LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTRICI e OPINIONISTE. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 17, 2012, 04:22:40 pm



Titolo: Elisabetta GUALMINI
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 04:22:40 pm
Editoriali
16/10/2012

La salvezza da chi non vive solo di politica

Elisabetta Gualmini*


Quando si arriva al crepuscolo, gli incubi e i segni si ripetono, ma non del tutti uguali a se stessi. La sindrome che ha portato alla fine della Seconda Repubblica assomiglia implacabile a quella che tracciò l’epilogo della Prima. Eppure ha aspetti sottilmente diversi.  

 

Il diluvio di monete lanciate davanti al Raphaël, i riti di degradazione +dei potenti nei processi, gli arresti cautelari usati come reti a strascico e il tifo per gli inquirenti che le lanciavano ebbero i tratti di un combattimento furioso e aggressivo, verso balene e altri pesci alla deriva. Oggi la riprovazione per la classe politica è altrettanto profonda, ma più diffusa e disincantata. Come allora, la crisi economica e il necessario aumento della pressione fiscale per far fronte a debiti pregressi sono benzina sul fuoco dello scontento. Ma una recessione economica troppo lunga, destinata a lasciare macerie e detriti per diversi anni, oggi rende ancora più odiosa ai cittadini la deriva democratica a cui stiamo assistendo.  

 

Là l’agonia di partiti e di un ceto politico nazionale che, pur travolti da scandali e tangenti, riflettevano ancora un loro distinto profilo ideologico, e rivendicavano di avere commesso «irregolarità» in nome di una qualche «missione». Come non ricordare, la dura autodifesa di Bettino Craxi, in un’aula gremita e silente a Montecitorio, che con la furia del leone ferito si ostinava a spiegare le necessità finanziarie della sua terza via, tra i mastodonti comunista e democristiano, chiamati in correità. O lo smarrimento di Arnaldo Forlani che sembra chiedersi e chiedere «come è potuto capitare a me?» interrogato al processo sulle tangenti Enimont, o ancora il fiero atteggiamento eretto a mito da «non tradisco il Partito e i compagni» di Primo Greganti. Qui lo sbriciolamento di strutture dall’identità più incerta, spesso nelle mani di leader-padroni (come nel forzaleghismo) e avventurieri di borgata. E soprattutto il collasso dei governi regionali. Consigli e giunte a briglie sciolte, che gestiscono flussi incontrollati di risorse. Amministratori dei tesoretti di partito che trasformano i soldi dei contribuenti in case private, lauree farlocche, viaggi esotici e ostriche. In spregio a qualsiasi principio di legalità. Fenomenologia di una politica bulimica e sbracata. Fenomenologia di Batman, pinguedine del corpo che diventa pinguedine della politica. Proprio l’ente che avrebbe dovuto fare meglio del centralismo romano, perché più vicino al territorio, più in grado di intercettare bisogni ed esigenze. Ente che tuttavia ha rivelato fin da subito la sua debolezza. Con burocrazie costose, duplicato di quelle nazionali, con un personale addestrato a seguire liturgie amministrative piuttosto che a risolvere problemi, e un ceto politico che le ricerche ci dicono in larga parte introverso, che ha conquistato un posto al sole a fine carriera.  

 

D’altro canto, come allora, nella riprovazione generalizzata, rischiano di rimanere travolti anche quei virtuosi che, magari remando controcorrente, al centro e in periferia, hanno cercato di fermare il declino e ristabilire la dignità della politica. Il rischio vero è che un clima di questo tipo scoraggi quei pochi o tanti virtuosi fino ad ora disponibili ad impegnarsi, e produca una selezione della classe politica ancora peggiore.

 

E non sarà certamente l’esibizione di un altro corpo, quello del Grillo nuotatore messianico nello stretto di Messina a salvarci. Non sarà nemmeno la «supplenza dei tecnici», benché il governo Monti ci abbia tirati fuori dal baratro. L’ancora di salvataggio può essere solo l’entrata in campo di una classe politica veramente responsabile, che weberianamente vive, a tempo determinato, per la politica, ma non di politica per tutta la vita. Agli inizi degli Anni Novanta la parola tornò ai cittadini con la spallata referendaria di cui Mario Segni fu l’icona sull’abolizione delle preferenze, l’avvento del collegio uninominale e la promessa reinvenzione dei partiti attraverso le primarie, tentata da alcuni, ma mai veramente mantenuta. Oggi ancora ai cittadini bisogna tornare. Per reinventare i partiti con leader nuovi. Senza i quali - partiti e leader - la democrazia, semplicemente, non sta in piedi.  

 

*Elisabetta Gualmini, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna e presidente dell’Istituto Carlo Cattaneo, comincia oggi la collaborazione con «La Stampa»  

da - http://lastampa.it/2012/10/16/cultura/opinioni/editoriali/la-salvezza-da-chi-non-vive-solo-di-politica-z7KKRRWSpFwRxFZDVzFhbI/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. Gli alieni alla prova del voto
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2012, 05:46:59 pm
Editoriali
09/11/2012

Gli alieni alla prova del voto

Elisabetta Gualmini


La politica italiana pare si appresti a mandare in scena, alle prossime elezioni, uno dei suoi più vistosi paradossi. 

 

Al punto più basso di legittimazione delle istituzioni e di fronte alla crisi economica più acuta dal dopoguerra, lo scenario potrebbe infittirsi di soggetti «alieni». 

 

Cioè di soggetti privi di esperienza nell’arte del governo, che è fatta di norma, e in eguale misura, della capacità di suscitare speranze e raccogliere consenso, da un lato, e di adottare decisioni tecnicamente robuste, dall’altro. La politica italiana promette invece d’essere sempre di più popolata da un lato da “tecnici” inadatti a cercare consenso (molti degli attuali ministri hanno spesso rivendicato questa attitudine), dall’altro dai “dilettanti” del Movimento 5 stelle, ancora non contaminati dall’usura del potere, ma pure mai messi veramente alla prova nell’attività di governo. In mezzo, poco. Nel centro-destra, partiti politici che camminano sulle sabbie mobili e che stentano a ritrovare l’identità smarrita, nel centro-sinistra un Pd che si è salvato per ora in calcio d’angolo, grazie alle primarie. 

 

Non vi è nulla di male né nel tecnico né nel dilettante. Tutti e due il prodotto di una politica debole. E tutti e due pronti a sferrarle l’attacco finale, dalla zona Centro per i ministri di Monti e dalla trincea anti-antiestablishment per gli attivisti 5 stelle. I primi sono abituati a risolvere problemi complessi, nei loro studi. Sono spesso professori universitari, visto che manca nel nostro Paese una qualunque altra istituzione dedicata alla selezione della classe dirigente. I professori arrivati al capezzale della politica hanno potuto decidere fino ad ora senza dover raccogliere consenso tra gli elettori né sottostare ai veti dei partiti. Non sarà sempre così, anzi. Dovranno vedersela, alle elezioni e in Parlamento, con il loro diretto contraltare: i dilettanti a 5 stelle. 

Avendone intervistati diversi, ogni volta torno convintamente sull’impressione originaria. Lontanissimi dall’immagine del leader-padrone, volenterosi ed educati, hanno un po’ tutti l’aria del geometra trentenne che sa come si aggiustano le mensole di casa senza sporcare. Nessuna spocchia da professore, nessuno sproloquio da funzionario giovane-vecchio che replica le dottrine dei tempi che furono. Ci fanno vedere uno spicchio di società che da tempo era rimasto inascoltato e che ha trovato un veicolo agibile su cui salire. Alcuni lo raccontano senza giri di parole: “Sono andato a un’assemblea del Pd ed erano tutti vecchi. Non decidevano niente e si chiamavano “compagni”. A me dava fastidio”. 

 

D’altro canto Grillo non ha mai nascosto di preferire l’inesperienza tra i suoi sottoposti. La giustificazione pubblica è che chiunque sia in grado di fare meglio del politico navigato. Un argomento già sentito: da Andrew Jackson negli Stati Uniti (le funzioni pubbliche sono talmente semplici che chiunque è in grado di svolgerle) alla cuoca di Lenin (che avrebbe potuto diventare Capo dello Stato), al Qualunquismo di casa nostra (per Giannini ai cittadini servivano solo ragionieri e non politici per essere amministrati). Con Grillo il dilettantismo è eretto a sistema, se si considera il criterio annunciato per le candidature nazionali. Entreranno nelle liste solo gli attivisti già candidati in elezioni locali che non sono stati eletti. Insomma, i “trombati”, come i grillini avrebbero detto per candidati di un altro partito non eletti e poi nominati in qualche ente pubblico. Una selezione alla rovescia che però garantisce al capo-popolo esecutori disciplinati e fedeli. 

 

Tra i professori e i dilettanti, la politica annaspa. Quella grande, alta ed efficace, che collega visione, decisione e consenso fa fatica ad emergere. La politica alta richiede conoscenza ed esperienza, passione e abitudine a sviscerare questioni complesse, oltre che la capacità di comunicare un progetto. Come ha dimostrato Obama. Lo ha detto nel discorso successivo alla vittoria. L’aspetto più affascinante della competizione politica è ispirare e unire larghe fasce di una società divisa intorno a un progetto di cambiamento. “È questo ciò che la politica può fare ed ecco perché le sfide elettorali contano. It’s not small, it’s big. It’s important”. Quella politica che a noi ancora manca.

 

twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/09/cultura/opinioni/editoriali/gli-alieni-alla-prova-del-voto-JQeYOoJ4HMdqgwksMK09HN/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. Gli scontri in piazza. Se la rete familiare non regge più
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2012, 03:25:01 pm
Editoriali
16/11/2012 - gli scontri in piazza

Se la rete familiare non regge più

Elisabetta Gualmini

Questa volta non si tratta dell’annosa e arcinota questione giovanile. Dietro alle proteste e alle violente manifestazioni di piazza di ieri l’altro, in tante città italiane, c’è un’altra storia. Un cambiamento che colpisce tutta la società italiana, senza andare per il sottile, e che crea faglie sismiche tra generazioni, classi professionali, categorie con diversi tipi e livelli di istruzione. Il modello familistico è definitivamente finito. 

 

Le reti familiari di protezione sociale, rifugio di ultima istanza per intere generazioni di figli e di anziani non ancora o non più attivi, non sono più sufficienti per tappare i buchi di un welfare pubblico prosciugato, di un mercato del lavoro asfittico e di imprese in ginocchio. Basta guardare alle differenze tra la prima fase recessiva della crisi in corso (2007-2009) e la seconda. Dal 2010 in poi, non abbiamo solo perso di posti di lavoro (non solo tra i giovani); c’è stato anche un aumento imponente dell’offerta di lavoro, cioè del numero di persone disponibili a cercare un impiego. Lo spiega bene Stefania Tomasini nell’ultimo numero della rivista «Il Mulino» (5/2012). Sono per lo più le donne e le fasce di lavoratori più anziani (55-64 anni) che dopo essere rimasti ai margini del mondo produttivo, perché scoraggiati, si vedono «costretti» ad entrarci di nuovo per compensare la fragilità finanziaria della propria famiglia. A fronte della perdita o della riduzione del reddito di un familiare, donne, giovani e lavoratori anziani si (ri)mettono in gioco, per spirito di sopravvivenza, accentuando la competizione al ribasso con i propri figli e i figli degli altri, con i propri coniugi e i coniugi degli altri. 

 

L’esplosione numerica di questi «lavoratori addizionali» è sorprendente: dall’estate 2011 all’estate 2012 quasi 800 mila persone in più si sono riversate nel mercato produttivo, disposte a tutto pur di acchiappare prima degli altri un brandello di lavoro. 

 

Cosicché, i ragazzi scesi in piazza ieri, gli adolescenti e i ventenni che urlavano contro la globalizzazione dei mercati e delle banche, contro l’austerità e i tagli alla scuola, se guardano avanti vedono ben poca luce (semmai uno slalom sfinente tra lavori e lavoretti con un punto di approdo su cui cala una nebbia sempre più fitta).

Ma, se guardano indietro, vedono madri e padri spesso già entrati, essi stessi, nella medesima sindrome falcidiante del precariato, dell’intermittenza del reddito e del deterioramento delle condizioni di vita.

 

I dati Istat più recenti (2012) ci dicono che le aree del non lavoro e della precarietà non sono più dei tabù per gli adulti. Il tasso di disoccupazione della classe di età 45-54 è salito dal 4,5 nel 2010 al 6,7% nel 2012; stessa dinamica per i lavoratori più anziani (55-64), con un salto dal 3,5 al 5% nello stesso periodo. Considerando infine i lavoratori atipici sopra i 34 anni, si scopre come la quota dei 45-54enni e degli over 55 stia crescendo ininterrottamente negli ultimi due anni. 

 

Se si ricompone il puzzle, la scena è quella di una guerra tra poveri, all’interno delle stesse famiglie. Con relazioni sociali scassate che sarà difficile ricucire. Un contrappasso che brucia come la febbre in un Paese in cui il familismo ovattato, nel bene e nel male, è stato il più grande strumento di ammortizzazione e coesione sociale. E da qualunque punto di vista si guardi al problema non esistono soluzioni facili. Né tantomeno immediate.

 

Ed è stato ingeneroso il no a correnti unificate da parte dei candidati alle primarie alla riforma Fornero, certamente perfettibile (sull’applicazione dell’articolo 18 in primis), ma che ha osato laddove nessuno sinora lo aveva fatto (ad esempio riordinando gli ammortizzatori sociali ed estendendone la copertura).

 

Piuttosto, per essere onesti, chi si candida a governare il Paese dovrebbe dire a quali facili promesse rinuncia e quali invece pensa di poter concretamente onorare. In un clima di disagio asfissiante e generalizzato.

Dicendo la verità e indicando una direzione nuova non solo, necessariamente, lastricata di sacrifici. Sia ben chiaro che l’invasione delle piazze di ieri l’altro non era una domanda di meno politica, ma era una domanda di più politica. A questa domanda qualcuno deve saper rispondere. 

 

twitter@gualminielis 

http://lastampa.it/2012/11/16/cultura/opinioni/editoriali/se-la-rete-familiare-non-regge-piu-m1MyLUjG1TzuzBRJjXIn0J/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. Se la rete familiare non regge più
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2012, 09:15:52 pm
Editoriali
16/11/2012 - gli scontri in piazza

Se la rete familiare non regge più

Elisabetta Gualmini

Questa volta non si tratta dell’annosa e arcinota questione giovanile. Dietro alle proteste e alle violente manifestazioni di piazza di ieri l’altro, in tante città italiane, c’è un’altra storia. Un cambiamento che colpisce tutta la società italiana, senza andare per il sottile, e che crea faglie sismiche tra generazioni, classi professionali, categorie con diversi tipi e livelli di istruzione. Il modello familistico è definitivamente finito. 

Le reti familiari di protezione sociale, rifugio di ultima istanza per intere generazioni di figli e di anziani non ancora o non più attivi, non sono più sufficienti per tappare i buchi di un welfare pubblico prosciugato, di un mercato del lavoro asfittico e di imprese in ginocchio. Basta guardare alle differenze tra la prima fase recessiva della crisi in corso (2007-2009) e la seconda. Dal 2010 in poi, non abbiamo solo perso di posti di lavoro (non solo tra i giovani); c’è stato anche un aumento imponente dell’offerta di lavoro, cioè del numero di persone disponibili a cercare un impiego. Lo spiega bene Stefania Tomasini nell’ultimo numero della rivista «Il Mulino» (5/2012). Sono per lo più le donne e le fasce di lavoratori più anziani (55-64 anni) che dopo essere rimasti ai margini del mondo produttivo, perché scoraggiati, si vedono «costretti» ad entrarci di nuovo per compensare la fragilità finanziaria della propria famiglia. A fronte della perdita o della riduzione del reddito di un familiare, donne, giovani e lavoratori anziani si (ri)mettono in gioco, per spirito di sopravvivenza, accentuando la competizione al ribasso con i propri figli e i figli degli altri, con i propri coniugi e i coniugi degli altri. 

L’esplosione numerica di questi «lavoratori addizionali» è sorprendente: dall’estate 2011 all’estate 2012 quasi 800 mila persone in più si sono riversate nel mercato produttivo, disposte a tutto pur di acchiappare prima degli altri un brandello di lavoro. 

Cosicché, i ragazzi scesi in piazza ieri, gli adolescenti e i ventenni che urlavano contro la globalizzazione dei mercati e delle banche, contro l’austerità e i tagli alla scuola, se guardano avanti vedono ben poca luce (semmai uno slalom sfinente tra lavori e lavoretti con un punto di approdo su cui cala una nebbia sempre più fitta).

Ma, se guardano indietro, vedono madri e padri spesso già entrati, essi stessi, nella medesima sindrome falcidiante del precariato, dell’intermittenza del reddito e del deterioramento delle condizioni di vita.

I dati Istat più recenti (2012) ci dicono che le aree del non lavoro e della precarietà non sono più dei tabù per gli adulti. Il tasso di disoccupazione della classe di età 45-54 è salito dal 4,5 nel 2010 al 6,7% nel 2012; stessa dinamica per i lavoratori più anziani (55-64), con un salto dal 3,5 al 5% nello stesso periodo. Considerando infine i lavoratori atipici sopra i 34 anni, si scopre come la quota dei 45-54enni e degli over 55 stia crescendo ininterrottamente negli ultimi due anni. 

Se si ricompone il puzzle, la scena è quella di una guerra tra poveri, all’interno delle stesse famiglie. Con relazioni sociali scassate che sarà difficile ricucire. Un contrappasso che brucia come la febbre in un Paese in cui il familismo ovattato, nel bene e nel male, è stato il più grande strumento di ammortizzazione e coesione sociale. E da qualunque punto di vista si guardi al problema non esistono soluzioni facili. Né tantomeno immediate.

Ed è stato ingeneroso il no a correnti unificate da parte dei candidati alle primarie alla riforma Fornero, certamente perfettibile (sull’applicazione dell’articolo 18 in primis), ma che ha osato laddove nessuno sinora lo aveva fatto (ad esempio riordinando gli ammortizzatori sociali ed estendendone la copertura).

Piuttosto, per essere onesti, chi si candida a governare il Paese dovrebbe dire a quali facili promesse rinuncia e quali invece pensa di poter concretamente onorare.
In un clima di disagio asfissiante e generalizzato.

Dicendo la verità e indicando una direzione nuova non solo, necessariamente, lastricata di sacrifici. Sia ben chiaro che l’invasione delle piazze di ieri l’altro non era una domanda di meno politica, ma era una domanda di più politica. A questa domanda qualcuno deve saper rispondere. 

 

twitter@gualminielis 

http://lastampa.it/2012/11/16/cultura/opinioni/editoriali/se-la-rete-familiare-non-regge-piu-m1MyLUjG1TzuzBRJjXIn0J/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. - Una scossa alla democrazia
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2012, 05:12:56 pm
editoriali
20/11/2012

Una scossa alla democrazia

Elisabetta Gualmini

Per una singolare coincidenza, nella Settimana europea per la riduzione dei rifiuti l’eco-rivolta contro il pirogassificatore in Val d’Aosta ha incassato un successo incontestabile. Primo referendum propositivo in Italia che passa il vaglio del quorum. Giocare anche questa volta la carta Nimby, e cioè del cittadino che non vuole che nulla tocchi il proprio cortile, scaricando così le colpe sull’egoismo di comunità locali con i paraocchi, attente solo al proprio tornaconto, è riduttivo. E non è nemmeno utile aggrapparsi alla contrapposizione, trita e ritrita di questi tempi, tra popolo e democrazia, tra la furia di una protesta sconclusionata e irrazionale (su cui anche Grillo ha impartito sul filo di lana la sua apostolica benedizione) e istituzioni della rappresentanza che soprattutto a livello locale hanno abbracciato con convinzione la causa della prossimità ai cittadini. Il no forte e chiaro all’inceneritore rende ancora più bruciante la lacerazione tra cittadini e partiti, ma lo fa sulla base di motivazioni nuove. 

 

Sulla base cioè di una mobilitazione «cognitiva», fatta di cittadini sempre più informati, o che comunque presumono di esserlo, e meno disponibili a farsela raccontare, quanto meno dai politici. Le aspettative nei confronti della democrazia sono cresciute, grazie alla diffusione virale delle conoscenze, messe immediatamente (cioè in fretta e senza la mediazione di esperti allenati a sollecitare dubbi) a disposizione della protesta. Si tratta della «politicizzazione della scienza», come ci raccontano gli studi più recenti sui conflitti ambientali, ovvero della tendenza a creare forme di espressione politica intorno alla diffusione di saperi e competenze scientifiche, più o meno solide. 

 

I temi ambientali e sanitari sono quelli in cui non solo la percezione del rischio è più immediata, ma in cui sono ormai a disposizione di molti conoscenze apparentemente non aleatorie su vantaggi e svantaggi delle decisioni. Sia in Val d’Aosta che nel caso dei Comitati contro l’inceneritore a Parma, fisici, climatologi, ingegneri e medici hanno costruito la cornice dentro cui è lievitata la protesta. Sventolando la bandiera post-ideologica e «pigliatutti» della tutela alla salute. I Comitati sorgono in maniera spontanea, ma poi si informano e si confrontano, scansando come la peste le lungaggini e le liturgie della politica di cui non si fidano più, e si mettono nelle mani di professionisti considerati esperti e quindi più credibili. Cosicché, paradossalmente, il «professionista privato» diventa interprete più credibile del «bene comune», rispetto al politico, che invece dovrebbe fare questo per mestiere. Si ripropone a poco più di un anno, uno schema simile a quello dei Comitati per l’acqua pubblica e contro il nucleare. Aggregazioni che nascono fuori dalla politica, che si insinuano a rapidità di byte nella rete, e producono esiti che catapultano i partiti in una fase di micidiale straniamento. 

 

In un paese orfano di grandi ideologie, i cittadini costruiscono un nuovo «immaginario scientifico-politico» sulla base di una presunzione di conoscenza più diffusa rispetto al passato. Ritirano la delega anche ai partiti che governano sotto casa, e non certo dalle stanze lontane e ieratiche dei palazzi romani. 

 

Certo, i movimenti ci sono sempre stati. E il rischio da evitare è quello di credere che non debba esservi una sintesi tra le domande gettate sul piatto dell’agenda politica e la traduzione in soluzioni concrete. O di cedere al mito romantico della volontà popolare che – senza slabbrature – si riflette integra nelle decisioni pubbliche. La strada indicata dalla consultazione è chiara: scegliere una soluzione alternativa all’interno della «Gerarchia dei rifiuti» indicata dalla Commissione europea, che contenga però il sigillo della fattibilità.
 
L’occasione è propizia. Il referendum propositivo introdotto come vaccino al morbo della disaffezione politica, anche da quei politici che poi hanno (incredibilmente) invitato i cittadini a stare a casa, ha dato una ulteriore scossa alla democrazia. Meglio rimediare subito all’auto-goal, guardarsi in faccia tra vincitori e perdenti e costruire un nuovo consenso.


twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/20/cultura/opinioni/editoriali/una-scossa-alla-democrazia-PA6mzTqwPWEarF4xd8T4AN/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI Una sintesi per i due popoli delle primarie
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2012, 12:14:46 pm
Editoriali
04/12/2012

Una sintesi per i due popoli delle primarie

Elisabetta Gualmini

Pierluigi Bersani ha vinto le primarie del centro-sinistra. Ha avuto ragione a ritenere - al di là di qualsiasi norma statutaria - che sottomettersi al vaglio dei cittadini e a un bagno di partecipazione popolare, negli anni bui che la politica sta attraversando, gli avrebbe portato più vantaggi che rischi. Spetta a lui ora traghettare il centro-sinistra verso la prova del governo, con i tempi corti e micidiali di un paese in perenne stato di emergenza. 

 

Matteo Renzi ha perso, stavolta, ma ha aggregato una componente «democratica» del tutto nuova, che include sia precedenti sostenitori del Pd sia nuovi arrivati, alcuni già pronti a tornare verso i molteplici rivoli da cui erano affluiti, altri che non sarà facile trattenere senza di lui. 

 

Lo ha fatto sfidando tutto il gruppo dirigente del suo partito, graniticamente a favore del segretario, che alla fine è stato anche soccorso da tutti i candidati esclusi al primo turno. 

 

Il popolo tenuto insieme da Renzi non è espressione della antica frattura tra Ds e Margherita. Diversi capi storici della Margherita sono stabilmente acquartierati nel campo bersaniano e d’altro canto molti elettori di Renzi non hanno nemmeno memoria di quel passato. I loro tratti distintivi sono chiaramente desumibili dalle inchieste campionarie svolte dopo il primo turno delle primarie. L’indagine di Fasano e Venturino (in parte già pubblicata su La Stampa) ce li mostra anagraficamente molto più giovani degli ellettori di Bersani. Gli ultra55enni sono il 56,5% tra gli elettori del Segretario, e solo il 36,5% tra chi ha votato per il sindaco. Gli elettori di Renzi sono meno identificati con le strutture di partito; molti di loro hanno partecipato per la prima volta alle primarie; e sono in una quota maggiore liberi professionisti, studenti, imprenditori. Solo una piccola parte si autocolloca a destra (il 5,7%), mentre una quota più consistente si autodefinisce di centro (26%, contro il 9% dei bersaniani), a dimostrazione che il Pd può intercettare anche quel tipo di consensi, senza l’intermediazione di altri partiti. 

 

Altri indizi che vanno nella stessa direzione li porta un’analisi territoriale del voto svolta dall’Istituto Cattaneo. Se si confrontano, regione per regione, i dati sull’affluenza di domenica scorsa con quelli delle primarie nazionali più recenti (2009), si scopre che la partecipazione è calata meno o è addirittura cresciuta nelle regioni in cui Renzi ha preso più voti, e viceversa, in base a una tendenza lineare che va da Sud al Nord. In Sardegna, Calabria, Basilicata e Campania il popolo di Renzi alle urne non si è visto e la partecipazione è crollata. In Piemonte, Veneto, Lombardia, Emilia, Toscana è capitato l’esatto contrario. Come lui stesso ha dichiarato, è prevalsa la diffidenza piuttosto che la simpatia verso l’avventurosa candidatura del «ragazzetto». Ma c’è dell’altro. Al Sud quel tipo di elettori è semplicemente meno diffuso e meno disponibile ad auto-organizzarsi. Sia il differenziale di partecipazione tra 2012 e 2009, sia le percentuali di voto per Renzi risultano correlati con indicatori di sviluppo economico della società civile. Dove l’economia è più dinamica il nuovo amalgama della sinistra liberaldemocratica ha preso corpo più facilmente, anche perché in quelle regioni è più diffusa la disponibilità a mobilitarsi per cause pubbliche senza essere sollecitati da macchine di partito. 

 

Bersani ha dunque la grande responsabilità di provare ad assorbire anche questa componente della società italiana, uscita da uno stato di minorità. Se il Segretario vuole vincere le elezioni e governare, non può restringere i confini del centro-sinistra dentro un perimetro troppo più stretto rispetto a quello abbracciato dal sindaco. Questa è la sfida del Pd, unico partito sopravvissuto al dissesto della Seconda Repubblica e cresciuto, per ora, grazie alla restituzione di sovranità ai cittadini. Mentre la politica italiana è in caduta libera, ha l’occasione di ricomporsi intorno a una nuova sintesi, dando cittadinanza ai due popoli delle primarie. Per farlo dovrebbe cambiare pelle, non cedere alle tentazioni più o meno dissimulate di autoconservazione, non negoziare con le promesse appena fatte, ma aprirsi - quasi con un atto di fede - verso il futuro. L’onore e l’onere di questa sfida spettano a chi ha vinto. 

 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2012/12/04/cultura/opinioni/editoriali/una-sintesi-per-i-due-popoli-delle-primarie-9FghbNbtYdTVeBv4iz57nL/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI Il groviglio sulle mosse del professore
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2012, 05:28:55 pm
Editoriali
19/12/2012

Il groviglio sulle mosse del professore

Elisabetta Gualmini

Da settimane ormai l’enigma Monti agita la scena politica. 

Le attese intorno alla sua definitiva mutazione da grand commis a leader crescono di giorno in giorno, con cori da stadio fuori i confini nazionali, mai visti né sentiti durante altre nostre campagne elettorali. 

Ma più che sciogliersi, il groviglio è destinato a ingarbugliarsi. Perché i paradossi che si celano dietro al montismo politico sono insidiosi. 

 

Il primo è il più ovvio. I montiani si propongono di rafforzare Monti (ma forse anche, del tutto legittimamente, di mettere al sicuro qualche seggio parlamentare) costituendo una area che si ispira a lui e alla sua «agenda», anche nell’eventualità in cui lui non decida di candidarsi in prima persona. Con il paradosso che se loro da soli, solo evocando Monti, rimangono sotto la soglia dell’8%, restando fuori dal portone di Palazzo Madama, lasciano il Professore completamente solo al Senato, isolato e senza una grande legittimazione.

Monti potrebbe allora aiutare i suoi sostenitori a non rimanere sotto la soglia e a varcare il portone del Senato, candidandosi lui stesso. Ma la sua discesa in campo potrebbe non essere risolutiva e lo espone comunque ad altri rischi. 

 

Naturalmente, non ci sarebbe nessun problema se Monti fosse in condizione di riaggregare l’intero centrodestra, richiamare tutto l’elettorato oggi demotivato, disperso, smobilitato e vincere proponendosi come nuovo leader dell’intero schieramento che si oppone al centrosinistra. Ma al momento, nella maionese impazzita del post-berlusconismo (con un videocratico Berlusconi sempre più arrembante), questo scenario non sembra plausibile. Il centrodestra pare oggi composto da truppe sparse in ritirata e microalleanze a geometria ballerina. Dai montiani di Quagliariello che contemporaneamente ammiccano ad Alfano (leggi: Berlusconi), alle coppie in libertà come Crosetto e Meloni, ai berlusconiani doc che pur avendo dato un calcio negli stinchi a Monti ora lo osannano come il più carismatico dei leader, al rassemblement di La Russa, alla Lega dei nuovi barbari né con Mario né con Silvio (ma pur sempre impuntati ad acchiapparsi la Lombardia per chiudere il «triangolo del Nord») a chissà quanti altri possibili battesimi. Tessere svisate di un puzzle di cui, anche sforzandosi, non si vede il disegno finale. 

 

Torniamo allora a Monti candidato. Due scenari sono possibili. Monti dà la volata ai montiani trainandoli sopra all’8% al Senato, prendendo più voti al centrosinistra che al centrodestra e accentuando il rischio che il centrosinistra non prenda il premio nelle regioni in cui è storicamente più debole (Veneto, Lombardia e Sicilia). Anche in questo caso però il nuovo centro pare non riesca a salire molto oltre il 12% (un po’ poco). Le cose possono però andare ancora peggio. Se in quelle regioni, storicamente «bianche» e «verdi», il partito di Monti dovesse attrarre più elettori di centrodestra e di centrosinistra, finirebbe per rendere possibile la vittoria di Bersani anche laddove oggi sembra difficile. Un esito tanto più probabile quanto più Bersani sarà in grado di dare cittadinanza anche al disegno riformatore (più Lib che Lab) della componente renziana. Saremmo al secondo paradosso del montismo: un vero e proprio boomerang. 

 

I rischi sono dunque alti. E la decisione di Monti, attesa tra pochi giorni, rimane un enigma. Comunque vada, lo scenario che al momento caratterizza la politica italiana - la «quadriglia asimmetrica» fatta da: centrosinistra a guida Pd, Grillo, nuovo centro montiano, centrodestra in frantumi - promette uno svolgimento della prossima legislatura molto diverso rispetto alla democrazia dei tecnici vista in coda alla XVI e illustrata dai dati sull’attività parlamentare del governo Monti (Politica in Italia 2013, Cattaneo-Mulino, di prossima uscita): gruppi parlamentari che votano compatti, indici di partecipazione al voto elevati, conflitti azzerati, selettività delle scelte e focalizzazione sui temi economico-finanziari, normale dialettica tra governo e parlamento. Quello guidato da Monti è stato in verità tra i più brillanti governi «politici» del nostro tempo. Un faro nel buio della «legislatura perduta» (ha ragione lei, caro Presidente Napolitano). E una esperienza difficile da replicare. Ma che potremmo anche finire per ricordare con struggente nostalgia.

 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2012/12/19/cultura/opinioni/editoriali/il-groviglio-sulle-mosse-del-professore-u0dPYiT0ltDiwBFnxwpKNI/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. Il rischio di elezioni inutili
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2013, 04:59:05 pm
Editoriali
17/01/2013

Il rischio di elezioni inutili

Elisabetta Gualmini


I partiti che oggi si presentano agli elettori sono gli stessi che non sono riusciti a riformare la legge elettorale, a dimezzare il numero dei parlamentari e ad abolire le province, nonostante avessero scaricato sul governo dei tecnici il lavoro sporco per rimettere i conti in ordine e avrebbero dunque potuto, nel frattempo, ristrutturare e alleggerire i palazzi in cui abitano. 

In quattro anni il centrodestra non ha mantenuto le promesse elettorali (liberalizzazioni, compressione del carico fiscale, riforme di struttura) e il centrosinistra nell’anno di grazia del salvataggio dei professori non ha portato a casa nemmeno un ritocco alla legge-porcata. Evidentemente il Porcellum non era così tanto sgradito ai partiti. Di sicuro ha continuato a garantire il collocamento dei cooptati, messi in sicurezza spesso a una distanza siderale rispetto ai luoghi di residenza, in cui nessuno li ha mai visti né conosciuti, trattandosi per l’appunto per lo più di gregari, al seguito di capi-corrente. 

Ed è ovvio che un cooptato-gregario di Torino venga mandato a Firenze o Milano, o che un cooptato-gregario di Belluno vada in Calabria. Perché lì nessuno lo conosce e quindi nessuno si può lamentare. È capitato anche nel Pd, nonostante le primarie, benché in misura ridotta rispetto agli altri partiti.

Il collegio uninominale avrebbe invece garantito condizioni uguali e ugualmente rischiose per tutti (leader, peones, gregari) e una maggiore governabilità. I partiti, messi i candidati nel buco nero delle lunghe liste bloccate, sono ora pronti a chiedere il voto «utile», che tuttavia rischia di diventare «inutile», considerando che già si discute di eventuali alleanze post-elettorali, convergenze più o meno parallele, accoppiamenti per disperazione, desistenza e altre alchimie. 

Questa prima occasione mancata fa il paio con la seconda. Sono stati strozzati sul nascere i tentativi di convertire le contrapposizioni gladiatorie della Seconda Repubblica in un bipolarismo civile, di pari passo con l’esclusione dai due poli delle componenti più moderate e meno ortodosse. Casini e Fini hanno già da tempo abbandonato il vascello berlusconiano. Poi è arrivata la sorda secessione dei «nuovi democratici» renziani. 

Diciamo la verità. Bersani è stato abilissimo nel mettere completamente fuori gioco Renzi e i suoi. E la bersanizzazione del renzismo ha fatto venire meno ogni argine sia contro il ritorno di Berlusconi sia verso la mutazione genetica del Professore. Le lodi sperticate di D’Alema a Renzi mettono il sigillo sulla strategia della ditta, creando francamente un po’ di sconcerto in chi aveva sostenuto entusiasticamente il secondo. 

Di fronte alle due occasioni perse dai partiti, Mario Monti ha colto la sua. Un po’ volpe un po’ leone ha intravisto uno spazio politico da occupare. D’altro canto, da Machiavelli in poi, le virtù dei principi restano aleatorie se non incontrano circostanze propizie e non si uniscono con un po’ di fortuna. Preoccupato che i partiti buttassero a mare le riforme fatte, il professore nel giro di un attimo ha cambiato le scarpette e si è buttato nella mischia. E, detto per inciso, Monti impara in fretta. Dalla grigia conferenza stampa che ha dato un insipido avvio alla scalata politica del prof. alle bordate al Berlusconi-pifferaio con tanto di occhio sgranato, sopracciglio inarcato e lettera-acca superaspirata di «Hhhamelin», di acqua ne è passata sotto i ponti. 

Ma anche l’intera galassia che dall’antipolitica di Grillo arriva sino a Ingroia si è avvantaggiata delle occasioni perdute, in particolare la prima, il fallimento delle riforme anticasta. Ingroia non ha esitato un attimo ad acchiapparsi il più votato degli ex grillini e si è costruito uno spazio politico solo di un punto sotto a Sel. 

Chi perde e chi raccoglie. E qui stanno i rischi di una elezione potenzialmente inconcludente e le congetture che cominciano a diffondersi che la prossima legislatura possa essere breve nonostante l’enorme vantaggio di cui godrà in termini di seggi il Pd e nonostante la compattezza del gruppo parlamentare guadagnata da Bersani. Staremo a vedere. Certo è che tra incertezze, calcoli e pre-tattiche, rimangono sullo sfondo le proposte concrete e alternative dei partiti ai cittadini. Un discorso intenso e appassionato sul rilancio di un Paese stremato. Per poter alzare lo sguardo e non doverlo abbassare giù giù verso i laboratori interrati degli alambicchi politici. A cos’altro serve la politica?

 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/01/17/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-di-elezioni-inutili-DjgDRwzRcJjabNXO3j2HiP/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini - Grillo, il monopolista delle piazze ha già vinto
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2013, 12:13:35 pm
Editoriali
18/02/2013

Grillo, il monopolista delle piazze ha già vinto

Elisabetta Gualmini

Grillo ha deciso di non apparire in TV perché non ne ha bisogno. Può permettersi di non cedere alle lusinghe del piccolo schermo e rimanere fedele alla strategia delle piazze, di cui è stato un frequentatore quasi monopolista, perché ha già vinto. 

 

Ha vinto per due motivi. Ha ormai tra le mani un partito-passepartout, che verrà scelto da settori diversi della società come grimaldello per diversi scopi. E potrà portare in parlamento 100 (o quasi) neofiti totali, pronti a dare battaglia sui nervi scoperti della classe politica. Con tutti i rischi annessi e connessi. 

 

Primo. Il partito passepartout. Il Movimento 5 Stelle è un oggetto usato in misure rapidamente crescenti da almeno tre spicchi dell’opinione pubblica. I credenti della prima ora convinti di partecipare a una rivoluzione dal basso; i radicalmente delusi dalla politica le cui fila si ingrossano di giorno in giorno via via che gli scandali si inanellano in una catena senza fine; e infine quelli che, consapevolmente o meno, reagiscono alle caratteristiche dell’offerta di questa specifica campagna elettorale in cui alla fine dei conti assistiamo all’aggrapparsi all’ultima chance da parte di una classe politica molto invecchiata, che ha rinnovato il parco delle seconde e delle terze file con profili così così, rimanendo saldamente in sella. Berlusconi alla fine si è tenuto il Pdl. La macchina, il lessico e il non detto di Bersani vengono da molto, molto lontano. Dietro a Monti, continuano ad aleggiare Fini e Casini. Tutti leader politici abilissimi nel convincere quelli già convinti, bravissimi nel riscaldare gli animi di chi non se andrebbe via nemmeno sotto tortura. Nel frattempo il popolo di Grillo è cresciuto a dismisura, sempre più trasversale e interclassista, dal Nord al Sud, dai centri grandi ai centri piccoli e medi, dai giovani ai meno giovani, dagli uomini alle donne, dai secolarizzati ai cattolici. Persone che, rispetto agli elettori rimasti allineati ad altri partiti, manifestano molte più difficoltà a collocarsi in un qualche punto dell’asse sinistra-destra. 

 

Secondo. I parlamentari «neofiti naïf». La distanza che corre tra il Grillo-guru e il suo popolo è sempre più abissale. Cittadini traboccanti normalità e pudore, che raccontano la politica con parole di calcolata mitezza e ingenuità, e che, tutto al contrario dell’icona che li guida, sussurrano le loro battaglie senza urla e senza scomporsi. Con un candore disarmante. Talmente poco trasgressivi da aver fatto dei gilet di Pizzarotti un must. Un popolo di pendolari (come i candidati presidenti in Lazio e in Lombardia che te lo sbattono in faccia con orgoglio), un popolo di tecnici informatici, un popolo che ti dice «Grazie al Movimento 5 Stelle sono candidato alla presidenza del Lazio, una cosa incredibile» (così Barillari). Appunto, da non crederci… Ma anche un popolo di credenti, apparentemente disposti a qualsiasi battaglia contro la malapolitica. Una spietatezza al contrario per un pubblico che ne è sollevato, dopo la nausea dei nani e delle ballerine, delle ostriche e dei festini, o dei funzionari di partito sedicenti statisti. Certo, il rischio che si corre - che corre Grillo e corriamo tutti noi - è che siano troppi, ingovernabili e che gravino su di loro troppe responsabilità. Che da loro finisca per dipendere la possibilità di dare un governo al Paese nella fase più critica che ci sia capitata dalla fine degli Anni Settanta. 

 

Al netto di questa incognita, il partito di Grillo ha già ottenuto uno straordinario successo. Ha dato la mazzata finale al bipolarismo logorato e consunto, messo in scena in questa campagna elettorale, incapace di regalare visioni e progetti all’altezza dello stato di profonda disgrazia in cui versa il Paese. Si sa che molte persone decidono per chi votare nelle ultime settimane. I sentimenti anti-casta che sostengono Grillo rischiano di contaminare gli indecisi sull’onda di un indignato: «tanto peggio di così non può andare». Peccato che Grillo non sia la soluzione, e che i normali-per-bene non siano nemmeno lontanamente in grado di sopperire alla mancanza di una classe dirigente capace e lungimirante. 

da - http://lastampa.it/2013/02/18/cultura/opinioni/editoriali/il-monopolista-delle-piazze-ha-gia-vinto-rEIYHqNpA9zZhYmRxJYM0O/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. - La vocazione minoritaria
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2013, 06:46:15 pm
Editoriali
12/03/2013

La vocazione minoritaria

Elisabetta Gualmini


La gestione del dopo-voto da parte del Pd pare ancora più barcollante della sua afona campagna elettorale. 


L’ostinata, surreale rincorsa a una «alleanza di combattimento» (già il nome è come il cigolio del gesso su una lavagna nera) con il M5S, l’unica forza politica che esclude per statuto l’offerta di stampelle a qualsiasi partito (figuriamoci a quella «classe politica non credibile che ha portato il paese alla devastazione» così l’on. Bonafede), la dice lunga. Difficile pensare che i pontieri attualmente all’opera possano salvare il salvabile. Nemmeno la diplomazia della senatrice Puppato, che eroicamente mira a un «governo di legislatura con il M5S della durata di 5 anni». Nemmeno i polverosi «appelli degli intellettuali», a giudicare dal successo di quello a favore di Bersani pochi mesi fa. 

Viene il sospetto, ormai quasi una certezza, che gli ideologi della ditta democratica preferiscano uscire dalle secche in cui si sono impantanati imboccando definitivamente la strada, più maneggevole e rassicurante, del partito a vocazione minoritaria. Del partito che rinuncia a darsi programmi e una strategia per vincere le elezioni, preferendo difendere l’identità interna e i gruppi dirigenti, vecchi e nuovi, ad essa più fedeli. I «modelli» che i partiti possono scegliere sono diversi, come continua a insegnarci Angelo Panebianco. Tra i tanti, ci sono i partiti «di opposizione permanente», che anche mettendo nel conto la decrescita (dei consensi), preferiscono distribuire incentivi ai «lealisti» piuttosto che mettere a rischio rendite consolidate e gestire riti di passaggio dolorosi. È una strategia sempre disponibile, già seguita per lungo tempo dal Pci in un contesto proporzionale, così come dai comunisti francesi di Georges Marchais nel più insidioso contesto maggioritario della V Repubblica. Una visione settaria non troppo celata dal gruppo dei «giovani turchi» i quali, tra di loro, si raccontano che l’emorragia di consensi del Pd sarebbe stata causata da uno spostamento eccessivo del Pd a destra… Ipotesi bizzarra che per un verso cancella il ruolo di primo piano da essi stessi svolto nella segreteria Bersani, per un altro non si concilia con il fatto che mentre Sel, elettoralmente parlando, si è impietosamente dissolta, i voti del Pd sono andati a una formazione politica (il M5S) che i giovani turchi considerano reazionaria.

I democratici, in effetti, non si possono nemmeno crogiolare in un’altra attesa consolatoria. Che sia sufficiente la pura riedizione del Renzi n.1, quello di novembre, con al seguito stavolta anche qualche truppa del battaglione bersaniano in cerca di una nuova protezione. Dopo una sassata così violenta alla vetrata del Pd, servono coraggio, freddezza e carisma fuori misura, ma anche un solido progetto di governo. Per il quale mancano un paio di condizioni che sinora Renzi ha sempre potuto eludere. Chi può escludere che la pancia del Pd, dopo averlo accolto come salvatore in vista delle prossime elezioni, non gli riservi un trattamento simile a quello per Veltroni nel 2008? E chi può mai credere che le componenti del Pd (il 95%), fino ad oggi ostili al progetto del fiorentino, accetterebbero di diventare minoranza nei gruppi parlamentari della prossima legislatura? 

Per rendere credibile quel progetto, Renzi dovrebbe insomma prima prendersi il partito. Stavolta, dovrebbe anche dare concreta dimostrazione che la sua furia rottamatrice non porti al potere un deserto desolante di competenze simile nella sostanza a quello esibito dai neofiti grillini: un altro dubbio che al momento non ha dissolto. Pensare di governare senza controllare il partito vuol già dire partire col piede sbagliato. Pensare di acquisire la leadership senza passare da primarie/congresso che ribaltino gli equilibri del 2009, sarebbe illusorio. Nei grandi partiti la lotta per la leadership passa per sanguinose ricalibrature interne in cui gli assetti preesistenti diventano minoranza e quelli nuovi maggioranza. In cui diverse immaginazioni del mondo si alternano tra di loro e sparisce, finalmente, ogni riluttanza al rischio. Mai come in questa fase le opportunità ci sono. Per guardare dritto il rinnovamento ed essere all’altezza dell’urlo disperato per un cambio di passo levatosi tra gli elettori. Ma Renzi, ce la farà?

Twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/03/12/cultura/opinioni/editoriali/la-vocazione-minoritaria-w7kU4TjLf6dmrLnqByv0wK/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. - Un partito a rischio implosione
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2013, 11:55:16 am
Editoriali
26/03/2013

Un partito a rischio implosione

Elisabetta Gualmini

Ha ragione Enrico Letta. La soluzione del «doppio registro» per formare un governo a guida Bersani è «molto complicata da spiegare». È anche molto complicata da capire, perché - semplicemente - non sta in piedi. A meno di un accordo, che da sotto il banco dovrà essere certificato alla luce del sole entro giovedì, su tatticismi parlamentari che ne consentano un qualche avvio, forse con l’aiuto della Lega e del Movimento delle Autonomie, possibile solo se c’è il beneplacito di Berlusconi. Un governo di minoranza sull’economia, sulle politiche sociali e la moralizzazione della politica, a cui dovrebbero non si sa come affiancarsi larghe intese per le riforme istituzionali. Delle due l’una. O i numeri parlamentari ci sono, e il patto con Berlusconi è già nelle cose, per consentire almeno una non-sfiducia, oppure l’estremo tentativo di Bersani è in realtà un modo per dire: io a Palazzo Chigi (piuttosto improbabile) oppure (quindi) elezioni subito. 

Messa così, sarebbe l’atto finale di una lunga deriva. Il punto di non ritorno per un partito senza bussola da tempo. In assenza di un coup de théâtre che per ora sfugge, l’accanimento terapeutico di Bersani (su se stesso) e il tentativo di pescare voti in Parlamento mettendo un menu à la carte a disposizione di qualsiasi interlocutore sta portando dritto all’implosione dei democratici. Con l’aggravante di aver temporeggiato rievocando la liturgia degli incontri con le parti sociali, dalle più rilevanti a quelle poco sopra la soglia della riconoscibilità, le quali hanno ripetuto com’era già ovvio che il paese è alla canna del gas. Lo sappiamo con certezza almeno dal 2009, quando in un anno rispetto al 2008, il Pil si ridusse di oltre il 5%, bruciando quasi la metà della ricchezza prodotta nei precedenti 10 anni. Dopo le cose non sono andate meglio. 

L’indizio di un avvitamento che sarebbe diventato mortale, per il Pd, lo si vede da tempo. È la diretta conseguenza di una strategia di totale chiusura all’interno, dell’ossessione di voler parlare soprattutto ai propri elettori tradizionali, paradossalmente compensata dal massimo dell’eclettismo nelle alleanze esterne. Senza alcun distinguo. Senza disdegnare nessuno (dai radicali all’Udc, da Monti a Grillo, da Maroni a don Ciotti, da Vendola a Montezemolo, da Di Pietro a Grasso). Purché lontani dal nocciolo duro del partito. Qualsiasi cosa fuori. Muri alzati e tolleranza zero dentro. 

Dal 2010 in avanti, il Pd ha cercato di allearsi con l’Udc durante le regionali, mentre nel Lazio sosteneva Emma Bonino. Poi è arrivata la foto di Vasto, un matrimonio ufficializzato con la benedizione della Cgil. Saltando qualche passaggio, è venuto il momento del nuovo Centro montiano, alleato naturale prima delle elezioni. Per poi virare a 360 gradi e andare con il cappello in mano di fronte ai 5 stelle nel post-elezioni. Siamo ora alla ricerca, non tanto nascosta, di un accordo con i Barbari sognanti della Lega (sempre più sovraeccitati intorno al progetto della Macroregione del Nord e al conseguente abbandono al suo destino del Sud), con il benestare del Pdl (il cui aiuto tuttavia si continua pubblicamente a rifiutare). Ovviamente, ciascuna di queste «strategie» di coalizione ha comportato un nuovo «posizionamento». Dalla piena responsabilità verso i vincoli europei con Monti, al superamento della sua agenda, dalla difesa delle province ai tagli draconiani della politica.

Eppure, nonostante questa strabiliante flessibilità, Bersani si dimostra inflessibile verso l’unica formula che parrebbe ragionevole al senso comune, e forse anche all’intuito di chi vede le cose dal colle più alto. 

Tanto che il breve discorso, stanco e crepuscolare, del segretario, potrebbe addirittura suonare come un freno preventivo al Presidente Napolitano, il quale molto probabilmente proporrà, per salvare il salvabile, un governo di tutti e di nessuno, a tempo determinato, con obiettivi ben precisi di riforma delle regole istituzionali. Un messaggio forse più vero ma molto diverso da quello che Bersani aveva lanciato nella Direzione del 6 marzo: «Siamo alternativi al populismo. Siamo nelle mani del Presidente della Repubblica».

da - http://lastampa.it/2013/03/26/cultura/opinioni/editoriali/un-partito-a-rischio-implosione-0YMvlti3kgIWzea4ua6HFP/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI. -
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2013, 09:50:13 am
Editoriali
29/06/2013

Aggrappati al salvagente dell’Europa

Elisabetta Gualmini

Il governo largo di Letta e Alfano appare sempre più aggrappato all’Europa. Per prendere quanto più possibile ossigeno, ad ogni vertice, in modo da affrontare l’apnea delle vicende domestiche. Anzi, se dipendesse da lui, forse Enrico Letta governerebbe l’Italia direttamente da Bruxelles, con qualche visita mirata a Roma (come si fa un po’ di controvoglia a Natale e a Pasqua per andare a salutare i parenti lontani), rimanendo il meno possibile nel ginepraio di veti incrociati degli ex-avversari-ora-alleati.  

Nel ginepraio dei temi che non possono entrare in agenda, delle parole che non si possono dire (tutto quello che gira intorno ai processi di Berlusconi), dei pegni da pagare per sopravvivere, dovendo pure scommettere che il consolidato duo Quagliariello-Violante, accompagnato ora da un plotone di professori universitari, con uno straordinario sussulto di decisionismo e operosità, riesca a portare a casa le Grandi Riforme Costituzionali che non si è riusciti a incassare negli ultimi 25 anni.  

 

Ieri Letta ha indubbiamente «vinto bene» a Bruxelles sulla lotta alla disoccupazione. Ha contribuito ad aumentare le risorse per i giovani (da 6 a 9 miliardi, di cui 1,5 per l’Italia da spendere subito), a dare il calcio di inizio al bilancio comunitario abbattendo la (solita) riottosità britannica, a puntellare il cammino dell’Unione bancaria tifando apertamente per Draghi, e ha provato addirittura a sfidare l’ortodossia rigorista della Bei. Tra la soddisfazione della Merkel a cui non sembra vero che il «Letta rosso» (The Red Letta, per l’«Economist») sia a capo di un governo di grande coalizione.  

 

Non è la prima volta che in Italia ci si gioca la carta del salvataggio dall’Europa. Che si usano i vincoli e le opportunità dei negoziati europei per reggere il timone della navigazione domestica. Nel 1992-93 Amato e Ciampi poterono dare avvio al risanamento lacrime e sangue, perché bisognava marciare a tappe forzate verso l’Unione monetaria. Con Maurizio Ferrera, dedicammo un intero volume per raccontarlo (Salvati dall’Europa). Quel salvataggio tuttavia aveva caratteristiche ben diverse da oggi. Allora si usavano i vincoli europei per varare riforme strutturali (dalle pensioni al pubblico impiego, dalla sanità al collocamento, alle politiche dei redditi), oggi si utilizza l’arena europea per sopravvivere senza cadere. La fuga in Europa torna sempre utile per legittimare davanti all’opinione pubblica la «retorica» delle riforme. Ma allora servì per affondare il coltello sulle patologie più incancrenite del nostro Paese, oggi per salvaguardare la micro-agenda. Le differenze sono inevitabili perché il contesto politico è decisamente diverso.  


Allora c’erano governi tecnici senza partiti, sganciati dai loro veti, e tallonati da parti sociali che supplivano coraggiosamente. Oggi un governo iperpolitico che deve accontentare tutti e in cui tutti devono essere d’accordo. Con inedite convergenze parallele che lasciano sbigottiti. Come il duo Brunetta-Fassina, i nuovi Wu Ming del governo Letta. (Il collettivo di scrittori che compone rigorosamente insieme rinunciando ad ogni identificazione personale.) Intervistati insieme su «Panorama», hanno confessato all’unisono di scrivere insieme i documenti preparatori per Bruxelles, senza una virgola di dissenso. Introdurre riforme radicali in un contesto simile è una illusione. Scegliere e decidere di brutto, tra priorità alternative, pure. Non resta che dedicarsi alla micro-agenda. Volare alto a Bruxelles, stare raso terra a Roma. Il Pacchetto Lavoro non sfugge a questa logica, muovendosi in continuità con la tradizione di «micro-interventi derogatori e contrattati al margine» che ha caratterizzato la storia delle nostre politiche del lavoro (nelle parole di Paolo Sestito, Laterza). Ennesimi ritocchi alle leggi precedenti, incentivi selettivi e ad hoc, nessun taglio coraggioso alla spesa e alle scatole pubbliche per rivitalizzare la crescita. Anche le nuove norme europee (entro 4 mesi un’offerta di lavoro ai disoccupati) non è detto che siano efficaci; in Italia obblighi simili esistono dal 2000 (d.lgs. 181) e non hanno mai funzionato, perché il mercato del lavoro è fermo.  

 

Il rischio dunque che l’ancoraggio all’Europa possa non essere sufficiente c’è. Nonostante gli sforzi del Premier. Ma c’è un ulteriore pericolo. Che a un certo punto, dopo le attese elezioni tedesche, l’ulteriore dose di ossigeno che ci si attende – l’inversione di rotta rispetto al rigore senza crescita - non arrivi. E a quel punto diventerà davvero difficile, a Roma, anche per una persona abituata a dosare con molta sapienza la respirazione, continuare a stare in apnea.

twitter@gualminielisa

da - http://lastampa.it/2013/06/29/cultura/opinioni/editoriali/aggrappati-al-salvagente-delleuropa-tb9EIW7Ym5J4eOdWhxOyyL/pagina.html



Titolo: Elisabetta GUALMINI. - Renzi continui a parlare
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2013, 06:56:24 pm
EDITORIALI
20/07/2013

Renzi continui a parlare

ELISABETTA GUALMINI

Non si capisce perché Matteo Renzi dovrebbe smettere di parlare. Per non disturbare le larghe intese, per non sembrare il Primo ministro ombra, per non fare il controcanto.
Se la tenuta dell’alleanza Letta-Alfano dipende dalla frequenza delle dichiarazioni sue o che lo riguardano, c’è da preoccuparsi. È sperabile che le sorti del Paese si reggano su fondamenta più solide. Non sul silenzio del sindaco di Firenze. Non sulla sola determinazione del Presidente della Repubblica al secondo mandato, e al suo secondo esperimento governativo. Non sulla disponibilità a chiudere gli occhi riguardo alle rispettive magagne, cioè sulla collusione dei due maggiori partiti, i quali dovrebbero invece essere tenaci controllori l’uno dell’altro.
 
Pur di tenerlo ammollo e di lasciarlo fuori dalla porta, a Renzi è stato detto tutto e il contrario di tutto, da destra e da sinistra.
Ha un’ambizione sfrenata (Marini) e pure vuota di contenuti (Gasparri). E’ un fenomeno mediatico (De Luca) e un pavone vanesio ed egocentrico (Brunetta, che in effetti è un tipo modesto). E’ bravo e una risorsa (Moretti in fuga rapidissima da Bersani), ma è accecato da un delirio di onnipotenza (Fassina) e parla troppo (D’Alema). E’ un politico di destra (seconde e terze file del suo stesso partito), che non ha capito che per vincere bisogna parlare solo ai delusi della sinistra (Ingroia). E’ meglio Serracchiani segretario (Franceschini) o un’altra donna (Fioroni pronto all’estremo sacrificio).
E’ tornato a essere di sinistra (Orfini), ma è andato a pranzo con Briatore (cosa che Cacciari non farebbe mai, perché Briatore è un cafone megagalattico).

Gli è stato suggerito di farsi un giro come eurodeputato (volendo anche due legislature), ma dalla Merkel è meglio che non vada perché crea imbarazzi. Gli è stato notificato che dicendo la sua sulla questione kazaka - così come hanno fatto, giustamente e con rilievi spesso più penetranti, anche Cuperlo, Epifani, Finocchiaro, Civati, Bindi, l’Onu e il Financial Times - crea instabilità, mette a repentaglio la ripresa economica, rischia di far cadere il governo. 

Di Renzi non ci si fida. E’ un tipo simpatico, ma il partito è meglio non darglielo. Figurarsi, a uno che è andato a parlare ad Amici (dicono quelli che non ne hanno il fisico) e le Tv le occupa perché lo invitano con insistenza (a differenza di altri che si autoinvitano, invano).

Renzi dà fastidio, perché parla chiaro. E’ diretto e si fa capire. Non usa il politichese intarsiato degli anni che furono. E’ tagliente e anche tagliato. Schiva le frasi lunghe come la peste e usa un linguaggio concreto che arriva ai più. Ed è davvero troppo. Una roba insopportabile in un Paese vecchio e di vecchi come il nostro.

Per fare politica e parlare alla gente bisogna essere altezzosi e contorti. Equilibristi, decorativi e soprattutto evanescenti. Così puoi sempre correggere il tiro e dire che sono stati gli altri a non capire. Salvo poi usare Renzi come raccatta voti o per saltarci sopra con entusiasmo all’ultimo minuto se proprio lui è l’ultima carta da giocare per non perdere la poltrona. 

E invece non è più sopportabile la spocchia di chi lo tratta come un ragazzino bizzoso. Un capo-scout cresciutello dalle ambizioni smisurate.
Un eterno Akela con i calzoni di velluto corti al ritorno dalle Vacanze di Branco, guardato con sufficienza da chi può al massimo concedergli di essere stato bravo con i lupetti e che «il ragazzo prima o poi si farà».

Certo anche Renzi ha i suoi limiti. Ripete ossessivamente i suoi tormentoni ed è capace di passare dall’economia europea a Balotelli, dalle vessazioni fiscali a Rambo. Ogni tanto poi si ricorda che deve puntare sui suoi cavalli di battaglia e ti infila «la bellezza della politica» (che ancora non si capisce cosa sia) o l’ottimismo rotondo alla Oscar Farinetti (l’Italia tra 10 anni sarà il Paese più bello del mondo, è la regina dell’alimentare).
E gli immancabili musei di Firenze aperti la notte.

Ci permettiamo un sobrio e modesto consiglio: «Matteo fregatene, continua a parlare». Non ci saranno terremoti. Chi lo detesta, lo contesti e lo sfidi sul suo terreno. Ben vengano altri Renzi, se sono pronti. A destra, a sinistra, e anche al centro.

twitter@gualminielisa

da - http://www.lastampa.it/2013/07/20/cultura/opinioni/editoriali/renzi-continui-a-parlare-ivg1Ah90ni6SvextiC5z5O/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. Pd-Pdl, il cammino è in salita
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2013, 08:27:13 am
Editoriali
05/08/2013

Pd-Pdl, il cammino è in salita

Elisabetta Gualmini


Non c’è nulla di cui stupirsi nella manifestazione di ieri del Popolo della Libertà. 

 

Il partito si è stretto intorno al leader azzoppato, sulla via dell’esilio, e ha celebrato insieme a lui una liturgia che contiene tutti gli elementi del mito fondativo. Gli slogan, le bandiere, le grida «Silvio Silvio», l’inno nazionale, molto azzurro mescolato al tricolore. 

Un popolo non giovane né immenso (come lo aveva dipinto Gasparri), ma certamente motivato, in una giornata di caldo insopportabile.
In cui il curiale Bondi si conferma guerrafondaio e Cicchitto dà del cretino al sindaco di Roma. 

Mancava solo la nave da crociera delle regionali del 2000, che si fermava in ogni porto accolta da bande, majorette, mongolfiere, aerei e autobus-poster con su scritto Forza Italia Uguale Libertà. Ma erano altri tempi.

Berlusconi ribadisce la sua innocenza e racconta per l’ennesima volta la «sua» storia, che è anche quella del «suo» popolo. Una narrazione che non cambia da 20 anni. Una narrazione che è anche identità. E senza racconto condiviso, non c’è identità. E senza identità non c’è nemmeno il partito. 

Il regime e la vittima. Berlusconi è la vittima di un golpe giudiziario messo a punto da una magistratura irresponsabile. Un gruppuscolo di impiegati che hanno fatto il compitino e si sono messi sotto i tacchi altri poteri dello Stato. La condanna passata in giudicato è l’atto finale di una persecuzione fuori dall’ordinario. Il suo essere vittima tra le vittime delle vessazioni di uno Stato arcigno e soffocante è un nodo centrale dell’ideologia berlusconiana (come ci racconta Orsina ne «Il Berlusconismo nella storia d’Italia»). Le inchieste giudiziarie sono la prova dell’opera di sopraffazione degli apparati pubblici sui cittadini. Nella «convinzione – dice Orsina - che una parte almeno della magistratura, trasformatasi nell’ennesimo clan italiano, corporativo e autoreferenziale, e stretta un’alleanza competitiva col “clan dei comunisti” abbia subordinato regole e istituzioni ai propri intenti particolaristici con lo scopo di far fuori i gruppi rivali». 

I buoni e i cattivi. Berlusconi rispolvera nell’occasione il populismo della discesa in campo. La sovranità appartiene al popolo e non alla magistratura. Un popolo che Berlusconi ama così com’è. Fatto di persone per bene, con la testa sulle spalle, abituate a fare. Senza troppe balle. Tutto il contrario dei professionisti della politica. Le fabbrichette al posto delle parolette. La dedizione al lavoro, continuamente frustrata dalla calunnia continuata senza costrutto dei politicanti. La missione è sempre questa. «Consacrare» la propria vita per diffondere il benessere.
E frenare le derive anti-democratiche delle sinistre (al plurale). «Come quando stai partendo per un bel viaggio ma incontri qualcuno che ha bisogno e devi per forza fermarti». Anche dopo una rivoluzione liberale mancata, dopo promesse non mantenute ed elettori che si prosciugano da una elezione all’altra… 

E così, il partito si ritrova. Il popolo (che è rimasto) si galvanizza. D’altro canto al cuore non si comanda (Biancofiore) e il cuore viene prima della poltrona. Non c’è proprio nulla di cui stupirsi nella passione del Pdl per il suo leader. Perché il Pdl è il partito di Berlusconi.
E non c’è da stupirsi che i dirigenti abbiano interiorizzato e comunque rilancino la stessa storia del capo-agnello-sacrificale-vittima delle toghe. Irritarsi o chiedere al Pdl di rinnegare Berlusconi non ha molto senso. Sarebbe come si fosse chiesto a un militante del Pci degli Anni 50 di rinnegare il marxismo-leninismo e la funzione guida del Pcus. Quando poi lo fanno i discepoli di Grillo c’è da sorridere. Pensare che le larghe intese e la pacificazione avrebbero cambiato tutto è una ingenuità. 

C’è da chiedersi semmai come facciano narrazioni così diverse della stessa storia, quella fondativa per il Pdl del leader vittima delle sinistre e quella altrettanto ovvia per il Pd dell’evasore fiscale conclamato, a stare insieme, nella stessa maggioranza di Governo, oltre all’esigenza di realizzare obiettivi davvero minimali. O come si possa pensare di mettere in piedi una riforma della giustizia, nel momento esatto in cui Berlusconi è tornato in guerra contro il regime. È questo quello che stupisce. 


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Titolo: ELISABETTA GUALMINI. La politica prossima al default
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2013, 07:38:44 pm
EDITORIALI
13/09/2013 - LARGHE INTESE AL MINIMO

La politica prossima al default

ELISABETTA GUALMINI

La politica è in default. Le larghe intese – l’unica soluzione possibile, forse, per dare un senso alla XVII legislatura – segnano il punto più basso di credibilità dei partiti. E il grado più alto di deviazione dalla normalità democratica. Con anomalie su anomalie, pronte a scaricarsi sui piedi di un Governo dai piedi di argilla, sempre sul punto di accasciarsi, dietro alle minacce e poi ai ritiri e poi alle minacce di un Pdl allo stremo. 
 
C’è un premier capace, con nervi saldissimi, ma nominato e non scelto dai cittadini, al contrario di quanto siamo stati abituati a vedere negli ultimi vent’anni. Che sarebbe stato forse vice in un governo con Pd e SeL, oppure nel «governo del cambiamento», ed è invece primo della diarchia con Alfano. Ci sono poi i parlamentari nominati, truppe di discepoli fedeli ai rispettivi capicorrente, con la parzialissima eccezione di alcuni tra quelli scelti con le primarie Pd (organizzate a capodanno!). 
 
Deputati e senatori che sembrano vivere nell’iperuranio. Arrivati là con il teletrasporto, ogni tanto mandano un tweet (i più arditi anche foto con Instagram) e si mettono il cuore in pace, pensando di aver ricucito con il popolo che sta giù. 
 
E ci sono infine gli elettori che, rispetto ai moltissimi volati via al grido di battaglia grillino o rimasti a casa sdegnati, si erano presi la briga di andare a votare per il centrosinistra anche o soprattutto perché non volevano questo centrodestra, e viceversa, ai quali è stato consegnato un esito esattamente contrario alle aspettative. Ce lo spiegano bene Paolo Segatti e Paolo Bellucci anticipando, nell’ultimo numero del «Mulino» (4/2013), alcuni risultati delle indagini condotte dal consorzio italiano di studi elettorali Itanes. Da un lato la volatilità è stata altissima: il 49,1% degli elettori ha cambiato il voto tra il 2008 e il 2013, il record storico, maggiore anche del 1994. Dall’altro solo il 2,7% degli elettori si è spostato da un blocco all’altro, dal Pd al Pdl e viceversa (un muro granitico e insuperabile tra i votanti dei due partiti che proprio non ne volevano sapere gli uni degli altri e che poi si sono trovati incredibilmente a governare insieme!). Ad abbandonare il Pd e il Pdl, continuano gli studiosi di Itanes, sono stati gli elettori più distanti rispetto alle posizioni dei partiti di provenienza. Quelli in fuga dal Pdl non hanno gradito la campagna urlata ai quattro venti sull’abolizione dell’Imu, quelli in fuga dal Pd sono più anti-tasse rispetto al partito e meno europeisti. Tutti e due i gruppi dei fuggitivi condividono poi sentimenti anti-establishment. Al contrario, chi nel 2013 ha votato per Pd o Pdl si rispecchiava nella linea e nella narrazione ufficiale. E oggi non devono essere proprio entusiasti del contrordine a corrente alternata: siamo alleati dei nostri avversari, ma anche no. 
 
Come è noto, tra il 2008 e il 2013, il Pd ha perso tre milioni e mezzo di voti e il Pdl sei milioni e mezzo. Una crisi profondissima. Partiti ridotti a relitti. Fra un po’, anche se cerchiamo e cerchiamo, nuotando giù giù fino al fondale, non li troviamo più. Missing. Due partiti per di più senza leader. Il Pdl con un leader in esilio. E il Pd in attesa di un leader. 
 
Pare parecchio improbabile che, in queste condizioni, una maggioranza incapace di cambiare la legge elettorale, possa portare a compimento la Grande Riforma della Costituzione. Il Grillo-guru l’ha capito perfettamente ed è di nuovo sceso in guerra. Ha rispolverato le armi, lucidato l’elmetto e ripreso in mano il kit del cittadino-indignato (urla, bordate e turpiloquio). Il leader capriccioso e «adolescenziale» (perfetto qui Massimo Recalcati) ha deciso. Ed è pronto ad appiopparci un altro psichedelico V-day. 
 
Certo mandare al voto oggi due relitti alla deriva – sotto il cannoneggiamento di Grillo – sarebbe una follia. Trovare il modo per scavallare la legge di stabilità è un obiettivo imprescindibile. Ma anche rimanere un anno e mezzo appesi a un esecutivo prigioniero dei ricatti quotidiani non si capisce bene quanto e a chi, incluso il premier, possa giovare. La politica è andata in tilt. Si è scassata. Se le larghe intese l’aggiustano un po’, benissimo. Non sembra però questo il film degli ultimi giorni. 
 
twitter@gualminielisa 
 
da - http://www.lastampa.it/2013/09/13/cultura/opinioni/editoriali/la-politica-prossima-al-default-2WJGCwheS6gtDRXbFDILOM/pagina.html


Titolo: Elisabetta Gualmini. - Le grandi intese aiutano Grillo alle europee
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2013, 05:02:58 pm
Editoriali
28/10/2013

Le grandi intese aiutano Grillo alle europee

Elisabetta Gualmini

Mai più larghe intese ha detto ieri Renzi alla Leopolda. Il giorno prima aveva detto «No» a qualsiasi ipotesi di ritorno al sistema proporzionale. Tutto torna. Perché il progetto del Pd renziano, come quello originario di Veltroni, ha senso solo in una democrazia maggioritaria, dell’alternanza. 

E in quel quadro, ha le carte per tenere in scacco sia Berlusconi sia Grillo.

Il governo delle larghe intese non si è rivelato infatti così redditizio come forse pensava Berlusconi, ma è ancora la migliore delle garanzie per il Movimento 5 Stelle. Finché ci sono le larghe intese il partito di Grillo può accomodarsi e stare tranquillo. Non accennerà a sbiadirsi, perché ne è l’esatto complemento. Come lo Yin e lo Yang, la luce e il buio, la fiamma e l’acqua, come le forze della natura interdipendenti e a prima vista opposte che sono in realtà complementari perché danno forma all’insieme. Le due parti apparentemente collidono ma si alimentano a vicenda. 

Da un lato l’iperpolitica della grande coalizione in cui stanno dentro tutti, sono tutti amici e si va avanti a forza di negoziati e compromessi. Dall’altro l’ipopolitica o l’antipolitica dei neofiti della rappresentanza, i marziani catapultati in parlamento che non si alleano con nessuno, perché loro le contaminazioni le schifano. Due facce della stessa medaglia. Due sintomi della stessa sindrome: un sistema politico bloccato. 

E ora sono alle porte le elezioni europee, che si inseriscono a pennello dentro la cornice. Per molti motivi. Primo. Perché in quelle elezioni, considerate non decisive, si è più propensi a partecipare in maniera «espressiva» e non «strumentale»: si dà un voto sincero. Senza calcolare troppo gli effetti sulla tenuta del Governo. Non a caso, l’unica occasione in cui il Pci sorpassò la Dc fu sei giorni dopo la morte di Berlinguer alle europee del 1984. Quello fu un voto di omaggio, forse anche da parte di elettori ideologicamente distanti, verso una forma di moralità della politica. Stavolta la stessa libertà potrebbe essere usata per dare un messaggio completamente opposto.

L’Europa d’altronde è da tempo il bersaglio privilegiato dei partiti populisti, il nemico numero 1 del popolo-sovrano. Un bersaglio facile perché le sue istituzioni elette in secondo o terzo grado dai governi nazionali possono essere rappresentate come cricche privilegiate che emanano norme e opprimono i cittadini senza averne mandato. Grillo può dire non solo che il governo Monti è «stato messo lì dall’Europa», ma anche che Letta e Alfano obbediscono ai diktat della Merkel. E in una fase in cui cresce a dismisura la disaffezione verso l’Europa, c’è uno spazio immenso per gli strali del comico-politico. Dal 2003 a oggi, infatti, i cittadini italiani che hanno un’immagine positiva dell’Europa si sono pressoché dimezzati (dal 60% al 32%), mentre quelli che hanno un’immagine negativa sono più che raddoppiati (dal 10 al 24%). Terzo, il sistema proporzionale (con soglia al 4%) mette in difficoltà i partiti più piccoli protetti dalle coalizioni del Porcellum e favorisce quelli medio-grandi che non si alleano per principio. E infine l’astensionismo che da sempre caratterizza quel tipo di elezione colpirà di più i partiti tradizionali rispetto al popolo di Beppe, che se decide di mobilitarsi al grido di battaglia del capo, poi va dritto all’obiettivo. Saranno sicuramente più pigri gli elettori rimasti affezionati ai due principali partiti intenti a governare con l’avversario di sempre, immersi in giochi tutti parlamentari (scissioni, nuovi gruppi e altre alchimie) fatti sempre senza l’oste (cioè senza consenso elettorale). 

La morale è semplice. Grillo rischia di ottenere un risultato clamoroso alle europee. Tanto più alto quanto più la grande coalizione darà l’impressione di traccheggiare. Grillo lo ha capito benissimo. Armi e bagagli è già pronto dal palco del terzo V-Day a mandare a quel paese i partiti e i suoi leader, la destra e la sinistra. Una settimana prima delle primarie del Pd, non a caso. E ci racconterà che nel 2054 eleggeremo un governo mondiale nel giro di un clic, loggandoci tutti insieme e votandoci l’uno con l’altro perché tutti possiamo diventare Presidente. E noi finiremo per crederci un po’ di più, nel clima di rassegnazione che ci affligge tutti. 

Le larghe intese non possono dunque che darsi da fare. L’inconcludenza sulla revisione della legge elettorale a questo punto non è più accettabile. E ha ragione Renzi a sottolineare che alla Camera il Pd ha i numeri per fare un passo che impegnerebbe tutti, per dare un segnale netto subito, agli elettori e agli alleati. A Grillo invece basta stare fermo. Tanto, per ora, ci sono gli altri partiti «che lavorano per lui».

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da - http://lastampa.it/2013/10/28/cultura/opinioni/editoriali/le-grandi-intese-aiutano-grillo-alle-europee-jSh65enU3exbFX0NMCBOIO/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI. - Il doppio volto delle grandi coalizioni
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 06:52:18 pm
Editoriali
02/11/2013

Il doppio volto delle grandi coalizioni

Elisabetta Gualmini

Nell’intervista di ieri, il Presidente del Consiglio sembra autorevolmente condividere l’allarme che avevamo lanciato da questo giornale una settimana fa e cioè che la prossima competizione elettorale per il Parlamento europeo potrebbe costituire una straordinaria finestra di opportunità per partiti populisti e anti-europei. Quella che dovrebbe essere l’occasione di una legittimazione popolare delle istituzioni comunitarie rischia di diventare il treno su cui salgono in pompa magna forze politiche che dell’Europa non ne vogliono sapere. Per essere ancora più chiari, il partito di Grillo che prende a mazzate Bruxelles e Strasburgo tutti i santi giorni, la moneta unica a giorni alterni, potrebbe esprimere il maggior numero di eurodeputati della delegazione italiana.

I segnali di un possibile boom delle forze populiste e statocentriche ci sono tutti.

Il rallentamento della crescita economica, particolarmente acuto dal 2007, alimenta paure e inquietudini, teorie del complotto tecnocratico insieme a fantasiose narrazioni che disegnano le magnifiche sorti dell’isolazionismo. E poi la percezione ultimamente veicolata anche dall’amministrazione americana che il rigore finanziario europeo sia sino ad ora servito soprattutto in modo unilaterale alla rigogliosa stabilità economica della Germania. 

Ma ci sono anche fattori relativi alla politica interna dei singoli paesi europei che possono favorire oppure contenere le tendenze populiste anti-europee. Le forze anti-europeiste già oggi più che significative sono il partito dei «Veri Finlandesi», il «Partito della Libertà» austriaco, «Alternativa per la Germania». Per non parlare dello UK Independent Party che sta volando nei sondaggi e rischia di diventare il secondo partito britannico. Non a caso, proprio in questi paesi (Austria, Finlandia, Germania), come in Italia, ci sono al governo grandi coalizioni, alleanze e matrimoni per necessità composte dai principali partiti «del sistema», di norma antagonisti, ora costretti a prendersi per mano e a diventare amici. In Finlandia, i Socialisti sono insieme al Partito di centro, ai Verdi, alla Sinistra radicale e al Partito popolare. In Austria nel 2013, come nel 2006 e nel 2008, è tornata la Grande Coalizione tra socialdemocratici e popolari, anche se sempre più spompata (i due partiti arrivano appena al 51% insieme). In Germania sono in corso le trattative tra la Merkel e l’avversario di sempre, l’Spd, per un’altra Grande Coalizione dopo quella del 2005. 

 Se alcuni anni fa, come diceva il principale studioso di populismo Paul Taggart, l’euroscetticismo era una caratteristica limitata ad alcuni partiti estremisti (come la Lega in Italia o il partito di Le Pen in Francia), solo un tocco di dissenso (a touch of dissent), oggi il fossato che divide chi continua ad aver fiducia nelle istituzioni comunitarie e chi ne prende le distanze costituisce un elemento strutturale dei sistemi politici europei. Da un lato i partiti europeisti, dall’altro quelli anti-europei. Con la destra e la sinistra costrette ad allearsi e a costruire una santa alleanza contro la nuova ondata di barbari, decisi a farla finita con una eurotecnocrazia algida e inconcludente, anni luce lontana dai bisogni del popolo. I partiti insider contro gli outsider. Di questo passo, un inedito matrimonio tra socialisti e popolari europei potrebbe addirittura diventare, più di quanto non sia già adesso, la soluzione necessaria per il governo dell’Ue.

D’altro canto rimane un quesito bello grosso, che proprio il Premier dovrebbe porsi. Se e a quali condizioni le grandi intese tra partiti main stream siano nel medio termine una soluzione o non siano invece solo l’altra faccia del problema. Se non rischino di alimentare il successo annunciato dei populisti, confermando nella percezione dell’opinione pubblica più sfiduciata la teoria che rappresenta i partiti del sistema abbarbicati al potere, la loro politica permeata da accordi trasversali indipendenti dal consenso popolare, incapaci di dare risposte concrete. 

Se la sveglia è davvero suonata, se il overno italiano vuole davvero sminare il pericolo imminente così lucidamente identificato da Enrico Letta, dovrebbe predisporsi a dare segnali robusti e concreti di un cambiamento di rotta ben prima del maggio 2013, certamente non dopo, quando sarà troppo tardi.

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Titolo: Elisabetta GUALMINI. - Moderati, contro la sinistra c’è un cartello
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:38:51 pm
Editoriali
19/11/2013

Moderati, contro la sinistra c’è un cartello

Elisabetta Gualmini

Non c’è nulla in comune tra lo strappo di Gianfranco Fini dal Pdl e la scissione lanciata da Alfano. Berlusconi ha cambiato il finale della rottura con l’erede designato e, invece di andare allo scontro frontale, ha preso tutti in contropiede. Ha rinculato preparandosi a un rilancio. Non ha rinnegato il figlio ingrato ma ha invece lasciato apertissima la porta per una futura alleanza elettorale. 

Non ha rotto, ma ha tenuto dentro tutti: chi rimane, chi forse non sta più e chi non è mai stato (Lega) nella strana maggioranza, i governativi e gli antigovernativi, chi non vede l’ora di far rotolare il governo e chi spera ancora nella grande riforma costituzionale, chi vuole riprovarci con le primarie e chi si affida solo al leader maximo. Tutti pronti per tornare uniti nel cartello dei moderati contro le sinistre, non appena verrà il momento di ripresentarsi davanti agli elettori. Un cartello pigliatutto che facilmente si allungherà centimetro dopo centimetro verso il centro dopo l’uscita da Scelta Civica dei «cattolici» guidati da Mario Mauro. 

In questo modo Berlusconi lascia che i governativi puntellino il governo, scrollandosi di dosso la responsabilità per una sua eventuale caduta. Anche se Forza Italia passerà all’opposizione, i numeri per Letta saranno garantiti. E, dall’opposizione, il Cavaliere potrà incalzare con maggiore vigore il suo popolo, giocando fino in fondo la partita populista verso i delusi dall’approccio incrementale della grande coalizione. Verso i moltissimi che non ne possono più dei «professionisti della politica» e di una politica lenta «che non decide mai». Potrà fare le pulci a Letta, sui provvedimenti economici e non solo, lasciando ai diversamente berlusconiani l’onore delle seggiole e l’onere di sostenerlo. Mentre il Pd continuerà a soffrire la contraddizione tra le alte aspirazioni riformiste declamate nelle mozioni congressuali e la pratica del compromesso permanente.

Il proto-cartello dei moderati, prima ancora che premessa per una futura alleanza elettorale, è peraltro un necessario accorgimento per tenere insieme le giunte comunali e regionali a cui nessuno dei partner, per ragioni varie, può rinunciare. Dopotutto anche il centrodestra ha una struttura territoriale da manutenere e serbatoi di voti da preservare. 

L’unica incognita, in questo quadro, è la tempistica. A un certo punto Berlusconi non potrà che giocare il tutto per tutto, provando ancora una volta a vincere le elezioni. Sa che per farlo o darlo a intendere avrà bisogno di una coalizione di taglia larga, come nel 2001 in cui stravinse e nel 2006 in cui perse per poco. Mettendo insieme, per l’appunto, «tutti i moderati contro le sinistre» e cavalcando ancora una volta il mito della rimonta all’ultimo minuto. A quel punto gli stracci non voleranno più. Nessuna «testa di rapa», nessun «stalinista», nessun «estremista». Non si sbraca più, si ritorna in famiglia. 

 
Certo, Berlusconi sta per uscire dall’arena parlamentare e anagraficamente è nella fase finale della sua esperienza politica, ma potrebbe ancora al prossimo giro essere il grande manovratore grazie a un accordo, forse già in atto, con Alfano, giocando su un mix di modernizzazione (forse le primarie magari tra Fitto, Alfano e Tosi) e di operazione nostalgia (il ritorno a Forza Italia e il richiamo imperituro alla lotta per la libertà). Con una federazione-ombrello tra partiti piccoletti che sommati insieme fanno la differenza. 

In queste condizioni il centrosinistra non può dormire sonni tranquilli. Anzi, non può permettersi nessun tipo di errore. Matteo Renzi, da ieri vincitore indiscusso tra gli iscritti, ha davanti una sfida bella grossa. La spinta propulsiva della rottamazione e di una leadership fuori dai giochi a questo punto si è consumata. Dal 9 dicembre, dovrà dimostrare che insieme a una buona dose di contagioso entusiasmo, ha pure una strategia, una squadra e una coalizione.

Se dovesse a un certo punto farsi largo il dubbio che il ricambio di cui è portabandiera è messo nelle mani di dilettanti allo sbaraglio o di politici arciconsumati disposti a tutto pur di salire sul carro, che non è in grado di dirigere un’orchestra altrettanto articolata, il «cartello dei moderati», che ora appare la ridotta del leader al tramonto, potrebbe rivelarsi l’ennesimo colpo vincente del Cavaliere. Nel Pd, d’altro canto, ci sarà sicuramente qualcuno pronto a dargli una mano. 

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Titolo: Elisabetta GUALMINI. - L’antipolitica corre verso Bruxelles
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2013, 04:29:50 pm
Editoriali
02/12/2013

L’antipolitica corre verso Bruxelles
Elisabetta Gualmini

 
È un altro mondo quello di Grillo rispetto ai partiti tradizionali o a quel che resta di loro. Negli anni, maledettissimi, della democrazia depressa. 

È l’altra faccia di un sistema politico impallato e scassato dall’inerzia degli ultimi venti anni. Inutile sperare che la meteora sparisca lasciando solo una piccola scia o che le sconcertanti semplificazioni del comico-politico lascino insoddisfatti cittadini dai gusti raffinati. C’era una folla smisurata ieri ad ascoltare Grillo a Genova, una adunanza gigantesca di persone in carne e ossa (altro che partito virtuale) davanti al corpaccione mobile del leader-conduttore-presentatore. Un po’ concertone del 1° Maggio, un po’ comizione politico, non si poteva sperare di meglio per dare il calcio di inizio alla campagna elettorale per le europee. Grillo usa i temi e il metodo di sempre. Non cambia nulla nel suo messaggio. Ma il contesto della competizione europea gli sarà ancora più favorevole. 

La «rivoluzione culturale» da Roma a Bruxelles. Accantonata per un attimo la lotta contro la casta, e messa temporaneamente in naftalina l’armatura del guerriero (solo un timido tut-ti-a-ca-sa intonato dalla folla), Grillo rispolvera i temi classici delle origini, quelli che hanno segnato la nascita del Movimento. Da un lato la lotta contro la moneta unica e l’Europa delle tecno-burocrazie, che opprimono con i loro oscuri bizantinismi i popoli-sovrani; dall’altro la ricerca di un neo-ambientalismo sostenibile. Temi cari alla destra e cari alla sinistra, così che tutti possano stare dentro. Grillo torna a proporre il referendum sull’Euro, l’introduzione dei dazi sui prodotti, la difesa del made in Italy, il cartello dei Paesi del Sud contro la Germania dei ricchi e i Paesi del Nord. Martella poi sulle energie rinnovabili, la bioedilizia e la reinvenzione green del lavoro. Nulla di nuovo, se si pensa ai 20 punti del Febbraio 2013. Stesse convinzioni snocciolate come verità assolute, indiscutibili. Infarcite da grafici banali e citazioni sgangherate. Inutile chiedere al capo dei capi di sviscerare i pro e i contro. E’ tutto molto semplice. «Si va in Europa e si cambia tutto».

Il governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Torna l’utopia del Movimento 5 Stelle. L’appello al popolo-sovrano che deve riappropriarsi del potere. I cittadini comuni che scoperchiano il marcio delle istituzioni. «Io non mi sono messo a fare politica. Io facevo l’idrogeno in casa, sono curioso. Il falegname, l’elettricista tutti devono dare una mano». Più che una anti-democrazia quella dei 5 Stelle è una immaginifica democrazia perfetta, che realizza tutte le iniziative dei cittadini, restituendo, con ricette alla portata di tutti, una superiore etica pubblica, giustizia, benessere e libertà. E’ la visione «redentrice» della democrazia che garantisce la salvezza ai cittadini senza l’odiosa intermediazione dei partiti. 

E’ un’offerta che oggi in Europa trova diversi pubblici disponibili a comprarla. In tutti i Paesi dell’Unione i movimenti populisti ed euroscettici vedono crescere i loro consensi grazie, più o meno, alle stesse rivendicazioni e utopie. Tuttavia il Movimento 5 Stelle gode di un consenso di gran lunga superiore ai cugini tedeschi, francesi, britannici o olandesi, perché non solo Grillo capitalizza sulla crisi economica (da noi più profonda che altrove) e sulla stanchezza nei confronti di un’Europa considerata opaca e occhiuta mandante di condizioni non più sopportabili. Da noi è la crisi della politica che ancora morde. E l’esistenza di un governo non espressione di un mandato elettorale facilita il gioco dell’accostamento tra un’Europa manovrata da oscure tecnocrazie e una politica domestica, nella narrazione di Grillo, governata dal Quirinale (contro cui non a caso ha rivolto l’ennesimo attacco). La sfiducia nei confronti di partiti arroccati in difesa continua a essere altissima. Grillo è sempre uguale a se stesso; i suoi parlamentari pure. Sono gli altri che devono recuperare terreno. Ma se continuano ad arretrare, intimoriti dal voto e al tempo stesso incapaci di prendere decisioni esemplari, la folla di Genova è destinata a ingrossarsi, fino al possibile epilogo di un risultato sonante alle elezioni europee.

twitter@gualminielisa 

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Titolo: Elisabetta GUALMINI. - Da oggi iniziano le vere sfide
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 11:23:55 am
Editoriali
09/12/2013

Da oggi iniziano le vere sfide
Elisabetta Gualmini

Renzi si è preso il Pd. Ne ha conquistato la leadership in un modo e in tempi assolutamente inusitati rispetto all’intera storia dei partiti dell’Italia repubblicana. 

Con oltre il 65% dei voti, nel giro di un anno dalle primarie del 2012, ha fatto piazza pulita di un’intera generazione di dirigenti, ha ridimensionato i capibastone ed è diventato segretario.

Un trionfo, se si pensa che ha superato il 70% proprio nelle regioni rosse (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche), quelle in cui la tradizione post-comunista sembrava inscalfibile (dove Cuperlo paradossalmente va peggio che nelle altre regioni). 

Si tratta di un evento dirompente nell’Italia delle classi politiche inamovibili e aggrappate con le unghie alle rendite di posizione. Nell’Italia in cui nessuno va mai a casa. Basti pensare ai leader del Pci segretari a vita, ad Andreotti che era sottosegretario alla presidenza del consiglio nel 1947 e primo ministro nel 1990 (43 anni dopo!), o alla longevità politica di Berlusconi. Questa volta qualcuno ha perso. Senza ombra di dubbio.

Un cambiamento simile è stato possibile solo grazie alla particolare democrazia interna che si è dato il Pd nella fase fondativa: alle primarie, in senso lato, che prima hanno consentito al “ragazzo” di emergere come sindaco di Firenze, poi di affermarsi come leader nazionale nella sfida a Bersani e infine di insediarsi alla guida del partito. Per un lungo tratto, contro tutto l’establishment interno.

Il partito aperto ha aiutato Renzi e Renzi ha aiutato il partito aperto. Ha “conquistato” (nella doppia accezione) il Pd grazie all’enorme partecipazione del popolo degli elettori che ha travalicato di gran lunga il popolo degli iscritti. Gente di tutte le età pazientemente in coda ai gazebo, che vuole dire la sua, anche se ha ben poco in comune con i militanti delle sezioni e dei circoli, prevalentemente anziani. I quali, circoli, a loro volta, dimostrano quanto siano, soprattutto in alcune aree, troppo chiusi per essere rappresentativi anche solo della base elettorale più identificata. La media dell’età non sarà in linea con quella della popolazione, ma ieri si è abbassata parecchio rispetto al “primo turno”. Negli anni drammatici della sfiducia totale nella politica, di una credibilità dei partiti ormai sotto i piedi, oltre due milioni di persone si sono messe in fila per scegliere il segretario di un partito che si candida anche a governare il paese. 

Ma ora il punto è questo. Renzi si è preso la leadership del Pd, ma per fare cosa? Ora inizia la partita vera. Perché le resistenze saranno fortissime. Il primo scoglio lo ha posto la Corte Costituzionale con una (discutibile) sentenza che ha imposto il ritorno a un sistema elettorale puramente proporzionale (addirittura con le preferenze in circoscrizioni enormi), facendo tabula rasa di 20 anni di bipolarismo. E in parlamento sono già apparse varie tentazioni di approfittarne, assecondate dall’incapacità dei partiti dopo anni e anni di cambiare la legge elettorale. Ora ne va del destino del nostro paese, nel caso in cui rimanesse un sistema proporzionale, saremmo condannati alla ingovernabilità. Renzi che da oggi è a capo del partito più grande in Italia e del partito più forte nel governo non può aspettare nemmeno un giorno. L’unica soluzione, più che spostare la discussione alla Camera, è trovare subito al Senato una maggioranza per ripristinare il sistema elettorale precedente. Quello voluto dalla quasi totalità dei molti cittadini che votarono il referendum Segni del 1993 e che in più di un milione avevano chiesto di far rivivere firmando per il referendum nel 2011 che un’altra sentenza della Corte Costituzionale ha impedito si svolgesse. Ma lo deve fare ora, subito, adesso! Prima al Senato (dove il Pd non ha la maggioranza), cercando gli accordi necessari con chi ci sta e poi alla Camera (dove il testo potrebbe andare liscio). Senza traccheggiare, andando subito a segno.

Questa è la prima vera partita in cui non sarà in gioco solo la sua personale traiettoria: fin qui Renzi di strada ne ha fatta, la bicicletta del partito aperto che ha trovato sembrava fatta apposta per lui. Ora ci sarà ancora parecchio da pedalare e la strada sarà in salita, ma la missione potrebbe non essere impossibile. 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/12/09/cultura/opinioni/editoriali/da-oggi-iniziano-le-vere-sfide-zz0rlVddlThkrH1p7Vj7BJ/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI - Un’agenda stile “prendere o lasciare”
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2013, 04:44:49 pm
Editoriali
16/12/2013

Un’agenda stile “prendere o lasciare”

Elisabetta Gualmini

Esattamente come aveva promesso, ieri Matteo Renzi a Milano ha preso in mano le sorti del governo. Ha dettato l’agenda all’esecutivo proponendo un accordo iper-dettagliato alla tedesca che gli consente di puntare a un duplice obiettivo. Se le riforme riusciranno, Renzi potrà presentarsi agli elettori con un primo pacchetto di misure popolari da rivendicare a proprio merito e una macchina dello Stato che decide più velocemente. Se invece tutto andrà a rotoli, sarà chiaro che il sindaco-segretario ci ha provato e ci sarà comunque qualcuno su cui scaricare il biasimo: da Alfano a Grillo, passando per Berlusconi. In piena campagna elettorale per le europee, Renzi non può permettersi di cincischiare. 

Passato il Natale, non si scherza più. Non si può ripetere la «brutta figura» dell’Imu, il prezzo altissimo pagato sull’altare delle larghe intese, con Berlusconi che ha pure rovesciato il tavolo passando all’opposizione. E così sul lavoro, sui diritti civili e le riforme istituzionali Renzi inanella le sue proposte ultimative, con annesse scadenze, i patti a cui é difficile dire di no, da prendere o lasciare.

Alcuni contenuti, se si va oltre le formule stentoree buone per la platea congressuale e per le tv, non sono a dire il vero proprio chiari. Parlando ai delegati del Pd, Renzi si tiene saldamente stretto ai capitoli più cari alla sinistra (come ha prontamente colto Alfano, per ridimensionare la portata del messaggio). Ma proprio sulla questione numero uno, sul lavoro, Renzi dovrà spiegare meglio in quale direzione intende andare. Se tornare a una visione assistenzialista, come quella incarnata (almeno fino a ieri) dalla neo-responsabile in segreteria Pd, Marianna Madia, sostenuta alle primarie dei parlamentari dalla Cgil (e, tra le altre cose, autrice di un libro sulla precarietà con prefazione di Susanna Camusso), che punta su sussidi e garanzie sociali per tutti (un non ben specificato reddito di inclusione universalistico finanziato togliendo risorse non si sa dove) e l’ennesima riforma dei centri per l’impiego che sino ad oggi hanno intermediato il 4% della forza lavoro, o quella opposta, orientata alla crescita della ricchezza come volano per redistribuire, che pensa piuttosto di investire le non molte risorse disponibili per ridurre le tasse sul lavoro (come ha chiesto Filippo Taddei, anche lui in segreteria Pd) e non criminalizza la flessibilità (come diceva Pietro Ichino, graditissimo a Renzi nelle primarie del 2012). Non si può tenere insieme tutto; attaccare il sindacato e poi proporre politiche del lavoro che ammiccano al sindacato. E poi lo ius soli e la patata bollente della riforma elettorale e dell’abolizione del Senato, con un ultimatum rivolto a Grillo. (E Beppe ha risposto in fretta: picche.) 

Insomma Renzi detta le sue condizioni, ed è credibile, sul palcoscenico dell’Assemblea Nazionale, perché ha davanti a sé una platea oggi disposta a seguirlo su tutto. Un partito che sembra docile e addomesticato in cui gli antagonisti sono stati ridotti a minoranze deboli e leali. Bisognerà vedere se i gruppi parlamentari suoneranno ordinatamente lo stesso spartito. Ma questa oggi appare la novità del Pd. C’entra poco la sfida generazionale (di trentenni o quarantenni, balzati sotto i riflettori della politica, che replicano malamente i contenuti diramati dal leader). E’ la forza personale di Renzi che forse riuscirà a dare una scossa. Il Pd ha trovato un leader e il leader ha trovato il partito. E il Pd rompe non pochi tabù. Ha un segretario che cura la comunicazione quanto la strategia, la scena quanto la piattaforma. Una roba che deve aver fatto venire l’orticaria ai dirigenti più anziani. Qualcuno si rivolterebbe nella tomba a sentire gli applausi scroscianti dell’assemblea agli incitamenti motivazionali del segretario, da «rimaniamo ribelli» a «resta speciale e non ti buttare via». Con quella strizzatina d’occhio che Renzi fa sempre prima di cominciare a parlare (ma a chi?) e la girandola di nomi propri che fanno venire il mal di testa, da Enrico, Guglielmo, Pierluigi a Gianni&Pippo, passando per le undicenni Fatima e Barbara, a Katia e Paolo (ma Katia chi?). Insomma il Pd ha cambiato pelle. Se starà sulla frontiera e non nel museo delle cere lo vedremo tra poco. Anzi tra pochissimo. Entro gennaio.

twitter@gualminielisa 

DA - http://lastampa.it/2013/12/16/cultura/opinioni/editoriali/unagenda-stile-prendere-o-lasciare-fAFEQPbo8F57JYVE18LYlL/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI. - Matteo contro tutti
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2013, 05:56:50 pm
Editoriali
30/12/2013

Matteo contro tutti
Elisabetta Gualmini

L’intervista di ieri di Renzi sulla Stampa contiene cinque proposizioni che fanno capire molto bene qual è la postura del nuovo leader Pd nei confronti del governo e immaginare quali saranno le sue prossime mosse.

Primo. Io non sono come Letta e Alfano. Renzi, senza giri di parole, marca la completa discontinuità della sua storia rispetto a quella del premier e del vicepremier. E questo nessuno lo può mettere in dubbio. Sono due mondi e due visioni della politica sideralmente opposte che hanno ben poco in comune. Non basta l’età a tenerle agganciate. Letta e Alfano sono arrivati a ricoprire vari incarichi politici, e certamente il più elevato della loro carriera, quello attuale, per nomina dall’alto, da parte di politici parecchio più anziani di loro. Renzi ci è arrivato con voti conquistati dal basso, ponendosi in aperto contrasto con chi ha mandato avanti i primi due. Renzi può far pesare voti, non generiche dichiarazioni di stima, già presi o attesi, che i coinquilini di Palazzo Chigi non hanno. 

Secondo. Il governo va facendo marchette. In effetti i giri di valzer sull’Imu e la carrettata di nomine di neo-prefetti sono opera sua (del governo). 

Le mille mance della legge di stabilità sono passate con la sua approvazione, benevola o succube nei confronti dei battaglioni parlamentari senza guida che lo sostengono. 

Terzo. Non negozio con Letta sui sottosegretari. Il sindaco-segretario ci dice chiaro e tondo che non gli interessa il rimpasto, una pratica consolidatissima della prima repubblica, dopo aver accettato la quale, crollerebbe tutto il castello della sua diversità. Un altro modo per dire: le piccole intese non sono cosa mia e non mi faccio includere in giochi di palazzo destinati a durare poco. Un Renzi che fa il verso a Grillo, rigettando scambi e accordicchi con chi ha una visione diversa dalla sua. 

Quarto. Datemi una legge elettorale maggioritaria. Oggi, in effetti, una priorità assoluta: per la democrazia italiana e per il Renzi medesimo. Senza una legge elettorale che consente a chi vince di governare, continueremo a tenerci, nella migliore delle ipotesi, governi di decantazione, incaponiti nel voler durare, mentre il Paese si arrabatta declinando. Senza una legge maggioritaria i partiti non avrebbero più bisogno di un leader che faccia loro vincere le elezioni. La forza di Renzi, il suo approccio alla leadership e il suo primo messaggio, perderebbero peso. Per questo dice chiaramente (e giustamente) che ne parlerà con chiunque, a cominciare da Berlusconi, forse l’unico interessato a questo accordo, a dimostrazione che è ancora quello che prende i voti nel centrodestra. 

Quinto. A chi scalpita per andare alle elezioni, Renzi dice: «State calmi, ragazzi».

Per interpretare le prime quattro affermazioni non servono supposizioni e dietrologie. Sono una la conseguenza dell’altra. Semmai ci si potrebbe chiedere: perché dire le prime tre con così poca grazia nei confronti di Letta e Alfano, così a brutto muso? Ma solo se non si fosse ancora capito il carattere del ragazzo («the boy», si diceva di Tony Blair), il suo parlar chiaro e la sua dichiarata ambizione. Uno che ha capito che nella melassa melliflua della politica italiana, che ha disgustato anche il più paziente dei cittadini, è meglio colpire piuttosto che tentennare, sparare e incalzare piuttosto che rassicurare. 

L’unica cosa su cui si possono nutrire dubbi è se sia realmente disposto, dopo aver ottenuto la legge elettorale, semmai gli riuscisse, ad aspettare ancora un anno e mezzo. Dovendo nel frattempo affrontare il test insidiosissimo delle Europee, con il Pd compresso tra l’esplosione dei sentimenti euroscettici, mobilitati da Berlusconi, Salvini, Vendola, Grillo, e una miriade di partitini suoi alleati nelle ristrette intese. 

Finora Renzi è parso credibile nel dire che sosterrà il governo Letta fino al 2015, affinché e purché si facciano le riforme (legge elettorale e abolizione del Senato). D’altro canto non è facile far correre la bicicletta delle intese di taglia mini come una Ferrari, infiocchettando una scelta epocale dietro l’altra dopo 20 anni di inerzia totale. E’ una sfida che rasenta l’impossibile. Il primo test è a gennaio. Se Alfano si metterà di traverso, per prendere tempo e sostenere una legge non abbastanza maggioritaria, sarà già molto chiaro che la road map delle riforme è arrivata al capolinea. 

Da - http://lastampa.it/2013/12/30/cultura/opinioni/editoriali/matteo-contro-tutti-4eL5AC3lTbXhWBJBIcwY8K/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI - Riforma importante Compromesso ragionevole
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2014, 05:58:11 pm
Editoriali
21/01/2014

Riforma importante
Compromesso ragionevole

Elisabetta Gualmini

Alla ricerca della «dignità perduta», il caterpillar Renzi ha messo sul tavolo della segreteria Pd un pacchetto di riforme istituzionali già chiuso. Nel giro di due direzioni e di 4 giorni, il neo-segretario ha portato a casa il sì di Berlusconi, Alfano e Letta. E’ un pacchetto all inclusive, prendere o lasciare, senza vie di mezzo, con tempi e scadenze fissate, proprio come nel famoso foglio Excel. Ma se si vuole fare gli schizzinosi e cambiare qualche ingrediente (come chi chiede di farsi togliere la cipolla dall’hamburger) tutto si sfarina e si rimane a mani vuote. E il Pd ha colto l’offerta al volo, con una stragrande maggioranza.

E’ un doppio successo per il segretario del Pd. Primo. Ha rimesso in moto un pachiderma che da decenni pareva privo di vita, disegnando una riforma su tre livelli che, se tenuta tutta insieme, potrebbe davvero segnare l’inizio di una stagione nuova. Secondo: ha dimostrato, se ci fossero ancora dubbi, che la leadership conta, che in politica le cose si fanno se qualcuno tira e dà la spinta, ed è capace di negoziare da posizioni di forza. Se c’è un leader. Punto.

Certo, il contenuto dell’accordo sul sistema elettorale non è esaltante. Però raggiunge gli obiettivi, a fronte di un contesto insidioso e di attori in gioco recalcitranti ad autoriformarsi. Come un compito ben fatto, corregge il Porcellum seguendo punto per punto le indicazioni della Consulta. Tutto quello che ha chiesto la Corte c’è. 

L’assegnazione del premio è condizionata al superamento di una soglia minima (35%) o alla vittoria in un eventuale secondo turno di ballottaggio. Le liste bloccate si accorciano fino a rendere i nomi dei candidati di collegio ben visibili per gli elettori, come in Spagna, com’era per la quota proporzionale della Mattarella e com’è nella gran parte dei Paesi europei. Ma la vera novità, non richiesta dalla Corte, è che vengono alzate le soglie di sbarramento anti-partitini, se é vero che pure queste sono parte non più negoziabile dell’accordo: salgono al 5% per i partiti connessi a coalizioni che prendano almeno il 12; all’8% per i partiti solitari. Per intendersi, oggi come oggi, Scelta Civica, Lega, Sel, Udc e Ncd (che non può dirlo) sarebbero tagliate fuori!

Cosí Renzi ha tenuto dentro tutti: Alfano, Berlusconi e l’opposizione del suo stesso partito. Berlusconi ha incassato le liste corte e la soglia al 5% anti-frammentazione, mandando giù l’amaro calice del doppio turno, Alfano ha incassato la logica delle coalizioni pluripartitiche e una assicurazione sulla vita del governo di almeno un anno per la riforma costituzionale. E si ripristina comunque una dinamica bipolare che di fatto rende la vita difficile a Grillo, il quale farà fatica a vincere sia al primo turno (è dura raggiungere il 35% in solitaria) sia al secondo (è assai improbabile che gli elettori mandino il Grillo anti-sistema a Palazzo Chigi, se c’è una alternativa un po’ più rassicurante). 

 

Certo, sarebbe stato meglio tornare ai collegi uninominali: una soluzione che avrebbe reso più trasparente il rapporto dei singoli candidati con i cittadini e più nitida la scelta della forza politica chiamata a governare. Ma l’ottimo paretiano è difficile da raggiungere se vuoi coinvolgere maggioranza e opposizione. 

E così la riforma del sistema elettorale si accompagna alla abolizione del senato elettivo, che diventerebbe una camera delle autonomie locali con innesti illustri dalla società civile. E poi la riforma del titolo V, che dovrebbe rimettere ordine alle competenze (troppe) in mano alle regioni, ridando a Cesare ciò che è di Cesare (turismo ed energia rispedite allo stato) e ricondurre le regioni (ai minimi storici di credibilità) a quello che possono e sanno fare. 

Niente male se tutto va per il meglio. Se i senatori non ci ripensano e si mettono di traverso al proprio suicidio assistito e se tutti stanno ai patti. Ma anche se così non fosse, Renzi ci ha comunque provato, mettendo tutti davanti alle proprie responsabilità. Saranno gli elettori a giudicare. Se invece tutto va per il verso giusto, avremo una riforma importante nata da un compromesso ragionevole. Una soluzione pragmatica. Nessun seminario, nessuna commissione di cattedratici decadenti. Una decisione. Non è poco.

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2014/01/21/cultura/opinioni/editoriali/riforma-importante-compromesso-ragionevole-OUmWOjqn8ljnQTDHW4zFvN/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI La corsa a ostacoli di Matteo
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2014, 04:56:41 pm
Editoriali
29/01/2014

La corsa a ostacoli di Matteo

Elisabetta Gualmini

La vera scommessa di Matteo Renzi non è tanto (o solo) portare a casa la riforma del sistema elettorale, ma è soprattutto vincere la sua prima battaglia contro la politica lenta e inconcludente. Che se non parlassimo di Matteo, penseremmo tutti a Beppe. «Non mi farò ingabbiare dalle liturgie della politica», ha detto ieri Renzi-Perseo, deciso a rincorrere e ad annientare la Politica-Medusa, prima che questa lo faccia diventare, anche lui, di pietra.

Renzi cerca dunque di evitare il sortilegio, giocando da bordo campo, dando dritte, dettando schemi di gioco e urlando come un forsennato, all’occorrenza, per spingere gli inquilini del palazzo, riluttanti, ad auto-riformarsi. E non c’è dubbio che la velocità è dalla sua parte; perché ha capito che negli anni più tremendi della democrazia impaludata, occorre correre e correre, senza prendere fiato. Essere più rapidi degli altri, fulminei. Perché gli italiani hanno un disperato bisogno di risposte concrete. Subito. Non sopportano la complessità dei processi politici, non credono più alla forza delle decisioni negoziate a lungo. 

E così Matteo prende le distanze: preferisce Firenze a Roma, la bicicletta all’auto blu, il maglioncino rosso shocking alla giacca, il panino di Eataly ai ristoranti romani. Ha capito lo spirito dei tempi e ci vive dentro benissimo. Non ci si può più permettere la lentezza. «Fuori dalle stanze dei palazzi c’è un Paese che ha bisogno di gesti concreti di cambiamento. Ora, non tra qualche anno». Ripete. Ma ci sono cose che Renzi non può controllare. ll Parlamento ha le sue regole, e le istituzioni sono resilienti. 

La guerra di trincea è iniziata. I pericoli e le possibili trappole vengono da quattro fronti. Nell’ordine, per primo, l’ostruzionismo grillino. Ovvio. Inevitabile che si mettesse in moto. E’ già all’opera in commissione Affari Costituzionali con interventi fiume di ciascuno degli otto componenti pentastellati, sui prolegomeni, nella discussione generale sugli emendamenti: ancora prima di cominciare a votarli. Potrebbe continuare con lo stesso ritmo e la stessa tecnica su ognuno di essi, fino alle calende greche. I seguaci di Grillo d’altro canto non hanno nulla da perdere in questa partita. Si sono tagliati fuori dalle trattative sulla riforma elettorale e hanno deciso per l’ennesima volta di giocare in solitaria. E mentre Grillo lancia il secondo mirabolante referendum on line sulle diverse forme di collegio uninominale, i più temerari, ormai privi di qualsiasi strategia, si muovono alla rinfusa e fanno a gara a chi la spara più grossa (come l’insulto intollerabile di ieri a Napolitano). Come ha incredibilmente riconosciuto proprio ieri Adriano Celentano, un uomo certamente non ostile alla protesta grillina, che ha lodato senza mezzi termini l’accordo tra Renzi e Berlusconi. 

La trincea grillina (secondo) potrebbe essere contrastata, proprio oggi, se il presidente berlusconiano della Commissione, Sisto, si avvalesse di uno strumento che il regolamento mette a sua disposizione, la cosiddetta tagliola, decidendo di mandare in aula il testo base così come è stato inizialmente approvato, senza nemmeno iniziare l’esame degli emendamenti. Mossa cruciale, perché se il testo arriva in aula prima che finisca il mese di gennaio, allora (terzo) la presidente vendoliana dell’Aula, Laura Boldrini, potrebbe decidere di fissare un termine ultimo per la votazione entro il mese di febbraio. Scavallato gennaio, il termine, a norma del regolamento, potrebbe essere fissato solo per il mese di marzo. Fin qui i possibili vincoli esterni: i grillini, il presidente berlusconiano, la presidente eletta da SeL. Se e quando si arriverà in aula, (quarto) i tranelli potrebbero venire dall’interno dello stesso Pd, con il voto segreto. Magari giocando sulla materia molto popolare delle preferenze, strombazzata anche da chi in cuor suo non la condivide, che consente ai dissidenti di strizzare l’occhio ai cittadini là fuori e di rompere l’accordo con Forza Italia.

Vedremo in questa settimana se la strategia del segretario-veloce andrà a buon fine. Giocare a Rischiatutto con la politica è un’operazione ardita. Ma in certi casi è davvero meglio correre e darsi da fare, piuttosto che stare fermi.

twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2014/01/29/cultura/opinioni/editoriali/la-corsa-a-ostacoli-di-matteo-pzHvLlZaANkZIjZSgYUw0H/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI La soluzione per salvare la legislatura
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:37:05 pm
Editoriali
14/02/2014

La soluzione per salvare la legislatura
Elisabetta Gualmini

Nasce il Renzi 1. Da ieri il sindaco-segretario è diventato di fatto primo ministro di un nuovo governo politico di coalizione a guida Pd. Ha detronizzato Enrico Letta e ha deciso di giocarsi il tutto per tutto. Lo ha fatto con una spregiudicatezza non superiore a quella mostrata dagli accaniti sostenitori delle larghe e poi piccole intese rapidamente saliti sul nuovo carro, ma con molto coraggio in più. 

Renzi vuole cambiare direzione, velocità e ritmo. Per rianimare una legislatura in stato comatoso, che tuttavia - guarda caso - nessuno dei suoi protagonisti vuole interrompere. In assenza di una prospettiva chiara sui destini della legge elettorale e, ancora di più, sulle altre riforme istituzionali (Senato e Titolo V), il leader Pd scommette e rilancia. Senza la consacrazione salvifica delle urne e senza staffetta. Nessuno scambio aggraziato del testimone tra atleti della stessa squadra, nessun passaggio di mano consensuale; tra il segretario e Letta è stata guerra aperta, uno scontro frontale con annesse randellate furenti. Tra due che non si possono vedere. Al confronto quelle tra Veltroni e D’Alema erano sberleffi e baruffe, lizzi e lazze tra educandi. 

C’è da chiedersi se questa sia l’unica soluzione possibile. Nel metodo e nel merito. In un Paese ormai ai minimi storici di credibilità e di fiducia nella politica (ci siamo giocati praticamente tutto, i comuni, le regioni, l’Europa, figuriamoci i partiti). E cioè se la terza soluzione di palazzo, infiocchettata e servita già pronta ai cittadini-spettatori, sia la strada corretta da cavalcare. L’ultima possibilità che resta per dare un senso a una legislatura che, francamente, un senso non ce l’ha, dando davvero corpo alle riforme, che ancora sono scritte sull’acqua, nonostante le promesse, le scadenze e i file excel.

Sul metodo ci sarebbe da discutere. A prescindere da quali saranno le liturgie parlamentari per gestire la crisi, sta di fatto che sarebbe stato meglio per Renzi arrivare a Palazzo Chigi passando per le urne, magari subito dopo l’approvazione della nuova legge elettorale, come promesso durante le primarie: mai a capo delle larghe intese, mai senza passare per il voto. Ed evitando di mettere in scena l’ennesima puntata della telenovela sulle divisioni interne al Pd, per la gioia degli altri partiti.

Nel merito, invece, il Renzi 1 è probabilmente l’unica soluzione ragionevole a fronte del contesto. Un governo by default, in mancanza di alternative. Perché non è possibile andare al voto con questa legge elettorale. E perché i tempi per portarne a casa una nuova potrebbero, secondo Renzi, allungarsi un bel po’, rendendo ancora più alto il rischio che l’attesa sia vana.

Come abbiamo sostenuto in diversi, non solo su questo giornale, c’è da dubitare che la strada del «governo di necessità» sia quella giusta per realizzare «grandi riforme costituzionali». Anche l’esperienza di altri Paesi europei ci dice che di fronte a un Parlamento paralizzato dall’assenza di una maggioranza politicamente coesa, sarebbe stato meglio darsi pochi obiettivi concreti, per rammendare il rammendabile, e tornare a votare. Fare il meno possibile, per evitare disastri. Si è invece seguita, sin dall’inizio, la strada della massima ambizione e della massima propensione al rischio, confidando sull’attaccamento dei parlamentari alla seggiola.

Ora Renzi si metterà a capo di un governo sostenuto da partiti elettoralmente minuscoli (Scelta Civica, Ncd e forse Sel) mentre continuerà ad aver bisogno dell’intesa con Berlusconi sulle riforme, dalla legge elettorale al bicameralismo. In un contesto economico che non appare certamente florido, mentre i bilanci pubblici sono pieni di buchi, al centro e nelle casse degli amati sindaci. 

Solo un fuoriclasse può far uscire da un governo debolissimo il coniglio, la colomba e anche un mazzo di rose. Renzi pare intenzionato a provarci e di coraggio, si sa, ne ha da vendere. Certo c’è anche il rischio che i tempi della legge elettorale da domani invece di accorciarsi riprendano ad allungarsi, che tutti si rilassino e che il neo-premier cominci a farsi logorare. Ma rivendicando una ambizione smisurata, Matteo ci prova. E già da oggi si metterà a correre come un forsennato. Archiviato velocemente Letta che oggi si dimetterà, Renzi-il-furioso riprende la volata. Ce la farà? Visti i precedenti, può darsi. E a questo punto, c’è proprio da sperarlo.

twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2014/02/14/cultura/opinioni/editoriali/la-soluzione-per-salvare-la-legislatura-SRx54N2P0cobNNXIEM9K5I/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI Matteo innova e Beppe diventa “conservatore”
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2014, 11:24:11 am
Editoriali
20/02/2014

Matteo innova e Beppe diventa “conservatore”
Elisabetta Gualmini

Mannaggia alla rete… Si sarà detto Beppe Grillo dopo aver letto i risultati del referendum-lampo lanciato al popolo del web per scegliere se andare o no a colloquio con Renzi. Per 446 voti in più, hanno vinto i sì. Beppe ha dovuto abbozzare e molto di controvoglia ha trascinato se stesso alla «consultazione farsa». 

E via con l’ennesimo comizio in solitaria, per la prima volta proprio dentro al teatrino della politica, sbrodolando però il medesimo copione della guerra contro tutti. Con meno parolacce, meno sudore, ma con il ritmo di sempre. Altrettanto di controvoglia, il premier incaricato è stato al gioco, non perdendo il controllo e pure provando a cambiare registro dopo i tentativi (assai tristi, soprattutto il primo) dei suoi predecessori. Non vi chiediamo nessun accordo alla vecchia maniera, vi raccontiamo quello che vogliamo fare. Niente da fare. Grillo per un po’ ha resistito e poi ha sbroccato: non sei credibile, rappresenti il marcio, sei l’uomo delle banche, dei poteri forti e pure dei rinfreschi, noi vogliamo disinfettare e azzerare tutto. Fine del match. 

Essendo stato del tutto inutile, per fortuna l’incontro è stato veloce. Avrà anche appassionato noi addetti ai lavori e gli smanettoni più incalliti dell’esercito di Grillo, indecisi se prendere a sassate il capo per l’ennesima occasione mancata o se proporne la santificazione con rito abbreviato per aver ribadito ancora una volta la brutale diversità dei 5 Stelle rispetto al resto del mondo, ma la gente là fuori probabilmente no. 

Non cambierà dunque molto dopo il duello Renzi-Grillo. Né Renzi avrà una vita più facile col suo governo, né Grillo pur continuando a non-dialogare porterà il suo movimento alla rovina. Più che le elucubrazioni sulla «fenomenologia dello streaming», ce lo dicono i segnali che emergono qua e là dalle elezioni e dai sondaggi. Il voto in Sardegna rivela tendenze non scontate, anche perché in quel caso il M5Stelle, primo partito nel 2013, non si è presentato. Si scopre in primo luogo l’enorme difficoltà dei partiti tradizionali a recuperare i voti degli arrabbiati. Su 100 elettori del M5Stelle nel 2013, la maggior parte, circa 60, si è rifugiato nell’astensionismo. Per il resto, circa in 15 hanno votato per il centro-sinistra e pochi di più per il centro-destra (se si considerano Cagliari e Sassari, dati Istituto Cattaneo). La lista anti-establishment della Murgia non ha intercettato nulla. La stessa tendenza era emersa dall’analisi di un altro tipo di elezione, le amministrative a Roma. Anche lì il Movimento 5 Stelle aveva ceduto all’astensione una quota rilevantissima di elettori (i quali avevano scelto addirittura di non votare il loro candidato a 5 stelle). Il partito anti-sistema di Grillo tiene incredibilmente, anche quando non è sulla scheda. Si segnala così, in prospettiva, come un traghettatore verso l’astensionismo, più che come una zattera per elettori in attesa che i vecchi partiti tornino a offrire qualcosa di convincente. Si conferma poi la trasversalità piena di questa forza politica. Non solo gli elettori vengono sia dalla destra che dalla sinistra, ma i pochi che rientrano nei partiti tradizionali, vanno da una parte e dall’altra, più o meno nella stessa misura. D’altro canto quando Beppe dice a Renzi «siamo conservatori», proprio ora che Matteo è diventato l’innovatore, guarda a destra (difendiamo la sovranità nazionale) e guarda a sinistra (acqua pubblica e no alle privatizzazioni), tenendo dentro tutti. 

 La spiegazione migliore che io abbia letto - di una tenuta così pervicace e resistente, pur in assenza di risultati – me l’ha scritta un lettore, Bruno, che sintetizza in maniera perfetta perché interi pezzi di classe media continuino a votare Grillo-il-guerriero. «Ho 64 anni e sono un funzionario pubblico. Schifato dalla politica, mi sono sentito dire dai miei figli laureati: abbiamo votato sempre chi ci hai consigliato, ma per noi non c’è futuro, voteremo M5S per azzerare un sistema che garantisce sempre i soliti noti. Ho detto: fate bene, vi appoggerò. Così noi classe media con stipendi bloccati, tasse in aumento, figli super-acculturati, ma disoccupati, abbiamo deciso di votare M5S. E ci aspettiamo che il M5S usi tutti i mezzi democratici per abbattere il sistema chiuso di potere creato dalla mia generazione. Ci devono mettere in pensione e ci deve essere più giustizia sociale. E naturalmente continueremo a votare M5S». 

È passato un anno dalle elezioni del 2013 e ancora non abbiamo una legge elettorale decente, non ci sono misure significative in campo economico, per non parlare delle riforme costituzionali. Quanti Bruno ci saranno in giro? Date retta a me. Moltissimi.

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2014/02/20/cultura/opinioni/editoriali/matteo-innova-e-beppe-diventa-conservatore-tkoW4GLeSCzOdi5owNDN7O/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI Una riforma che per ora resta a metà
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2014, 09:04:12 am
Editoriali
06/03/2014 - le legge elettorale

Una riforma che per ora resta a metà

Elisabetta Gualmini

Aspettavamo una scossa e la scossa c’è stata. Siamo un po’ tutti sotto shock per il mezzo-Italicum che oggi o domani dovrebbe ricevere il primo suggello parlamentare. 

Con un colpo a sorpresa Matteo Renzi ha dato il via libera (tirandosi dietro, con doppia sorpresa, pure Berlusconi) alla proposta dei soci di minoranza dello strano governo (Ncd e cuperlian-dalemiani) di applicare la riforma solo alla Camera, dando per assodato che il Senato quanto prima scomparirà. Anzi, facendo come se fosse già scomparso. Da ieri l’altro. Game over, direbbe Matteo. 

L’azzardo è dunque massimo, e pur essendo abituati alle corse senza respiro del Premier e alle vittorie al fotofinish molti elementi della sceneggiatura destano preoccupazioni che forse dovrebbero impensierire lui stesso.

Primo. Il Senato c’è ancora. A dirla tutta, dovrebbe anche approvare la non-riforma del sistema di elezione che lo riguarda, prima di decretare la sua buona morte. 

Con una classe politica caduta al minimo della sua credibilità, cosa ci fa pensare che tra un anno e mezzo (referendum compreso) saremo approdati gioiosi e felici alla Terra Promessa? (Cioè alla Terza Repubblica?) 

Non solo il testo base della riforma del Senato ancora non c’è. Manca pure l’algoritmo che dica, nero su bianco, come si fa, con il mezzo-Italicum, a trasformare i voti in seggi: non proprio un «dettaglio da addetti ai lavori». Non c’è nemmeno l’accordo tra i partiti della maggioranza su tutto il percorso, se Schifani può dire ai microfoni di Skytg24 e ad Avvenire - non due mesi fa, ma ieri l’altro - che è contrario alla riforma proposta da Renzi e che loro pensano a un Senato con funzioni differenziate rispetto alla Camera, che non dà e toglie la fiducia al governo, ma comunque elettivo. Quindi eletto con la proporzionale pura? Quando ne parleranno con il Pd e si metteranno d’accordo? 

Se tira quest’aria nella maggioranza, figuriamoci all’opposizione. Il Movimento 5 Stelle è da sempre per mantenere per intero la doppia casta di senatori e deputati, ma con stipendi ridotti, benché a decidere sarà come sempre l’amatissima Rete. Le resistenze saranno fortissime. Rispunteranno le barricate contro l’eccessiva concentrazione di poteri come nel modello Westminster: una camera sola che decide, con la maggioranza nelle mani del leader del maggiore partito. E prepariamoci a rivedere l’eterno film della contrapposizione tra gli appassionati sostenitori della «più bella Costituzione del mondo» e i pasdaran del semi-presidenzialismo (già che ci siamo perché non cambiare tutto? mah si, rimescoliamo le carte e ricominciamo tutto daccapo…).

Secondo. Fare le cose a metà non equivale a «fare le cose». Bisogna prendere atto che questo governo non è riuscito a mettere in sicurezza la legge elettorale. Punto. L’Italicum-Consultellum è la perfetta combinazione degli opposti (premio e liste bloccate in piccoli collegi accanto a un proporzionale puro e preferenze in grandi circoscrizioni). Dopo eventuali elezioni tenute con quel sistema, la maggioranza fabbricata alla Camera sarebbe del tutto inutile e bisognerebbe negoziarne un’altra molto più larga al Senato. Per non entrare in altri dettagli, tipo il voto di preferenza che la Corte ha preteso di imporre ma che nella legge per il Senato non c’é, o le strampalate soglie differenziate per partiti coalizzati e non coalizzati che sono invece rimaste.

Dopo il tragico errore da parte del Pd di non votare la mozione Giachetti sul ritorno alla Mattarella, siamo ancora alla dimostrazione che non vi è un accordo su un sistema elettorale decente. Si è dunque scelto un rischio massimo e una soluzione pasticciata che per un anno e mezzo ci lascia sospesi in uno strano limbo che offende le istituzioni e sottrae ai cittadini il loro sacrosanto diritto, che dovrebbe essere in qualsiasi momento potenzialmente esigibile, di tornare a votare per scegliere da chi vogliono essere governati.

Siamo abituati con Matteo Renzi a viaggiare sulle montagne russe e a confidare sull’intuito, l’abilità e la fortuna che aiuta gli audaci. Continuiamo quindi a contare sul suo coraggio e ad attendere fiduciosi che il governo faccia le cose. Questa cosa qui, però, per ora zoppica.

twitter@gualminielisa 

da  - http://lastampa.it/2014/03/06/cultura/opinioni/editoriali/una-riforma-che-per-ora-resta-a-met-Ee2FbHCNUHCPqiUrOJoALK/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI - Come rendere democratici i tagli di spesa
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2014, 06:25:04 pm
08/04/2014
Come rendere democratici i tagli di spesa

Elisabetta Gualmini

La revisione della spesa pubblica che ha finalmente preso corpo nel nostro paese non può essere solo un’operazione contabile, una sadica ossessione da ragionieri pulp di dare colpi di accetta qua e là sull’inerme progenie di Monsù Travet. Il miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione non passa solo per la riduzione chirurgica degli sprechi ma anche, allo stesso tempo, per nuovi investimenti sul personale. Sembra un paradosso ma non è così. Se ben gestita, la spending review potrebbe essere la più equa e «democratica» delle riforme: si liberano risorse dai settori dove ce ne sono troppe per evitare che altri settori di particolare rilevanza per i cittadini debbano essere ulteriormente degradati. Non si può dire ai dipendenti pubblici: ti tolgo risorse, ti blocco lo stipendio, e siccome sei un po’ fannullone può anche darsi che ti tagli la testa, ma comunque tu preparati a partecipare con entusiasmo a una straordinaria avventura di cambiamento e modernizzazione. 

In un paese in cui il personale pubblico è uno dei più vecchi al mondo questa sfida è ancora più difficile.

Anzi, è proprio questo il nodo più intricato da sciogliere se si vuole riformare sul serio la pubblica amministrazione e mettere in moto una spending review permanente. Il ministro Madia ha fatto quindi bene a metterlo in agenda e a tenere il punto. 

Il confronto internazionale è impietoso. L’amministrazione centrale italiana ha il tasso più alto di dipendenti pubblici con oltre 50 anni tra tutti i paesi Ocse, Giappone incluso: circa il 50% contro il 30% della Francia e il 31% del Regno Unito. Una burocrazia così anziana fa fatica a recuperare produttività e a elaborare visioni rivoluzionarie che guardino al futuro.

Altre cose che in tanti pensano invece non sono vere. Non è vero che i funzionari pubblici sono troppi. Nel decennio compreso tra il 2001 e il 2010 la diminuzione del pubblico impiego in Italia è stata di 4,4 punti percentuali (-160.000 unità), contro l’aumento del 5,1% in Francia e del 2,5% in Germania. Si contano da noi 58,4 dipendenti ogni 1.000 cittadini, un po’ più della Germania (55,4) ma molto di meno della Francia (80,8). Nessun elefante, nessun Leviatano, checché se ne dica. Semmai rimane il problema di retribuzioni dirigenziali completamente squilibrate e sproporzionate tra i diversi comparti; pensiamo a un dirigente scolastico che guadagna 6 volte in meno di alcuni direttori generali. 

Ho recentemente partecipato a una ricerca sulla dematerializzazione dei procedimenti amministrativi. Le frasi che ci siamo sentiti ripetere in tutti gli enti coinvolti nella sperimentazione riflettono la consapevolezza della necessità dell’innovazione, ma anche l’impossibilità del cambiamento in un’organizzazione vecchia. «Se non si darà ai giovani la possibilità di entrare, le pubbliche amministrazioni saranno lasciate alla buona volontà dei cinquantenni. Possiamo fare tutti i corsi di formazione che volete, ma senza un ricambio generazionale le organizzazioni invecchiano». E ancora: «Io, che sono il solo qui a occuparmi di innovazione, ho 59 anni». Oppure «Molti colleghi pur avendo imparato a gestire i flussi documentali digitali, si fanno ancora una copia cartacea di tutti gli atti così si sentono più sicuri».

Siamo dunque nel mezzo della terza spending review dal 2011 ad oggi, dopo il tentativo di autoriforma dall’interno (Giarda), di riforma eterodiretta (Bondi) e dopo il mix, giustamente messo in atto da Cottarelli tra coinvolgimento dei dipendenti interni e guida esterna. Siamo in ritardo di vent’anni rispetto agli Stati Uniti e alla «Reinvenzione del governo» di Al Gore (1992) e di trenta anni rispetto al restyling fatto a forza di verifiche e «scrutini» della Thatcher (1982).

Ma per la prima volta il governo sembra aver preso di petto la questione decidendo finalmente di decidere. Ha iniziato, opportunamente, dagli enti più che dai servizi e dalle persone. 

La proposta poi del ministro Madia di assumere nuove leve almeno con un rapporto 1 a 3 (rispetto ai prepensionamenti) è ragionevole. D’altro canto non ci sono alternative: inaugurare il cambiamento del settore pubblico e sperare in un paese semplice e accogliente non si può fare a risorse umane invariate. Si rischia altrimenti di avere un’anziana e bella signora con una silhouette perfetta. Ma che comunque non può correre i cento metri.

twitter@gualminielisa 

DA - http://lastampa.it/2014/04/08/cultura/opinioni/editoriali/come-rendere-democratici-i-tagli-di-spesa-xCUrUdAaW6D0R9KGuPD5iM/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI Per il Senato ci vorrà un miracolo
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 12:06:20 pm
Editoriali
23/04/2014

Per il Senato ci vorrà un miracolo
Elisabetta Gualmini

D’altronde non può fare miracoli. Nonostante la velocità, il ritmo e il carisma, Matteo Renzi è pur sempre a capo di un governo di compromesso. Un governo di coalizione tenuto in piedi da una strana maggioranza di partiti e correnti Pd, che sono tuttavia fondamentali per farlo sopravvivere. 

Al momento del cambio a Palazzo Chigi, sia il nuovo centrodestra di Alfano sia la sinistra post-bersaniana del Pd hanno festeggiato (pur senza applaudire), perché Renzi garantiva una zattera di salvataggio alla legislatura. Non ci hanno pensato un attimo a scaricare Letta in cambio di un po’ di ossigeno. 

Ma ora che Renzi detta l’agenda, su una sua linea molto netta, rischiano di scomparire: i primi, palesemente, alle elezioni europee e i secondi, senza che nessuno se ne accorga, dentro al Pd. Hanno quindi un ovvio bisogno di comunicare ai rispettivi constituencies la loro esistenza in vita e un punto di vista che li distingua, senza poter mettere d’altro canto in discussione il governo. Perché, è ovvio che, caduto Matteo, non resterebbe che tornare al voto. E allora sì, che rischierebbero di rimanere davvero senza fiato!

Questa «naturale» dinamica di un governo di coalizione, in Italia si svolge secondo le liturgie e i canoni del nostro scombinato assetto istituzionale. Con un Parlamento caotico, poco autorevole e vociferante che si è già abituato da un bel pezzo al gioco delle parti che prevede la moltiplicazione degli emendamenti civetta, senza speranze, presentati per parlare a segmenti organizzati dell’elettorato, in attesa che il governo tolga tutti dall’imbarazzo con il ricorso alla fiducia. 

Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. A meno che le due questioni oggi in ballo non aprano una crepa o non creino un alibi, dopo le Europee, per una rottura.

Quindi entrando nel merito della prima questione – il lavoro – siamo al solito conflitto divisivo tra difensori della flessibilità e i paladini delle garanzie a tutti i costi (un teatrino che va in scena da quasi vent’anni, dal Pacchetto Treu in avanti). Che tuttavia dà esiti molto deludenti, provvedimenti zoppi e annacquati senza alcun impatto di tipo strutturale. Come il decreto legge su cui ieri Renzi ha messo la fiducia dopo il compromesso raggiunto con la minoranza Pd. L’ennesimo (e modesto) maquillage alle regole sui contratti di impiego (diminuzione delle proroghe per i contratti a termine e più vincoli all’uso dell’apprendistato) che, sia nella formulazione originaria sia in quella addomesticata di ieri, non avrà un grande effetto sulla creazione di posti di lavoro. 

 

La crepa sulla riforma del Senato è ancora più insidiosa. Perché su questo punto Renzi ha realmente innovato rispetto a tutte le proposte precedenti, le quali partivano dall’assunto di conservare due distinti corpi di parlamentari eletti, e di conseguenza una doppia filiera di incarichi e strutture burocratiche: il vero costo finanziario e decisionale del bicameralismo. E’ sempre stato un assunto non detto ma rigorosamente intoccabile, da cui discendeva poi, di conseguenza, la necessità di dare al Senato un ruolo, se non identico, equipollente a quello della Camera, finendo per costruire architetture ancora più bizantine dell’attuale. Gli oppositori interni di Renzi, da ultimo il senatore Chiti, mentre enunciano grandi principi, si appendono in realtà a questa consolidata resistenza corporativa e si sono infilati nella consueta traiettoria. Con il Movimento 5 Stelle che, messo in difficoltà ormai ogni giorno dall’antipolitica di Renzi, non può che andare a sposare una battaglia di retroguardia. Ma il mancato superamento del bicameralismo, al di là della sua intrinseca irragionevolezza, si porterebbe dietro anche l’inapplicabilità o l’inutilità dell’Italicum. Perché un Senato eletto (magari con la proporzionale) verrebbe sicuramente dotato di poteri in grado di intralciare il percorso del governo, che abbia o no formalmente il potere di votare la fiducia.

Quindi, sul lavoro Renzi può anche muoversi come hanno già fatto quasi tutti i governi degli ultimi anni. La rivoluzione «gigantesca» che ogni giorno ci promette, nel caso che qualcuno si distragga, non passerà da lì. Non sarà per lui o per il ritocco all’impianto giuridico che ripartirà il mercato del lavoro. Sul Senato invece si gioca la partita della vita, del suo governo e dei governi delle prossime legislature. Qui sì, pensandoci meglio, il miracolo ci vorrebbe davvero. 

twitter@gualminielisa 

DA - http://www.lastampa.it/2014/04/23/cultura/opinioni/editoriali/per-il-senato-ci-vorr-un-miracolo-dwINTfFePowagJLzFkQ1fI/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI - Il guitto, i figuranti e i colonnelli
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 11:27:17 am
Editoriali
11/05/2014

Il guitto, i figuranti e i colonnelli

Elisabetta Gualmini

Ieri si è capito qualcosa in più del partito di Grillo. Bologna d’altro canto è la città da cui l’avventura a 5 stelle è partita, con il primo V-Day del 2007. Quando Grillo si buttava col canotto sopra le teste dei simpatizzanti in delirio, urlando come un forsennato contro il Parlamento dei corrotti, dei pregiudicati e dei morti viventi. 

E proprio nella stessa città, ieri, Beppe-Robespierre-non-violento è tornato a impugnare le armi della rivoluzione contro tutti, e in particolare contro «il sistema di potere» della forza da sempre egemone in Emilia Romagna, oggi ereditato dal Pd. Un attacco frontale alla «mafia politica che controlla il territorio», tanto che i temi europei sono scivolati in fondo alla scaletta, come una parte dello spartito ormai obbligatoriamente da recitare, senza troppa passione. La battaglia vera, da qui al 25 maggio, se vi erano ancora dei dubbi, è tra il principale partito al governo e il principale partito di opposizione.

I candidati grillini ancora più del capo sparano a palle incatenate, prendono frammenti di realtà e fanno a gara a chi la dice più grossa: i poltronifici e i postifici, Hera, Unipol e le Coop, le partecipate e i consorzi, il controllo terroristico su tutto e tutti, pure i baffi di D’Alema che hanno occupato a lungo l’agenda politica, un sistema marcio da spazzare via.

L’attacco alla peste rossa è un registro perfetto per rievocare il mito fondativo. Un abito che Grillo indossa benissimo, un monologo che gli è del tutto congeniale, più dell’Europa dell’euro e del fiscal compact. Gli onesti contro i corrotti, i puri contro gli impuri. «E’ un tic essere onesti per noi», urla Beppe ai cyber-militanti di ogni età per l’occasione radunatisi in terra. Mentre impazzano i video sugli scambi di mazzette tra politica e affari per l’Expo, a Grillo non sembra vero di poter mettere in mostra, per contrasto, tutto il rigore della sua ortodossia. Sospende De Franceschi, l’unico rappresentante del M5Stelle in Regione, per un illecito amministrativo. Mentre il Pd, nelle parole di Grillo (e anche di Di Battista) tace su Genovese per il quale c’è un mandato di arresto (ma entrambi non sanno che la Commissione di garanzia del Pd ha già tolto a Genovese la tessera, seppure senza i clamori di una lapidazione pubblica). Torna tutta la visione manichea e dicotomica di Beppe, i buoni e i cattivi, noi e loro. 

Ma a Bologna si è intravista anche un’altra cosa: com’è fatta la struttura del «partito di Grillo». Esilissima, minimalista, ma non proprio del tutto liquida. Non ci sono, per scelta, amministratori professionali e quadri interni. La quasi totalità del suo ceto politico, dei candidati-portavoce, è composta da figuranti, da personaggi tra l’iper-normale e l’improbabile, destinati a dare fiato alla voce per una sola portata. Ma, in mezzo a loro, come reclutatori e coach, si sta creando una selezionata filiera di pochi fidatissimi colonnelli, sopravvissuti a prove ripetute e alle epurazioni degli altri ex pupilli dimostratisi troppo intraprendenti.



A Bologna c’è rimasto Massimo Bugani, che pare avere senso politico, controllo della situazione e capacità di stare sul palco. Grillo di fronte alla piazza non ha pari, però sta creando una filiera selezionatissima di luogotenenti. Quanto basta a reclutare e tenere in ordine il plotone delle comparse. Tutti, comunque, a una distanza abissale dal carisma del capo. «Ciao sono Franco e faccio il geometra», «Ciao sono Luca e voglio cambiare il paese», ci dicono i candidati-sconosciuti. C’è pure chi si stupisce di essere arrivato sino a lì (figurarsi noi…), chi confessa di non essere un gran oratore (era tra l’altro evidente), e chi per fortuna taglia corto limitandosi a un «Ciao, siete bellissimi». Una gara al ribasso sui contenuti e i programmi che fa pensare al Casaleggio che sentenzia «questi qui non sono dei De Gaulle, sono cittadini come tutti gli altri». Uno vale davvero uno. O forse, come recitava il sarcastico striscione firmato «peste rossa», rivolto al popolo pentastellato da un paio di finestre ben in vista sulla piazza: «Grillo vale uno, tu vali zero». C’è il leader-guitto-comunicatore, c’è il popolo, ci sono i candidati-figuranti e ora anche i colonnelli. Le elezioni europee potrebbero andare bene. Che sia sufficiente a dare continuità e respiro al Movimento per ora c’è da dubitarne.

twitter@gualminielisa

da - http://lastampa.it/2014/05/11/cultura/opinioni/editoriali/il-guitto-i-figuranti-e-i-colonnelli-ts833Xfdr5JWZeTTirC54M/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI L’avanzata di Grillo Masaniello
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2014, 06:51:44 pm
Editoriali

16/05/2014 - Il Sud verso le elezioni
L’avanzata di Grillo Masaniello

Elisabetta Gualmini

I l duello tra Renzi e Grillo è anche uno scontro tra Nord e Sud. Gli ultimi dati disponibili in vista delle europee registrano un’avanzata di Grillo nel Sud e, quasi parallelamente, un incremento di consensi per Renzi nel Nord. Tanto che i due contendenti stanno cercando di incrementare la loro presenza proprio dove più si manifestano i segnali di debolezza. 

Se le previsioni fossero confermate, si proporrebbe un forte dualismo tra un Sud movimentista e un Nord governativo. Un Meridione di lotta e un Settentrione di governo. 

Sono tante le condizioni che potrebbero favorire una (piccola o grande) slavina del nuovo Masaniello e della sua rivolta contro uno stato che nel Sud «non si è mai visto, che ha fatto solo cattiverie e che si manifesta con un poliziotto antisommossa o con una cartolina nella buca della posta».

Primo. L’assenza di un’offerta politica centrista e filogovernativa che da sempre ha raccolto e incanalato i consensi meridionali. Un voto moderato e «ministeriale», come si diceva ai tempi della Dc, vicino ai partiti che gestivano il potere, e che assumeva spesso le vesti del voto di scambio e clientelare. Perché i partiti di governo potevano assicurare, più di quelli all’opposizione, benefici di varia natura: risorse economiche, posti di lavoro, l’inclusione a vita nella miriade di società pubbliche e parapubbliche che costellavano (e ancora oggi costellano) il nostro Paese. E per la prima volta dopo venti anni, con il crollo del berlusconismo e lo spappolamento del centro-destra, non c’è un’offerta politica forte e credibile che possa federare e aggregare il voto nel Mezzogiorno.

Secondo. La crescita inarrestabile dell’astensionismo al Sud. Proprio in merito al non-voto il divario tra Nord e Sud ha ripreso ad accelerare, dopo anni in cui la tendenza era di segno opposto. L’astensione nelle regioni del Sud ha raggiunto il 33% nel 2013, rispetto al 20% del Nord e al 24% nel Centro, e la crescita ha avuto ritmi incalzanti (+34%) (D. Tuorto, Istituto Cattaneo). Un crollo della partecipazione soprattutto nei piccoli comuni, in cui le strutture organizzate dei partiti hanno ceduto, semmai ci fossero mai state, e nelle grandi città, dove la crisi economica ha messo in ginocchio le famiglie. 

Se l’astensione cresce, è probabile che continui a erodere soprattutto l’area elettorale dei partiti di sistema. Dentro la marea montante del disincanto astensionista, di chi non trova nello Stato nessuna rassicurazione, il Masaniello-Grillo può facilmente pescare nuovi consensi. 

Terzo. L’elevata mobilità dell’elettore meridionale. Un elettorato che fluttua, disponibile a muoversi a seconda dell’offerta politica, perché privo di fedeltà assoluta nei confronti di un partito e di un’appartenenza ideologica forte. Non ci sono subculture nel Mezzogiorno, non c’è un collante ideologico che tenga saldo il legame con i partiti, ma semmai un pragmatismo che porta talvolta a rincorrere la forza che appare vincente alle classi politiche locali, talaltra a simpatizzare con chi fa la voce grossa contro il potere. Le regioni del Sud sono dunque sempre state, in un modo o nell’altro, decisive per vincere.

E infine c’è la crisi economica, ancora fortissima nel Mezzogiorno, che favorisce il voto di protesta. Le indagini successive alle elezioni del 2013 mostrano infatti come gli elettori del Movimento 5 Stelle ritengano un’assoluta priorità l’impegno da parte del governo a ridurre le differenze di reddito e ad aumentare la protezione sociale. E si aspettino, più che gli elettori degli altri partiti, un costante peggioramento della situazione economica (Itanes 2014). E gli 80 euro di Renzi sono molto meno incisivi al Sud rispetto al Nord, perché il mercato del lavoro è in gran parte irregolare e sommerso.

È quindi per questo insieme di motivi che Grillo punta alle simpatie del Sud, e pronuncia frasi acchiappa-applausi come quelle del comizio di Napoli: «Se fossi stato napoletano avrei fischiato anch’io l’inno nazionale. Fratelli d’Italia, fratelli di chi? Di quelli che vi hanno portato i rifiuti tossici?» Mentre Matteo Renzi deve (giustamente) evocare altri argomenti, decisamente meno emotivi e molto poco pop, come l’uso dei fondi strutturali europei e la giungla delle astrusità che ci sta dietro. Le condizioni per l’esplosione del dualismo elettorale ci sono davvero tutte.

twitter@gualminielisa

da - http://lastampa.it/2014/05/16/cultura/opinioni/editoriali/lavanzata-di-grillo-masaniello-3feHfFkzh4QspEutYkFZDP/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI Distrazioni di massa
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2014, 04:43:14 pm
Editoriali
17/06/2014

Distrazioni di massa
Elisabetta Gualmini

Non è vero che Grillo ha scelto di entrare nel gioco. Che si è rassegnato alle logiche del compromesso parlamentare, dopo il flop delle europee. 

Beppe la politica la fa, a suo modo, da moltissimo tempo, dosa e distilla le strategie di breve e di medio periodo con oculatezza, talvolta vince e talvolta perde, ma non si butta mai a caso. A differenza di quello che può apparire, il Beppe istrione e improvvisatore sui palchi e nelle piazze è l’altra faccia del Beppe determinato e razionale. Un leader double-face che non scandalizza nessuno. Quello che dice che la tv è il peggiore dei mali (e cancella poco prima delle politiche l’unica intervista prevista) e poi decide, un anno dopo, che invece è meglio andarci in tv e si accomoda con agio da Bruno Vespa. Quello che dice: o vinciamo le Europee o lascio, ma poi rimane stabilmente in sella. E quello che dopo aver detto no, no e poi no all’odiato Pd poi ci ripensa e manda una richiesta formale di incontro, dai toni quasi affettuosi. 

Cambiare le strategie, o meglio adeguare flessibilmente le tattiche alle contingenze della politica, annusando l’aria che tira e cercando di non perdere centralità, è quello che fanno i leader politici. Niente di strano, dunque. Con l’apertura al premier, Grillo raggiunge infatti almeno due obiettivi. 

Primo. Mette in imbarazzo il premier costringendolo a scegliere tra lui e Berlusconi. Tra il nuovo e il vecchio, tra i puri e gli impuri. Sinora Renzi aveva potuto spiegare che l’accordo con Berlusconi era dovuto anche all’impossibilità di dialogare con i grillini integralisti e solitari per scelta. Ora il premier dovrà spiegare che al posto di Grillo sceglie «l’inciucio» con Berlusconi. D’altro canto proporre una legge elettorale proporzionale senza premio di maggioranza e con la sola correzione dei collegi di media grandezza significa presentare a Renzi il contrario di quello che vuole. Come portare la carne a un vegetariano che ha chiesto l’insalata. E non è così vero che ci sarebbe governabilità e la possibilità per un partito di governare da solo. Intanto occorre raggiungere il 40% (non così facile da noi con tre partiti molto consistenti) e a differenza della Spagna non è costituzionalmente possibile avere governi di minoranza. Il Democratellum sarebbe una sciagura per Renzi e per il paese. Mentre Grillo non avrebbe niente da perdere. La soglia del 5% gli permette di far fuori tutti i partiti piccoli, compresi quelli della galassia dell’antipolitica, e di conservare un enorme potere di veto. 

Secondo obiettivo. La versione morbida del grillismo potrà far dimenticare in fretta la surreale alleanza con la destra radicale di Farage. Nonostante l’approvazione della rete, il cartello in Europa con il partito della destra estrema e xenofoba inglese ha sollevato moltissime critiche, soprattutto tra i parlamentari. Tendendo la mano al Pd, Grillo distrae il suo elettorato dalle faccende europee e dopo essersi avvicinato a un partito di destra ha l’occasione di mostrarsi disponibile verso uno di sinistra. Come a dire discutiamo con tutti, siamo sempre oltre.

 
E così si invertono le parti rispetto allo streaming del febbraio scorso. Lì era Grillo che non faceva parlare Renzi, uomo delle banche e giovane vecchio della politica italiana, rimproverandogli di essere poco credibile perché diceva una cosa per poi smentirla il giorno dopo. Ora lo vedremo forse ostentare una predisposizione all’ascolto, con il solo obiettivo di smontare l’Italicum ed evitare la logica bipolare e maggioritaria che contribuirebbe ulteriormente al suo sgonfiamento.

Grillo non ha nulla da perdere. Chi invece rischia di più è Matteo Renzi, per la rincorsa a scendere a patti con lui. Tutti lo vogliono. Dalla Lega che vuole ritoccare il titolo V in cambio dell’ok al Senato, a Ncd e Fi che rilanciano sul presidenzialismo, sino a Beppe (appunto) che potrebbe risvegliare gli appetiti per il proporzionale ben presenti in parlamento. E se tutti rilanciano, il rischio di tornare alla casella di partenza è molto alto. C’è da sperare che con la forza del suo 40,8% Renzi riesca ad andare avanti, nonostante i limiti strutturali di questo governo (pur sempre di compromesso e senza maggioranza al Senato). Altrimenti non avrebbe senso proseguire. Di palude sulle riforme istituzionali ne abbiamo già vista molta.
twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2014/06/17/cultura/opinioni/editoriali/distrazioni-di-massa-qBOkSP6xltZytgbAL1zJSO/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI Alla ricerca di una visione coraggiosa
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 06:31:43 pm
Editoriali
03/07/2014

Alla ricerca di una visione coraggiosa

Elisabetta Gualmini

Ha sparigliato di nuovo le carte ieri il presidente del Consiglio italiano nel suo discorso di insediamento alla guida del Semestre europeo. Ha scelto il registro della passione, dell’ispirazione e dell’emozione, al posto dell’elenco minuzioso dei punti programmatici che scandiranno i prossimi sei mesi. Non si è fatto imbrigliare da un discorso paludato. 

E ha preferito relegare ogni dettaglio tecnico sulla politica economica e le altre sfide europee a una misteriosa cartellina distribuita ai parlamentari per i compiti a casa. Come a dire, i dettagli e i tecnicismi ve li studiate dopo, io sono qui per parlare di «politica» e scaldare i cuori.

E così Matteo Renzi anche stavolta parla a braccio, con il consueto esile canovaccio, guarda a destra e a sinistra con grande sicurezza, gli scappa la solita mano in tasca, che poi cerca di riportare saldamente ad afferrare il leggio come per impedirsi di lasciarla andare, e si muove con massimo agio tra citazioni massime (Aristotele e Dante, Pericle ed Enea, il Colosseo e il Partenone) e citazioni minime: se facessimo un selfie dell’Europa vedremmo stanchezza, noia e rassegnazione. Questo metodo è parte del suo messaggio ed è impensabile che cambi. A Firenze come ai vertici di Bruxelles. 

Un colpo da maestro di Matteo-il-comunicatore. Il più giovane premier italiano di sempre che dentro ad una delle istituzioni della vecchia e ingessata Europa, tutta tecnocrazia e cavilli, il regno dei burosauri e dei procedimenti ipercomplicati, ha l’ardire di mettere da parte i richiami all’ortodossia (nel senso letterale di metterli in una carpetta) e di provare a risvegliare il sogno europeo. Dopo l’incubo della crisi, Matteo il nuovo coach dell’Europa è lì a dire che il sogno di una comunità di popoli non si è ancora dissolto. Whatever it takes to save the European dream potremmo dire, parafrasando Draghi. Invece dell’euro e dello spread, prima di tutto la Comunità Europea. Quella di Monnet, Schumann e Spinelli, una comunità di popoli o una federazione di Stati, che vada oltre qualsiasi nazionalismo. «La grande sfida che l’Europa ha di fronte a sé è quella di ritrovare l’anima, perché se dobbiamo unire le nostre burocrazie, a noi basta la nostra». E la generazione Telemaco (copyright Massimo Recalcati) è lì pronta ad assumersi le proprie responsabilità e a raccogliere l’eredità dei padri.

E non c’è dubbio che in una Europa vecchia e stanca, ingobbita dagli anni bui della recessione, piuttosto che dei discorsi ingessati di un Van Rompuy, di un Juncker o di una Angela-rigore-e-ordine, ci sia bisogno proprio di un Matteo.

 Dunque bene che Renzi voglia proporre una visione e non la somma di misure tecniche. Ma con tutta la benevolenza che giustamente instilla, va detto che la visione ancora non c’è. Difficile pensare che la scommessa di una nuova Europa possa stare appesa allo scambio tra riforme interne e un po’ di flessibilità, qualche margine in più per le spese messe sotto la voce investimenti, o tempi un po’ più lunghi per pagare il debito. Il vero snodo per cambiare verso all’Europa è seguire l’esempio americano. Serve un vero e proprio New Deal, come ha ribadito Romano Prodi anche ieri in una intervista a Radio Capital: un piano keynesiano di massicci investimenti in settori strategici come infrastrutture, formazione superiore e banda larga, mentre si chiede ai governi nazionali di diventare più efficienti e mantenere rigidamente i conti in ordine. 

Se il premier vuol mettere il suo talento e la sua forza a servizio della nuova Europa dovrebbe sfruttare questo momento di grazia e il semestre per riscrivere l’agenda seguendo la lezione di Delors, non per negoziare piccoli margini di flessibilità che non portano lontano e che sollevano immediatamente le critiche dei Paesi del Nord e della Germania. Lo scambio da chiedere è tra riforme e rigore finanziario interni contro massicci investimenti comunitari per la crescita, concentrati nei Paesi in cui la crescita non s’intravede. Questa sì che sarebbe una strada coraggiosa e una proposta veramente alternativa all’austerità! Certo, sei mesi non basteranno, ma Renzi può davvero essere lo sprinter d’Europa, come ha titolato oggi Le Monde, e porre le basi per un’Europa meno austera. Se solo sposta il traguardo un po’ più lontano.

Da - http://lastampa.it/2014/07/03/cultura/opinioni/editoriali/alla-ricerca-di-una-visione-coraggiosa-JF1IXXJC9bUxjuQeIPoBwN/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI L’Italia è il Paese bloccato dalle minoranze.
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 11:10:06 am
Editoriali
26/07/2014

Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Elisabetta Gualmini

L’Italia è il Paese bloccato dalle minoranze. 

Ma non nel senso che le minoranze fanno il loro mestiere opponendosi alla maggioranza a colpi di idee e progetti migliori e alternativi. No, ci mancherebbe. Nel senso che le minoranze si rifiutano di accettare l’a,b,c del funzionamento democratico, e cioè che la maggioranza debba, a un certo punto, esercitare il suo diritto a decidere. Per le opposizioni questo è un atto di lesa maestà. Con l’aggiunta della solita tripletta: illiberale, autoritario, un golpe. 

Tre storie di questi giorni ci dicono la stessa cosa. Il Senato, l’Alitalia e il Teatro dell’Opera di Roma. Non proprio tre cosette da poco, ma tre settori strategici: politica, lavoro, cultura. Il messaggio è il medesimo: meglio il fallimento piuttosto che cambiare. 

Alitalia. Dopo sette mesi di trattative per salvare un’azienda sull’orlo del baratro, l’accordo con Ethiad viene di nuovo messo in discussione. 

Nel momento in cui gli azionisti votavano la ricapitalizzazione, il referendum tra i lavoratori rischiava di bloccare tutto. L’80% dei votanti ha detto sì all’accordo, ma secondo la Uiltrasporti non solo la consultazione non è valida perché non è stato raggiunto il quorum, ma non sarebbe valido nemmeno l’accordo con Ethiad, che a questo punto andrebbe rinegoziato. E conta poco che la maggioranza del sindacato, Cgil, Cisl e Ugl, che rappresentano il 65% dei lavoratori, la pensi in modo contrario; la minoranza, forte dei cavilli offerti dal Tu sulla rappresentanza, chiede che si torni alla casella di partenza. Nel frattempo gli emiri stanno per alzarsi e scappare via, mentre noi continuiamo a ripeterci che il problema più grosso del nostro Paese è che gli investitori stranieri non ci considerano più. 

Il Teatro dell’Opera. Dopo ben 19 incontri con la Cgil e gli autonomi della Fials, anche la terza recita della Bohème salta e si va verso la liquidazione coatta dell’ente. Anche qui non è sufficiente che il 70% dei lavoratori abbia accettato il piano di risanamento, che non prevede né licenziamenti né mobilità, ma semmai un aumento della produttività in linea con l’Europa. Le minoranze riottose hanno deciso di scioperare e di far saltare tutto. Reclamando addirittura ampliamenti dell’organico che nello stato di indebitamento dell’ente vuole dire: mandiamo tutto a catafascio. 

 E poi c’è il Senato. Fino ad oggi la sbandierata volontà di superare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari è sempre stata contraddetta, nei fatti, per oltre vent’anni, dalla silenziosa resistenza corporativa di quasi tutto il ceto politico. Il rottamatore ha travolto quel tipo di resistenza e rotto l’incantesimo. Una larga maggioranza di forze politiche dell’establishment ha preso atto che si deve cambiare ed è pronta a mozzarsi un braccio (del Parlamento). Paradossalmente però ora sono proprio i castigatori della casta a mettersi di traverso, insieme ad alcuni eredi del Pci (fieramente monocameralista) e una variopinta compagine di sedicenti protettori della Costituzione. Anche in questo caso le minoranze che si oppongono pretendono non solo di avere una sede istituzionale in cui esporre le loro opinioni, ma di rinviare sine die le decisioni. Chiunque capisce che nelle oltre cinque ore disponibili per i loro interventi i grillini (nella nuova versione salva-casta) avranno tutto il tempo necessario per esporre le loro ragioni. Per quale motivo l’aula del senato dovrebbe essere impegnata ad libitum come teatrino o sfogatoio? Che c’entra questo con la democrazia? Il contingentamento dei tempi, di fronte al palese ostruzionismo di una minoranza, è un dispositivo previsto ovunque, incluso il regolamento del Senato. 

In Italia dunque si continua a giocare col fuoco. Ci si attacca a tutto, formalismi, bizantinismi e microemendamenti, pur di rimanere fermi. Meglio se immobili. Peccato però che dall’altra parte i cittadini aspettino riforme e cambiamento. Da 30 anni si sentono dire che si fanno le riforme istituzionali e siamo ancora il Paese in cui è il Parlamento stesso a bloccare tutto e non c’è una legge elettorale decente. Siamo il Paese con più disoccupati in Europa, ma soluzioni ragionevoli con sacrifici tollerabili in fondo non vanno bene, meglio tornarci sopra e aprire infiniti tavoli di discussione. E il Paese in cui per la terza volta si dice al pubblico, scusate questa sera lo spettacolo salta. Statevene a casa. E a forza di blocchi, resistenze e paralisi non rimarrà che stare a casa veramente. A guardare l’inesorabile declino di un Paese che non si muove più.

twitter@gualminielisa

da - http://www.lastampa.it/2014/07/26/cultura/opinioni/editoriali/le-minoranze-che-soffocano-i-cambiamenti-8nyqJgCNZh0O8GJ9GGmPlJ/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI Un incontro che non è concertazione
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2014, 05:30:26 pm
Un incontro che non è concertazione
07/10/2014

Elisabetta Gualmini

Per la prima volta oggi Matteo Renzi incontra i sindacati e le associazioni imprenditoriali in un contesto completamente diverso rispetto a quello che ha ospitato la concertazione negli anni passati. Chi spera in una nuova stagione di collaborazione con le parti sociali, in una svolta inclusiva del leader decisionista, rimarrà deluso. Pare piuttosto improbabile, dopo averlo visto sparare a pallettoni su un sindacato già tremolante e snobbare tutti gli inviti da parte di qualsiasi cosa che assomigliasse a una associazione di rappresentanza datoriale. 

Epperò la spiegazione non sta solo nel «carattere del ragazzo» che si è insediato a Palazzo Chigi. Cosa c’è, allora, di profondamente diverso rispetto ai primi Anni Novanta, alla gloriosa era degli scambi trilaterali che hanno portato a riforme strutturali fondamentali per il nostro Paese? 

La prima e più importante: là la politica era debole e i partiti erano spappolati. I governi tecnici cercavano di promuovere accordi concertativi perché avevano bisogno di essere legittimati nelle riforme lacrime e sangue di fronte ai cittadini, non potendo contare su un Parlamento pienamente legittimato. 

Il Parlamento era in frantumi sotto la scure di Tangentopoli e i partiti della Prima Repubblica si congedavano dalla scena tra monetine e fischi. La concertazione dunque era un surrogato di partiti che da soli non ce la facevano né a formare l’esecutivo né tantomeno a decidere cambiamenti radicali come l’entrata nell’euro e i passi necessari per essere ammessi. Oggi la politica invece è o si sente forte. C’è un governo che prova a fare da solo e a portare a casa qualche risultato. Vedremo, con un po’ di tempo, se ce la farà. 

Secondo. Negli Anni Novanta e poi nel decennio successivo solo Berlusconi si era appropriato del discorso anti-sindacale, facendo leva sulla percezione diffusa nell’opinione pubblica che siano diventati strutture inefficienti e immobili. Come non ricordare il Patto per l’Italia dell’estate 2002 che seguì un dibattito violentissimo con il sindacato e che terminò con il no stentoreo della Cgil? Dopo vent’anni di crescita del nuovo proletariato dei contratti precari, che il sindacato non è in grado di intercettare, e di ulteriore invecchiamento della loro base, quel discorso, con Berlusconi fuori gioco, è diventato raccontabile anche a sinistra, tanto più da un «rottamatore» come Renzi.

Mentre relega i sindacati a «difensori dei diritti di chi ce li ha già», il premier raggiunge due obiettivi. Tenendo alto il tono della battaglia innovazione-conservazione continua a parlare a una larga fascia di cittadini che lo immagina proprio così: testardamente intenzionato a cambiare per far ripartire la crescita ma frenato da resistenze corporative. Riposizionandosi poi verso il centro, spera in uno stabile riallineamento verso il «suo» Pd di elettori moderati e di imprenditori.

Terzo e non ultimo. È difficile di questi tempi mettere in piedi uno scambio vero e proprio tra parti sociali e governo. Cosa ci si può scambiare? Cosa resta da distribuire e redistribuire in questo Paese senza un euro? Poco e niente.

Ecco perché oggi con molta probabilità Renzi chiederà al sindacato e agli industriali, convocati separatamente e di prima mattina per massimo un’ora, se vogliono essere parte del processo di riforma o restarne fuori (altro che le trattative notturne e senza fine nella sala verde piena di nebbia e fumo…) I paragoni si sprecheranno. Ma in realtà non si troverà ad ingaggiare una lotta cruenta come la Thatcher con i minatori di Scargill, né dovrà scontrarsi con un fronte politico-sindacale così ignaro del suo reale consenso come quello che in Italia volle il referendum autolesionista sulla scala mobile del 1985. 

Probabilmente inviterà il sindacato a utilizzare di più gli strumenti che già ci sono per promuovere l’occupazione, in modo particolare la contrattazione aziendale, in cambio dell’abolizione delle formule più precarie di contratto di impiego, e agli imprenditori di non mettersi di traverso alla restituzione di parte del Tfr in busta paga, in cambio del superamento per i neo-assunti dell’articolo 18. Insomma si ha come l’impressione che l’apertura fulminea e mattutina della sala verde di oggi non cambierà granché le cose. Al momento sembra più che altro l’inizio di una gara di nervi per chi alla fine terrà in mano il cerino della rottura. 

twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2014/10/07/cultura/opinioni/editoriali/un-incontro-che-non-concertazione-qkOqIkz0LO8IAFkQfol36I/pagina.html


Titolo: Elisabetta GUALMINI. Il nuovo partito comincia qui
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2014, 04:00:50 pm
Il nuovo partito comincia qui

27/10/2014
Elisabetta Gualmini

Il messaggio di Matteo Renzi dalla prima Leopolda di governo è, come di consueto, chiaro e netto, senza troppe sfumature. Gli obiettivi polemici, le promesse di cambiamento, il frame comunicativo sono sempre gli stessi, ma ora il progetto si va componendo. Quella che a tanti pareva boria vanagloriosa ha dimostrato d’essere, che piacciano o meno i risultati, effettiva capacità di esercitare la leadership, a livelli che l’Italia non ha conosciuto per decenni.

Nel mirino c’è sempre l’indistinta nebulosa composta da professori-gufi, tecnocrati, politici di lungo corso, dall’establishment, insomma, che ha portato l’Italia al collasso e continua a pontificare, che «rosica», e teme che i «ragazzi della Leopolda» possano riuscire dove loro hanno fallito. Ma, ovviamente, il bersaglio grosso della Leopolda5 è l’altra sinistra. Quella «minoritaria, identitaria e nostalgica», pronta sempre a dire no. Nei confronti della quale ora la sfida è aperta: potete pure protestare, riempire le piazze, fare un partito: sarà bello vedere chi vince; quello che non vi consentiremo è di riprendervi il Pd (applausi scroscianti).

Può dirlo perché ora i pezzi del mosaico si stanno, appunto, mettendo al loro posto. La «narrazione» (parola-mantra alla Leopolda) c’è sempre stata sin dal primo appuntamento, nel 2010 (solo noi che abbiamo oggi trent’anni possiamo guidare il cambiamento, non certo chi di fronte a uno smartphone cerca il foro in cui mettere il gettone), poi è arrivato «il programma» (in larga parte preso in prestito da professori-gufi che ora è meglio nascondere, come Pietro Ichino, principale mentore del contratto a tutele progressive), poi «il partito» (a cui Renzi inizialmente, sottovalutando la «teoria» che legava doppio incarico, primarie e vocazione maggioritaria, non era tanto interessato), subito dopo «il governo», e naturalmente a cucire tutto insieme «il leader». 

In effetti, il Pd di Renzi va oltre le più rosee aspettative dei fondatori. La reinterpretazione renziana della sinistra supera molti steccati, qualsiasi ottusa polarizzazione tra destra e sinistra diventa secondaria rispetto alla realizzazione degli obiettivi. Più che Blair, Matteo è il Clinton che guarda al centro, diffonde ottimismo, promette crescita, e tutele per quelli che non le hanno mai avute. Poletti su questo punto è il suo migliore testimonial. Sfiora la tenerezza quando ammette che la sua testa è stata costruita «in quegli anni lì» e che talvolta lui va più lento, ma è il più efficace nel rivendicare le virtù del Jobs Act. E poi le riforme della macchina istituzionale per far diventare il nostro paese una democrazia normale, capace di funzionare e di rispondere. E infine la sfida all’Europa, che solo un Pd maggioritario può sostenere, attraverso il match continuo con i tifosi dei vincoli e del rigore, e il ripristino della centralità della politica estera, per troppo tempo ancillare agli altri settori. Qui Mogherini docet.

Dalla Leopolda esce infine la rappresentazione del nuovo Pd guidato da Renzi. La racconta Maria Elena Boschi con la sua storia, di una giovane volontaria, un avvocato, diventata ministro a 33 anni, e anzi di più, simbolo del cambiaverso. Come a dire tutto è possibile. 

E poi c’è il leader. Sempre più forte, spietato nella sua determinazione, con la sicurezza smisurata di aver fiutato lo spirito dei tempi e di saperlo cavalcare alla perfezione, per di più solo e incontrastato. Il leader che si definisce a scadenza, ma che intanto si immagina lì fino al 2023. 

Sì, certo, lo «stile Leopolda» può anche lasciare perplessi. Più che un incontro politico sembrava una diretta radiofonica con il richiamo martellante dell’hashtag da twittare (per forza è diventato trending topic ...) e conduttori yé-yé, che parevano pronti a lanciare canzoni su richiesta con dedica alla fidanzata o a sottoporre al pubblico un frizzantissimo quiz (quale è la capitale dell’Azerbaijan? Lei riconosce questo rumore?). 

Già si immaginano i commenti schizzinosi di autorevoli opinionisti, teste che si scuotono, bocche storte, della serie «tutto marketing», «spiccicato a Berlusconi». I difetti ci sono, le incoerenze pure, come la promessa non mantenuta della rivoluzione basata sul merito, sostituita da nomine in gran parte all’insegna di lealtà pre-politiche e prossimità personale. Ma per ora il disegno regge. Eccome se regge.

twitter@gualminielisa 

DA - http://www.lastampa.it/2014/10/27/cultura/opinioni/editoriali/il-nuovo-partito-comincia-qui-sY83dznH6qdysiewibJugI/pagina.html