soffia, cercando una vela.
Gli esclusi sono contro. Dunque possono accettare rappresentanza solo da un partito che sia contro, talmente contro da non essere nient’altro, da ridursi a questa sola dimensione (oltre a quella — totalmente prepolitica — dell’onestà, che dovrebbe essere una pre-condizione ovvia per tutti, mentre il Pd sembra non accorgersi del numero enorme di inquisiti tra le sue file), rifiutando ogni intesa e ogni accordo per paura di una contaminazione che inquini la diversità ontologica del movimento, la sua estraneità, come di alieni che vivono permanentemente in un altrove politico. Questo comporta un assolutismo integrale, che porta a credere in una propria Verità con la maiuscola, mentre in un parlamento democratico le verità sono tutte minuscole perché relative, e si combinano con le verità altrui, cercando la regola democratica della maggioranza nella combinazione dei programmi e dei numeri, come vuole il compromesso democratico liberamente accettato.
 
Movimento permanentemente separato, il grillismo rappresenta la separazione degli esclusi quasi antropologicamente, segnalando la sua diversità fino all’estraneità dalla politica, dalle istituzioni. Fino a rifiutare la scelta di campo, capitale in Occidente, tra destra e sinistra, nella tentazione del partito- ovunque che sconta l’ambiguità pur di allungare e allargare l’identità nel rancore. Non conta chi sei, come hai vissuto e ciò che sai, l’importante è venire da fuori, rispetto al Palazzo, vivere fuori, non cadere dentro, certificare l’altrove ben più che il merito o il sapere. La differenza conta più dell’esperienza. L’alienità vince sulla competenza, perché è sciolta dai riti del potere. L’alterità prevale sulla conoscenza, perché non è castale né professionale, ma ha la cifra permanente dell’eterno dilettante. Siamo vicini all’ignoranza esibita come garanzia di innocenza.
 
Lenta e appesantita dalle responsabilità del potere la sinistra è spiazzata. Ha creduto per un secolo nella politica come pedagogia, non sa cosa fare quando la da arte sociale a esperimento virtuale, che ribalta i suoi esiti in Parlamento ma li coltiva fuori, nello streaming, nei vertici chiusi all’hotel Forum di Roma, nel direttorio. Ma la sinistra è spiazzata prima di tutto da se stessa, per sua colpa. Nel voto ribelle di Torino, c’è anche il rifiuto per una politica che si è fatta establishment permanente e controlla il potere da troppi anni, quasi fosse una “classe eterna”, come dicevano in Russia della nomenklatura sovietica. Come se in mezzo al “castrum” centrale, tra i palazzi barocchi, fosse cresciuto un Castello invisibile ma presente, un recinto del potere che ha per lati la Fiat, la fondazione San Paolo, la Cassa di Risparmio, il Politecnico.
 
Diciamo un giardino, ammette Sergio Chiamparino, ex sindaco e governatore del Piemonte, con l’erba verde e gli alberi frondosi per chi sta dentro, e la porta chiusa per chi si sente fuori. «È evidente che in giro siamo percepiti come un tutt’uno con l’establishment, e questo è forse inevitabile quando la sinistra raggiunge il maggior tasso di potere della storia, a livello nazionale e locale. Provi a guardarsi intorno: abbiamo tutto, il presidente della Repubblica, del Consiglio, del Senato e della Camera, città e regioni. D’accordo che il potere logora chi non ce l’ha, ma rischia di separare chi ce l’ha, e di rinchiuderlo. Col risultato che noi peschiamo dentro il giardino, i Cinque Stelle fuori, nel mare più vasto e più mosso. Bisogna ricordarci che siamo venuti al mondo per dischiudere le opportunità a chi le merita, ma soprattutto per rappresentare i più deboli. Si possono tenere insieme le due cose, altrimenti ci si rintana, o si cambia pelle. Soprattutto, non si governa una società sfrangiata come la nostra ».
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: la fermata "Vallette" del tram numero 3, il capolinea. In questa zona la neosindaca grillina Chiara Appendino ha ottenuto il 74 per cento dei consensi: mentre Piero Fassino, del Pd, solo il 26 per cento.


Vince il rifiuto per una politica che è diventata "classe eterna".
Chiamparino: "Abbiamo tutto: Quirinale, Palazzo Chigi, Camera, Senato. Il potere logora chi non ce l'ha, ma separa dal Paese chi ce l'ha".
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L'élite
IL BUONSENSO RIFORMISTA DI CHIAMPARINO lo chiama establishment, classe dirigente. Ma gli esclusi la chiamano élite, casta, circolo chiuso, dando corpo alla teoria dei “giri” di Gustavo Zagrebelsky, strutture impermeabili di comando e di sottopotere che procedono per cooptazione e per esclusione, autogarantendosi e perpetuandosi, immobili. Su quell’élite — nazionale, europea — si scaricano oggi tutte le colpe, i rancori, le frustrazioni insieme con le delusioni e la condanna per l’inefficienza delle istituzioni, per la vacuità della politica. Per la lontananza e la grande dimenticanza.
Ma la sinistra, dopo la sua lunga marcia, può andare al potere in Occidente senza farsi establishment? Un bel problema.
 
Magari ci fosse un vero establishment in questo Paese, verrebbe subito da rispondere, una classe dirigente degna di questo nome, perché in grado di coniugare gli interessi particolari legittimi che innervano la società con l’interesse generale: invece di questi network di piccolo potere, salotti sedicenti buoni e in realtà abbondantemente tarlati, alleanze corporative, intese consociative, accordi al ribasso, minimi comun denominatori imperanti. Con una politica debole ma con un’imprenditorialità gregaria e velleitaria, talvolta protestataria ma sempre concessionaria, pronta a scambiare favori al ribasso con chi governa, senza mai una reciproca autonomia, tentata talvolta dall’avventura politica senza avere il fuoco nella pancia di Berlusconi, ma solo cenere di antichi fuochi parastatali.
 
Detto questo, che è metà del problema, resta l’altra metà: come può la sinistra governare e salvarsi l’anima? A me verrebbe da dire che oggi ci si salva l’anima soltanto governando, il che faticosamente significa accettare i compromessi, le mediazioni, lo scarto tra le utopie e la realtà sapendo che i coltivatori del rancore ti urleranno contro ma sapendo anche che le pinze e i cacciavite che la sinistra ha nello zaino sono gli strumenti più adatti a contrastare la radicalità della crisi, che pesa sugli estremi della scala sociale, deformando al massimo le distanze. Per essere chiari: sono convinto che il riformismo sia l’unico orizzonte possibile per la sinistra occidentale d’inizio secolo, anche se il vento è contrario e gonfia le vele altrui, premiando l’irresponsabilità che alimenta la rabbia invece di trasformarla in politica.
Il vento contrario non viene dal nulla perché il riformismo è sempre stato minoranza in Italia, ricorda a Milano Michele Salvati, economista ma soprattutto primo inventore dell’idea di un partito democratico italiano. Prima il Pci che era tutt’altro che riformista, spiega il professore, poi gli ondeggiamenti di Occhetto, la difficoltà perenne di accettare il tema del liberalcapitalismo, e il tutto sempre senza aver avuto Bad Godesberg, la scelta netta di campo per la democrazia, nella libertà e per il mercato.
 
La partita non è finita, perché il Pd è nato con la cultura di governo e per governare, ma quella cultura fatica ad affermarla compiutamente, anche per la guerra mondiale che il partito ha importato al suo interno, invece di combatterla con la destra o con Grillo. «Non ci si rende conto che la libertà estrema per la circolazione dei capitali in un mondo de-regolato, unita alla mancanza di protezione per i ceti più deboli è una cornice che può stritolare la sinistra, mentre fa riemergere la rabbia sociale e genera uno scontento diffuso di cui approfitta la destra populista», dice Salvati. «Eppure il modello c’è perché il secolo socialdemocratico è stato grandioso, e i Trenta Gloriosi, i tre decenni seguiti alla guerra, con l’economia sociale di mercato hanno liberato il capitalismo temperandolo, cioè frenandone gli istinti più belluini, mentre un welfare condiviso dalla sinistra e dai conservatori ha emancipato le classi popolari».
Quel welfare che per Romano Prodi, il fondatore dell’Ulivo, resta ancora il segno distintivo di una sinistra moderna, un segno che si va scolorendo «perché quell’attenzione che c’era alla protezione dei cittadini, soprattutto quelli più esposti agli imprevisti della vita, è andata scemando, e non è un problema solo italiano e nemmeno soltanto di una parte politica, ma oggi attraversa tutta l’Europa».
Quanta fatica per arrivare fin qui, a una sinistra di governo, con le sue costruzioni materiali come il welfare, con le sue costruzioni teoriche perennemente in ritardo, un ritardo colpevole. E adesso che c’è la cultura di governo e c’è persino il governo (nelle città, nelle regioni, a Roma), proprio adesso che la sinistra diventa classe dirigente scoppia la rivolta contro le élite e contro l’establishment. Neanche il tempo di aprire la porta della stanza dei bottoni, verrebbe da dire, quella stanza che Pietro Nenni, quando ci entrò per la prima volta da vicepresidente del Consiglio, trovò vuota. Tutto questo comporta un rischio evidente. Perché il riformismo, cioè la cultura di governo della sinistra liberamente accettata, è molto recente, in formazione, per molti versi ancora fragile e addirittura posticcia. Sotto i colpi di maglio del trumpismo dilagante e delle opportunistiche imitazioni di casa nostra c’è il rischio che quell’embrione di cultura si intimidisca, rattrappendosi e mimetizzandosi. Diventando dunque incapace di concorrere alla vera grande partita, che è quella per l’egemonia culturale, la corrente di fondo che trascina e determina la politica.
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Milano: la casa dell'accoglienza "Enzo Jannacci" in viale Ortles.

Il riformismo in Italia è sempre stato minoranza. Ma a Milano con Pisapia e con Sala ha funzionato l'alleanza tra sinistra di governo e borghesia. Salvati: è l'unico modo per mettere le briglie al neoliberismo dominante
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La borghesia
DAL SUO DOPPIO OSSERVATORIO, tra Milano e Bologna dov’è direttore del Mulino, Salvati si è convinto che l’alleanza tra la sinistra di governo e la borghesia è oggi l’unico modo di rimettere le briglie al neoliberismo in un Paese in declino. Potremmo dire che c’è in proposito un modello Milano, anzi un doppio modello che ottiene lo stesso risultato — governare la città — cambiando i fattori: prima con Giuliano Pisapia la sinistra ha proposto un patto alla borghesia milanese, poi con Sala è la borghesia che ha chiesto un’alleanza alla sinistra e in entrambi i casi la città ha detto sì e si sono vinte le elezioni.
 
L’avvocato milanese lo fermano ancora per strada chiamandolo sindaco, anche adesso che indica la traduzione fisica, concreta, di quel patto a Quarto Oggiaro, dove stanno insieme la centrale operativa delle forze dell’ordine, la casa del volontariato, la casa dell’associazionismo, la scuola civica musicale intitolata a Claudio Abbado; o quando si sposta in zona Corvetto, dove c’è la fondazione Prada, l’hub del coworking per i giovani ma anche (al numero 69 di viale Ortles) la casa dell’accoglienza Enzo Jannacci, che dà un posto per dormire a mille persone senza un tetto dai diciott’anni in su, con mensa, docce, lavanderia; o ancora la zona dove s’innalzano i nove grattacieli di Milano e dove l’ex sindaco ha voluto — proprio qui — la casa della memoria che riunisce le associazioni dei partigiani e delle vittime del terrorismo, un luogo del ricordo proprio in mezzo al nuovo skyline della città.
 
Ma basta andare con Matteo Pucciarelli a due passi dalla Bocconi e dal Parco Ravizza, in via Bellezza, aprire la porta del numero 16 ed entrare nei due mondi che vivono insieme al circolo Arci più grande di Milano, diecimila soci per trovare un’ottima polenta, un buon tiramisù e un direttivo dove le due Milano sembrano addirittura stringersi la mano come succedeva nei simboli delle vecchie Società di Mutuo Soccorso, due mani intrecciate. E infatti qui, al circolo “Bellezza”, il presidente è Maso Notarianni che viene dall’esperienza di Emergency, nel gruppo dirigente c’è Milly Moratti ma c’è anche l’ex fondatore delle Brigate Rosse Alberto Franceschini. E il mix funziona e gira su se stesso durante la giornata. Al pomeriggio sembra di entrare in una Casa del Popolo degli anni Sessanta o anche prima, coi pensionati seduti al tavolo col mezzolitro davanti e le carte in mano. Ma la sera arrivano i ragazzi per il concerto di Joshua Radin nel vecchio teatro, per le nottate rock, per la discoteca, mentre di giorno ci sono i corsi di milonga e di tango col maestro Alberto Colombo, con la pratica del domingo guidata alle 15,30, libera fino alle 23, con possibilità di aperitivo a bordopista, proprio nello spazio dove Luchino Visconti ha girato Rocco e i suoi fratelli.
 
«I borghesi vengono, certo, i pensionati discutono di referendum, i ragazzi cantano e ballano», dice Notarianni. «È un gran mischione che funziona, e a noi qui a Milano questo incrocio è venuto naturale, tanto che la candidatura di Pisapia a sindaco è nata proprio qui, perché era il posto giusto per parlare all’intera città, una cornice perfetta, coerente col senso di quella candidatura. Ricetta milanese? Questi posti possono avere ancora un significato dovunque, a patto che abbiano un’anima. Io penso che si possa parlare di politica come una volta e divertirsi, stando insieme e magari imparando qualcosa per non buttare via il tempo. A condizione di far le cose per bene e crederci, ricetta che la sinistra sembra non conoscere più».
Attenzione però, avvisa Pisapia: per governare un sistema complesso oggi ci vuole certo una sinistra che sappia parlare con la borghesia, lavorando col pubblico e con il privato, tenendo sempre il pallino in mano e mettendo fin dal primo minuto un paletto ben in vista, per dire agli imprenditori che c’è spazio per loro, ma al servizio della città e a suo vantaggio. Quest’alleanza vale per le giunte, nei municipi delle città ma vale anche a livello nazionale, non nel senso di inseguire partitini di un centro che non c’è ma nella capacità della sinistra di convincere e coinvolgere autonomamente interessi moderati ed elettori di centro in un progetto di governo che cominci intanto a rovesciare il vocabolario: sinistra-centro, dice l’ex sindaco, dopo tanti esperimenti più o meno riusciti di centro-sinistra.
La cifra politica di centro che lui cerca è quella di una borghesia aperta, occidentale, europea, moderna, capace di esprimere un impegno civile in uno sforzo di governo e di cambiamento, come se fosse una grande lista civica nazionale alleata alla sinistra. Quella lista non c’è e allora i “borghesi civici” bisogna andare a prenderseli uno per uno e non è facile, soprattutto perché bisogna essere insieme responsabili e coraggiosi, ma soprattutto credibili, portando all’appuntamento una sinistra a sua volta aperta, occidentale, europea, moderna. Tante cose.
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Milano: il quartiere Isola con il bosco verticale e la Casa della Memoria.

Il Referendum è in sé una faglia vivente. Alla Camera del Lavoro di Porta Vittoria i compagni per il "Sì" e quelli per il "No" hanno litigato anche sull'affitto della sala grande. Polemica a fior di pelle che attraversa la Cgil e i rapporti col Pd
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Le due sinistre
PER ARRIVARE A DIRE, POI, CHE LA SINISTRA BORGHESE non basta più. Per Pisapia ci vuole anche la capacità di tenere a bordo quel pezzo di sinistra più radicale senza il quale non si vince, ma soprattutto si regala spazio alla destra e ai grillini, finendo paradossalmente per dare ragione a Camille Paglia quando dice che “la sinistra è una frode borghese”. Però a bordo c’è l’ammutinamento perenne, le faglie corrono dovunque, a sinistra del Pd ma oggi soprattutto al suo interno. Il referendum è in sé una faglia vivente: anche a Milano, naturalmente, se si esce dal “Bellezza” e si passa alla Camera del Lavoro più importante d’Italia, a Porta Vittoria. Qui hanno litigato addirittura per l’affitto della sala grande, quando la “Sinistra per il Sì” ha organizzato la sua prima assemblea proprio in Camera del lavoro, con Maurizio Martina, Fassino e Anna Finocchiaro. Il “Sì” che esordisce in casa del “No”? Putiferio, e risposta riformista del segretario generale Massimo Bonini, quarantuno anni: «Noi diamo la sala a chi la chiede». Ma quando il comitato “Basta un Sì” torna alla carica per organizzare un incontro, scatta la protesta dei compagni del “No”, che blocca la richiesta. Sala vuota, dunque, polemica a fior di pelle e — sotto la
pelle — l’idea che la faglia passi anche attraverso la Cgil, tra la sua naturale difesa della Costituzione e il suo legame col Pd. E qui si apre la questione eterna delle due sinistre, torna in campo il buon vecchio Turati, il riformismo e il massimalismo in guerra, quando non siamo nemmeno sicuri di avere finalmente un riformismo di governo, dopo un secolo: e per questa strada tormentata si arriva fino a Bertinotti.
O meglio, a Pisapia, perché l’avvocato uscito da palazzo Marino ha ormai un ruolo nazionale come uomo-ponte tra i mondi separati delle due sinistre. A parte il fatto che non i pontieri, ma i pompieri oggi troverebbero abbondante lavoro all’interno del Pd (che vive dentro un incendio permanente, bruciando ogni giorno la casa comune purché muoia il vicino di stanza), la sinistra radicale oggi è un sentimento sparso e disperso, senza più un’organizzazione. Ponte con che cosa, dunque, verrebbe da chiedersi, se manca una sponda? Vittorio Foa spiegava “ l’assurdità di unire diverse realtà malate che non possono guarire sommandosi tra loro così come sono, ma solo cambiando se stesse”. Ma Pisapia sta girando l’Italia e giura che c’è una rete spontanea pronta a riformarsi, se nasce l’occasione. Ecco dunque il sogno del Ponte a tre campate per vincere, governare e salvarsi l’anima.
Ma per provarci, ci sono due precondizioni che l’ex sindaco mette sul tavolo a ogni suo incontro: la prima è che la sinistra-sinistra la smetta di dire solo no e soprattutto la pianti con la storia della mutazione genetica dei riformisti, che trasforma il Pd nel nemico principale da abbattere; la seconda, che il Pd la finisca di credersi l’unica sinistra, e dunque l’unica forza abilitata a decidere, l’unico attore in scena in questa metà del terreno di gioco.
 
Sono due ostacoli simmetrici, quasi le ultime ideologie rimaste a sinistra, e bisogna disarmarli insieme con buona volontà e soprattutto con realismo, se non si vuole regalare il Paese alla destra o a Grillo. Pisapia lo ha anche detto a Renzi: può darsi che un giorno accada quel che oggi non è possibile e che il Pd diventi padrone incontrastato del campo, ma prima che da solo possa rappresentare l’intera sinistra deve passare una generazione, forse addirittura devono passarne due. “E intanto, che facciamo?”. Rispondono i personaggi di Ellekappa, nella loro indagine permanente sui tormenti della sinistra: “Il sogno, la casa comune di tutta la sinistra”, dice il primo. E l’altro risponde: “L’incubo, le riunioni di condominio”.
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Milano: il circolo Arci "Bellezza", il più grande della città, dove gli anziani giocano a carte.

Il circolo Arci Bellezza è il laboratorio perfetto: diecimila iscritti, dibattiti sul referendum, corsi di milonga, concerti rock: "Qui vengono tutti: professionisti, pensionati, ragazzi. E' un gran mischione che funziona".
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Il vocabolario
PER CAPIRE CHE FARE, BISOGNEREBBE PRIMA SAPERE cosa dire. Davanti a una crisi economica senza precedenti, con una destra che abbattendo il politicamente corretto si è presa la più estrema libertà di parola, sfondando il linguaggio politico e stravolgendo i riferimenti culturali tradizionali del suo campo, la sinistra ha chiuso il vecchio vocabolario e non ha trovato il nuovo. Nessuno si preoccupa di scriverlo, tutti sono troppo occupati a cercare la battuta efficace nei centoquaranta caratteri di un tweet, invece di mettere in campo un pensiero lungo, accettando l’uno contro tutti dei social network dove vive la democrazia del libero scambio di opinioni, senza più il pulpito e il messaggio verticale: ma dove cresce anche la società del rancore. Intanto la destra sa di cosa parla, e sa persino come farlo.
 
La battaglia di Donald Trump si appoggia sulle parole “prendere”, “guardare”, “dire”, “Paese”, “occupazione”, “gente”, “grande”, “grosso”, “cattivo”. I comizi di Viktor Orbán lamentano “la sparizione delle nazioni europee e dei loro valori” e la volontà di “renderle irriconoscibili” e chiedono che “l’Europa resti agli europei” e che i vari paesi rifiutino di “farsi sovietizzare da Bruxelles”. L’ideologia di Marine Le Pen costruisce uno scenario psicopolitico di assedio che parte dall’evocazione del “caos” imminente, passa alla “sostituzione” degli europei con gli immigrati maghrebini, punta su un “nazionalismo rivoluzionario”, propone un “patriottismo economico”, pretende una “sovranità al servizio dell’identità”, denuncia il “tradimento delle élite” mentre sullo sfondo evoca “una Francia che noi non riconosceremo più, che diventerà per noi un Paese straniero”.
 
Di fronte a questa costruzione meta-politica che agita il profondo di paure antiche con linguaggi nuovissimi, la sinistra non usa più le parole tradizionali del suo discorso pubblico perché le sembrano vecchie, mentre in realtà appaiono antiche solo perché non suonano autentiche. Cosa c’è di più moderno che ragionare sui diritti del lavoro negando che siano — unici tra tutti i diritti — una variabile dipendente della crisi, mentre sono invece una cifra della qualità democratica del Paese di cui usufruiamo tutti, lavoratori dipendenti, professionisti e imprenditori? E cosa c’è di più responsabile che sostenere la necessità di rimodulare il welfare per proteggerlo dall’urto di questo decennio, salvandolo? Infine: perché dovrebbe essere vecchio parlare di uguaglianza nella fase in cui la crisi addirittura sorpassa e sopravanza le disuguaglianze trasformandole in esclusione, sapendo per di più che mentre la democrazia “scusa” e sconta le disuguaglianze non può tollerare le esclusioni?
 
Soprattutto, chi dovrebbe fare questi discorsi se non la sinistra, proprio e tanto più quando governa, e dunque ha la responsabilità dell’intero Paese e non solo di una sua parte? Ma se ti mancano le parole, le tue parole, quelle della tua storia (naturalmente interpretate secondo lo spirito dei tempi e il carattere dei leader) sei prigioniero dell’egemonia culturale dominante, gregario del pensiero unico, attore nell’agenda altrui, e intanto il concetto di sinistra sbiadisce dentro un liquido pulito e confortevole ma diverso e senza colore. L’indistinto democratico.
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Bologna: una partita a biliardo al circolo Arci "Benassi", il più antico della città.

La sinistra non sa più pronunciare la parola povertà. Ma a Bologna sono nate le "Cucine popolari" grazie ad un sindacalista Cgil. "Ero stanco di parlare di diritti dei diseredati mentre gli altri facevano da mangiare".
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I poveri
UNA PAROLA CHE LA SINISTRA NON PRONUNCIA più è proprio questa — povertà — e il suo silenzio suona forte perché la nuova miseria si sta allargando. O meglio, spiega a Bologna Roberto Morgantini, noi parliamo anche di poveri, la questione vera è che non sappiamo parlare coi poveri. Lui ha lavorato una vita nel sindacato, si occupava di immigrazione, praticamente non c’è un profugo arrivato senza niente a Bologna che non sia passato per le sue mani. A un certo punto, con Lucio Dalla, si sono messi in testa di aprire una specie di refettorio laico per dimostrare a se stessi che non c’è solo la Chiesa a occuparsi di povertà, che non c’è soltanto la carità ma anche la solidarietà, che non è il pane benedetto l’unico che può sfamare i più disgraziati. Poi Lucio è morto, e tutto sembrava finito prima di incominciare, perché non c’erano i soldi.
 
«Ma io sentivo il disagio di occuparmi solo di questioni come i diritti dei diseredati, cose tutte più che sacrosante, intendiamoci, ma mentre parlavo con quella gente qualcun altro si preoccupava di dar loro da mangiare», racconta Morgantini. «Volevo farlo anch’io. Ho settant’anni, convivevo con Elvira da trentotto, abbiamo avuto l’idea di sposarci per sfruttare i regali di nozze come finanziamento al progetto e alla fine abbiamo raccolto settantamila euro e sono nate le “Cucine popolari”, in partenza con sei volontari e pochi pasti. Oggi quelli che ci regalano il loro tempo per andare a prendere pasta, carne, frutta e verdura, per cucinare, servire a tavola e lavare i piatti sono trenta, e a tavola si siedono ogni giorno ottanta persone. Funziona, e l’idea della laicità è andata a farsi benedire. Io sono laico, ci mancherebbe, ma ho scoperto che con i preti e i volontari cristiani si lavora che è una meraviglia, e poi se devo dire la verità stamattina avevamo bisogno di verdure e chi ce le ha date? Comunione e Liberazione, con il Banco Alimentare».
 
Bisogna guardarla, alle cucine di via Battiferro numero 2, la nuova geografia della povertà italiana. Perché Bologna fa parte del Paese ricco, c’è una cultura solidale antica e tenace, si sta meglio che altrove. Ma qui ci sono tutti: gli stranieri appena arrivati con qualche barcone e risaliti fin quassù con piazza Maggiore come prima immagine dell’Italia, ma anche gli italiani che mese dopo mese diventano due o tre in più, e che ormai sono la metà degli ospiti. C’è chi ha perso il lavoro e la casa come Graziella, che dorme in un centro per senzatetto, mangia qui a pranzo e incarta qualcosa per cena da portar via; c’è Maria che è una ragazza madre e si è presentata un anno fa con la figlia di un mese e poi non ha più mancato un giorno; c’è il “professore” malato di Alzheimer che povero non è ma mangia qualcosa solo qui e allora la moglie lo accompagna a mezzogiorno; al tavolo in fondo c’è Antonio che ha problemi psichici e tra un’ora, quando avrà finito il pranzo, darà una mano a sparecchiare, trasformandosi in povero-volontario. Tutto questo a cinque minuti dalla stazione, quartiere Navile, nel cuore della città “grassa”, a cui piace una sinistra «che metta le mani nelle cose», come dice il compagno Morgantini che infatti sta già macchinando per aprire un’altra cucina popolare ancor più in centro, nel Porto, un quartiere dove vivono molti vecchi soli, e per preparare i soldi che non ci sono farà una vendita straordinaria di Pignoletto, il bianco delle colline bolognesi imbottigliato qui dai volontari: per Natale due bottiglie a dieci euro, e qualche pasto a qualche nuovo povero in più.
 
Il caso di Bologna, dove con la povera gente lavorano strutture come “Piazza grande” o quella storica di don Nicolini, oltre alla Caritas e all’Antoniano, è importante proprio perché tutta la città vede quel che succede, e lo sa. Vede i poveri, vede il volontariato, conosce insieme il problema e la sua gestione, una possibile soluzione, e anche l’evidenza concreta della solidarietà. Oltre a un problema di vocabolario, infatti, la sinistra ha un problema di sguardo. Ci sono cose che non riesce a scorgere più, non le inquadra, e se le incontra non riesce a metterle a fuoco.
 
La distanza tra chi sta in alto e chi precipita — gli integrati e gli espulsi — è aumentata fino a diventare una vera e propria frattura sociale. Intere parti di società, di generazione, di ceto stanno sperimentando un naufragio silenzioso con l’onda della crisi che li sopravanza fino a sommergerli. La divaricazione epocale tra i privilegiati che vivono nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d’informazione e i dannati che abitano il sottosuolo degli Stati nazionali diventa incolmabile. Con questo risultato formidabile: la rottura del nesso che legava i ricchi e i poveri nel loro percorso distinto e disuguale tuttavia collegato, il venir meno di quel vincolo di destino collettivo che abbiamo chiamato società e che avevamo conservato fino a oggi.
Noi fingiamo che i garantiti e gli scartati siano ancora vincolati dal sentimento di un destino civile comune, verso un orizzonte condiviso di ciò che per anni abbiamo chiamato “bene comune”. Ma dietro la crosta miracolosa di coesione sociale che tiene insieme questa divaricazione a orologeria, assorbendo o forse disperdendo le tensioni e i conflitti, ci sono gruppi e soggetti che semplicemente vanno alla deriva, finiscono sul bordo a saggiare a tentoni il margine periferico della democrazia, ne fanno un valore d’uso minimo e soprattutto insignificante: e giungono infine a considerare i suoi valori e i suoi diritti come un apparato di nobili parole, che funzionano però come un privilegio in più — supremo, perché diventa regola — per i privilegiati. Nello stesso tempo e simmetricamente il garantito non avverte più il valore o l’utilità di quel legame col povero, le condizioni culturali, sociali, politiche ed economiche lo autorizzano a sentirsi svincolato, liberato da ogni responsabilità che vada oltre la sua sfera personale, perché nessuno gli chiede più conto degli altri, che dunque non lo interpellano e per conseguenza non gli interessano. Inconsapevolmente, per questa strada sconosciuta arriviamo a un passo dal luogo in cui Caino diede la sua risposta: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.
 
Mentre la società si rompe, una parte si inabissa lentamente e ne perdiamo nozione e coscienza. Non li vediamo più, non hanno una classe che li raccolga, una storia che li racconti, un partito che li rappresenti, non proiettano un’ombra sociale, non lasciano un’impronta politica. Non fanno nemmeno più paura, non sono niente. La stessa parola “povero” non rappresenta la spoliazione identitaria cui stiamo assistendo, sembra di un’altra epoca perché indica una scala di riferimento comune, in cui l’alto e il basso in qualche modo si tengono, c’è ancora una dialettica sociale, siamo dentro il rapporto di forza tra capitale e lavoro. Qui invece siamo fuori da ogni campo di forza, da ogni schema culturale, da ogni ipotesi politica. Qui si va a fondo da soli, invisibili e impronunciabili. Vergognosi. Morgantini prima di partire con il suo refettorio laico a Bologna è andato a vedersi un po’ di mense popolari in giro per l’Italia e alla fine ha deciso di organizzarsi con tavoli da sei posti e un facilitatore che gira tra i “clienti” e li spinge a parlare, proprio perché si è accorto che più le mense sono grandi più il povero è intimidito: entra, tiene la testa china sul tavolo, mentre mangia guarda solo il piatto e poi se ne va. Invisibile com’è, vuole che lo vedano ancora meno.
 
Lo capisce chi va in via Capriolo 16 a Torino, a Borgo San Paolo, ex quartiere operaio, e attraversa la soglia con la scritta “Spazio d’angolo”. Potrebbe essere un negozio o anche uno studio di design dentro un grande caseggiato che ai tempi della città fordista — dove tutto si teneva — era l’istituto tecnico dei Fratelli delle scuole cristiane e adesso è una delle cinque mense serali di Torino. Pareti gialle e arancioni, sedie rosse, «perché chi arriva qui ha bisogno di calore e abbiamo evitato il bianco», dice Pierluigi, il direttore della Caritas che ha organizzato la mensa insieme con la cooperativa Arco. In fondo alla stanza, Andrea stasera cena da solo: «Vengo qui da due anni. Nel 2013 ho chiuso la cartoleria. Fallito. Sa cosa significa? Glielo dico io: mi sono mangiato tutto. Arrivo verso le cinque di sera, la cena la servono alle cinque e mezza. Non c’è molto spazio per parlare, bisogna avere il tempo per finire e uscire in modo da arrivare al dormitorio pubblico prima delle sette. Altrimenti rischi di dormire fuori».
Ma non è nemmeno qui il grado zero della disperazione, qui dove in fila coi barboni si sono aggiunti ex impiegati, capicantiere e la scorsa settimana un ingegnere. «La crisi», spiega Pierluigi, «non si misura solo coi cinquemila pasti forniti dalle mense dei poveri, ma nella dimensione privata, invisibile delle migliaia di famiglie che negli ultimi cinque anni hanno cominciato a far richiesta quotidiana di pacchi pasto. Nella sola zona di corso Umbria, a Torino Nord, le famiglie assistite con il pacco pranzo sono cinquecento. Gente che non ce la fa ad arrivare a fine mese ma non ha il coraggio di presentarsi alla mensa pubblica». Perché la povertà è terribile, ma per gli ex poveri ritornare a esserlo dopo un giro fuori è insopportabile.
Noi ne sappiamo poco o nulla, tutto finisce trasformato in percentuali e quozienti nelle statistiche del pil, dei consumi e dell’occupazione. Ma è così che salta sotto i nostri occhi quello che gli studiosi chiamano il tavolo di compensazione dei conflitti, capace di tenere insieme i vincenti e i perdenti della mondializzazione. Su quel tavolo, oltre che l’equilibrio della modernità occidentale stava anche la carta d’identità della sinistra, che rischia di volare per aria, perché come spiega il premier francese Valls, l’emancipazione oggi è la sua vera missione. Tutto per aria. E poi? È la stessa domanda che l’operaio in tuta pronuncia in una vignetta del sommo Altan: “E adesso?”. “Facciamo una colletta”, gli risponde Cipputi, “e affittiamoci un uomo della Provvidenza”.
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Bologna: Elena e Alessandra, volontarie delle Cucine popolari.

"Il progetto era nato con Lucio Dalla", racconta Roberto Morgantini. "Poi lui è morto. Allora, a settant'anni, ho sposato la mia compagna e per regalo di nozze abbiamo chiesto soldi. Con quelli è partita la prima mensa".
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Gli immigrati
FINCHÉ ARRIVA L’ULTIMA SFIDA A SORPRESA, quella del neo-nazionalismo conservatore di Theresa May, la nuova premier inglese, quando arringa i suoi: “Ascoltate come molti politici e commentatori parlano dell’opinione pubblica. Considerano il patriottismo del popolo disgustoso, la preoccupazione per l’immigrazione provinciale, l’atteggiamento verso la criminalità illiberale, la sicurezza del posto di lavoro fastidiosa”. È vero, è un ritratto della sinistra? Un po’ sì. «Abbiamo appena perso Monfalcone consegnandola alla Lega», dice uno dei giovani quadri della sinistra friulana, Federico Pirone, ventotto anni, assessore a Udine, «perché non sappiamo parlare di immigrazione. Eppure abbiamo la politica più a sinistra di tutto il continente, sia nei confronti dell’Europa che nei confronti dei profughi, Renzi in questo ha ragione. Ma dobbiamo anche chinarci sulle paure e le inquietudini dei nostri paesi. Sbagliate? Diciamolo. Ma non ignoriamo le preoccupazioni degli anziani, delle persone sole, dei sindaci che ricevono l’ordine dal prefetto di ospitare una dozzina di profughi, poi lo Stato si ritira e con la gente devono vedersela loro, e sono soli».
 
Eccola la strada dell’inquietudine di Monfalcone, via Sant’Ambrogio: osterie giuliane e botteghe tradizionali sono scomparse, i vecchi abitanti se ne sono andati, i trecento metri pedonali sono tutti delle famiglie bengalesi con i loro negozi e con le donne dal volto velato e tra poco le luminarie e le stelle di Natale incorniceranno a festa le insegne straniere. Non ci sono stati problemi evidenti, qui. Ma c’è una prima elementare tutta di immigrati perché i genitori italiani hanno portato i figli nelle scuole di paesi vicini per non affrontare la convivenza, dice Pietro Comelli del Piccolo, ad agosto è morto annegato un pakistano di venticinque anni che viveva accampato con altri profughi sulle rive dell’Isonzo ed era entrato in acqua per lavarsi. La vera questione riguarda il tessuto sociale che il monfalconese anziano non riconosce più. E poi si aggiunge il rapporto di odio-amore con Fincantieri che ha assicurato lavoro a generazioni e oggi assicura la sopravvivenza degli stranieri, mentre molti ragazzi del posto sono disoccupati. Concorrenza sul lavoro, rivalità intorno a un welfare che si riduce sempre più, spaesamento dei luoghi, nel timore di perdere identità, di smarrire il filo di esperienze condivise. Sono le paure che gonfiano il Nordest, scese fino al delta del Po con la protesta di Gorino e dei suoi pescatori di vongole per le dodici donne immigrate inviate dal prefetto e bloccate per strada. “Qui non c’è niente nemmeno per noi”, gridavano i dimostranti dietro i blocchi stradali, “che vengono a fare?”.
 
Un pezzo di Nordest (e anche di sinistra) si accontenta di non vederli, come se questo fosse il problema. A Trieste il tabù riguarda il vecchio silos, l’ex granaio della Coop vicino alla stazione. La città non è affatto in emergenza, ospita ottocento migranti in piccole case-famiglia gestite dalla Caritas o dal consorzio di solidarietà. Ma quando le case sono piene, come adesso, gli immigrati finiscono vicino alla stazione, occupano l’ingresso del Porto Vecchio e quando i vigili li fanno sgomberare vanno a dormire nel silos, svuotato due volte, con trentacinque denunciati, fino a diventare il luogo simbolo dell’immigrazione. Adesso il sindaco Dipiazza ha deciso di non pagare più i duecentocinquantamila euro l’anno che il Comune spende per i minori senza famiglia, ospitati nell’ostello vicino al castello di Miramare, e la Lega ha alzato i toni nell’ultima campagna elettorale: anche in una città multietnica e multiculturale come Trieste che perde qualcosa come mille abitanti all’anno e nel 2014 ha visto emigrare all’estero sette dei suoi ragazzi su mille. Silenziosamente. Finché il silenzio si rompe e Beppe Sala, sindaco di Milano, chiede l’esercito nel quartiere multietnico di via Padova, “per non lasciare l’intera questione in appalto alla destra”.
 
Per la destra la presenza dei profughi è fisica e fantasmatica insieme, e il corpo del profugo diventa immediatamente propaganda perché parla da solo con il colore della pelle, la sua disperazione, la sua diversità, i segni dell’apocalisse che si porta addosso. La riduzione del migrante a puro corpo, pura quantità, presenza materiale d’ingombro, nuda esistenza che chiede di continuare a vivere ha qualcosa di sacrilego e di estremo, perché mette fuori gioco la politica, abituata a occuparsi di persone, di cittadini con diritti e doveri. E infatti le risposte sono tutte fisiche, materiali: ruspe, muri, respingimenti, fili spinati. Ma la sinistra sente che mentre la destra sceglie di vendersi l’anima commerciando con le paure lei, proprio lei e lei soltanto, è dentro una grande tenaglia. Ha il dovere democratico di rispondere con umanità e solidarietà a chi chiede soltanto libertà e sopravvivenza, e ha contemporaneamente il dovere opposto di rispondere al riflesso di insicurezza che attraversa la fascia più debole delle nostre popolazioni, uomini e donne anziani, soli, che vivono nei piccoli centri, non sono mai usciti dai confini del Paese e adesso quando vanno coi nipotini al giardinetto si trovano il mondo rovesciato sotto casa. Queste persone chiedono rassicurazione. Se non la ricevono dallo Stato, la cercano quasi naturalmente nell’antistato dei venditori di paura. Potremmo dire che il conflitto sospeso sopra i nostri paesi è tra gli ultimi e i penultimi.
 
È una tenaglia infernale per la sinistra, costretta a portare per intero il peso e la contraddizione della democrazia occidentale: tradisce se stessa se chiude gli occhi davanti al corpo nudo del migrante che chiede di vivere, qualcosa di sacro che arriva a noi dal profondo dei secoli; ma tradisce nello stesso tempo i cittadini se si tappa le orecchie davanti alla loro richiesta di sicurezza, che è alla base del patto di rappresentanza e di sovranità moderna. La sinistra è investita pienamente perché la destra si chiama fuori, si chiama contro. E anche perché questa è la prova della tenuta dei valori democratici dell’Occidente che oggi sono la sua carta dei valori e entrano in tensione, al bivio come sono tra l’universalità con cui li professiamo in astratto e la parzialità con cui li pratichiamo, consumandoli principalmente per noi stessi.
 
Recuperato dal primordiale, riviviamo il confronto-scontro tra i cittadini del mondo e i dannati della Terra, con i primi che troppo spesso pensano di poter fare a meno dei secondi, non vogliono vederli e scelgono il “bando” come unica politica. E la sinistra, che fa? «Prima facciamo, poi teorizziamo», dice Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa. «Altrimenti ci spaventeremmo e finiremmo paralizzati davanti all’emergenza. Le cifre dicono che la nostra è una follia. Siamo l’isola più lontana dall’Italia, venti chilometri quadrati, seimila abitanti, l’acqua che fino a due anni fa arrivava solo con la cisterna, nemmeno un ospedale, solo l’elicottero del 118. Quando ti arrivano settecento profughi, all’epoca delle primavere arabe venticinquemila tunisini, raccogli in acqua dovunque gente nuda senza niente, quasi morta, che grida verso di te, allora ti ricordi che siamo gente di mare e la comunità sostituisce lo Stato. È andata proprio così. Un po’ di incoscienza, un po’ di coraggio, la natura della nostra gente ha fatto il resto. L’idea dell’invasione è una creatura della politica, sono muri, fili spinati, cancelli che danno l’idea di assedio. Rinchiudono nell’ansia chi li costruisce. Se governi questi fenomeni con la tua gente, spieghi che sono un prodotto della storia che può essere gestito, tagli le gambe alla paura e puoi farcela. Guardi qui: Lampedusa poteva finire dannata, e invece ha guadagnato in reputazione per la sua accoglienza, ha migliorato i servizi sanitari e sa una cosa? Quest’anno il turismo è cresciuto del trentadue per cento».
 
Con Laura Montanari arriviamo in Toscana cercando un’altra strada della metamorfosi italiana. Via Pistoiese a Prato è una linea retta che va da Porta San Domenico, non lontano dal vecchio ospedale dismesso, verso la periferia. È l’asse portante e il cuore di Chinatown, una sventagliata di case basse senza palazzoni, negozi e laboratori che formano il distretto tessile, cresciuto dentro le vecchie fabbriche. Oggi la via è fatta di rosticcerie, supermercati etnici, agenzie di viaggi, naturalmente capannoni, negozi di parrucchieri e di massaggi, slot machine, laboratori pronto-moda e ristoranti, tutti con le insegne in doppia lingua, italiana e cinese: “Whezou”, “Zheng Shi Shou”, “Ciao”, “Ravioli Liu”. Corrono auto di grossa cilindrata tra le biciclette e i furgoncini, tra gli aromi di spezie orientali e di fritto, gli ideogrammi verniciati sui capannoni, il rumore delle macchine taglia-e-cuci che va avanti fino a tardi di sera, anche oggi che è domenica.
È un circuito chiuso, le stoffe provengono direttamente dalla Cina, magliette, cappotti, camicie e vestiti finiscono in buona parte sui banchi ai mercati, gli ambulanti che vendono ai cinesi gli ortaggi li hanno comprati da contadini cinesi che affittano i campi nella piana di Prato. Circuito chiuso, irregolarità, sfruttamento, concorrenza. Come si governa questa vecchia immigrazione che crea un mondo parallelo e separato, con trentacinquemila abitanti nati fuori Prato su centonovantamila e con diciottomila cinesi ufficiali (più almeno dodicimila irregolari) e insomma la più grande comunità cinese d’Europa dopo Parigi, con la differenza che a Prato tutto è sotto gli occhi di tutti?
 
Bisogna prima di tutto decidere che la sinistra non può lavarsene le mani, e non deve, spiega Matteo Biffoni, sindaco di Prato. «A Chinatown facciamo otto controlli al giorno, tutti i giorni, perché questa cosa regge se monitoriamo la sicurezza nel lavoro e la regolarità delle aziende, anche per garantire una concorrenza con i no- stri imprenditori il più possibile corretta. Se la tua gente vede che l’immigrazione è regolata, si incanala nel lavoro e nelle regole, non nascono tensioni. Nel 2009 il Pd ha perso la città proprio sulla questione cinese, nel 2014 l’abbiamo ripresa con questa politica. Ce la stiamo facendo. Ma quando il prefetto ti scarica un gruppo di migranti in piazza e ti dice pensaci tu, nascono i problemi, perché tutto passa sulla testa dei sindaci e dei cittadini». Per questo Biffoni, che è anche presidente dell’Anci toscana, ha scritto una lettera al governo che dice calma, la nostra regione doveva prendere dodicimila migranti nelle quote di ripartizione, ne ha già tredicimila, per il momento fermiamoci e vada avanti qualcun altro. «Siamo di sinistra ma non siamo ciechi», spiega il sindaco. «Dobbiamo salvare le persone, dar loro accoglienza e lo facciamo, anzi il sistema toscano è tra i migliori, nei Centri non entrano più di quattordici persone e il quartiere le assorbe. Ma bisogna che i sindaci abbiano il potere di governare questa emergenza senza subirla e bisogna che come noi tutte le regioni facciano la loro parte prendendosi la loro quota, come si fa in un condominio. Se no tutto diventa paura, e nella paura la sinistra perde la sua gente, non la ritrova più. Io sono orgoglioso dell’accoglienza ai profughi del mio Paese, Renzi ha ragione. Ma voglio che i cittadini siano orgogliosi anche della sicurezza che dobbiamo garantire, guai se non pensiamo anche a loro e non rispondiamo ai loro timori. Quelli li catturano, e non li trovi più».
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: il negozio di taralli pugliesi a piazza Foroni.

L'ondata dei migranti stringe la sinistra in una tenaglia infernale. La sindaca di Lampedusa: "Ci vuole un po' di follia ad accoglierne tanti. Ma l'abbiamo fatto, ed è andata bene. E' persino cresciuto il turismo".
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Il populismo
“QUELLI” SONO I POPULISTI, DI OGNI RAZZA. Hanno semplificato la realtà man mano che per il cittadino si complicava, offrendo un paradossale rifugio nella loro visione da fine del mondo. Hanno ridotto la politica all’osso — tutti ladri, tutti corrotti, tutti incapaci — schiacciandola su una visione unidimensionale. Hanno cancellato qualsiasi intermediazione, illudendo il cittadino che ogni governance si può fabbricare in casa, perché nel nuovo inizio non occorre sapere, basta sostituire. Hanno annullato ogni deposito di conoscenza, tecnica, esperienza, annunciando l’esperienza del trapianto permanente di civiltà. Hanno schiacciato ogni distinzione, invitando a fare di ogni erba un fascio, il mucchio selvaggio, perché tutti sono compromessi solo per essere venuti prima e nessuno è quindi innocente. Hanno scarnificato il linguaggio, rifiutando ogni elaborazione, ogni riflessione, ogni spiegazione, cercando il cortocircuito emotivo nel rancore e nell’insofferenza. Hanno modificato un costume politico, attaccando le persone per le loro caratteristiche fisiche pensando che siano difetti e che come tali vadano additati al pubblico ludibrio. Hanno puntato sulle sensazioni più che sulle cognizioni, trasportando in politica la cifra dei social network, dove un pensiero di Habermas e la battuta di un blogger sono condannati a vivere insieme il resto dei loro giorni, senza un segno distintivo che li separi, li gerarchizzi, avverta almeno di maneggiare con cura. Anzi, per la politica odierna Habermas si può buttare, è sterile, complesso e deperibile. La battuta no, va salvata: oggi ha mercato, è poco impegnativa ma cavalca tra i follower. È ciò che funziona.
 
La sinistra è naturalmente spiazzata. Ha passato il secolo cercando di coniugare il sapere con la politica per realizzare l’emancipazione dei più deboli attraverso la conoscenza, l’esperienza collettiva, la condivisione di un’avventura civile pedagogica per tutti. “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”, diceva il motto gramsciano dell’Ordine Nuovo.
Non è soltanto un giro retorico che si smarrisce, un’espressione del pensiero. È la forma della politica come cultura, dunque come conquista e sperimentazione del sapere, la sua dimensione più profonda, ciò che resta perché è ciò che dura, in quanto è ciò che vale. Il riconoscimento di un deposito culturale e di un orizzonte valoriale, che àncora le generazioni e crea una traccia che dura nel tempo.
 
Il populismo crede invece nella cabala dello zero. Zero compromessi, zero intese, zero pazienza, zero attese. Tutto ciò di cui è fatta la politica viene smontato e centrifugato nell’opposizione a tutto ciò che veniva prima del populismo. Persone, funzioni e istituzioni vanno insieme demoliti, perché manca la coscienza che dietro di loro ci sono storie, tradizioni, passioni insieme con gli errori, cioè tutto quello che fa muovere le bandiere della politica, insieme con i valori e con gli interessi legittimi da tutelare: e infatti da noi (con partiti che sono nati tutti mercoledì scorso) le bandiere politiche sono flosce perché non c’è vento, come sulla Luna.
Naturalmente se il populismo prospera è perché i tempi sono propizi. Gli errori evidenti della politica, l’inefficienza delle istituzioni, la corruzione sovrana gli hanno spianato la strada. La dimensione dei problemi (la più lunga crisi economica del secolo, l’assalto dello jihadismo islamista omicida, l’ondata migratoria) sovrasta ogni dimensione di governo tradizionale e annichilisce il cittadino, dandogli l’impressione che il mondo sia fuori controllo e che qualunque pretesa di governance sia inadeguata. In questa alba da
day after, in cui tutto però deve ancora accadere, il cittadino si sente esposto e dunque cerca di scambiare quel poco di politica che incontra con quel molto di paura che cresce in lui. Scambio illusorio ma confortevole. Il populista ha ricette per ogni paura. Basta dare un calcio al sistema.
Il fatto è che il sistema non funziona per ragioni di spazio, di tempo, di luogo, tutte insieme: perché il mercato è più largo della sovranità, la società vive nel tempo reale e la politica coi suoi meccanismi decisionali e la regola della maggioranza si muove nel tempo differito, perché i giovani abitano nella rete virtuale e la politica nella rete territoriale, con incursioni continue nel vintage televisivo che sembrano sempre più auto-rassicurazioni di esistere, in un gioco di specchi appannati.
 
In più il populismo, radendo al suolo il passato, crea un suo tempo “anti-genealogico” senza eredità, senza trasmissione, senza passaggio generazionale: senza il senso della storia, potremmo dire, inclinandola tutta sull’anno zero, in quello che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk nel suo ultimo libro chiama l’”iper-presentismo”.
Tempo perfetto per il populismo dove tutto è estemporaneità, interpretazione, con la politica ridotta a performance e la rappresentanza sostituita dalla rappresentazione.
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: il mercato di piazza Foroni. La piazza, che in passato è stata ribattezzata piazza Cerignola a causa della grande presenza di immigrati dal sud Italia, si trova nel quartiere "Barriera di Milano", storica periferia operaia nella zona nord della città.

La seconda Chinatown d'Europa è a Prato, riconquistata dal Pd due anni fa. Come? "Facciamo otto controlli al giorno", dice il sindaco, "se la gente vede che l'immigrazione è regolata non nascono tensioni".
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Gli sceriffi
UN TEMPO MALEDETTO PER LA SINISTRA, come l’abbiamo conosciuta. E se invece cambiasse? Se invece di arginare il populismo cedesse alla tentazione e addentasse l’ultima mela che come sappiamo ha due facce, una di destra e una simmetrica, o almeno mimetica? A ben guardare, forse è già successo. Al Sud la pianta rachitica della sinistra ha avuto un innesto con una cultura leaderistica, personale, autonoma che l’ha portata a vincere e poi ha attecchito ramificandosi come un rampicante dovunque, a Palermo con il sindaco Leoluca Orlando e con il governatore Rosario Crocetta, a Bari con il presidente della Regione Michele Emiliano, a Napoli con un’altra coppia di governatore e sindaco, Vincenzo De Luca e Luigi de Magistris.
Come chiamarli, cos’hanno in comune oltre alla capacità di acchiappare voti e di governare? “Sceriffi”. L’immagine mi viene in mente mentre con Conchita Sannino percorriamo quel chilometro di cubetti di pietra lavica, quei 1100 metri del potere che a Napoli separano Palazzo Santa Lucia, sede della Regione, da Palazzo San Giacomo, il Municipio, fermandoci proprio nel luogo delle antiche sfide elettorali, piazza Plebiscito. Sceriffi: sono soggetti alla legge generale della sinistra — ammesso che ce ne sia una — ma in città e in regione conta solo la legge della loro stella di latta, che indica un potere sempre più autoreferenziale, nato nel Pd ma poi cresciuto e confiscato in autorità personale, conosciuto e rispettato in tutto il territorio, al punto da diventare polemico con Roma, col governo, col partito, tracciando un’altra linea rossa, tra gli sceriffoni e il Pd.
 
De Luca, magniloquente nella sua perfidia chirurgica, ha trasformato un feudo in un principato, trasferendo il potere che si era costruito dopo vent’anni da sindaco di Salerno in comando su tutta la regione, senza perdere naturalmente il controllo sulla città: dove da quando Lucio Dalla finì l’ultimo concerto della sua campagna elettorale cantando
Attenti al lupo, tutti lo chiamano a mezza voce così, perché azzanna: “il lupo”. Credo non gli dispiaccia, visto il carattere e la ferocia con cui è saltato addosso a Rosy Bindi nell’ultimo furioso attacco. Intanto è stato eletto con 987mila voti e rotti, arrivando al 41,15 per cento, incrociando gli elettori di sinistra con quelli di Cosentino e Verdini, e con i demitiani. Poi ha fatto eleggere a Salerno il suo ex vice, Vincenzo Napoli, e quello gli ha nominato il figlio assessore al Bilancio. Quindi si è fatto allestire gli studi di Lira Tv nel palazzo del Genio Civile, e dagli schermi mette a posto tutti: il “finto ambientalismo”, la “palude burocratica”, la “sottocultura che mummifica il territorio”, la “volgarità politica”, la “cafoneria istituzionale”, le “nullità amministrative”, i “dieci pinguini che pensano di far cultura vedendosi in un salotto”.
Lupi e pinguini in lotta alla Regione, il “Che” in municipio. Poi non dovremmo parlare di populismo? “Che Guevara” è l’autodefinizione che de Magistris dà di se stesso nei suoi fluviali post su Facebook, soprattutto quando nel giugno scorso andava a caccia dei 186mila voti poi raccolti in una città dall’astensionismo record, arrivando al 66,85 per cento al ballottaggio. Il suo è un populismo lirico (“Napoli stupenda e magica, intrisa di umanità, ricca di popolo di tutto il mondo, Napoli amore mio”) e insieme di guerra, che ha scelto Renzi come nemico: “Premier, devi avere paura, Napoli deve tornare capitale, Granducato di Toscana dietro, Napoli davanti”. Guerra e lirismo si fondono nel gran finale: “Renzi, ti devi cagare sotto”.
 
La sinistra che c’entra? Intanto questa è una sua mutazione, e con gradazioni diverse gira per tutto il Sud. E poi a Napoli la sinistra tradizionale è ai minimi storici, col Pd all’undici per cento. Quei video coi voti per le primarie pagati in alcune periferie bruciano ancora sulla pelle del partito, e spiegano tante cose. Da Roma, sulla spinta della vergogna più ancora che della sconfitta, avevano promesso di scendere a Napoli con il lanciafi


Titolo: EZIO MAURO. Il secolo delle guerre ideologiche è finito proprio nell’isola ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 28, 2016, 08:39:11 pm
Il secolo delle guerre ideologiche è finito proprio nell’isola comunista, dove Fidel ha avuto l’ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l’ultimo esperimento socialista. E con l’ossessione di farla sopravvivere intatta

Di EZIO MAURO
27 novembre 2016

Incredibilmente, nell'aprile dell'anno in cui tutto stava crollando e ogni cosa diventava possibile - il 1989 - Fidel si alzò davanti al mondo per proporre il modello cubano come l'unica esperienza ortodossa del socialismo di fine secolo. I deputati, i capi del partito, il popolo cubano lo avevano visto celebrare gli onori massimi a Mikhail Gorbaciov, portato in trionfo sulla "ciajka" presidenziale nei 25 chilometri dall'aeroporto all'Avana, con Castro in piedi accanto a lui che gli alzava il braccio in segno di vittoria, procedendo in mezzo a un milione di cittadini plaudenti. Ma quando il segretario del Pcus, con la disperazione istintiva di chi avverte i morsi della fine, invitò Cuba a riformare il suo comunismo per poterlo salvare (come avrebbe fatto poco dopo a Berlino davanti ai gerarchi impassibili della Ddr) Fidel si alzò in piedi e consumò il suo personale strappo dall'eresia morente gorbacioviana. "L'Urss non può decidere da sola, l'unico suo privilegio è essere grande. E Cuba non ha mai avuto uno Stalin, dunque non ha bisogno di avere oggi una perestrojka". Gorbaciov si guardò intorno smarrito, poi controllò l'orologio misurando il fallimento del suo tentativo di inserire L'Avana nel processo di distensione mondiale tra Est e Ovest e si trovò improvvisamente solo e straniero nell'isola del socialismo uguale a se stesso.

Così il comunismo tropicale, difeso e sostenuto per decenni dal Cremlino, si ribellava al suo protettore, rifiutando di cambiare. Fidel si presentava al mondo come l'Ortodosso, trent'anni dopo il "discorso delle colombe" con cui entrò trionfalmente nella capitale con la rivoluzione, mentre due colombe si posavano sulle spalline della sua divisa verde, in segno di benedizione di Nostra Signora della Mercede. L'ultima perfidia fu un fuorionda serale sulla tv cubana, coperto dalla voce monotona dello speaker, con Gorbaciov che in un angolo dell'Assemblea Nacional tirava fuori un pettine dalla tasca interna della giacca e si pettinava prima di entrare in scena, in un gesto post-imperiale e privato che rompeva da solo tutta l'iconografia monumentale dei Segretari Generali comunisti, vissuta sempre in pubblico.

La Cuba castrista doveva tutto all'Urss, seguita e omaggiata dal Comandante nelle sue visite ad limina a Mosca, fino allo scarto finale. Per Fidel era inconcepibile che uno Stato socialista, capace di sconfiggere il fascismo e soprattutto di uguagliare in peso e influenza la superpotenza capitalistica degli Usa avesse accettato di distruggersi. Perché questa è stata la sua diagnosi davanti al tentativo riformista gorbacioviano: invece di correggersi mantenendo la sua natura, l'Unione Sovietica ha commesso il grande errore storico di imboccare la strada di una riforma di sistema, nella convinzione di poter costruire il socialismo - o mantenerlo - attraverso "metodi capitalistici", come li disprezzava Castro.
Ma regolati i conti con la deriva sovietica, costretto a rimodulare pesantemente l'economia dell'isola senza gli aiuti "fraterni" di Mosca, Fidel ha avuto l'ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l'ultimo esperimento socialista del secolo, con l'ossessione di farla fuoriuscire intatta. L'epopea, d'altra parte, non era mai stata mutuata da Mosca insieme con i finanziamenti, ma era ostinatamente indigena e autonoma. Il ricordo nostalgico e ripetuto dei "Tre Comandanti", Raul, Camilo Cienfuegos e soprattutto il "Che", l'eroe che fino agli ultimi anni secondo il racconto del líder maximo lo andava a visitare di notte, in sogno, e continuavano a discutere come avevano sempre fatto, quando avevano la mitraglia in mano. Il dissenso liquidato con l'etichetta dei "traditori". La convinzione negli anni più difficili di poter vivere "del capitale umano". La venerazione per José Martí ricordando il suo ammonimento: "Essere colti è l'unico modo di essere liberi". Lo scambio epico di dialogo con Cienfuegos, inciso in plaza de la Revolucion: "Voy bien, Camilo"? "Vas bien, Fidel".

La "prima generazione" della rivoluzione, tenuta insieme con il pugno di ferro del dittatore, si va esaurendo, ma ormai altre tre sono nate e cresciute nell'isola sotto il segno di Fidel. La quarta, l'ultima, è la più aperta al contagio. Ha visto salire al potere Raúl, appena quattro anni più giovane del fratello, in una deriva dinastica dove il carisma appassisce e cresce il bisogno di auto-tutela di una nomenklatura spaventata. Ha visto soprattutto Fidel passare dalla tuta mimetica con gli scarponi alla tuta sportiva rossa, bianca e blu con il marchio dell'Adidas, soprattutto l'ha visto smagrito e divorato dalla malattia, nei discorsi radiofonici sempre più rari.

Il regime si trova oggi davanti alla sua massima torsione, perché finisce il legame mitologico e storico con le sue origini, l'eroica fonte di legittimazione, la personificazione populista nel leader che finiva sulle copertine di Time, nelle televisioni di tutto il mondo mentre stringeva la mano di Allende, Mandela, Juan Carlos, Garcia Marquez, Saramago, Agnelli, Arafat, Tito, Indira Gandhi, Giovanni Paolo II attraversando con loro la storia da protagonista. "Dobbiamo dimostrare di essere in grado di sopravvivere", è il comandamento degli ultimi anni di Fidel a Raúl, nella convinzione che sia più facile teorizzare come si costruisce il socialismo che capire come conservarlo e preservarlo in futuro.

Il Comandante in jefe ha regolato la successione in vita, tentativo onnipotente di garantire il futuro alla sua costruzione politica. Ma il castrismo senza Fidel è fragile e il sentimento di fine d'epoca dominava Cuba già a marzo, quando Barack Obama è sbarcato nell'isola come ambasciatore di un mondo nuovo, ottantotto anni dopo la visita dell'ultimo presidente americano, Calvin Coolidge. Il vuoto lasciato da Fidel riempiva già allora la scena, rimpicciolita dai timori di Raúl che non poteva fare a meno di normalizzare i rapporti con gli Usa per dare ossigeno all'economia cubana, ma cercava di cancellare ogni valenza storica ad una visita che simbolicamente segnava un passaggio d'epoca. Così non è andato ad accogliere l'ospite all'aeroporto ma ha mandato il suo ministro degli Esteri, non ha voluto nessun corteo d'onore, ha lasciato il presidente americano da solo nella passeggiata nella Città Vecchia, nella cattedrale, nell'incontro con il vescovo, poi con i "cuentapropistas", quell'embrione di società civile e di economia gestita in proprio che si sta affacciando nelle maglie strette del regime.
I cubani osservavano la scena nelle vecchie televisioni dai colori incerti, appese sui trespoli coi fili volanti nei bar del centro senza niente da servire ai clienti. Al mattino, 68 "damas de blanco" si erano radunate nella chiesa della Quinta Avenida, la strada delle ambasciate, per chiedere davanti alle telecamere di tutto il mondo a Santa Rita, ("abogada de lo imposible") di far scarcerare mariti, figli, padri dissidenti politici e prigionieri nelle carceri cubane: ma soprattutto di aiutarli a conquistare il vero traguardo, "una Cuba senza Castro", finalmente con la libertà politica, di parola, d'impresa. Spente le telecamere, la polizia nel pomeriggio era passata nelle case delle "damas", per arrestarle in gruppo. Come un apriscatole della storia, la visita di Obama in poche ore aveva certificato l'esistenza del dissenso, la conferma della repressione poliziesca e la speranza di un cambiamento di regime.

Oggi si guarda la vecchia "ceiba", l'albero sacro dell'Isola, che proprio sulla Plaza de Armas è morto rinsecchito accanto al Templete. Il regime lo ha sostituito in fretta, di notte, ma la gente ricorda la vecchia superstizione caraibica secondo cui sotto l'"arbol del misterio" si svolgeva il rito sacro del passaggio di potere tra un Capo e un altro, perché sotto la ceiba "si muovono e parlano gli dei". Il dio del comunismo, intanto, contempla da oggi il tabernacolo vuoto del castrismo. Riuscirà a sopravvivere, fuoriuscendo da se stesso nell'ultima metamorfosi che Fidel aveva sempre esorcizzato? Più probabile che il sistema crolli per estenuazione, senza più l'anima fondatrice del vecchio dittatore. Che muore - singolare destino - insieme con il Novecento che era durato fin qui con le sue guerre ideologiche, ed è venuto a finire proprio nell'isola comunista, in questo tramonto tropicale dell'autunno 2016: altro che secolo breve.

© Riproduzione riservata
27 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/27/news/fidel_castro_e_il_900_muoiono_insieme-152910222/?ref=HRER3-1


Titolo: EZIO MAURO. Giorgio Bocca, un provinciale con l'idea testarda di libertà
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 21, 2016, 06:39:02 pm
Giorgio Bocca, un provinciale con l'idea testarda di libertà

Il giorno di Natale di cinque anni fa moriva il giornalista che cambiò il modo di raccontare l'Italia

Di EZIO MAURO
21 dicembre 2016

QUANDO penso a Giorgio Bocca penso a un'idea testarda di libertà. Una formula che gli sarebbe piaciuta, ruvido e duro com'era, uguale alle sue montagne, così diverso dall'arci-italiano. Anti-italiano, era il titolo che si era scelto per la rubrica sull'Espresso. Voleva dire non accomodarsi nei vizi del nostro Paese, non accettare le facili letture del compromesso, non essere compiacenti, sapersi mettere di traverso al senso comune dominante quando diventa una zavorra per il Paese e non lo lascia crescere ed emanciparsi.

Avendo una bussola, sempre: quel poco o quel tanto di Resistenza alla dittatura che c'è stata nel nostro Paese, sufficiente tuttavia a rendere la libertà della democrazia almeno in parte riconquistata.

In questo Giorgio Bocca è stato un uomo coerente. Il giornalismo, a differenza della letteratura, del cinema o del teatro, è l'opposto di una struttura mimetica, è qualcosa di vivo che cambia sotto l'urto quotidiano della realtà che ti sorprende e scombina le certezze, le pigrizie, figuriamoci le rigidità ideologiche. È qualcosa che ti rivela per ciò che sei, se lo vivi come una passione dominante. Ecco: Giorgio ha creduto tutta la vita nella religione della realtà e quindi ha creduto nella ragione vera per cui si fa questo mestiere: andare, guardare, cercare di capire e raccontare. In Giorgio c'era la capacità di elaborare la memoria portando i ricordi a sbattere contro l'oggi e rendendo così in qualche modo "letterario" il contemporaneo. Aveva una fortissima fame di conoscenza. "A volte - dice nei suoi libri - sono stupito dell'aggressività e della vitalità che c'è in certi miei articoli". È questa fame di esperienza che spiega come per lui giornalismo fosse semplicemente un'espressione di vita. E poi naturalmente in tutto questo c'era qualcosa di più: la fisicità nel modo di fare il suo mestiere, il carattere, la natura, il mettersi in gioco. Tutto ciò che spiega il segno che ha lasciato nel nostro giornalismo.

In questo c'era anche il suo essere piemontese. Anzi, direi il piemontesismo come condizione condizionante, cioè sapere di essere soggetto a quella condizione e volontariamente accettare di esserne segnato, di farsi marchiare nell'anima. Solo così si spiega il rapporto molto complesso di Bocca con Torino. Che per Giorgio era la capitale quando partiva da Cuneo in treno da ragazzo con quattro o cinque amici: andavano prima al Valentino, poi alla Standa a vedere le ragazze, quindi nei casini di via Conte Verde e infine la sera al Caffè Concerto del Lagrange, "a mangiare dieci tramezzini e a pagarne uno". Per poi risalire sui treni della notte e tornare a casa.
Torino era la grande capitale da scoprire ma allora per lui era anche una città straniera. Quando Bocca vi arriva da partigiano è come se posasse il fucile e prendesse la penna, e infatti il disegno di copertina di Vita di giornalista (uno dei libri più veri, scritto con Walter Tobagi) ritrae Bocca con in spalla un fucile che al posto della baionetta ha una stilografica. Italo Pietra, suo direttore al Giorno ed ex partigiano come lui, in qualche modo evoca quella penna armata, quando gli assegna un'inchiesta con un'unica raccomandazione, quella che ogni giornalista vorrebbe sentire: "Mi raccomando, sparagli dentro".

Ma prima, quando Bocca arriva a Torino, si ritrova in un giornale monarchico, la Gazzetta del Popolo. Il direttore Massimo Caputo non sopporta quella sua fortissima identità di partigiano, né tollera le fughe di Bocca dagli stanzoni di corso Valdocco per andare nei bordelli di via Massimo, l'urgenza di vita che lo spinge fuori dal mondo troppo regolato della redazione dove si sente estraneo, osservato speciale. C'è una scena che spiega il tutto. La sera Bocca "chiudeva" le pagine delle province. Il direttore arrivava, il tipografo bagnava la bozza poi la stendeva, la inchiostrava, la ristendeva e gliela mostrava. Il direttore cercava l'errore con la penna in mano e la cerchia dei colleghi tutta attorno si apriva quando diceva: "Chi è quel coglione che ha fatto questo sbaglio?". Rimaneva soltanto Bocca laggiù in fondo a sentirsi apostrofare: "Eccolo, certo, lo sapevo che era lui".

Ma anni dopo Bocca riconoscerà che gli articoli più belli li ha scritti quando i suoi giornali - il Giorno, L'Europeo, Repubblica - lo mandavano a Torino, perché gli bastava entrare per un minuto in quel mondo, sentire una frase, cogliere un gesto o un modo di muoversi, camminare in quelle strade, passare in una di quelle osterie con i nomi di animale, per ritrovarsi immediatamente nella pelle della città, capirla fino in fondo: "È proprio per questo, proprio perché la conosco così bene e mi sento suo figlio - confidava - che preferisco vivere altrove".

Bocca deve andare via da Torino: Milano riscoprirà il suo vero talento, Milano paradossalmente si farà conquistare molto più facilmente. Sono gli anni del "boom", gli anni dove tutto sembra più semplice, il Giorno è un giornale che punta sulla modernizzazione del Paese, incrocio perfetto. Bocca scommette su quella borghesia produttiva che si vede intorno a Milano, crede che possa essere una molla di innovazione, il perno di un establishment capace di proseguire la sfida intellettuale di Giustizia e libertà: credere in una europeizzazione dell'Italia che la riscatti dai vizi eterni del suo passato.

Rimarrà deluso. "Non c'è onestà - dirà - oggi in Italia c'è soltanto un insieme di network che si garantiscono tra di loro. Manca il sentimento di una responsabilità nazionale che sappia coniugare gli interessi particolari legittimi con gli interessi nazionali del Paese". Sono gli anni passati sotto l'ala protettrice di Camilla Cederna da una parte, di Krizia dall'altra, gli anni dell'amicizia con Emilio Radius e quella straordinaria con Giuseppe Trevisani, il grafico visionario che disegnerà il Giorno.
È un sodalizio diverso da quello con gli amici di Torino che vivevano in otto in una stanza. A Torino, racconterà, "eravamo ancora una sorta di teppisti e di intellettuali insieme". Era amico di Ossola e di Gabetto giocatori del Torino, di Raf Vallone dalle tre vite (giornalista, calciatore, attore), di Calvino, Gatto, Pecchioli. A Milano invece entrerà dentro i salotti e si sentirà improvvisamente ricco: guadagnava un milione al mese quando la Millecento costava altrettanto, un pranzo costava duemila lire e una bottiglia di Barolo ne costava 300. "Ho speso pochissimo in donne, molto in pranzi, moltissimo in libri", ha raccontato svelando la costruzione feroce dell'autodidatta affamato di vita e conoscenza, cioè di giornalismo.

Una volta sul terrazzo di casa sua, alla fine del pranzo fece un gesto con la mano: "Guarda, tutto quello che vedo adesso è questo. Tutto qui". Guardai, c'erano solo tetti e antenne e mentre lo diceva io pensavo a quelle altre antenne, quelle del giornalismo, che dovevano essere straordinarie se riuscivano a mettere in comunicazione quel poco di visibile con l'invisibile, col resto del mondo, con la vita degli altri che si combinava con la vita di Giorgio e gli dava la possibilità ancora di interpretare il tutto, di spiegarlo, almeno di raccontarlo. Dovevano essere gli strumenti di lavoro inesausti del provinciale, di chi sa che padroneggia solo una porzione limitata di spazio e di esperienza ma sa anche che intorno c'è sempre un orizzonte più ampio, qualcosa da conoscere e da conquistare.

Poi c'è un momento dello spazio e della vita, immagino, in cui ti interroghi sulla conclusione, ed è quando l'orizzonte si curva avvicinandosi, quando il mondo si è svelato, quando il viaggio sta finendo. E immagino Bocca, a quel punto, farsi la domanda suprema, che ha nascosto nelle pagine finali del suo libro più bello: cosa resta da capire? Dietro quella domanda c'è il dubbio supremo sulla fine della conoscenza, sull'esaurimento del giornalismo, in un'epoca in cui tutto appare definitivamente rivelato, il mondo è finalmente davvero piatto, ogni cosa è prevedibile dunque è già stata prevista e qualcuno l'ha raccontata: dunque non c'è più bisogno di fare domande perché basta riscuotere le risposte. Un testa e coda della conoscenza, un'apocalisse del giornalismo. Ma Bocca dopo quella domanda è andato avanti altri 30 anni a scrivere: il giornalismo non finisce mai perché fa parte della realtà e non della sua rappresentazione, e proprio Giorgio lo ha testimoniato, cercando nei suoi articoli quel che bisogna sapere, quel che merita ricordare, ciò che resta da capire.

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/12/21/news/giorgio_bocca-154560949/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. I tempi della politica malata e lontana dai cittadini
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 06, 2017, 02:41:46 pm

I tempi della politica malata e lontana dai cittadini

Di EZIO MAURO
31 dicembre 2016

IPNOTIZZATI dall’intruso, non vediamo più il male che lo ha generato. L’intruso è il populismo, cioè il soggetto politico che più di ogni altro segna l’epoca che stiamo vivendo, ormai terzo incomodo fisso della tradizionale partita tra destra e sinistra. Il male è sotto gli occhi di tutti, ma fatichiamo a dargli un nome, perché sta divorando le categorie tradizionali della politica con la crisi della rappresentanza, la fine del lavoro come strumento di inclusione, di libertà materiale e di cittadinanza, la rottura del patto di società che teneva insieme i forti e i deboli, consapevoli di far parte di una comunità di destino che chiamavamo società.

Diamo un nome alla cosa. Quando l’individuo non si sente rappresentato e non sa che farsene dei suoi diritti di cittadino perché non si traducono più in realtà, siamo davanti ad una vera e propria crisi della democrazia. Questa è la grande novità con cui si chiude l’anno e si apre un’incognita. Il paesaggio democratico classico in cui siamo cresciuti e dentro il quale abbiamo immaginato il futuro dei nostri figli sta andando in pezzi.

Dopo aver combattuto per un secolo intero la battaglia europea contro i due totalitarismi, la democrazia che ha vinto si ferisce da sola, perdendo forza e autorità. Non produce risultati rilevanti per le condizioni materiali delle persone, non governa le crisi dell’immigrazione, del terrorismo islamista, della finanza, tutte fuori controllo e refrattarie ad ogni sovranità, non esercita più quell’egemonia culturale che si era conquistata dopo la caduta del Muro, a cavallo del secolo, riducendosi quasi ad una qualsiasi credenza in un mondo che non crede più in nulla.

In poche parole scopriamo che la democrazia non basta a se stessa. Dovevamo saperlo, perché non è un’ideologia fissa e immobile, definita una volta per sempre, ma un insieme di valori, principi, istituti, procedure, diritti e doveri che nascono, vivono e prosperano per la volontà di uomini e donne e per le condizioni della realtà. Dunque quell’insieme di regole che ci siamo creati per garantire la combinazione della nostra libertà con le libertà altrui e far prosperare l’insieme, può anche deperire come sta accadendo: generando un sentimento di spaesamento repubblicano, di solitudine del cittadino.

Fino a porci la domanda più radicale e più scomoda: e se la democrazia che abbiamo creduto universale fosse soltanto una creatura del Novecento? Se fosse incapace di entrare nel nuovo secolo, e soprattutto di governare le sue contraddizioni, prima fra tutte la metamorfosi della politica, clamorosamente in atto?

La più grande trasformazione della politica è la sua divaricazione dalla vita delle persone. La democrazia del lavoro, così com’è nata in Europa, teneva insieme capitalismo, welfare e rappresentanza politica, dando un senso alla costruzione sociale che ne derivava. La catena che legava lavoro, impresa, tassazione, sanità, pensioni dava una proiezione concreta alla politica o almeno all’amministrazione, rendendola visibile, materiale, riscontrabile: e dunque motivava il cittadino a intervenire con il voto, correggendo, confermando, cambiando.

Oggi tutto ciò che incide sull’esistenza concreta degli individui pare sfuggire alla stessa dimensione della politica, ai suoi strumenti, alle sue promesse che rischiano di sembrare chiacchiere. Le tre crisi di cui abbiamo parlato hanno tutte un’evidenza globale, un profilo sovranazionale, un’insidia mondiale: ma generano qui e ora, sul territorio indifeso, impotenza e frustrazione nel cittadino che si sente esposto perché non protetto.

Non aveva delegato allo Stato il monopolio della forza in cambio di una garanzia di sicurezza? Dov’è finita la forza della democrazia, dov’è lo Stato, mentre le nuove insicurezze galoppano, soprattutto nei ceti più deboli?

Infine le disuguaglianze, che la democrazia ha sempre scusato dentro un progetto di crescita complessiva, ma oggi stanno diventando esclusioni, qualcosa che la democrazia non può permettersi, perché siamo oltre il “forgotten man” cui si è rivolto Trump: siamo al cittadino perduto.

Senza più scettro, la politica si è spogliata anche della sua maestà, rinunciando ai paramenti sacri con cui si era resa riconoscibile per più di un secolo, coniugando i valori con la tradizione, la storia con gli interessi legittimi. Intendo dire che la pretesa di superare la destra e la sinistra fingendo che siano uguali, per puntare all’indistinto democratico ha condotto i partiti in un imbuto culturale che li sta stritolando. Una terra di nessuno dove la performance diventa la misura della leadership, l’improvvisazione prende il posto della cultura, il gesto politico sostituisce ogni progetto, e si consuma mentre si compie, lasciando solo cenere. Il risultato è un deserto culturale, dove di fronte all’impatto devastante delle tre crisi e alla fatica della democrazia manca la capacità nella destra di governo e soprattutto nella sinistra di elaborare un pensiero alternativo alla cultura dominante, con il riformismo (ultima speranza politica della sinistra dopo la sconfitta del comunismo) che si è ridotto a pura tecnica di gestione, agitando il cambiamento per il cambiamento, proprio per mancanza di una vera ambizione culturale, senza il coraggio di immaginare e impersonare un’alternativa. Con il risultato che l’alternativa sembra possibile solo fuori dal sistema. Si capisce che di fronte a questo male della democrazia prosperino gli imprenditori del peggio, coloro che non pensano ai rimedi ma all’unzione, perché non si propongono come medici ma come becchini, dopo essersi nutriti della crisi che li ha generati. L’ultimo paradosso della democrazia è questa capacità di produrre col suo malessere - e garantire - le forze antisistema, nate tutte dentro il processo democratico, per una debolezza culturale e istituzionale della politica tradizionale, come i fiori del male.

Gli untori della crisi rischiano di ereditarne gli avanzi, incapaci di convertire la rabbia sociale che eccitano e raccolgono in un progetto culturale nuovo, appagandosi soltanto di dare forma pubblica agli istinti e ai risentimenti: come se fosse possibile fare politica soltanto contro, senza mai qualcosa in cui credere. Sono gli istinti che uniscono Trump, Le Pen, Orban, Salvini e infine Grillo, il quale nel miserabile calcolo del tornaconto anti- immigrati svela la vera natura del suo movimento, col corpo mimetizzato a sinistra ma con l’anima naturalmente a destra. La conseguenza più rilevante non è nemmeno la partita contingente per il governo. Ma è il rischio che la buona vecchia cultura liberale - e tanto più quella liberal-democratica - stiano entrando in minoranza nel mondo occidentale. Il pensiero liberale ha influenzato le culture di governo della destra


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31 dicembre 2016


Titolo: EZIO MAURO. L'Occidente che va in minoranza
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 03, 2017, 08:29:16 pm
L'Occidente che va in minoranza
Il presidente Usa è il capofila di una nuova cultura su cui si fonda un tentativo di nuovo ordine mondiale. E il pensiero politico liberale si avvia a non essere più maggioritario

Di EZIO MAURO
01 febbraio 2017

Travolti dall'azione, rischiamo di non vedere la teoria che la guida e il pensiero che la organizza. È l'equivoco politico che circonda i primi passi della presidenza Trump, tutta prassi, decisione, comando, shock, cambiamento. Si potrebbe dire che dalla svolta annunciata nel discorso d'insediamento ("non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un'amministrazione all'altra, ma da Washington al popolo"), al muro di confine col Messico, alla restrizione degli ingressi in Usa da sette Paesi musulmani, ce n'è abbastanza per spiegare la ribellione americana che scende in strada e il rifiuto di una politica che stravolge le radici e la natura stessa del Paese: che ha la frontiera nei suoi miti di conquista e l'assimilazione nella sua storia di costruzione perenne di una sola nazione, unendo le colonie originarie, le ondate migratorie successive, le lingue, le disperazioni e le speranze in un'unica entità, ricca delle sue diversità e della capacità di tenerle insieme.

Tuttavia si rischia di non capire ciò che accadrà, ciò che può accadere, se si guarda soltanto alla parte visibile del fenomeno Trump, e non si comprende che il presidente americano non è un fenomeno da baraccone.

È precisamente il capofila di una nuova cultura - per quanto il termine possa sembrare sproporzionato - che va studiata con attenzione, perché qui si fonda non soltanto la nuova politica americana, ma addirittura un tentativo di nuovo ordine mondiale. Di questo si tratta: chiamiamola pure contro-cultura, perché nasce nella rabbia e nell'opposizione, senza modelli positivi e senza antecedenti significativi, come frutto dello spaesamento democratico che il riflusso della crisi lascia sul territorio devastato della nostra parte di mondo, la parte dello sviluppo, del progresso, dell'innovazione, del potere tecnologico, delle libertà politiche e individuali. È quanto noi credevamo. Poi arriva questo Sessantotto alla rovescia che butta per aria la gerarchia dei valori, grida che le élite si sono confiscate sviluppo e progresso a loro uso e consumo, mentre le libertà politiche senza una vera rappresentanza valgono meno di nulla, anzi sono un inganno, e le libertà civili vengono dopo la forza, la sicurezza, la ricchezza.

Ricordiamoci la data, e il passaggio storico: perché è qui che si spezza il secolo, e finisce quel lunghissimo dopoguerra in cui la democrazia sembrava aver concluso da vincitrice la contesa con i due totalitarismi - il comunismo e il nazismo - e dunque i suoi valori sembravano ormai incontestabili, anzi universali, modello di crescita, benessere e convivenza. Il Novecento moriva finalmente con la supremazia della democrazia. Il pensiero liberale e liberal-democratico sosteneva ormai le culture di governo di una destra responsabile e di una sinistra riformista, oltre a innervare le istituzioni nazionali degli Stati moderni, gli organismi sovranazionali, le costituzioni nate dal rifiuto delle dittature e dall'incontro tra il liberalismo, il socialismo, il comunismo occidentale e la cultura politica cattolica.

È esattamente tutto questo - una cultura che è diventata un mondo, un sistema politico, un meccanismo di governo di sistemi complessi - che rischia di andare in frantumi, sotto la spinta del trumpismo in America, del sovranismo europeo che ha appena riunito a Coblenza la nuova Internazionale della destra, coi cinque partiti populisti di Frauke Petry in Germania, di Marine Le Pen in Francia, di Matteo Salvini in Italia, di Geert Wilders in Olanda, di Harald Vilimsky in Austria, cui si deve sommare l'Europa di mezzo guidata da Orbán, che teorizza il ritorno orgoglioso a un continente fatto di nazioni, con il "fallimento del liberalismo" come leit-motiv da cui nasce la tentazione di demolire la separazione dei poteri. Se si aggiungono le tentazioni protezionistiche della Brexit inglese, l'ambiguità mimetica del Movimento 5 Stelle in Italia - che nel giro di 24 ore può far capriole da Farage ai liberali e ritorno - si capisce che il contagio è profondo ed egemone, tanto da suonare l'ultima campana d'allarme, a cui nessuno di noi era preparato: il pensiero politico liberale sta diventando minoranza.

Tutto questo ha delle spiegazioni pratiche concrete. Tra tutte, lo scollamento tra libertà e sicurezza dal lato dei cittadini, tra sicurezza e governo dal lato delle istituzioni. Le tre emergenze concentriche di cui soffrono i nostri Paesi - ondata migratoria senza precedenti, terrorismo islamista che ci trasforma in bersagli rituali sul nostro territorio, crisi economico-finanziaria che lascia dietro di sé una crisi drammatica del lavoro - hanno un risultato comune nel riflesso congiunto di insicurezza per il cittadino, che si sente esposto come mai in precedenza, davanti a eventi fuori controllo e senza governo. Abituato a pretendere tutela, protezione, rispetto dei diritti e sicurezza dallo Stato nazionale in cui vive, dai parlamenti che vota, dai governi che concorre a nominare, quel cittadino capisce improvvisamente che le emergenze sfondano la sovranità nazionale, la sopravanzano e la svuotano, vanificandola. Ma se un governo nazionale non garantisce sicurezza, non serve a nulla, diventa un'entità burocratica. Se la sovranità nazionale è più ristretta e meno forte della dimensione dei problemi e della loro potenza, allora si vive da apolidi a casa propria, con l'impossibilità effettiva di esercitare il diritto di cittadinanza. Diciamo di più: poiché il pendolo tra la tutela e i diritti oscilla sempre nella storia dello Stato moderno, il cittadino più inquieto oggi sarebbe anche disposto a cedere quote minori della sua libertà in cambio di quote crescenti di garanzia securitaria, com'è avvenuto altre volte in passato, dovunque. La novità è che oggi nessuno è interessato a comprare la sua libertà, che deperisce da sola, e in ogni caso lo Stato non è più in grado di garantire nulla in cambio: mentre il nuovo potere sovranazionale che vive nei flussi finanziari e nei flussi d'informazione fa il fixing altrove.

Con la cittadinanza, salta la soggettività politica: io non sono più niente, soprattutto in un'epoca in cui i partiti si riducono a semplici comitati elettorali e non trasformano i miei problemi in un problema comune. Anzi: quelle che erano grandi questioni collettive stanno diventando preoccupazioni individuali, insormontabili. Così salta la rappresentanza, deperisce la politica. Quel cittadino non si sente soltanto in minoranza, come spesso è accaduto in precedenza. Si considera escluso. Il meccanismo democratico non funziona per lui. Le istituzioni non lo tutelano. La politica lo ignora, salvo usarlo come numero primo e anonimo nei sondaggi. La Costituzione vale solo per i garantiti. La democrazia si ferma prima di arrivare a lui, perché la materialità della democrazia è fatta di lavoro, dignità, crescita, esercizio di diritti e doveri che nascono da un sistema aperto e partecipato, dall'inclusione. Alla fine, anche la libertà è condizionata.

Nel 2017 arriva qualcuno, con una tribuna universale com'è l'America, che chiama tutto questo "popolo", evoca il "forgotten man", lo contrappone all'establishment, racconta la favola del golpe permanente che ha confiscato la democrazia per trarne un vantaggio privato, derubando i cittadini. Eccita la contrapposizione ("loro festeggiavano, il popolo pativa"), evoca lo spirito di minoranza ("le loro vittorie non sono state le vostre"), configura un'usurpazione ("un piccolo gruppo ha incassato tutti i benefici, il popolo pagava i costi"), denuncia l'esclusione ("Il sistema proteggeva se stesso, non i cittadini del nostro Paese"), fino alla promessa finale: da oggi un movimento "di portata storica" scuoterà il mondo, "portando il popolo a ritornare sovrano".

Un discorso identitario - l'identità degli arrabbiati che devono rimanere tali - , quasi un'impostura di classe, che si basa su finte promesse frutto di una semplificazione del mondo che reintroduce sotto forme moderne l'ideologia: una falsa credenza che si sovrappone alla verità e la deforma in un racconto di comodo, utile a raccogliere adesioni sentimentali e istintive, cancellando bugie, falsificazioni e contraddizioni evidenti, come quella del miliardario campione degli esclusi. Tutto questo rompendo la corazza del politicamente corretto e dei suoi eccessi ma rovesciandolo nel suo contrario, liberando la scorrettezza come forma di libertà, la menzogna come arma legittima, l'ignoranza come garanzia di innocenza.

Questa rottura, come dice Karl Rove, il consigliere di George W. Bush, ha bisogno di stravolgere lo stesso partito repubblicano, annullare persino l'eredità reaganiana dei Baker, Shultz, Weinberger, fare tabula rasa addirittura del pensiero conservatore così come lo abbiamo conosciuto, e del compromesso di un linguaggio comune istituzionale, di un vocabolario costituzionale condiviso. Arriviamo al punto finale. Perché è evidente che a partire dalla concezione della Nato, alla nuova fratellanza con Putin, all'isolazionismo protezionista americano, al primitivo immaginario europeo di Trump, è lo stesso concetto di Occidente che uscirà modificato, menomato e probabilmente manomesso da quest'avventura. E l'Occidente, come terra della democrazia delle istituzioni e della democrazia dei diritti, è ciò che noi siamo, o almeno ciò che vorremmo essere. Qualcuno in Europa - magari a sinistra, se la sinistra alzasse gli occhi sul mondo - dovrebbe dire che tutto questo non è a disposizione di Trump.

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01 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/01/news/occidente_minoranza-157326683/?ref=HRER2-1


Titolo: EZIO MAURO. Il groviglio dei fedelissimi
Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2017, 11:13:48 pm
Il groviglio dei fedelissimi
"Più che come un leader, Renzi è calato sul Pd come un raider, che oggi viene accusato politicamente di insider trading, lasciando che rivoli di interesse pubblico zampillassero verso congreghe familiste o amicali, con al centro il potere, il denaro, gli appalti"

Di EZIO MAURO
04 marzo 2017

TUTTI i nodi non sciolti negli anni del comando stanno soffocando Matteo Renzi oggi, nei mesi della sconfitta, e ciò che più conta rischiano di trascinare a fondo con lui l’intera parabola del Pd, tra scissioni, tesseramenti gonfiati, avvisi di garanzia. Sono nodi politici e giudiziari, riassumibili in un unico concetto: il groviglio del potere cresciuto intorno all’ex presidente del Consiglio, che lo ha coltivato o tollerato nell’illusione di proteggersi, fino a restarne imprigionato.

È infatti la concezione del potere del leader che merita fin d’ora un giudizio, mentre giustamente si attende che le ipotesi d’accusa dei magistrati inquirenti vengano accertate, e intanto gli indagati hanno il diritto di essere considerati giudiziariamente innocenti fino a prova contraria. Dunque l’inchiesta dirà se Tiziano Renzi approfittava del ruolo pubblico del figlio per influenzare nomine e appalti, se il ministro Lotti ha avvisato i vertici Consip dell’indagine in corso e addirittura delle “cimici” negli uffici, in modo che venissero rimosse.

Se Romeo teneva a libro paga il padre del premier, come credono i carabinieri che hanno materialmente ricostruito dalla spazzatura dell’imprenditore un appunto stracciato dove una “T.” figura accanto all’indicazione: 30 mila per mese.

Ma nell’attesa è inevitabile chiedere conto a Renzi di ciò che è già evidente, e soprattutto è sufficiente: il meccanismo di controllo e influenza che ha creato intorno a sé, nominando uomini di provata fedeltà personale nei centri più sensibili del potere pubblico, lasciando germogliare filoni di interesse privato che intersecano quei punti decisionali, mescolando come nei peggiori anni della nostra vita lobby, Stato e famiglia, perché da noi la degenerazione del potere pubblico passa spesso per scorciatoie affettive e tentazioni domestiche.

Ogni leader ha naturalmente il diritto di scegliersi gli uomini di fiducia, e può certo farlo rivolgendosi ai più vicini. Ma quando ha una responsabilità generale, perché non risponde soltanto di sé ma del governo del Paese e del destino di un partito, ha anche il dovere di scegliere le persone più brave d’Italia, non le più fedeli di Rignano. C’è certamente in Renzi una confusione tra Paese e paese. Ma c’è qualcosa di più, che si spiega in termini politici, non geografici o sociologici.

È l’eterna sindrome minoritaria di leader che non riescono a liberarsene nemmeno quando conquistano la maggioranza, senza capire che la vera supremazia sta nell’egemonia e non nelle tessere, nella nuova cultura che si installa e non nelle correnti che si contano, alleandosi oggi per separarsi domani. Potremmo dunque dire, paradossalmente per un leader egocentrico, che il vero limite di Renzi è di ambizione: pensare eternamente a proteggersi dai colpi e a colpire invece che a convincere e conquistare. Con un progetto capace di presentare una nuova sinistra come leva del cambiamento di un Paese in crisi, in un discorso di verità, tenendo insieme le eccellenze e le sofferenze italiane, in un nuovo disegno di società. Un disegno in cui si riconoscano tutte le anime della sinistra italiana, nella legittima e libera interpretazione che il leader del momento è chiamato a dare, facendosi però carico di una vicenda comune, di storie personali, di una tradizione che parla a un terzo del Paese.

Tutto questo non c’è stato. Più che come un leader, Renzi è calato sul Pd come un raider, che oggi viene accusato politicamente di insider trading, lasciando che rivoli di interesse pubblico zampillassero verso congreghe familiste o amicali, con al centro il potere, il denaro, gli appalti. L’ex premier deve dire al Paese — e al suo partito che sta per scegliersi il segretario con le primarie — se sapeva, se sospettava, se immaginava: e se no, deve dire cos’ha pensato quando ha scoperto che l’uomo da lui messo alla guida della centrale degli appalti pubblici toglie le “cimici” perché un ministro e il vertice dei carabinieri lo avvertono, quando lo stesso capo della Consip rivela che proprio da Tiziano Renzi dipendeva il suo destino professionale, fino alla revoca della nomina.

L’unica cosa che Renzi non può fare è stare zitto o rovesciare il tavolo attaccando la magistratura come lo incitano i berlusconiani, memori di una pratica abituale a destra. Ma la comunità politica a cui Renzi si rivolge e dalla quale deriva la sua legittimità ha sensibilità differenti, e pretese diverse. E infatti ieri Renzi ha incominciato a sciogliere il nodo famigliare dicendo che se suo padre è colpevole deve pagare due volte.

Resta il nodo politico, intatto. E qui, infine, c’è una risposta che Renzi deve dare a se stesso. Dove lo ha portato quel sistema fondato sugli amici degli amici, asfittico e famelico? La presidenza del Consiglio non meritava qualche ambizione in più di una gestione toscana degli appalti? Domande inevitabili, perché non si può predicare l’innovazione e poi rinchiudersi nella cerchia ristretta di un Consiglio comunale in gita premio a Roma, con visita fugace alle istituzioni. Mentre bisognerebbe sapersi accontentare della sovranità legittima appena conquistata, senza cercare una quota ulteriore e ambigua di sovranità impropria.
Tutto questo Repubblica lo ha chiesto pubblicamente all’ex presidente del Consiglio in un’intervista all’inizio dell’anno: perché scegliere i fedelissimi fiorentini per guidare la macchina governativa, dalla Manzione a Lotti, fino a Carrai incredibilmente proposto per la guida delle cyber security invece di qualche ufficiale dei carabinieri laureato al Mit dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e non al premier? Perché un capo della Rai scelto nel bouquet della Leopolda? Perché governare con Verdini, e usare il Pd come un taxi per arrivare a Palazzo Chigi? Perché questa attrazione fatale per gli imprenditori e per le banche? Perché non pretendere che quando si ha l’onore di guidare la sinistra e la responsabilità di presiedere il governo i propri familiari si astengano da affari che riguardano il potere pubblico?

Le questioni erano tutte sul tavolo, tre mesi fa. Renzi ha perso tempo, e il tempo non è neutrale. Non ci sarà nessun nuovo inizio se non si parte da qui, dalla denuncia di un sistema di potere malato, e da un sovvertimento radicale di uomini, di metodi, di mentalità. Dopo gli amici, è arrivato il tempo di parlare ai cittadini.

© Riproduzione riservata 04 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/04/news/il_groviglio_dei_fedelissimi-159704569/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T


Titolo: EZIO MAURO. Il "forgotten man": quando il risentimento diventa populismo
Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2017, 06:33:44 pm
Il "forgotten man": quando il risentimento diventa populismo
"Nighthawks" di Edward Hopper (1942)
Così l'uomo dimenticato dalla politica scatena la sua rivolta e la sua vendetta.

Il saggio di Marco Revelli

Di EZIO MAURO

Come se fossimo entrati all'improvviso dentro un quadro notturno di Hopper, bisogna sbirciare ogni tanto quell'uomo col cappello in testa e il bicchiere tra le mani sul bancone del bar, che è venuto a sedersi sullo sgabello di fronte, da solo sotto la luce al neon. Non parla, rimugina. Si capisce che ha un pezzo robusto di vita alle spalle, ne ha viste tante, per arrivare stanotte fin qui deve aver superato ogni illusione consumando qualsiasi speranza. Non crede più in nulla, anzi sta in guardia, come se gli avessero tolto qualcosa: potrebbe raccontarlo ma preferisce che ognuno si faccia i fatti suoi, il suo silenzio magari farà sentire in colpa il resto del mondo. Eppure, perché ci sembra di averlo già visto? Perché è la nuova figura politica universale che attraversa l'Occidente dall'America all'Europa, il risentimento che ovunque si mette in proprio, la rabbia sociale che dappertutto si fa politica, l'outsider che infine prende il potere: o forse no, ma a lui basta aver scalciato l'establishment, buttandolo giù dal trono. Il risentimento è appagato: per il resto, si vedrà.

Poiché non abbiamo un nome nuovo, per descrivere quest'ultima creatura della mondializzazione usiamo vecchie categorie che hanno contrassegnato fenomeni antichi, antipolitica, contropolitica, ribellismo, populismo. Ma invece quel che accade è figlio legittimo della postmodernità, anzi del suo Big Bang finale tra la società aperta come mai avevamo conosciuto e la crisi più lunga del secolo. Ad una ad una, come dopo i terremoti, cadono le vecchie case della politica novecentesca - i partiti - si spalancano i grandi contenitori culturali di tradizioni e di valori, come destra e sinistra, ripiegano e si confondono le stratificazioni sociali che davano identità collettiva, coscienza di classe, appartenenza, con un disegno di società che concedeva una dinamica interna e contemplava il conflitto.

Tra le macerie, cammina lui: il forgotten man, scartato nella crescita, ferito con la crisi, deluso dalla rappresentanza. Poiché ciò che è accaduto nell'ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha allontanato gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire la democrazia, il forgotten scopre che nell'improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente. Non riesce a proporre soluzioni, a disegnare progetti e a farsi governo. Ma basta per presentare a chiunque il saldo di tutto ciò che non va, per chiedere conto di un mondo fuori controllo, per dare una colpa universale alla classe generale che ha esercitato il comando fino ad oggi, chiudendosi in se stessa per tutelarsi autoriproducendosi. Il risentimento non è in grado di fare una rivoluzione, creando una nuova classe dirigente. Ma è capace di realizzare la delegittimazione di un potere debole svuotandolo, per poi affidare l'energia degli istinti a chi vuole rappresentarla incarnandola in una performance elettorale. Gli istinti naturalmente non governano: ma questo è un problema di domani, intanto oggi si scalcia.

Che cos'è tutto questo? Marco Revelli, che unisce da anni nei suoi studi la scienza della politica con l'indagine sociale, lo chiama "Populismo 2.0" nel suo ultimo saggio Einaudi, dando una declinazione modernissima a una storia ricorrente, ogni volta che un leader cerca il cortocircuito del rapporto diretto con i cittadini esaltati a popolo mentre vengono ridotti a folla. Ma se un tempo si presentava come malattia infantile del meccanismo democratico nascente, una specie di ribellione degli esclusi, oggi il populismo testimonia invece la patologia senile di una democrazia estenuata e svuotata da processi oligarchici, e diventa una rivolta degli inclusi, che avvertono la vacuità di questa inclusione inconcludente.

Il populismo dunque ritorna come sintomo di un indebolimento dell'organismo democratico, una febbre della rappresentanza malata. Abbiamo detto che il fenomeno è ricorrente. Ma oggi per Revelli siamo davanti a un populismo di terza generazione dopo l'esperienza russa dell'Ottocento, il qualunquismo italiano del dopoguerra: alla crisi della democrazia si unisce una crisi sociale che declassa il ceto medio, atomizza l'universo del lavoro, inverte l'ascensore sociale. Il risultato è una rottura non tanto nel linguaggio politico - come si dice di fronte al politicamente scorretto - ma nel codice di sistema fin qui riconosciuto da maggioranze e opposizioni, con la parlamentarizzazione del consenso. Il parlamento viene anzi contrapposto alla piazza, le istituzioni vengono denunciate come la cattiva politica che le deforma, come se il contenitore fosse responsabile del contenuto e la regola dovesse dividere la colpa con chi la viola, per accrescere la feroce gioia del rogo iconoclasta che brucia senza distinguere.

Una rivolta della plebe, l'"oclocrazia" evocata da Polibio "quando il popolo ambisce alla vendetta"? Ma la massa oggi in movimento, avverte Revelli, è stata a lungo un anello forte del sistema, fattore di consenso e stabilità, altro che plebe. Scopriamo che i vituperati partiti erano "banche dell'ira", come le chiama Peter Sloterdijk, che la intercettavano, le davano un segnale di riconoscimento e la trasponevano dentro contenitori programmatici e ideologici, convogliandola in un progetto che la decantava nella nobiltà della politica. Oggi la rabbia sociale è allo stato brado, i nuovi leader politici si limitano ad alimentarla per cavalcarla, pensando che la materia sociale incandescente convenga per radicalità, e dunque meglio usarla come politica primordiale, rinunciando a raffinarla.

Più che a un movimento e tantomeno a un partito, siamo davanti a uno stato d'animo (e infatti parliamo di istinti e risentimenti), a un'espressione senza forma del disagio, alla manifestazione di visibilità degli invisibili: con la retorica del "popolo", del "basso contro l'alto", del "tradimento' da parte delle élite, che mette anche i non poveri nella condizione psicologica di depredati, dunque di offesi, comunque di vittime, di umiliati perché esclusi, ostacolati, impediti e marginalizzati. È la strutturazione drammaturgia di una nuova forma di conflitto politico-sociale, o addirittura culturale, vissuto come morale, dunque totale. Naturalmente il neopopulismo non è in vitro, perché ha bisogno di un ambiente storico-politico talmente particolare da risultare eccezionale e oggi lo trova nell'emergenza conclamata di tre crisi congiunte, quella economica e del lavoro, quella migratoria, quella del terrorismo jihadista. Un fenomeno da passaggio di secolo, dice Revelli, esattamente come il neoliberismo in cui si specchia simmetricamente, entrambi trasversali, impermeabili e universali.

Ovviamente tutto questo è esploso come un bengala sotto gli occhi impreparati del mondo con l'elezione di Trump, che infatti subito dopo il trionfo non ha ringraziato il Paese, l'establishment o il partito ma esattamente lui, il forgotten man, portandolo a capotavola della sua avventura. Non solo il popolo delle campagne e gli hillbilly delle terre alte, ma un popolo disperso che per il 75 per cento denuncia il peggioramento della sua vita negli ultimi decenni e tuttavia segue il piffero di un miliardario perché più della differenza sociologica e della diffidenza ideologica pesa la dipendenza "etologica" che Revelli spiega così: un meccanismo del riconoscimento che nasce dai segni elementari, dai gesti, dai suoni e dai colori, dai modi e dalle reazioni che garantiscono nel leader la tenuta dell'odio della base, la sicurezza nell'opposizione al sistema, la comunanza nell'alterità.

A questo punto bisogna cercare i tratti comuni tra Trump e la Brexit (con i beneficiati della new economy che votano in massa per il "remain", mentre i naufraghi della globalizzazione fanno il contrario), con la Francia di Marine Le Pen che sostituisce un neosciovinismo sociale al nostalgismo vichysta del padre, col muro sovranista di Orban in Ungheria, con gli umori neri dell'AfD in Germania, per affacciarsi infine alla fabbrica italiana di tutti i populismi. Revelli ne identifica tre, tralasciando la virata di Salvini dall'indipendentismo padano al nazionalismo xenofobo di imitazione lepenista. Quello anticipatore di Berlusconi, una sorta di populismo geneticamente modificato dal peccato originale dell'incrocio con l'azienda, che lo trasforma in eroe teleculturale con un partito istantaneo per una "politica dell'immediato", coprendo con la vernice moderata un'anima di destra radicale e ideologica.

Quello di Grillo, un cyberpopulismo che, dopo il declino della tv, ibrida la politica con la retorica della rete intervallata dai "V-day" nelle piazze, dove le invettive sovrastano un modello culturale intermittente e balbettante. Quello di Renzi, post-ideologico, post-novecentesco e post-identitario, pencolante tra la tentazione della lotta e la seduzione del governo, col risultato di scolorire i colori della sinistra nell'indistinto democratico di un partito-nazione.

Questo record italiano è il risultato dell'"età del vuoto", come la chiama Revelli, che porta al grado zero della semplificazione politica, riassumibile in un "vaffa", una ruspa, la parola rottamazione. È un vuoto che riguarda soprattutto la sinistra, assimilata in un pensiero unico che non prevede un'obiezione culturale, spingendo la rabbia del forgotten a credere che un'alternativa sia possibile solo fuori dal sistema: mentre in realtà la vera alternativa nasce in questi mesi nella destra populista, che attacca il pensiero liberale, il concetto stesso di Europa e di Occidente.

Ci dev'essere il modo di parlare a quell'uomo che sta nel bar da solo, prima che arrivi Trump a portarselo via. Ci dev'essere un pensiero democratico in grado di convincere l'operaio col casco giallo davanti a un grattacielo a Londra, che nello schermo della Bbc spiega il Brexit con un semplice gesto della mano: "Quelli lassù hanno votato per restare nella Ue, noi quaggiù per uscire".
 
© Riproduzione riservata 10 aprile 2017

DA - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/10/news/il_forgotten_man_quando_il_risentimento_diventa_populismo-162607299/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S3.3-T1


Titolo: EZIO MAURO. Quel diavolo borghese della sinistra di Francia che non vota Macron
Inserito da: Arlecchino - Maggio 06, 2017, 05:42:30 pm
Quel diavolo borghese della sinistra di Francia che non vota Macron

"Intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti hanno già fornito la giustificazione teorica a questo tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il palazzo dell’Eliseo, ma in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico francese e i suoi valori di fondo ereditati dalla Rivoluzione"

Di EZIO MAURO
04 maggio 2017

DUNQUE si può essere di sinistra e non votare contro Marine Le Pen: pur di non votare per Macron. È il nuovo mantra — “né né” — che attraversa un pezzo di elettorato francese radunato nel 19,58 raccolto da Mélenchon al primo turno, e lo assolve preventivamente mentre viaggia verso l’astensione al ballottaggio decisivo per il futuro della République, e forse dell’intera Europa. Manca il tripode con l’acqua di Ponzio Pilato per lavarsi le mani sullo spazio imperiale del Pretorio, all’ora sesta di un giorno in cui il cielo si oscurò. Tutto il resto è pronto. Intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti hanno già fornito la giustificazione teorica a questo tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il palazzo dell’Eliseo, ma in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico francese e i suoi valori di fondo ereditati dalla Rivoluzione.

Naturalmente c’è la ribellione allo strapotere della finanza, delle banche, dell’Europa, radunate in una trimurti ingigantita e resa così simbolica delle sofferenze di questi anni da diventare il nemico assoluto, ideologico, politico, culturale, addirittura morale. Basta guardarsi intorno per capire le ragioni di questo rigetto. E se non basta, si può ricordare una vecchia frase di Camus: «mai il numero di persone umiliate è stato così grande».

Ma qui, con ogni evidenza, c’è qualcosa di più. Non un progetto alternativo, un’obiezione culturale, un’idea che metta in movimento una politica diversa, di cui avremmo bisogno. C’è quasi un odio antropologico — che non ha nulla a che fare con la politica — per la figura fisica e insieme fantasmatica del tecnocrate che gioca la sfida del governo, mettendo le sue carte sul tavolo, senza camuffare la sua cultura e i suoi programmi nell’opportunismo della rincorsa populista. Così, mentre l’indebolimento degli anticorpi repubblicani e la rabbia popolare facilitano la dediabolisation di Le Pen, un moderno diavolo borghese sale sul trono vacante e diventa il bersaglio della sinistra delusa, dispersa, furiosa. È il politico che crede nella vocazione europea della Francia, nella funzione storica di guida che il Paese ha giocato nella Ue con la Germania, nei vincoli della responsabilità, nella modernizzazione post- ideologica. Tutto quello (in una versione franco-centrista) che nel malandato e diseredato lessico della sinistra italiana abbiamo provato a chiamare da anni “riformismo”, qualcosa che non c’è, e dovrebbe in poche parole coniugare la speranza dell’emancipazione sociale con la responsabilità di governo.

Tra i “né né” naturalmente Michel Onfray è in prima fila, con una vecchia patente di sinistra e una furia iconoclasta che lo ha reso popolare da anni: da Valls ad Attali, a Kouchner, a Cohn-Bendit, «sono i promotori forsennati di una politica liberale che hanno permesso a Marine Le Pen di fare il botto e arrivare al secondo turno». E lo storico Emmanuel Todd gli fa eco nell’intervista ad Anais Ginori: «Votare Front National è approvare la xenofobia, ma votare Macron è accettare la sottomissione. Per me è impossibile scegliere. Considero il lepenismo e il macronismo come due facce della stessa medaglia. Le Pen è il razzismo, Macron è la servitù alle banche e alla Germania. Per questo mi astengo con coerenza, anzi con gioia, aspettando che nasca un mondo migliore».

Con l’astensione ovviamente la sinistra pura e dura ingigantisce il rischio che Marine Le Pen riempia questa attesa accomodandosi sulla poltrona dell’Eliseo. Ma non importa più. L’odio nei confronti del riformismo ha bisogno di minimizzare i rischi del post-fascismo, per sdoganare l’astensione tranquillizzando le coscienze inquiete davanti alla xenofobia del Front. Se Macron è uguale a Le Pen, allora Marine definitivamente non viene più dall’inferno, è una nemica ma come tanti, anzi non è nemmeno la peggiore, entra nella normalità del gioco politico francese, culturalmente accettata, moralmente scusata, storicamente amnistiata. Anzi, esercita una sorta di tacita egemonia culturale, quando la sinistra per accusare la finanziarizzazione macronista usa i termini tipicamente lepenisti di “sottomissione” e “servitù”, che non hanno più al centro il cittadino come soggetto politico universale, secondo la lezione francese, ma lo spirito di Francia, collettivo, nazionalista e patriottico, che Marine vuole resuscitare, per scagliarlo contro l’Europa tiranna.

La frattura culturale e l’infiltrazione avviene anche a destra, nel campo repubblicano, con “tradimenti” singoli e furbizie isolate, come denuncia Alain Juppé, oggi sindaco di Bordeaux, che non ha dubbi: «la vittoria di Le Pen sarebbe uno scisma geopolitico, un disastro economico, una sconfitta morale. Per questo serve un appello solenne a resistere alla tentazione di rompere tutto, di rovesciare il tavolo». È il vero sentimento nazionale, per il bene della Repubblica, che affiora a destra e fatica ad emergere nella sinistra (due terzi degli elettori di Mélenchon sono per l’astensione) ipnotizzata invece dal risentimento per il nuovo nemico, al punto da perdere quel senso della responsabilità nazionale che l’ha sempre contraddistinta.

Perdendo intanto anche il senso morale delle proporzioni, quando Todd teorizza che c’è più da temere «nella fanatizzazione dei benpensanti che nella risorgenza del fascismo». Faceva tristemente eco, nel corteo del Primo Maggio e a poche ore dalla più pericolosa sfida lepenista alla Repubblica, quello striscione sindacale in boulevard Beaumarchais che archiviava ogni criterio di distinzione, base di qualsiasi buona politica: “Peste o colera, né l’una né l’altra”. Per la sinistra, non è ancora passata l’ora sesta.

© Riproduzione riservata 04 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/04/news/quel_diavolo_borghese_della_sinistra_di_francia_che_non_vota_macron-164577532/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2


Titolo: EZIO MAURO. I tre tavoli di Renzi e Berlusconi
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2017, 09:10:53 pm
I tre tavoli di Renzi e Berlusconi

Di EZIO MAURO
26 maggio 2017

Ci sono tre tavoli apparecchiati in mezzo al campo malandato della politica italiana. Il primo riguarda la legge elettorale, il secondo il governissimo, il terzo la Rai. I commensali sono sempre due, Renzi e Berlusconi, necessari l’uno all'altro: non per i numeri e per la forza, che non hanno più, ma al contrario per le due diverse ma reciproche debolezze che provano a puntellarsi a vicenda fingendo di reggere il sistema e addirittura di riformarlo, mentre ciò che li muove è un puro istinto difensivo.

Naturalmente anche quello della difesa è un istinto politico, dunque legittimo. Ma qualcosa andrebbe spiegato mentre accade, soprattutto a sinistra. Qual è il profilo culturale, strategico, della stagione convulsa e precipitosa che si sta aprendo? E in nome di quale mandato Renzi consegna il Pd appena riconquistato all’intesa con la destra? Qui nasce la terza domanda, che è la più importante e non ha mai avuto una vera risposta da quattro anni: che idea di se stesso ha il Pd, che lettura fa del Paese, qual è la sua interpretazione oggi del concetto di sinistra, che è la sua ragione sociale scritta nell’atto di nascita e nel patto coi cittadini?

È evidente che proprio l’indeterminatezza identitaria domina la fase, rendendo possibile ogni evoluzione strategica e ogni performance tattica, senza alcun vincolo culturale. Ad ogni stormir di Macron, nasce qualche nuova tentazione subitanea, qualche mimetica gregaria, qualche imitazione subalterna, come se i partiti non avessero un’anima e un corpo e bastasse cambiar loro l’abito a ogni cambio di stagione. Soprattutto, come se l’anima non l’avessero gli elettori. L’indeterminatezza si raddoppia, oggi, perché il commensale Berlusconi non ha nemmeno ancora deciso se si subordinerà all’OPA radicale di un Salvini mezzo lepenista e mezzo padano, o se si risveglierà improvvisamente europeista e temporaneamente moderato. Dunque non si sa con chi si tratta, o lo si sa fin troppo bene.

È altrettanto evidente che per mettere fine in extremis allo scandalo di un Paese senza legge elettorale bisogna cercare un’intesa larga e dunque un compromesso parlamentare. Ma lo si deve fare alla luce del sole, con proposte chiare e pubbliche e un’idea del sistema politico che garantisca governabilità e rappresentanza, non piccoli interessi di parte e di autogaranzia. Non si sconfigge il populismo grillino con intese elettorali difensive e innaturali, che trasmettono al contrario l’immagine di un blocco di autotutela, chiuso in sé al punto da lasciar credere che una diversa lettura della crisi sia possibile solo fuori dal sistema.
La vera battaglia con il populismo è culturale, dunque ha bisogno di identità forti, riconoscibili, dichiarate — in difesa del pensiero liberale, del principio di Occidente, dell’idea di Europa — non di minimi comun denominatori che possono produrre soltanto governi-badanti di un Paese che non sa più crescere.

Un sistema politico arroccato, devitalizzato in un’opportunistica rincorsa al centro, confuso dentro l’indistinto democratico,

è un sistema spaventato. Che non per caso ha bisogno di una Rai ancora meno autonoma e indipendente, ma spartita e fedele: come se la partita italiana del futuro si giocasse ancora nel chiuso di un tinello italiano degli anni Settanta, mentre il mondo in subbuglio sta sfondando la porta.

© Riproduzione riservata 26 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/26/news/i_tre_tavoli_di_renzi_e_berlusconi-166421464/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: EZIO MAURO. La talpa cieca della sinistra
Inserito da: Arlecchino - Giugno 08, 2017, 10:09:27 am

La talpa cieca della sinistra
Il tavolo della legge elettorale oggi ha un nome: "patto extra-costituzionale"

Di EZIO MAURO
07 giugno 2017

AVEVAMO avvertito che dietro il tavolo della legge elettorale c'è il tavolo già imbandito del governissimo, e per l'aperitivo è pronto un accordo di scambio e garanzia tra Pd e Forza Italia sulla Rai, eterna prova del nove di qualsiasi intesa di basso potere. Adesso che ai due commensali si sono aggiunti anche Grillo e Salvini, applaudendo al ritorno al proporzionale per far saltare qualsiasi ipotesi di coalizione e ogni distinzione tra destra e sinistra - in cambio del voto anticipato -, quel tavolo ha un nome: "patto extra-costituzionale".

La formula è di Giorgio Napolitano, che dal Quirinale si è speso con forza per far sì che il Paese avesse una legge elettorale. Ma quella di oggi, secondo l'ex Capo dello Stato, rende più difficile la governabilità e basandosi su un calcolo di pura "convenienza di quattro leader" elude gli impegni europei, e viola addirittura la Costituzione fissando abusivamente la data del voto a settembre.

Oltre a far decadere leggi in attesa che come ricorda ogni giorno Repubblica rappresentano l'unica traccia riformista di una mediocre legislatura.

Ce n'è abbastanza per fermarsi e riflettere sul peso delle contraddizioni che stanno per diventare legge. Le più gravi, avviluppano il Pd fino a strangolarlo. Perché ovviamente è giusto cercare la più larga intesa di compromesso sulla regola elettorale, e poi conformarsi al voto per governare. Ma oggi la questione è diversa, rovesciata: la legge elettorale è costruita apposta per portare ad un governo tra Renzi e Berlusconi, ammesso che i due partiti abbiano i voti e vincano la sfida con Grillo e Salvini, cancellando ogni schema maggioritario e ogni alleanza pre-elettorale.

Ora, quando mai il Pd ha discusso di questo esito programmato e pilotato della sua storia? È nato per questa ragione e con questa ambizione? Non è un problema di linea, come si diceva una volta, ma di natura e di ragion d'essere. Tanto che praticamente tutti i padri fondatori del partito - Prodi e Veltroni in testa - sono contro uno schema che rinchiude il Pd in un patto abusivo e suicida, cancellando l'ipotesi e la nozione stessa di centrosinistra, dopo che già era stato abbondantemente picconato il concetto di sinistra.

Gli unici ospiti del negoziato che hanno qualcosa da guadagnare - oltre a Berlusconi resuscitato dai minimi termini grazie ai suoi avversari - sono da un lato Salvini che può correre da solo senza genuflettersi ad Arcore, e Grillo che può tentare la spallata del primo partito, visto che ognuno gioca per sé e non ci sono le coalizioni che lo sfavorirebbero in partenza: tanto in caso di sconfitta potrebbe tornare comodamente in piazza, a gridare contro l'inciucio che porta anche la sua firma di leader extracostituzionale.

Una volta davanti a tanto spettacolo politico si diceva: ben scavato, vecchia talpa. Oggi si vede ad occhio nudo che la talpa della sinistra è davvero cieca, e in via di estinzione.

© Riproduzione riservata 07 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/07/news/la_talpa_cieca_della_sinistra-167448439/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EZIO MAURO. Il Medioevo di Grillo
Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2017, 11:11:19 pm
Il Medioevo di Grillo

Di EZIO MAURO
15 giugno 2017

NON è automaticamente di destra il tema dell'immigrazione, perché qualunque democrazia deve rispondere alle inquietudini dei suoi cittadini, soprattutto i più fragili e impauriti. È sicuramente di destra il modo, il tono, la postura politica con cui il tema è stato estratto da qualche alambicco della Casaleggio e associati, collegato automaticamente alla sicurezza e trasformato da Grillo nel nuovo manifesto identitario dei Cinquestelle, con la firma gregaria della sindaca di Roma Virginia Raggi.

Quando chiede al prefetto, nell'intervallo tra i due turni elettorali, di bloccare l'arrivo dei migranti nella Capitale denunciando un''evidente pressione' con 'devastanti conseguenze', Raggi ingigantisce un fantasma sociale che non trova corpo né nei numeri (8600 richiedenti asilo tra Roma e provincia, contro gli 11mila programmati) né nella coscienza della comunità cittadina, né nella vita concreta e reale della capitale.

Si tratta dunque del calcolo preciso di un investimento politico sulla paura, evocata strumentalmente per poterla combattere, regalando al movimento un profilo artificiale di governo che compensi il vuoto amministrativo di questi mesi.

Quando Grillo rilancia nel vangelo del blog la svolta romana, e la arricchisce aggiungendo agli immigrati i rom, le tendopoli, i mendicanti, disegna un paesaggio spaventato che evoca una politica d'ordine, allineando - forse inconsapevolmente - tutte le figure simboliche della devianza sociale che una politica autoritaria ha sempre e dovunque scelto come bersagli, trasformandoli in colpevoli, e additandoli come avversari ai ceti sociali garantiti, scelti come base di riferimento, e dunque rassicurati. Gruppi sociali marginali, scarti umani, soggetti esclusi, corpi che chiedono di sopravvivere: ridotti tutti insieme a pura quantità da respingere - i moderni 'banditi' - , annullando storie, biografie, geografie, come se il valore di una civiltà contasse esclusivamente per gli inclusi, e soltanto a danno degli altri.

Di più: come se si fosse spezzato il concetto di società, lasciando precipitare nella deriva finale la parte sconfitta, i perdenti della globalizzazione, per i quali si sancisce l'impossibilità di salvezza e di emancipazione, tanto da decretare il loro bando definitivo, che li escluda dalla comunità, comunque dalla vista, certamente dalla tutela politica, persino dallo spazio marginale che oggi pretendono di occupare. Liberando così simmetricamente la parte vincente del mondo in cui viviamo da ogni vincolo con la parte sommersa, sgravandola di qualsiasi legame, e soprattutto sciogliendola da ogni responsabilità politica nei confronti di quella comunità di destino che fino a ieri avevamo chiamato società: ma a cui dovremo inventare un nuovo nome, visto che vale soltanto per noi e si configura per esclusione, credendo di trovare nella differenza l'unica garanzia di sopravvivenza.

Verrebbe da chiedere a Grillo e alla sua sindaca se davvero il paesaggio sociale che hanno in mente nell'Italia 2017 è fatto di città assediate da migranti, popolate da mendicanti con minorenni al seguito o da falsi nullatenenti con auto di lusso, una specie di gigantesca tendopoli che confina con un campo rom. È la costruzione meccanica di un presepio politico, che trasfigura la realtà in un iper-realismo grottesco, evocando tutti i personaggi di comodo del grande disordine fantasmatico che visita le fragilità del nostro Paese e abita le solitudini sociali esposte dalla crisi. Una proiezione di comodo, a fini politici, come la geografia immaginaria di Di Maio, la fantascienza delle scie chimiche, la medicina prêt-à-porter del no ai vaccini.

È ben chiaro che l'Italia minuta, dei piccoli Paesi e delle lunghe periferie, sotto i colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento di comunità, su una scala europea, nella fiducia in una tradizione occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale.

Tutto questo si chiama politica, senso dello Stato e del Paese. Mentre invece è una ben scarsa rivoluzione, quella che rinuncia a cambiare il mondo per rinchiuderlo su se stesso come un pacchetto fragile, cercando così di comprare governo al mercato della paura, a un prezzo stracciato. Vien fuori un'idea balorda dell'Italia, amputata in alto delle competenze delle élite, colpevoli di tutto: e liberata in basso dalla scomoda presenza dei disperati. Un Paese di singoli, arrabbiati con chi ha vinto e con chi ha perso, per l'invidia del successo, la noncuranza del sapere, il fastidio della responsabilità generale.

L'immagine non è nemmeno quella del muro di Trump. In quel muro Grillo infatti si limita ad alzare il ponte levatoio, come in un Medioevo impaurito. Fuori, c'è il mondo.

© Riproduzione riservata 15 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/15/news/il_medioevo_di_grillo-168139929/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EZIO MAURO. I demoni di Pietrogrado. - Cronache di una rivoluzione /2
Inserito da: Arlecchino - Agosto 08, 2017, 06:12:34 pm
I demoni di Pietrogrado

Cronache di una rivoluzione /2 - È il mese dell'autocrazia morente e della marea proletaria montante. Aspettando il giorno del giudizio

Di EZIO MAURO
13 gennaio 2017

I demoni di Pietrogrado A pranzo si era mostrato come sempre allo Yacht Club sulla Morskaja e i nobili soci sussurravano che mentre si sedeva al tavolo d'angolo era "pallido come la morte". Ma quello era un recinto aristocratico protetto. Questa, adesso, era la vera prova. Si avvicinò alla balconata drappeggiata del palco mentre l'orchestra accordava gli strumenti e in quel tempo sospeso tra la musica e la rivoluzione la folla in platea lo vide, si alzò in piedi e gli indirizzò un lunghissimo applauso, pensando così di liberare finalmente i nechistiki, gli spiriti maligni, nel cielo freddo di Pietrogrado.

Fu il primo atto del nuovo spettacolo che stava per andare in scena nella capitale infiammando la Russia, quell'applauso eversivo a un attentato imperiale che decapitava il cerchio più ristretto di comando attorno allo Zar, ribellandosi all'autocrate. Altri spiriti stavano per scendere sul "secolo di ferro", liberandolo per subito imprigionarlo, o forse Kikimora, il mostro maligno del sottosuolo, si preparava a saltare sul campanile della Trinità come nelle fiabe che terrorizzavano i bambini. Attirate dal fragore dell'applauso le ballerine del Mikhajlovskij che corsero a sbirciare dal sipario verso la platea furono le prime a rovesciare inconsapevolmente la prospettiva: guardando dal palco la città come il vero grande scenario dove da quel momento in poi incominciava la rappresentazione dell'impensabile e saliva in cartellone l'impossibile. Quasi che "Piter", costruita sott'acqua come una moderna Atlantide, avesse allineato per due secoli i suoi palazzi di granito, i suoi canali ghiacciati, i suoi ponti ad arco come una gigantesca fata morgana, in attesa di dissolvere tra pochi giorni il miraggio per diventare il gran teatro di un esperimento mai visto di sovvertimento universale. Fiacre, carrozze francesi col tetto di cuoio, mantici scuri e bardature fiammanti, slitte a due posti trainate dai cavalli Orlov aspettavano davanti al teatro in piazza delle Arti, lasciando solchi di gelo smaltato. Qualcuno si fece ancora portare al Circolo Inglese per finire la serata, o a provare la zuppa di gamberi nelle capanne sulla Neva, o fin su alle isole per il caviale di Felicien, o al match di lotta del circo Cinizelli per poi passare all'alba alla sauna di via Konjushennaja, oppure nei saloni dell'Astoria dove si inseguivano al suono del foxtrot ufficiali abituati a vivere di notte, vedove di guerra, crocerossine, prostitute e contesse che conversavano in francese. Tutti correvano, nell'ansia elettrica della città eccitata e snervata dal sentimento oscuro della fine e senza saperlo vivevano l'ultimo viaggio dell'aristocrazia che aveva appena gettato fiori sul palco del balletto, come se nulla fosse: nell'omaggio finale alla musica, alla grazia, alla bellezza e infine soprattutto alla città dei miracoli che radunava le sue meraviglie e poi come nei sogni trasformava ogni cosa in nebbia, acqua e fumo. Sotto l'immobile cupola d'oro di Sant'Isacco e la torre dell'Ammiragliato, davanti alle guglie della fortezza Pietro e Paolo, dietro i recinti di mattone rosso che sono rimasti intatti attorno alle fabbriche di Vyborg, cent'anni fa Pietrogrado, man mano che si lasciava alle spalle il dicembre di Rasputin e si inoltrava nel gennaio del 1917, era la città dei due mondi. Viveva contemporaneamente gli ultimi bagliori moribondi della Corte imperiale più ricca del mondo e l'incubazione di un esperimento rivoluzionario che sarebbe durato settant'anni, fermando il secolo per deviarne l'intero cammino. Il Palazzo reale, ignaro e irresponsabile, fu il simbolo rovesciato per le due correnti che s'incrociavano nelle ore decisive della capitale, l'autocrazia morente e la marea popolare montante. La liturgia imperiale rinsecchiva nell'angoscia della guerra con la Germania, dopo l'offensiva tedesca, la tragica ritirata russa e per la prima volta a Natale non c'era stato lo scambio tradizionale dei doni tra i Romanov, un clan di sessanta persone tra Granduchi, Principi e Principesse, disciplinati a fatica negli appetiti e negli appannaggi dal ministro di Corte Fredericks, che la famiglia imperiale chiamava "our old man".

In realtà i Granduchi formano ormai una specie di partito della sopravvivenza monarchica, deciso a tutto, incalzato rovinosamente dall'apocalisse. "Io e il mio portinaio vediamo perfettamente che la Russia sta perdendo tutto, nel Paese e al fronte - dice il Granduca Kirill Vladimirovic - Soltanto la famiglia imperiale non lo vede". E suo cugino Nikolaj Mikhailovic aggiunge: "L'omicidio di Rasputin è una mezza misura, bisogna togliere di mezzo l'Imperatrice. Mi balenano in mente idee omicide, non del tutto chiare ma logicamente necessarie.... Mi gira la testa... Che tempi, che maledizione si è abbattuta sulla Russia".

Due esponenti dell'opposizione alla Duma incontrano il Granduca in treno e nel viaggio parlano apertamente di zaricidio. "A poco a poco si è formato un vuoto intorno ai sovrani - aveva rivelato già mesi prima l'ex ministro degli Esteri Sazonov - nessuna voce da fuori penetra ormai nella loro casa". E i sovrani, sempre più rinchiusi a Zarskoe Selo, rispondevano odiando la città delle congiure, capitale degli intrighi. "Io sono sul trono da più di vent'anni - dirà in quei giorni la Zarina - , conosco tutta la Russia e so che il popolo ama la nostra famiglia. Chi è contro di noi? Pietrogrado: un piccolo gruppo di aristocratici che giocano al bridge e non capiscono niente". Erano gli Imperatori che non capivano più la loro città.

Solo tre anni prima l'avevano vista inginocchiarsi a terra davanti alla loro apparizione al balcone del Palazzo d'Inverno per la dichiarazione di guerra alla Germania, cantando Bozhe, Zarja khrani, "Dio salvi lo Zar, forte e maestoso, che per la nostra gloria, regna sui nemici atterriti". Vent'anni prima, nel pieno della potenza autocratica, avevano celebrato a Mosca l'incoronazione con un banchetto da settemila invitati. Appena quattro anni prima, il 21 febbraio del 1913, tutte le campane della Russia suonarono insieme dalle otto di mattina per accompagnare a mezzogiorno il cocchio scoperto su cui Nikolaj II e lo zarevic Aleksej arrivavano alla cattedrale Kazan per celebrare i fasti della dinastia, nel trecentesimo anniversario del giorno in cui nel 1613 i bojari proclamarono Zar il primo Romanov, Mikhail. Nel rito solenne del Te Deum, con cento soldati in alta uniforme sul sagrato, pronti a sguainare le sciabole della fedeltà imperiale nel saluto d'onore, si stava in realtà consumando ogni sovranità e qualsiasi potere, realizzando la profezia di Gogol, per cui "a San Pietroburgo tutto è inganno ", perché la città "mente a ogni ora, ma più che mai quando la notte cala sopra di essa come una massa densa". E il primo inganno - perenne - è la neve, che oggi come sempre sui ponti della Mojka cancella ogni traccia e altera i profili, lasciando tutto intatto come in quei giorni, un secolo fa.

Quel vuoto isterico, eccitato, instabile, fu riempito dall'irrazionale come accade quando tutto vacilla, domina la precarietà e in una città condannata al mito eterno della cosmogonia inizia il crepuscolo, quel sumerki in cui la realtà del giorno perde via via i contorni, il buio fatica a scendere e tutto rimane in attesa, incerto, indefinito ma plausibile. Ballavano i tavolini a Corte, a casa delle "montenegrine", le due principesse Militsa e Anastasija. Bussavano gli spiriti nei salotti della capitale, tra i marmi del conte Sheremetev, negli stucchi dorati della contessa Golovkin, mentre nei circoli prosperavano gli "innocenti", intermediari col soprannaturale, i magnetizzatori, gli illuminati. Massonerie che volevano la Costituzione e società segrete improvvisate crescevano ovunque, accanto al potere, mescolando affari, esoterismo, sesso. Così che oggi basta salire da soli di notte le scale di ghisa circolari e silenziose della "Rotonda" di via Gorokhovaja - i "gradini satanici" - per immaginare ad ogni pianerottolo i riti e i bordelli che si nascondevano allora dietro quelle porte, e quindi guardar giù dall'alto nel precipizio del vortice centrale fino alla fossa rinchiusa sopra la testa del demonio: che a Pietrogrado, secondo Dostoevskij, si presenta sempre con i capelli lunghi appena brizzolati, la giacca marrone, la sciarpa larga e logora, un cappello di pelo bianco perennemente fuori stagione.

L'isterismo spirituale nascondeva alleanze di potere, copriva rituali politici di bassa lega nobilitandoli nella preghiera e nascondendoli nell'arcano. A Zarskoe Selo, nel Palazzo Imperiale l'intesa tra il prefetto di polizia, il capitano Nilov, il generale addetto ai cavalli, il maresciallo di Corte formò una rete segreta all'ombra del trono per indirizzare iniziaticamente il potere, la segretissima "Camera Stellata". Tutta la città parlava delle simpatie tedesche del "Partito Occulto", vicino alla Corona. Addirittura, col pieno consenso della Zarina veniva continuamente evocato lo spirito immortale di Rasputin, celebrando un sacro "mistero" dietro il portale sbarrato della cappella di palazzo Aleksandr, con tre ministri in catena, le donne che pregavano invocando il Santo fino al momento culminante dell'"angoscia", quando il ministro dell'Interno Protopopov lo vedeva, lassù nel punto più alto della cupola affrescata, e si faceva dettare gli affari di Stato direttamente dall'oltretomba.

Si capisce che fuori, nella città reale, ogni cosa stesse scappando di mano ad un potere cieco. Tutto precipitava, e non si sapeva verso che cosa. Marx era arrivato nella capitale a cavallo del secolo con la prima edizione del Capitale tradotta in lingua straniera (tremila copie, subito esaurite), con gli opuscoli rivoluzionari diffusi nei circoli operai e passati clandestinamente da una cella all'altra tra i detenuti politici della Fortezza Pietro e Paolo. In quel momento, infatti, quando tutto stava per finire e un altro mondo stava per cominciare, i capi rivoluzionari erano in esilio come Lenin a Zurigo e Trotzkij a New York, in prigione come Dzerzhinskij, il futuro capo della Ceka - l'antenata del Kgb - , al confino o deportati sotto sorveglianza dell'Okhrana, la polizia segreta zarista che aveva ereditato metodi e poteri speciali dalla famosa "Terza sezione", e con il suo "Ufficio nero" controllava anche la corrispondenza dei sovversivi. Da qualche tempo sorvegliava con preoccupazione anche le scuole, in particolare i 90 istituti superiori dove c'erano manifestazioni quotidiane di protesta, nate per ragioni studentesche ma diventate ormai apertamente antigovernative: in una Russia in cui nei primi anni del secolo quattro ministri dello Zar erano morti in attentati progettati ed eseguiti da studenti.

Ma era nelle fabbriche e nelle famiglie che cresceva il malcontento, senza sapere che sarebbe diventato rivoluzione. Già i moti del 1905 erano nati dentro le officine Putilov, con gli operai metalmeccanici che chiedevano la giornata di otto ore e l'aumento del salario minimo. Adesso bisognava fare i conti con un costo della vita triplicato e con un salario operaio che era meno della metà rispetto alle fabbriche inglesi. Ma nessun conto si poteva fare con quello che non c'era: il pane e i generi alimentari di immediata necessità. Prima di Natale manca lo zucchero e le grandi aziende Ivanov e Markov a Mosca chiudono il loro mercato all'ingrosso nel Proezd Lubjanskij che rifornisce tutto il Paese. Il prezzo del tram rincara, senza una spiegazione. Il burro a Pietrogrado sparisce di colpo, poi ricompare all'improvviso a prezzi impossibili, e la gente lo compra comunque, spaventata all'idea di non trovarlo più domani. Psicosi e speculazione si danno il cambio nei mercati, nelle vetrine vuote, ovunque ci sia qualcosa da vendere e da comprare per trasformarlo in un pranzo o una cena.
Ma bisogna attraversare i ponti che hanno ancora l'aquila bicipite sui lampioni in ferro battuto, camminare in senso contrario alla folla rivoluzionaria e andare a cercare il punto d'origine di tutto, nei quartieri operai di Vyborg e di Narva. Qui non ci sono più i forni del pane, ma guardandosi intorno tra le ciminiere si rivede lo stesso fumo di cent'anni fa, quando per i lavoratori delle officine c'era il divieto di tenere riunioni, l'impossibilità di cambiare fabbrica, la proibizione di organizzare mense. Prima, il 9 gennaio, gli operai scelgono l'occasione dell'anniversario della "Domenica di sangue" del 1905 e scendono in sciopero. Poi il pensiero europeo di Marx si realizza nelle strade di Pietrogrado, per la materialità della crisi, la vastità dell'emergenza, il clamore della sua evidenza, senza uno schema ideologico. Scende la temperatura, si allarga il gelo, circola la voce che ci sarà un razionamento dei pochi prodotti nei negozi. Si formano code di donne, di vecchie, di uomini inferociti. Si allungano di notte. Si gonfiano di rabbia col freddo. Qualcuno spacca le vetrine, forza le porte nel buio, ci sono i saccheggi disperati del nulla.

Manca soltanto il detonatore, che sta arrivando. Ma nell'attesa la protesta sta già cambiando direzione, sa dove vuole andare e si rivolge subito contro l'Imperatore, "Zar Golod", lo "Zar Fame", colpevole di tutto, la penuria, le code, l'avvilimento e il furore delle famiglie senza cibo e senza diritti, tradite da un potere lontano, separato, inconsapevole perché incosciente, che nella miseria delle tavole vuote perde ogni maestà, qualsiasi sacralità, tutta la potestà imperiale, distrugge perfino l'antica devozione contadina per il "piccolo padre". L'Okhrana con i suoi agenti infilati nelle code vede arrivare il crollo, invia rapporti sempre più allarmati al governo. "Le donne sfinite dalla fame dei figli e dalle attese interminabili davanti ai negozi sono oggi forse più pronte alla rivoluzione dei loro uomini", dice una relazione di gennaio 1917. Nel febbraio 1914 Petr Durnovo, il ministro degli Interni conservatore, aveva già previsto tragicamente ogni cosa in un memorandum quasi profetico all'Imperatore: "Tutto avrà inizio con l'accusa al governo di essere la causa di ogni male. Si scatenerà una violenta campagna antigovernativa con agitazioni rivoluzionarie in tutta la Russia e parole d'ordine socialiste capaci di sollevare la masse, come la spartizione delle terre e di tutti i beni privati. Le forze armate sconfitte saranno troppo demoralizzate per difendere la legalità e l'ordine. Le istituzioni parlamentari e i partiti, mancando di ogni ascendente sul popolo, saranno impotenti ad arginare la marea popolare da loro stessi provocata e la Russia sprofonderà nella più disperata anarchia".

Chi riceveva i rapporti segreti, chi leggeva i memorandum? Il governo sottovaluta, lascia che lo Zar parta per il quartier generale di Mogilev, dopo che a Zarskoe Selo è rimasto nei suoi appartamenti, dietro la porta chiusa su cui vigilano le quattro guardie abissine coi i turbanti candidi, col divieto di parlare e dopo mezzanotte anche di starnutire. La guerra aveva fatto saltare la fiera di beneficienza nella Sala della Nobiltà, ma i pranzi nel Palazzo Imperiale (quattro piatti a colazione, cinque a cena) venivano sempre preparati per dieci persone, pronti per ospiti improvvisi, come se nel villaggio dell'imperatore tutto fosse normale. In sordina, dopo Natale erano iniziate anche le danze (agli ufficiali era proibito il tango se indossavano l'uniforme), con il famoso "ballo bianco" per le ragazze senza fidanzato, e si pensava già al carnevale, ignorando che non ci sarebbe più stato.

Ma la Corte appare immemore, ipnotizzata dalla precognizione indecifrabile della sua rovina e incapace di trasformare il presagio in politica. La cerchia più larga attorno alla Corona è ancora più avvinghiata al rituali, per paura di perderli. Pochi giorni prima che la scintilla rivoluzionaria si accenda nelle strade di Pietroburgo, la ballerina Mathilde Ksesinskaja - ex fiamma di Nikolaj II quando era un giovane ufficiale della Guardia - apre casa per una cena con 24 ospiti con i piatti di Limoges, il servizio da pesce dorato, myosotis e merletti intrecciati al centro del tavolo, accanto a fiori artificiali in pietre preziose e un piccolo albero di Natale dorato addobbato di diamanti.

Così scivolava "Piter" verso il Febbraio della storia, in una corsa inevitabile come quella delle acque della Neva. Come annota in quei giorni Zinaida Gippius nel suo diario azzurro, "non accade nulla fuori da Pietroburgo, tutto ha inizio qui e da qui si diffonde, solo qui si può sapere, vedere, capire". La città dai tre nomi, scrive Aleksej Tolstoj, vive quelle ore dentro una continua notte da sonnambuli, "fosforescente ed eccitata", "folle e voluttuosa con le sue trojke, i suoi duelli all'alba, le parate davanti a un imperatore con gli occhi bizantini": accanto alla disperazione delle file per il pane, alla rabbia popolare che scopre se stessa, forte, autonoma, consapevole e cosciente, in un Paese costruito per un potere solo, assoluto e proprietario più ancora che sovrano. Le due anime travagliate formano insieme Pietrogrado, splendida e terribile nella brace ardente di quei giorni, ultima capitale dell'Impero zarista, prima capitale della rivoluzione, eterna capitale simbolica di ogni fine e di tutti gli inizi. Ma adesso, nella sospensione del destino, "Piter" è il personaggio centrale di tutto, scena e attore, protagonista e fondale, come se la città tutta insieme salisse i 13 gradini della scala di Raskolnikov nel vicolo Stoljarnyj per incontrare il suo delitto e il suo castigo, inaugurando la "grande epoca".

Di notte, cent'anni dopo, tutto sembra com'era, in questa composizione intatta di storia e di luce, di marmi e di fato, di ghiaccio e memoria. Cammino da un ponte all'altro sui canali fino al fiume Prjazhka cercando una finestra. Quella al numero 57 di ulitza Dekabristov dove il poeta Aleksandr Blok passava ore al buio, in quelle notti, guardando il "freddo violetto" di Pietrogrado: e oltre la finestra, "la Russia che vola chissà dove, nell'abisso azzurro- blu dei tempi".

(2. continua) -
© Riproduzione riservata 13 gennaio 2017


Titolo: EZIO MAURO. Cronache di una rivoluzione /1
Inserito da: Arlecchino - Agosto 08, 2017, 06:37:36 pm
Cronache di una rivoluzione /1 - Il 16 dicembre del 1916, avvelenato e trafitto dai proiettili, moriva a San Pietroburgo l'uomo che si vantava di tenere "l'Impero nelle mani"
Da questo delitto, il primo atto che porterà a Lenin e alla Rivoluzione, incomincia il viaggio di Ezio Mauro che proseguirà per tutto il 1917

Di EZIO MAURO
09 dicembre 2016

SAN PIETROBURGO - Cent'anni dopo, c'è un mazzo di garofani rossi nel punto dove tutto è incominciato. Proprio qui. Salì la scala a chiocciola rovesciandosi sulla ringhiera, con la pallottola nel costato, poi si fermò sul pianerottolo. Spalancò la porta con un urlo da animale e si lanciò fuori barcollando e premendosi il petto, correndo curvo nei due gradi e mezzo notturni del cortile deserto. Chissà cosa riuscì a vedere nel buio, nell'agonia, nel palazzo che dormiva, nello splendore morente della Russia imperiale. L'ultima forza vitale lo portò verso il cancello, giù in fondo, mentre gridava il nome del suo assassino. Due spari a vuoto, due rivoltellate, lo fecero oscillare di terrore poi un colpo preciso alla schiena sembrò paralizzarlo, immobile, e subito dopo un colpo alla testa lo gettò a terra con la braccia spalancate e le mani che afferravano la neve di Pietrogrado, quel sabato 16 dicembre del 1916.

Ezio Mauro racconta la rivoluzione russa. Prima puntata: Rasputin

Nessuno sapeva che l'impero aveva le ore contate nella sua capitale eppure tutti gli spettri del caos si radunarono proprio qui, nel palazzo principesco, mentre cominciava lentamente a schiarire tra la nebbia che saliva dalla Mojka e sembrava come sempre fabbricata direttamente dal canale. Alla stessa ora, oggi, "Piter" è addormentata e silenziosa come allora, non c'è più il poliziotto Vlasjuk nella garitta che corre al primo sparo coi suoi stivali di feltro, dalle finestrelle del seminterrato non si allarga più nel cortile la musica americana di Yankee Doodle suonata dal grammofono dell'inganno, se n'è andato il profumo di marsala e madera della festa omicida. Soprattutto da cent'anni non c'è più Grigorij Efimovic Rasputin, il "santo diavolo", lo "starez di Dio", il "monaco nero" che è venuto a morire qui insieme con la dinastia imperiale, assassinato tra un sabato e una domenica nella notte sospesa sulla rivoluzione, in agguato alle porte della città magica.

Quel delitto è l'antecedente di ogni cosa perché è una vendetta e una ribellione ma anche un esercizio mistico, una specie di colpo di Stato, un sacrificio politico. È una predizione, un'evocazione, una rappresentazione. C'è una dinastia reale estenuata dall'autocrazia impotente dello Zar Nicolaj II e dalla nevrastenia religiosa della zarina, che separano la Corona dal Paese e la Corte dal suo tempo, togliendole ogni autonomia fino allo smarrimento. C'è la tempesta politica prossima ventura che si annuncia e ribolle nelle fabbriche e al fronte, pronta a ideologizzare l'anima russa appassionata, confiscandola. E c'è lui, il contadino siberiano semi-analfabeta, uomo di Dio nell'anima e peccatore nel corpo, sedicente guaritore e sicuramente incantatore, capace di coniugare fede lussuria e profezia nel fanatismo settario dei monaci "flagellanti". Ma pronto soprattutto a raccogliere nelle sue grandi mani spalancate e negli occhi color dei fiori di lino l'angoscia da fine-di-mondo che pesava sui sovrani e sull'impero, intercettando il sentimento dell'apocalisse e trasformandolo in tecnica di regno e di governo.
 
Quando entrò nel palazzo degli imperatori Rasputin aveva 36 anni, la barba arruffata, i capelli lunghi, sporchi e scuri, pantaloni e stivali da contadino, giubba di tela legata con un cordone. Ma la fama del taumaturgo gli aprì le porte di una reggia abituata a trasformare la fede in superstizione devota, in un Paese in cui spesso le chiese nascono sui siti degli idoli pagani e San Basilio sorge nel luogo dove regnava Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono. La Corte è il punto di congiunzione dei misteri e delle premonizioni che li anticipano nell'angoscia, perché è il luogo dove regna questa sospensione magica e sacra della realtà, nell'attesa di un vaticinio perenne, soprattutto da quando Alix, l'imperatrice Aleksandra Fedorovna, non riesce a dare alla Russia un pretendente maschio ma solo femmine, quattro, Olga, Tatjana, Marija e Anastasija.

Ecco allora che arrivano nell'appartamento della zarina l'idiota beato Mitja, chiaroveggente scalzo, Matrjona profetessa stracciona, Darja santa pazza e bestemmiatrice, il curatore tibetano Badmajeff, monsieur Philippe occultista cristiano che quando si mette il cappello diventa invisibile, ma produce solo una gravidanza isterica, nonostante regali alla zarina un'icona coi campanelli che suonano quando si avvicina uno spirito maligno. Solo dopo un pellegrinaggio di tutta la famiglia col treno imperiale all'eremo di Sarov per pregare davanti alle reliquie di San Serafim, lunedì 30 luglio 1904 all'1,15 del pomeriggio nasce Aleksej, lo zarevic, erede al trono dei Romanov.

Col parto atteso da tutta la Russia Alix ha salvato la dinastia ma ha condannato suo figlio, perché gli ha trasmesso l'emofilia tedesca di famiglia, allora incurabile, tanto che la malattia dello zarevic viene subito circondata da un segreto di Stato malinconico e cupo protetto dal marinaio Derevenko che lo segue ad ogni passo per prevenire cadute, urti, ematomi e lividi capaci di degenerare. Finché Rasputin nell'autunno del 1907 entra nella stanza del bambino imperiale senza luce elettrica, si inginocchia come in chiesa sotto i lumi delle icone, accarezza la mano del piccolo zarevic, lo calma raccontandogli la storia siberiana del cavallo gobbo e del cavaliere senza gambe e infine annuncia ai sovrani che crescendo Aleksej guarirà completamente, vincendo la malattia. Per la prima volta Alix, l'imperatrice, si inchina a baciare la mano del santo contadino.

"Ho fatto la conoscenza d'un Uomo di Dio, di nome Grigorij, della provincia di Tobolsk", scriverà lo Zar il giorno dopo, ed è la prima traccia di un affidamento al taumaturgo delle due anime regnanti ma smarrite, e di un impossessamento graduale ma impetuoso di una sovranità esausta da parte del monaco, che in pochi anni dalle faccende familiari passerà alle questioni religiose, agli affari di Stato, alle vicende diplomatiche, alle scelte di guerra, alle nomine dei vescovi e dei ministri. Salito al trono senza essere preparato, il sovrano regna senza passione ("gli manca qualcosa nel ventre", dice l'aristocrazia pietroburghese) rifiutando i riti di Corte, cercando rifugio e sollievo solo nella famiglia che vive ormai quasi sempre nel palazzo Aleksandr a Zarskoe Selo, dove Alix e Nikolaj erano rimasti soli per la prima volta dopo le nozze, dove lei ogni sera nel budoir tra i fiori freschi avvertiva il suo arrivo nel corridoio quando il lampadario incominciava a tintinnare.

Nel castello rimbalzano le voci dei miracoli dello starez nei villaggi e nei campi, durante il pellegrinaggio che lo ha portato a Pietrogrado: ha espulso il diavolo da una monaca, ha guarito le mandrie, ha sospeso la pioggia per tre mesi. La zarina ha bisogno di sentirlo vicino, di chiamarlo quando il figlio sta male, di affidargli l'angoscia per un destino che sta declinando, di decifrare la catastrofe sconosciuta che li sta sovrastando. Quando lo Zar diventa comandante in capo dell'esercito in guerra con la Germania, lei gli affida una striscia di stoffa che l'uomo di Dio ha impregnato col suo fluido. Quando Nikolaj deve avere un colloquio delicato, gli ricorda di passarsi tra i capelli, prima, il pettine che gli ha regalato Rasputin. E attorno al castello crescono i sospetti, le invidie, le maldicenze, soprattutto adesso che lo Zar sta al quartier generale militare di Mogilev e gli affari di Stato finiscono nella stanza della zarina, con il parere, i veti e il visto di padre Grigorij.

"Tra queste dita - si vantava Rasputin - io tengo l'impero russo". E aveva ragione. Come in una corte stregata, un monaco analfabeta dall'istinto animale decideva di cambiare il capo del governo, di sostituire il ministro dell'Interno, di nominare il direttore della polizia, di selezionare i candidati alle cariche pubbliche scrutandoli negli occhi, di suggerire le scelte dello Zar: "Quest'uomo è amato da Dio, puoi procedere". "Fermati e caccialo, sento puzza di diavolo". Con il deperimento della sovranità regale, i rovesci dell'esercito in guerra, una serie di governi che procedevano come nella favola russa il cigno, il gambero e il luccio - l'uno verso l'alto, uno indietro, uno verso il fondo - la capacità di scelta e di decisione del monaco di Dio diventava l'unica certezza. Ecco perché ogni mattina, tornando da messa ad Afonskoje Podvorje il contadino trovava l'anticamera piena di soldati, ragazze, banchieri, politici, infermi venuti fin qui in via Gorochovaja 64, passati davanti al gabbiotto della portiera Gurolevna con le spie dell'Okhrana attorno al samovar di stagno nero, saliti al secondo piano per bussare alla porta dell'interno 20 (rossa oggi come allora) con una supplica, una raccomandazione, una benedizione, la speranza di un incontro mistico e sessuale, di una guarigione.
 
Alle 10 suonava il telefono che troneggiava nell'ingresso come nelle case dei ricchi (numero 646/46) e c'era una lunga conversazione col palazzo imperiale. Intanto il monaco distribuiva biscotti neri che le donne portavano via come reliquie sante nei fazzoletti di seta, insieme con la biancheria di padre Grigorij che volevano lavare personalmente, e lui le baciava tre volte sulla bocca. Poi si chiudeva con una di loro nello studio, sul divano di ferro con la spalliera sfondata e coperto da una pelliccia di volpe, davanti a una sola finestra, un tavolo con due sedie, le lampadki accese sotto le icone. Qui prendeva un bigliettino con la croce dal mucchio già pronto sulla scrivania ("Fate quel che vi chiede, Cristo è risorto ") e lo consegnava alla supplicante come passepartout nel potere, in cambio di baci, carezze, sesso, denaro: o anche gratuitamente. Alle visitatrici dava appuntamento per domani, per il pomeriggio, per la sera, nelle salette riservate dell'hotel Astoria, di Villa Rodè, del Donon o di Jar o di Strelna dove la notte finiva all'alba con orge, bevute e le romanze cantate dagli zingari, immancabili. Ubriaco, ballava e raccontava la sua intimità con i sovrani, svelando quel potere arcano, superstizioso e materiale che lo faceva definire dal popolo "lo zar sopra lo Zar".

Ciò che restava del potere istituzionale finì per ribellarsi. La famiglia Romanov era passata in pellegrinaggio da Nikolaj chiedendo inutilmente di liberare la Corona dall'umiliazione di Rasputin, la sorella della zarina, Ella, fu accompagnata in silenzio alla carrozza per aver osato criticare il Santo. Ma ormai lo scandalo di una reggia plagiata e sottomessa divampava ben oltre la corte. Disegni osceni della sovrana con Rasputin, chiacchiere, allusioni inquietano l'Imperatrice Madre. Fino al primo giorno di ottobre, quando alla Duma va in scena l'indicibile: "Il nome della zarina viene ripetuto sempre più spesso insieme a quello di delinquenti che la accompagnano - accusa il deputato d'opposizione Pavel Miljukov - Che cos'è, stupidità o tradimento? " Ancora più pesante l'attacco del deputato Puriskevic, monarchico, il 19 novembre: "Porto ai piedi del trono l'amarezza delle masse russe e dei soldati al fronte per i ministri diventati marionette in mano a Rasputin e all'Imperatrice, che è rimasta tedesca sul trono russo, estranea al Paese e al popolo".

Frastornato, braccato, il contadino prova a rassicurare lo Zar con un biglietto: "Dio vi darà forza, vostra è la vittoria, vostra la nave, nessuno ha il potere di salire a bordo". Ma lo Zar sente la pressione esterna, e anche quella interna alla famiglia dove il "Nostro Amico", come lui e Alix lo chiamano, pesa sempre di più. "Tutti ti ingannano - gli dice in quel mese il Granduca Nikolaj Michailovic - anche tua moglie ti ama appassionatamente ma sbaglia per i perfidi inganni di chi la circonda, e quel che esce dalle sue labbra è frutto di un'abile mistificazione, non di verità". Il 10 novembre l'Imperatore vede il suo nuovo primo ministro, Aleksej Trepov, fischiato dalla Duma in piedi. Decide di sacrificare l'odiato ministro dell'Interno Protopopov, protetto da Rasputin. Scrive alla moglie che il cambiamento è ormai indispensabile: "Solo ti prego di non coinvolgere il Nostro Amico. La responsabilità è mia e desidero essere libero nella mia scelta". Ma Alix resiste, a difesa della santità dell'Intermediario e del suo cerchio ristretto di potere: "Ricorda ancora una volta che hai bisogno dell'acume, delle preghiere e dei consigli del Nostro Amico. Ah caro, prego con fervore Dio perché ti illumini e ti faccia capire che lui è la nostra salvezza". Il ministro resterà al suo posto, nelle mani del contadino.

Ma ormai circolano piani governativi, ecclesiastici, parlamentari con un unico obiettivo: uccidere Rasputin per salvare la Russia. Strangolarlo o avvelenarlo? Rapirlo e poi pugnalarlo in auto? Assalirlo a casa di una delle sue amanti? Narcotizzarlo, sopprimerlo e seppellirlo nella neve? Usare le rivoltelle di mariti gelosi e farli irrompere in casa, com'è già avvenuto? Intanto il colonnello Komissarov porta sul tavolo del ministro cinque diverse polveri velenose e ne sceglie una letale, dopo averla sperimentata su un gatto. La corda che lega insieme Zar, governo, Dio e il monaco è tesa fino all'inverosimile, sta per spezzarsi. "Finché vivrò io, vivrà anche la famiglia imperiale - prova a esorcizzare la catastrofe Rasputin, e non si accorge che è una profezia - Ma con la mia fine perirà anch'essa". E il nodo si scioglie a metà novembre, quando proprio dall'interno della famiglia imperiale nasce il progetto di morte che diventa realtà. È infatti un principe- conte direttamente imparentato con lo Zar la mente dell'assassinio. Feliks Jusupov aveva trent'anni, secondo la zarina assomigliava a un bellissimo paggio, discendeva da dignitari del Khan Tamerlano e dal camerlengo di Pietro il Grande, ma soprattutto aveva sposato Irina Aleksandrovna, nipote dello Zar.

L'aristocrazia frustrata dal monaco-contadino, il suo successo in società, la vergogna delle sue orge sessuali, il pervertimento della fede cristiana, la sottomissione indecente degli Imperatori, tutto si congiungeva per Felix in un piano eroico di ribellione, vendetta e riscatto: bisognava eliminare Rasputin. Il principe cercò il nemico pubblico dello starez, il deputato Periskevic, che lo odiava per non essere diventato ministro e lo aveva attaccato alla Duma. Trovarono facilmente un'intesa, e il parlamentare arruolò il medico polacco Lazovert e l'ufficiale di cavalleria Suchotin. Il principe portò nell'operazione il suo migliore amico, il Granduca Dmitrij Pavlovic, luogotenente nel terzo reggimento di cavalleria della Guardia, in modo di garantire all'intero complotto quella speciale immunità che discendeva dai membri della Casa imperiale, svincolati dalla giustizia ordinaria, soggetti solo allo Zar.

Andarono in giro per Pietroburgo di notte e di mattino, cercando un luogo per gettare poi il corpo facendolo scomparire, trasformarono lo scantinato di palazzo Jusupov - che ancora oggi ha lo stesso pavimento di pietra, il soffitto a volta, due finestrelle basse - in una sala da pranzo con lanterne dai vetri colorati, un tavolo e un armadio intarsiato (con gioco di specchi, colonne, cassetti segreti) e un salotto con tappeti persiani, ricche tende e una pelle d'orso. Coi guanti di caucciù il dottore fece in polvere il cianuro di potassio e infarcì i petit four rosa, poi versò da una fiala il veleno in due calici di vino su quattro. Feliks aveva da tempo avvicinato Rasputin, fingendo di avere dolori al petto e lasciandosi imporre le mani, e soprattutto gli disse che sua moglie Irina - probabilmente la donna più bella di tutta la capitale - voleva finalmente conoscerlo. Tutto era ormai pronto. A mezzanotte del 16 dicembre il dottor Lazovert si vestì da chauffeur e portò il principe imbacuccato in una lunga pelliccia di renna e un berretto nero a prendere il santo contadino. Salì al buio dalla scala di servizio, lo trovò vestito con una camicia di seta azzurra con disegni di fiordalisi, probabilmente regalo della zarina. Scesero nel buio e Rasputin si appoggiò al braccio del suo assassino. Alle loro spalle, nello stipite della porta del monaco divino adesso è infilato un ritratto della famiglia imperiale, incrociando quei destini lungo tutto il secolo.

Irina era rimasta in Crimea, terrorizzata dal piano che la voleva come esca. Mentre il principe Feliks e lo starez scendevano dalla scala a chiocciola nello scantinato, i quattro complici al primo piano azionarono il grammofono parlando a voce alta, fingendo la coda di una festa con gli invitati che stavano per andarsene. Aspettando Irina, Grigorij prese dal vassoio del principe i pasticcini avvelenati, bevve due coppe di madera col cianuro. Forse le dosi erano sbagliate, forse i tempi erano calcolati male. Terrorizzato, Feliks lo guardava bere e mangiare senza crollare, cominciava a credere nelle leggende stregonesche, non riusciva a reggere lo sguardo del Santo e trovò una scusa per salire al piano di sopra. Prese la rivoltella del Granduca e scese tenendola dietro la schiena. "Sto guardando questo strano armadio", stava dicendo Rasputin in piedi di spalle. "Faresti meglio a guardare il crocefisso e dire una preghiera", gli rispose il principe puntando l'arma. Il contadino si voltò, in tempo per urlare mentre Jusupov sparava e poi cadde a terra sulla pelliccia d'orso.

Scesero tutti, guardarono il vero padrone di Pietrogrado che agonizzava, spensero la luce e chiusero la porta a chiave. Ma poi il principe scese di nuovo, tastò il polso al monaco e con orrore vide aprirsi l'occhio sinistro, quindi il destro, fissi su di lui. E improvvisamente Rasputin balzò in piedi con la bava alla bocca cercando di afferrare il suo assassino per la gola, fino a quando strappò una spallina dalla giacca del principe, cadde a terra, si trascinò carponi sulla scala a chiocciola rantolando. Feliks gridò chiedendo aiuto, tutti uscirono, Puriskevic esplose i primi due colpi fallendo il bersaglio, poi due proiettili (forse del Granduca, esperto di armi) centrarono lo starec alla schiena e alla testa. Incredibilmente, Rasputin era ancora vivo e allora il principe lo colpì più volte con uno sfollagente pesante, in una furia parossistica che sembrava riunire sul cadavere tutte le maledizioni di tutti i nemici per anni impotenti del monaco santo.

Lo avvolsero in un telo, legato con la fune, lo caricarono sulla limousine Delaunay-Belleville del Granduca, a ogni curva il cadavere sembrava sobbalzare e uno di loro si sedette sopra fino al ponte Petrovskij (ancora oggi poco illuminato e deserto a quell'ora) dove lo gettarono in un buco aperto nel ghiaccio, insieme con uno stivale che si era sfilato dal corpo in macchina. Lo trovarono tre giorni dopo. Prima una sovrascarpa, che le figlie dello starec riconobbero. Poi il cadavere gonfio con la camicia ghiacciata nella Malaja Nevka, le mani gelate verso il cielo. Ci fu un funerale segreto davanti alla famiglia imperiale, con la bara di zinco sepolta nella crociera della chiesa in costruzione a Zarskoe Selo, dedicata a San Serafim che aveva previsto sangue e disgrazie per l'inizio del secolo russo. Oggi una croce di legno ricorda il posto, una piccola custodia di ferro piegato a mano ripara dalla neve i lumini che sembrano ardere da allora. "Che cosa posso fare? Solo pregare e pregare - dirà la zarina al marito - Anche il Nostro caro Amico dall'aldilà prega per te. Quindi è ancora più vicino a noi. E tuttavia che voglia ho di sentire la sua voce rasserenante e incoraggiante...". La sentirà in sogno con l'ultima terribile profezia: "Vi bruceranno sul rogo".

La storia e la leggenda si contendono il finale. Finché il capitano Klimov dopo la rivoluzione porta i suoi uomini nella cappella: scoperchiano la tomba, aprono la bara cercando preziosi, trovano un'icona con la firma della zarina e delle principesse e la mandano al Soviet della capitale. Poi il cadavere di Rasputin con le braccia in conserta viene trasportato in treno a Pietrogrado, camuffato nell'imballaggio da pianoforte. Un camion porta la bara sulla carrozzabile fuori città, nei boschi tra Lesnoe e Peskarjova lo posano su una catasta di legna, lo cospargono di benzina e lo bruciano tra le sette e le nove, disperdendo le ceneri nella neve e nel vento.

Ho cercato il posto del fuoco, dove l'onnipotenza del monaco diventa cenere della rivoluzione. Non riuscivo a trovarlo, la campagna russa incolta sembra tutta uguale, sul limitare indistinto del bosco che mi avevano indicato veniva il buio, interrotto dal bianco delle betulle. Poi è passato un contadino seduto sul bordo di un carro tirato da una coppia di buoi che tornavano a casa. Si è tolto il cappello, ha fatto tre volte il segno della croce. Lui sapeva, cent'anni dopo. Il santo diavolo era lì per sempre, come la Russia eterna.

© Riproduzione riservata 09 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/12/09/news/rasputin_ezio_mauro_cronache_rivoluzione-153773778/


Titolo: EZIO MAURO. L'inversione morale
Inserito da: Arlecchino - Agosto 12, 2017, 05:38:19 pm
L'inversione morale

Di EZIO MAURO
09 agosto 2017

CHE cosa resterà dell’estate italiana che stiamo vivendo, e che ha trasformato la crisi dei migranti nel suo problema principale, ben prima del lavoro che non c’è, della crescita che arranca, del precariato permanente di un’intera generazione? Non certo un cambiamento nel flusso di disperazione che porta i senza terra a cercare libertà e futuro lungo il Mediterraneo, o nel riflusso di gelosia nazionale dei Paesi che ci circondano, dove si sta frantumando ogni giorno l’idea comune di Europa. Ciò che resta — e che peserà in futuro — è una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza, affondato dal realismo politico, dal sovranismo militante, da una declinazione egoista dell’interesse nazionale. Naturalmente il senso comune è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica, soggetto attivo di qualsiasi democrazia funzionante, autonomo e distinto dal potere, dunque capace di giudicarlo. Si tratta di una deformazione del buon senso, costruita su sentimenti e risentimenti, nutrita di pregiudizi più che di giudizi, che opera come ha scritto Roberto Saviano con la logica della folla indagata da Le Bon, pronta a gonfiarsi e sgonfiarsi come le foglie al vento, e spesso il vento è quello del potere: capace, soprattutto in un’età segnata dal cortocircuito emotivo del populismo, di interpretare il senso comune, ma anche e soprattutto di crearlo e nutrirlo traendone profitto politico ed elettorale.

Ora il governo può certo esercitarsi a svuotare il mare col cucchiaino di un codice per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo, e le procure possono trarre teoremi giudiziari dagli errori o anche dalle complicità e dai reati di qualche singola ong. Ciò che interessa va ben al di là, perché la proiezione fantasmatica di tutto questo sta producendo sotto i nostri occhi un effetto spettacolare: l’inversione morale, per cui non potendo fermare le vittime prima che partano dai loro Paesi, e non riuscendo a colpire i carnefici, cioè gli scafisti, si criminalizzano i soccorritori, che salvano chi sta morendo in mare.

Per arrivare a questo bisogna necessariamente spogliare l’intervento umanitario, la neutralità del soccorso, l’azione dei volontari di ogni valenza etica e di qualsiasi spinta valoriale, riducendoli a pura “tecnica” strumentale, fuori dalla logica della responsabilità, dalla sfera della coscienza e dall’imperativo morale dei doveri. La destra e i grillini (basta leggere i loro giornali: identici) parlano delle ong come un attore tra i tanti nel Mediterraneo, liquidando il salvataggio dei naufraghi in una riga di circostanza, come se gli scopi per cui si va in mare non contassero nulla, come se non avessero rilevanza le bandiere morali che quelle navi battono.
Diciamolo: come se il problema politico che i migranti creano fosse più importante delle loro vite salvate.

Delle ong in quanto tali, della loro azione di supplenza di cui hanno parlato qui Mario Calabresi e Massimo Giannini ovviamente alle diverse destre italiane non importa nulla. A loro interessa ciò che rappresentano, la loro ragione sociale, la persistenza di un dovere gratuito e universale che nel loro piccolo testimoniano. Quel sentimento umanitario che fa parte della civiltà italiana, anche per il peso che qui ha avuto la predicazione della Chiesa, e che fino a ieri consideravamo prevalente perché “naturale”, prodotto di una tradizione e di una cultura.

Laicamente, si potrebbe tradurre nella coscienza della responsabilità, quella stessa cui si richiamava Giuliano Ferrara parlando della spoliazione civile dei Paesi da cui si emigra in massa. Solo che la responsabilità, a mio parere, vale sotto qualsiasi latitudine, dunque anche a casa nostra, ma non soltanto nei confronti di noi stessi, i “cittadini”, garantiti dalla costituzione e dalle leggi. Qui si sta decidendo se i ricchi del mondo (ricchi di diritti, di benessere) possono ritenersi definitivamente sciolti dai poveri del pianeta, visto che non ne hanno più bisogno, oppure se in qualche misura anche dopo la crisi permane quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della mondializzazione, cercando un futuro comune.

Se la sinistra non capisce che la posta in gioco è addirittura questa, oggi, subito, significa che è giunta al suo grado zero e qualcun altro riscriverà il contratto sociale. Si deve dare sicurezza alle nostre popolazioni impaurite, soprattutto alle fasce più deboli e più esposte. Ma si può farlo ricordando insieme i nostri doveri e la nostra responsabilità, che derivano proprio dalla cultura e dalla civiltà che diciamo di voler difendere. Questo è lo spazio politico della sinistra oggi, invece di inseguire posture mimetiche a destra. Uno spazio utile per tutto il Paese: perché l’interesse nazionale non si difende privatizzandolo, magari con decreto di Grillo e Salvini.

© Riproduzione riservata 09 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/09/news/l_inversione_morale-172679630/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S4.3-T1


Titolo: EZIO MAURO. La Rambla, l'integrazione che dobbiamo difendere
Inserito da: Arlecchino - Agosto 22, 2017, 11:30:52 am
La Rambla, l'integrazione che dobbiamo difendere
Dobbiamo dare un nome ai luoghi disarmati dove consumiamo la nostra libertà.
E il nome è quello della democrazia

Di EZIO MAURO
19 agosto 2017

Come una decimazione, hanno falciato uomini donne e ragazzi, indistintamente colpevoli di testimoniare un modo di vivere che loro rifiutano e combattono. Gli individui non contano: per loro conta la massa trasformata in bersaglio, la pura quantità stralciata sulle Ramblas dal popolo estivo della vacanza.

Il tam tam estremista porterà le cifre del massacro come un bollettino di vittoria nei villaggi dove l'Isis si sta ritirando, svanito il sogno del Califfato: 14 morti, 130 feriti, che sono venuti da 35 diversi Paesi - da tutto il mondo - per trovare la morte a Barcellona. Un condensato di strage universale, proprio mentre a Turku in Finlandia si accoltellano i passanti sulla piazza del mercato del sabato, al grido "Allahu akbar".

Quel van bianco, costruito come strumento di lavoro per ridurre la fatica degli uomini e noleggiato come arma da lanciare sulla folla, testimonia in apparenza la vulnerabilità del nostro meccanismo sociale, dove tecnica, modernità e tecnologia possono essere rovesciate nella primordialità di un'arma impropria, quasi invisibile perché nasce dalla quotidiana abitudine strumentale del nostro vivere, di cui siamo abituati a servirci, ma da cui non abbiamo mai pensato di doverci proteggere. Finché quel furgone salta fuori dal contesto di regole e normalità che lo controlla e si lancia come una bomba sopra la gente, ieri a Nizza, adesso a Barcellona.

Il fatto che questi attentati sorgano dall'interno del nostro costume civile rende difficile una prevenzione, perché possiamo difenderci da tutto, meno che dal nostro modo di vivere. Una sala da ballo a Parigi, un concerto a Manchester, una strada nel cuore della Spagna sono per definizione luoghi disarmati nel senso più ampio del termine, perché appartengono a quel tempo liberato dal lavoro che la nostra società si è conquistata per ordinarlo in un disegno di relazioni, appuntamenti, occasioni che organizzano una fruizione delle città, delle sere e delle notti urbane.

In realtà dobbiamo pensare che la presunta e apparente modernità di questi attentati nasconde l'opposto, una religione trasformata in ideologia e scagliata in ritardo di secoli contro un mondo che rappresenta l'eterno confronto, ineliminabile, contro cui l'Isis sa di aver perduto in partenza e per sempre l'arma dell'egemonia, della sfida culturale, tanto da regredire all'epoca primitiva degli omicidi rituali.

Ciò che ci rende vulnerabili è esattamente ciò per cui ci attaccano: la nostra libertà, di cui siamo custodi e praticanti imperfetti, ma consapevoli. La libertà dell'organizzazione della nostra vita, della sua combinazione con gli altri, della sottomissione spontanea alle leggi che ci siamo dati per regolare il nostro vivere sociale. Quei feriti di 34 Paesi falciati sulle Ramblas, testimoniano proprio questo, la libertà del movimento e della scelta, della vacanza e del lavoro, degli incontri e degli scambi, tutto ciò che fa di Barcellona - come di Roma, Parigi, Londra, Bruxelles e New York, dove tutto è cominciato con le Torri Gemelle - una città aperta, che guarda al mondo e sa ospitarlo nelle sue strade e nelle sue piazze, facendo mercato universale della sua storia, della cultura, dello stile di vita e dei suoi costumi.

Le Ramblas sfregiate a morte non sono dunque - non devono essere - una pura scena del delitto, un paesaggio inerte e indifferenziato. Sono espressione di un modo di vivere, parte del meccanismo quotidiano con cui la libertà si organizza in società, dopo essersi data norme, diritti, istituzioni. Noi dobbiamo dare un nome a questo spazio di quotidiana civiltà mondializzata, che l'Isis colpisce ipnotizzato proprio per marcare il suo particolarismo estremo, la sua irriducibilità, la radicalizzazione del suo rifiuto: solo così sarà possibile una lettura politica e non esclusivamente emotiva e sentimentale di quel che è accaduto e ancora accadrà. Il nome è quello della democrazia occidentale, di cui siamo cittadini infedeli e tuttavia testimoni inesauribili.

È questa la cifra civile che oggi è sotto attacco e che dobbiamo difendere, per difendere ciò che noi siamo: o almeno ciò che vorremmo essere.

© Riproduzione riservata 19 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/08/19/news/la_rambla_l_integrazione_che_dobbiamo_difendere-173355955/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L


Titolo: EZIO MAURO. Se la povertà è una colpa
Inserito da: Arlecchino - Agosto 26, 2017, 11:28:37 am
Se la povertà è una colpa
Il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine

Di EZIO MAURO
26 agosto 2017

Dai casi di cronaca, anche minimi, si ricava il segno dei tempi più che dai manifesti politici, proprio per la spontaneità degli eventi e la meccanica delle risposte da parte del potere pubblico e dell’opinione generale. In questo senso è difficile non trovare un collegamento emotivo, culturale e infine politico tra l’ultimo atteggiamento italiano nei confronti dei migranti sui barconi e le Ong di soccorso (criminalizzate in una vera e propria inversione morale) e lo sgombero degli abusivi dal palazzo nel centro di Roma, a colpi di idrante.

La questione di fondo è che la povertà sta diventando una colpa, introiettata nella coscienza collettiva e nel codice politico dominante, così come il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine. Unite insieme dalla realtà dei fatti e dal gigantismo della sua proiezione fantasmatica, povertà e immigrazione, colpa e peccato recintano gli esclusi, nuovi “banditi” della modernità, perché noi — i garantiti, gli inclusi — non vogliamo vederli mentre agitano nelle nostre città la primordialità radicale della loro pretesa di vivere.

Il fatto è che questi esseri umani ridotti a massa contabile, senza mai riuscire ad essere persone degne di una risposta umanitaria, e ancor meno cittadini portatori di diritti, sono improvvisamente diventati merce politica oltremodo appetibile, in un mercato dei partiti e dei leader stremato, asfittico, afasico. Impossibilitati a essere soggetto politico in proprio, si trovano di colpo trasformati in oggetto della politica altrui, che vede qui, sui loro corpi reali e simbolici, le sue scorciatoie alla ricerca del consenso perduto. Contro di loro si può agire con qualsiasi mezzo, meglio se esemplare. Senza terra e senza diritti, sono ormai senza diritto, i nuovi fuorilegge.

Ci sono due elementi che hanno determinato questo cortocircuito: il primo è il sentimento di incertezza e di smarrimento identitario che è cresciuto nella fascia più fragile, più periferica, più isolata e più anziana della nostra popolazione di fronte all’aumento dell’immigrazione nel Paese. Un sentimento di solitudine a casa propria, di perdita del legame collettivo di un’esperienza condivisa, e quindi di indebolimento comunitario: che è ormai mutato in risentimento, annaffiato e concimato per anni da una predicazione politica selvaggia e irresponsabile, che trae le sue fortune dalla paura dei cittadini più deboli, puntando a infragilirli ancora invece che a emanciparli.

Poi si è aggiunto il secondo elemento, psicopolitico. La sensazione che il mondo sia fuori controllo, che i fenomeni che ci sovrastano — crisi del lavoro, crisi economica, crisi internazionale con gli attacchi dell’Isis — non siano governabili, e che dunque il cittadino sia per la prima volta nella storia della modernità “scoperto” politicamente, non tutelato, nell’impossibilità di dare una forma collettiva alle sue angosce individuali, e nell’incapacità dei partiti, dei governi e degli Stati di trovare politiche che arrivino a toccare concretamente il modo di vivere degli individui che chiedono rappresentanza e non la trovano.

Stiamo assistendo semplicemente — e tragicamente — al contatto e all’incontro tra la domanda politica più spaventata e meno autonoma degli ultimi anni e un’offerta politica gregaria del senso comune dominante, opportunistica, indifferenziata. La prima chiede tutela quasi soltanto attraverso l’esclusione, il respingimento, il “bando”, accontentandosi di non vedere il fenomeno purché le città che abita siano ripulite e i banditi finiscano altrove, non importa dove.

L’altra asseconda gli istinti e rinuncia ai ragionamenti, sceneggiando prove di forza con i più deboli, alla ricerca di un lucro politico a breve, che mette fuori gioco ideali, storie, tradizioni, identità politiche, e cioè quella civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri che si vorrebbe difendere.

È chiaro che una risposta al sentimento-risentimento dei cittadini spaventati va data, ma la si può e la si deve cercare dentro un governo complessivo della globalizzazione, non privatizzando i diritti a nostro esclusivo vantaggio e usando la nostra libertà a danno degli altri, spinti sulle nostre sponde da un’angoscia di libertà estrema la cui posta è addirittura la sopravvivenza.

Siamo ancora in tempo per cercare insieme un pensiero democratico di governo che tuteli la libertà di tutti, unica vera garanzia politica: liberando la povertà dalla moderna colpa per restituirla alla dinamica sociale e sgravando il migrante di quel peccato collettivo che gli abbiamo caricato addosso, facendolo bersaglio di azioni “esemplari” che riempiono cinicamente il malgoverno delle città, il nullismo della politica.
 
© Riproduzione riservata 26 agosto 2017

DA - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/26/news/se_la_poverta_e_una_colpa-173873845/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EZIO MAURO. Ius soli, la politica senza autonomia
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2017, 06:24:19 pm
Ius soli, la politica senza autonomia
Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti

Di EZIO MAURO
14 settembre 2017

Dunque la legge sullo Ius soli non si farà. E così arriva a compimento, per questa fase, quello spostamento di opinione pubblica che lega ormai immigrazione paura e sicurezza, coltivato e concimato da mesi di predicazione dei partiti delle ruspe, senza che la sinistra sapesse opporre una visione diversa del fenomeno, basata sulla realtà dei fatti, mentre il centro rinuncia alla tradizione italiana del solidarismo cristiano, e i Cinquestelle rivelano qui più che mai la loro natura di ibrido politico, con una postura di sinistra e un’anima di destra.

Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti, gregarie, con la politica che rinuncia a ogni sua autonomia di giudizio, di indirizzo e di responsabilità rispetto al senso comune dominante.

Ci sono certo differenze di metodo, di linguaggio e di tono, nel panorama politico italiano. Ma non c’è una vera differenza culturale, un’opzione responsabile come quella di Angela Merkel, che guidi un’opinione disorientata invece di inseguirla, come se la politica fosse un fascio di foglie al vento.

Bisogna avere la pazienza di leggere dentro la paura, come fa Ilvo Diamanti. È la nuova cifra dell’epoca. Nasce con ogni evidenza dal passaggio di fase che stiamo vivendo, ben più ampio del fenomeno migratorio: una crisi economica che non è un tunnel da attraversare sperando di rimanere indenni, ma un agente sociale che modifica i percorsi individuali e collettivi, le gerarchie, persino i sentimenti (la nuovissima gelosia del welfare), deformando le aspettative di futuro. Una crisi del lavoro più lunga della bufera finanziaria, che per la prima volta produce in alto e in basso nelle generazioni una vera e propria esclusione sociale, vissuta come l’inedito di una mutilazione della cittadinanza.

Un terrorismo che ideologizza la religione riportando gli omicidi rituali nel cuore dell’Europa. Uno scarto tra la dimensione mondiale delle emergenze e lo strumento della politica nazionale, l’unico che il cittadino conosce e a cui è abituato a rivolgersi. Col risultato inevitabile di una crisi della democrazia che lascia scoperti i non garantiti, producendo vuoto nella rappresentanza, solitudine repubblicana, secessione individuale nell’altrove, che è un luogo frequentato ma immaginario della politica.

Tutto questo si riassume nel sentimento impaurito di perdita di controllo del mondo, di mancanza di ogni governo dei fenomeni. È un sentimento da fine d’epoca, quando si smarrisce la fiducia nella storia, si vive ipnotizzati dal male nel mondo, si rifiuta la conoscenza e si respinge la competenza perché si privilegia l’artificiale sul reale e si sceglie istintivamente ciò che è nocivo, come diceva Nietzsche, ci si lascia sedurre da motivazioni senza un fine, in un clima di precarietà comunitaria, crepuscolo politico e decadenza civile facilmente abitato da moderni mostri come la fobia dei vaccini, o da antichi incubi che tornano, come la bomba.

Proprio la fusione tra l’angoscia primordiale e il timore del contemporaneo genera la sensazione che stia venendo meno la stessa concezione di progresso, cioè il tentativo di controllare il divenire del mondo, di superare il limite regolandolo, suprema ambizione della modernità, scommessa costante della democrazia. Come se ci accorgessimo che tutta l’impalcatura culturale, istituzionale, politica, diplomatica inventata per tutelare il complesso sistema in cui viviamo non ci protegge più, perché il meccanismo gira a vuoto. La regola democratica non basta a se stessa.

Naturalmente il venir meno della politica ha una conseguenza evidente nel sociale. Il primo effetto dell’indebolimento di governo è l’autorizzazione spontanea a pensare ognuno a se stesso, liberi tutti. Si sta realizzando la profezia della Thatcher sulla società che non esiste, ma non attraverso l’affermazione dell’individuo, bensì col venir meno di ogni spontanea obbligazione di responsabilità generale, da cui nasce l’ultima forma di solitudine, con lo Stato e il cittadino indifferenti l’uno all’altro come una vecchia coppia in crisi, con ogni passione spenta. Ognuno sta solo sul suo pezzo di destino, esclusivamente individuale. In più il ricco per la prima volta può fare a meno del povero, che intanto è già diventato qualcos’altro in attesa di definizione, perché è finito fuori dalla scala sociale, da una autonoma condivisione d’orizzonte che teneva insieme i vincenti e gli sconfitti.

Alla fine, sotto i nostri occhi sta mutando lo stesso concetto di libertà, che si privatizza in un nuovo egoismo sociale: sono libero non in quanto sono nel pieno esercizio dei miei diritti di cittadino, ma al contrario sono libero semplicemente perché liberato da ogni dovere sociale, da ogni vincolo con gli altri, da ogni prospettiva comune, verso cui ciascuno può muoversi con le sue forze, i suoi meriti e le sue fortune, ma sapendo di non essere solo.

C’è da stupirsi che l’onda alta delle migrazioni, il ritardo multiculturale italiano, l’esposizione geografica del nostro Paese, l’indifferenza dell’Europa abbiano indirizzato verso i disperati dei barconi questo sentimento smarrito, trasformandolo immediatamente in risentimento? La paura cercava un bersaglio capace di riassumere l’indicibile e l’inconfessabile, cumulandoli. Lo “straniero”, il visitatore, il diverso sono già stati più volte al centro di costruzioni ideologiche, menzogne sociali, istinti trasformati in politica. In questo caso la persona ridotta a corpo, il corpo ridotto a ingombro, l’ingombro ridotto a numero, funzionano alla perfezione. Tutto diventa simbolico, fantasma sociale, incubo politico. La dimensione concreta del fenomeno, la sua governabilità su una scala europea e anche su una scala nazionale, non contano più nulla. Non si fa politica sui migranti, ma sulla loro proiezione simbolica, sul plusvalore prodotto dalla paura.

È chiaro che alle paure la politica deve rispondere, ma restituendo proporzioni corrette al fenomeno, cacciando i fantasmi con la realtà. E la sinistra deve farlo per prima, se è vero quel che diciamo da tempo e che oggi certifica Diamanti, e cioè che l’inquietudine cresce nelle zone più deboli del Paese e nelle parti più fragili della popolazione, con gli immigrati percepiti come un pericolo principalmente da chi ha un basso livello d’istruzione (il 26 per cento di “paura” in più di chi ha un livello alto), e probabilmente da chi vive solo, in piccoli centri, magari non è mai uscito dai confini del Paese e si trova un mondo rovesciato nei giardini sotto casa, senza gli strumenti per padroneggiarlo, senza la costruzione di un contesto dove sistemarlo e senza più la speranza di governarlo.

La paura, l’insicurezza non sono necessariamente un fattore di ordine pubblico: spesso in questi casi nascono dal timore della rottura dei fili comunitari di esperienze condivise, che basta per farti sentire risospinto ai margini in casa tua, spossessato, geloso del panorama civico abituale, dei riferimenti consolidati, del deposito di una tradizione comune: una piccola rottura della storia domestica. Su questo disorientamento bisogna chinarsi, raccoglierlo, trovare il bandolo di un percorso per uscirne, emancipando i penultimi dalla paura degli ultimi.

Questo è il modo per non lasciare alla destra le parole dell’ordine e della sicurezza, che sono di tutti, in uno Stato democratico. La sinistra ha un dovere in più, perché deve collegarle al concetto di solidarietà e di integrazione, che viene dalla sua storia, e risponde alla sua natura. Tenere insieme legalità e solidarietà, ordine e integrazione è l’unico modo concreto per garantire davvero sicurezza e combattere la paura. È anche il modo migliore per tutelare la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, invocata a vanvera. Perché era costruita con questi semplici strumenti, non con una ruspa.

© Riproduzione riservata 14 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/14/news/isul_soli_la_politica_senza_autonomia-175436643/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.6-T2


Titolo: EZIO MAURO. Di Maio e i dadi truccati dei grillini
Inserito da: Arlecchino - Settembre 24, 2017, 11:18:48 am
Di Maio e i dadi truccati dei grillini

Di EZIO MAURO
20 settembre 2017

UNA paura inconfessata del mondo si specchia nell'unica sicurezza in cui si arrocca il Movimento 5 Stelle nel momento in cui lancia l'assalto al cielo: la chiusura oligarchica in sé, con una superstizione settaria e una fiducia religiosa. Come Ratzinger, anche Grillo è convinto che " extra ecclesiam nulla salus", perché non c'è salvezza fuori dal sacro recinto. È singolare come questi due sentimenti siano intrecciati nel procedere del partito, dal "V-day" fino alla farsa autolesionista delle primarie prefabbricate che investiranno Di Maio con una corona giocattolo, da grandi magazzini. Un movimento nato in piazza, convinto di essere generato direttamente dal popolo, alternativo al sistema, ai suoi riti stanchi e alle procedure più logore, si mostra incapace di darsi un metodo di democrazia interna coerente con quanto predica all'esterno e con l'idea di rinnovamento che propone, talmente radicale che dovrebbe semmai rovesciare l'antico motto cristiano, cercando il cambiamento ovunque si manifesti e in qualsiasi forma: " Ubi salus, ibi ecclesia".

L'anomalia è congenita e connaturata, come il conflitto d'interessi per Berlusconi o il bullismo politico per Renzi. Nasce cioè dalla concezione di sé, non come parte ma come un diverso tutto, che non vuole conquistare il sistema ma pretende di soppiantarlo. Ciò comporta, necessariamente, l'abolizione di ogni distinzione, e cioè del libero criterio con cui si forma ogni giudizio politico, per incasellare la realtà dentro uno schema di comodo basato sul pregiudizio, che accomuna tutta la politica precedente alla transustanziazione del comico in leader, come un'era barbara da rigettare in blocco. Non importa che in questa lunga stagione costellata di errori e anche di colpe ci siano tradizioni, esperienze, filoni culturali, testimonianze e personalità che hanno costruito la miglior storia d'Italia, avvicinandola all'Europa. E non importa neppure che nella capacità di distinguere, ogni volta e in ogni circostanza, risieda l'esercizio della libertà intellettuale del cittadino: l'unica cosa che conta è ridurre la politica "altra" a fascio indistinto, insieme con le istituzioni marce e i riti repubblicani vuoti.

Deriva dunque dalla differenza, più che dalla proposta, l'autocandidatura grillina non all'alternativa ma alla sostituzione di sistema. Una differenza che si vive come antropologica, irridendo gli avversari e sbeffeggiandoli, che si presenta come metodologica (nel culto elettronico del sacro Graal che dovrebbe garantire trasparenza e invece la confisca), ma in realtà è profondamente ideologica. Non si tratta infatti di tornare agli ideali democratici su cui è nata la repubblica, ma di trasportare il sistema nell'altrove grillino dove una casta di puri sostituirà un meccanismo corrotto e inaugurerà finalmente l'era della grande semplificazione, banalizzando - come avviene quotidianamente in Campidoglio - i problemi e purtroppo le loro soluzioni. Solo un piccolo mondo nuovo, compatto, rigidamente controllato, impermeabile e autosufficiente può sostituire il grande vecchio mondo che non si può emendare, selezionare, discernere, ma soltanto mandare al macero in blocco.

Soltanto che la rigidità del meccanismo cozza contro l'elasticità della teoria. C'è un capo supremo che tutti riconoscono ma che nessuno ha eletto, con titoli aziendali, manageriali e religiosi ben più che politici: il "fondatore", il "capo politico", l'"elevato". Nessuno ovviamente disconosce il carisma di Grillo sui suoi adepti, e nemmeno l'istinto politico. Solo che lo statuto speciale che si è attribuito lo colloca in un luogo esterno al controllo, alla verifica, alla trasparenza, al metodo democratico che l'articolo 49 della Costituzione prescrive ai partiti, un luogo di permanente arbitrio e di totale insindacabilità, che lo rende nello stesso tempo responsabile finale di ogni cosa, e a piacere irresponsabile di tutto. Quando poi Davide Casaleggio scende nel campo politico e amministrativo incontrando sindaci e parlamentari, dirimendo conflitti, decidendo priorità e strategie, l'affare si complica perché la mancanza di ogni investitura democratica è in più distorta dall'elemento dinastico, come se si potesse ereditare il ruolo di co-fondatore, l'approccio imprenditoriale per regolare dall'alto la politica, le chiavi misteriose del caveau battezzato con sprezzo del pericolo Rousseau, che custodisce solo per gli iniziati i percorsi e i destini di tutti.

È evidente che tutto questo cozza con la predicazione della trasparenza, con il principio della democrazia diretta (anche con quella indiretta, a dire il vero), con lo streaming inflitto a Bersani, con il disvelamento di ogni meccanismo decisionale, con il rovesciamento dei vecchi metodi castali, che ancora resistono nei partiti e determinano in buona parte il successo del movimento. L'unico principio che regge alla prova dei fatti è il famoso "uno vale uno", ma rovesciato rispetto alla rivoluzione che prometteva: davvero conta sempre e soltanto quell'uno nascosto in alto, che ha potestà di nomina e di veto come i signori feudali, ben più di qualsiasi leader di ogni vecchio partito. Quelli, infatti, dichiarandosi di destra o di sinistra si impongono un vincolo politico-culturale, a cui devono in qualche modo rispondere, e in base al quale vengono giudicati, mentre qui ogni piroetta è lecita, nel nulla identitario. Quelli, in più, devono fare i conti con il libero gioco delle correnti, qui invece totalmente assenti come dimostrano le primarie addomesticate coi figuranti attorno a Di Maio, e il silenzio amaro dei dissidenti, che hanno paura del fulmine dall'alto, capace di incenerire ogni dissenso.

Le finte primarie sono dunque il risultato di un metodo, che è un'aperta trasgressione ai principi fondativi del movimento, una deformazione delle sue teorie, una falsificazione politica. La miseria politica degli altri partiti non giustifica affatto la clamorosa anomalia grillina. Chi non ha altra base culturale che la purezza e la trasparenza, nascendo ogni giorno dal seno del popolo per riporre proprio lì la virtù salvifica di ogni scelta, ha infatti il dovere politico della coerenza: se non nei programmi, che sono più complicati perché dipendono anche da variabili esterne, almeno nel metodo con cui costruisce il suo gruppo dirigente, la sua leadership, la sua struttura interna.

Abbiamo ripetuto molte volte e inutilmente, davanti ai periodici grovigli del Pd, che un moderno partito è forte se disarmato, è nuovo in quanto aperto, è democratico perché scalabile e contendibile. Vale per tutti, naturalmente. E invece proprio nei 5 Stelle c'è il timore non solo di ogni convergenza democratica nei parlamenti (dove pure non esiste per definizione una verità assoluta, ma tante verità parziali che si possono combinare in quel gioco che si chiama politica), ma anche di ogni contatto esterno per definizione "impuro", e adesso addirittura di ogni possibile contaminazione interna che scombini la scelta dell'oligarchia di vertice, blindata proprio mentre si convocano le primarie, con una contraddizione clamorosa. La prova del 9 è l'intolleranza per l'informazione proclamata direttamente da Grillo ieri davanti ai giornalisti, mentre l'uomo del cambiamento, Di Maio, si inchinava a baciare la teca di San Gennaro: "Vi mangerei, anche per il gusto di vomitarvi". Non fa ridere, qualcuno dovrebbe dirglielo. Per paura, tacciono gli oppositori interni. Per connivenza, stanno zitti gli intellettuali esterni, pronti a crocifiggere ad ogni passo la seconda repubblica, come se non si facesse male da sola. Quanto alla terza, non resta che aspettare la ribellione cibernetica di Rousseau, come un moderno Hal, per dichiarare il gigantesco "tilt" democratico di questa odissea spaziale coi dadi truccati.

© Riproduzione riservata 20 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/20/news/di_maio_e_i_dadi_truccati_dei_grillini-175977944/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L


Titolo: EZIO MAURO. Fiducia su legge elettorale, un colpo di mano
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 12, 2017, 06:03:31 pm
Fiducia su legge elettorale, un colpo di mano
Giunge a compimento nel modo peggiore una vicenda emblematica dell'impotenza dell'intero sistema politico: l'incapacità del Parlamento e dei partiti di trovare un'intesa alla luce del sole che doti il Paese di una regola elettorale non basata su furbizie contingenti e vantaggi di parte

Di EZIO MAURO
11 ottobre 2017

Non è un colpo di Stato, come urlano i grillini in piazza, ma questa decisione del governo di mettere la fiducia sulla legge elettorale è un colpo di mano: gravissimo per la materia delicata di cui tratta (una materia di garanzia per tutti) e per il momento in cui avviene, a pochi mesi dalle elezioni politiche.

Giunge così a compimento nel modo peggiore una vicenda emblematica dell'impotenza dell'intero sistema politico, e della vacuità della legislatura tutta intera, e cioè l'incapacità del Parlamento e dei partiti di trovare un'intesa alla luce del sole che doti il Paese di una regola elettorale non basata su furbizie contingenti e vantaggi di parte, ma su un meccanismo in grado di restituire ai cittadini la piena potestà di scegliere i loro rappresentanti, con una regola riconoscibile dagli elettori e riconosciuta dall'intero sistema, capace di durare nel tempo al di là dei calcoli miopi di breve periodo. Restituendo così al meccanismo della rappresentanza quella stabilità e quella neutralità che sono parte indispensabile della fiducia nella politica e nelle istituzioni, oggi perduta.

C'è una contraddizione logica nel chiamare indecentemente in causa nell'atto finale il governo che non è intervenuto nel percorso della riforma - Gentiloni lo aveva sempre escluso, dunque deve spiegare cosa l'ha convinto a cambiare idea - perché faccia scattare il lucchetto della fiducia, troncando il confronto parlamentare per paura delle imboscate nascoste nel voto segreto.

Proprio lo spettro dichiarato dei franchi tiratori, che agita questa legge elettorale come i fantasmi abitano i castelli d'Inghilterra, è la prova patente di quanto poco i partiti-padri di questa legge si fidino della sua capacità di convincere e coinvolgere i loro parlamentari, come capita ad ogni confisca di sovranità politica da parte dei vertici più ristretti.

C'è poi una contraddizione tutta politica, clamorosa e sotto gli occhi di tutti: cosa c'entra un patto di maggioranza (riconfermato e blindato a forza con il voto di fiducia) con un provvedimento che nasce trasversale, a cavallo tra gran parte dell'area di governo e una certa opposizione, anzi per dirla tutta da un'intesa tra il Pd e Forza Italia con il concorso interessato della Lega e del partitino di Alfano? In questo modo si svilisce anche l'istituto parlamentare e lo stesso voto di fiducia, uno dei momenti più significativi del rapporto tra il governo e le Camere: qui invece ridotto a puro espediente tecnico, dove non è in gioco la fiducia e nemmeno il governo, ma entrambi diventano puri strumenti servili di un consenso indotto e forzato, con la destra che esce dall'aula per far passare in un giorno pari la fiducia ad un governo a cui si oppone nei giorni dispari.

L'ultima contraddizione - in realtà la prima - è del Pd, il partito che regge la maggioranza, il governo e ha chiesto la fiducia. In epoca di crisi conclamata della rappresentanza, queste operazioni servono solo a testimoniare un arrocco di forze politiche spaventate per un'autotutela ad ogni costo, dando fiato
ai partiti antisistema che quanto più sono incapaci di produrre politica in proprio, tanto più ricevono forza dagli errori altrui. Avevamo sempre chiesto una legge elettorale: ma non a qualsiasi costo. Non con il capolavoro di un voto che sembra costruito apposta per creare sfiducia.

© Riproduzione riservata 11 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/11/news/un_colpo_di_mano-177932199/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2


Titolo: EZIO MAURO. La falsa ribellione
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2017, 11:51:00 am
La falsa ribellione

Più che la preoccupazione per la sicurezza di correntisti bancari e risparmiatori, nell'offensiva di Renzi contro il governatore di Bankitalia c'è un'evidente ansia da campagna elettorale

Di EZIO MAURO
21 ottobre 2017

C'È un'evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei risparmiatori, nell'offensiva di Matteo Renzi contro il governatore della Banca d'Italia Visco. Non c'è alcun dubbio che il tema del risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli istituti di salvaguardia del sistema. Quindi è comprensibile e persino doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro. Ma Bankitalia non è l'Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un'istituzione di garanzia nel tritacarne del vortice elettorale.

Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell'impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore.

Ma se si considera che questa miopia viene da lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov'era la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva? Soprattutto, l'interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque dell'interesse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente, che considerava il credito come un prolungamento della politica con altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e potere, e inseguendo il conflitto d'interessi certificato dallo slogan "abbiamo una banca", piuttosto che la cornice di garanzia costruita con l'obiettivo di poter dire "abbiamo una regola".

Se si apre il libro delle responsabilità - in ritardo, con tutti i buoi già scappati e nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori - il rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere. A partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si trasmette l'idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio appassito che appicca l'incendio a via Nazionale perché non riesce a spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo.

E qui nasce un'altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della stessa vicenda bancaria. Di fronte all'isolamento di cui ha parlato su Repubblica Stefano Folli, alla "biografia" civile di Bankitalia rievocata da Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce rottamatore, e non intende cambiare. Forse non si è accorto che in questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle loro azioni politico-programmatiche, viene da domandarsi quale sia l'universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo l'azione fisica all'azione politica.

Quando passa in rassegna il drappello d'onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale l'incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la sua vocazione politica. Renzi sembra fermo al ground zero della sua avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a fatica.

In questo ribellismo delle élite c'è la sciagurata illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua performance, in una sollecitazione perenne dell'elettorato contro nemici ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che proprio l'esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore trasformandolo in ricostruttore.

Resta una domanda: il Pd tutto questo lo sa? Ha mai discusso di questi temi? Ha mai chiesto al segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che resta l'unico segreto davvero custodito in Italia.

© Riproduzione riservata 21 ottobre 2017

Da -http://www.repubblica.it/politica/2017/10/21/news/la_falsa_ribellione-178877619/


Titolo: EZIO MAURO. La sinistra che non c'è
Inserito da: Arlecchino - Novembre 07, 2017, 11:49:38 am
La sinistra che non c'è
Arrivata esausta all'appuntamento con le urne in Sicilia, deve interrogarsi su cosa c'è di salvabile nella sua traduzione politica italiana dopo la sciagura della scissione che ha infranto il mito fondativo del Pd come casa di tutti i riformisti

Di EZIO MAURO
07 novembre 2017

PRIMA di sapere cosa succederà nel Pd dopo la disfatta siciliana, c'è una questione più rilevante e urgente a cui rispondere: cosa c'è di salvabile nel concetto di sinistra e nella sua traduzione politica e organizzativa italiana. La sinistra, o ciò che ne resta, è arrivata esausta all'appuntamento con le urne, con tutti i nodi non sciolti in questi anni che si sono aggrovigliati, fino a trascinarla a fondo. Il peccato originale di sedere a Palazzo Chigi senza mai aver vinto le elezioni ha determinato un pieno di responsabilità nella guida del Paese (negli anni più duri della crisi) e un vuoto nel coinvolgimento emotivo, come se quello del Pd fosse un "governo amico" e niente di più, fino al ministero Gentiloni vissuto come un puro dispositivo tecnico senza colore. La sciagura della scissione ha infranto il mito fondativo del Pd come casa di tutti i riformisti, con un concorso di irresponsabilità, gli scissionisti che la giudicavano inevitabile e Renzi che la considerava irrilevante, come se la politica non fosse stata inventata per governare i fenomeni. Il cozzo del referendum, con una riforma scritta male e trasformata in una guerra.

Il pasticcio della legge elettorale, con una sinistra che ha divorato il maggioritario e il proporzionale per varare una riforma che premia le coalizioni nel momento in cui non è mai stata così divisa e distante. All'inizio e alla fine di tutto, il problema irrisolto che raccoglie in sé tutti questi problemi e spiega gli errori: cos'è oggi la sinistra e qual è la sua idea di Paese.

In tutto l'Occidente, la divisione classica è tra la sinistra di governo, riformista, e quella di opposizione, radicale. Da noi l'eccezione: le sinistre riformiste sono almeno due, forse tre, anche se rischia di mancar loro il governo. Pisapia che si era proposto come ponte o rimorchiatore sembra aver ripiegato su un'idea di forza-cuscinetto insieme con Emma Bonino, caschi blu con buone intenzioni e pochi strumenti d'intervento. Sul campo restano le due parti rotte del Pd, incapaci di proporre una visione d'insieme e un vero progetto riformista, in cui si possano ritrovare le forze disperse che chiedono un progetto di cambiamento con una politica responsabile, europea, occidentale e moderna, accontentandosi di molto meno: Renzi di costruire un partito personale come macchina ubbidiente di conquista del potere (quasi che un secolo di storia della sinistra potesse ridursi a un obiettivo così misero) e Mdp di ostacolare tutto questo, proponendosi come organismo di puro veto al progetto renziano, come se la politica si esaurisse sulla piazza toscana di Rignano.

Questa disarticolazione degli orizzonti avviene mentre la crisi inaridisce di per sé i canali della rappresentanza, soverchia i cittadini facendoli sentire senza tutela e senza garanzie, svalorizza la politica come strumento di controllo e di governo, semina dubbi persino sulla democrazia come cornice di valori e di garanzie, che oggi suonano astratti, senza incidere sulla fatica della vita quotidiana delle persone. È una campana d'allarme per tutto il pensiero liberal-democratico occidentale, che dopo la fine della guerra ha dato vita alle costituzioni e alle istituzioni con cui ci siamo garantiti settant'anni di pace e di libertà. Ma è una campana a morto per la sinistra che nei settant'anni dentro l'ordine liberale del nostro mondo ha potuto farsi forza di governo del sistema, con un progetto di inclusione, e insieme sviluppare un suo pensiero critico e d'alternativa. Oggi invece vede l'alternativa nascere totalmente fuori dal sistema, con i populismi che criticano la stessa democrazia e berciano contro le istituzioni, mentre attaccano il cosmopolitismo, il libero scambio, la libertà di circolazione, le politiche di accoglienza, l'integrazione europea: tutto ciò che si muove, si contagia, si mescola, s'influenza, si somma, tutto ciò che forma l'habitat naturale della cultura progressista europea, a favore di un ritorno dentro i confini delle vecchie carte geografiche, dentro una mentalità da indigeni, dentro il colore bianco della pelle, a un passo dal mito del sangue.

Era chiaro che inseguire i populismi con posture mimetiche dal governo era una contraddizione, ma prima ancora un calcolo sbagliato. Perché la sinistra deve chinarsi - per prima - sulle inquietudini e sullo spaesamento democratico delle fasce più deboli della popolazione, ma non può cavalcare le loro paure, incrementandole come la merce politica più pregiata del momento. Rimane dunque una retorica innaturale di populismo in camicia bianca, ammiccante ma responsabile, alla fine velleitario, oltre che contro natura. La cifra dell'epoca, invece, avvantaggia la destra, abituata e legittimata a trattare il cittadino da individuo, nel suo isolamento e nelle sue nuovissime gelosie del welfare, in questo speciale egoismo della democrazia che chiede alla politica una forma inedita di libertà: non come piena espressione dei propri diritti ma come liberazione da vincoli sociali, soggezioni culturali, obblighi comunitari.

Tutto ciò forma una moderna onda di destra che con Trump prefigura l'inondazione prossima ventura delle terre emerse: dall'Onu, allo spazio di civiltà atlantica, alla Nato, al rapporto storico con l'Europa, col sovranismo che diventa isolazionista e mette al centro della politica il "forgotten man" non per emanciparlo, ma per dargli un riconoscimento antipolitico proprio nella sua esclusione. Una folla di esclusi come nuova massa sociale per la ribellione permanente, guidate dalla moderna élite di destra. Una destra contro la quale in questi anni il Pd non ha mai alzato nessuna barriera, non ha fatto nessuna polemica, non ha costruito un sistema culturale di anticorpi, coltivando a distanza l'eternità di Berlusconi come avversario-stampella. Che infatti oggi ritorna a riscuotere il banco, col conflitto d'interessi perennemente innestato, le sentenze dei magistrati che valgono per l'incandidabilità ma non vengono valutate politicamente, l'ambiguità connaturata nelle alleanze che gli impedirà di governare, ma che intanto adesso lo aiuta a vincere.

Bisognerebbe comprendere che la rottamazione è un escamotage fisico da campagna elettorale muscolare, ma non è una politica e tantomeno un'identità. Che il patrimonio di tradizioni e di valori del Pd è stato lasciato deperire in nome di un mitologico nuovo inizio che non è mai davvero incominciato, che la tensione per il cambiamento senza cambiamento si riduce a tensione, e basta. Che in mezzo a tante narrazioni è mancato il senso della storia, del passaggio tra le generazioni facendosi carico di un'esperienza collettiva, da innovare certamente ma da riconoscere e valorizzare. Che il sentimento di sinistra, a forza di non essere convocato e rappresentato si è infine "privatizzato", con le persone che non votano perché la loro identità politica non corrisponde più all'insieme. Oppure votano, ma per se stesse, come una conferma individuale staccata dal contesto.

Così la sinistra galleggia, alla deriva, mentre la destra galoppa, nelle sue diverse forme. Il primo leader che coniugasse responsabilità e generosità, mettendo questo orizzonte allarmante per il Paese al primo posto, aprirebbe la vera discussione di cui la sinistra oggi ha bisogno, e ne ricaverebbe le scelte necessarie. E invece con ogni probabilità si annuncerà tempesta, poi tutto si risolverà con un temporale per la spartizione dei posti in lista, nel bicchier d'acqua dov'è ormai ridotto il riformismo italiano.

© Riproduzione riservata 07 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/07/news/la_sinistra_che_non_c_e_-180446860/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S3.3-T1


Titolo: EZIO MAURO. Antisemitismo. Non possiamo dirci innocenti
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2020, 05:50:56 pm
Editoriale Antisemitismo

Antisemitismo. Non possiamo dirci innocenti
24 GENNAIO 2020

Stiamo scendendo nell'abisso. Dobbiamo cominciare a domandarci dove porta e quando si fermerà questa mutazione in corso del nostro Paese, che dopo aver travolto il linguaggio e la coscienza civica sta attaccando lo spirito di convivenza fino ad alterare il carattere collettivo degli italiani.

DI EZIO MAURO

Stiamo scendendo nell'abisso, senza sapere dove arriveremo, fino a quando cammineremo nel buio. Dobbiamo cominciare a domandarci dove porta e quando si fermerà questa mutazione in corso del nostro Paese, che dopo aver travolto il linguaggio e la coscienza civica sta attaccando lo spirito di convivenza fino ad alterare il carattere collettivo degli italiani, liberando forze sconosciute e inquietanti, in un'inversione morale della democrazia. Chi ignorava gli allarmi di questi ultimi anni, i richiami striscianti al fascismo, la ferocia del linguaggio, la brutalità della politica, e banalizzava ogni regressione azzerandone il significato, oggi si trova davanti un'immagine iconica dell'oscurità in cui stiamo precipitando.

Una stella di David e la scritta "Juden hier" (qui abita un ebreo) tracciate sulla porta di casa a Mondovì di Lidia Beccaria Rolfi, deportata a Ravensbrück perché staffetta partigiana, e nel campo testimone dell'Olocausto.
Guardiamo fino in fondo quel gesto. Qualcuno è uscito di casa nella notte come un ladro, con lo spray nero, con il proposito di imbrattare in anticipo il Giorno della Memoria, individuando come bersaglio una vittima del nazismo e scegliendo un rituale fascista, per replicarlo nel 2020, in un Paese democratico, nel cuore dell'Europa e in mezzo all'Occidente. Qualcuno tra i minimizzatori dirà adesso che si tratta di un gesto isolato: e ci mancherebbe altro. Ma la verità è che il contesto italiano rende plausibile quell'atto, certamente estremo e tuttavia non incoerente con il clima sociale, politico e culturale, di cui segna anzi il tracciato, spingendosi fino al confine. Si tratta dunque di leggere con attenzione i segni evidenti di questa trasformazione in corso.

Il cittadino privato che s'incarica di regolare conti pubblici secondo lui rimasti in sospeso nella storia, agisce infatti nel momento in cui sente che sono saltati alcuni interdetti costruiti nel tempo dalla democrazia, dal costume occidentale, dalla civiltà giudaico-cristiana, dalla cultura giuridica. Avverte che si è rotta la storia, come patrimonio condiviso del Paese, come pedagogia della conoscenza e come istruzione per la libertà. Soprattutto sente che è venuto meno il legame sociale, il vincolo civico che crea uno scambio implicito di responsabilità tra i cittadini, nella vicenda repubblicana comune. Si sente fuori da quel vincolo, e nello stesso tempo sciolto da ogni obbligo. Libero di varcare il limite, cioè autorizzato a farlo.

C'è dunque un'esemplarità rivolta al pubblico, in quel gesto, qualcosa di rituale, quasi un appello pagano. Come se la scritta dicesse: siamo fuori dalla storia e dalla società, siamo liberi non perché possiamo esprimere al meglio le nostre facoltà ma al contrario perché liberati da ogni dovere e da qualsiasi soggezione morale, da qualunque obbligazione democratica; possiamo dunque liberare con noi i nostri demoni, segnare con la vernice il nuovo punto che congiunge passato e futuro, segnalarlo: un giorno si arriverà fin qui.

È un passaggio cruciale, perché in esso la persona si spoglia della responsabilità sociale di cittadino per tornare individuo, e l'individuo rinuncia al codice della convivenza costruito dai suoi padri per ritornare in un territorio neutro, primordiale, dunque sgombro da ogni tabù democratico. Qui - è il posto giusto - si recuperano gli stilemi fascisti. Ma il fascismo è soprattutto nell'azione che mettendosi in scena si propone come forma estrema della semplificazione antipolitica e populista della complessità contemporanea.

A questo punto la teoria non è necessaria, basta l'evocazione simbolica della vernice: il gesto esemplare nella sua radicalità spiega se stesso mentre si compie.

C'è in più la privatizzazione della storia, la sua distorsione consapevole, nel rifiuto ostinato di ogni sua lezione perché da quella lezione tragica è nata la ripulsa del fascismo, della guerra, della dittatura, delle leggi razziali: e tutto questo va azzerato nel gesto che mentre replica le parole d'ordine dell'orrore che abbiamo vissuto, azzera la vicenda repubblicana, nella consapevolezza che la sua fonte di legittimità morale è proprio in quella Resistenza che ha combattuto il fascismo. Una negazione della realtà, la scelta di una realtà parallela che scende in strada di notte nel silenzio di una città piemontese di provincia, stravolgendo nella radicalità dell'offesa una tranquilla tradizione di moderazione democristiana, a conferma della mutazione in corso.

Poi c'è il bersaglio di questa violenza. Poiché il rifiuto della storia produce ignoranza, hanno individuato la casa di una deportata nei campi nazisti, e l'hanno automaticamente definita ebrea, mentre Lidia Beccaria Rolfi era stata internata come partigiana. Ma l'errore è rivelatore dell'ossessione: dal vortice feroce del neo-razzismo italiano, dalla xenofobia coltivata nella paura, dall'etnocentrismo usato come arma politica, rispunta l'ossessione eterna dell'ebreo. Ancora oggi, e nuovamente, e nonostante tutto.

Anche se siamo colpevoli, oltre che consapevoli, non riusciamo a essere vaccinati, non possiamo dirci innocenti. È come se in questa riemersione a dispetto della storia l'ebreo fosse il punto supremo in cui si raccolgono, si potenziano e si esaltano tutte le pulsioni contro lo straniero, contro l'immigrato, contro l'ospite abusivo, contro il clandestino. Non importa che si tratti di italiani. L'identità ebraica è prevalente e il concetto di razza, sconfitto scientificamente, ritorna proprio sul piano identitario, culturale. Come il migrante, l'ebreo è l'emblema che il neo-razzismo trasforma in bersaglio: uno è oggetto di politiche discriminatorie, l'altro di marchiature simboliche.

La persona-simbolo che è stata oltraggiata a Mondovì aveva rivelato per prima, dopo la liberazione da Ravensbrück, la tragedia delle donne nei campi di concentramento, in una testimonianza parallela a quella di Primo Levi. La strada dove abitava oggi porta il suo nome. I fascisti hanno scelto quel nome, e quell'indirizzo. Sono arrivati fin lì, hanno individuato la casa, e hanno creduto con la loro scritta di ribaltare la storia. Hanno invece segnalato l'orlo del precipizio, dietro la porta malferma del Paese.

L'ex deportato Taussig: "Torno ad Auschwitz 75 anni dopo l’orrore perché non succeda ancora"
Antisemitismo, la commissaria Santerini: "Multe salate per il razzismo sul web"

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/editoriale/2020/01/24/news/antisemitismo_ebrei_lager_deportati_neonazisti_non_possiamo_dirci_innocenti-246620414/?ref=RHPPLF-BH-I246632482-C8-P5-S1.8-T2&fbclid=IwAR2oUGtfzlppP1YaKzA5tYZPyfBTuKgvPBPJp1cOQlBcEkPTBarhaqEJWV0


Titolo: EZIO MAURO. Il fiammifero di Trump
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2020, 06:13:50 pm
Il fiammifero di Trump | Rep

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Arlecchino Euristico
12:16 (5 ore fa)
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https://rep.repubblica.it/pwa/editoriale/2020/11/05/news/ezio_mauro-273263939/

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Titolo: EZIO MAURO. L’avamposto delle città
Inserito da: Arlecchino - Novembre 10, 2020, 10:50:28 pm

L’avamposto delle città | Rep

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ggiannig <ggianni41@gmail.com>
ven 23 ott, 10:54
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https://rep.repubblica.it/pwa/editoriale/2020/10/22/news/l_avamposto_delle_citta_-271506467/