LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Settembre 23, 2007, 04:03:08 pm



Titolo: ARRIGO LEVI
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2007, 04:03:08 pm
15/9/2007
 
Ma Grillo fa bene alla democrazia
 
ARRIGO LEVI

 
Che Beppe Grillo, sicuramente un comico brillante, abbia però detto, al V-day, diverse sciocchezze (lui userebbe un altro termine più vigoroso), è stato chiaramente spiegato da Andrea Romano e da Giampaolo Pansa su questo giornale, da Eugenio Scalfari su «la Repubblica», e da altri ancora. Forse sarebbe stata utile anche una risposta argomentata su ciascuna delle cose da lui dette o proposte, come gliela diede Carlo Azeglio Ciampi nel ’97, quando seppe che Grillo, in un suo spettacolo, lo chiamava «the chicken», perché, diceva, «si era fatto spennare» al tempo della svalutazione della lira nel 1992. Ciampi prese la penna in mano, e gli scrisse una lettera lunga e cortese, spiegandogli, con sovrabbondanza di argomentazioni tecniche, ragioni, cause ed effetti di quella decisione, che non aveva affatto comportato lo «spennamento» di cui parlava Grillo. Il quale, suppongo, non capì nulla di quelle spiegazioni, ma telefonò a Ciampi ringraziandolo con molto garbo: tanto che fra i due scattò una sorta di istintiva simpatia.

Capita anche a Grillo, ovviamente, di dire cose giuste, e una sua risposta ai molti che l’avevano accusato di fare col popolo del V-day dell’«antipolitica» va citata.

Altro che antipolitica - ha scritto sul suo blog - quel popolo andrebbe ringraziato. È la valvola di sfogo di una pentola a pressione che potrebbe scoppiare. Un momento di tregua per riflettere sul futuro, un momento di democrazia». È un argomento non molto distante da quello di Ilvo Diamanti, che ha osservato come molti dei politici che «deprecano con parole sprezzanti la cosiddetta “antipolitica” se la prendono con la propria base; e quando definiscono il V-day una risposta al vuoto della politica, senza volerlo parlano di se stessi. Dovrebbero prenderne atto e agire di conseguenza».

Tutto questo induce a riflettere su quello che è una democrazia. La democrazia, nel senso moderno del termine (per gli antichi la democrazia era il malgoverno del popolo, e non il regno della libertà e del buon governo), è un frutto raro della storia umana. Solo qualche anno fa un istituto di ricerche annunciò che, per la prima volta, c’erano al mondo più democrazie di qualsiasi altro modello di governo. Ma proprio perché le vere democrazie sono, nella storia del mondo, una rarità (e poi ci sono anche le mezze democrazie, le pseudodemocrazie, le false democrazie e via dicendo), non siamo ancora molto sicuri di capirne bene il funzionamento.

In genere, le democrazie non hanno buona stampa. I popoli che vivono in democrazia tendono a vederne soprattutto i difetti, le manchevolezze rispetto a un modello ideale, forse irrealizzabile (vedi i tifosi di Grillo). Gli studiosi che confrontano le democrazie con gli altri sistemi politici tendono a giudicarle deboli, fragili, destinate a crollare sotto l’avanzata dei «golem» totalitari. Le democrazie erano date da molti sicuramente per perdenti negli Anni Trenta, a confronto col nazi-fascismo. Erano date di nuovo per perdenti fino agli Anni Ottanta nel confronto con il comunismo. Capitò così - do solo un esempio, ve ne sono altri - a Jean-François Revel, che pure era arguto e intelligente, di scrivere un libro intitolato «Come finiscono le democrazie» nel 1983: pochi anni dopo cadeva, per sua sfortuna e fortuna, il muro di Berlino. Ancora una volta la democrazia, che Revel aveva dato per comatosa, aveva vinto. Come e perché, negli Anni Trenta come negli Anni Ottanta e Novanta, le democrazie non siano state sconfitte, è ancora in discussione. In parte hanno vinto, oltre che per i propri meriti, per i difetti (che gli specialisti conoscevano da tempo) del sistema avversario. In parte hanno vinto perché la democrazia, come sistema politico, è, sì, fragile e imperfetta; ma è anche astuta.

Io penso che anche Beppe Grillo e i suoi fans siano strumenti più o meno consapevoli dell’astuzia della democrazia. Probabilmente lo fu anche, a suo tempo, l’Uomo qualunque, il partito fondato da Giannini, al quale Grillo con i suoi tifosi è stato correttamente paragonato, non solo per la scurrilità del linguaggio. Nelle storiche elezioni del 2 giugno del ‘46 l’Uomo qualunque prese una barca di voti. Ma presto scomparve. Probabilmente, la cometa dell’Uq lanciò un segnale di disagio non inutile per la nostra giovane democrazia. Il fatto è che la democrazia, cioè la libertà, che permette a tutti di dire quel che pensano, è capace, a volte, di usare anche il vociferare dei suoi critici e nemici come strumenti del proprio risanamento.

Ricordo i successi clamorosi che aveva, in epoca krusceviana, quando si aprirono piccoli spiragli di libertà, un comico famoso, Arkadi Rajkin, «il Chaplin sovietico» - a cui molto era consentito perché era stato un eroe della resistenza a Leningrado, con tanto di Premio Lenin - quando, nei suoi spettacoli, metteva spietatamente in ridicolo il sistema sovietico e le goffaggini della burocrazia (della «casta», diremmo noi). Il potere, per un po’, lasciava fare; ma non seppe capire e far uso delle entusiastiche acclamazioni (rivelatrici, per noi osservatori occidentali, di cosa pensassero veramente i russi del potere comunista) che salutavano ogni performance di Rajkin.

Accade che le dittature siano stupide. Mentre la democrazia è astuta. O almeno, può esserlo: se è vera democrazia (e se non appare all’orizzonte un personaggio dall’infernale carisma, come quelli che, negli anni della mia giovinezza, distrussero, a furor di popolo o con la forza, democrazie apparentemente consolidate), le critiche, anche quelle eccessive, le fanno bene. Però mi riesce ugualmente difficile concludere dicendo: grazie Grillo.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2008, 10:03:26 am
11/1/2008
 
L'America vota anche per noi
 
ARRIGO LEVI
 

Sappiamo bene, per antica esperienza, che gli Americani scelgono i loro candidati alla Presidenza, e poi i loro Presidenti, per ragioni loro: per sbalzi e rilanci di umore, per innamoramenti improvvisi di questo o quel candidato, per una innata fiducia nella capacità dell’America di imboccare sempre nuove strade per realizzare l’«American dream», seguendo personaggi carismatici, da Kennedy a Obama. E ha ragione Vittorio Zucconi quando osserva che l’America è «una nazione che non riesce, per propria natura, a vivere a lungo nella cupezza, nel pessimismo e nella paura».

Sappiamo che l’America, anche se non abbandona mai, tra successi e sconfitte, la propria missione di salvare il mondo, fa poi le sue scelte politiche guardando soprattutto dentro se stessa, ai suoi problemi domestici. Quanto a noi che non siamo Americani, primi fra tutti noi Europei, siamo solo effetti collaterali delle loro scelte. Loro votano, noi tratteniamo il fiato.

Ho sempre trovato ingiusto che non sia dato anche a noi, cittadini del mondo, un pur piccolo spazio nelle scelte politiche degli Americani: perché non dovremmo avere anche noi un qualche diritto di voto nelle primarie, e poi nelle elezioni presidenziali americane, visto che dalle scelte che «loro» e solo loro fanno, dipende anche il nostro destino? Non è giusto che ce lo troviamo già confezionato, in non piccola parte, dagli Americani su misura degli Americani, senza che «loro» tengano in alcun conto (nella maggioranza dei casi) il fatto che votando questo o quel candidato decidano anche la nostra sorte.

Oltre a tutto, le loro scelte ci colgono sempre di sorpresa. Ma chi sarà mai questo Obama? Da dove è saltato fuori? Certo: è saltato fuori dalla straordinaria, invidiabile capacità dell’America di far diventare patrioti americani, convinti e convincenti, persone dalle origini nazionali e razziali più diverse, che appena una generazione prima nulla avevano a che fare con l’America. Invidiamo il segreto del «melting pot» americano: ma ogni volta rimaniamo storditi.

Nemmeno sappiamo in base a quale magia l’America riesca a far diventare da un giorno all’altro primi attori della scena nazionale, e quindi della scena mondiale, personaggi che fino a ieri non erano nessuno: un ignoto governatore di un piccolo Stato del profondo Sud (ricordiamo la timidezza di Carter alla sua prima entrata in scena, come comparsa, a un convegno della Commissione Trilaterale a Tokyo, dove nessuno se lo filava); o un mediocre attore specialista di western come Reagan, la cui innata capacità di riuscire simpatico a prima vista era del tutto ignota al mondo (come ne fu sorpreso e conquistato Gorbaciov, al loro primo incontro a una conferenza di Ginevra in cui erano in gioco le sorti del mondo nucleare!); o degli ex vicepresidenti dalle ignote capacità intellettuali e dal background paurosamente provinciale, come Truman o Ford.

Ogni volta che gli Americani scelgono chi, diventando loro Presidente, diventa anche Presidente del mondo, teniamo le dita incrociate. Ogni volta ci chiediamo: ma che ne sa, che può saperne di noi, poveri umani, colui che domani, entrando alla Casa Bianca, deciderà anche il nostro futuro? Loro votano, noi speriamo nella buona sorte. Ma non siamo certi di poterci affidare a una misteriosa saggezza innata degli Americani: tante scelte giuste e generose, che ci hanno salvato, ma anche alquanti sbagli! Gli esempi più recenti ci terrorizzano. Possiamo solo confidare che nel primo quadriennio l’apprendista Presidente non faccia troppi errori, e abbia tempo di imparare il mestiere per il secondo quadriennio.

Molte volte ci è andata bene. Truman, quello sconosciuto, dimostrò fin dall’inizio che aveva idee, conoscenze, convinzioni ben radicate e maturate durante il silenzioso apprendistato alle spalle del grande Roosevelt.

Clinton andò continuamente maturando d’anno in anno, e la nostra speranza è che una parte della sua esperienza l’abbia comunicata anche alla sua tollerante, e molto intelligente consorte. Altri partecipanti alla corsa non li conosciamo, e dubitiamo che gli stessi Americani abbiano avuto il tempo per conoscerli e giudicarli. Che Dio ce la mandi buona.

Così guardiamo l’America con speranza, e con un qualche allarme, anche perché loro quello che decidono poi lo fanno. Loro sono ancora un vero Stato nazionale (cito un recente giudizio ascoltato da Kissinger), che ha il diritto riconosciuto di mandare i suoi cittadini a morire per la patria: cosa che a noi sembra spesso un sopruso.

Ma in fondo siamo noi e ora intendo noi Europei, i veri colpevoli della nostra dipendenza dall’America. Saggi e prudenti come siamo, con molte cose ancora da insegnare all’America e al mondo, rischiamo però di perdere il controllo del nostro avvenire. Anche quando sappiamo, talvolta anche meglio degli Americani, ciò che andrebbe fatto per il bene nostro e di tutti, esitiamo però a farlo: per pigrizia, per egoismo, per paura. Siamo sordi alla grande, benefica retorica (per lo più post-kennediana) che ancora commuove gli Americani. E sì che una «nuova frontiera», negli ultimi cinquant’anni, ce la siamo conquistata, e come! Ma ora sembriamo incapaci di guardare al di là, nello spazio e nel tempo. Non nascono più, tra noi, nuovi profeti. Spesso si rivelano semplici macchiette.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Il grande freddo
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2008, 11:20:16 pm
16/2/2008
 
La crisi e le sfide globali
 
ARRIGO LEVI
 

Si direbbe che la stagione dell’antipolitica stia per finire, o forse sia già finita: anche se si annunciano bizzarri colpi di coda di un «movimento» che si ispira, più che a una vera passione civile, alle esperienze del mondo dello spettacolo. Credo che gli italiani sapranno distinguere tra le iniziative politiche da cui dipende il loro avvenire, ed eventi che fanno tanto show business. Ma si tratta di vedere se la rinnovata stagione della politica, nel corso delle settimane di ambiziose ristrutturazioni del mondo dei partiti e di intensi dibattiti che porteranno al doppio voto di aprile, saprà fare tesoro degli stimoli che il tempo dell’antipolitica ha comunque sollevato e proposto, talvolta con petulanza, ma forse non inutilmente, al mondo della politica professionale; e se saprà altresì affrontare con impegno quei temi e problemi che l’antipolitica neppure conosce.

In America direbbero: questa è la democrazia, bellezza! E’ la democrazia, con le sue carenze e le sue deficienze («Il peggiore sistema politico che ci sia al mondo, meno tutti gli altri», diceva Winston Churchill), ma anche con le sue astuzie, che fanno anche dei denigratori e nemici della democrazia dei promotori di democrazia. Più la si critica, più la si rafforza. Questo vale, almeno, per un organismo democratico che sia fondamentalmente sano; e io non ho dubbi che l’Italia lo sia. Ma il rientro in scena dei politici di professione (finora assai chiassoso sui palcoscenici televisivi: vorremmo meno parole e più scritti) propone loro altissime responsabilità. L’asticella che essi debbono saltare, sempre alta, è stata ancora rialzata. Non solo da quel che è successo in Italia, ma da ciò che sta accadendo nel mondo: dalla depressione d’origine americana, alle molte acute crisi politiche del quadro globale. Se i nostri partner europei guardano con ansia al «cantiere italiano», come è stato osservato, ciò non si deve soltanto alle incognite del complesso riallineamento delle forze politiche. Lo si deve anche al fatto (come ha scritto Massimo Franco), che pochi «riescono a immaginare quali saranno le sponde europee» del futuro governo italiano, in vista delle molte scelte importanti che si annunciano in Europa: l’ormai non lontana scelta di un nuovo «Presidente del Consiglio» europeo, la nomina di un nuovo Presidente della Commissione e di un presunto «ministro degli Esteri dell’Unione». Ci si preoccupa dell’Italia perché l’Italia rimane uno dei Paesi guida dell’Unione. Rimane inoltre un Paese importante, per i molti impegni politico-militari che ci siamo assunti in Europa ed oltre i confini europei, anche per la Nato, in una fase ricca di incertezze per la grande alleanza. Almeno finora, tutti questi temi sono rimasti ai margini del dibattito elettorale. Non a caso uno statista europeo come il Presidente della Repubblica ha auspicato che l’approvazione del nuovo Trattato costituzionale venga già compiuta da questo Parlamento in scadenza. Non sappiamo se il suo appello verrà accolto. La scarsa attenzione ai temi europei e di politica estera si aggiunge alle difficoltà pratiche, e rende dubbio che i partiti si dimostrino capaci di compiere il grande passo suggerito dal Capo dello Stato. Sembrano non comprendere che con una tal decisione, d’importanza storica, il «cantiere politico» italiano non soltanto manderebbe un forte segnale di fiducia ai nostri alleati, ma contribuirebbe altresì a illuminare il cammino del futuro governo. Il dibattito elettorale sta compiendo i primi passi in un’atmosfera più distesa del previsto. Una scelta europea pressoché unanime del Parlamento sarebbe di buon auspicio per il dopo-elezioni, contribuirebbe a trasformare i conflitti in civili confronti. Ma vorrei dire ancora qualcosa sui temi della campagna elettorale. Dominano, finora, i problemi dell’economia, ed è anche giusto che sia così, con interventi di autorevoli economisti che si affiancano utilmente a quelli dei politici. Si profilano all’orizzonte altri grandi problemi: le riforme istituzionali o costituzionali, che richiederanno anch’esse, per potersi realizzare, un clima d’incontro fra le forze contrapposte; i rapporti fra Stato e Chiesa; le riforme nel mondo della scuola e della ricerca scientifica. Ma dovremmo anche essere consapevoli che si aprirà nel 2009, dopo le elezioni americane e russe, e dopo le riforme costituzionali europee, una nuova stagione di negoziati politico-strategici, la più importante dai tempi della Guerra Fredda, che avrà gli stessi protagonisti d’allora: le due «superpotenze» militari, Stati Uniti e Russia, e l’Europa unita. Dalla Russia di Putin continuano ad arrivare segnali contraddittori, una specie di «doccia scozzese» di aperture (come il costruttivo discorso del vice primo ministro Sergej Ivanov alla Wehrkunde di Monaco), e di minacce. Ma riteniamo che sia interesse fondamentale della Russia, più che mai in questa fase di rinnovate ambizioni di grande potenza, essere tra i promotori e i protagonisti di un negoziato che potrebbe, o dovrebbe, gettare le basi di più stabili equilibri politico-strategici su scala globale. Inutile elencare la serie di crisi aperte e pericolose, a cominciare dal Kosovo, dove si stanno vivendo ore decisive per il futuro dei Balcani; per non parlare del Vicino Oriente, dell’Iraq, dell’Iran con le sue vaste ambizioni nucleari, del Libano diviso,, dell’Afghanistan. È sullo sfondo di un mondo frammentato e turbolento che si svolgerà la stagione di un nuovo storico negoziato fra le potenze tradizionali, mentre all’orizzonte si affacciano le potenze di domani: Cina e India. Sulla bilancia dei negoziati, ognuno dei protagonisti peserà per quello che vale. Per quella che è la sua forza economica, ma anche per la sua potenza politico-militare (è davvero singolare l’opinione che i nostri soldati non debbano essere mandati «dove si combatte»!), e per la sua maggiore o minore determinazione di far valere i suoi interessi, i suoi valori, le sue visioni, le sue speranze. L’Italia conterà più di quel che pensa: purché i suoi futuri allineamenti europei e globali siano, beninteso, quelli giusti.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. Economist, non esagerare
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 10:59:27 am
3/5/2008
 
La legge del pendolo
 
ARRIGO LEVI

 
Sono trascorsi 84 anni dalla formazione del primo governo laborista in Gran Bretagna. Era il gennaio del 1924, e lo guidava Ramsay MacDonald, grazie ai 191 seggi vinti alle elezioni, contro i 159 dei liberali, e i 258 dei conservatori.

Ma gli storici parlano di quel governo, fondato sull’alleanza dei due partiti antiprotezionisti, in una fase di grave instabilità monetaria, come di un semplice interludio laborista: la durata fu di appena nove mesi. MacDonald tornò al potere soltanto nel maggio del 1929, sull’onda della grande crisi che aveva travolto i conservatori. Non ebbe neanche lui molto successo nel contrastarla, e nel 1931 si dimise; ma Giorgio V l’incaricò di formare un governo di coalizione nazionale, «per salvare la sterlina». Di fatto, tornarono al potere i conservatori, che stravinsero anche le successive elezioni. Per avere il primo vero governo laborista si dovette aspettare la fine della seconda guerra mondiale, quando, nel luglio del 1945, il popolo britannico ringraziò Winston Churchill per avere salvato la patria (e la democrazia in Europa e nel mondo), rispedendolo a casa e mandando Clement Attlee al 10 di Downing Street. A Clementine che lo consolava definendo la sconfitta «a blessing in disguise», una fortuna nascosta,

Winston rispose: «Molto ben nascosta».

Da allora ad oggi, conservatori e laboristi si sono più volte alternati al potere, mentre i liberali hanno tenacemente rifiutato di uscir di scena, pur restandone ai margini: stando ai primi conteggi, in queste elezioni amministrative avrebbero perfino superato di poco i laboristi, ma senza impedire una trionfale avanzata dei conservatori. La memoria storica, e la consapevolezza che in gran Bretagna (e non solo in Gran Bretagna) le elezioni amministrative di «mid term» vedono il partito al governo abitualmente perdente, mi impediscono di diagnosticare nel grave insuccesso di Gordon Brown - che ha perso anche Londra - la conferma di una storica «svolta a destra» dell’Inghilterra e, perché no, di tutto l’Occidente: contraddetta peraltro dal nuovo successo di Zapatero in Spagna, e dall'incertezza delle prossime elezioni americane, dove il candidato democratico, uomo o donna, si gioverà della vasta impopolarità del Presidente repubblicano in carica.

E poi non bisogna dimenticare che la legge del pendolo, nelle democrazie, ha ancora il suo peso; certamente in Inghilterra, oggi probabilmente anche in Italia. Detto tutto questo (anche perché si è tentati di offrire qualche parola di consolazione al povero Gordon Brown, la cui faccia, già così triste abitualmente, anche prima di queste elezioni, ha raggiunto, stando alle immagini televisive, livelli di cupezza che stringono il cuore), non è difficile riconoscere fattori importanti comuni alle scarse attuali fortune dei partiti di sinistra: alla fase di stanca dell’economia dell’Occidente si aggiungono i timori, diffusi anche se largamente ingiustificati, per la «globalizzazione» (grazie al cielo ci sono la Cina, l’India, e altri nuovi arrivati sul mercato globale che sorreggono oggi lo sviluppo generale; ma la loro crescita dà, oltre a molti benefici, anche dei fastidi), e la paura del terrorismo islamista e di un’invasione immigratoria. In Gran Bretagna pesa inoltre contro i laboristi il sostanziale insuccesso della volonterosa partecipazione alla guerra dell'Irak, pietra al collo per l’ultimo Tony Blair come per il suo amico Bush.

C’è poi la tentazione, non immotivata, di addebitare alla «sinistra» tradizionale, socialista o «democratica», come ora si usa dire da noi, una perdita di contatto con i veri sentimenti del proprio elettorato tradizionale, una mancanza di comprensione di quanto sia cambiato «il proletariato», nelle sue ambizioni come nelle sue preoccupazioni. Per annunciare la rottura di questo antico, storico legame, sarà però prudente attendere future conferme, o smentite. Quello che non attende conferme, è la grave crisi del partito laborista di Gordon Brown, la cui leadership era peraltro già discussa, all’interno del partito, anche prima di queste elezioni, per alcune scelte di politica economica che risalgono addirittura ad un anno fa. E comunque, in Inghilterra, e non solo in Inghilterra, è sul leader di un partito sconfitto che anche i suoi più stretti amici tendono a far ricadere la maggior colpa di un insuccesso elettorale.

Questo è anche un modo per alleggerire proprie, eventuali responsabilità. A favore del leader sconfitto dovrebbe giocare la convinzione, valida ovunque, che le conseguenze di una sconfitta possono soltanto aggravarsi, se ad essa segue una fase di litigiosità interna, una specie di «resa dei conti» generale. Mentre le conseguenze sono meno gravi se si apre una fase di intensa riflessione, nella quale tutti si mettano in giuoco, puntando su ciò che unisce e non su ciò che divide, e guardando al futuro, più che al passato.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Israele i libri e la libertà
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2008, 06:47:52 pm
8/5/2008 - LA FIERA DEL LIBRO
 
Israele i libri e la libertà
 
ARRIGO LEVI

 
La maggior parte degli scrittori israeliani, certo i più famosi tradotti in tutto il mondo, diversi dei quali saranno da oggi a Torino per la Fiera del Libro, sono uomini di pace. Quasi tutti - romanzieri, storici, giornalisti - sono fautori di una politica di più audace apertura al negoziato e di più generosa disponibilità alle concessioni da farsi ai palestinesi per arrivare alla pace, di quanto non sia il governo oggi in carica a Gerusalemme. L’idea di boicottare la Fiera, che celebrerà gli scrittori israeliani insieme con tanti altri scrittori d’ogni parte del mondo, che celebrerà insomma, come tutti gli anni, l’idea stessa del «Libro» come strumento di civiltà, quale è per sua natura, è quindi un’idea non soltanto incivile ma stupida. Dispiace dirlo: ma gli stupidi fautori del boicottaggio (anche i «grandi intellettuali» possono essere stupidi) combattono quello che dicono di volere, cioè la nascita, accanto allo Stato d’Israele, creato 60 anni fa per volontà delle Nazioni Unite, di uno Stato palestinese: sola vera garanzia, secondo la maggioranza degli stessi israeliani, dell’esistenza e sopravvivenza d’Israele.

Lo Stato d’Israele, e il faticoso cammino intrapreso verso la meta sognata della pace, possono certo sopravvivere a tanta manifestazione di insipienza. Così come possono fare a meno di alcune manifestazioni non necessarie e fin troppo zelanti di solidarietà, che, non so perché, suscitano in me un certo, forse immotivato fastidio: lo stesso che provo quando incontro quelli che mi dicono che gli ebrei sono più bravi, più intelligenti, più più di tutti gli altri. Troppe lodi mi fanno correre sotto pelle un brivido, come fossero una conferma che mi si considera, in quanto ebreo, un «diverso». Grazie della solidarietà: ma Israele non è sopravvissuto, fino ad oggi, in virtù del sostegno altrui. È sopravvissuto al testardo, controproducente e ancor vivo rifiuto di fare la pace da parte di chi si oppone alla sopravvivenza stessa d’Israele, grazie, fondamentalmente, alla sua altrettanto testarda volontà di vivere, di sopravvivere.

Fra pochi giorni, il 15 maggio, Israele potrà celebrare il sessantesimo anniversario della sua nascita perché sessant’anni fa vinse la sua prima guerra, e poi diverse altre. E vinse quella prima guerra, contro uno schieramento di eserciti apparentemente imbattibile, proprio perché personaggi come l’allora Segretario Generale della Lega Araba, che si chiamava Abd al Rahman Pascià, l’avevano annunciata come «una guerra di sterminio, un terribile massacro, paragonabile alle stragi mongole e alle Crociate». Questa non ci parve una buona idea.

Accade che io sia ormai uno dei pochi ancora in vita fra i giovani ebrei italiani che decisero allora di partire per quella guerra, anche se non erano programmaticamente «sionisti», perché francamente, dopo la Shoah, ci sembrava un po’ troppo che si pensasse di massacrare anche quei seicentomila ebrei che stavano mettendo in piedi una specie di Stato ebraico in Palestina, dopo duemila anni di esodo e di persecuzioni. Ci sembrò, d’istinto, che se davvero anche loro fossero stati «gettati a mare», come promettevano a gran voce tutti gli Stati arabi, non sarebbe valsa la pena di continuare a vivere: già ci sentivamo quasi in colpa per esserci salvati dalla Shoah.

I ricordi di quell’anno di guerra, e di come e quando finì, sono ancora molto nitidi nella mia mente. E dà quasi una stretta al cuore ricordare l’entusiasmo di quella notte di fine anno del ’48, quando ebbe inizio l’ultima tregua, e noi della «Brigata del Negev», che ci eravamo appena ritirati dal territorio egiziano, al di qua del confine segnato dall’Onu, ci lasciammo andare a eccessive manifestazioni d’entusiasmo, abbracciandoci e brindando con succo d’arancia, perché era arrivata, finalmente, la pace! Come eravamo ingenui! Ma pensavamo davvero che fatta la guerra, e visto che l’avevamo miracolosamente vinta, ci sarebbe stata, come di solito si usa dopo le guerre, la pace, che avrebbe permesso a tutti i miei compagni israeliani di tornarsene a casa ai loro lavori, e a me, come poi accadde, di seguire la mia stella di giornalista italiano in giro per il mondo. Purtroppo (anche per loro), i palestinesi, che avrebbero potuto mettere subito in piedi un loro Stato, e gli arabi in generale, dissero no e no e no, no al negoziato, no al riconoscimento d’Israele, no alla pace.

E qui ci ritroviamo, sessant’anni dopo, ancora senza la pace, e alla mia età comincio a disperare di vederla mai. Penso al giorno del novembre ’92 in cui, a Roma, mi toccò con gioia di presentare il libro dell’israeliano Mark Heller e di quel grande intellettuale palestinese che era ed è Sari Nusseibeh, che da allora fu mio amico, oggi presidente dell’Università araba di Gerusalemme, che s’intitolava: Israele e Palestina - Il piano per la pace fra due Stati sovrani. Condividevo il loro piano e le loro speranze. Di Nusseibeh ho letto da poco, con stringimento di cuore, e con spirito di piena solidarietà, il suo ultimo, bellissimo libro di memorie, uscito in America col titolo Once upon a country (C’era una volta un Paese). Come vorrei che ci fosse, come vorrei che nascesse un Paese chiamato Palestina, accanto a quell’altro Paese chiamato Israele.

Ma il Signore Iddio, che è poi lo stesso degli uni come degli altri, non potrebbe, una volta tanto, provare a usare un po’ della sua presunta onnipotenza, non per punire i malvagi (e talvolta anche gli innocenti), che sembra sia la Sua specialità, ma per incoraggiare e premiare gli uomini di pace, che ci sono di qua come di là? O forse aveva ragione Giovanni Paolo II quando diceva che, concedendo agli uomini il libero arbitrio, Nostro Signore aveva rinunciato all’onnipotenza. E se non confidiamo in Dio, che cosa ci resta? Confidiamo nella forza dei Libri: uno che appartiene al «popolo del Libro» non può abbandonare anche quest’ultima speranza.

 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. Economist, non esagerare
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 11:30:14 pm
21/6/2008
 
Economist, non esagerare
 
 
ARRIGO LEVI
 
Ogni volta che leggo un articolo dell’Economist sull’Europa, mi torna alla mente il passaggio di un discorso di Anthony Eden, pronunciato negli Anni Cinquanta in un’università americana, che diceva letteralmente: «We feel it in our bones that we do not belong to Europe»: noi (inglesi) sentiamo nelle nostre ossa che non apparteniamo all’Europa. Da allora è passato mezzo secolo, ma le ossa dell’Economist sono rimaste le stesse di Eden, un politico che ebbe molti meriti, ma che merita di essere ricordato, come oratore, soprattutto per quella frase e non per altro: Churchill, a cui era caro perché era antinazista, aveva definito un suo particolare discorso dicendo che conteneva tutti i luoghi comuni della lingua inglese, meno «Adjust your dress before leaving» (che è l’invito a riaggiustarsi l’abito che si legge nei gabinetti pubblici inglesi). Amando da una vita gli inglesi, e sapendo bene di quanto l’Europa sia debitrice al popolo britannico e alla sua lunga, solitaria resistenza a Hitler (dobbiamo prima di tutto a loro se dopo la guerra c’è stata ancora una Europa da ricostruire, e da unificare), ogni mia critica alle «ossa» degli inglesi tende a essere benevola. E poi, è difficile discutere con le ossa, sia quelle di Eden sia quelle degli attuali responsabili dell’Economist. Facciamo finta di non sentire, e tiremm innanz: fino a oggi, hanno sempre finito per far tacere le loro ossa e per seguirci. E continueranno a farlo.

Ciò detto, un tono di aristocratico distacco come quello abitualmente adottato dall’Economist quando parla dell’unificazione europea, forse comprensibile mezzo secolo fa, non è più giustificabile oggi. Gli inglesi dovrebbero pur capire, a loro volta, che la libertà di cui oggi godono si deve, assai più che al loro modesto arsenale nucleare, all’Europa unita. Sono state le Comunità Europee che, a lungo protette dal potente scudo offertoci dagli americani (i quali hanno fortunatamente nelle ossa l’istinto di correre in aiuto degli Europei quando questi impazziscono, scegliendo sempre di aiutare i buoni), hanno sconfitto e disfatto, senza sparare un colpo di fucile, la potente Unione Sovietica e il suo impero. È stato il confronto fra il successo politico, economico, sociale di quella che oggi si chiama Unione Europea e l’insuccesso del «modello comunista», staliniano e post-staliniano, a riunificare nella democrazia quasi tutto il continente.

Certo, non esistono ancora quegli «Stati Uniti d’Europa» di cui Winston Churchill auspicava la nascita fin dagli Anni Venti, pur immaginando che l’Inghilterra, alla testa del suo allora potente Commonwealth, sarebbe stata legata strettamente agli SUE, senza però farne parte. Ma quando Churchill auspicava la nascita degli SUE, guardava già molto lontano, nello spazio e nel tempo: immaginava che soltanto un’Europa politicamente unificata sarebbe stata all’altezza delle sfide di un mondo che l’impero britannico aveva poderosamente contribuito a «globalizzare».

Oggi i problemi e le sfide che la capacità di visione di Churchill sapeva immaginare si sono concretizzati. E i problemi attuali che l’Europa deve affrontare, quelli di cui anche l’Economist riconosce l’esistenza (i cambiamenti climatici, l’energia, un rapporto costruttivo con la Russia, la stessa espansione dell’Unione Europea) e gli altri che l’Economist dimentica (il terrorismo globale, la proliferazione nucleare, lo sconvolgimento imprevedibile degli equilibri globali dovuto all’emergere di nuove grandi potenze asiatiche), richiedono che al fianco degli Stati Uniti, e con una analoga capacità (che ancora non abbiamo) di assumerci tutte le nostre responsabilità, emerga un’Europa che sia molto di più di quello spazio di libero scambio che alle ossa di alcuni inglesi sembra, ancora oggi, il massimo sopportabile. Se avessimo seguito i loro consigli, gli istinti nazionali, che ancora sono forti dappertutto, non solo negli stadi, avrebbero riportato le già «grandi», oggi piccole, potenze europee a litigare di nuovo per accattivarsi i favori dell’America, o della Russia, o della Cina o magari di Bin Laden.

L’Economist è un grande giornale. Ma, a forza di sentirsi definire «autorevole» per antonomasia, rischia di cadere ogni tanto nel peccato di arroganza: prende in ridere il «caso Berlusconi», che, piaccia o non piaccia, è da studiare e capire, e si diverte a dare lezioni all’Europa tutta: intitolare il fondo dell’ultimo numero, dopo il modesto, esile voto irlandese (e subito dopo che le antiche ossa della Camera dei Lords avevano accettato il trattato), «Just bury it» («Seppellitelo e basta»: riferito al trattato dell’Unione), dimenticandone le cose più significative, come la nomina di un Presidente dell’Unione che possa rimanere in carica cinque anni, con un servizio diplomatico e un ministro degli Esteri europeo a disposizione, non è degno di un giornale «autorevole»: checché gli suggeriscano le ossa. Oltre all’Economist, lo ha detto solo l’on. Calderoli. Caro Economist, prova ad alzare gli occhi, a guardare lontano, come Churchill: la storia dell’Europa unita non è stata soltanto uno straordinario successo, politico ed economico: è una storia di cui i capitoli più importanti sono probabilmente ancora tutti da scrivere.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. L'Atlantico più stretto
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 04:40:43 pm
2/7/2008
 
L'Atlantico più stretto
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Dal nuovo colloquio che si è svolto ieri a Roma fra il presidente Napolitano e Henry Kissinger, l’ultimo di una lunga serie di incontri («da ognuno dei quali ho tratto benefici», osserva l’ex segretario di Stato), emerge un progetto politico che, confermando l’«essenzialità dei rapporti e dell’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico» nelle parole del Presidente, conduca di fatto a una più intensa cooperazione nell’affrontare i problemi del mondo d’oggi.

Non dovranno più essere soltanto gli Stati Uniti, dice in sostanza Kissinger, a «definire i compiti, trovare i mezzi, e chiedere agli altri Stati alleati soltanto un contributo» per la loro realizzazione. Si è iniziato un periodo storico in cui l’America deve contribuire «con i suoi ideali e con le sue forze», ma ha bisogno di un contributo europeo, non soltanto nella fase della realizzazione, ma anche in quella della definizione delle politiche da adottare.

Riaffiora la convinzione, che gli sentimmo esprimere per la prima volta in un’intervista con lui che risale a più di vent’anni fa, che vi siano dei «limiti della potenza americana» di cui è bene che l’America sia consapevole. Era così quando il quadro mondiale era dominato dal confronto fra le due superpotenze, Usa e Urss; lo è ancora oggi in un mondo multipolare, con l’emergere in Asia di nuovi potenti «Stati-nazione», proprio mentre l’Europa continua la costruzione di una Unione di Stati e di cittadini che si lasci gradualmente alle spalle l’era degli Stati nazionali.

L’Alleanza atlantica deve affrontare, in questa fase, problemi complessi: come quello dell’energia, quello della protezione dell’ambiente e, primo e più grave di tutti, quello della proliferazione nucleare. Perché, dice Kissinger, «se il numero delle potenze nucleari continuerà ad aumentare, un’esplosione nucleare sarà inevitabile». Una sentenza dura, che probabilmente coglierà molti di sorpresa, ma che riflette una realtà con cui è meglio prepararsi a fare i conti: anche se Kissinger non definisce la soglia numerica critica, che però continua ad avvicinarsi.

Dunque, Kissinger e Napolitano convengono su due obiettivi: un’alleanza più creativa, nel momento della definizione, come dell’attuazione, di una politica condivisa; e un’Europa più unita, che non sia soltanto (per usare un giudizio di Kissinger, citato da Napolitano) «a collection of nation-states», ma una «entità politica unitaria». È questo il giudizio del Presidente della Repubblica, che cita, non a caso, una frase del presidente Kennedy del 1963: «È solo un’Europa pienamente coesa che può proteggerci da una frammentazione dell’alleanza. Solo una simile Europa consentirà una piena reciprocità di trattamento attraverso l’Oceano. Solo con una simile Europa potremo realizzare un pieno rapporto di dare e avere tra eguali, una eguale ripartizione di responsabilità e un uguale livello di sacrificio».

Il Presidente accetta il giudizio di Kissinger, che questa è «un’Europa in transizione». Ma, aggiunge, «si è manifestata in Europa in misura crescente la consapevolezza del non poterci sottrarre alle nostre responsabilità in senso globale». Lo dimostra la «forte e costruttiva presenza europea, e segnatamente italiana, in missioni multilaterali di stabilizzazione di numerose aree, a noi vicine e lontane, in cui sono insorti conflitti e permangono pericolose tensioni... L’Europa nel suo insieme ha riconosciuto e riconosce di dover rafforzare la sua “capability” militare, anche per rendere credibile una sua identità di sicurezza e di difesa, e una sua politica comune in questo campo... pur nel calcolo realistico dei limiti entro cui può concepirsi un apprezzabile impegno militare europeo nel panorama mondiale».

Sul futuro della politica americana Kissinger, dopo avere premesso, con la consueta ironia, che non è detto che il futuro Presidente ascolti i suoi consigli, sottolinea che, «chiunque vinca» le prossime elezioni, è auspicabile che emerga «a common European-American effort and approach», e ci sembra fiducioso che così sarà. Replica Napolitano: «Penso che abbiamo entrambi, europei e americani, fondamentali risorse di civiltà e di esperienza cui attingere». E conclude: «Non è soltanto il passato, è anche il futuro, un futuro quanto mai incerto, che ci chiama a questa prova solidale».
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. Frontiera Sud
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 12:04:57 pm
13/7/2008
 
Frontiera Sud
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Il progetto di Nicolas Sarkozy di una «Unione per il Mediterraneo» non ha avuto finora, e non soltanto in Italia, una buona stampa. Perfino in Francia i commenti più autorevoli parlano di «un progetto che unisce ambizioni e incertezze». Ma anche i più scettici, che hanno a lungo giudicato che si trattasse soltanto di «una trovata alla Sarkozy», che sarebbe forse abortita prima di nascere, debbono prendere atto che oggi, 13 luglio, vigilia del «Quatorze Juillet», si riuniranno a Parigi i capi di Stato o di governo di 43 Paesi (salvo imprevisti, i Paesi rappresentati dovrebbero essere in tutto 47), per discutere di questa «trovata».

Anzi, per mettere in moto, concretamente, un «programma di progetti» («centinaia di progetti concreti», dicono gli ideatori francesi), che dovrebbe coinvolgerli in iniziative comuni nel campo dell’economia, delle tecnologie, dell’alimentazione, delle infrastrutture, della sicurezza, dell’antiterrorismo, della cultura, dei problemi delle migrazioni. L’obiettivo ultimo è di ripetere il miracolo dell’unificazione europea, creando un po’ alla volta una grande «area di pace e cooperazione» in una regione che fu già la culla della civiltà occidentale, ma anche il teatro di innumerevoli conflitti, fino ai giorni nostri.

Della sua idea di una «Unione del Mediterraneo» Sarkozy parlò per la prima volta nell’ottobre 2006, in piena campagna elettorale. Diventato Presidente, rilanciò questa «idea» nel marzo 2007, durante una visita in Marocco. Escludeva allora dall’iniziativa i Paesi europei non affacciati al Mediterraneo. Dopo una brusca frenata, per validi motivi, dei tedeschi, degli spagnoli e di altri, il progetto si è aperto a tutti i 27 Paesi dell’Unione Europea e a tutti i Paesi rivieraschi, dalla Turchia al Marocco, e si è esplicitamente ricollegato al «Processo di Barcellona», creato nel 1995. Il titolo ufficiale dell’iniziativa è oggi: «Il processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo».

La proposta francese è tanto ambiziosa quando indefinita. Ma ha ragione l’Economist quando dice che dietro il «Club Med» di Sarkozy si trova il germe di un’idea brillante, e forse «l’inizio di qualcosa di esaltante». La differenza, rispetto al «Processo di Barcellona», è che in questo rilancio di una iniziativa di cooperazione e pace nel Mediterraneo si impegna uno dei Grandi dell’Europa, la Francia, e si gioca la reputazione un capo di Stato ambizioso come Nicolas Sarkozy.

Si può rimanere ugualmente incerti sulle probabilità di successo. Si può giudicare troppo enfatico il linguaggio di uno degli ispiratori del progetto, Henri Guaino, quando parla di voler realizzare quello che fu «il sogno di Augusto e di Alessandro Magno». Sembra anzi che i primi a essere un po’ imbarazzati da questo linguaggio siano stati i «grands commis» del ministero degli Esteri francese quando hanno dovuto mettersi duramente al lavoro per fare accettare a tanti governi divisi da rivalità e conflitti di presentarsi tutti a Parigi il 13 luglio. Per fortuna, quella francese è ancora una grande diplomazia. E sarebbe da sciocchi non compiacersi del successo iniziale della Francia, che ha avuto ieri una prima e concreta manifestazione, superiore alle attese, con le importanti aperture della Siria nei confronti di Libano e Israele. Anche se il testo della Dichiarazione che tutti firmeranno rimarrà incerto, in alcuni delicati passaggi, fino all’ultimo. E anche se non sappiamo ancora da dove verranno i cospicui fondi necessari per la realizzazione dei «progetti», e quali nuove strutture si dovranno creare per far sì che i sogni si realizzino. Per ora si parla di un «segretariato permanente» e di due Presidenti. Stasera ne sapremo di più.

Ma pensiamo un momento ai problemi che hanno impegnato negli ultimi anni tutta l’attenzione dei Paesi dell’Unione Europea: la realizzazione, ancora incompiuta, di nuove istituzioni della stessa Unione; l’assorbimento nell’Unione dei nuovi Paesi membri dell’Europa dell’Est. Niente da obiettare, ovviamente. Queste erano e rimangono priorità assolute. Abbiamo stravolto e democratizzato tutto il quadro politico europeo. Abbiamo visto arretrare le frontiere della grande Russia, che si chiamava Unione Sovietica, di centinaia di chilometri, e mentre l’impero sovietico andava a pezzi per conto suo, abbiamo in realtà assicurato alla Federazione Russa (anche se Mosca non sembra averlo ben capito) frontiere di pace, come non le ha mai avute prima. Abbiamo fatto dei miracoli.

Ma l’iniziativa di Sarkozy ci richiama a una realtà che rischiavamo di dimenticare: il Mediterraneo è la nostra frontiera meridionale. I Paesi dell’altra riva sono nostri confinanti. I loro problemi economici e politici sono anche nostri. La nostra pace e sicurezza dipenderà dallo sviluppo di relazioni di pace dove ci sono ancora conflitti; dal progresso economico della Riva Sud; dalla nascita e dal consolidamento di regimi democratici là dove vigono ancora autocrazie e totalitarismi, e dal superamento di quella che ci auguriamo sarà soltanto una fase transitoria - la fase del fondamentalismo estremista e terrorista - nella secolare storia dell’islamismo.

Scherziamo pure sul sogno di Sarkozy di «rifare l’Impero Romano». Ma se questo sogno promuoverà iniziative capaci di creare le condizioni per il superamento delle minacce alla nostra pace e sicurezza che vengono dal Sud, saremo tutti più sicuri, in un mondo più giusto. Auguriamoci dunque che il progetto di «Sarko» vada avanti. E noi italiani, in particolare, smettiamola di tormentarci con le nostre fastidiose beghe interne per impegnarci a fondo in questa iniziativa: proprio perché siamo forse più consapevoli di altri dell’immensa complessità dei problemi del Mediterraneo. Ricordate il conflitto israelo-palestinese?
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Il grande freddo
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2008, 04:35:23 pm
19/8/2008
 
Europa e fragile America
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Sono d’accordo con Barbara Spinelli quando dice che, di fronte al conflitto tra Russia e Georgia, questa è «l’ora dell’Europa». Naturalmente non è mancato chi (Angelo Panebianco) ha affermato che «l’Europa esce malissimo da questa crisi», condannando radicalmente chi invece (Sergio Romano), con ben altra esperienza internazionale, aveva sostenuto, sullo stesso giornale, che «questa volta il fronte europeo si è fatto sentire», e bene.

Forse è opportuno, per ragionare sulla preoccupante crisi che si è aperta tra la Russia e l’Occidente e sul modo migliore di affrontarla, tener conto dei precedenti della crisi georgiana. Non ha molto senso accusare l’Unione Europea, per l’iniziativa di mediazione del presidente Sarkozy, di avere lasciato soli gli Stati Uniti a «condannare senza se e senza ma la Russia», e di avere così dimostrato la propria impotenza e incapacità di «farsi carico delle paure degli ex satelliti di Mosca», convincendoli del fatto che in avvenire «essi potranno sperare solo negli americani perché a noi, delle loro paure e della loro sicurezza, importa poco».

Ma che ha poi fatto l’America di Bush, prima della crisi e durante la crisi? Durante la crisi l’America non ha fatto nulla di nulla, salvo appoggiare la mediazione europea. La sua, dice bene Barbara Spinelli, è stata «una presenza di parole, non di fatti». Ne terranno conto gli «ex satelliti», nel valutare fino a che punto in avvenire essi possano «sperare negli americani».

Del resto è grottesco supporre che l’America, anche l’America di Bush, già sopraffatta dalle guerre in Iraq e Afghanistan, avrebbe mai potuto affrontare nel Caucaso una guerra con la Russia. Ma quel che più conta è quello che l’America aveva fatto prima di questa crisi, e fino a che punto ne sia stata responsabile. E’ bene tenersi al giudizio degli esperti di questa materia, ed è che l’America ha spinto la Georgia di Saakashvili a un’avventura assurda e senza esito; e che Saakashvili ha preso «le parole (dell’America) per realtà e poi si è accorto che erano solo parole».

Ma è inutile infierire su Bush. Merita piuttosto condannare con la massima severità e preoccupazione la Russia di Putin e Medvedev, per il modo in cui la Russia si è comportata e continua a comportarsi, con il massiccio e protratto intervento militare in Georgia, che è andato ben al di là di quanto era giustificabile dall’azione georgiana nell’Ossezia del Sud. Come non bastasse, sono poi venute da Mosca minacce di colpire la Polonia con armi nucleari, e di collocare testate nucleari nell’enclave di Kaliningrad.

Questo pone l’Europa, e il futuro presidente degli Stati Uniti, di fronte a problemi e compiti difficili. Il primo e più grave è di come si debba giudicare la Russia di Putin-Medvedev, la sua politica estera, i suoi obiettivi strategici. Pur tenendo conto delle argomentazioni di Gorbaciov per spiegare (non giustificare) le paure della «Russia dimezzata» post-sovietica, il fatto è che l’aggressione alla Georgia e l’esplosione nazionalista a Mosca hanno risuscitato lo spettro di una nuova guerra fredda.

Gli ex satelliti sono doppiamente protetti dall’appartenenza all’Unione Europea e alla Nato. Più esposta è sicuramente la posizione dell’Ucraina o della Moldavia. Soprattutto, si pone il problema (come lo definisce Silvio Fagiolo) della «ricomposizione del quadro internazionale». E l’Europa, se questa è la sua ora, in attesa dell’appuntamento dell’anno prossimo con la nuova Amministrazione americana, e di sapere come si concretizzeranno i «segni di discontinuità» della politica estera americana già evidenti nell’ultimo Bush, deve esprimersi con una «strategia lungimirante». Deve compiere «uno sforzo di elaborazione e di proposta» che tenga conto del quadro post-georgiano, delle sconsiderate minacce russe, ma anche della consapevolezza che la Russia ha bisogno, e sa di avere bisogno, per il suo stesso progresso, di rapporti di collaborazione a tutto campo con l’Occidente.

E’ chiaro che l’elemento base di qualsiasi nuova «strategia» rimane la conferma e consolidamento del legame Europa-Stati Uniti. Ma occorre anche un chiarimento fra vecchi e nuovi membri dell’Unione. I nuovi ricordino che debbono alla vecchia Comunità Europea e ai suoi successi, oltre che alla solidità dell’alleanza atlantica, se l’impero sovietico è crollato e se hanno riavuto libertà e indipendenza. Soltanto uniti, e saldamente legati all’America, potremo affrontare un nuovo negoziato a tutto campo con la Russia, che si ponga grandi traguardi, obiettivi globali comuni.

Le sedi istituzionali per un tale negoziato, che affronti sia i problemi strategici che quelli economici e politici, esistono già. Ma il negoziato, necessariamente lungo e complesso, dovrà svolgersi anche ai più alti livelli. Non si troverà l’accordo in un giorno. Ma non si dimentichi che anche nei decenni della «guerra fredda» fu sempre vivo e continuo un impegnativo negoziato, che di fatto garantì la coesistenza pacifica tra mondi allora molto più lontani di quanto sia oggi la Russia dalla nostra Europa e dagli americani. Ha ancora ragione Barbara Spinelli quando ricorda che l’ordine europeo, con le sue regole, rimane per tutti l’unico modello funzionante.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Il grande freddo
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2008, 02:32:25 pm
27/8/2008
 
Il grande freddo
 
 
ARRIGO LEVI
 
Ma che giornate stiamo vivendo! La notizia che è stato sventato un tentativo di assassinio del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti ha rievocato ricordi fra i più tragici del nostro passato: Dallas, Los Angeles! Come non bastasse, in India, un Paese che siamo soliti immaginare pacifico per natura, si moltiplicano gli orrendi omicidi di cristiani. E intanto, si alternano sulle prime pagine dei giornali titoli che dicono «Torna la guerra fredda» ad altri (ottimisti) che dicono «Torna la guerra fredda?».

La storia si ripete? Forse sì, nei suoi errori. Ma lascia un po’ senza parole apprendere che nella «piccola guerra che rivolta il mondo» - come l’ha definita la lucida analisi di Anna Zafesova sulla Stampa - coinvolgendo di nuovo Russia e Occidente in un duro confronto, saremmo, oltre a tutto, precipitati per colpa di uno sprovveduto (e modero il linguaggio). A un intervistatore che gli chiedeva se non si sentisse responsabile dell’attuale situazione, il leader georgiano Saakashvili ha risposto, candidamente: «Ho sempre pensato che l’Ossezia del Sud fosse un territorio senza importanza per la Russia. Ho commesso questo errore perché credevo che l’attacco principale avrebbe avuto luogo in Abkhazia».

Strano che nessuno dei suoi consiglieri, georgiani o stranieri, abbia pensato di fargli capire che, da che mondo è mondo, uno piccolo piccolo non può provocare uno grande grande senza aspettarsi una dura risposta. O forse il suo «errore» è stato di pensare che l’America sarebbe scesa in campo al suo fianco in una «piccola guerra», che sarebbe diventata assai grande, mentre ha già ben altre guerre meno piccole da affrontare?

È poi evidente che le cause di questo «settembre nero» che ci prepariamo a vivere sono state più d’una, e che all’ingenuo protagonismo di Saakashvili si è affiancato un ben più pericoloso protagonismo aggressivo da parte della Russia, che sta cercando di riprendersi quello che può dai tanti territori che ha perduto (per sua colpa) o almeno di prevenire, con i durissimi interventi prima in Cecenia, ora in Georgia, che anche altri dei tanti popoli con tante lingue diverse che compongono la Federazione Russa pensino di dover dire un giorno addio all’ultimo degli imperi. Della dura sfida che viene da Mosca soltanto in parte si può fare ricadere la responsabilità sull’Occidente, che non avrebbe, dice Gorbaciov, «rispettato la Russia».

Non è certo colpa nostra (secondo me neanche sua) se l’Impero è crollato nel caos. Concordo con lui nel pensare che l’abrogazione da parte americana del Trattato sulla difesa antimissili, che è stato la fondamentale garanzia della «pace del terrore» fra le super potenze nucleari, e la decisione di collocare sistemi antimissilistici proprio in Paesi confinanti con la Russia, siano state decisioni avventate (purtroppo non le sole) dell’America di Bush.

Si dà il caso (purtroppo le cose stanno proprio così) che la proliferazione nucleare e la possibilità che armi atomiche cadano in mano a fondamentalisti folli, disposti a mandare dritti in paradiso i loro stessi popoli pur di distruggere New York o Mosca, creino una situazione molto diversa dal passato. Oggi le superpotenze atomiche si trovano nella necessità di predisporre adeguate difese antimissilistiche, non consentite dal vecchio trattato. Ma era allora opportuno partire non da una decisione unilaterale, sia pure dicendosi disposto a discuterne con la controparte, ma da un serio, aperto negoziato preliminare. Questo era tanto più necessario in un momento in cui, per vari motivi, tutto il sistema dei trattati - sulle armi atomiche come sulle forze convenzionali -, che garantiva la «pace fredda» fra l’Unione Sovietica e i Paesi della Nato, è stato in parte sospeso, o smantellato, o è in via di smantellamento. Proprio mentre ha più che mai bisogno di essere consolidato.

Non c’è alcun conflitto di interessi strategici fra Russia e Occidente (io sono sempre tentato di dire «e gli altri Paesi occidentali», giudicando che la storia russa sia stata e sia decisamente una «storia europea»). Tutti abbiamo la necessità di proteggerci contro una minaccia di tipo del tutto nuovo, che non era prevista, e nemmeno prevedibile, negli anni del confronto diretto tra Est e Ovest. Così pure non c’è conflitto di interessi (tutt’al più una giusta trattativa sui prezzi) neppure fra chi produce petrolio e gas per venderli e chi li compra. O fra un Paese «in via di sviluppo», come è, per tanti aspetti, ancora oggi la Russia, e i Paesi sviluppati che contribuendo allo sviluppo altrui ne traggono in legami di vantaggio.

Quando si sostiene la necessità di negoziare con i russi, è necessario comprendere che si tratta di avviare un grande, assai difficile negoziato a tutto campo, come del resto, non mi stanco di ricordarlo, si è fatto per gran parte del tempo della guerra fredda. In un negoziato così vasto e ambizioso, l’Europa può avere, se saprà esprimere una propria linea unitaria, una parte importante. Ma è ovvio che non ci sarà nessun negoziato senza un’America che ne sia convinta partecipe. E così, siamo condotti a guardare al dopo-Bush, e a seguire con trepidazione il tempo che ci separa dall’insediarsi di una nuova Amministrazione. Intanto, è giusto che l’Europa, e in Europa l'Italia, parli ai russi con pacata fermezza. Non si sentono rispettati? Lo sarebbero di più se rispettassero gli accordi firmati e il diritto internazionale, e non lo violassero a danno di altri Stati indipendenti.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. Sofri, non si può giustificare quel delitto
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 11:59:48 am
13/9/2008
 
Sofri, non si può giustificare quel delitto
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Gli ex terroristi, e i loro sostenitori o simpatizzanti degli anni di piombo, non si stancano di rivendicare con misurato orgoglio quello che allora pensavano e facevano. Lo fanno sull’onda di una dilagante moda revisionista, che sembra essersi impadronita di un’Italia malmostosa, insoddisfatta di quello che è.

Siamo un Paese democratico, creativo come lo è stato in tutta la sua storia, fra i più ricchi al mondo, che è stato e rimane uno dei pilastri di quell’Europa unita che è la più vasta area di pace fra le nazioni che oggi esista. Dovremmo compiacerci di un mezzo secolo di progresso civile e materiale. Invece è di moda rivendicare le presunte ragioni di tutti coloro - a partire dallo squadrismo e dalla dittatura fascista, fino alle Brigate Rosse - che cercarono con la violenza di costruire l’opposto esatto di quello che siamo.

E’ come se la storia d’Italia e d’Europa fosse una tela bianca, sulla quale ognuno può ridisegnare una sua storia di fantasia, nella quale, ovviamente, il suo personale passato viene adeguatamente elogiato. Si può essere intelligenti e colti, come è un Adriano Sofri. Ma quello che rode dentro non dà pace. Accade così che lo stesso Sofri, articolista stimato di un grande giornale, trovi intollerabile che ci sia stato un incontro, organizzato dall’Onu, per celebrare le vittime del terrorismo, con partecipanti venuti da ogni parte del mondo; e che fra questi ci sia stato anche Mario Calabresi, figlio del Commissario Calabresi, assassinato a Milano da un commando di tre militanti di Lotta Continua. Per questo omicidio Sofri è stato condannato come mandante. Ha sempre negato di esserlo stato. Ma allora, perché rivendicare ancora oggi le ragioni degli assassini?

Ha spiegato Sofri che, anche se allora «non c’era una guerra, molti di noi erano in guerra con qualcuno». Con chi erano in guerra? E in guerra per costruire che tipo di Paese? Noi non lo abbiamo dimenticato. Erano dichiaratamente in guerra contro lo Stato, contro quello che Carlo Casalegno definiva «il nostro Stato», lo Stato democratico costruito grazie all’antifascismo e alla Resistenza. E che società volevano costruire? Nella loro felice ignoranza della storia europea, giudicando come un tradimento degli ideali rivoluzionari anche il «comunismo diverso» di Togliatti, Longo e Berlinguer, chi altro avevano in mente come modello, se non Lenin, il colpo di Stato dell’Ottobre e il terrore leninista, con tutto quello che seguì?

Per Sofri, l’assassinio di Calabresi non fu un atto di terrorismo contro chi difendeva, con gli strumenti delle leggi ordinarie, gli ordinamenti della Repubblica, ma «l’azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca». Intendi, per «violenza torbida e cieca», l’azione doverosa della magistratura e delle forze dell’ordine. E intendi per «sentimento proprio» (che espressione delicata: finalmente sappiamo perché furono ammazzati Casalegno, Calabresi, Moro e tanti altri: per «sentimento»), la convinzione che la violenza terroristica avrebbe scatenato una grande sollevazione popolare che avrebbe abbattuto la Repubblica democratica. Sragionavano. Ma tale fu la giustificazione dell’assassinio del Commissario Calabresi, anche se questi nulla aveva avuto a che fare con la morte dell’anarchico Pinelli, che ancora oggi, secondo Sofri, era ragionevole voler «vendicare» con un omicidio, dal momento che non ci si fidava «della giustizia pubblica». Quando è in giuoco l’immagine che si ha di se stessi, e si vuole giustificare il proprio passato, la ragione davvero vacilla.

Così, c’è chi, a commento e giustificazione delle opinioni di Sofri, giudica «corretto sotto il profilo storico, politico e morale richiamare il contesto in cui maturò quel delitto». E chi ritiene valido il diritto alle sue opinioni di Sofri, «un uomo già privato delle sue libertà... nel suo bisogno di ricostruire la verità storica». In quanto «la storia di quegli anni non è fatta di bianco o nero, di torti o ragioni scolpite nel marmo». Non fu scolpita nel marmo. Fu intrisa del sangue delle vittime della violenza scatenata contro lo Stato democratico da terroristi stupidi, mossi dai loro «sentimenti» e dai loro sogni, o incubi rivoluzionari. Fu questo «il contesto» in cui «maturò quel delitto». A noi non occorre «richiamarlo». Ce lo ricordiamo bene.

Non erano mossi da un «sentimento» molto diverso gli squadristi fascisti che, bastonando e massacrando quelli dei nostri padri che a loro si opponevano, aprirono la strada al colpo di Stato e alla dittatura fascista, benedetti da un monarca piccolo e pavido. Chi di quel passato aveva memoria non esitò a definire il movimento terrorista (come fece Berlinguer), «un nuovo fascismo». Chi difende gli assassini di Calabresi sembra avere smarrito il ricordo del linguaggio farneticante dei «comunicati» delle Br. Noi no.

E chi altro dobbiamo ringraziare dello scampato pericolo, se non le vittime dei terroristi, coloro che, denunciando con i loro articoli di giornale, o perseguendo con le loro inchieste giudiziarie il terrorismo, ben sapendo il rischio mortale che correvano, isolarono e sconfissero le bande terroriste?

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. Nostalgia dell'America, quella vera
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 09:49:18 am
12/10/2008
 
Nostalgia dell'America, quella vera
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Forse non è il momento più adatto per dirlo, ma ho nostalgia dell’America. E penso di non essere il solo. È vero che le due grandi crisi che turbano il mondo, quella finanziaria, e la guerra irachena, hanno come principale origine, un unico peccato dell’America dell’ultimo decennio: un eccesso di arroganza, una smisurata fiducia nella propria potenza politico-militare e finanziaria. Uno dei consiglieri del Presidente uscente avrebbe detto: a scrivere la storia ci pensiamo noi, voi giornalisti e politologi dovrete poi soltanto raccontarla. Ma la storia è molto complicata e non si lascia scrivere da nessuno. E tuttavia, quanto più forte è l’impopolarità dell’America d’oggi nel mondo, e tutti i sondaggi dicono che ha raggiunto livelli drammatici, tanto più cresce la nostalgia dell’America che abbiamo conosciuto, di cui forse è il caso di ricordare i grandi meriti storici.

L’America non ha soltanto inventato la democrazia moderna. Nel corso del Novecento ha salvato la democrazia europea, due volte, dalle proprie follie, pagando un prezzo di vite umane altissimo. Ha salvato le nazioni democratiche dal disastro economico in cui l’ultima guerra le aveva fatte precipitare, con aiuti generosi e lungimiranti. Ha salvato le stesse nazioni dalla sfida dell’ultimo totalitarismo europeo, quello sovietico, e ha vinto la guerra fredda insieme con l’Europa democratica senza sparare un colpo di fucile. Ha dato vita alle Nazioni Unite, che non sono il governo del mondo ma sono qualcosa di molto più concreto della Società delle Nazioni.

E tutto questo riguarda il passato. La «nostalgia» dell’America nasce dall’ammirazione per la capacità che l’America ha conservato di cambiare. Io non so come finirà la campagna elettorale. Ma il fatto che il mondo in generale «voti Obama» nasce da un sentimento di stupita ammirazione per la ineguagliata capacità dell’America di accogliere i poveri e diseredati del mondo. Per schiudere le porte della Casa Bianca a un nero l’America ha cambiato la sua identità con una rapidità che lascia esterrefatti.

La prima campagna presidenziale che ho «coperto» era quella del 1964, quando Johnson, erede di Kennedy, vinse contro il razzista Goldwater. Allora trascorsi un periodo nel profondo Sud, a Jackson Mississippi e dintorni. L’atmosfera razzista faceva paura. Il giornalista straniero era automaticamente identificato come un sostenitore dei negri ed era circondato, ovunque andasse, dall’ostilità minacciosa dei «red necks». Gli studenti «liberal» venuti dal Nord per incoraggiare i negri a votare rischiavano la vita. Diversi di loro vennero uccisi. Da allora sono passati poco più di quarant’anni e un negro che è mezzo americano e mezzo musulmano ha ottime probabilità di diventare Presidente. Questo era allora inconcepibile, e solo in America sarebbe potuto accadere.

E’ questa capacità dell’America di cambiare che mi lascia un po’ scettico quando leggo libri ed editoriali che dicono che l’età americana è già finita, che siamo entrati nell’era multipolare, e che forse l’era bipolare, quella della guerra fredda, era meno pericolosa. Sulla pericolosità del mondo del XXI secolo sono perfettamente d’accordo. L’atomica in mano a troppe potenze, e un giorno forse a disposizione di qualche setta fanatica e suicida, è un annuncio di apocalisse. Ma mi convince meno l’idea che il multipolarismo del XXI secolo debba condurre necessariamente, come quello del XX secolo, a una nuova guerra mondiale.

Il multipolarismo che noi abbiamo vissuto, e a cui siamo a fatica sopravvissuti, era di scala europea e non mondiale. C’era una lunghissima tradizione di guerre fra nazioni europee strette l’una all’altra in un piccolo spazio, imparentate e divise da somiglianze e diversità ideologiche e religiose che generavano straordinari progressi culturali e conflitti disastrosi: gli ultimi due della serie divennero guerre mondiali. Il multipolarismo d’oggi si esprime in una estensione spazio incomparabilmente più vasta. Fra la Cina e l’America c’è di mezzo il Pacifico. Tra la Russia e l’Asia meridionale ci sono spazi immensi. E la Russia può nutrire rancori per le terre perdute a Occidente, ma presto o tardi si accorgerà che ha un terzo della superficie terrestre a Oriente in cui sfogare la sua ansia di grandezza, e che l’Europa unita d’oggi non è nemica ma alleata necessaria per il suo stesso progresso.

E poi c’è l’America, l’America con il suo patrimonio di valori democratici, l’America che sa cambiare, e che si è già accorta, negli anni del tramonto di Bush, che ha bisogno del mondo non meno di quanto il mondo abbia bisogno di lei. L’America ha una riserva di ideali che nessun altro ha. Può sbagliare. Ma ha ancora il coraggio di mettere in giuoco tutta se stessa, e le vite dei suoi cittadini, al servizio di questi ideali. Non credo che la leadership americana del mondo «multipolare» sia finita. E ho fiducia che l’essersi scoperta impopolare l’aiuti a ritrovare se stessa: quella grande America che è stata compagna della nostra storia e di cui abbiamo nostalgia.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Europa, l'audace cura del dr. Sarkò
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2008, 11:16:43 am
30/10/2008
 
Europa, l'audace cura del dr. Sarkò
 
ARRIGO LEVI

 
E’singolare quanto siano variati i giudizi sull’effetto che la crisi economica, e il modo in cui l’hanno affrontata l’Unione Europea e gli Usa, avranno sul futuro dell’Unione, e su quello dei rapporti fra l’Ue e gli Usa. Non stupisce che a metà ottobre, sull’Economist, Charlemagne, che a dispetto del nome non è un fan dell’Europa, intitolasse la sua column «Bad times ahead», prevedendo che in questo futuro oscuro la solidarietà fra gli Stati dell’Unione potesse andare a pezzi «in modo assai dannoso». Passano pochi giorni, e l’Herald Tribune spiega, con una lunga analisi, d’un tratto largamente condivisa al di qua e al di là dell’Atlantico, come sia stata l’Europa a indicare agli Stati Uniti il modo giusto per affrontare la crisi. Titolo: «D’un tratto l’Europa sembra piuttosto astuta - la crisi lancia l’Europa in un ruolo di leader». L’autorevole giudizio di Mario Monti sul Corriere della Sera è che la crisi abbia segnato «un successo dell’Europa»: e questa è ormai l’opinione generale, non sappiamo quanto duratura.

Anche guardando al futuro, i punti di vista divergono molto. Chi crede poco all’unità europea giudica che un futuro «federalista» si sia allontanato, dal momento che a condurre il giuoco nella crisi è stato il Consiglio europeo, e quindi i governi nazionali, e non la Commissione. Gli europeisti sperano al contrario che il cammino dell’unificazione si faccia più spedito. Secondo gli scettici, anche se questa volta è stata l’Europa a indicare agli Stati Uniti la strada giusta, le due sponde dell’Atlantico si sarebbero molto allontanate nella loro filosofia economica (più statalisti gli Europei, più liberisti gli Americani). Sicché, anche se con Barack Obama alla Casa Bianca ci sarà una nuova luna di miele fra Usa e Ue, questa durerà poco. È una tesi opposta a quella, bene argomentata su queste pagine da V. E. Parsi, che stia invece tornando «l’asse Usa-Europa». Queste opinioni, per quanto diverse, hanno però quasi tutte un punto di partenza comune: il riconoscimento del grande ruolo che hanno giocato, in questo successo europeo, la presidenza francese e la forte personalità di Sarkozy. Fosse toccata la presidenza rotante a uno dei «piccoli», per quanto ben intenzionati (ossia, se la crisi fosse scoppiata prima del 30 giugno, con la presidenza slovena, o dopo il 31 dicembre, con la presidenza ceca) la tempestività e la coesione dimostrate questa volta dall’Ue sarebbero state difficilmente immaginabili.

Da questa constatazione, dalla quale è difficile dissentire, si possono però trarre, e si traggono, conclusioni assai diverse. Vi è chi spera che dopo questa prova di vitalità, che ha «rivalutato il ruolo dell’Europa nel mondo» (è l’opinione che esprime, con la sua riconosciuta competenza, Adriana Cerretelli sul Sole-24 Ore), l’Unione, finora «tormentata da impopolarità e scetticismo», trovi nella crisi «un punto di svolta»; che gli Europei riconoscano finalmente che l’euro è uno scudo prezioso contro le tempeste, e che l’Europa unita è «un patrimonio insostituibile nel villaggio globale»; e che insomma l’Europa esca dal suo «letargo istituzionale». In pratica, la speranza è che l’Irlanda, ammaestrata dalla crisi, cambi presto opinione e consenta l’entrata in vigore del nuovo trattato, riconoscendone l’utilità. Se poi accadesse che a loro volta Danimarca e Svezia si decidessero (da vari segni, ci stanno pensando) a entrare nell’euro, anche l’Inghilterra, perché no, potrebbe ripensare al suo rifiuto. Dopo tutto, in questa crisi Londra e l’Unione hanno agito in stretto e costante accordo, e con successo. I «se» sono un po’ troppo numerosi, ma l’argomentazione è allettante.

Rimane il fatto che la crisi sembra avere rafforzato sia il punto di vista di chi spera nell’Europa, sia quello di chi all’unità europea crede poco e giudica, non senza qualche buona ragione, che comunque questa strana Unione, in bilico tra il federalismo sovrannazionale e i compromessi fra governi, sia poco adatta ad affrontare le incognite del mondo globale.

Chi, da più di mezzo secolo, affida le proprie speranze di un’Europa libera e pacifica alla realizzazione del sogno dell’unità europea, oltre che alla vitalità dell’alleanza atlantica, si augura, ovviamente, che gli eventi straordinari e assai critici delle ultime settimane suscitino una reazione positiva non passeggera, tale da imprimere una svolta storica nella storia dell’unificazione. L’audacia e i progetti di Sarkozy richiedono, fra l’altro, che sia superata la «zoppia», da tempo deplorata da Carlo Azeglio Ciampi, derivante dalla mancanza di un vero governo economico dell’Europa, che si affianchi alla già esistente politica monetaria federale. Fatto sta che forse inaspettatamente la fantasia e l’attivismo di Sarkozy hanno riportato la Francia all’avanguardia del movimento europeista. Da molto tempo ci mancava. Speriamo che non tradisca di nuovo (è già accaduto in passato) la nostra speranza d’Europa.

 
da lastampa.it


Titolo: Sullo scudo Berlusconi ha ragione (perchè non l'ha detto prima a Bush. ndr)
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 05:16:01 pm
14/11/2008
 
Sullo scudo Berlusconi ha ragione
 
ARRIGO LEVI

 
Si possono avanzare delle riserve, e sono state avanzate da varie parti (anche dall’onorevole Giulio Andreotti) sul modo in cui è stata espressa la netta presa di posizione italiana, dal presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri, contro il progetto americano di costruire pezzi di «scudo spaziale» tra Repubblica Ceca e Polonia. Ed è stato inopportuno associare al giudizio negativo sull’ipotizzato «scudo» americano un allineamento sulla posizione russa di condanna del riconoscimento del Kosovo e di altre presunte «provocazioni» occidentali. Il riconoscimento del Kosovo non è stato «unilaterale». Il nuovo Stato è oggi riconosciuto da 52 Paesi, compresa ovviamente, l’Italia.

Ma non è motivo di scandalo se, una volta tanto, un Paese della Nato come l’Italia, un alleato di sempre dell’America, che ha dato in ogni crisi prove molto concrete del suo impegno e della sua fedeltà a questa alleanza, esprime un giudizio critico su una delle iniziative più avventate della presidenza Bush. Come è stata, appunto, la decisione sullo «scudo», senza che venisse svolto prima un negoziato altamente impegnativo e al più alto livello per trovare un punto d’accordo con la Russia.

Ricordiamo bene la crisi degli euromissili nel 1979-80, quando l’accettazione italiana (governo Cossiga, con l’appoggio esterno di Craxi) di questi strumenti di risposta all’installazione degli SS-20 sovietici fu strumento fondamentale per un negoziato che portò nel 1987 all’accordo sui «missili a medio raggio». Il fatto è che per tutti i decenni della guerra fredda si continuò instancabilmente a negoziare con Mosca, la Mosca capitale dell’Unione Sovietica, su tutti gli aspetti dei rapporti di forza tra i due blocchi. Il risultato fu la graduale costruzione di un imponente complesso di trattati strategici che diede sicurezza all’una come all’altra parte.

Fu anche grazie alla stabilità, che ne risultò, del quadro strategico, se la Russia di Gorbaciov accettò senza alcuna resistenza (ritirando entro i propri confini, per centinaia di chilometri, le proprie divisioni da decenni di stanza nel cuore della Germania), il passaggio all’Occidente degli «Stati satelliti».

Affermare, come ha fatto il presidente Berlusconi, la necessità ed urgenza di un «faccia a faccia» tra America e Russia sul progetto di «scudo spaziale», ci sembra quindi giustificato: anche se bisognerà forse attendere la nascita della nuova Amministrazione a Washington perché questi negoziati prendano seriamente l’avvio.

Soltanto lo strumento del negoziato, su tutti i temi e su tutti i problemi d’interesse per l’una e l’altra parte, con il coinvolgimento anche degli europei, potrà dirci quanto sia realmente pericoloso, e se sia destinato a durare, il preoccupante succedersi di dichiarazioni e di manifestazioni concrete di un nuovo aggressivo nazionalismo russo (a cominciare dall’invasione della Georgia). Minacciarci di collocare dei missili a Kaliningrad è uno sbaglio. Speriamo che sia solo una mossa pre-negoziale, e che si possa ancora riuscire a riportare Mosca a far propria una politica di cooperazione, abbandonando una sfida all’Occidente che ci appare insensata. Non vi è oggi, tra noi e loro, alcun reale conflitto d’interesse, e molti interessi in comune. Per questo ritengo che sia da approvare, e non da condannare, anche la decisione dell’Unione Europea di riaprire il negoziato con Mosca per un nuovo accordo quadro tra Ue e Russia.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Se la fede genera mostri
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2008, 03:20:01 pm
1/12/2008
 
Se la fede genera mostri
 
ARRIGO LEVI

 
Perché le religioni generano mostri? O meglio, perché alcune religioni continuano a generare mostri? E perché altre, che li hanno generati in passato, sono riuscite a liberarsi da questo male profondo?

Che un laico dichiarato si ponga queste domande non è irrispettoso. Noi laici sappiamo bene quali mostri abbiano generato anche le «religioni» laiche, che senza doversi richiamare a una verità assoluta enunciata, dall’alto dei Cieli, hanno commesso, nel nome di un credo diabolico, crimini orrendi.

E sappiamo bene con quanta fatica, di fronte alle catastrofi di quel secolo di follia che è stato il Novecento, siamo riusciti a creare, laici e credenti insieme, delle istituzioni, ancora imperfette, che rendano un giorno credibile la realizzazione dei sogni di pace di profeti antichi e moderni fra tutte le genti.

Non penso che noi laici possiamo dare lezioni a nessuno. Ma credo che abbiamo il diritto di chiedere ai rappresentanti delle grandi religioni, oggi impegnati, meritoriamente, in tentativi di dialogo fra le verità assolute che ciascuna di loro crede di rappresentare, di porre al centro del loro confronto il quesito che noi laici con smarrimento ci poniamo: perché le religioni continuano a generare mostri?

Ho una lunga, bella esperienza di partecipazione a incontri interreligiosi, nei quali, come laico non credente in un Dio creatore, mi viene chiesto di dare un pur piccolo contributo al disegno di un’ecumene di pace. In codesti incontri viene affermata da tutti una professione di amore del prossimo, che si assicura essere connaturata al loro credo religioso. Viene però abitualmente taciuto il fatto, a tutti ben noto, che non è stato affatto così in passato, e che quelle stesse fedi si sono scontrate per secoli, e hanno perseguitato, torturato e messo a morte tutti coloro che esse giudicavano eretici o infedeli. Il silenzio sul passato è giudicato utile per non risvegliare antichi odi, appena sopiti.

Questa scelta era ed è probabilmente utile se si vuole che il dialogo prosegua, in base anche a un’altra premessa, riaffermata con l’abituale sincerità da Benedetto XVI in un recente pronunciamento: e cioè che un dialogo interreligioso, nel senso stretto della parola, non è possibile, perché imporrebbe a ciascuno di mettere in discussione la propria fede; essendo invece utile se ci si limita ad affrontare pubblicamente le conseguenze culturali delle scelte religiose fondamentali, al fine di produrre una reciproca correzione e arricchimento.
È giusto pensare che anche con queste riserve di principio il dialogo interreligioso, o quello tra le fedi religiose e la fede laica, sia utile: e che sarebbe rischioso, in tali incontri, rimproverarsi reciprocamente colpe passate o presenti. Ma se davvero si vuole un arricchimento e una correzione di quelle deviazioni - se vogliamo così chiamarle - che hanno condotto e conducono questa o quella religione, in questo o quel momento della sua storia, a generare, nel nome di Dio, guerre e massacri, come rinunciare a un momento di seria, sincera autocritica?

È ovviamente prudente che quando esponenti religiosi cristiani, ebrei, musulmani si incontrano, ciascuno eviti i rimproveri, e critichi la propria religione e non quella altrui, chiedendo perdono agli altri delle proprie colpe, passate o presenti: come ha saputo fare in più di un’occasione, anche al Muro del Pianto di Gerusalemme, Giovanni Paolo II. Sarebbe utile a tutti se ciascuno compisse anche una riflessione per chiarire a se stesso, e per spiegare agli altri, quale evoluzione del proprio credo religioso sia stata necessaria affinché la propria religione cessasse di «generare mostri»: e quali contributi abbia dato a questa graduale, benefica evoluzione anche il pensiero laico, maestro di tolleranza e di sano relativismo.

Gli incontri interreligiosi non sono certo inutili anche se ognuno dei partecipanti dedica il proprio tempo soprattutto a lodare se stesso, e a offrire una immagine idealizzata del proprio credo: questo può essere il primo passo per un cambiamento e per una correzione degli errori passati, o presenti. Ma sarebbero ancor più utili se ognuno dedicasse un po’ di tempo a fare un mea culpa e a spiegare quali mutamenti della propria fede siano stati o siano necessari perché essa divenisse o divenga strumento di amore e di pace fra le genti, anziché di odio e di guerra. Questo farebbe bene a tutti. Anche se, a tal fine, può darsi che sia necessario mettere in discussione la propria fede, passata o presente. Altrimenti le parole e i gesti di amicizia che sono d’uso in tali occasioni possono risultare vani.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. La patria sull'altalena
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2008, 03:38:10 pm
17/12/2008
 
La patria sull'altalena
 
ARRIGO LEVI
 
Ma gli italiani, amano la loro patria? Sono orgogliosi della sua storia e della sua realtà odierna? O sono dominati da una «sensazione di declino» e da un’«insufficienza di identità e di orgoglio nazionali», che rafforzano una loro «naturale predisposizione ad atteggiamenti anti-istituzionali»? Sono domande che oggi, in tempo di crisi, appaiono più che mai attuali e importanti: dalle risposte che si danno potrà anche dipendere come sapremo reagire e uscire dalla crisi.

Ma sono domande che, dall’osservatorio del Quirinale, ci si poneva assai prima del crollo economico. Forse nessuno più di Paolo Peluffo, che era già stato accanto a Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza del Consiglio e al ministero del Tesoro, ha vissuto con tanta passione questi dubbi e timori, durante il settennato di Ciampi, affiancandolo nell’impegno per accrescere nell’animo degli italiani sentimenti di amor di patria e di fiducia in se stessi; non solo con i discorsi presidenziali, ma con le tante visite ai nostri «centri di eccellenza», da Nord a Sud, e con un succedersi di gesti simbolici e solenni: la parata militare nei Fori Imperiali, la riscoperta dell’Inno di Mameli, i pellegrinaggi a luoghi carichi di memorie storiche. Erano sfide a quegli intellettuali che giudicano un male incurabile la «presunta insufficienza di identità e di orgoglio nazionali degli italiani» e la loro sfiducia nelle istituzioni (con l’eccezione, ancora oggi, della Presidenza della Repubblica).

Peluffo voleva capire dove stesse la verità; e non si stancava di ideare approfonditi sondaggi e ricerche. Da un’analisi sistematica del grande volume di dati raccolti Peluffo ha ora tratto il suo secondo volume di storia della presidenza ciampiana, La riscoperta della patria, che fa seguito al primo (C.A. Ciampi, l’uomo e il presidente, Rizzoli). Il responso di tante ricerche non è univoco. Vi sono zone oscure, accanto ad altre luminose, nell’idea che gli italiani si fanno dell’Italia. Siamo molto orgogliosi della nostra antica storia, delle nostre bellezze naturali e artistiche, della parte avuta nella costruzione della civiltà europea, come dei successi sportivi e scientifici. Rimane sempre molto elevato l’apprezzamento di Polizia e Carabinieri, vi è stato uno straordinario rilancio di popolarità delle Forze Armate, grazie all’impegno umanitario e ai sacrifici dei nostri soldati. Anche l’indice di fiducia nel servizio sanitario è più alto di quanto farebbero credere le tante inchieste sulla «malasanità». Rimane, ma di questi tempi non stupisce, un disagio diffuso per il presente e il futuro dell’economia: ma spesso sottovalutiamo i successi in molti settori (Italia non è solo moda, ma anche tanta industria, tanta meccanica e alta tecnologia). Cresce la fiducia nell’Europa. Non ha trovato grande ascolto l’appello a un nuovo rapporto di rispetto e dialogo tra le forze politiche, che faceva parte della lezione di civismo di Ciampi come di quella instancabile di Napolitano. Rimane, nonostante l’impegno del Quirinale, quello sconforto che nasce dalla violenza e talvolta dalla volgarità del discorso politico ai vertici dello Stato. «Stato» rimane parola meno apprezzata di Nazione o di Repubblica. E la stima dei governi locali (questo rimane il Paese delle cento città), supera di gran lunga il rispetto per il nostro «Stato», anche se è proprio la ricchezza delle tradizioni locali che rende grande l’Italia.

Le ricerche di Peluffo, che tengono conto di un più vasto lavoro di istituti specializzati, richiederebbero un’analisi ben più dettagliata. Chi vuole un’ulteriore disamina del settennato ciampiano veda anche i Dialoghi con il Presidente, opera di studenti e studiosi della Normale (vedi l’autodefinizione dell’«orgoglio» ciampiano a pag. 128). La conclusione dello studio di Peluffo è che il «difetto identitario e la carenza di orgoglio sono più immaginarie che reali». Ma, per ridarci fiducia in noi stessi e voglia di fare, occorre che si costruiscano «occasioni fisiologiche e leggibili di espressione di questi sentimenti, potenzialmente ben radicati nell’animo degli italiani»; al di là di quelle che le ultime presidenze hanno già consapevolmente creato. La concorrenza, a tal fine, dell’opera di altri livelli di governo rimane finora incerta.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Paolo VI e la pace dei giovani
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2008, 05:32:41 pm
24/12/2008
 
Paolo VI e la pace dei giovani
 
ARRIGO LEVI
 

Vorrei ricordare, a distanza di 40 anni giusti, alcuni pensieri di Paolo VI sulla pace. In un secolo insolitamente ricco di grandi figure papali e di travagli per la Chiesa, impegnata in un’opera di difficile «aggiornamento», come allora si disse, per confrontare la sua fede antica e i suoi riti col mondo del Novecento, papa Montini fu l’anello indissolubile fra l’istinto innovatore di Giovanni XXIII e il profetismo di Giovanni Paolo II. Fu il Papa che rese nell’essenza immodificabile la svolta conciliare. Figlio di un deputato popolare, fortemente antifascista, padre spirituale di quella prima generazione di deputati democristiani che guidò l’Italia negli anni della ricostruzione e della scelta costituzionale insieme col Pci, Paolo VI fu anche figura chiave nella storia d’Italia: fino al suo definitivo, sofferto rifiuto, per la sopravvivenza della democrazia, di ogni compromesso con le Br, anche se questo costò la vita al suo discepolo più amato, Aldo Moro. Era un uomo sincero, ricco di umana gentilezza e perspicacia, sereno nonostante le tante prove che la sua fede dovette affrontare. Così mi apparve quando, dovendo iniziare la collaborazione alla Stampa dell’amico Ronchey, e volendo offrire al mio nuovo giornale qualcosa di straordinario, ebbi l’insolito privilegio di una intervista col Papa. Era la terza della storia (dopo quelle concesse a Montanelli e Cavallari: tutti e tre assai laici, e io anche ebreo). Quando chiesi l’intervista, don Macchi mi disse che erano giacenti due o trecento richieste; ma mi incoraggiò a essere audace.

Il 30 dicembre 1968 ebbi il colloquio, che fu lungo e affettuoso, e si concluse con una benedizione a tutti coloro che lavoravano per La Stampa, e con uno scambio di calorosissimi shalom. Il primo gennaio ’69 si celebrava nel mondo, per iniziativa del Papa, la seconda Giornata della pace, e la pace fu il tema che il Papa aveva prescelto per l’incontro: facilitato dalla sua antica amicizia con Arturo Carlo Jemolo, autorevolissima firma della Stampa, da lui protetto in Vaticano, insieme con tanti altri, nel tremendo inverno romano del 1943. La pace: una speranza, ma anche un cruccio immenso. L’estate del ’68 - il fatidico Sessantotto - aveva visto l’invasione della Cecoslovacchia, la fine del «comunismo col volto umano», il ritorno al gelo profondo della Guerra Fredda. Il suo primo pensiero andava ai giovani, che occorreva «educare al senso umano, alla forza del carattere, al rifiuto dell’uso di armi (salvo la necessità di legittima difesa); educare all’ideale dell’umanità pacifica, laboriosa e solidale». Sapeva bene che passavano allora tra i giovani «correnti di agitazione radicale, un’onda di inquietudine, di ribellione, di contestazione». Ma invitava a «guardare più a fondo nella psicologia della gioventù, oggi ribelle ed esasperata: essa cela in fondo un’ansia di sincerità, di giustizia, di rinnovamento che non va disconosciuta ma piuttosto interpretata come evoluzione, per certi aspetti legittima, verso forme più mature di convivenza sociale». Invitava perciò «la saggezza dei dirigenti e l’antiveggenza dei giovani» a incontrarsi «per dare alla società nuovi ordinamenti, i quali non potranno non essere conformi alle insopprimibili esigenze della pace, sia sociale, che internazionale». Metteva in risalto i grandi slanci di generosità dei giovani, ogni volta che essi venivano «a contatto con disgrazie altrui»: e ricordava «la presenza spontanea, seria, efficace» dei giovani nelle calamità nazionali: il Vajont, le inondazioni di Firenze, i terremoti in Sicilia e Piemonte. Aveva fiducia. Gli chiesi che cosa pensasse della «corsa allo spazio». Rispose: «Ci sentiamo certo più copernicani nella visione della Terra come un astro fra i tanti: ma anche più tolemaici sul piano spirituale, perché ci sembra che proprio qui sia sceso il raggio divino che ha illuminato la coscienza umana». E ricordò i concetti famosi di Pascal, cari alla sua mente sottile come alla sua fede, sull’uomo «schiacciato dal silenzio eterno di questo spazio infinito», e tuttavia «più grande di ogni cosa, perché capace di conoscere col pensiero tutte le cose». Il discorso si volse ai temi che allora mi appassionavano: la Russia autoritaria («Una grande forza? O una debolezza?»); e il confronto fra chi è dotato soltanto di «armi spirituali» nella sua opera per la pace e chi di vere armi dispone. Non mi apparve dominato dallo sconforto, come taluni asserivano. «Guardiamo avanti, non indietro. La costruzione della pace è un’opera lenta e lunga. Conosciamo la fragilità degli uomini, ma anche la loro innata propensione alla pace: una necessità storica la impone».

E poi, «noi uomini religiosi rimaniamo persuasi che una segreta, buona e paterna provvidenza giuoca nei destini dell’umanità, e perciò speriamo sempre». Il fatto che i rapporti tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni si stessero «polarizzando verso amichevoli intese, ieri impensabili, oggi probabili» confortava la sua speranza: la «Giornata della pace è iniziativa che sta diventando comune». Su questa via occorreva procedere, sostenendo «le grandi istituzioni internazionali sorte appunto per promuovere le intese fra i popoli e la pace nel mondo». Primo, tra i fini da raggiungere, «un vero disarmo mondiale, specie nelle armi micidiali di cui oggi l’umanità terrorizzata dispone». Troppe speranze, troppo in anticipo sui tempi? Forse sì, oggi come allora. Ma fa bene ricordare la fede forte, limpida, riflessiva, di un vero credente religioso, saldo nei principi come nelle aperture al mondo, quale fu Paolo VI. Oggi come allora, è di conforto e incitamento anche per un credente laico qual io sono.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI La minaccia dell'Iran
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 12:01:29 pm
28/12/2008
 
La minaccia dell'Iran
 
ARRIGO LEVI
 

Non siamo in grado di prevedere gli sviluppi della crisi mediorientale, dopo l’intensa ripresa dei lanci di missili di Hamas dalla Striscia di Gaza, e dopo la risposta dei raid israeliani.

Raid aerei, con il loro alto costo di vite umane, certamente anche civili. È possibile che il governo israeliano accetti il consiglio di Amos Oz («Se Hamas continuerà a bombardare le comunità civili israeliane, allora occorrerà fare in modo che l’operazione militare non faccia il suo gioco. Israele deve agire saggiamente e non soccombere all’onda emotiva»); è possibile che la rappresaglia israeliana si fermi ai raid aerei di ieri, e che le pressioni internazionali fermino il giuoco perverso di attacchi e contrattacchi. Ma è possibile che la risposta di Hamas, anche con azioni suicide, o quella immaginabile, sul fronte libanese, di Hezbollah (nonostante la presenza di forze dell’Onu, principalmente italiane), provochino una nuova guerra arabo-israeliana (non so più se sarebbe la sesta o la settima, a partire dal 1948), sull’uno o l’altro fronte. Conosciamo l’origine di questo nuovo conflitto, non gli sviluppi che esso avrà. L’origine consiste, assurdamente, in una serie d’iniziative di pace che facevano bene sperare, anche se il negoziato israelo-palestinese iniziato un anno fa con la conferenza di Annapolis non avrebbe portato a quella pace entro l’anno che l’ingenuo Bush diceva possibile. Ma ambedue le parti parlano di progressi concreti e significativi.

E c’erano altri segnali positivi. Il più importante consisteva nel rilascio del piano arabo di pace, approvato a Beirut il 28 marzo del 2002 e confermato nel marzo 2007 dal vertice di Riad. La nuova Arab Peace Initiative, rilanciata solennemente a metà novembre scorso dal re dell’Arabia Saudita, era stata salutata dal presidente israeliano Shimòn Peres con parole altrettanto solenni: «Ascoltando il vostro messaggio, maestà, desidero che la vostra voce diventi la voce dominante dell’intera regione, di tutte le genti. È giusta, è necessaria, è promettente... L’iniziativa di pace araba dice che “una pace giusta e comprensiva nel Medio Oriente è l’opzione strategica dei Paesi Arabi”. Questa è anche l’opzione strategica d’Israele». Anche se le condizioni poste da parte araba erano più dei capitoli di negoziato che degli ultimatum, era molto importante che l’obiettivo dichiarato del necessario negoziato fosse una pace generale, non solo tra arabi e israeliani, ma tra il mondo islamico e lo Stato d’Israele. Altri sviluppi significativi c’erano stati sul fronte siriano. Dopo un anno di negoziati indiretti, tramite mediatori turchi, sia il governo siriano che quello israeliano si erano detti pronti a un negoziato diretto, con l’obiettivo della restituzione alla Siria delle alture del Golan contro il riconoscimento d’Israele e l’abbandono, da parte siriana, della funzione di tramite fra l’Iran, da una parte, e Hezbollah dall’altra.

Il nuovo quadro politico arabo, la nuova disponibilità a riconoscere una volta per tutte Israele (come già fecero Giordania ed Egitto) è chiaramente influenzato dal «fattore iraniano» e dal «fattore Al Qaeda». L’aspirazione dell’Iran sciita, potenzialmente munito di armi atomiche, a diventare la potenza dominante del Medio Oriente, costituisce oggi, insieme con l’estendersi dell’ondata fondamentalista, una minaccia ben maggiore per i governi arabi di tutta la regione, a cominciare dall’Arabia Saudita e dagli Emirati del Golfo, fino all’Egitto e ai Paesi del Maghreb, dell’inesistente pericolo israeliano.

Nello storico confronto in atto, nel mondo arabo-islamico, tra fondamentalisti e modernizzatori, Hamas rappresenta, agli occhi dei governi arabi, un ostacolo a una pace generale, e quindi un pericolo per la loro stessa sopravvivenza. Si aggiunga che nella West Bank, controllata dal governo palestinese moderato di Abu Mazen, la situazione economica e politica è in netto miglioramento, la presenza israeliana sempre meno ossessiva. Il confronto con le condizioni drammatiche di Gaza, conquistata da Hamas con una violenza sanguinaria che gli eredi di Arafat a Ramallah non perdonano, diventava per Hamas intollerabile.

Così, le pur forti pressioni esercitate dall’Egitto su Hamas, per invitarlo alla moderazione, non hanno avuto successo. La denuncia della tregua e la ripresa dei lanci dei missili sulle cittadine del Sud d’Israele, a rischio di colpire «per errore» un villaggio arabo al di qua della frontiera (se due bambini arabi rimanevano uccisi, erano comunque destinati alla gloria dei martiri), era prevedibile e prevista. Altrettanto prevista, chiaramente utile a Hamas, ma inevitabile con le elezioni a febbraio, era una rappresaglia israeliana. Fin dove si spingerà non sappiamo. Sappiamo che un giuoco perverso di azioni e reazioni rischia di vanificare gli elementi positivi che abbiamo elencato: non per eccessivo ottimismo, ma per rispetto della realtà del quadro politico generale. Difficile dire chi possa fare qualcosa, e che cosa, per interrompere il «war game» che si è rimesso in moto. Sperare in Obama? Ma è ancora alle Hawaii.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. La pace da ritrovare
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 12:37:33 pm
7/1/2009
 
La pace da ritrovare
 
ARRIGO LEVI
 

A questo punto, è ancora possibile immaginare un futuro di pace per Israele e il Medio Oriente? L’intervento militare israeliano a Gaza potrà raggiungere l’obiettivo dichiarato di indebolire drasticamente Hamas?

Potrà indebolire Hamas quale ostacolo da rimuovere per rilanciare negoziati che conducano a una pace permanente fra Israele, uno Stato palestinese, e tutto il mondo arabo e islamico?

Non è difficile trovare argomenti credibili per rispondere con un no all’uno e all’altro interrogativo. Osservatori attenti e informati (Lucio Caracciolo su la Repubblica) sostengono che la questione palestinese è «un problema insolubile»; che il processo di pace è stato ed è solo un’illusione; e che quella in corso non è una vera guerra ma soltanto un’azione di polizia d’Israele (che probabilmente fallirà), per «tenere sotto controllo i palestinesi», oltre che un episodio dello scontro fra Gerusalemme e Teheran, essendo quella iraniana la sola vera minaccia all’esistenza d’Israele. La conclusione desolata a cui conduce una tale sofferta analisi è che se questi sono gli obiettivi strategici d’Israele, essi rimangono irraggiungibili, e con essi il sogno della pace: «la guerra continua, e non finirà con la fine di Piombo Fuso».

Sul futuro di questa guerra infinita non si fanno previsioni. Forse perché dalle premesse può derivare soltanto la più fosca delle profezie sul futuro d’Israele. Prima ancora di diventare primo ministro di Gerusalemme (in un saggio del 1977), Yitzhak Rabin aveva scritto che la guerra non avrebbe mai permesso a Israele di raggiungere «il suo vero obiettivo, quello di vivere in pace con i Paesi arabi». Israele non avrebbe mai potuto imporre agli arabi la pace con una «vittoria militare decisiva». Per il «consolidamento dello Stato d’Israele» era quindi necessario cogliere ogni occasione di pace. Ed è quello che Rabin fece, firmando con re Hussein di Giordania «la pace dei soldati e la pace degli amici». E poi promuovendo con Shimon Peres un processo negoziale con l’Olp di Arafat, che di fatto, pur fra tante traversie, non si è più interrotto

Da allora è passato molto tempo, e la pace non c’è ancora. Ma oggi gli israeliani accettano senza riserve che nasca uno Stato palestinese; e anche la maggioranza dei palestinesi, e tutto il mondo arabo-islamico con l’iniziativa di pace saudita, hanno finito per accettare l’idea dell’esistenza di uno Stato d’Israele «in terra islamica». L’accettano i governi, e non sembra in verità che la rifiutino i popoli arabi e islamici, dal Marocco all’Indonesia. Non l’accetta soltanto il vecchio e nuovo fondamentalismo islamico, che comprende oggi, oltre al Qaeda, l’Iran, i libanesi di Hezbollah, ed anche Hamas, come sezione dei «Fratelli Musulmani» nati in Egitto nel 1928, ancora potenti e nemici giurati del governo di Mubarak. Sappiamo bene che questo è un formidabile ostacolo sulla via della pace. Ma se si accetta quella che era la convinzione di Rabin, e cioè che senza la pace il futuro d’Israele è in pericolo, l’opzione della pace, e di un negoziato che conduca alla pace, non può essere abbandonata.

Molto semplicemente, non possiamo accettare l’idea di una guerra che non avrà mai fine. Dobbiamo confidare (aiutandolo con una politica articolata e impegnativa), che il mondo arabo e islamico riesca presto o tardi a sconfiggere, come conclusione del conflitto interno estremamente pericoloso che oggi è in corso, i fondamentalisti. Re Hussein di Giordania, discendente del Profeta, li definiva «coloro che vivono nell’oscurità». Parlava di loro (e fra loro anche quei fondamentalisti religiosi israeliani che avevano ispirato l’assassinio di Rabin), come dei «nemici della pace; la pace che per la nostra fede e religione è il nostro campo».

La pace fra israeliani e palestinesi rimane (e con una guerra in corso questo ci appare oggi più che mai evidente), un passaggio essenziale e necessario per eliminare il pericolo di una guerra totale e infinita fra l’Islam e il mondo. Gli amici d’Israele non possono quindi cessare di lavorare per la pace, sostenendo, anzitutto, quelle forze politiche israeliane che condividono la convinzione che la nascita di uno Stato palestinese è un obiettivo vitale per Israele, ed è anche il contributo più importante che Israele può dare, nell’interesse non solo dell’Occidente ma della pace nel mondo, alla sconfitta di quel fatale anacronismo storico che è il risorto fondamentalismo estremista islamico.

Ma Israele deve decidere una «exit strategy», che ponga fine alle stragi di civili e alla «totale crisi umanitaria» di Gaza denunciata dalla Croce rossa italiana. E occorrerà, come nel Libano, una presenza militare internazionale che garantisca la cessazione dei lanci di razzi su Israele, causa prima e deliberata del conflitto. Proporre tregue non è bastato: l’Unione Europea e l’Onu debbono saper approvare in fretta, col consenso americano, un progetto d’intervento concreto da mettere sul tavolo. Quanto ad Hamas, la tragedia della popolazione civile sta indebolendo anche la sua immagine, non solo Israele. Dopo tanti inutili lutti, una forte pressione araba deve spingere Hamas a riconoscere Israele. Bastano poche parole: seppe pronunziarle Arafat. Le incognite sono tante. Il nostro obiettivo - che è la pace - non può cambiare.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Non ebrei tocca a voi ricordare
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2009, 09:55:11 am
27/1/2009
 
Non ebrei tocca a voi ricordare
 
ARRIGO LEVI
 

E se gli italiani fossero più antisemiti oggi che al tempo del fascismo, delle leggi razziali, e della caccia agli ebrei per mandarli a morire nelle camere a gas? È il dubbio che mi pesa sull’anima, leggendo i risultati dell’inchiesta sull’antisemitismo in Italia pubblicata sul Corriere della Sera di ieri. Lo stesso Corriere è rimasto così sconcertato dai dati da minimizzarli nel titolo, che dice: «Sono antisemiti 12 italiani su 100».

Ma non è così. Gli antisemiti che si dicono tali oggi in Italia sono il 45 per cento, suddivisi in varie categorie di «pregiudizio»: chi (il 10 per cento) per antigiudaismo religioso-culturale; chi (l’11 per cento) perché ritiene gli ebrei troppo potenti e poco patrioti; chi (il 12 per cento) perché ce l’ha con Israele e con quella scocciatura che è la Shoah. Infine, c’è un 12 per cento di antisemiti per tutte queste ragioni insieme. Si aggiunga che soltanto il 12 per cento dice di non avere pregiudizi. Mentre il 43 per cento si dichiara soltanto «indifferente» al problema. Il titolo più giusto sarebbe stato: «Non sono antisemiti 12 italiani su 100».

Nel 1938, quando il fascismo approvò le leggi razziali, avevo 12 anni, vivevo a Modena, andavo a scuola e al circolo del tennis, ero anche, ahimè, un balilla. Ciò detto, fino ad allora noi non avevamo sofferto di pregiudizi antisemiti.

A proposito dell’affare Dreyfus in Francia, ci era stato detto che questo non sarebbe mai potuto accadere in Italia, dove gli ebrei eroi del Risorgimento erano innumerevoli, dove c’erano stati primi ministri e ministri della guerra ebrei, ebrei la prima e l’ultima medaglia d’oro della Grande Guerra, ebreo il generale Ottolenghi, già precettore del Re. Ci dicevano con convinzione che in Italia l’antisemitismo era scomparso. Noi giovani non ne avemmo alcun segno, fino al giorno fatale delle leggi razziali. Dopo la guerra, gli otto o novemila ebrei italiani assassinati nei lager tedeschi li attribuimmo ai nazisti e ai fascisti, che giudicammo cattivi italiani. Mentre i 25 mila circa che si salvarono lo dovevano all’aiuto di buoni italiani, di quasi sconosciuti «Giusti» cristiani.

Così ci riconciliammo presto con l’Italia repubblicana, e pensammo che dopo la Shoah l’era dell’antisemitismo fosse finita. Quando nacque lo Stato d’Israele, gli italiani ci parvero tutti o quasi tutti filo-israeliani. Rassegnarci, sessant’anni dopo, all’idea di un’Italia largamente antisemita, è così difficile da farci sembrare sbagliati quei dati. Ma sembra che siano veritieri. Neanche possiamo «consolarci» pensando che il nuovo antisemitismo si debba all’effetto, che speriamo momentaneo, della guerra di Gaza. L’effetto Shoah-Gaza riguarda solo il 12 per cento degli antisemiti italiani. Gli altri lo sono per motivi più radicati, non occasionali.

Rimugino fra me e me questi dati, con il turbamento che si può immaginare, cercando di consolarmi col pensiero che tanti antisemiti, attorno a me, non li vedo proprio. Ma forse sono un privilegiato. Cerco spiegazioni, e non le trovo. Trovo soltanto un pensiero, un monito: state attenti, amici non ebrei, che la Shoah non ricorda una tragedia ebraica, ma una tragedia europea. Non riguarda le vittime, ma i colpevoli. Il Giorno della Memoria non è fatto per ricordare gli ebrei morti, ma i non ebrei che li hanno ammazzati. È fatto per mettervi in guardia contro le idee ignobili dei carnefici, nella speranza che queste idee siano morte. Sembra che non lo siano. Non è importante che al Giorno della Memoria partecipino gli ebrei. Noi non ne abbiamo bisogno, per ricordare. Sono i non ebrei che debbono parteciparvi, col pentimento nell’anima. Il Giorno della Memoria non è fatto per noi. È fatto per voi.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Un passo al di là del Tevere
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2009, 11:08:58 pm
29/1/2009 - IL PAPA E GLI EBREI
 
Un passo al di là del Tevere
 
 
ARRIGO LEVI
 

Al giorno d’oggi, nell’era della comunicazione istantanea e globale, può accadere che i tempi di dichiarazioni, proteste e smentite si sovrappongano, rendendo difficile capire chi ha parlato prima e chi dopo, chi si è lamentato per la mancanza di un «chiarimento» che forse c’era già stato, chi deplora che sia stata ignorata una spiegazione che forse era già stata data. In queste circostanze, chi voglia «metter pace» farà bene a ignorare molte cose dette forse fuori tempo, prendendo per buone soltanto le parole di conciliazione che permettano di riprendere un dialogo molto più importante di qualsiasi offesa, anche se questa c’è stata, forse più imprudente che deliberata.

Così, fra le notizie che negli ultimi giorni si sono inseguite - tra dispacci d’agenzia, interviste, dichiarazioni in tivù - sulla bufera nei rapporti tra il Vaticano e l’ebraismo, con relative minacce da Gerusalemme di rottura dei rapporti, è preferibile tenersi, se si vuole che torni il sereno, alle ultime parole pronunciate di cui abbiamo notizia.

Partiamo dunque dalla fine. Partiamo da Benedetto XVI che ha confermato «con affetto» la sua «piena e indiscutibile solidarietà» coi fratelli ebrei vittime della Shoah, smentendo così il vescovo ex scismatico, perdonato per le sue opinioni eretiche ma ancora condannato per il suo negazionismo.

Il rabbino capo di Roma Di Segni ha subito definito la dichiarazione papale «necessaria e benvenuta», e il portavoce del Rabbinato di Gerusalemme, che aveva prima minacciato la rottura, l’ha giudicata «un grande passo avanti per la ripresa del dialogo».

In circostanze come questa, è bene ricordare le parole buone che sono state dette, più dei gesti forse improvvidi che sono stati compiuti. Ricordiamo il commosso augurio pasquale di papa Benedetto agli ebrei nell’aprile 2008, con parole alte di fraternità col popolo con cui Dio «si è degnato di stringere l’Antica Alleanza... il buon ulivo su cui si è innestato l’oleastro dei Gentili», più del ritorno, nella preghiera pasquale «raestituta», all’auspicio della conversione, che gli ebrei non potevano non ritenere offensivo. E si tenga conto del successivo chiarimento del cardinale Kasper, secondo cui con quella preghiera non si voleva annunciare un’«azione missionaria» verso gli ebrei, non essendo la Chiesa in grado di «assumere la regia della realizzazione del mistero imperscrutabile della salvezza»: giudizio teologicamente importante. Comunque, se si provoca un malinteso è bene chiarirlo con un gesto solenne, inequivocabile. Papa Benedetto, il cui amore per il popolo ebraico è indubitabile, potrà fare un tale gesto quando si realizzerà, come si deve sperare, la sua visita già preannunciata «in Terrasanta». Se poi questa fosse rinviata per contingenti motivi politici, si potrebbe trovare un rimedio.

Il rabbino Di Segni ha voluto rinnovare, proprio in questi giorni, l’invito da tempo rivolto a papa Ratzinger a ripetere la storica visita del suo predecessore alla Grande Sinagoga romana, visita che cambiò per sempre i rapporti fra le due religioni, con l’implicita condanna delle persecuzioni di cui i «fratelli maggiori» ebrei erano stati oggetto per poco meno di due millenni. Essendo stato il primo a suggerire, sulla Stampa tanti anni fa, che il Papa che girava tutto il mondo facesse anche «un piccolo passo al di là del Tevere» per tendere la mano agli ebrei (monsignor Riva, come poi mi disse, fu pronto tramite, incontrando il Pontefice, del mio suggerimento; non pretendo che questo sia stato né necessario né determinante), non posso non auspicare che il nuovo invito venga accolto. Non mancherà chi consiglierà prudenza. Ma spesso il coraggio paga. E poi, è troppo importante per tutti che non si rompa questo particolare anello giudaico-cristiano della nuova catena che si sta faticosamente costruendo di rapporti di lavoro comune per la pace fra le grandi religioni. È importante non solo per i credenti: ma anche per le moltitudini dei non credenti; i quali soffrono, senza alcuna loro colpa, dei crimini che vengono compiuti ogni giorno nel nome di Dio. Ma è possibile che si debba essere noi laici a invitare i credenti a dar prova, nei loro rapporti, di moderazione, prudenza e reciproco rispetto? (O forse queste virtù sono assai più laiche che religiose?).

 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI. Israele, un voto sulla pace
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 05:48:12 pm
10/2/2009
 
Israele, un voto sulla pace
 
ARRIGO LEVI
 

Volgendo lo sguardo a Israele, a poche ore da elezioni che potrebbero decidere se il negoziato di pace andrà avanti, o se subirà un’altra ennesima battuta d’arresto, si ha l’impressione di guardare in un caleidoscopio. Ripensando a Israele com’era sessant’anni fa, al momento della nascita dello Stato, e riportando alla mente alcune delle immagini-chiave d’Israele come ci è apparso in momenti decisivi della sua storia, si vede una realtà in continuo cambiamento.

L’Israele del 1948, che si batté per impedire che gli ebrei venissero «buttati a mare», vittime di una strage degna dei tempi dei mongoli e dei Crociati, come assicuravano i leader arabi, si ispirava a un sionismo in cui l’antica identità del popolo della Bibbia si fondeva con ideali socialisti, liberal-democratici, nazional-mazziniani dell’Europa dell’Ottocento. Ne era simbolo il laburista Ben Gurion. L’Israele che fece la prima pace con uno Stato arabo, l’Egitto di Sadat, aveva però alla testa il grande rivale di Ben Gurion, il nazionalista Menachem Begin. La pace con la Giordania di re Hussein fu firmata da un successore di Ben Gurion, Yitzhak Rabin, e fu «la pace dei soldati», da nemici divenuti amici, ambedue rappresentanti del «campo della pace». Il processo di pace con i palestinesi ebbe per protagonisti ancora i laburisti Rabin e Peres, affiancati a Stoccolma, per il Premio Nobel, da Yasser Arafat. La lunga strada del negoziato è tappezzata da accordi, o da accordi mancati, negoziati sia dal successore di Begin Bibi Netanyahu (accordo della Wye Plantation), sia dal successore di Rabin Ehud Barak. Il primo ritiro dai territori occupati (la Striscia di Gaza) fu voluto da Sharon, un altro eredi di Begin, come lo era anche Olmert, suo successore alla testa del nuovo partito centrista Kadima, che fino all’altro ieri negoziava col successore di Arafat Abu Mazen.

Ma se questa sintesi di nomi ed eventi può dare un’impressione di continuità nella diversità, intanto la realtà israeliana cambiava in modo stupefacente. Ci fu prima l’invasione degli ebrei provenienti dal mondo arabo. Più di recente quella dei russi ebrei, che dopo settant’anni di comunismo hanno, temo, assai poco in comune con i pionieri sionisti venuti dalla Russia zarista col loro carico di ideali. Oggi ne è simbolo Avigdor Lieberman, il «bulldozer della destra», violentemente anti-arabo, nemico non solo del terrorismo palestinese dei nuovi fondamentalisti di Hamas, ma anche degli arabi cittadini israeliani. Al caleidoscopio israeliano si è affiancato un caleidoscopio arabo-palestinese. Forse il nazionalismo laico di Arafat è superato. E intanto in America, grande protettrice d’Israele, non c’è più Bush, ma Obama.

Più lungo è il tempo della conoscenza che si ha d’Israele, come del mondo palestinese (per me, la memoria torna fino a quell’esercito di cittadini senza uniformi che combatté la guerra del ’48, vinta la quale, fra la sorpresa generale, si pensava ingenuamente di avere vinto anche la pace), e meno si è sicuri di conoscere gli israeliani e i palestinesi d’oggi. Certamente, il «campo della pace» ha ancora i suoi portabandiera, dall’una e dall’altra parte. Il presidente Peres ha scambiato cortesie col re saudita. Voci di intellettuali importanti, di fama mondiale, hanno fatto emergere nella coscienza israeliana anche le ragioni dei palestinesi, e l’idea (anche la grande avversaria elettorale di Netanyahu, Tzipi Livni, l’ha fatta propria), che la sopravvivenza d’Israele sarà certa soltanto dopo la nascita di uno Stato palestinese. Non manca chi ritiene possibile, magari sotto la pressione di Obama, comunque vadano le elezioni in Israele, un trattato generoso e giusto fra lo Stato ebraico e Abu Mazen: confidando che poi lo stesso Hamas riconoscerà (forse nella scia di una lunga tregua con Israele, che potrebbe firmarsi fra pochi giorni al Cairo), che anche per i palestinesi c’è un solo futuro: la pace fra due Stati indipendenti e liberi. Amos Oz giudica un trattato «possibile e forse persino imminente». Oz è un grande scrittore e un grande uomo. E’ anche un idealista.

Attendiamo l’esito delle elezioni con l’animo carico di dubbi e incertezze. Si pensava che l’invasione di Gaza, in risposta alle deliberate provocazioni di Hamas, rafforzasse le «colombe» israeliane. Forse ha invece rafforzato i falchi di Netanyahu e Lieberman. Non conosco altro Paese al mondo in cui ad ogni elezione il tema dominante sia quello della strada migliore da scegliere per assicurare la sopravvivenza dello Stato. Si succedono le generazioni, tutto cambia, ma il problema resta lo stesso.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Profumo di grande coalizione
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2009, 11:07:14 am
12/2/2009 - ISRAELE
 
Profumo di grande coalizione
 
ARRIGO LEVI
 

I dubbi e le incertezze con cui attendevamo l’esito delle elezioni israeliane rimangono tutti, all’indomani di un voto che rischia di avere non uno ma due vincitori. La frammentazione dell’elettorato israeliano non ha l’eguale in nessun’altra democrazia. In realtà non conosciamo neppure con sicurezza, a ventiquattr’ore dalla chiusura dei seggi, il conteggio finale degli eletti. Il voto dei militari, oggetto di lunghi calcoli, potrebbe ancora cancellare l’esiguo vantaggio di Tzipi Livni di Kadima su Bibi Netanyahu del Likud, o produrre un pareggio, o capovolgerlo. E sia l’uno che l’altro partito, da soli, rimarranno comunque neppure a metà strada verso il miraggio dei 61 voti di maggioranza alla Knesset, necessari per fare un governo.

All’uno come all’altro occorrerà raccattare i voti di altri partiti per fare una coalizione vincente. L’opinione prevalente è che ha più probabilità di riuscirci Netanyahu: potrebbe farlo chiedendo i voti soltanto alla destra nazionalista e religiosa. Ma non è certo che andrà così. Il mercato è aperto, e non vi è coincidenza sicura dei programmi e delle pretese di ciascuno.

In un momento come questo, si è insomma tentati di esprimere, più che delle previsioni, degli auspici, tenendo presente l’interesse d’Israele di far pace con i palestinesi e con tutto il mondo arabo.

E di essere in armonia anche con quel mondo occidentale che, con in testa l’America, è il suo naturale alleato, partner economico e garante.

I precedenti della storia politica israeliana lasciano aperte tutte le strade: persino quella di un accordo di «partenariato» fra i due partiti maggiori, che dia la carica di primo ministro per metà della legislatura all’uno e per l’altra metà all’altro. È un precedente che avrà bene in mente il Presidente della Repubblica Peres (che fu protagonista di quell’esperimento ben riuscito con Shamir del Likud), quando inizierà, forse tra una settimana, le consultazioni per affidare, a Tzipi o a Bibi, l’incarico di formare un nuovo governo.

È probabile che Peres, ultimo sopravvissuto della vecchia guardia sionista, punti a un accordo di unità nazionale, che aggiunga a Likud e Kadima quel tanto di alleati che bastino per superare la soglia dei 61 voti (insieme, ma da soli non ce la farebbero), e che non dirotti Israele dalla strada di un negoziato con i Palestinesi di Abu Mazen. Ciò potrebbe dire tagliar fuori da una «grande coalizione» le frange estremiste nazionaliste, che in queste elezioni hanno guadagnato terreno (anche se meno di quanto sperassero); includendovi il maggiore partito religioso, Shas, e i laburisti.

È prevedibile che l’America di Obama e l’Unione Europea, il cui appoggio è più che mai necessario per Israele sia di fronte alla minaccia iraniana, sia per superare la gravissima crisi economica mondiale che sta colpendo duramente lo Stato ebraico, eserciteranno la loro influenza sui politici israeliani per sospingerli in questa direzione. Abbiamo già ricordato in un precedente commento che a negoziare e fare trattati di pace con gli arabi furono sia l’uno che l’altro dei partiti sionisti storici. E fu il duro Netanyahu a restituire Hebron ai palestinesi.

Non sappiamo quante siano le probabilità che un tale disegno si realizzi, e quale sarebbe l’esatta linea politica di un simile «governo di unità nazionale». Forse non sarebbe in grado di firmare un trattato di pace con i palestinesi. Ma potrebbe fare progressi almeno verso quella «pace economica» che Netanyahu ha auspicato come realizzabile prima di una «pace politica».

Sull’interminabile cammino di una pace vera non si andrebbe forse molto avanti. Ma non si tornerebbe indietro. Un accordo che consentisse alla West Bank, anche con lo smantellamento di buona parte dei blocchi stradali israeliani, un più netto avanzamento economico e politico, rafforzerebbe Abu Mazen (che si vanta, a ragione, di avere mantenuto un ordine perfetto nei territori da lui governati, anche nei momenti più tremendi dell’invasione israeliana di Gaza), e indebolirebbe Hamas, la cui presunta «vittoria» ha portato a ridurre in rovine Gaza. Infine, Israele salverebbe il rapporto speciale con l’Egitto, Paese-guida del mondo arabo, fondato anche sul comune sentimento anti-iraniano del Cairo e di Gerusalemme.

Ma non è prudente andare oltre nel delineare quello che, ripeto, è più un auspicio che una previsione. Chi ha a mente la complessità della politica italiana non dimentichi che se c’è una democrazia che in questo ci supera, e di molto, questa è proprio Israele.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Chiesa-Ebrei il Tevere più stretto
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 11:00:47 am
18/2/2009
 
Chiesa-Ebrei il Tevere più stretto
 
ARRIGO LEVI
 

Pace fatta, dunque, fra papa Benedetto e gli Ebrei. Il segno definitivo della ritrovata amicizia è venuto in occasione del caloroso incontro in Vaticano del Pontefice con i capi delle organizzazioni ebraiche americane diretti in Israele. «Anch’io - ha detto il Papa - mi sto preparando a visitare Israele, una terra che è santa per i cristiani e per gli ebrei». Speriamo non si adontino questa volta i musulmani: anche per loro Gerusalemme, da cui Maometto fu rapito in Cielo, è «El Quds», la Santa. Saranno comunque accontentati dal fatto che il Papa, ad Amman, pregherà (e non sarà la prima volta) in una moschea.
Riferiamo anche una voce che oggi corre a Roma: il Papa potrebbe accettare l’invito da tempo rivoltogli dal rabbino capo Di Segni di visitare la Grande Sinagoga romana prima di recarsi a metà maggio in Israele. Non c’è ancora una decisione, e può darsi che si preferisca che la visita romana avvenga dopo, e non prima di quella in Israele. In un caso o nell’altro, quando il «breve passo oltre Tevere» si farà, papa Ratzinger troverà sicuramente, nella finezza del suo spirito e nell’amicizia tante volte dimostrata per gli Ebrei, le parole giuste. Ai rabbini americani ha detto: «La nostra identità e ogni aspetto della nostra vita e del nostro culto sono intimamente legati all’antica religione dei nostri padri nella fede»: Non più «fratelli maggiori», come disse Giovanni Paolo II, ma «padri». La riflessione cattolica sull’Ebraismo si approfondisce.

Wojtyla e la Grazia solo nelle mani di Dio
A volte, se si compie un passo falso, la correzione che segue può essere particolarmente illuminante. Dopo il ritorno, nella preghiera per il Venerdì Santo restituta, dell’auspicio della conversione degli Ebrei, il compito di chiarire che queste parole non erano un appello a un’azione missionaria verso gli Ebrei era stato affidato all’ampio saggio del cardinale Kasper che abbiamo a suo tempo segnalato. Kasper aveva colto l’occasione per riprendere un concetto teologico caro a Wojtyla, spiegando che il «mistero imperscrutabile della grazia» è solo nelle mani di Dio: la Chiesa «non può affatto» assumerne la regia. Questo riconoscimento non vale soltanto per i rapporti fra la Chiesa e gli Ebrei. A me sembra che si riaprano implicitamente le porte a un dialogo non solo culturale ma religioso con i non cattolici: e forse perfino con noi laici, che ammettiamo di non credere in Dio. Un credente, convinto che ci sbagliamo, non può certo escludere che Dio creda in noi e ci conceda, a suo imperscrutabile giudizio, la Grazia.

Anche Benedetto è un papa post-conciliare
Successivamente c’era stato il caso del vescovo scismatico negatore della Shoah, prima riconosciuto, ma poi (per dirla con le parole del rabbino Di Segni) «messo in un cantuccio» dagli stessi lefebvriani; e la conferma delle autorità vaticane che se questi non riconosceranno in tutto e per tutto il Concilio Vaticano II rimarranno, anche se non più scomunicati, «fuori dalla Chiesa». Mi dispiace per quei vetero-cattolici che avevano annunciato con gioia che il grande Concilio era stato finalmente messo in un cantuccio, e ne sono invece lieto per tutti coloro, cattolici e non, per i quali la conferma del Concilio era il punto essenziale: il punto è stato chiarito. Anche papa Benedetto (si rassegnino i nostalgici) è un Papa post-conciliare.
È ora venuto l’annuncio del viaggio in Israele. Nel discorso alla delegazione americana papa Ratzinger è andato lontano. Ha ricordato, come immagine simbolica dell’impegno della Chiesa per una rinnovata amicizia con gli Ebrei, la preghiera del suo «amato predecessore» al Muro del pianto di Gerusalemme. E ha concluso: «Ora faccio mia la sua preghiera: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua progenie perché il tuo Nome fosse portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nella storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza. Per Cristo nostro Signore».
Il processo di revisione di due millenni di teoria e prassi della Chiesa sul rapporto con gli Ebrei sembra così compiuto e confermato. Ce ne rallegriamo per gli Ebrei. Ma prima ancora per la Chiesa. Perché (cito l’ultimo pensiero, l’ultima parola di saggezza di una persona che non c’è più, che mi era assai vicina), «è molto peggio essere dalla parte di chi commette ingiustizie che da quella di chi le subisce».
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Occidente sotto assedio
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 11:00:02 am
7/3/2009
 
Occidente sotto assedio
 
ARRIGO LEVI
 
Contro l’incriminazione per «crimini contro l’umanità» del dittatore sudanese Omar al-Bashir non si sono alzate soltanto le dure proteste di Pechino, che importa il 60 per cento del petrolio del Sudan, ma anche quelle della Lega Araba, dell’Unione Africana, del Movimento dei non allineati e della Russia, a diversi livelli di indignazione. «Un vasto corteo di regimi autoritari e dispotici», come è stato scritto, si è schierato compatto contro l’Onu e contro l’Occidente. Strano che non si sia chiamato in causa (ma forse mi è solo sfuggito) anche Israele, nuovo intollerabile avamposto dell’Occidente, dopo i crociati, nella terra dell’Islam.

Quanto al governo del Sudan, si è sentito a tal punto offeso da espellere 14 organizzazioni per i diritti umani attive nel Darfur (compresi «Médecins sans frontières» e «Save the Children»: le origini occidentali sono palesi). Se l’ordine di espulsione sarà attuato, ha avvertito l’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani, oltre un milione di persone rischieranno di restare senza cibo né acqua.

Secondo i cinesi e i russi, la Corte dell’Aja non avrebbe il diritto di processare e di reclamare l’arresto del capo di Stato sudanese, dal momento che il Sudan (come del resto, oltre alla Cina e alla Russia, anche gli Stati Uniti) non ha ratificato lo statuto della corte: il presidente Omar al-Bashir non ha quindi perso l’immunità che gli compete per il suo rango. Su questo punto di diritto non mi pronuncio. Come analista politico, prendo atto dell’ennesima prova di quanto siano ancora vivi i risentimenti verso l’Occidente da parte del resto del mondo.

Anche se è proprio al modello occidentale che la gran parte di questi Paesi, se non tutti, si ispirano nei loro modelli di sviluppo e nei loro stili di vita. Da Shanghai agli Emirati del Golfo, la selva di fantascientifici grattacieli fa tanto Manhattan. Ma l’«Occidente» continua ad essere visto dal «Mondo» come «aggressore», secondo la celebre definizione di Arnold Toynbee. Non solo per le sue imprese colonialiste e imperialiste, ma per avere imposto al «Mondo» il suo modo di vita e almeno in parte i suoi valori, buoni e cattivi. Peggio ancora, l’«Occidente» continua ad essere tanto più ricco e più libero del «Mondo».

Così, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, massima tragedia del secolo secondo Putin, siamo rapidamente passati dall’era della «fine della storia» all’era di una ambigua «globalizzazione», per poi tornare al tema toynbeeano del «West versus the World». Le «ere» si rincorrono. Se lo spazio si è accorciato, il tempo si è ristretto ancor di più nel corso della nostra vita. Su tutto domina il passaggio dall’era pre-nucleare, in cui l’umanità, per quante follie facesse, non aveva il potere di autodistruggersi, all’era nucleare, in cui questo potere lo ha e lo avrà per tutti i tempi avvenire: cosa che non riesco a stancarmi di ricordare. Singolare destino quello della mia generazione, di avere un piede nella prima e l’altro nella seconda era della storia della specie homo sapiens.

Di ciò l’umanità è stata consapevole fino agli Anni Sessanta (poi la paura nucleare sembra essere svanita). In compenso, gli europei della mia generazione hanno gioito di essere sopravvissuti alle follie che hanno posto fine nel Novecento, a colpi di decine di milioni di morti nei campi di battaglia e nei lager, a circa duemila anni di guerre intestine europee, e di avere dato il via alla storia di un’Europa riconciliata con se stessa e rappacificata, oggi maestra al mondo, con le sue pur imperfette istituzioni, nella difficile arte di far convivere popoli e istituzioni nazionali diverse.

L’impresa europea è però lungi dall’essere completata. A farla avanzare contribuì, oltre alla memoria degli orrori passati, che ci sforziamo di tenere viva, quel poderoso «federatore esterno» che fu la minaccia dello stalinismo. Oggi, al nuovo federatore esterno, che è stato ed è, da Nine Eleven in poi, il terrorismo islamista, si è aggiunta la Grande Crisi. Con la sua origine in Wall Street, ha definitivamente seppellito l’illusione americana, di così breve durata, che la superiore potenza di America-Marte bastasse, senza bisogno dell’Europa-Venere, per mettere ordine nelle sorti dell’umanità.

Clinton 2 è così venuta a Bruxelles a dirci che soltanto la nostra unione e la nostra comune visione del futuro potranno farci vincere le numerose sfide che abbiamo davanti. Ma a tal fine (che è, nientemeno, quello di salvare il mondo dandogli le prime valide strutture di un governo globale), all’Europa «si impongono le riforme previste dal Trattato di Lisbona e scelte politiche sempre più coordinate e unitarie». Come ci ha ripetuto ancora due giorni fa (ma come non ripetersi?) il Presidente della Repubblica italiana. E non c’è tempo da perdere.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Dove porta la sincerità del Papa
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 04:56:23 pm
24/3/2009
 
Dove porta la sincerità del Papa
 
ARRIGO LEVI
 
E’ un momento in cui sul capo di papa Benedetto piovono soprattutto critiche. Ma almeno una dote assai rara, quella della sincerità, non gli si può negare. Lo sapevamo ancor prima che salisse al soglio di Pietro, da quel giorno del 2005 in cui Giovanni Paolo II, che aveva gran fiducia in lui, e ciò non va dimenticato, gli affidò il testo per la Via Crucis del Venerdì Santo, testo che, stanco e malato com’era, il vecchio Papa non si sentiva di scrivere. Ascoltammo non senza qualche sorpresa un’autocritica feroce della Chiesa d’oggi, che integrava con accenti nuovi i tanto meritori mea culpa di Wojtyla per le colpe passate della Chiesa. Ricordate? «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa \ Quanta superbia, quanta autosufficienza», e così di seguito, con la moltitudine dei fedeli che ascoltava un po’ stupita l’aspra condanna per «il tradimento dei discepoli».

Ora è venuto il riconoscimento che «anche nell’ambito ecclesiale è emersa qualche stonatura», tanto che perfino il Papa «può pure lui essere trattato con odio, senza timore e rispetto». Il Papa ha spinto la sincerità al punto di ammettere che nella gestione del «caso Williamson» la Santa Sede aveva sbagliato, nel non cercare almeno su Internet (lo faccio perfino io!) notizie che evitassero che «anche i cattolici abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco». Mentre erano da ringraziare «gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere prontamente di mezzo il malinteso».

Con alcune dottrine di papa Ratzinger un laico come me non può non dissentire; cominciando col dire che anche le verità della Chiesa, come le mie, sono il frutto di un sano relativismo, perché senza una buona dose di relativismo gli eretici continuerebbero ad essere bruciati e i nemici politici ghigliottinati o mandati nei lager. Mentre mi sta bene che nel suo discorso, che è quasi una pubblica confessione, abbia riaffermato che la sua prima priorità rimane quella di «condurre gli uomini verso Dio». Se il Papa, la Chiesa e lo Stato vaticano si propongono come scopo primo di diffondere la Parola, annunciando Dio come Amore, non possiamo che compiacerci di averli per compagni di viaggio, noi laici, che non crediamo in Dio ma abbiamo fatto nostre molte delle parole che gli sono state attribuite. Finora siamo tutti sopravvissuti, a bordo della stessa barca, al Diluvio universale, e occorre la buona volontà di tutti per condurla a un sicuro approdo, perché il Diluvio continua. La colomba della pace non si è ancora posata sulla cima del monte Ararat. Per questo dobbiamo parlarci.

Ma pensiamo che al dialogo fra diversi, fra noi e loro, si debba però affiancare un franco dialogo intrareligioso; come auspicava, commemorando quel grande cattolico liberale che fu Pietro Scoppola, un vero credente come Luigi Pedrazzi. Ora che sappiamo che il confronto d’idee diverse all’interno della Chiesa cattolica, e anche nel mondo musulmano o ebraico, è forte e aspro, ci chiediamo se non sarebbe opportuno un momento di confronto aperto e approfondito fra le opinioni contrastanti che si sono manifestate all’interno della Chiesa. I temi del confronto sono evidenti: a cominciare dalle giuste regole di comportamento nell’assistenza ai malati incurabili, o dall’opportunità o meno dell’aborto (vedi il caso della bambina brasiliana stuprata e resa incinta), o dall’uso del preservativo, che il Papa ha condannato (proprio in Africa dove sarebbe più utile), o dall’uso a fini scientifici delle cellule staminali. Il prestigio della Chiesa si accrescerebbe in virtù di qualche altro passo - ne ha già fatti tanti - sulla via dell’«aggiornamento». Sarebbe più costruttivo il rapporto col grande mondo laico, e la Chiesa attrarrebbe forse più fedeli.

Qualcuno dirà: ma a te che sei un ebreo non credente dichiarato, che importa dello stato di salute della Chiesa? Mi importa, invece, per la ragione che ho detto sopra: che stiamo tutti nella stessa barca, che il Diluvio continua a imperversare, e che per salvarci dobbiamo dialogare molto: ognuno per conto proprio e poi tutti insieme.
 
da lastampa.it


Titolo: Io, soldato di Israele col virus dei giornali
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2009, 11:36:47 am
IL LIBRO

Io, soldato di Israele col virus dei giornali

25/3/2009 - AUTOBIOGRAFIA DAL FRONTE
 
La fonte di Hussub come fosse il Grand Canyon cercando di cogliere le radici dell'ebraismo
 
 
ARRIGO LEVI
 

Arriverà domani in libreria, edito dal Mulino, il nuovo libro di Arrigo Levi Un paese non basta (pp. 296, euro 16), di cui pubblichiamo uno stralcio. Nato dal desiderio di raccontare «come diventai giornalista», il libro si è trasformato inevitabilmente in un saggio di formazione. Scorrono così i ricordi della giovinezza a Modena, l’impatto col fascismo e con le leggi razziali, l’emigrazione in Argentina, la partecipazione alla nascita di Israele, il decennio nell’Inghilterra di Churchill. Ne deriva una riflessione sulla fede, sui totalitarismi, sulla Shoah. Giornalista, ex direttore della Stampa, consigliere dei presidenti Ciampi e Napolitano, Levi ha pubblicato, fra gli altri, i saggi Russia del ‘900 (Corbaccio), America latina: memorie e ritorni (Il Mulino).

Scrivo a casa:
Il fatto è che continuo a sentirmi come uno spettatore. Che anche se partecipa vivamente, e capisce o si sforza di capire che cosa succede sulla scena, e arriva a condividere i sentimenti degli attori, rimane però sempre spettatore. Il problema se diventare attore non è per me immediato, debbo aspettare che la guerra finisca. Mi chiedo che cosa farò poi, se chiedere una borsa di studio per l’Università di Gerusalemme, per poi tornare in Italia a finire l’Università a Bologna, o viceversa, o chissà che fare. Intanto ho ricevuto un documento di identità israeliana, che mi darà anche il diritto di votare. Per ora sono, per lo Stato d’Israele, «Arrigo Levi, di cittadinanza italiana, di religione ebraica e di nazione ebraica». Una definizione un po’ complicata, ma forse dice bene, quello complicato sono io.
E intanto sento che mi circola in corpo il virus del giornalismo, ho l’ansia perenne di scrivere, ai giornali, alle riviste, e quando ho notizia di un articolo pubblicato su Critica Sociale o su Relazioni Internazionali mi sento realizzato (Mi vergogno a dirlo, ma più di mezzo secolo dopo provo ancora gli stessi sentimenti quando leggo un mio articolo sulla Stampa).
Subito dopo il ritorno da Haifa a Bersceva, altra novità: la mia unità, la compagnia di genio numero 2, viene trasferita a Ein Hussub, la «fonte di Hussub», chissà chi era Hussub. Mi appare quello che all’epoca giudico il posto più bello del mondo (non ho ancora visto il Grand Canyon del Colorado, a cui un poco somiglia). Stiamo ad Ein Hussub, un luogo benedetto per le sorgenti abbondanti di acque calde e salate, per tutti i primi venti giorni di dicembre. Facciamo reticolati, campi minati su colline scoscese, e la sera, acceso il fuoco, ascoltiamo, tutti infagottati, mal vestiti, mal lavati con le barbe lunghe, dischi di musica classica da un vecchio grammofono. Oppure balliamo la hora, cantando canzoni ebraiche che alle mie orecchie sembrano molto russe, con le braccia intrecciate, in cerchio, attorno al fuoco. [...]

***

Queste tre o quattro settimane ai confini del mondo lasciano tuttavia un’impronta profonda nella mente, inducono a strani pensieri, mentre guardiamo, oltre l’immensità del Wadi Araba, le lontane montagne della Giordania. Restiamo sempre nella terra di Abramo, e io ne sento la presenza in modo inatteso. Pagine della Genesi, che avevo letto come favole, diventano concrete, racconti fantastici ma di qualcosa che è realmente esistito.
Da Ein Hussub, percorrendo lunghi canyon che fanno tanto film western, siamo arrivati fino al luogo dove sorgeva Sdom, là dove si esaurisce e finisce il Mar Morto. Sodoma, che il Signore Iddio distrusse, ma soltanto dopo una bella lite con Abramo, che gli parla faccia a faccia, in una specie di contrattazione da suk: come potrebbe Lui, il Dio di giustizia, distruggere Sdom se ci fossero cinquanta giusti? E vada per cinquanta. E se ce ne fossero solo quaranta? Vada per quaranta, il Signore Iddio si sente in difficoltà, Abramo gli strappa concessioni sempre più generose, fino a chiudere la trattativa su dieci giusti. Ma alla fine si scopre che c’è in tutta la città un solo giusto, Lot, nipote di Abramo, ed è l’unico che, avvertito dagli angeli del Signore, fa in tempo ad andarsene insieme con la moglie e le figlie. Ma la moglie si voltò indietro e divenne una statua di sale. In diversi luoghi ti dicono che questa o quella piramide di sale è la moglie troppo curiosa di Lot. Il sale è dappertutto. A Sdom gli strati delle pareti di roccia sono perfettamente verticali, qui c’è stato davvero un evento catastrofico immenso, chiunque l’abbia deciso. A nord c’è il Mar Morto, a sud c’è, oltre i canyon rosati, un’immensa spaccatura della terra, che prosegue fino al Mar Rosso e al di là in una faglia che fende il grande continente africano, chissà fin dove. La vastità dello scenario dà un’idea dell’immensità dei tempi. Gli studiosi dicono, non senza ragione, che non è possibile che sia arrivata fino ad Abramo, questo pastore di greggi che già appartiene alla storia della specie umana che è anche la nostra, la memoria di eventi geologici remotissimi, quando i continenti ancora si stavano formando, staccandosi l’uno dall’altro, e quando sulla faccia della Terra non c’erano sicuramente esseri viventi in alcun modo somiglianti agli uomini; e ipotizzano che ad Abramo sia giunta memoria di un’altra catastrofe molto più recente, la caduta di un asteroide che, in base ad antiche tavolette ritrovate al British Museum, viene datata con gran precisione al gennaio del 3123 avanti Cristo, né un anno di più né uno di meno. Di questo evento sarebbe stata tramandata memoria fino ad Abramo. [...]
Non so se qualche altra mitologia abbia saputo collegare la natura, con i suoi misteri che soltanto l’uomo contemporaneo sta decifrando, all’uomo e alla società umana attraverso l’idea di un cosiffatto Iddio. Credo di no, non in questa maniera, non collegando l’idea del sovrannaturale all’idea della legge morale. Comunque, è accaduto, proprio in questi luoghi. Mi guardo attorno e penso che la storia degli ebrei, che dico, la storia dell’Occidente e dell’umanità è incominciata qui, o meglio nell’idea che di tutto questo si fece il padre Abramo, guardiano di greggi, guardando questo stesso meraviglioso, incomprensibile, sconfinato scenario e ricordando qualche antica leggenda. Poi l’idea di Dio, di questo straordinario, unico Dio maestro di giustizia, anche se talvolta un po’ troppo irascibile e bizzarro, continuò a camminare con Abramo e i suoi discendenti, per la verità cambiando per via in molti modi, e possiamo seguirne la storia, una lunghissima storia fino ai tempi nostri. La storia di Dio.
Qui, a rimirare quest’immensità di rocce e di sprofondi, sembra di essere i testimoni di come tutto ebbe inizio.
Ma è ora di tornare a fare la guerra, ancora uno sforzo e forse ce la faremo, ormai non ho dubbi che vinceremo noi, e poi sarà la pace e torneremo alle nostre case. È quello che pensano tutti i miei compagni della machleket sadé.

Autore: Arrigo Levi
Titolo: Un paese non basta
Edizioni: Mulino
Pagine: 296

 


Titolo: ARRIGO LEVI Israele impari a trattare con il nemico
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 12:23:49 pm
28/3/2009
 
Israele impari a trattare con il nemico
 
ARRIGO LEVI
 

Non ricordo nessun altro governo d’Israele, nei sessant’anni trascorsi dalla fondazione dello Stato, che sia stato salutato, alla vigilia della sua formazione, da un così vasto coro di commenti negativi anche in Paesi tradizionalmente amici. Il governo più radicalmente di destra nella storia d’Israele», ha scritto il Financial Times, «con un ministro degli Esteri, Lieberman, apertamente razzista». L’ingresso nella coalizione di governo, dopo un iniziale rifiuto e una spaccatura interna tra favorevoli e contrari, dei laburisti di Ehud Barak, mentre è rimasto il no deciso e ripetuto di «Kadima», primo partito in Parlamento, è stato salutato soltanto come «una foglia di fico» per il nuovo primo ministro Netanyahu. Il rifiuto, almeno fino a questo momento, di accettare, anzi confermare come fine dichiarato del negoziato in corso la nascita di due Stati, Israele e Palestina (un obiettivo su cui si sono impegnati America e Unione Europea), è compensato solo in parte dall’impegno dell’ultima ora di «negoziare con l’Autorità Palestinese per la pace», e di continuare una trattativa mirante a rafforzare economicamente, e politicamente, il potere di Abu Mazen nella West Bank. Non è chiaro finora come sia visto dal nuovo governo il piano di pace saudita, anch’esso impostato sulla nascita dei due Stati, piano che il presidente Peres aveva salutato con grande favore, e che ha raccolto il consenso di tutto il mondo arabo-islamico (con l’eccezione della corrente estremista-terroristica che vorrebbe cancellare Israele dalla carta geografica).

Quello che il mondo ritiene probabile, se non certo, è il rafforzamento, e non la riduzione, delle colonie ebraiche nella West Bank, e il rifiuto di qualsiasi ipotesi di presenza di un governo palestinese a Gerusalemme: ipotesi che il governo israeliano uscente aveva in linea di principio accettato. Chi ritiene che la definitiva garanzia del futuro dello Stato d’Israele sia proprio la nascita al suo fianco di uno Stato palestinese, non può non seguire con ansia l’evolversi del conflitto, che non è soltanto fra «due popoli nella stessa terra», ma, più o meno chiaramente, fra Israele e il mondo arabo-islamico che lo circonda. Questi sono gli umori e i giudizi prevalenti fra gli amici provati d’Israele, mentre continuano, in un’atmosfera da «suk» mediorientale, le ultime trattative tra Netanyahu e il variopinto arco di partiti - dalla destra più estrema ai laburisti - che dovrebbero sostenere il nuovo governo. In questa fase cresce d’ora in ora, per accontentare tutti (noi italiani abbiamo una forte esperienza in materia, ma Israele forse ci batte) il numero dei futuri ministri o sottosegretari. Allo stato attuale, potrebbero entrare al governo più della metà dei membri del Parlamento (necessariamente, oltre i sessanta, ma certo meno di settanta) impegnati a votarlo. Il «banco del governo» rischia di occupare alla Kneset, con i suoi 120 membri, uno spazio spropositato. Un osservatore prudente deve aggiungere, per completare un quadro che, alla prova dei fatti, potrebbe rivelarsi meno fosco di quanto oggi appaia, una o due osservazioni. La prima riguarda l’influenza che i governi amici d’Israele, e prima fra tutti l’Amministrazione americana, potranno avere sul governo di Netanyahu, per indurlo ad una maggiore disponibilità sulla prosecuzione e sui fini del negoziato. Va poi ricordato che Netanyahu è già stato primo ministro d’Israele, che negoziò con l’Olp, e che dimostrò allora di essere molto sensibile (oggi lo sarà più che mai, in piena crisi economica) all’influenza americana. Netanyahu ha fama di politico astuto, duttile e realista, e altrettanto può dirsi di Ehud Barak. Secondo alcuni osservatori, potrebbe rivelarsi tale anche il superfalco Lieberman. Ma sarebbe ingiusto non sottolineare che sugli indirizzi della politica del nuovo governo israeliano, e sulla sua sopravvivenza (che i più giudicano non possa durare a lungo, vista 1a variegata composizione della coalizione e la scarsità del margine di maggioranza), influirà non poco l’atteggiamento palestinese. E non mi riferisco soltanto ad Abu Mazen, ma anche a Hamas. Se insisterà sulla «politica del no» (il «fronte del no» abbracciava in passato decenni la totalità del mondo araboislamico; oggi non è più così), un possibile confronto fra una West Bank in via di sviluppo e la catastrofe di Gaza potrebbe indebolire gravemente Hamas in tutto l’elettorato palestinese. Ma qui si apre anche un terreno ricco di possibilità e di difficili scelte per America ed Europa (oltre che per Israele). Aprire o non aprire uno spiraglio di negoziato anche con Hamas? Vi è chi lo ritiene possibile, ed anzi necessario (è con i nemici che si tratta, diceva Dayan), con argomenti che vanno valutati realisticamente.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Una fine un principio
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2009, 02:49:58 pm
25/4/2009
 
Una fine un principio
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Le celebrazioni per la fine della Seconda guerra mondiale, in tutta Europa e nel mondo, sono così dense di significati e di potenti emozioni da rendere arduo sintetizzarle in poche parole. Si festeggia una fine, ma anche un principio. Si celebra la fine di un incubo, che per qualche anno era sembrato avverarsi: l’incubo di un mondo unito e integrato dalla folle fantasia nazista, dominato dal mito della «Herrenrasse», che dopo avere corrotto e travolto nel gorgo di una tragica avventura un popolo di antica e nobile cultura, la Germania, avrebbe ridotto a schiavitù quella culla di civiltà che era stata ed era l’Europa.

E si celebra l’aprirsi degli animi a una nuova speranza di pace, e la messa in cantiere di una straordinaria impresa, che era la riconciliazione tra i popoli che fino al giorno prima si erano dissanguati in un gigantesco scontro di eserciti. Il panorama delle città in rovina, le sconvolgenti immagini di campi di sterminio dove si aggiravano gli scheletri viventi dei pochi sopravvissuti, erano divenute di colpo il passato, il nostro passato. Quel mondo distrutto eravamo noi, gli Europei, e ci sentivamo, a torto o a ragione, tutti colpevoli. E il futuro? Che futuro ci aspettava?

Se si torna con la mente a quelle giornate, le immagini dominanti sono di popoli in festa, ubriachi di gioia. Lo spirito di quei momenti non è dimenticato. La giornata simbolo della fine della guerra in Italia, il 25 Aprile, è per sua natura festa di tutti: dei partigiani vincitori ma in egual misura degli sconfitti, perché tutti riacquistarono in quella giornata quel bene supremo che ha nome libertà. Noi celebriamo non soltanto la fine della guerra ma la fine del fascismo, la liberazione di un popolo, il popolo italiano, «leading member della famiglia delle nazioni europee, che era stato scagliato da un dittatore negli orrendi conflitti del Nord».

La definizione che ho citato è tratta da un discorso di Winston Chrchill: l’uomo che più di ogni altro al mondo aveva contribuito alla sconfitta del Male supremo che era il nazismo, e che per naturale magnanimità si era subito messo strenuamente all’opera per proporre la riconciliazione fra tutti i popoli europei. Nel 1947, in uno di quegli storici discorsi che furono altrettante pietre miliari sulla via dell’unità europea, disse allora degli Italiani: «Mi dicono che l’idea di una Europa unita suscita intensa attrazione sugli Italiani, che guardano al passato, al di là di secoli di confusione e disordine, alle glorie dell’età classica, quando una dozzina di legioni bastavano per mantenere la pace e la legge attraverso immensi territori, e quando uomini liberi potevano viaggiare liberamente, perché erano uniti da una cittadinanza comune. Noi speriamo di costruire un’Europa in cui gli uomini saranno altrettanto orgogliosi di dire “Sono un Europeo”, come un tempo lo erano stati di dire: Civis Romanus sum».

La mano di pace tesa dai popoli vincitori fu stretta nella mano dei popoli vinti, che insieme a tutti gli altri avevano riscoperto l’anima profonda, l’identità vera che sembrava perduta, della civiltà europea. Legare il ricordo della Liberazione al ricordo di quella che di lì a poco sarebbe stata la costruzione, in uno slancio di passione civile che coinvolse tutti gli Italiani, della libera Costituzione di una libera Repubblica, non è un espediente retorico. In quel breve arco di tempo non era stata lasciata alle spalle soltanto la guerra, con gli odi, i rancori, le vendette che ne furono lo strascico. Era stata lasciata alle spalle, insieme con la dittatura fascista, tutta una storia, italiana ed europea, densa di aspre e insensate guerre civili. Si era attinto, per trarne nuove forze, ad altre fonti di pensiero, che non si erano esaurite, ritrovando in esse tutta la grandezza della civiltà europea, figlia di Grecia e di Roma, figlia del rivoluzionario sogno di libertà e pace fra tutti gli uomini e fra tutti i popoli che, con l’irruzione nella storia d’Europa e del mondo dell’idea ebraico-cristiana di Dio nella storia, era divenuto primo motore della civiltà europea. L’Italia ne era stata per molti secoli il cuore.

Le immagini, che ancora vivono nella mente, delle nostre piazze piene di folle esultanti, in quelle giornate della nostra primavera, ci trasmettono soprattutto un possente messaggio di speranza. E ci incitano a guardare avanti, alla missione di un’Europa di pace in un mondo ancora così tormentato da suscitare in noi vaste paure. Riportiamo nell’anima nostra il sentimento allora dominante. Istintivamente, tutti allora sentivano che la fine della guerra era anche un nuovo principio; anche se forse solo pochi grandi spiriti avevano già chiaro nella mente un progetto politico concreto, quello di un’Europa unita che era assai più di un sogno. Era il disegno rivoluzionario di un futuro ben radicato nel nostro migliore passato, nutrito da un ritrovato spirito di fratellanza e da una volontà di perdono che avevano in sé qualcosa di miracoloso.

Ciò fu, ed è, per noi italiani, per tutti noi, il 25 Aprile.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Missione difficile
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2009, 10:41:34 am
9/5/2009
 
Missione difficile
 

ARRIGO LEVI
 
I popoli hanno una lunga memoria, e ciò ne arricchisce l’identità. Ma non si ricordano soltanto eventi felici.

Si ricordano anche conflitti, persecuzioni, odi antichi, difficili da dimenticare. Ma io non conosco momento più pregnante e creativo, nell’esistenza di un uomo o di un popolo, di quello in cui avvengono riconciliazioni fra genti o fedi a lungo nemiche.

Tra ebrei, cristiani e musulmani, identità diverse nate tutte dallo stesso ceppo abramitico, furono tanti, troppi, i momenti in cui prevalsero lo scontro e il reciproco disprezzo. La memoria del passato è un’eredità pesante, a cui non è facile sfuggire. Ciò rende tanto più intenso il momento del dialogo, del riconoscimento di ciò che accomuna e non di ciò che divide. Il momento in cui l’istinto d’amore prevale su risentimenti e pregiudizi radicati.

Il dialogo è difficile, anche perché è figlio del dubbio, oltre che dell’amore per il prossimo e del diverso da noi. Si dialoga per ascoltare, e quindi per mettere in discussione i propri più profondi convincimenti, le proprie più assolute verità, che si confrontano nel dialogo. Occorre aver fede che il dialogo, e il mistero della fede altrui, arricchisca e rafforzi la fede di ognuno dei dialoganti, invece di indebolirla. Non è facile accettarlo, per chi è stato allevato in un credo assoluto.

Papa Ratzinger, nel suo viaggio in Terra Santa, non può certo ignorare che la Terra è santa, in modi diversi, per tre religioni, che si prepara a incontrare, in luoghi tremendamente suggestivi, carichi di memorie, luoghi sublimi sospesi fra Cielo e Terra. Non è facile immaginare i sentimenti che sicuramente si dibattono, in un simile viaggio, nell’animo suo. Egli ci ha detto, e gli crediamo, che su tutti prevale una volontà e una speranza di pace, e che si prepara all’incontro come apostolo della pace.

Il Papa teologo ha esitato, in passato, tra l’accettazione ed anzi la ricerca del dialogo, e l’affermazione della missione e del dovere, per chi crede in una sua verità assoluta, di predicare questa verità al fine di convertire chi crede in altro modo. Non sono istinti facili da conciliare. Ma penso che non dimentichi, nell’andare incontro a uomini di fede diversa dalla sua, le parole del suo predecessore, Giovanni Paolo II, che chiarirono, «dopo tante interpretazioni sbagliate», come Papa Wojtyla volle definirle, «la funzione chiarificatrice e nello stesso tempo di apertura» del documento «Dominus Jesus» che aveva voluto esprimere compiutamente la fede austera del cardinal Ratzinger. Ricordiamo bene le parole «chiare e solenni, definitivamente illuminanti» di Giovanni Paolo II (così le presentò L’Osservatore Romano nel pubblicarle), quando espresse le motivazioni profonde dell’approvazione «in forma speciale» che egli aveva dato del documento ratzingeriano. Noi confessiamo, disse, «che in nessun altro nome c’è salvezza». Ne additiamo «la scaturigine ultima in Cristo, nel quale sono uniti Dio e uomo». Ma «con ciò non viene negata la salvezza ai non cristiani. Dio dona la luce a tutti in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale, concedendo loro la grazia salvifica attraverso vie a lui note».

Papa Ratzinger non si prepara soltanto ad affrontare fedi e popoli in duro conflitto fra loro, nella speranza di convertirli a una volontà di pace. Dovrà anche vincere diffidenze e pregiudizi nei suoi confronti, figli di parole non abbastanza meditate, o esposte a essere mal interpretate. Musulmani ed Ebrei gli hanno rivolto rimproveri diversi, forse indimenticati: la condanna così acerba del Profeta Maometto citata nel discorso di Ratisbona; o la troppo facile assoluzione di un vescovo negazionista, nel tempo stesso in cui si rinnovava un’antica formulazione del testo della Messa, intesa dagli Ebrei come un invito alla conversione. Ma ci sembra - anche se non potevano mancare, dall’una come dall’altra parte, voci insultanti o minacciose - che queste nubi siano state largamente cancellate, grazie ai chiarimenti che sono seguiti, dal cielo della Terra Santa, e che la volontà di pace sia il sentimento dominante negli animi di coloro che si preparano a incontrarlo.

È questo che ci auguriamo. In questo nostro mondo, che avanza sull’orlo di catastrofici precipizi, in un’era della nostra storia in cui la sopravvivenza stessa della specie è messa in pericolo da istinti di annientamento, orrendamente giustificati nel nome di Dio, un pellegrino di pace interpreta la volontà e l’aspirazione profonda di tutti gli uomini, comunque credenti. Lo accompagni dunque un forte augurio di successo nella missione forse più difficile che egli abbia mai potuto affrontare. Lo hanno accolto, al suo arrivo ad Amman, parole buone del re Hascemita, discendente del Profeta. Non senza una certa trepidazione confidiamo che gli sia dato di ascoltare soltanto parole egualmente elevate, durante tutto il suo pellegrinaggio lungo i percorsi solenni e aspri della Terra Santa, terra contesa, non per la prima volta nella storia, da popoli e fedi diverse.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI I rischi del nuovo disgelo
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2009, 10:11:10 am
19/5/2009
 
I rischi del nuovo disgelo
 
ARRIGO LEVI
 
La prima decade di maggio è stata caratterizzata da una serie di singolari ricorrenze, e di alti e bassi, nella storia delle relazioni fra la Russia e l’Occidente. Il 7 maggio si compiva un anno dall’assunzione da parte di Dmitry Medvedev (vincitore delle elezioni presidenziali del 7 marzo) della carica di terzo Presidente della Russia, dopo Eltsin e Putin. Il giorno prima la Nato aveva pensato bene di dare inizio ad esercitazioni militari congiunte in Georgia, decise da tempo in base al suo programma «Partenariato per la Pace», e alle quali la Russia stessa era stata invitata a partecipare. «Piccole» esercitazioni, è stato detto. Quanto opportune è per lo meno discutibile, visto che il 5 vi era stato un ammutinamento (fallito) presso Tbilisi in una base militare georgiana: ispirato dai russi (secondo i georgiani) per rovesciare il presidente Saakashvili. Medvedev ha definito le esercitazioni «una provocazione».

Sempre il 7 maggio, è stato lanciato a Praga (capitale di turno dell’Unione Europea) il programma dell’Unione di «Partenariato per la Pace» con sei repubbliche ex sovietiche: Georgia, Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Azerbaigian e Armenia.

Questo Partenariato mira a liberalizzare gli scambi commerciali e il regime dei visti. I Sei sperano anche di negoziare accordi di associazione con l’Unione. Il ministro russo degli Esteri, Sergei Lavrov, ha subito accusato il «Partenariato» di «intrusione», e di voler «disegnare nuove linee di divisione nel continente»: una minaccia, in parole povere, al predominio russo in quello che Mosca ha definito «l’estero vicino».

Intanto c’era stata l’espulsione, alquanto reclamizzata, di due diplomatici russi accreditati presso la Nato e accusati di spionaggio, e la controespulsione di due diplomatici della Nato accreditati a Mosca. In un articolo, piuttosto aggressivo, pubblicato dal New York Times, l’ambasciatore russo alla Nato, Dmitry Rogozin (l’Economist lo definisce di temperamento «irascibile»), aveva accusato la Nato, e in particolar modo l’America, di «grossolane violazioni di interessi di sicurezza nazionale della Russia», in quanto verrebbero minacciati, ai confini russi, spazi che «sono una pietra angolare della politica estera russa».

E veniamo al 9 maggio, quando nella Piazza Rossa, col mausoleo di Lenin ricoperto, fra le proteste dei vecchi comunisti, da un’immensa bandiera russa, si è svolta una parata militare «monstre», nell’anniversario della vittoria sovietica nella «Grande Guerra Patriottica». Si è assistito a un formidabile sfoggio di armamenti vecchi e nuovi, e Medvedev ha colto l’occasione per rinnovare le sue proposte di un nuovo trattato per la sicurezza europea, aggiungendo però subito: «Oggi, quando ci sono coloro che ancora si affidano all’avventurismo militare» (il riferimento era presumibilmente alla Georgia), «si ricordi che qualsiasi aggressione contro cittadini russi sarà sempre respinta».

A questo punto, tenendo presente che Obama e Medvedev si erano detti convinti, nel loro recente, felice incontro, del successo dei negoziati (inizio previsto per questo mese) per il rinnovo del Trattato Start sulla riduzione delle armi strategiche in scadenza a dicembre, dall’una e dall’altra parte si è forse pensato che fosse il caso di cambiare i toni. Fatto sta che il ministro Lavrov è volato a Washington e ha avuto col presidente Obama un incontro che questi ha definito «eccellente». Perfino l’«irascibile» Rogozin ha espresso la speranza che il processo di disgelo «non si sia interrotto».

È dunque tornato il sereno fra le due «superpotenze»? È presto per dirlo. È chiaro che, vuoi dall’una vuoi dall’altra parte, il nuovo disgelo rischia diversi incidenti di percorso. E qui si pone il problema di chi comandi veramente a Mosca: Medvedev, o Putin? E qual è la vera linea politica di Medvedev? I molti commenti di esperti occidentali sul suo primo anno di presidenza hanno messo giustamente in luce le sue prese di posizione «liberali» e riformatrici: fra queste, l’incontro avuto con gli esponenti delle organizzazioni russe per i diritti umani, nel corso del quale ha condannato quei «molti funzionari» che ritengono tutte le organizzazioni non governative «nemiche dello Stato e tali da essere combattute». Ma non sempre alle belle parole seguono i fatti. O forse, vi è una «linea Medvedev» diversa dalla «linea Putin». E comunque appare forte, a Mosca, una visione nazionalista della politica estera che non è facile giustificare.

Possiamo ben comprendere che la perdita della sovranità di fatto su immense estensioni di territorio continui a non dar pace a molti russi. Ma come possono i russi non capire che, dopo l’implosione del potere sovietico, proprio l’adesione di alcune repubbliche ex sovietiche e di alcuni Paesi ex satelliti dell’Urss all’Unione Europea o alla Nato, con le rigide regole di comportamento che ciò comporta, ha creato condizioni di assoluta sicurezza per la Russia, mai conosciute prima nella storia, alle sue frontiere occidentali? La Nato e l’Unione Europea sono per la Russia non minacce, ma garanzie di pace. (Ma anche da parte occidentale, sarebbe forse utile un po’ più di prudenza).
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI La non-politica di Sant'Egidio
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2009, 10:19:23 am
30/5/2009
 
La non-politica di Sant'Egidio
 

 
ARRIGO LEVI
 
Il Premio Carlo Magno - il cinquantesimo - ad Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e professore di storia, non ha avuto in Italia l’eco che meritava: forse perché Riccardi non è un politico. Eppure, proprio questa singolarità impone una riflessione su quello che è e quello che non è politica. Per la verità, la Comunità di Sant’Egidio, fondata nel 1968, presente con 50 mila membri in più di 70 Paesi, ha fatto anche politica nel senso stretto della parola: la pace in Mozambico, dopo decenni di feroce guerra civile, fu il frutto principalmente d’una tenace mediazione di Sant’Egidio. Ma la politica di Sant’Egidio è soprattutto non politica. La Comunità non è la sola Organizzazione non governativa che faccia «politica-non-politica». Ma è forse l’espressione più compiuta, per la varietà e diversità degli scenari su cui si muove, d’una diffusa aspirazione a non lasciare agli Stati il monopolio della politica; nella convinzione che per la salvezza del mondo, unito e pur diviso nell’«era della globalizzazione», è necessario, accanto all’azione delle istituzioni governative, un forte impegno civile, d’ispirazione religiosa o laica, di una schiera sempre più numerosa di volontari soprattutto nei Paesi più poveri, dove la povertà è la causa principale di guerre e stragi, come di epidemie fatali quale l’Aids.

Sant’Egidio è nata a Roma, dove opera intensamente a sostegno dei diseredati; e questa sua «missione» si è estesa a un numero sempre maggiore di città e Paesi. Poi la Comunità si è proposta la missione di intensificare il dialogo fra le religioni, estendendolo anche ai non credenti (o a coloro che laicamente «credono in un altro modo»); quel dialogo che ebbe inizio ad Assisi nell’ottobre 1986 per iniziativa di Giovanni Paolo II, e che viene rinnovato ogni anno negli incontri santegidiani. Non per scelta, ma per rispondere a un’urgente richiesta d’aiuto, concentra una parte importante della sua attività in Africa, dove oggi «vive, lotta e spera almeno la metà della Comunità, che è africana», come ha ricordato Riccardi nel discorso ad Aquisgrana. E l’Europa? Dice Riccardi che «una storia ricca e dolorosa lega l’Europa e l’Africa». Ricordando parole di Carlo Azeglio Ciampi, anch’egli Premio Carlo Magno («Abbiamo di fronte a noi un compito epocale: collegare saldamente e durevolmente il futuro dell’Africa all’Europa»), Riccardi ha affermato con forza: «La collaborazione allo sviluppo dell’Africa, la lotta alla malattia e alla guerra, sono compiti europei. Sono la vera risposta al flusso inarrestabile dell’emigrazione, che non sarà fermata alle frontiere o dai controlli nel Mediterraneo. È la rinascita economica e di speranza in Africa che lo ferma... La prima missione dell’Europa si chiama Africa».

Ma per adempiere questa missione, per fare il mondo «meno terribile», l’Europa deve essere più che mai unita. Divise, le nazioni europee saranno impotenti. Ma ancora oggi, dopo tanti progressi, l’Europa, per essere unita, deve diventare «una passione nostra, non qualcosa di lontano e nebbioso». Questo è stato il significato dell’assegnazione del Premio Carlo Magno, di cui furono insigniti i più grandi politici europei, al «non politico» Riccardi. Perché, «senza una visione unitaria ed europea..., l’Europa uscirà dalla storia del mondo». E il mondo ne soffrirà. Rimane un inquietante interrogativo: la «politica non politica» che Sant’Egidio ha portato con successo nel mondo ha un futuro in questa nostra «Europa condominio», priva del senso dell’«urgenza della storia»? La risposta santegidiana sta nel proporre un’utopia: l’Europa unita come «prefigurazione della solidarietà universale nel futuro». Unendosi, l’Europa ha già realizzato un’utopia, ed è oggi di modello al mondo. Ma avrà la forza di tendere la mano a chi ha più bisogno d’aiuto, e di fare di un sogno ancora più vasto una realtà?
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Un passo dopo Netanyahu
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2009, 04:14:41 pm
16/6/2009
 
Un passo dopo Netanyahu
 
 
ARRIGO LEVI
 
L’offerta del primo ministro israeliano Netanyahu per la ripresa del negoziato di pace con i palestinesi è stata definita, dalla Casa Bianca, un importante passo in avanti. Chi continua a sperare che la pace fra i due popoli un giorno verrà deve però fare qualche precisazione. Il fatto che Netanyahu si dica oggi disposto ad accettare la nascita di uno Stato palestinese può definirsi un passo avanti solo se si ricorda che «Bibi» partiva da molto indietro e il passo potrà dirsi importante solo se sarà seguito da altri, per arrivare alla pace.

Se si confronta poi la proposta odierna di Netanyahu con le concessioni che il precedente governo israeliano, guidato dalla signora Livni, aveva già fatto intendere di accettare, il passo sembra più indietro che in avanti. Su un punto soprattutto: lo status futuro di Gerusalemme, che per Netanyahu deve rimanere la capitale unica e indivisa dello Stato d’Israele, mentre sembrava ormai accettato, dopo un anno di trattative, che la Città Santa sarebbe stata anche sede del futuro governo palestinese, sia pure fuori dalle mura dell’antica città: ma lo sono anche governo e Parlamento d’Israele.

Il giudizio positivo di Washington fa pensare che l’America di Obama si aspettasse dal governo di Netanyahu ancora meno di quanto concesso due giorni fa; ma si giustifica solo se l’America pensa di riuscire a far fare al governo israeliano altri passi avanti. A tal fine bisogna supporre che Obama sia deciso ad esercitare, personalmente o attraverso il suo inviato George Mitchell, ulteriori forti pressioni su Israele.

Non so se le cose andranno così. Il fatto è che se Netanyahu non può permettersi di inimicarsi l’America di cui Israele ha assolutamente bisogno per non essere esposto alla minaccia iraniana, la divisione politica in campo palestinese fra Abu Mazen e Hamas potrebbe bastare da sola a vanificare ogni negoziato, rendendo non necessarie ulteriori concessioni da parte di Netanyahu. Ai palestinesi conviene trattare, ora più che mai, sapendo di poter contare sulla benevolenza dell’America. Ma tratteranno?

I troppi «niet» di Netanyahu sono ovviamente inaccettabili. Ma per farglieli ritirare bisogna trattare. Per questo le veementi condanne del discorso di Netanyahu da parte di palestinesi e Stati arabi non sembrano sagge. Lo Stato di cui Netanyahu è primo ministro si chiama già «Stato d’Israele». È con questo Stato che Egitto e Giordania hanno fatto la pace, e che i palestinesi stanno trattando da anni. Non vedo la differenza fra Stato d’Israele e Stato ebraico. I palestinesi, musulmani o cristiani, che sono rimasti nelle loro terre, sono già cittadini dello Stato d’Israele, e come tali eleggono i loro deputati alla Keneseth.

E tutti sanno che non è immaginabile il ritorno alle loro terre dei milioni di profughi palestinesi. Erano sei o settecentomila alla fine della prima guerra, quella del 1948, e se sono tanto cresciuti di numero è anche perché gli Stati arabi non li hanno mai accolti (l’eccezione è la Giordania) come propri cittadini.

In un suo recente intervento, ispirato a un grande pessimismo sulla possibilità che israeliani e palestinesi possano mai arrivare da soli alla pace, David Grossman osservava che tutti sanno da molto tempo a quali condizioni si farà la pace, se mai si farà. Si farà quando ci saranno due Stati, con Gerusalemme capitale dell’uno come dell’altro, e quando gli israeliani ritireranno delle colonie e cesseranno di allargarsi nei territori palestinesi. Sui confini, come sulle garanzie di sicurezza per Israele, si dovranno fare dei compromessi. E forse sarà anche necessario, come auspica Grossman, «un massiccio intervento di forze internazionali» che garantiscono gli accordi presi. Come si è fatto per il Libano, e anche di più.

Ma prima di tutto è indispensabile che i Palestinesi se non vogliono fare il giuoco di Netanyahu, si mettano d’accordo fra loro, e che tutti, anche Hamas, riconoscano lo Stato d’Israele. Insomma, dei passi avanti dovranno farli gli uni e gli altri. George Mitchell avrà il suo daffare, nell’uno come nell’altro campo.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI La speranza degli iraniani siamo noi
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2009, 06:04:49 pm
1/7/2009
 
La speranza degli iraniani siamo noi
 

ARRIGO LEVI
 
La vittoria in Iran dell’ayatollah Khamenei e di Ahmadinejad non convince molti autorevoli osservatori occidentali, secondo i quali la partita, sia tra potere e popolo, sia tra capi religiosi, non è ancora chiusa. Ricordo un grande convegno su «Iran, passato, presente e futuro», svoltosi a Persepoli meno di un anno prima della caduta dello Scià: il suo potere sembrava allora incrollabile, l’arroganza del Primo Ministro Hoveida, alla presenza della Shahbanou, nella grande tenda circolare costruita per le celebrazioni dei tremila anni di storia persiana, con tanto di lezioni a noi italiani e francesi presenti su come si dovevano reprimere le opposizioni, era quasi intollerabile. Non passò un anno, e finì ammazzato. L’Iran ci apparve allora, quale è ancora oggi, un grande Paese, un grande popolo, difficile da governare col pugno di ferro.

Congelamento nucleare
Non so scegliere fra chi è convinto che la partita sia finita e che un duro potere militar-religioso si sia ormai instaurato, e chi pensa che Khamenei stia ripetendo l’errore dell’ultimo Scià, di ritenere impossibile una rivoluzione. Mi sembra giudiziosa sia la dura risposta comune dell’Europa alla sfida iraniana, sia la conferma, da parte non solo degli Europei ma anche dei Russi e degli Americani, della disponibilità a ricominciare comunque una trattativa sul congelamento del programma nucleare. Non credo plausibile, a rischio di una dura smentita, una spedizione aerea punitiva israeliana, dall’esito assai dubbio: la sola cosa certa è che spezzerebbe il fronte unito anti-iraniano fra Paesi arabi, grandi potenze, e lo stesso Israele, e annuncerebbe un quadro caotico anticipatore di nuove guerre. Israele ha già una capacità di «secondo colpo» contro l’Iran, e il più pazzo degli ayatollah non può ignorarlo.

Il negoziato Russia-Nato
Mi auguro che il risultato più concreto e positivo della rivolta popolare iraniana sia di aggiungere un’altra poderosa motivazione per la ripresa del negoziato fra la Russia e la Nato, non a caso deciso lo scorso week-end, con lo scopo dichiarato del rilancio della cooperazione in materia di antiterrorismo, Afghanistan e contromisure da prendere in vista della minaccia crescente di proliferazione nucleare. Se volevamo una ulteriore prova del fatto che fra Russia e Euro-America non ci sono oggi motivi di contrasto strategico, ma al contrario importanti interessi comuni da affrontare insieme, l’abbiamo avuta.

Pochi giorni fa, in un bel convegno a Roma su temi strategici, promosso dall’Istituto Affari Internazionali, con la partecipazione di rappresentanti dei principali istituti di ricerca di tutto il mondo, non sono mancati segnali di diffidenza fra la Russia e gli altri, riguardanti soprattutto la nostalgica politica russa verso «l’estero vicino». Ma mi è sembrato dominante il convincimento che sia di gran lunga più importante per tutti la costruzione di un «nuovo grande patto strategico», che mantenga ed aggiorni il «grande patto strategico» che fu possibile, sulla base del principio politico della «coesistenza pacifica», perfino quando Urss e Occidente erano impegnati in un’aspra contesa ideologica per il dominio mondiale.

Diplomazia a tutti i costi
Oggi c’è fra noi molto più di una «coesistenza pacifica». Ci accomuna un grande pericolo: terrorismo e proliferazione nucleare; con l’Iran che rischia di mettere in moto un processo di proliferazione esteso a tutto il mondo arabo (se e quando Teheran avrà l’atomica, Egitto e Arabia Saudita non staranno a guardare); e con uno dei leaders di Al Qaeda, Abu Said al Masri, che ci assicura che Al Qaeda non esiterebbe a usare l’arma atomica, se e quando riuscisse a impadronirsene. Contro chi? Contro tutti noi, America, Europa, ma anche Russia, per non parlare dei Paesi islamici giudicati «infedeli».

Come rispondere a questa minaccia? Anzitutto, con una forte risposta diplomatica comune, non abbandonando gli sforzi per fermare l’Iran, chiunque lo governi, con credibili, adeguate minacce politico-economiche. In secondo luogo, mettendo a punto contromisure strategiche comuni, a cominciare da postazioni antimissilistiche condivise, se si riterrà che siano opportune e necessarie. Se la rivolta iraniana, finora fallita, avrà come risultato di far nascere un «nuovo grande patto strategico» fra Russia e mondo atlantico, dovremo essere molto grati alle moltitudini di giovani iraniani che si sono battuti con tanto coraggio per la libertà. Solo noi e i russi insieme possiamo dare una risposta adeguata alla sfida del potere degli ayatollah, e ridare una speranza al popolo iraniano.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Caro Ceronetti com'è bello essere vecchi
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2009, 05:58:28 pm
17/7/2009 (7:28) - LA POLEMICA

Caro Ceronetti com'è bello essere vecchi
 
Risposta all'autore dello "Stuzzicaventi", dal suo ex direttore: il trascorrere dei decenni ti ha arricchito, ti ha reso unico


ARRIGO LEVI

Caro Guido, leggendoti l’altro giorno sulla Stampa, e mentre provavo uno slancio di tenerezza e di ammirazione, mi sono sentito in colpa. Possibile che non ci vediamo da tanti anni (quanti? forse 40)? È vero che sono sempre rimasto in contatto con la tua scintillante intelligenza, attraverso i tuoi scritti (a volte traditori, apparsi su giornali che non sono la «nostra» Stampa, tua, di Ronchey che «ti scoprì» e ti amò, e mia).

Ma quel tuo ultimo (latest, beninteso, non last) articolo sui vecchi, sormontato da quella fantastica fotografia di due vecchie, bellissime mani intrecciate - l’indice distorto della sinistra sembra il mio, che quando batto i tasti tende sempre a trasformare le t in r - mi ha colpito.

Prima di tutto mi sono detto: ma quanto è diventato bravo, col passare degli anni! Eri già bravissimo quando ero io, o meglio Casalegno, a mettere in pagina i tuoi elzeviri, quarant’anni fa. Ma adesso non sei più soltanto bravo. Hai raggiunto la grandezza, puoi collocarti sesto tra cotanto senno, scegli tu a tuo piacimento gli altri cinque degni di starti accanto, non aver limiti nella tua scelta.

Poi mi sono anche detto: che strani frutti dà la vecchiaia! Che strano il fatto che Guido, nel disegnare, con la precisione di un grande pittore del nostro Rinascimento, il quadro minuzioso di tutti i danni della vecchiaia, si sia dimenticato di dipingere, in un angolo del quadro, accanto ai vecchioni malandati che ha spietatamente ritratto, lo splendore nudo di una forma femminile, rappresentazione miracolosa della sapienza senile. Mio caro, ti sei dimenticato di dire che il trascorrere non degli anni ma dei decenni ha ancora arricchito quel misterioso intreccio di sinapsi cerebrali che ti rende così unico, inimitabile, irraggiungibile, nel panorama della letteratura italiana, ma che dico italiana, mondiale, del nostro tempo. Mah, sarà forse anche questo effetto della vecchiaia. Il frutto maturo dell’intelligenza ceronettiana non cessa di diventare più smagliante e ricco. Ma forse è diminuita la coscienza che il mio amico vecchio ha della sua grandezza.

Così mi sono deciso a scrivertelo io. Per la verità, quando mi sono seduto al computer avevo in mente di scrivere tutt’altro articolo. Pensa un po’: volevo scrivere una lettera di ringraziamento (non la prima, gliene scrissi già un’altra due anni fa) a Beppe Grillo, ignaro, utilissimo strumento di salvezza della nostra democrazia. Essendo sempre il tema la vecchiaia, pregi e difetti, avevo messo da parte, accanto all’ultima, grandiosa divagazione grillesca, il tuo saggio, che mercoledì, nella pressione del lavoro, non avevo avuto il tempo di leggere. L’ho letto, prima di cominciare a scrivere, ne sono stato folgorato, e così un’ipotetica lettera a Grillo si è trasformata in una lettera d’omaggio al mio amico Ceronetti.

Però, mi perdonerai una battuta rivolta al Beppe nazionale, potenziale, inconsapevole salvatore della patria. Grillo, che ha cultura, dice una cosa importante: che «la democrazia rappresentativa è finita ed è cominciata la democrazia partecipativa», e tutto questo grazie alla Rete. Immagino che tu, Guido, sappia cosa è la Rete, anche se non ti ci vedo a dialogare elettronicamente con migliaia di ragazzotti sprovveduti, posti dalla Rete sul tuo stesso piano.

Grillo immagina, in parole povere, di tornare alla democrazia com’era ai tempi dell’agorà ateniese, magicamente allargata dalla Rete al mondo intero. Immagina di far risuscitare il governo del popolo, come fu visto e giudicato per secoli e millenni, finché i saggi inglesi non inventarono il miracolo della democrazia rappresentativa, fondata su libere elezioni. Fino a quel momento il governo delle assemblee popolari era stato giustamente condannato come l’inevitabile anticamera della tirannide. Democrazia era, almeno fino al Settecento, una brutta parola, ed era giusto così. Caro Grillo, consapevole o no di quanto Lei in realtà propone, questo è: farci fare un salto indietro di un paio di millenni, e prepararci, col suo governo assembleare-reticolare, una nuova inevitabile tirannide; ancor più mostruosa, vista la potenza dell’uomo contemporaneo, di quelle che furono le tirannidi del Novecento, anch’esse figlie della follia delle moltitudini.

Per fortuna, Beppe Grillo, che vuole soltanto i trentenni al potere (visto che lui è nato il 21 luglio del 1948, è due volte trentenne, e prossimo dunque, a parer suo, a lasciare la scena, dopo aver raggiunto l’apice della bravura e della fama; mentre da trentenne era, come è ovvio, soltanto un comico fra tanti), ci ha avvertiti in tempo. Bando ai trentenni e alla democrazia reticolare, Dio ci conservi la nostra imperfetta, faticosa, a volte vergognosa democrazia rappresentativa. Perdonami, Guido, se ti ho lasciato per qualche momento. Ma era te che avevo nel cuore, e se ne avessi il tempo mi dilungherei in una risposta a te sulla grandezza della vecchiaia, sulla crescita mentale che, fortuna permettendo (no, non ignoro affatto le tristezze della vecchiaia), non si arresta mai, sulla saggezza che si accresce cogli anni, su quel grande patrimonio di idee e di parole che il tempo accumula in quella scatola misteriosa che ha nome cervello. Dio conservi e protegga il tuo, per il bene di noi tutti.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Fratelli d'Italia a Kabul
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2009, 11:26:18 am
24/8/2009
 
Fratelli d'Italia a Kabul
 
ARRIGO LEVI
 

Credo che non ci sia inno nazionale che non impegni i cittadini a «morire per la patria»: anche l’Inno di Mameli, come tutti sappiamo, afferma che «siam pronti alla morte», senza riserve possibili. Ma è lecito e giusto chiedere ai nostri ragazzi in uniforme di «morire per Kabul»?

I sostenitori di Neville Chamberlain, e della falsa pace sancita dal «Patto di Monaco», si chiedevano se fosse ragionevole «morire per Danzica», e rispondevano di no. Si sbagliavano, perché non vedevano, al di là di Danzica, il mostruoso disegno di dominio hitleriano. Il vecchio Pétain, dopo l’ingresso a Parigi della Wehrmacht e delle SS, giudicando ormai persa la guerra, riteneva inutile ogni forma di resistenza, e giudicava non impossibile che la Francia si vedesse riconosciuta dalla Germania nazista una qualche forma di «condominio» europeo.

Anche lui non sapeva quel che faceva. Ma, si dirà, Kabul è assai più lontana da noi di Danzica. Sennonché, le distanze, al giorno d’oggi, si sono incredibilmente accorciate. È un fatto che i fanatici islamisti (so bene che ogni religione ha conosciuto simili estremismi), che hanno le loro basi a cavallo fra Afghanistan e Pakistan, se mai si impadronissero del potere nel Pakistan, entrerebbero anche in possesso di armi nucleari e, oggi o domani, di missili capaci di raggiungere l’Europa, quel «mondo cristiano» che giurano di voler distruggere. Ma ci riesce molto difficile credere che riescano a tanto. E poi, non c’è l’America che è sempre pronta a far morire i propri «Gis», anche per noi?

Non so se meriti proporre una risposta a simili ragionamenti. Mi sembra che non ne valga la pena. Non saranno poche nostre parole a spiegare, a chi non l’ha ancora capito, quanto sia pericoloso il mondo in cui viviamo. Passiamo oltre, e teniamoci a quello che ci raccontano, del nostro corpo di spedizione, dei nostri ragazzi a Herat, le corrispondenze dall’Afghanistan che leggiamo sui nostri giornali. Dopo le votazioni, siamo stati felici di apprendere che nella provincia controllata dai soldati italiani è stato «mantenuto il controllo», forse meglio che in qualsiasi altra provincia; che solo una novantina di seggi su 1014 sono rimasti chiusi; che anche in una vallata dove i taleban avevano dato fuoco a due seggi la popolazione ha messo in fuga gli aggressori e riattivato i seggi prima ancora che «noi intervenissimo», come era nostro dovere.

Questo è un po’ anche merito nostro: o meglio, dei nostri ragazzi che abbiamo mandato in Afghanistan sapendo bene a che cosa andavano incontro, e ritenendo fosse giusto mandarli, per il bene della nostra patria, italiana ed europea. Io credo che si possa usare una parola come Patria nella convinzione di esprimere un concetto ancora vivo nell’anima della stragrande maggioranza degli italiani, anche se c’è chi sembra aver dimenticato la nostra storia, chi non ricorda che cosa fu, per la libertà di tutti, il Risorgimento, che cosa furono le Cinque Giornate di Milano - un grande moto del popolo «lumbard» - o che cosa fu la Resistenza. Ci tormenta il dubbio di non essere stati capaci di trasmettere queste memorie, questi valori, alle nuove generazioni. E non riusciamo a capire quale spirito animi quegli uomini investiti di responsabilità politiche precise che il popolo ha loro affidato con libere elezioni, i quali sembrano divertirsi a irridere a questi valori.

Ma pensiamo di conoscere gli stati d’animo degli uomini di queste nostre unità militari, che sanno di rischiare ogni giorno la vita, e che hanno perso dei loro compagni nell’adempimento del proprio compito, del proprio dovere. Pensiamo che l’Italia non sia, per loro, un nome vuoto di significato ma un nome che riempie l’anima di immagini e di sentimenti. Forse, se gli si chiedesse se siano «pronti alla morte», risponderebbero semplicemente che questo stanno facendo. Chi ha fatto una guerra sa bene che nessuno ha voglia di morire. Forse, se si è disposti a correre il rischio estremo, è per lealtà verso i propri compagni, e per un amalgama complesso di visioni e ricordi di cui è difficile definire i confini nel tempo e nello spazio: memorie di storia o di famiglia, immagini della propria città e del proprio Paese, rispetto per le libere istituzioni che ci siamo dati.

Se i nostri soldati sono stati «mandati al fronte», un fronte così lontano, la decisione è stata presa con coscienza, per volontà comune dei popoli che oggi ci sono fratelli. Abbiamo affidato loro la nostra sicurezza, il nostro futuro, e il bene anche di altri popoli, a partire da quello al quale il loro impegno (anche in tante opere di ricostruzione) e il loro sacrificio possono assicurare nuove e migliori condizioni di vita, e, lo speriamo, un domani di pace. Per loro, e per tutti noi.
 
da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Una certa idea del Paese
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:42:47 am
12/9/2009
 
Una certa idea del Paese
 
 
ARRIGO LEVI
 
Un recente sondaggio sui rapporti fra America ed Europa, ha confermato quanto drasticamente sia mutata in meglio, col cambio di presidenza, l’immagine che gli europei avevano non tanto del governo di Washington e della sua politica, ma dell’America.

Nel corso della mia vita, altrettanto subitanei e radicali sono stati i cambiamenti dell’immagine dell’Italia nel mondo.

E tuttavia, una certa idea dell’Italia, anche negli anni più bui (e penso alla presa del potere e al totalitarismo fascista, culminato con l’alleanza hitleriana, con la guerra alle democrazie e con l’eccidio degli ebrei), rimase viva, anche fra gli antifascisti e i perseguitati, la convinzione che l’Italia vera non fosse quella del Duce, ma un’altra Italia, non dimentica della sua storia gloriosa, memore della sua grande civiltà umanistica. Caduto il fascismo, gli ebrei emigrati ritornarono in Italia nella convinzione che non l’Italia ma il fascismo aveva dato loro una caccia mortale, consapevoli che gli italiani avevano con innumerevoli atti di coraggio protetto e salvato migliaia e migliaia di perseguitati. No, quella fascista non era stata «la vera Italia».

Così pensava mio padre quando ritornò dall’esilio alla città natale in tempo per partecipare a quella grandiosa rinascita popolare che furono le libere elezioni del 2 giugno 1946. Nel mezzo secolo che seguì ci furono altri momenti in cui l’Italia diede di sé al mondo un’immagine a dir poco sconcertante. E penso agli anni di piombo, quando una minoranza violenta sfidò con una sequela di omicidi il «nostro Stato» democratico. Subimmo gravi perdite, ma non perdemmo mai la fiducia che la nostra Italia, l’Italia vera sarebbe prevalsa. E non dimentichiamo quanto forte fu il conforto che venne ai difensori della nostra democrazia da un grande papa, Paolo VI, uomo di salda fede antifascista, sempre attento alle vicende italiane.

Oggi, leggendo la grande stampa internazionale, ci colgono momenti di sconforto per il ritratto che giornali famosi offrono dell’Italia degli scandali. Vorremmo che non dimenticassero l’immagine che essi stessi diedero pochi mesi fa dell’Italia sconvolta dal terremoto dell’Aquila, unita in una risposta corale altamente civile, per l’ondata di soccorsi giunti da ogni regione nella terra abruzzese ferita, per la prontezza con cui fu messo in atto un progetto di aiuti e di ricostruzione degno di quel grande, moderno Paese che è l’Italia.

E vorremmo che i nostri rappresentanti nel mondo non dimenticassero mai la responsabilità che portano in ogni loro atto, in ogni loro parola. Essi sono l’Italia, un’Italia che ha affrontato con forti risorse anche la grande crisi economica, l’Italia delle centinaia di migliaia di imprese vitali, frutto di un antico ingegno, di una radicata cultura del lavoro, di una capacità imprenditoriale che guarda spontaneamente al mondo intero come destinatario delle opere della propria creatività.

Abbiamo un’idea dell’Italia che non cambia con il succedersi di eventi che ci sembrano soltanto incidenti per nulla rappresentativi della nostra grande storia. Anche nei momenti di crisi, vediamo una società creativa, fortemente reattiva, disperante e affascinante, vividamente cosciente di se stessa, consapevole delle sue contraddizioni, ma anche della sua natura profonda e del suo destino, come partner di quella storica avventura che è la creazione di un’Europa democratica unita, alla cui crescita non saremo mai noi a porre ostacoli.

Come già in passato, in momenti molto più critici, confidiamo che i disagi profondi che accompagnano il nostro sviluppo si attenueranno e verranno superati. Vediamo spinte distruttive, egoismi corporativi, superficialità demagogiche, sopraffazioni e arroganze che si sprigionano dall’interno della società italiana. Ma vediamo anche segni confortanti che sono prova di riserve sufficienti di volontà e di buon senso, capaci di correggere e curare questi nostri mali, in tempo, e col tempo. Non ignoriamo le pericolose tensioni che si manifestano, ma confidiamo nella solidità e vasta popolarità delle nostre grandi istituzioni, e scorgiamo anche tanti fatti positivi, tanti progressi sociali, civili ed economici, perfino politici, che confortano la nostra fiducia nell’idea dell’Italia che abbiamo sempre portato nel cuore.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Anche noi siamo stati stranieri
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 05:27:56 pm
2/10/2009

Anche noi siamo stati stranieri
   
ARRIGO LEVI


La Stampa ha pubblicato negli ultimi giorni due storie esemplari: quella dell’avvocato Loredana Ionita, romena residente a Torino, dove si è trasferita otto anni fa, e dove ha fatto, anche da clandestina, quattro mestieri, compreso quello di badante, prima di veder riconosciuti i titoli di studio che aveva conseguito nel suo Paese e di venire iscritta all’Ordine degli Avvocati torinese. E quella di Massimo Tagliati, che in Piemonte è giunto quarant’anni fa dal Veneto.

Non sapeva l’italiano, ma solo il suo bel dialetto, e la sua prima maestra lo cacciò di classe definendolo «un selvaggio». Ha «lottato con caparbietà» per arrivare a essere accettato, ora fa un lavoro dignitoso e si è fatto una famiglia e degli amici.
Commentando questa lettera, Mario Calabresi ha osservato che il tema dell’integrazione «sta diventando il più sentito dai lettori, quello che appassiona e divide di più». Lo è, e non da ieri, ma da diversi decenni.
Torino è stata, nel ricco Nord-Ovest, forse ancor più di Milano, l’«America» per moltitudini di emigranti venuti dalle regioni più povere d’Italia, e poi del mondo. Prima dei meridionali furono i contadini veneti, fin dagli Anni Trenta, a venire a cercare la fortuna nella città dell’auto. Questo giornale, fedele alla vocazione democratica e liberale sua e della città, ha sempre svolto un ruolo responsabile nel favorire il processo di «integrazione» dei nuovi arrivati, non sempre facile in una società dalla forte identità e piuttosto orgogliosa delle sue tradizioni; ma sempre assai civile (ricordate quando si pubblicava in pagina di cronaca la «Posta Nord-Sud»?).

Un fenomeno che divide
«Integrazione» è parola corretta. Ma non esprime la drammaticità e complessità di un fenomeno che ancora «divide», oggi forse più che mai. L’Italia non conosceva afflussi di massa di popolazioni straniere dai tempi delle invasioni barbariche; e solo da pochi anni, ultima tra le grandi nazioni dell’Europa ricca, è diventata la meta di moltitudini di emigranti in cerca di fortuna. Molti di loro, per lo più, sono decisamente «abbronzati». E anche se sappiamo bene, o dovremmo sapere, che i nuovi arrivati sono essenziali per la crescita della nostra economia e del nostro benessere, molti di noi rimangono turbati e offesi dal contatto con tanti «diversi».
Nel libro di terza elementare di mio nonno (nato nel 1858), che veniva ancora conservato nella biblioteca di casa, noi ragazzi leggevamo, trovandolo molto divertente, un dialogo tra padre e figlio che diceva così: «Padre, ieri mi venne veduto un uomo nero. Figlio, quell’uomo è un negro. Padre, ma io ho paura. Figlio, ma anch’egli è figlio di Dio». Noi, all’epoca, gli uomini neri li avevamo visti solo nei film americani, dove la loro parlata veniva doppiata con un accento che faceva ridere. Gli unici «non bianchi» che conoscevamo erano i cinesi che vendevano «clavatte una lila» agli angoli delle strade, e non facevano paura.
Poi, nel corso della mia vita (sono stato emigrante anch’io) ho incontrato tante dure realtà di immigrati, o di «diversi», che aspiravano a «integrarsi», a essere riconosciuti come eguali, e che venivano visti con paura o con disprezzo.

Il dramma degli immigrati
Non ho l’età per avere assistito al grande dramma della nostra emigrazione disperata nelle Americhe, ma non l’ho certo dimenticato, come l’hanno dimenticato la maggior parte dei miei compatrioti: cosa di cui non so capacitarmi. Ma non vi rendete conto che il dramma odierno degli immigrati in Italia era stato prima il nostro identico dramma? E che buoni cristiani siete, per disprezzare «lo straniero che vive in mezzo a noi», invece di amarlo, come prescrive duramente la vostra fede?
Ho assistito personalmente, come inviato, nel «profondo Sud» del Mississippi, alle drammatiche giornate dell’autunno 1964, quando la rivoluzione negra faceva i primi passi timorosi, quando i giovani bianchi venuti dal Nord per aiutare i negri a iscriversi per il voto nelle elezioni presidenziali (vinse Johnson) rischiavano a ogni passo di venire ammazzati.
E ne vennero ammazzati tre. Che atmosfera spessa di odio e di paura si respirava a Jackson, soltanto per essere uno straniero bianco, quindi amico dei negri! La rivivo ogni volta che rivedo quel grande film che è Mississippi burning. Quanto lontana, inimmaginabile la meta della parità. Impensabile che dopo mezzo secolo l’America avrebbe eletto un negro Presidente.
L’integrazione è difficile in ogni Stato, in ogni condizione. Perfino in Israele, i profughi delle ondate nordafricana o russa faticano ancora a essere considerati uguali dagli «olim» europei delle prime ondate. E nelle civilissime Francia e Inghilterra si hanno le «rivolte dei ghetti». A maggior ragione bisogna saper favorire, con accortezza e generosità d’animo, nell’interesse loro e nostro (la civiltà nasce da tanti incroci tra genti diverse), l’integrazione dello «straniero che vive in mezzo a noi». Perché anche noi fummo stranieri in terre ostili e lontane.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Le atomiche e l'utopia di Obama
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 10:20:28 am
22/10/2009

Le atomiche e l'utopia di Obama
   
ARRIGO LEVI


Fra le molte finestre che Obama ha spalancato su un «futuro migliore», la più spettacolare è la proposta di un mondo senza armi nucleari. Citando una celebre frase di Reagan («le armi nucleari devono essere eliminate totalmente»), il Presidente Usa ha strappato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una risoluzione unanime per il disarmo nucleare. Erano 14 su 15 i leader mondiali presenti; oltre ad Obama, i Capi di Stato di tutte le massime potenze, nucleari e non, incluse Russia e Cina. Tutti si sono impegnati «a creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari»: anche se non è detto come ci si possa arrivare.

L’arma finale non è più stata impiegata in guerra dal 1945, quando prima Hiroshima (alle 8,15 del 6 agosto), e tre giorni dopo Nagasaki, furono obliterate da due bombe atomiche, di potenza infinitamente inferiore a quella delle migliaia di ordigni atomici e termonucleari oggi esistenti. Ma ancora oggi, anche se Obama e Medvedev hanno concordato una riduzione dei loro immensi arsenali atomici, dopo un conflitto che vedesse impiegata anche una parte soltanto di queste armi la Terra rischierebbe di essere ridotta a un «pianeta di erbe ed insetti».

È bensì vero che la consapevolezza che l’uso dell’atomica avrebbe provocato risposte catastrofiche, garantendo una «mutua distruzione assicurata» (MAD), ha impedito anche a leader criminali come Stalin, o folli come Mao (benché questi sostenesse che grazie all’immensità della sua popolazione la Cina sarebbe comunque sopravvissuta), di impiegare mai l’atomica. È probabilmente vero che noi dobbiamo all’atomica se la «terza guerra mondiale» è stata soltanto una «guerra fredda». Ma ci riesce difficile affidare proprio all’arma finale la garanzia della nostra sopravvivenza. E forse la garanzia non è più adeguata in un mondo con un numero crescente di potenze atomiche, e con organizzazioni terroristiche che non hanno territori propri e che vedono nella morte la garanzia di un glorioso aldilà.

L’ipotesi di dar vita a un mondo senza armi nucleari fa dunque sognare. Eppure, di tutte le proposte innovative di Obama, questa appare la meno realistica. I dubbi non nascono soltanto dal fatto che le stesse grandi potenze atomiche continuano ad ammodernare il loro potenziale nucleare; o dal pericolo, che rimane anche dopo Vienna, di un Iran che realizzi armi nucleari; o dalle atomiche nord-coreane. Al di là di questi fattori, che non consentono di vedere nel «futuro vicino» un disarmo nucleare generalizzato, l’ipotesi di un mondo senza armi atomiche si scontra con alcuni basilari fattori di impossibilità.

Il primo e fondamentale è che le armi nucleari non potranno mai più essere «disinventate», per tutta la storia dell’umanità. E in un mondo multi-nazionale quale è quello attuale, essendo ancora utopia il sogno di un governo globale, nulla potrà mai garantire che in un conflitto fra grandi o piccole potenze, o nell’ambito di ideologie folli come è il terrorismo islamista, qualcuno non ricostruisca segretamente, con un patrimonio mondiale di «materiale nucleare» sempre più imponente, delle armi atomiche. E non è credibile che, in un mondo siffatto, chi ha armi nucleari accetti di distruggerle tutte, affidandosi alla buona sorte.

Il più «utopistico», ma abbastanza credibile progetto di un’umanità libera dall’incubo di scomparire nei gorghi di un conflitto nucleare, venne proposto tanti anni fa da Paul Nitze. Ma allora c’erano solo due superpotenze, e l’ipotesi che esse accettassero, come Nitze proponeva, di ridurre il numero delle loro armi nucleari a due o tre decine per parte (oggi sono migliaia), troppo poche per fare di una guerra atomica l’apocalisse finale della storia umana, non appariva impossibile. (Le armi restanti sarebbero state concentrate, sotto reciproco controllo, in due sole basi protette da un sistema antimissile, o collocate in sottomarini). Purtroppo sono oggi troppo numerosi gli Stati dotati di armi atomiche per rendere realizzabile il piano Nitze. Come dicono alcuni scettici, «non si può rimettere nel tubetto il dentifricio che è stato fatto uscire».

In verità, io non credo che neanche Obama pensi di vedere realizzato in uno spazio di tempo prevedibile il suo sogno. Credo però che egli pensi che la poderosa proposta di un’utopia possa servire ad avviare una serie di iniziative limitate, ma concrete e crescenti, che riducano il pericolo incombente. È credibile un’ulteriore, drastica riduzione degli arsenali nucleari esistenti. È già un fatto il saggio abbandono da parte di Obama del progetto di un sistema antimissilistico previsto da Bush. E non è impossibile, nella scia di Vienna, una serie di accordi imposti dalle grandi potenze che impediscano (anche all’Iran) un’ulteriore proliferazione nucleare. Così, almeno, guadagneremmo tempo: in attesa che si realizzi il sogno kantiano di una futura armonia fra tutte le nazioni, o di un governo globale. Intanto diminuirebbe il pericolo di quella spada di Damocle nucleare che è oggi sospesa (e forse lo sarà per sempre), sulla testa dell’umanità.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Il futuro della democrazia
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2009, 10:31:28 am
1/11/2009 - SPECIALE OBAMA UN ANNO DOPO

Il futuro della democrazia
   
ARRIGO LEVI


Che la democrazia sia un sistema politico auspicabile per tutti i popoli, ed anche il solo capace, quando tutti i governi del mondo siano democratici, di rendere realizzabile l’utopia della pace universale, a noi Occidentali sembra fuori discussione. Quello che è in discussione è se, quando e come, la democrazia sia davvero destinata a diventare la «forma finale di governo» per tutta l’umanità; o se vi siano popoli di cultura diversa (come la cultura islamica, o quella cinese), refrattari ad accettare la democrazia. Ed è giustificato l’uso della forza per diffondere la democrazia, o soltanto per proteggersi da forze ostili che mirano alla nostra distruzione?

In risposta a queste domande la politica dell’America di Bush, soprattutto nel primo quadriennio, s’ispirava alla convinzione che l’impiego della forza per diffondere nel mondo la democrazia fosse giustificato. Con l’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca questa dottrina è stata abbandonata. «Nessun sistema di governo - ha detto Obama nel grande discorso del Cairo del 4 giugno scorso - deve essere imposto da una nazione a un’altra». L’America «non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione», anche se rimane «irremovibilmente convinta» che tutti i popoli aspirino ad essere liberi di decidere come vogliono essere governati, e che i governi che rispettano la giustizia e i diritti umani (ossia le democrazie) rappresentino ideali «non solo americani» ma validi per tutti i popoli. Nello stesso discorso Obama ha peraltro riaffermato il diritto e il dovere degli Stati Uniti di continuare la guerra in Afghanistan contro gli estremisti che hanno «assassinato persone di ogni fede religiosa», soprattutto musulmani: laddove «il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano».

Non solo in Occidente, ma anche al Cairo il discorso della «mano tesa» da Barack Hussein Obama al mondo islamico trovò un’accoglienza molto calorosa. Ma i risultati pratici potranno venire solo gradualmente. Obama ha ricordato che «tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo», e tutto ciò che possiamo fare è «non concentrarci su ciò che ci divide» ma «impegnarci insieme per trovare un comune terreno di intesa».

Che il futuro della storia umana appartenga alla democrazia rimane insomma da vedersi. Francis Fukuyama, che ha predicato dal 1989 la tesi che la democrazia rappresenta la ineluttabile, sicura «fine della storia», ha ribadito ancora di recente questa sua convinzione. Ha osservato (spero che abbia contato bene) che nei primi Anni Settanta c’erano nel mondo soltanto un'ottantina di democrazie, mentre oggi ve ne sono 130. Ha negato, con ragione, che l'autoritarismo cinese o la repubblica islamica dell’Iran possano rappresentare «forme di civiltà superiori» alla democrazia, e ha ricordato che la democrazia si è affermata anche al di fuori della civiltà occidentale, dall’India al Giappone, dalla Corea del Sud all’islamica Indonesia. Ma ha anche ammesso, nonostante la sua fede incrollabile nel futuro democratico del mondo intero, che «in alcuni luoghi oggi si verifica una reazione antidemocratica». Oltre all'Afghanistan e al mondo islamico, penso avesse in mente la Russia di Putin (e/o di Medvedev).

Noi europei, che abbiamo costruito sulle rovine della seconda guerra mondiale un’Europa unita, pacifica e democratica, non nutriamo dubbi sulla superiorità della democrazia. Quanto al da farsi per vincere il confronto con i nemici della democrazia, troviamo la dottrina dell’America di Obama molto più vicina alle nostre convinzioni di quanto fosse la dottrina Bush. Anche se è per noi ancor più «lacerante» di quanto non sia per Obama continuare a sacrificare «giovani uomini e giovani donne» per la nostra difesa, e per il futuro, ancora problematico, di un mondo di democrazie.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Quel giorno l'Europa vinse per la prima volta
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2009, 09:36:33 am
10/11/2009 - IL MURO - 20 ANNI DOPO. L'OSSERVATORE

Quel giorno l'Europa vinse per la prima volta
   
ARRIGO LEVI


Ma insomma, chi ha vinto la guerra fredda? Nell’anniversario del crollo del Muro, «fischio finale» della partita, si è aperta una curiosa «querelle» fra politologi. Da autorevoli colleghi abbiamo sentito proclamare che sicuramente «fu la Cina a vincere», mentre «difficilmente può dire di averla vinta l’Europa». Ma perché la Cina, e non l'Indonesia o l'Africa o qualsiasi altro Paese del mondo?

Il fatto è che la caduta del Muro segnò la vittoria di tutto il mondo, compresa, con buona pace di Putin, che assisteva all'evento come funzionario del Kgb in Germania, anche la Russia, che tornò a vivere e a respirare. Ma non si tratta di decidere chi guadagnò di più dalla caduta del Muro e dalla fine dello stalinismo, perché tutti vinsero. Il quesito è un altro: a chi va il merito della caduta del Muro?

Ringraziamo Enzo Bettiza, che ha reso un commosso tributo al vecchio Helmuth Kohl. E teniamoci ai fatti. Ricordiamo che il Muro non era stato fatto per tener fuori i nemici. Non era un muro difensivo. Era il muro di una prigione, costruito per impedire la fuga dei popoli che vi venivano chiusi dentro. Come tale, era anche l'ammissione della superiorità storica del modello capitalista e democratico sul modello sovietico. Quando i popoli rinchiusi in quella prigione, sbirciando oltre il muro un’Europa vincente, ricca e libera, ne ebbero abbastanza della loro Europa perdente, il muro crollò.

Vinse dunque, prima di tutto, l’Europa comunitaria. Vinse anche l'America, grazie all’accorta combinazione di una forte politica militare col saggio appoggio all'unificazione europea. E vinse l'uomo del destino russo, il primo leader post-staliniano, Gorbaciov, che ebbe il coraggio di ammettere che «così non si poteva andare avanti», e di dire ai capi dei Paesi sudditi che se si fossero mai più trovati in difficoltà, come l'Ungheria nel ’56 e la Cecoslovacchia nel ‘68, l’Armata Rossa non sarebbe intervenuta per salvarli.

Quando Gorbaciov mi raccontò come e quando lanciò questo avvertimento - nel giorno stesso della sua elezione a segretario generale del Pcus, davanti a tutti i leader dell’Est - gli chiesi: «Ma le credettero?». La risposta fu secca: «Ne vièrili», non mi credettero. Con questa decisione, maturata nei tanti anni di ascesa al vertice, Gorbaciov non voleva liquidare né il comunismo né l'Unione Sovietica. Pensava, sbagliando, perché la crisi del sistema era molto più profonda di quanto immaginasse, che sacrificando i «Paesi satelliti», facendo la pace con l'Occidente, e ponendo fine a una corsa agli armamenti che l'economia sovietica malata non poteva più reggere, avrebbe salvato il Paese che amava, il solo regime che conoscesse e in cui ancora credeva, nonostante i nonni contadini suoi e di Raissa vittime delle purghe staliniane.

Ma poi, fu davvero un errore, il suo, o piuttosto una istintiva, storica intuizione, l'oscura consapevolezza che bisognava cambiare, accadesse poi quel che doveva accadere?

Quanto all’Europa unita, ha già fatto tanta strada. Con buona pace di quei tanti che, delusi nel loro sogno federalista, o per oscure impazienze, non riescono a non parlar male dell’Europa. Sia quando barcolla prima di approvare una nuova costituzione, sia quando finalmente l'adotta, ma con mille ovvie incertezze sulla strada che le si apre davanti. L’Europa rimane pasticciona ma vincente. Veniamo da lontano. Dai campi impregnati di sangue di Verdun. Dalle città distrutte della Seconda guerra mondiale. Dai forni crematori di Auschwitz. Dai totalitarismi trionfanti. La memoria di ciò che fummo ci spingerà ad andare molto più avanti. Diamoci tempo.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Se Netanyahu sfida Obama
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2009, 09:06:53 am
21/11/2009

Se Netanyahu sfida Obama
   
ARRIGO LEVI


E così, sembra che Israele, l’Israele di Netanyahu, stia perdendo di vista, o forse abbandonando di proposito, quello che dovrebbe essere l’obiettivo principale dello Stato ebraico: lo storico obiettivo - sola vera garanzia del suo futuro - della pace con uno Stato palestinese. Le pressioni dell’America di Obama per rilanciare il negoziato hanno ricevuto una dura risposta. La decisione di andare avanti con la costruzione di abitazioni nei territori occupati di Gerusalemme Est significa un no secco sulle principali richieste americane. Netanyahu non intende sospendere l’espansione degli insediamenti né accettare per la Gerusalemme araba un futuro quale capitale di uno Stato palestinese. Si direbbe che il primo ministro di Israele si consideri più forte di Obama, e quindi disposto a sfidarlo. Ma l’America con chi sta? Col suo Presidente o col primo ministro d’Israele?

L’«Economist» invitava giorni addietro Obama a «scendere di nuovo in campo», a «non darsi per vinto» di fronte a Netanyahu, e a non dare l’impressione che le sue pressioni su Israele fossero soltanto «un bluff» che Netanyahu poteva «andare a vedere» impunemente; cosa che ha fatto. Dalla lontana Cina, con un ritardo di 24 ore, Obama, il «Presidente del Pacifico», è ora «sceso in campo». Ha detto di giudicare che l’atteggiamento d’Israele sugli insediamenti «potrebbe rivelarsi molto pericoloso: una decisione che non rafforza la sicurezza d’Israele», oltre che «un ostacolo per la pace». Attendiamo di sapere se l’America stia con lui, o con Netanyahu. Ma il punto fondamentale è un altro: quale politica è più utile per la sicurezza d’Israele? Già tanti anni fa, in uno scritto del 1977, Rabin osservava che Israele avrebbe potuto continuare a vincere le guerre, ma non poteva «usare la guerra come un metodo assoluto per raggiungere i suoi fondamentali obiettivi politici», giacché Israele «non avrebbe mai potuto imporre agli arabi la pace con una vittoria militare decisiva».

Netanyahu e il suo governo sembrano ora aver raggiunto la convinzione che la pace non sia più necessaria per il futuro d’Israele. I Palestinesi sono troppo divisi per costituire una seria minaccia, i governi arabi troppo impauriti dall’estremismo fondamentalista di Hamas e dei suoi sostenitori (l’Iran, Hezbollah, forse Al Qaeda) per rischiare una guerra per la causa palestinese. E forse, oggi, le cose stanno proprio così.

Ma a noi sembra che l’attuale governo israeliano non sappia guardare lontano. E’ vero che la prospettiva di un accordo di pace con mezza Palestina è poco rassicurante, che non può offrire garanzie assolute e immediate di una pace che duri per sempre. Ma la storia stessa del popolo ebraico dimostra che certi grandi sogni possono durare non decenni, non secoli, ma millenni. Anche il sogno palestinese, come quello sionista, ha le sue fondamenta su una grande fede religiosa. E dietro i Palestinesi ci sarà sempre un grande popolo, quello arabo. Ma davvero chi ha eretto per due millenni una città a simbolo della propria storia e della propria identità può non capire che lo stesso accada ad un altro popolo? Del resto, neppure le sedi dello Stato ebraico (la residenza presidenziale, il Parlamento, i principali ministeri) sono al di dentro, ma al di fuori delle rosate mura della Città Santa a tre religioni. L’ex vicesindaco di Gerusalemme, David Cassuto (un uomo di destra, ed un saggio), ha fatto notare che all’amministrazione palestinese basterebbero villaggi arabi come Issawia, Shaafat, Abu Dis, collocati alla periferia di Gerusalemme. E che interesse ha Israele (è una recente osservazione di Sergio Minerbi, altro italo-israeliano e prestigioso diplomatico e studioso) ad amministrare quartieri abitati soltanto da Arabi?

Ma è bene dire il proprio pensiero fino in fondo. Non è tanto Obama, non è il suo prestigio che oggi ci preoccupa. Avrà sicuramente tempo per recuperare la sua autorità. L’America è grande, e gli Americani vogliono giustamente bene a Israele, ma ancor più all’America. E’ del futuro d’Israele che ci preoccupiamo. In qualche modo, se i Palestinesi sono ancora oggi, come sempre, incapaci di badare a se stessi, Israele dovrebbe saper farsi carico anche di loro, delle loro sofferenze e dei loro sogni. Chi, meglio degli Ebrei, potrà mai capirli?

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Scrittore non solo cronista
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2009, 11:40:59 am
19/12/2009

Scrittore non solo cronista
   
ARRIGO LEVI


Igor è stato uno dei grandi inviati della mia generazione. Inviato a tutto campo. Ci incontrammo la prima volta nel dicembre del 1956. Ci trovavamo a Porto Said, dove io ero stato spedito da Londra dal Corriere della Sera al seguito dell’esercito britannico (giovane inviato, accanto a quel grandissimo inviato che era Virgilio Lilli al seguito dell’esercito francese), dopo la fulminea occupazione del Sinai da parte d’Israele e l’intervento militare sedicente «pacificatore» di Francia e Gran Bretagna. A dicembre, risolta in qualche modo la crisi seguita alla nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser (una singolare commedia degli equivoci, risolta da un duro intervento del presidente Eisenhower che fermò non solo Ben Gurion, ma anche Eden e Guy Mollet), arrivò a Porto Said il primo treno proveniente dal Cairo, con a bordo un’altra squadra di inviati. Igor era tra questi.

Sto parlando di oltre mezzo secolo fa, eravamo tutti e due trentenni o poco più e stavamo facendo il lavoro più divertente, o almeno così mi pare, che possa fare un giornalista: l’inviato speciale, col mondo intero come territorio in cui esercitare l’arte del cronista, che è poi la quintessenza del giornalismo. Noi due appartenevamo, con Ronchey, Bettiza, Pieroni, Ottone e altri ancora, alla prima generazione postbellica, e ci confrontavamo con una generazione di grandi giornalisti affermatisi prima della guerra e durante la guerra. Ho nominato Lilli, cito ancora Luigi Barzini junior, che si era formato alla scuola americana e che vantava una sorta di primato per diritto ereditario, e ancora Vittorio Gorresio, Max David, Vittorio G. Rossi, tralasciando troppi altri nomi «Loro» ci sembravano, ed erano, giornalisti-scrittori, talvolta più scrittori che giornalisti, o così sembrava a noi. «Loro» sapevano poco o nulla di economia, noi eravamo, o ci sembrava di essere, più «moderni», più aggiornati culturalmente, anche se dicevamo di avere meno ambizioni letterarie.

Igor ora se n’è andato, ha lasciato all’improvviso i suoi affezionati lettori e i suoi amici e rivali di tutta una vita. Fra tutti noi, Igor era forse, per istinto, il più esotico nei suoi interessi. Quando diventai, nel 1973, direttore della Stampa, era considerato uno specialista sia di America Latina sia di Medio Oriente. Quelle vaste aree del globo le aveva girate da un capo all’altro, era stato testimone di tutte le crisi e aveva incontrato tutti i grandi protagonisti che meritasse incontrare. Lo sanno bene i suoi lettori, che hanno gustato ogni sette giorni i suoi ricordi di Vecchio Cronista su questo giornale. Igor si chiamava davvero, per ascendenza parzialmente russa (lo incontrai un giorno a Zurigo dove era andato a trovare nel più famoso Grand hotel una vecchia zia, gran signora, che parlava un russo musicale ed elegante che le generazioni successive hanno dimenticato). Il cognome Man, al posto del siciliano Manzella, gli era parso, giustamente, più esotico e più adatto al mestiere che faceva. Una piccola dose d’inventiva era pur necessaria, in quel nostro mestiere. Senza esagerare.

Avevamo, tutti noi, mogli che sopportavano come un destino le nostre frequenti, lunghissime assenze. Forse per questo quasi tutti abbiamo goduto di lunghissime unioni coniugali, con la moglie che diversi di noi avevano incontrato in giro per mondo. Igor, col suo volto un po’ asiatico, si considerava giustamente il più bello, e il più estroso di tutti. E sapeva scrivere, e come sapeva scrivere! In verità era scrittore, e non solo cronista. Anche se gli capitava, come a tutti noi, di mandare il pezzo sulla crisi del giorno, guerra o colpo di Stato che fosse, due ore dopo essere giunto sul posto. Gli autisti di tassì che ci avevano pescati all’aeroporto erano i nostri primi preziosi informatori; quando non accadeva che il pezzo l’avessimo già abbozzato in aereo. Era ovvio che i precedenti li conoscevamo già alla partenza, i protagonisti spesso li avevamo già incontrati, avevamo i numeri di telefono di chi poteva dirci qualcosa di più del tassista, e anche il primo pezzo aveva quel tanto di genuinità cronistica e quel piglio un po’ garibaldino che ci si attendeva da un «grande inviato». Come Igor Man, che ora ci ha lasciati bruscamente, da un giorno all’altro. Accade, alla nostra età. La schiera dei compagni d’una vita si assottiglia.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Le parole necessarie su Pio XII
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2009, 03:06:07 pm
23/12/2009

Le parole necessarie su Pio XII
   
ARRIVO LEVI

Era più che prevedibile che l’annuncio della decisione di Papa Benedetto XVI di dare avvio al processo di beatificazione di Pio XII venisse giudicato, non solo dagli ebrei romani ma dalle più alte personalità dell’ebraismo italiano e mondiale, pur impegnate intensamente nel dialogo interreligioso, quanto meno intempestivo, a tre settimane dall’attesa prima visita del Papa alla grande sinagoga di Roma.

E’ stato detto e ripetuto da esponenti dell’ebraismo italiano, come da diplomatici israeliani, che la beatificazione rappresenta «un fatto interno alla Chiesa». Si discute l'opportunità di un giudizio che appare definitivo non solo sulle «eroiche virtù» ma anche - a torto o ragione - sull’operato storico di Pio XII, oggetto del dibattito da poco avviato tra storici ebrei e cattolici, e prima dell’apertura degli archivi vaticani successivi al febbraio 1939.
E poi ci sono le memorie. Non tanto le memorie dei secoli di persecuzioni, che la Chiesa di Giovanni Paolo II ha più volte condannato (furono più di venti le occasioni in cui il grande Papa chiese perdono per l’uno o l’altro peccato storico della Chiesa, non solo nei confronti degli Ebrei), ma memorie molto vicine, soprattutto qui a Roma: «Non dimentichiamo - hanno detto i portavoce degli ebrei romani - il treno di 1021 deportati del 16 ottobre ’43 che partì verso Auschwitz da Roma nel silenzio di Pio XII».

Sul piatto della bilancia della memoria ebraica quel silenzio pesa ancora. E come potrebbe non pesare? Anche se su un altro piatto pesa la consapevolezza che anche a Roma, dopo quella giornata tremenda, «i religiosi cattolici furono i principali attori dell’occultamento degli ebrei», e che in tutta Italia «la carità cristiana fu dispiegata durante la guerra in maniera non specifica nei confronti degli ebrei, ma sicuramente in maniera speciale, per motivi di quantità e di particolare allarme per le loro vite». Cito Liliana Picciotto, forse la maggiore studiosa ebrea della persecuzione che costò la vita a più di ottomila ebrei italiani, e a sei milioni di ebrei europei.

Ha scritto ancora Liliana Picciotto: «Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l’aiuto dei parroci nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o semplici iscritti all’Azione Cattolica fu di tale proporzione da assumere un aspetto corale». Secondo l’amica Liliana, nel suo intenso saggio che conclude il volume su «I Giusti d’Italia», voluto dal presidente Fini: «Al contrario di molti osservatori, non pensiamo che per questa opera fosse necessaria una specifica direttiva papale». Sono d’accordo che tanti sacerdoti agirono d’impulso, per virtù cristiana. Ma ammetto che io mi colloco fra «i molti» che ritengono non solo probabile ma sicuro che il Papa, dopo l’indimenticato silenzio del 16 ottobre ’43, approvò e stimolò l’opera di salvataggio degli Ebrei, non solo a Roma ma in tutta Italia, non solo ad opera di parroci di campagna ma di vescovi e autorevoli cardinali. Un esempio fra tanti: a Roma tedeschi e fascisti sapevano bene che il complesso del Laterano, che godeva di extraterritorialità, e innumerevoli case religiose che non godevano di tale privilegio, ospitavano ebrei o antifascisti. Furono molte migliaia, compreso tutto il vertice del Cln, e molti ebrei, quelli ospitati nel complesso lateranense nell’arco di tempo dell’occupazione tedesca, e che così si salvarono. Il Laterano rimase un rifugio (e Andrea Riccardi ha trovato conferme che il Papa sapeva), anche dopo l’invasione fascista dell’abbazia di San Paolo, che pure godeva anch’essa della extraterritorialità, e dove furono arrestati 96 fra ebrei, antifascisti e militari.

Esito a giudicare le scelte del Papa di quei tempi tra parlare e tacere. Se il Papa avesse pronunciato una pubblica condanna dell’olocausto ebraico avrebbe compiuto un eroico atto di martirio, coinvolgendo tutta la Chiesa. Ma gli ebrei italiani vittime della Shoah sarebbero stati molti più di ottomila.

Penso che sarebbe stato saggio rispettare con una più lunga attesa, prima di aprire la strada alla beatificazione di Pio XII, i sentimenti degli Ebrei sopravvissuti e dei loro discendenti, e lasciare più tempo agli storici. Ma auspico che, nel tempo che manca alla data prevista per la visita del Papa, le autorità cattoliche ed ebraiche trovino modo di ricomporre quel clima di comprensione, di dialogo, di fiducia, che si è costruito in questi anni; e che quindi la visita si possa fare in atmosfera serena. Prendo atto che il Papa, un Papa che ha avuto in tante occasioni parole di affetto verso gli Ebrei, ha già lanciato un primo segnale con una rinnovata durissima condanna della Shoah. Forse occorrono altri pronunciamenti. Le buone parole possono curare molte ferite.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Ronchey il signore dei fatti
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 10:59:40 pm
9/3/2010

Ronchey il signore dei fatti


ARRIGO LEVI

Alberto Ronchey ci ha lasciato. Era più giovane di me di tre mesi, ed è ingiusto che tocchi a me ricordare lui, e non il contrario. Non mi riesce di accingermi a scrivere di Alberto con animo distaccato, obiettivo. Eravamo troppo amici.

E’ stato il migliore fra tutti i giornalisti della mia generazione, la prima generazione postbellica, ed è stato il compagno di una vita di giornalismo. Il mio primo pensiero, e il primo pensiero di mia moglie Lina, che per anni considerò Alberto il suo miglior amico, e il più intelligente, va a Vittoria, che è stata sempre al suo fianco, anch’essa rivelatasi inaspettatamente scrittrice.

Scrivere di Alberto è scrivere di noi. Non posso farne a meno, ricordo la sua vita, e ricordo anche la mia. Accade, a volte, che fra due giornalisti quasi coetanei ci si insegua, o ci si accompagni, negli stessi incarichi di lavoro. Accade anche che si finisca per condividere molte idee, molti interessi, molte simpatie o antipatie. Ed era il caso nostro, anche se lui era fra i due il pessimista, e io l’ottimista. Io ho sempre pensato che stesse un gradino più avanti e più in alto di me, inventore di un modello di giornalismo che tutti avevamo inseguito e cercato di fare nostro.

Siamo stati ambedue allievi di Gaetano Afeltra, un grande giornalista, estroso, pieno di invenzioni, che forse aveva visto in noi una certa «seriosità», utile nel brillante giornale della sera che aveva creato, il Corriere d’Informazione. Erano gli anni 50, avevamo la guerra, e la triste Italia fascista, alle spalle. Negli anni della clandestinità (io ero in Argentina e scrivevo i miei primi articoletti su Italia Libera), Alberto era stato giovanissimo direttore della Voce Repubblicana: il suo maestro di idee politiche e di vita era e rimase per sempre Ugo La Malfa. Ma quanti grandi politici, uomini di idee e di fede, avevamo per modelli e per maestri, da esaltare o da combattere: De Gasperi e Nenni, Togliatti e Saragat, e la leva dei più giovani, da Moro ad Amendola, da Altiero Spinelli a Pannunzio. Che Italia era quella! Aveva, per sua e nostra fortuna, perso la guerra, e tutto ci sembrava possibile. Quanta voglia di vivere, quante speranze, quanti sogni che d’un tratto diventavano realizzabili, nell’Italia della Repubblica, nell’Europa che si andava unificando.

Di quanti indimenticabili orrori eravamo stati testimoni. Ma avevamo di fronte a noi il mondo da scoprire, in un certo senso un mondo nuovo da costruire. Se alzavamo lo sguardo oltre confine, vedevamo dei giganti: da Winston Churchill a De Gaulle, da Adenauer a Roosevelt. Incominciava una nuova storia, ancora ricca di conflitti, ma anche di grandi disegni politici.

Nel giornalismo italiano, ci aveva preceduto una generazione straordinaria ricca di grandi personalità: Indro Montanelli, Luigi Barzini jr, Domenico Bartoli, Virgilio Lilli, Vittorio G. Rossi. Li giudicavamo giornalisti-scrittori, ci sembravano inimitabili ma ci sembrava anche di portare nel giornalismo nuovi interessi, e un nuovo stile, più cronistico, più analitico, più attento ai fatti dell’economia e allo scontro delle ideologie. A me toccò prima di succedere ad Alberto, come notista politico da Roma tra il ’59 e il ’60, per il Corriere d’Informazione, e poi di inseguirlo a Mosca, lui corrispondente della Stampa e io del Corriere della Sera. Fummo, con Alfonso Sterpellone, e poi con Enzo Bettiza, Frane Barbieri e Raffaello Uboldi, testimoni e cronisti della Russia di Krusciov, che si apriva a nuove speranze, con i giovani poeti che declamavano versi incandescenti nella piazza Majakovskyi, con Ilià Erenburg (lo si incontrava nel suo piccolo appartamento della via Gorkij, tappezzato di quadri di Chagall) che ricostruiva, finalmente, la vera storia degli uomini, degli anni e della vita sotto Stalin.

Alberto fece il lungo viaggio nei treni della Transiberiana fino al Pacifico, e discese la Volga da Mosca fino a Stalingrado. Io lo seguii qualche anno dopo, alla ricerca della periferia sovietica, fino alla Georgia. Avevamo, come amici e compagni di avventura e di scoperte, grandi giornalisti comunisti come Beppe Boffa e Maurizio Ferrara. Eravamo compagni, e amici per la vita, di grandi giornalisti occidentali come Michel Tatu di Le Monde o Marvin Kalb della Cbs.

Dopo Mosca, scrivemmo ambedue un libro sulla Russia di quegli anni (Alberto intitolò il suo La Russia del disgelo, una testimonianza rivelatrice), e poi volgemmo lo sguardo all’America di Kennedy, cronisti della crisi di Cuba ciascuno per il suo giornale. E poi fummo coautori per la Rai di una lunga inchiesta sull’«America del boom». I titoli dei libri di Alberto che seguirono sono rivelatori: Russi e cinesi, L’ultima America, il grande Atlante ideologico del 1973, Accadde in Italia: 1968-1977; e tanti altri, tappe di una vasta ricerca panoramica sull’Italia e sul mondo. Quando divenne direttore della Stampa lo seguii come inviato e notista politico ed economico, e quando lui lasciò la direzione di quello che era definito «un giornale d’autore», Gianni Agnelli chiese a me di succedergli, nel segno della continuità. Agnelli era più vecchio di noi di pochi anni, in qualche modo fu, oltre che uno straordinario, insuperato proprietario di giornale, un compagno di interessi, di curiosità, di vita.

Non posso allungare troppo questo mio ricordo, rischio di non finire più. Alberto fece in tempo a diventare ministro dei Beni culturali nei governi Amato e Ciampi, inventore, come elemento interpretativo della vita politica italiana, del «fattore K». Ma era un giornalista a tutto campo. Ancora oggi penso che il più bell’articolo di tutta la sua vita fu la cronaca della tragedia degli aviatori italiani massacrati a Kindu. Una curiosità giornalistica insaziata. Una scrittura concreta, intensa, inarrivabile. Un orrore del sensazionalismo. Un severo rispetto dei fatti. Un’intelligenza penetrante, una memoria invidiabile, una solidità di principi, di valori, di idee, di interessi che serviva un approccio concreto alle cose del mondo. Una volta mi disse che aveva sempre pensato alla morte. Non so se fu questo a fargli vivere con tanta intensità, con tanta vibrante intelligenza, con tanta passione tutta la sua vita.

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Ma è solo un passo, ora le riforme
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2010, 11:02:46 am
21/3/2010

Ma è solo un passo, ora le riforme

   
ARRIGO LEVI

Non so quanta parte del messaggio indirizzato dal Papa «ai cattolici d’Irlanda» con la sua lunga e tormentata lettera pastorale giungerà al grande pubblico, in Irlanda o nel mondo.
Il tema è quello degli «atti peccaminosi e criminali e del modo in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati».

Ma in troppi altri Paesi sono esplosi analoghi scandali. Il Papa si duole che si sia voluto nasconderli, che vi sia stata «una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali». E anche se è vero che «il problema dell’abuso dei minori non è specifico né dell’Irlanda né della Chiesa», Papa Benedetto non vuol certo minimizzare la gravità particolare di atti criminali compiuti da sacerdoti irlandesi: «Vi chiedo di ricordarvi - dice il Pontefice, citando il suo amato Isaia - della roccia da cui siete stati tagliati».

A questo Papa non manca certo il coraggio. Lo sappiamo dal giorno in cui, nel 2005, Giovanni Paolo II, vecchio e malato, affidò a lui la redazione del testo per la Via Crucis del Venerdì Santo, e il mondo intero ascoltò, non senza stupore, il passaggio che diceva: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che nel sacerdozio dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanto imperdonabile il tradimento dei discepoli».

Il testo contiene quella ammissione di colpa della Chiesa, anche ai più alti livelli, che gli era stata chiesta, e questo risponderà alle attese di molti, anche se non soddisferà il suo antico amico e aspro critico, Hans Küng, che aveva chiesto un «mea culpa personale»: non in relazione ai fatti d’Irlanda ma a simili eventi scandalosi emersi in molti Paesi, e che hanno sfiorato anche il suo sacerdozio in Germania. Viene condannata «la tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari». È netto e chiaro l’invito ai colpevoli di sottoporsi «alle esigenze della giustizia».

Più aperta a discussione, anche all’interno della stessa Chiesa, appare l’analisi delle cause dell’emergere dello «sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi». Il Papa indica, come cause principali, «la rapida trasformazione e secolarizzazione della società irlandese», l’abbandono delle pratiche religiose, «l’indebolimento della fede, la perdita di rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti». Dice Papa Benedetto ai «fratelli vescovi» colpevoli di aver mancato nel condannare i crimini di abusi dei ragazzi: «La gente d’Irlanda giustamente si attende che siate uomini di Dio, che siate santi, che viviate con semplicità», e che siate «sensibili alla vita spirituale e morale di ciascuno dei vostri sacerdoti». Basterà, questo «programma», per portare a una «rinascita della Chiesa in Irlanda»? Il Papa si dice «fiducioso» che così sarà. Le sue parole solenni, e quelle che avrà modo di pronunciare nella Visita Apostolica in alcune diocesi irlandesi che ha contemporaneamente annunciato, avranno l’effetto auspicato di far superare, alla Chiesa non soltanto irlandese, la crisi che sta vivendo?

«Oportet ut scandala eveniant», è un antico detto. La denuncia dello scandalo era opportuna, anzi indispensabile. Ma non si può negare l’impressione che la lettera apostolica, ancorché meritevole, sia più che la conclusione solo un passaggio della fase critica che questo Pontificato sta vivendo. Di questa fase il Papa non è certo personalmente responsabile. Ma è a lui che la Chiesa chiederà di essere guidata in un difficile processo di autocritica, e forse di riforma, a cui questo testo ha dato soltanto l’avvio. Ed anzi è facilmente prevedibile che non mancherà chi deplorerà l’assenza di qualsiasi accenno alle ipotesi di riforma che pure si sono già levate all’interno della Chiesa stessa: a partire da quella rinuncia al celibato obbligatorio dei sacerdoti, che il Papa ha già difeso, ma che è soltanto una norma ecclesiastica dell’XI secolo. Papa Ratzinger non è che uno dei protagonisti di quel processo di «aggiornamento» della Chiesa a cui il Concilio Vaticano II ha dato inizio. In questa lettera pastorale egli dice, del «programma di rinnovamento» proposto dal Concilio giovanneo, che esso fu «a volte frainteso», e che «era tutt’altro che facile valutare il modo migliore per portarlo avanti». Lo era, e lo è ancora. Forse il Papa teologo potrebbe approfondire, con la sua grande fede e intelligenza, e con minor riluttanza di quanta ne abbia finora dimostrato, la ricerca del «modo migliore per portarlo avanti». Guardando, appunto, in avanti, e non volgendo lo sguardo, con una certa nostalgia, a un passato che non c’è più, e che non può ritornare.

Il problema - sia chiaro - non è soltanto della Chiesa cattolica, ma di tutte le correnti di pensiero, laico o religioso, di questa epoca di mutamenti profondi e incessanti. Per la Chiesa è tempo di riflettere sulle implicazioni e potenzialità di quel «relativismo cristiano» su cui grandi credenti come il Cardinale Martini hanno richiamato l’attenzione, e che è la fonte da cui la Chiesa nel nostro tempo ha tratto tanta vitalità. E ovviamente anche non pochi problemi

da lastampa.it


Titolo: ARRIGO LEVI Il dovere di festeggiare "il nostro Stato"
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2011, 11:36:42 am
28/1/2011

Il dovere di festeggiare "il nostro Stato"

ARRIGO LEVI

In cuor mio, nel momento in cui festeggio i 150 anni dell’Unità d’Italia, mi ritrovo a pensare che io festeggio soprattutto la Repubblica. Ho ripensato molto a Carlo Casalegno, in questi giorni, e ho di nuovo pensato che per lui, come per me, l’Italia, la nostra Italia, si identificava con quello che definiva «il nostro Stato», per cui ha dato coscientemente la vita; ossia con la Repubblica. So bene quanto la personalità di Carlo fosse impregnata, per istinto torinese e per studi, di storia risorgimentale e sabauda. Ma per lui, come per molti di noi della sua stessa generazione, questa storia conduceva, attraverso l’antifascismo e la Resistenza, all’Italia repubblicana.

Il fascismo ci appariva come una deviazione perversa della nostra storia, il cui componimento e naturale punto d’arrivo era «il nostro Stato».

Del resto, se io sono italiano è grazie alla nascita della Repubblica. Avesse vinto l’orrenda alleanza nazi-fascista, sarei diventato forse argentino, forse nord-americano; non israeliano (come fui un po’ tentato di fare dopo averci combattuto nel 1948), perché in quel caso non sarebbe mai nato uno Stato d’Israele, in Palestina si sarebbe chiusa la tenaglia delle armate fasciste e naziste, in arrivo da Nord e da Sud, e della «terra d’Israele» e dei suoi abitanti non sarebbe rimasta traccia. Non ho dimenticato che ci fu un momento, quando per antiperonismo ero nel carcere di Villa Devoto (non fu grande gloria: in una giornata ci finimmo dentro in 5 mila sui 18 mila studenti universitari della Buenos Aires d’allora), in cui io mi sentii, sicuramente, argentino. Ho sempre saputo che la nazionalità, ossia il senso di appartenenza a una particolare nazione, ha radici profonde. Ma so anche, per esperienza personale, che la storia può estirparle, e che la vita può far nascere nuove radici, formare una nuova identità complessa. Non contraddittoria. Anzi, più ricca.

La mia Italia è democratica e repubblicana. Certo (così mi era stato insegnato in famiglia) nasce risorgimentale. Per l’Italia unita, che li liberò dai ghetti e li fece diventare compiutamente italiani (lo divennero, allo stesso tempo, napoletani e toscani, veneti e lombardi), gli ebrei italiani, con radici più che bimillenarie in questo Paese avrebbero dato la vita. Nel 1945, come mio padre partirono volontari in tanti, con la sensazione di adempiere un dovere, forse di pagare un debito. Ma col fascismo gli italiani, e primo fra tutti il re, tradirono se stessi. Molto prima delle leggi razziali del 1938, l’Italia risorgimentale, liberale, democratica, aveva cessato di esistere. Tornò in vita con «il nostro Stato». Per questo, oggi come nel 1961, abbiamo il diritto e il dovere di festeggiare l’Unità d’Italia. Festeggiamo una storia antica, festeggiamo una realtà che noi abbiamo ricostruito.

Ricostruito e anche difeso contro un’altra esplosione di follia italiana, contro quei terroristi che Enrico Berlinguer definì (in un discorso a Modena e in una lettera del 23 settembre 1977 indirizzatami come direttore della «Stampa») dei «nuovi fascisti» («non sono definibili - mi scrisse - con alcun altro termine»). Solo dei «nuovi fascisti», comunque si autodefinissero, quale che fosse lo Stato totalitario che immaginavano di costruire, potevano tentare di distruggere «il nostro Stato», e immaginare di riuscire a farlo. Ignorando quello che ci era più caro, che era più caro agli italiani, dall’ultimo poliziotto a Paolo VI, anche della vita. Un sentimento più forte di ogni ricatto, come nelle tragiche giornate del rapimento di Moro. Ci eravamo detti: non passeranno, e non passarono. L’incubo si sciolse, più rapidamente di quanto sognassimo. Pagammo la ritrovata libertà con molti morti: 364, fra il 19 novembre 1969 e il 2 marzo 2003.

Oggi possiamo festeggiare, anche se con minore spensieratezza, come nel 1961.

Ricordo bene la Torino di quell’anno. La raggiunsi, durante una vacanza dalla mia sede di lavoro quale corrispondente da Mosca, con un viaggio di tre giorni in bicicletta (non da Mosca, per carità: dall’amata campagna modenese, dove rinvenni una vecchia bici). Trovai una città splendida per i nuovi edifici, e festante. Non immaginavo che sarebbe diventata, dopo pochi anni, e tale sarebbe rimasta, la mia città. Negli anni di piombo la «Stampa» fu Torino, Torino si riconobbe nella «Stampa». Il senso di appartenenza può essere forte, indistruttibile anche se ha radici brevi.

Così, l’Italia che festeggiamo è ancora repubblicana, antifascista, impegnativamente democratica. Un’Italia non soltanto genialmente creativa, come è sempre stata. Un’Italia seria e che lavora, non importa se governata bene o male, che si identifica con i principi e i poteri creati dalla sua Costituzione, nata, non saprei dirlo altrimenti, dalla Resistenza, miracolosamente creata in tempo brevissimo da forze politiche diverse, unite dall’antifascismo. Mi pare che chi non prova quei sentimenti non viva questo anniversario come lo vive chi li ha condivisi con famigliari e con compagni di lavoro, cari come fratelli, che per l’Italia erano stati pronti a dare la vita. Ricordo quando i cronisti mi chiesero l’onore di firmare i loro articoli (fino ad allora erano, per tradizione, senza firma, come i fondi del direttore). E sì che scrivevano ogni giorno sui fatti di terrorismo. Fra noi ci fu chi pagò con la vita la sua fedeltà al «nostro Stato». È grazie anche a lui se noi, oggi, festeggiamo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8344&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ARRIGO LEVI Finite le illusioni di Israele
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2011, 05:09:04 pm
2/2/2011

Finite le illusioni di Israele

ARRIGO LEVI

L’invito a «sostenere Mubarak», rivolto da Israele agli Stati Uniti e ai Paesi europei, non sembra davvero una reazione adeguata alla potenziale estrema gravità, per lo Stato ebraico, di un cambiamento di regime in Egitto. L’atteggiamento dominante, e il solo per ora possibile, a Washington come nelle capitali europee, è di «wait and hope», aspettare e sperare. Nessuno, in Occidente, può o avrebbe potuto «sostenere Mubarak»: e come? Mandando cannoniere di fronte ai porti egiziani? L’Occidente altro non può fare che aspettare gli sviluppi di quelle che sono ancora le fasi iniziali di una vera e propria rivoluzione, di cui nessuno può prevedere gli sviluppi; e auspicare, dichiarandolo apertamente, che essa conduca alla nascita di una democrazia egiziana, e non alla fondazione di un «Medio Oriente islamico che faccia finalmente i conti con Israele», come si augura il governo iraniano.

Contare su un intervento occidentale che rafforzi Mubarak è assurdo, sembra piuttosto l’espressione di uno Stato di confusione del governo di Netanyahu di fronte a un potenziale stravolgimento, ai danni d’Israele, di tutto il quadro mediorientale, che ha ancora nell’irrisolto conflitto israelo-palestinese uno dei suoi nodi centrali. La trentennale pace con l’Egitto era rimasta, a livello popolare, una «pace fredda». Ma aveva assunto i caratteri di una vera e propria alleanza contro la minaccia di un islamismo estremista, che si manifestava concretamente anche nella ostilità dell’Egitto al potere di Hamas a Gaza. Non sembra ragionevole, da parte israelita, una reazione analoga al «wait and hope» dell’Occidente: una «non politica», che in questa fase d’incertezza può anche rappresentare la scelta più saggia per l’Europa o l’America, ma una scelta che Israele, che ha ben altro in gioco, non può permettersi.

Israele, o meglio l’Israele dell’alleanza fra destra politica e religiosa guidata da Netanyahu, poteva anche pensare che la sostanziale inazione diplomatica, e la continuazione dell’espansione nei territori occupati, rappresentasse una politica comoda e non rischiosa nei confronti di un mondo palestinese diviso e privo di sostanziali appoggi dal mondo arabo e islamico: a patto, beninteso, di non guardare troppo in avanti nel tempo, e di illudersi che una Palestina sempre più debole avrebbe finito per doversi accontentare di una pace imposta a qualsiasi condizione. Se sono vere le rivelazioni di Al Jazeera, l’atteggiamento rinunciatario dei negoziatori palestinesi poteva giustificare queste illusioni. Ma l’alleanza con l’Egitto era la premessa necessaria di questa politica, in verità ingiusta nei confronti del popolo palestinese, e miope da parte di uno Stato d’Israele che troverà la finale garanzia del suo avvenire storico soltanto nella nascita di uno Stato palestinese che offra il giusto riconoscimento alle ragioni del popolo palestinese. Se gli Ebrei hanno continuato a dirsi per duemila anni «l’anno prossimo a Gerusalemme», perché mai i Palestinesi, con alle spalle un grande mondo arabo e islamico, dovrebbero dimenticare in tempi brevi il sogno di una loro patria?

Dunque, che può fare Israele? Da più parti l’avvio della rivoluzione egiziana ha indotto diversi osservatori a chiedersi se proprio il venir meno della «colonna della pace» che aveva base al Cairo non possa avere l’effetto sorprendente di spingere Israele, nel timore di un proprio ulteriore isolamento, a rilanciare il negoziato in sospeso con i Palestinesi, dimostrando la necessaria disponibilità alle concessioni, indispensabili per un accordo, sulla cessazione dei nuovi insediamenti come sull’accettazione di una capitale palestinese nelle zone a popolazione araba della grande Gerusalemme. (Del resto, nella Gerusalemme storica, dentro le antiche mura, non ci sono né il Parlamento né la Presidenza né gli essenziali organi di governo neppure dello Stato d’Israele).

Ma per ora questo è soltanto un auspicio. Anche l’opportunismo istintivo di un politico abile come Netanyahu non sembra all’altezza di una tale svolta politica. La speranza che la rivoluzione egiziana porti alla nascita di una democrazia laica egiziana è forse ancora meno audace della speranza che l’annuncio, che comunque viene dal Cairo, di una nuova era di instabilità e imprevedibilità di tutto il mondo arabo-islamico (non sappiamo se e dove si fermerà l’ondata rivoluzionaria, dopo la Tunisia e l’Egitto), spinga questo governo israeliano a una iniziativa a sorpresa per condurre proprio ora al successo il negoziato con i Palestinesi. Gli osservatori meno ottimisti temono l’effetto opposto di un ulteriore rinchiudersi d’Israele dietro l’illusoria sicurezza del muro di protezione ai confini dello Stato.

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Titolo: ARRIGO LEVI Ricordo e memoria per guardare avanti
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2011, 10:19:51 am
12/2/2011

Ricordo e memoria per guardare avanti

ARRIGO LEVI

Avendo ascoltato il saggio, illuminato intervento di Enzo Bettiza al Quirinale, in occasione del «Giorno del Ricordo», e avendo assistito ancora una volta, qualche settimana fa, alla celebrazione della «Giornata della Memoria», mi ha colpito una certa, inevitabile e direi quasi radicale diversità nelle riflessioni che l’una e l’altra occasione suscitano in chi viene chiamato a trarre un insegnamento dalla rievocazione di quei tragici eventi di un nostro non lontano passato.

Se si riflette sulle stragi degli italiani in Istria, sull’orrore delle foibe, si è portati ad auspicare (non per buonismo, ma con spirito realistico), una piena riconciliazione fra popoli e comunità che furono responsabili, dall’una come dall’altra parte, di orribili atrocità. E’ questo che ci hanno detto non soltanto Bettiza, ma il presidente Napolitano, con motivata convinzione. Ed anzi, si può prendere atto, con ragionato compiacimento, che questa riconciliazione è già stata avviata: non già seppellendo il ricordo di quanto è accaduto (come potrebbero gli italiani dell’Istria e della costa dalmata dimenticare la loro terra perduta?), ma prendendo atto, appunto nel «Giorno del ricordo», del fatto che un nuovo grande ideale politico, quello dell’Europa unita, si sta realizzando; e che nel quadro di questo progresso di civiltà il ripetersi di quelle tragedie è già divenuto impossibile, inimmaginabile. Sicché, a Gorizia divisa in due ci si può guardare con spirito di amicizia attraverso una frontiera di fatto cancellata dalla comune appartenenza all’Europa; e i capi di stato dei tre Paesi eredi di quel tragico passato - Italia, Slovenia, Croazia - possono, come è di fatto accaduto, proclamare la ritrovata amicizia fra i loro popoli. Rimane certo profonda amarezza nell’animo degli eredi di coloro che furono vittime incolpevoli di quelle non lontane barbarie; ma è giusto cogliere l’occasione del «Giorno del Ricordo» per guardare avanti, ed anzi per rallegrarsi del fatto che stiamo già scrivendo, tutti insieme, una nuova pagina di storia.

La riflessione che tutti continuiamo a fare, quando, nella Giornata della Memoria, riflettiamo sulla Shoah, e sull’insegnamento che da questa riflessione si può trarre, è molto diversa. Nessuno immagina, o propone, una «riconciliazione». E con chi? Con il nazismo o il fascismo? No di certo. Ma riesce difficile anche parlare di una riconciliazione fra i popoli: e soprattutto fra ebrei e tedeschi. Ricordiamo bene con quanto disagio questa riconciliazione venne proposta e compì i primi passi, fin dai primi anni dopo la creazione dello Stato d’Israele: che assunse automaticamente, e con il consenso di tutte le comunità ebraiche sparse per il mondo, la responsabilità di avviare un percorso di riconciliazione, per quanto inimmaginabile all’inizio apparisse.

Occorse, da parte ebraica, un ragionato, difficile sforzo per distinguere fra Stato nazista e popolo tedesco; fra le responsabilità del nazismo e quelle della Germania: Paese che la vasta, colta e influente comunità ebraica tedesca, prima di Hitler, aveva accettato come propria patria, dando un grande contributo alla storia tedesca. Si narra di ebrei tedeschi che, anche nei lager avevano continuato a tener viva la propria identità culturale tedesca: come dimenticare quella grande civiltà, di cui erano stati partecipi? Gli ebrei d’Israele, forti della loro nuova identità di popolo e di Stato, riuscirono a fare il primo passo verso la Germania; e gradualmente ritornò anche, in Germania, una nuova comunità ebraica, che certo non ha dimenticato, ma si è riconosciuta in una nuova Germania, che ha, sinceramente e con significative manifestazioni, rinnegato con orrore il passato nazista.

Ma tutto ciò non cancella la profonda diversità di una riflessione sulla Shoah da ogni altra occasione di ricordare le vergogne di un non lontano passato. Non è alla presa d’atto di una pur sincera «riconciliazione» fra ebrei e tedeschi, o fra gli ebrei e tutti gli altri popoli europei, non escluso quello italiano, che contribuirono in maggiore o minor misura al disegno di morte nazista, che possiamo affidarci per ritrovare la serenità dentro di noi. Coltiviamo giustamente, in ognuno di questi Paesi, la memoria dei Giusti che, salvando a rischio della loro vita gli ebrei cui si dava la caccia, hanno salvato anche il nome e la coscienza dell’Italia, o della Francia, o della Polonia. Eppure, non riusciamo a trovare, neppure nella memoria dei Giusti, una pacificazione della nostra coscienza. Dichiariamo, come è giusto, che teniamo vivo il ricordo di questo orrore «affinché non possa mai ripetersi». Ma fatichiamo a convincerci che le radici di ciò che fu la Shoah siano state per sempre estirpate, anche dopo la «riconciliazione» fra il popolo ebraico e gli altri popoli.

E non perché vi siano ancora nel mondo manifestazioni vistose di antisemitismo, che vi sono. Ma perché, come uomini, non importa di quale nazionalità, ci sentiamo tutti colpevoli, tutti tedeschi. Possiamo, con piena fiducia, riconciliarci con noi stessi? Se vi sono stati rabbini che, dopo la Shoah, hanno cessato di credere in Dio, noi non possiamo non mettere in discussione, nel fondo della nostra anima, la nostra fede nell’umanità. Così, in ogni Giornata della Memoria, si riaffaccia alla nostra coscienza un dubbio che non ci dà pace.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: ARRIGO LEVI Gorbaciov, ha 80 anni l'uomo che archiviò l'Urss
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2011, 11:06:10 pm
2/3/2011

Gorbaciov, ha 80 anni l'uomo che archiviò l'Urss

ARRIGO LEVI

Mikhail Sergeevic Gorbaciov compie oggi 80 anni. Per prima cosa vorrei fargli i più caldi auguri.

Con spirito che credo di poter definire di amicizia, con la sommessa speranza che la sua vita politica non sia ancora compiuta, e che egli possa ancora dare un contributo personale significativo alla storia di una Russia che oggi sembra aver perso gran parte di quello che era stato lo spirito innovativo dell’ultimo della dinastia degli zar rossi, che si era iniziata con Vladimir Ilic Lenin.

So bene che Gorbaciov è popolare nel mondo ma non in patria, e che la speranza che ho espresso ha scarsissime possibilità di avverarsi. Ma quando si parla della Russia, uno dei «miei» Paesi, e tra i più cari, non cesserò mai di sperare in un pieno ricongiungimento della grande Russia con quel mondo europeo e occidentale cui essa appartiene. Sogno ancora, come una volta disse il Segretario di Stato Usa James Baker, «la creazione di un grande anello di popoli e Stati amici, che vada dallo Stretto di Bering allo Stretto di Bering».

Se, pensando a Gorbaciov, non penso solo al passato, ma anche al futuro, è perché ho bene in mente il testo del suo ultimo discorso da Presidente dell’Urss: quando (era il 25 dicembre 1991), rivendicò tutte le sue conquiste, a cominciare da quella «più importante di tutte» e di cui (aggiunse) «non abbiamo ancora imparato a fare buon uso... La società ha ricevuto la libertà ed è stata emancipata, politicamente e spiritualmente». E ancora: «E’ stata posta fine alla Guerra Fredda, e la corsa agli armamenti e la folle militarizzazione del Paese è stata fermata... Ci siamo aperti al mondo e abbiamo rinunciato a interferire negli affari degli altri...».

E questo mi riporta a quella che fu, come poi Gorbaciov mi ha raccontato in uno dei nostri incontri, la sua prima decisione come Segretario Generale, il giorno stesso dei funerali del suo predecessore, Konstantin Cernenko, il 12 marzo 1985. E cito: «La mia decisione venne presa e comunicata ai dirigenti del Patto di Varsavia nell’incontro che si tenne quel giorno. Con me c’erano Tychonov e Gromyko. Già allora dissi loro: d’ora in poi dovete partire dal presupposto che siete totalmente responsabili dei vostri Paesi, siete liberi, indipendenti, e noi sosteniamo il principio della non ingerenza». Un po’ stupito replicai: «Vièrili?» (Le credettero?). Rispose: «No, ne vièrili, non ci credettero, ma noi non cambiammo mai rotta».

La sua prima battuta da GenSek, come poi ha raccontato l’amico a cui l’aveva detta, fu: «Tak prodolzhal nelziù», così non si può andare avanti. Ma aveva idee imprecise su come si potesse «andare avanti». La risposta si riassumeva, nella sua mente, nelle due parole: «perestrojka» (lui stesso scrisse, nel libro così intitolato, «la perestrojka è una rivoluzione») e «glasnost», ricostruzione e apertura. Ma il risultato finale fu (uso ancora le sue parole) che «il vecchio sistema crollò prima che un nuovo sistema avesse avuto il tempo per incominciare a funzionare». Invece di salvare il comunismo e l’Unione Sovietica, che era rimasta «sempre più indietro rispetto ai popoli dei Paesi sviluppati... soffocata com’era sotto la stretta del sistema burocratico di comando», la sua rivoluzione portò alla fine del comunismo e dell’Urss. Pensava all’inizio «che avremmo ridato ossigeno al sistema, e che l’unione del socialismo con la democrazia fosse ciò di cui avevamo bisogno». Era giusto pensarla così. Ma l’uomo propone, e la storia dispone.

Noi occidentali avevamo aspettato così a lungo l’arrivo di un Gorbaciov che alzasse l’ombra fosca che la seconda superpotenza proiettava sulle speranze di un futuro di pace nel mondo, che quando arrivò per un po’ di tempo faticammo a credergli. Bisognò arrivare al suo incontro con Reagan a Ginevra del novembre 1985 perché tutti, compreso Reagan, gli credessero. Prima si poteva pensare (era una battuta di Gromyko) che fosse un uomo «dal bel sorriso ma dai denti d’acciaio». Ma in quell’incontro Ronald e Mikhail con sorpresa si accorsero che potevano andare d’accordo. «Mi accorsi che Reagan (cito quanto mi disse anni dopo Gorbaciov) era una persona incantevole. Capimmo subito che potevamo dire: si sono incontrate due persone normali». Da parte sua, Reagan mi disse (nell’intervista che ebbi con lui alla Casa Bianca nel marzo 1988): «Trovai che potevamo discutere i problemi, e in modo cordiale. Gorbaciov era tutto diverso dai suoi predecessori con cui avevo avuto a che fare, e che continuavano a morire».

Così, il giorno dopo quel loro primo incontro ci fu la scena madre, davanti a noi giornalisti che riempivamo la platea di un grande teatro, del loro ingresso sul palcoscenico, venendo uno da una parte uno dall’altra, per stringersi calorosamente e lungamente la mano. Noi giornalisti, venuti da ogni parte del mondo, scanzonati e scettici com’eravamo, esplodemmo in un grande applauso. E il mondo intero (non lo dimentichiamo, checché sia poi accaduto o possa accadere) tirò un grande sospiro di sollievo. Noi non abbiamo dimenticato.

Buon compleanno, Mikhail Sergeevic.

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Titolo: ARRIGO LEVI Israele e il risveglio arabo
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2011, 10:45:30 am
12/3/2011

Israele e il risveglio arabo

ARRIGO LEVI

Amos Oz e Sari Nusseibeh, due delle più alte coscienze d'Israele e Palestina, si sono trovati d'accordo nell'affermare, in un recente incontro, che «un accordo di pace è possibile». Ma hanno anche detto che per arrivarci occorre da parte israeliana (Oz) «una svolta emotiva», e che bisogna che emerga in entrambe le società (Nusseibeh) «qualcosa di nuovo, un leader, o qualcosa che abbatta la barriera, un po' come un mago politico». Certo, si sono fatti dei passi avanti: oggi Netanyahu, quando accetta pubblicamente la soluzione dei due Stati (Oz) «è più a sinistra di quanto fosse Golda Meir negli Anni 70». Anche da parte palestinese la soluzione dei due Stati è oggi accettabile (Nusseibeh) mentre «se uno lo avesse detto nel '67 gli sparavano addosso». Però nessuno dei due crede la pace vicina. E la rivoluzione araba, o il «risveglio arabo» come di nuovo si dice, non sembra aver avvicinato un tale miracoloso evento.

Finora, e questo è giudicato un fatto positivo, non si è verificato un contagio, fra i palestinesi, né a Gaza né nella West Bank, della rivolta popolare che ha già investito Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen, Arabia Saudita e in futuro chissà chi altri. Quanto a Israele, vi è chi (Shimòn Peres e l'opposizione), ha dichiarato che questo è il momento giusto per una seria iniziativa israeliana che rimetta in moto il negoziato di pace. Ma da parte del governo non si è andati al di là della diffusione ufficiosa dell'«intenzione di proporre un accordo interinale che conduca verso la soluzione dei due Stati»; accompagnata peraltro dalla solenne dichiarazione di Netanyahu che comunque Israele dovrà mantenere, anche dopo una pace, la sua presenza militare sul Giordano (i palestinesi accetterebbero, forse, soltanto una forza internazionale). Questa presenza, ha detto il Premier israeliano, è oggi tanto più necessaria, visto «il terremoto politico che si è verificato e di cui non abbiamo visto la fine».

Insomma, almeno finora non sembra proprio che la rivoluzione araba (che, fra la sorpresa generale, ha finora ignorato, in tutti i Paesi coinvolti, una evocazione della questione palestinese), abbia modificato l'atteggiamento piuttosto passivo della destra israeliana, oggi saldamente al governo, sul rapporto con i palestinesi. Israele è sì preoccupato di ciò che potrebbe accadere in Egitto e in Giordania. Ma non sembra proprio temere per il suo futuro. Fra l'altro, si prepara a diventare, entro il 2015, un robusto esportatore di petrolio, tratto dai vasti giacimenti sottomarini scoperti al largo delle coste israeliane. E' probabile che il governo di Netanyahu si senta in prospettiva meno dipendente dagli aiuti americani, e giudichi quindi meno e non più urgente un accordo di pace con i palestinesi.

Certo, il «terremoto politico» e i suoi imprevedibili sviluppi tengono Israele in allarme: vedi l'ingresso nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane, con attraversamento, peraltro legittimo, del Canale di Suez (ma con Mubarak al potere non era mai accaduto). Nessuno sa se nel futuro degli Arabi ci saranno delle democrazie, o dei regimi militari, o delle guerre civili, o delle buone occasioni per un'avanzata del fondamentalismo terrorista. Ma nei confronti dei palestinesi, apparentemente ancor più dimenticati da un mondo arabo in subbuglio, Israele si sente forse ancora più forte. La proposta di qualche giorno fa del Ministro degli Esteri britannico William Hague, che l'Occidente eserciti le più dure pressioni su Israele perché accetti subito condizioni ragionevoli (sui confini, sugli insediamenti, sui profughi palestinesi, su Gerusalemme), per far pace con i palestinesi, non sembra convincere l'America: il solo Paese che possa portare Israele al tavolo di un nuovo negoziato. Il fatto è (ed è forse il fatto più importante: un'osservazione che debbo a Vittorio Segre), che d'un tratto la questione palestinese non è più vista come il motivo dominante della «crisi del Medio Oriente». E forse non lo sarà per molto tempo: la fase storica di grandi sconvolgimenti che si è aperta nel mondo arabo non giungerà certo rapidamente a conclusione. Che importa dei palestinesi?

E tuttavia, gli Ebrei (che sono tornati a Gerusalemme dopo aver continuato per due millenni a dire: «l'anno prossimo a Gerusalemme»), non possono illudersi che i palestinesi dimentichino d'un tratto (cito parole di Amos Oz, che è difficile non condividere), che «la Palestina è la patria dei palestinesi come la Norvegia è la terra dei norvegesi, e che viene loro chiesto il sacrificio enorme di cedere parte della loro patria». Tale è, certo non meno di quanto sia la patria degli ebrei, in virtù della loro fatale storia millenaria. Non vi è nulla di così tragico come lo scontro fra due diritti, fra due ragioni. Tuttavia, dice Nusseibeh, che è il discendente di una stirpe aristocratica dominante da secoli a Gerusalemme: «Ciò cui bisogna rinunciare sono certi articoli di fede, e ciò è molto doloroso. Eppure non credo che sia un problema insormontabile. E' completamente insensato per i palestinesi e per gli israeliani continuare a infliggere dolore all'altro».

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Titolo: ARRIGO LEVI Il ricordo di un servitore dello Stato
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2011, 05:10:31 pm
15/3/2011

Il ricordo di un servitore dello Stato

ARRIGO LEVI

Alberto Ruffo, calabrese, consigliere di Stato, mancato improvvisamente per un imprevedibile infarto domenica sera, all’età di settant’anni, nella sua residenza di Milano, è stato, fino al suo ultimo giorno, uno dei più autorevoli collaboratori di due presidenti della Repubblica: Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano.

Già commissario del governo nella Regione Lombardia, quindi Prefetto di Vercelli, di Novara, di Modena e di Firenze, è stato un rappresentante esemplare della categoria dei Prefetti; un servitore dello Stato la cui intelligenza e il cui costante impegno civile hanno dato, in tutte le cariche che ha ricoperto, un contributo determinante all’efficienza delle istituzioni pubbliche che si sono valse della sua opera.

Chi ha avuto la fortuna di lavorare per oltre un decennio al suo fianco alla Presidenza della Repubblica ha trovato nella sua straordinaria vigoria intellettuale e fisica, nel suo tranquillo rigore nell’adempimento dei compiti che gli venivano di volta in volta affidati, come nella sua conoscenza profonda della realtà italiana, motivo di fiducia in una burocrazia, di cui assai poco si parla, silenziosa e profondamente impegnata, motivata dall’amore per il proprio lavoro al servizio della società.

Gli innumerevoli viaggi compiuti insieme con lui, in preparazione di visite presidenziali in tutte le regioni d’Italia, hanno offerto ripetute, vivide prove della vitalità e creatività di quelle realtà imprenditoriali, culturali e civili della provincia italiana, spesso poco conosciute, che sono la forza profonda della nostra società e della nostra economia.

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Titolo: ARRIGO LEVI Addio a Campagnolo Bouvier benemerita della cultura
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2011, 05:06:06 pm
14/4/2011

Addio a Campagnolo Bouvier benemerita della cultura

ARRIGO LEVI

Si è spenta a Venezia, all’età di 82 anni, Michelle Campagnolo Bouvier, segretario generale internazionale della Società Europea di Cultura, insignita dal governo italiano della medaglia d’oro ai benemeriti della cultura. Aveva combattuto, da alcuni anni, la malattia che l’aveva colpita con la stessa energia con la quale aveva promosso, fino alla sua scomparsa, le iniziative della Sec, miranti, dal giorno della sua fondazione più di mezzo secolo fa, a promuovere un dialogo di pace tra gli uomini di cultura di tutta Europa e d’America.

La società creata da Umberto Campagnolo, primo segretario, dopo la guerra, del Movimento Federalista Europeo in Italia, era riuscita, con la partecipazione di personaggi illustri di ogni Paese, a fare incontrare «l’Est e l’Ovest» anche nei momenti più critici della guerra fredda e dei rapporti fra gli Stati. Un dialogo costruttivo, che aveva affrontato tutti i difficili problemi del mondo del secondo dopoguerra, era stato mantenuto sempre vivo, e ne avevano dato continua testimonianza le pagine della rivesta della Sec, «Comprendre», oggi diretta da Giuseppe Galasso, le cui pubblicazioni sono riprese recentemente. Norberto Bobbio aveva dato, accanto a Campagnolo, un contributo particolarmente rilevante alla formulazione di quella che è stata definita la «politica della cultura», con i suoi interventi, poi raccolti in volume, ai congressi periodici della Sec.

Dopo la scomparsa del fondatore, la Sec, oggi sotto la presidenza di Vincenzo Cappelletti, e grazie all’opera instancabile di Michelle Campagnolo, aveva continuato a promuovere incontri che anche negli ultimi anni, in momenti fortunatamente più sereni e più favorevoli a un dialogo di dimensioni ormai globali, hanno saputo affrontare in modo costruttivo le nuove opportunità, così come i problemi vecchi e nuovi che si propongono agli uomini di cultura impegnati nella costruzione di rapporti di pace fra tutte le nazioni.

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Titolo: ARRIGO LEVI Ciampi: "Indebolita l'integrità di persone e istituzioni"
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2011, 05:35:48 pm
Politica

22/04/2011 - COLLOQUIO

Ciampi: "Indebolita l'integrità di persone e istituzioni"

«La mia generazione ha fatto errori, ma oggi Merkel e Sarkozy non hanno visione»

ARRIGO LEVI

Ho ricordato a Carlo Azeglio Ciampi, incontrandolo ieri mattina nel suo severo studio a Palazzo Giustiniani, alle spalle del Senato (fuori, in una Roma quasi estiva, fra palazzi e chiese, c’erano folle di turisti vocianti in tutte le lingue europee) alcune delle tante dichiarazioni di morte imminente dell’Europa che si leggono oggi su giornali italiani, europei, americani. Le conosceva già, e mi ha interrotto con una battuta, che poi ripeterà: «Assistiamo a un decadimento morale, sia nell’etica individuale che nell’etica istituzionale. Si dimentica la frase di Vincenzo Cuoco: Alla felicità degli uomini sono più necessari gli ordini - noi diremmo le istituzioni - che gli uomini».

Ma perché la crisi economica europea? Gli ho ricordato una sua antica battuta: facendo l'euro, si è creata una «zoppia». Che cosa dobbiamo intendere?
«La zoppia è stata una colpa di tutta l'Europa. Non si è accompagnato alla moneta unica, che è un fatto federativo, una politica economica europea. L’eurogruppo, il gruppo dei Paesi dell’euro, non si è mai istituzionalizzato, non ha mai assunto poteri decisionali cui tutti debbano adeguarsi. Questa è la zoppia di cui ha sofferto l'Europa. E poi, a una crisi mondiale, definita epocale, si è risposto con misure congiunturali. C'è stata una asimmetria fra la crisi e la risposta, che doveva prevedere rimedi anch’essi epocali, cioè strutturali. Quanto all'Italia, e non solo all'Italia, si è indebolita l'integrità delle persone e delle istituzioni. Ma se questo manca, manca tutto. Prevale la logica del successo immediato, misurato in termini di successo puramente economico».

Ho osservato che, almeno in linea di principio, la pericolosità della «zoppia» oggi è stata riconosciuta dall’Unione Europea, anche se i rimedi, consistenti in un severo coordinamento delle politiche economiche nazionali, stando al «Financial Times», sono progettati per un futuro troppo lontano.
«In linea di principio il riconoscimento c'è stato, ma non nelle procedure. Di fatto, non c'è stato il governo dell’Europa».

Gli ricordo che quando discutemmo questi stessi problemi nel nostro libro-intervista, mi disse: «Penso che se fossero rimasti in carica per qualche anno di più alcuni ministri che avevano vissuto la creazione dell’euro, avremmo compiuto il passo indispensabile di far corrispondere alla Banca Centrale Europea un governo unico, coordinato, dell’economia europea, con alcuni poteri sovrannazionali». Chiedo: dobbiamo dedurne che la colpa di questa crisi europea è delle persone, della Merkel, di Sarkozy, di Berlusconi?
«No, non solo loro. Certo, in loro è mancata la visione, è mancato un respiro veramente europeo. In questo c'è colpa, una mancanza di principi. Ma ricordiamo lo spirito col quale firmammo in Campidoglio il Trattato Europeo, nel 2004. Facemmo allora due errori. Anzitutto, avremmo dovuto fare prima il nuovo trattato, e poi aprire l'Europa ai Paesi nuovi. In secondo luogo, la Commissione Giscard aveva fatto un documento che non andava, che non finiva mai. Ci voleva un documento snello, nervoso, di contenuto, che giustificasse la rinuncia della Germania al marco tedesco, che fu un fatto straordinario. Invece avevano fatto un documento diluito, senza nerbo».

Ciampi rende qui omaggio a quella che fu la visione di Kohl. Ricorda che quando incontrò per la prima volta, da Presidente del Consiglio, il Cancelliere Kohl, si trovarono a dire la stessa cosa: se noi, la generazione che ha fatto la guerra, non creiamo una moneta unica europea, la generazione successiva non la farà più. Fu ancora un Kohl capace di visione a decidere, al momento dell’unificazione tedesca, il cambio di parità fra il Marco della Germania dell’Ovest e quello della Germania Est, invece del cambio di due marchi dell’Est per uno dell’Ovest, come avrebbe voluto la Bundesbank: che aveva ragione sul piano economico, non su quello politico. Il ragionamento di Kohl fu: «non possiamo umiliarli», e politicamente aveva ragione.
«Quella decisione, come la scelta di non volere un'Europa che si allineasse al marco tedesco, ma una moneta europea, l'euro, furono tutte due scelte prese da chi aveva una visione, da uomini che non cedevano al loro elettorato. A confronto degli uomini d'oggi, erano dei giganti. E poi, trattati come quello di Roma non si approvano con dei referendum, si fanno ratificare dai Parlamenti. Se il trattato fosse stato ratificato dai Parlamenti della vecchia Europa, i nuovi Stati membri sarebbero stati ammessi in base a un trattato già definito. Questo, alcuni non lo capirono».

Guardando all'attuale disamore per l'Europa di molti popoli europei, compreso, a quanto sembra, il popolo italiano, dobbiamo chiederci in che cosa noi, i vecchi, abbiamo sbagliato? Perché non abbiamo saputo trasmettere il ricordo di quello che fu l'Europa delle guerre e dei lager? Che risposta mi dai?
«Mi chiedi come si possa tenere viva la lezione della storia. Ma questo è un problema eterno. Sta a noi tutti affrontarlo, ma soprattutto a chi ha delle responsabilità istituzionali. E sta ai popoli scegliersi dei leader che abbiano una visione storica alta. Il voto va utilizzato bene».

Qualcuno, gli ricordo, ha parlato con leggerezza di «andarsene dall’Europa». Il Direttore della «Stampa», Mario Calabresi, rispondendo a un lettore che questo proponeva, gli ha fatto osservare che l’Europa non è una bocciofila a cui si restituisce la tessera in un momento di stizza, l'Europa è nata per un’esigenza di pace dopo due guerre mondiali con decine di milioni di morti; e poi, stiamo in Europa anche perché ci conviene in termini economici. Secondo Ciampi, che effetto avrebbe, sull’Italia, andarsene dall’Europa?
«Andarsene non è possibile. E se fosse possibile, avremmo in Italia una decadenza, prima economica e poi morale. Immaginiamo che cosa sarebbe l'Italia da sola nel vasto mare dell’economia globale! Quando scegliemmo l'euro, invece di scegliere l'Europa del Deutsche Mark, lo facemmo, come dice Machiavelli, un po’ grazie alla Fortuna, un po’ grazie alla Virtù. Diciamo 50 e 50. Machiavelli diceva che la Fortuna è femmina, e che bisogna batterla»

Batterla come?
«Picchiarla».

Chiedo se ritenga possibile la fine dell'Euro.
«No, mai. Ho detto tante volte che l'euro è una strada di non ritorno. Fatto l'euro, non si può più tornare indietro. Piuttosto bisogna andare avanti. Per questo ci vogliono le persone giuste, ispirate da giusti valori. Ovidio dice (la citazione, dalle Metamorfosi, è ovviamente in latino. La troverai facilmente, mi dice: io vado un po’ a braccio): Agli animali fu dato un muso che guarda a terra, agli uomini fu concesso un volto che guarda in alto, e fu ordinato di alzare lo sguardo al cielo e alle stelle. Purtroppo, per ora noi Europei non stiamo andando avanti.

Concludo: in un altro libro intervista, dopo il nostro, tu hai detto che l’Italia d’oggi «non è il Paese che sognavo». Deduco, da quanto mi hai detto, che anche questa Europa non è l’Europa che sognavi. Ma allora, questo vuol dire che temi anche tu la fine dell’Europa?
«No, no. Ho ancora fiducia nell’Europa. Perché è l'unica via per dare un futuro alle giovani generazioni. Anche in loro ho fiducia».

da - lastampa.it/politica/


Titolo: ARRIGO LEVI L'Italia che resiste
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2011, 11:59:10 am
10/5/2011

L'Italia che resiste

ARRIGO LEVI

Ma l’Italia, cos’è? Immagini dell’Italia diverse, anzi contraddittorie, mi sono state proposte, per una serie di casuali coincidenze, in questi ultimi giorni. Mi è accaduto di rivivere al Quirinale le giornate tremende dell’assalto delle Br al «nostro Stato».

Ho ritrovato nei discorsi pronunciati dai figli di alcuni dei giudici che furono tra le vittime della violenza terroristica, come nella riflessione del Capo dello Stato, mosso a commozione dai ricordi, quell’istintivo orgoglio che allora ci permise di dire con certezza, anche nei momenti più foschi, «non passeranno».

Il giorno prima avevo partecipato a Trieste ai funerali di Corrado Belci, già profugo istriano, creatore del «Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico», già deputato democristiano, che era stato, accanto a Zaccagnini, uno di quei politici d’una volta, motivati sempre e soltanto da ideali sinceri e senso del dovere, di cui oggi anche chi non ha mai votato Dc o Pci sente una pungente nostalgia. Belci era un cristiano vero, che non aveva mai odiato nessuno, che aveva sempre lavorato per la riconciliazione fra popoli già nemici, e che nel Collegio di Duino, con i suoi duecento studenti provenienti da ogni parte del mondo, aveva dato la sua risposta creativa alla sfida terribile del Ventesimo Secolo. C’eravamo, a dirgli addio, centinaia di amici: per sua volontà, la sua commemorazione non era affidata ad autorità o noti personaggi, ma solo alle sentite parole di un vecchio e solido vescovo, che aveva officiato una cerimonia semplice e intensa, con la forte partecipazione dei presenti. Intanto mi erano giunte da Torino telefonate spontaneamente entusiastiche di quelle che erano state le «giornate alpine» di questa nostra città (si perdoni l’aggettivo a un modenese che l’ha sentita decisamente sua in anni molto difficili, che avevano messo a dura prova - prova assai ben superata - la salda identità torinese). Persone di cui avevo sempre ammirato la piemontese compostezza ammettevano di avere ceduto a entusiastiche acclamazioni e di avere lanciato grida di «viva l’Italia» al passaggio di storiche bandiere di guerra.

E’ poi accaduto che sul «Corriere della Sera» un osservatore non ottimista per natura, ma sicuramente sincero, Ernesto Galli della Loggia, venisse indotto a riflettere sull’entusiasmo e lo spirito identitario forte degli Inglesi, in occasione di un matrimonio reale, e degli Americani, alla notizia che un capo terrorista e pluriassassino era stato rintracciato e giustiziato dopo una caccia durata anni. Confrontando con questi comportamenti di popoli forti della loro identità nazionale e democratica gli atteggiamenti distratti e annoiati che gli era accaduto di osservare, in Italia, in occasione anche di solenni funerali di Stato, l’amico Ernesto si trovava a riflettere, con una nota di sincero accoramento, sulla reale natura di un Paese, il nostro, che «fatica moltissimo a trovarsi unito in un sentire collettivo, che non poggia su alcun patrimonio ricevuto di ritualità e di forme pubbliche consacrate». E amaramente concludeva definendo l’Italia «un Paese senza identità».

Una consuetudine ormai pluriennale di pubbliche cerimonie, fino all’ultima che ho ricordato, non poche di esse fortemente partecipate e sicuramente sincere, mi consentiva di giudicare che il giudizio finale del professor Galli della Loggia fosse per lo meno eccessivo e un tantino pessimista. Mi ha poi ulteriormente confortato un De Rita come sempre assai concreto nei suoi giudizi, fondati su una insuperabile conoscenza dell’Italia di provincia, di quella società «che evolve, che non diventa mai una sola, omogenea, coesa» ma che vive questa sua complessità come «una forza, non una debolezza»: una società «che resiste, una società solida, fondata sulla piccola impresa, sul sommerso, su famiglie strutturate, con un patrimonio immobiliare che è il più alto al mondo». Un’Italia che ho ben conosciuto, e di cui posso garantire l’esistenza, sulla base di un «viaggio in Italia» che mi ha portato, nel corso di alcuni anni, in tutte le province italiane, nessuna esclusa, insieme a due Presidenti.

Si potrà dire che questa «Italia che resiste» può ben essere reale, come l’Italia sinceramente patriottica di Torino, o quella profondamente cristiana di cui ho avuto testimonianza a Trieste, ma che l’una e l’altra possono coesistere con «l’Italia senza identità», e che alla fin fine la definizione migliore dell’Italia può essere, a scelta, quella di un Paese che tutto sommato non è da buttare, o quella di un’Italia insieme di meravigliose contraddizioni.

Ma, suvvia, forse non sono altrettanto ricche di contraddizioni anche quelle democrazie esemplari di cui si diceva all’inizio, certo non prive di tensioni e spaccature interne profonde, nella loro storia ma anche nel presente? Io ho molto amato l’America, e ancor più un’Inghilterra in cui ho trascorso una parte non piccola della mia vita e che sento mia. Ma sono pur sempre ricondotto anzitutto alla convinzione che «un Paese non basta»; rimanendo egualmente convinto che questo Paese in particolare che mi è toccato in sorte, un po’ per caso e un po’ per scelta, è, come diceva Churchill della democrazia, il peggiore che esiste - meno tutti gli altri. Almeno così pare a me.

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Titolo: ARRIGO LEVI Negoziato obbligato fra Palestina e Israele
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2011, 08:51:26 am
19/5/2011

Negoziato obbligato fra Palestina e Israele

ARRIGO LEVI

Basta un’assenza di qualche anno, e si ha l’impressione di arrivare in un altro Israele. Tel Aviv con i suoi spettacolosi nuovi grattacieli, Gerusalemme con una immagine inaspettatamente moderna, ancorché contenuta dal rispetto della legge d’epoca inglese sull’uso della pietra dorata anche per le nuove costruzioni, offrono una immediata conferma visiva dei dati che conosciamo su una crescita economica impetuosa; favorita, ci fanno osservare, anche dalla riduzione nel tempo delle spese militari, che si fa risalire agli anni di pace con l’Egitto di Mubarak.

Ma Mubarak non c’è più, e la rivoluzione araba si è presentata alla porta d’Israele con gli allarmanti scontri di frontiera su tre fronti, nel giorno della «naqba», la «catastrofe», per i palestinesi, mentre per gli israeliani è il glorioso anniversario della proclamazione dello Stato ebraico. Chi ha antiche memorie non può non ricordare che la «catastrofe» ebbe per prima causa il rifiuto arabo del piccolo Stato d’Israele creato dall’Onu, e l’attacco subito lanciato nel maggio ’48 dagli eserciti degli Stati confinanti, con l’obiettivo dichiarato di «buttare a mare gli ebrei» - che erano allora poco più di mezzo milione, piccolissima isola in un mare arabo-islamico. Ci vollero poi decenni, e ancora altre guerre, perché i categorici no a ogni ipotesi di riconoscimento d’Israele venissero abbandonati e seguiti dalla pace con l’Egitto e la Giordania, e dall’accettazione dell’esistenza d’Israele da parte di Arafat e dei palestinesi, anche se è poi emerso il nuovo rifiuto di Hamas.

Più incerto è il futuro, e questo è un momento di grande incertezza strategica per tutto il Medio Oriente come per Israele, e più si è portati a rievocare un passato che sembra non dover passare mai. E un ritorno in Israele oggi non offre certezze.

I palestinesi sembrano decisi e sinceri nell’offerta di un’alternativa fra la ripresa dei negoziati e l’ipotesi di un voto in autunno all’Assemblea dell’Onu che sancirebbe, a grande maggioranza, il riconoscimento di un nuovo Stato palestinese, anche se con incerti confini, e incerte conseguenze. I più autorevoli giuristi israeliani sono divisi sugli effetti di quello che viene definito uno «tsunami legale». Alcuni sono convinti che all’indomani della proclamazione di uno Stato palestinese Israele diverrà «un Paese che occupa un Paese vicino» e che qualsiasi iniziativa israeliana nei territori situati al di là dei confini del 1967 (compreso l’allargamento degli insediamenti) verrebbe sottoposta alla giurisdizione dei tribunali internazionali. Altri giudicano che il quadro giuridico sia molto meno allarmante per Israele, «almeno non subito».

Quanto al governo attuale d’Israele, di fronte a tante incertezze, non sembra che la prospettiva autunnale della proclamazione o autoproclamazione di uno Stato palestinese costituisca un incentivo a riprendere in anticipo il negoziato con Abu Mazen, anche per l’incerta credibilità di Hamas (non impossibile vincitore di future elezioni palestinesi nella West Bank e a Gaza) sull’accettazione dello Stato d’Israele.

La ripresa dei negoziati, che comporterebbe però un nuova sospensione degli insediamenti israeliani, è ritenuta necessaria al più presto dall’opposizione israeliana guidata da Tzipi Livni, e inevitabile in prospettiva dal presidente israeliano Shimon Peres. Non sembrano esserci dubbi che, al di là delle posizioni dei politici, siano molti gli israeliani e i palestinesi convinti che il ritorno al negoziato presto o tardi si farà, e che questa sia la sola prospettiva ragionevole per ambo le parti, come per il futuro di tutto il Medio Oriente. Ci si sente anche dire, dagli uni e dagli altri, che le grandi linee di un possibile accordo di pace sono ormai note a tutti, e che pochi mesi di seria trattativa basterebbero per arrivare all’intesa.

E tuttavia, per quanto sincera sia questa convinzione, e per quanto convinti della necessità di una ripresa del negoziato siano gli alleati d’Israele, a cominciare dall’America e dai Paesi amici europei, con l’Italia in prima linea, le prospettive future rimangono incerte. Si spera nello spirito realista del politico Netanyahu, e ancor di più in una forte pressione di Obama su Israele. Ma Israele appare più che mai in dubbio fra le sue antiche e nuove paure esistenziali, e la ovvia fiducia nella sua forza militare, nella sua evidente superiorità tecnologica, economica, scientifica, isola democratica «occidentale» nel mare di un mondo arabo ancora «in via di sviluppo». Non è chiaro quale effetto avrà questa mescolanza di paure e sicurezza di sé.

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Titolo: ARRIGO LEVI Cari politici date fiducia agli italiani
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2011, 05:28:52 pm
9/6/2011

Cari politici date fiducia agli italiani

ARRIGO LEVI

Da molti anni, nelle sue diverse cariche, dalla Presidenza del Consiglio al Tesoro al Quirinale, Carlo Azeglio Ciampi predica contro i pericoli della «zoppia». Nel definire il significato di questa parola il dizionario privilegia il suo uso in veterinaria rispetto a quello in medicina. La zoppia è «infermità di un animale zoppo», prima di essere la «condizione di una persona zoppa». Forse futuri più aggiornati dizionari definiranno la zoppia anche come «pericolosa imperfezione del sistema monetario europeo, consistente nel non aver affiancato alla Banca centrale europea un governo comune delle politiche economiche degli Stati aderenti». Da ex governatore della Banca centrale, abituato ad avere come controparte un ministro del Tesoro che definisse responsabilmente i parametri della politica economica, Ciampi sentì fin dall’inizio la difficoltà di ben governare la nuova moneta, l’euro, avendo a che fare con tante diverse politiche economiche quanti erano gli stati che l’avevano adottata. Gli mancava, e come gli mancava, un ministro del Tesoro europeo.

Dalla nascita dell’euro sono passati anni, ma c’è voluta la grande crisi economica mondiale, dalla quale stiamo ancora sforzandoci di uscire, perché la «zoppia» venisse proclamata ogni giorno, da autorevoli economisti e columnists internazionali, come il male oscuro da correggere. Perfino i governi dei Paesi che hanno adottato l’euro sembrano oggi sentire la mancanza di un ministro del Tesoro comune, o perlomeno riconoscono la necessità di un forte, impegnativo «coordinamento» delle loro scelte di politica economica. Queste scelte, così predicano il «Financial Times» e molti altri, dovranno ispirarsi d’ora in poi, per salvare l’euro, a quelli che Mario Deaglio definisce «propositi nobili», anche se non facili da attuare.

Cito l’elenco che ne fa Deaglio (avendo in mente l’Italia): «L’aumento dell’età pensionabile; la riduzione dei pensionamenti anticipati; l’aggancio dei salari alla produttività; le semplificazioni burocratiche per le imprese; gli incentivi per la ricerca e lo sviluppo». Sempre pensando all’Italia, la conclusione di Deaglio, nell’asciutto stile che i lettori della «Stampa» conoscono ed apprezzano da alcuni decenni, è che chi governerà questo Paese nel prossimo futuro dovrà adottare un programma in regola su questi punti; o prepararsi, di qui a qualche anno, «ad abbandonare l’euro e a riprendere il vecchio ciclo di inflazione e svalutazione».

Ma poiché «proprio l’Italia è il Paese chiave per la tenuta dell’euro», una nostra uscita dall’euro - e qui guardo al di là della sfera dell’economia - avrebbe conseguenze catastrofiche su tutto il sistema non soltanto monetario ma politico europeo. Il sogno europeo, che fin dall’inizio, con coraggio, abbiamo contribuito a creare, accettando una sfida ben difficile per il nostro Paese, malconcio com’era dopo la guerra perduta, sarebbe realmente in pericolo. In bene o in male, ci piaccia o non ci piaccia, siamo ancora un Paese importante per l’Europa e per il suo futuro.

Negli anni in cui accettammo e contribuimmo a creare la sfida dell’unità e della pace europea, alla guida dell’Italia, come dei Paesi cui ci associammo, erano uomini di grande visione politica, capaci di proporre, ciascuno alla propria nazione, compiti difficili, che i popoli europei seppero affrontare e superare. Ma questa Italia, che forse non è il Paese che molti di noi hanno sognato, saprà affrontare le nuove sfide che ci sono state nuovamente proposte, con qualche durezza, dall’Unione europea? Saprà adottare le misure da cui dipende il rispetto della severa politica di bilancio, che abbiamo accettato nel nostro stesso interesse, e che ci viene nuovamente ricordata?

Curiosamente, sono soprattutto i politici, o almeno una parte delle forze politiche, a dimostrare, con i loro comportamenti, che non credono che l’Italia d’oggi sia all’altezza delle prove da affrontare. E se si sbagliassero? Forse questa diffusa sottovalutazione di quello che è realmente oggi il popolo italiano è soltanto una sottile malattia della «politique politicienne», che bisogna combattere, alzando e non abbassando l’asticella del salto in alto che dobbiamo compiere. Dovrebbe dar da pensare il fatto che la stragrande maggioranza conferisca una straordinaria popolarità a chi, come il Presidente della Repubblica, non si stanca di proporre un’idea alta e nobile dell’Italia vera, non come un’astrazione ma come una realtà. E se gli italiani fossero oggi disposti a premiare chi proponesse loro, apertamente, le scelte più dure che l’Europa ci chiede di rispettare? Ci sono politici capaci di fare la prova?

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: ARRIGO LEVI Israele, la via della pace è palestinese
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:36:49 am
18/9/2011

Israele, la via della pace è palestinese

ARRIGO LEVI

E così Israele, l’Israele di Netanyahu, degli immigrati russi e degli ultraortodossi, sta riuscendo a isolarsi, come non era più stato da decenni, nella regione cui inesorabilmente appartiene, per ragioni di storia e di memorie, ma dove è visto come un ultimo residuo di colonialismo europeo, testimonianza inaccettabile del declino storico della civiltà araba.

Per quello che è il terzo Stato ebraico della storia si pone ancora il problema della sopravvivenza.

Per quanto irrealistica appaia questa ipotesi quando si visitano le fiorenti città e campagne dello Stato ebraico. Sognavano i profeti che venisse il giorno in cui la via della pace universale corresse dall’Egitto alla Babilonia passando per Gerusalemme: in questa come in poche altre regioni la storia sembra ripetersi a distanza di millenni.

Ma, si dirà, non è con i palestinesi, e soltanto con i palestinesi, che Israele deve far pace per essere da tutti accettato? La risposta è un po’ meno sicura di quanto appaia. Avevamo tutti accolto con sollievo quando, dopo i grandi moti rivoluzionari in Tunisia e in Egitto, ci era stato assicurato, non senza qualche sorpresa, che non si erano ascoltati slogan e grida contro Israele. L’assalto feroce all’ambasciata d’Israele al Cairo è stata una brutale smentita a quelle ottimistiche rassicurazioni. Riconosciamo la realtà: lo Stato ebraico, per pregiudizi nuovi ed antichi, è ancora visto con odio dalle masse egiziane, e non solo da loro.

Ma ci è stato subito assicurato che i militari egiziani non avrebbero assolutamente rimesso in discussione il trattato di pace con Israele. Ora ci si dice invece dal Cairo che sono possibili cambiamenti. E intanto la gran maggioranza dei Paesi del mondo sta per proclamare all’Onu la propria convinzione che i palestinesi abbiano diritto a un loro Stato, e Israele e l’America non sembrano fino a questo momento capaci di far buon viso a cattivo gioco. Dopodiché, quale che sia la formulazione del pensiero dell’assemblea, ci si attendono assalti o sfide alle frontiere d’Israele, col rischio di incidenti capaci perfino di avere ripercussioni all’interno dello Stato ebraico nella minoranza araba.

La maggioranza che oggi governa lo Stato d’Israele riconosce in linea di principio che «uno Stato palestinese dev’essere stabilito», come ha assicurato Dan Meridor a Francesca Paci; e questo è un notevole progresso. Ma in attesa che un giorno, chissà quando, ciò accada, Israele non intende porre fine all’ampliamento delle colonie ebraiche, perché sarebbe «irrealistico» impedire a chicchessia di «comprar casa solo perché è ebreo». Non è bastato che ciò fosse stato proibito con una moratoria di dieci mesi? No, non è bastato.

Eppure Israele ha lasciato la striscia di Gaza e richiamato con la forza in patria gli israeliani che vi risiedevano. Questo non appariva «irrealistico» nell’interesse superiore dello Stato. Ma Israele oggi appare paralizzato dai suoi timori, di fronte a una «rivoluzione araba» di cui vede soltanto, non a torto, la pericolosità. E così, le prospettive di un nuovo negoziato sembrano sfumare in un futuro incerto e lontano. Chiedendosi se ce la farà questa generazione a fare la pace, un osservatore mite ed equilibrato come Antonio Ferrari si risponde: è «più che lecito dubitarne».

Ammettiamolo: far pace con i palestinesi può non bastare per far pace con tutti gli arabi. Per questo più lontano obiettivo occorrerà forse lasciar passare generazioni. Ma è pur sempre sotto le forche caudine palestinesi che Israele dovrà passare per fare pace con tutti: ed è solo su questo fronte che la diplomazia d’Israele può agire per far sì che Israele non rimanga così tremendamente solo nella terra che qualche millennio fa fu irrevocabilmente promessa agli ebrei; ma fu anche ripetutamente negata. È in questa direzione che la straordinaria forza spirituale del popolo che dopo una millenaria dispersione ha ridato vita a uno Stato ebraico potrebbe e dovrebbe indirizzarsi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9213


Titolo: ARRIGO LEVI Laica e religiosa qual è il peso della fede
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2011, 11:47:23 am
23/10/2011

Laica e religiosa qual è il peso della fede

ARRIGO LEVI

Finalmente è stato trovato. Grazie a strumenti sempre più raffinati, è stato trovato HD 85512b, un pianeta simile alla Terra, il primo mai avvistato che giri intorno al suo sole a una distanza «abitabile»: la distanza giusta per avere una temperatura che consenta «all’acqua liquida di brillare in superficie e alla vita di fiorire nelle zone d’ombra». Questo potrebbe esistere su quel pianeta «terrestre», anche se non ne abbiamo certezza: perché HD 85512b è a 36 anni luce di distanza da noi, troppo lontano per vederlo bene.

Questo è un tempo felice per le scoperte spaziali. Gli astronomi hanno individuato anche un pianeta che potrebbe essere fatto interamente di diamante, un diadema brillante sul velluto nero dello spazio. E hanno avvistato nella costellazione del Cigno un pianeta che orbita attorno a due stelle, e non a una soltanto. Queste ed altre scoperte impongono agli scienziati di porsi interrogativi affascinanti, ancora senza risposta certa. Che cosa esisteva prima del nostro universo, prima del Big Bang? E che cosa esisterà in futuro, se è vero, come sembra, che la velocità con la quale ogni costellazione si allontana dalle altre cresce in continuazione? Forse tutto svanirà nel nulla. O forse invece, per effetto della forza di gravità che tutte le attrae, vi sarà un nuovo Big Bang, in un ripetersi eterno di Creazioni e Distruzioni?
Non ho, ovviamente, alcuna risposta a tali interrogativi. Ho però un’altra inquietante domanda, che ogni volta che apprendo queste notizie mi si ripropone: in questo universo di universi, dov’è Dio? C’è posto per Dio? Dobbiamo immaginarlo responsabile di tante imperscrutabili stranezze? O è più prudente pensare che la storia di Dio sia soltanto parte della storia del pianeta Terra, frutto soltanto delle «idee di Dio», mutevoli nel tempo, della specie Homo Sapiens?

Dico questo ben sapendo l’importanza creativa (in bene, e talvolta purtroppo anche in male) di queste idee e visioni. La fede ebraico-cristiana in un unico Dio, padre di tutti gli uomini, «creatore del cielo e della terra» (cito il linguaggio biblico di Papa Benedetto), è stata una forza immensa, che ha cambiato e continua a cambiare il mondo. Non si può non rispettare chi trova, nella difficile fede in questo Dio, la ragione per vivere una vita buona, fondata sull’amore per tutti gli altri, essendo tutti gli uomini «prossimi» e fratelli. Codesti credenti veri ci sono, io ho avuto la gioia di incontrarli e di ammirare le loro opere di bene. So anche che la fede nell’uomo, che spinge tanti come me, che «credono in un altro modo», a operare come possono per migliorare le cose del mondo, è altrettanto difficile e indimostrabile. È anch’essa, quando si manifesta, una Grazia.

Prendiamo atto che le due fedi hanno, in questo nostro tempo così difficile e pericoloso, imparato a rispettarsi. Mi rallegra udire le parole di Papa Benedetto in lode di quegli «agnostici che non trovano pace, che soffrono a causa dei nostri peccati e hanno desiderio di un cuore puro», e che «sono più vicini al regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine». Altre cose ancora ci dividono. Confesso che fatico a seguire il Pontefice quando rassicura i suoi fedeli sull’esistenza degli Angeli, talché «dall’inizio fino all’ora della morte la vita umana è circondata dalla loro incessante protezione». Preferisco il dubbio di Giobbe, espresso nelle parole (incise sulla tomba seicentesca di un mio antenato): «Adonai natàn, Adonai lakàch», il Signore ha dato, il Signore ha tolto.

Ma la fede religiosa è ancora una grande forza, offre indimostrabili certezze che muovono intere generazioni. Come non rimanere colpiti dal dibattito così intenso che si sta oggi svolgendo in Italia nel mondo cattolico, nel suo tormentato confronto con i peccati ostentati da tanti politici? La Chiesa forse non sa ancora fino a qual punto deve pronunciarsi, ma il tormento è di per sé un monito severo, dei cui effetti anche i più astuti fra i politici dovrebbero preoccuparsi. Attenti, perché una schiacciante maggioranza degli Italiani, anche non praticanti, ha di gran lunga più fiducia nella parola della Chiesa che nelle parole dei politici.

La fede, laica o religiosa, non ha bisogno, per esistere, del trionfo del Bene sul Male; se no presto sparirebbe. Il credente religioso, come quello laico, ha bisogno soltanto della consapevolezza che il Signore ha posto nel cuore dagli uomini la conoscenza del bene e del male, e ha poi lasciato a noi la scelta. (Deut.30). Papa Giovanni Paolo II, che è l’ultimo dei profeti, era d’accordo quando osservava che dal momento che il Signore ci ha dotati del libero arbitrio, «potrebbe dirsi che si è così privato dell’Onnipotenza». Sicché alla fine, per qualsiasi specie di credente, ogni responsabilità ricade su di noi. E ad essa non possiamo sfuggire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9353


Titolo: ARRIGO LEVI Che cosa deve Fare l'Europa con Mosca
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2012, 04:13:12 pm
Dopo il voto e il ritorno di Putin al Cremlino

Che cosa deve Fare l'Europa con Mosca


Riflettendo sull'esito delle elezioni, ogni considerazione sulla Russia deve ripartire da lontano nel tempo. Il 25 dicembre del 1991, nel suo ultimo discorso da presidente dell'Urss, di uno Stato, cioè, che già da qualche mese aveva cessato di esistere, Mikhail Gorbaciov rivendicò i principali frutti dei suoi anni di governo. Anzitutto, Gorbaciov indicò, a suo merito, di «aver posto fine alla Guerra Fredda e alla folle militarizzazione del potere», e di avere avviato un processo di rinnovamento «grazie al quale la società ha ricevuto la libertà ed è stata emancipata, politicamente e spiritualmente. Questa - concluse - è la conquista più importante, una conquista di cui non siamo ancora divenuti pienamente coscienti: per questo non abbiamo ancora imparato a fare buon uso della libertà».

È passato un ventennio, e ancora non siamo sicuri che i russi abbiano imparato a «fare buon uso della libertà». Per citare le parole di un manifesto che ci capitò di vedere agitato in quei giorni per le vie di Mosca, il prezzo dei «74 anni di marcia verso il nulla» (che tanto durò il comunismo), forse non è stato ancora del tutto pagato. Ma quando ci colgono questi dubbi, riportiamo alla mente il genuino entusiasmo dei moscoviti nel giorno delle loro prime elezioni libere, nel marzo 1989, e lo spirito quasi esultante che permeava i discorsi alla prima Duma liberamente eletta.

La fiducia, che allora provammo, nel popolo russo e nella sua capacità di gestire subito con successo la libertà ritrovata era forse un po' troppo ottimistica; prematura la speranza che la Russia si fosse di colpo trasformata in una solida democrazia multipartitica. I dubbi critici di Gorbaciov erano sicuramente più che giustificati. Ma se la storia russa rimane «una storia europea», e di ciò resto convinto, la memoria del percorso accidentato e difficile che tutti gli altri popoli europei hanno dovuto percorrere per realizzare società democratiche e mature ci deve indurre a seguire l'evoluzione della nuova Russia democratica con minore impazienza.

Secondo i primi exit poll, non sembra che sia stata condivisa, nell'immenso Paese che si avvolge dall'Europa al Pacifico attorno a un terzo del globo terrestre, la voglia di riforma che si era manifestata con tanta forza nelle ultime settimane nella capitale. E non sappiamo se Putin, vincitore delle elezioni con una maggioranza superiore alle previsioni, anche se inferiore a quella del 2004, sarà capace di «trasformarsi in riformatore coraggioso», capace di capire «l'attuale voglia di cambiamento», che comunque esiste, e di «aprire un nuovo dialogo con la società russa». La conoscenza della Russia d'oggi, e dei limiti dell'uomo, induce Franco Venturini a dubitare che ciò possa accadere. L'evoluzione del sistema di potere di Putin, e al limite la sua stessa durata, potrebbero in tal caso essere a rischio: con tutte le incognite di ciò che potrebbe succedere poi. La vastità territoriale della Russia, il carattere composito della sua identità plurinazionale, suscita ulteriori incognite.

Stando così le cose, va sottolineato che è interesse vitale dell'Unione europea (non soltanto per la nostra cospicua dipendenza dalle forniture di gas o petrolio russo) mantenere con la Russia, oggi e in ogni circostanza, un solido rapporto di pacifica convivenza e di forte collaborazione economica e politica. Qualsiasi possibile situazione di crisi, nell'evoluzione della grande Russia, deve trovare, come fattore favorevole, la circostanza di confinare con un'Unione Europea che le offrirà sempre un orizzonte di pace a occidente: anzi, un anello di pace che si estende, in perfetto accordo con l'America, attorno a tutto l'emisfero settentrionale, senza alcuna interruzione.

Arrigo Levi

5 marzo 2012 | 8:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_05/levi-cosa-deve-fare-europa-con-mosca_660dfc64-6691-11e1-a7b0-749eb32f5577.shtml


Titolo: Arrigo LEVI. CIAMPI: la mia Europa vive un decadimento morale”...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 16, 2016, 11:26:07 pm
“La mia Europa vive un decadimento morale”: ecco l’ultima intervista di Ciampi a «La Stampa»
Ripubblichiamo il colloquio dell’aprile 2011 con Arrigo Levi: «Si è indebolita l’integrità delle persone e delle istituzioni. Ma se questo manca, manca tutto. Prevale la logica del successo immediato, misurato in termini di successo puramente economico»


16/09/2016
Arrigo Levi

Ho ricordato a Carlo Azeglio Ciampi, incontrandolo ieri mattina nel suo severo studio a Palazzo Giustiniani, alle spalle del Senato (fuori, in una Roma quasi estiva, fra palazzi e chiese, c’erano folle di turisti vocianti in tutte le lingue europee) alcune delle tante dichiarazioni di morte imminente dell’Europa che si leggono oggi su giornali italiani, europei, americani. Le conosceva già, e mi ha interrotto con una battuta, che poi ripeterà: «Assistiamo a un decadimento morale, sia nell’etica individuale che nell’etica istituzionale. Si dimentica la frase di Vincenzo Cuoco: Alla felicità degli uomini sono più necessari gli ordini - noi diremmo le istituzioni - che gli uomini».

Ma perché la crisi economica europea? Gli ho ricordato una sua antica battuta: facendo l’euro, si è creata una «zoppia». Che cosa dobbiamo intendere? 
«La zoppia è stata una colpa di tutta l’Europa. Non si è accompagnato alla moneta unica, che è un fatto federativo, una politica economica europea. L’eurogruppo, il gruppo dei Paesi dell’euro, non si è mai istituzionalizzato, non ha mai assunto poteri decisionali cui tutti debbano adeguarsi. Questa è la zoppia di cui ha sofferto l’Europa. E poi, a una crisi mondiale, definita epocale, si è risposto con misure congiunturali. C’è stata una asimmetria fra la crisi e la risposta, che doveva prevedere rimedi anch’essi epocali, cioè strutturali. Quanto all’Italia, e non solo all’Italia, si è indebolita l’integrità delle persone e delle istituzioni. Ma se questo manca, manca tutto. Prevale la logica del successo immediato, misurato in termini di successo puramente economico».

Ho osservato che, almeno in linea di principio, la pericolosità della «zoppia» oggi è stata riconosciuta dall’Unione Europea, anche se i rimedi, consistenti in un severo coordinamento delle politiche economiche nazionali, stando al «Financial Times», sono progettati per un futuro troppo lontano. 

«In linea di principio il riconoscimento c’è stato, ma non nelle procedure. Di fatto, non c’è stato il governo dell’Europa».

Gli ricordo che quando discutemmo questi stessi problemi nel nostro libro-intervista, mi disse: «Penso che se fossero rimasti in carica per qualche anno di più alcuni ministri che avevano vissuto la creazione dell’euro, avremmo compiuto il passo indispensabile di far corrispondere alla Banca Centrale Europea un governo unico, coordinato, dell’economia europea, con alcuni poteri sovrannazionali». Chiedo: dobbiamo dedurne che la colpa di questa crisi europea è delle persone, della Merkel, di Sarkozy, di Berlusconi? 
«No, non solo loro. Certo, in loro è mancata la visione, è mancato un respiro veramente europeo. In questo c’è colpa, una mancanza di principi. Ma ricordiamo lo spirito col quale firmammo in Campidoglio il Trattato Europeo, nel 2004. Facemmo allora due errori. Anzitutto, avremmo dovuto fare prima il nuovo trattato, e poi aprire l’Europa ai Paesi nuovi. In secondo luogo, la Commissione Giscard aveva fatto un documento che non andava, che non finiva mai. Ci voleva un documento snello, nervoso, di contenuto, che giustificasse la rinuncia della Germania al marco tedesco, che fu un fatto straordinario. Invece avevano fatto un documento diluito, senza nerbo».

Ciampi rende qui omaggio a quella che fu la visione di Kohl. Ricorda che quando incontrò per la prima volta, da Presidente del Consiglio, il Cancelliere Kohl, si trovarono a dire la stessa cosa: se noi, la generazione che ha fatto la guerra, non creiamo una moneta unica europea, la generazione successiva non la farà più. Fu ancora un Kohl capace di visione a decidere, al momento dell’unificazione tedesca, il cambio di parità fra il Marco della Germania dell’Ovest e quello della Germania Est, invece del cambio di due marchi dell’Est per uno dell’Ovest, come avrebbe voluto la Bundesbank: che aveva ragione sul piano economico, non su quello politico. Il ragionamento di Kohl fu: «non possiamo umiliarli», e politicamente aveva ragione. 

«Quella decisione, come la scelta di non volere un’Europa che si allineasse al marco tedesco, ma una moneta europea, l’euro, furono tutte due scelte prese da chi aveva una visione, da uomini che non cedevano al loro elettorato. A confronto degli uomini d’oggi, erano dei giganti. E poi, trattati come quello di Roma non si approvano con dei referendum, si fanno ratificare dai Parlamenti. Se il trattato fosse stato ratificato dai Parlamenti della vecchia Europa, i nuovi Stati membri sarebbero stati ammessi in base a un trattato già definito. Questo, alcuni non lo capirono».

Guardando all’attuale disamore per l’Europa di molti popoli europei, compreso, a quanto sembra, il popolo italiano, dobbiamo chiederci in che cosa noi, i vecchi, abbiamo sbagliato? Perché non abbiamo saputo trasmettere il ricordo di quello che fu l’Europa delle guerre e dei lager? Che risposta mi dai? 

«Mi chiedi come si possa tenere viva la lezione della storia. Ma questo è un problema eterno. Sta a noi tutti affrontarlo, ma soprattutto a chi ha delle responsabilità istituzionali. E sta ai popoli scegliersi dei leader che abbiano una visione storica alta. Il voto va utilizzato bene».

Qualcuno, gli ricordo, ha parlato con leggerezza di «andarsene dall’Europa». Il Direttore della «Stampa», Mario Calabresi, rispondendo a un lettore che questo proponeva, gli ha fatto osservare che l’Europa non è una bocciofila a cui si restituisce la tessera in un momento di stizza, l’Europa è nata per un’esigenza di pace dopo due guerre mondiali con decine di milioni di morti; e poi, stiamo in Europa anche perché ci conviene in termini economici. Secondo Ciampi, che effetto avrebbe, sull’Italia, andarsene dall’Europa? 
«Andarsene non è possibile. E se fosse possibile, avremmo in Italia una decadenza, prima economica e poi morale. Immaginiamo che cosa sarebbe l’Italia da sola nel vasto mare dell’economia globale! Quando scegliemmo l’euro, invece di scegliere l’Europa del Deutsche Mark, lo facemmo, come dice Machiavelli, un po’ grazie alla Fortuna, un po’ grazie alla Virtù. Diciamo 50 e 50. Machiavelli diceva che la Fortuna è femmina, e che bisogna batterla»

 Batterla come? 
«Picchiarla». 

Chiedo se ritenga possibile la fine dell’Euro. 
«No, mai. Ho detto tante volte che l’euro è una strada di non ritorno. Fatto l’euro, non si può più tornare indietro. Piuttosto bisogna andare avanti. Per questo ci vogliono le persone giuste, ispirate da giusti valori. Ovidio dice (la citazione, dalle Metamorfosi, è ovviamente in latino. La troverai facilmente, mi dice: io vado un po’ a braccio): Agli animali fu dato un muso che guarda a terra, agli uomini fu concesso un volto che guarda in alto, e fu ordinato di alzare lo sguardo al cielo e alle stelle. Purtroppo, per ora noi Europei non stiamo andando avanti». 

Concludo: in un altro libro intervista, dopo il nostro, tu hai detto che l’Italia d’oggi «non è il Paese che sognavo». Deduco, da quanto mi hai detto, che anche questa Europa non è l’Europa che sognavi. Ma allora, questo vuol dire che temi anche tu la fine dell’Europa? 
«No, no. Ho ancora fiducia nell’Europa. Perché è l’unica via per dare un futuro alle giovani generazioni. Anche in loro ho fiducia». 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/09/16/italia/politica/la-mia-europa-vive-un-decadimento-morale-ecco-lultima-intervista-di-ciampi-a-la-stampa-6q69C4cwXzabF5zdKFnp1J/pagina.html