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Titolo: Giuliano AMATO. - Il modello federale per essere più liberi
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2012, 11:35:07 pm
Il modello federale per essere più liberi

di Giuliano Amato

29 aprile 2012


Mentre Mario Monti si adoprava a Bruxelles per mettere nero su bianco quell'agenda per la crescita, necessaria all'eurozona prima ancora per sopravvivere che per crescere, io prendevo parte alla Humboldt University di Berlino a un seminario dedicato proprio al futuro dell'eurozona e dell'Unione. Era un seminario ristretto, al quale partecipavano però persone rappresentative di mondi diversi: professori come Jurgen Habermas e Ingolf Pernice, organizzatore del seminario, parlamentari nazionali ed europei come i tedeschi Jan Philipp Albrecht e Peter Altmaier e i francesi Jean-Louis Bianco e Sylvie Goulard, il tedesco Jorg Asmussen, membro dell'Esecutivo della Banca Centrale Europea, Peter Huber, giudice della Corte Costituzionale tedesca, ed infine europeisti di lungo corso come Guy Verhofstadt, già primo ministro belga e ora al Parlamento europeo, e il sottoscritto.

La prima cosa che mi ha impressionato è che da persone così diverse e con affacci istituzionali e politici alle vicende europee tanto diversi fra loro sia venuta una diagnosi assolutamente concorde. Di solito, in situazioni del genere, si contrappongono i critici dei ritardi e dell'inadeguatezza di ciò che si è fatto, a quanti, senza negarlo, sottolineano che l'Europa si è comunque dotata di strumenti e procedure di intervento che prima non c'erano e che, un passo alla volta, continua e continuerà a andare avanti. Ebbene, questa volta non è stato così. Nessuno ha negato che oggi c'è (o sta per esserci) il Fiscal Compact che prima non c'era, che è stato creato il fondo salva-Stati, che la Banca Centrale Europea ha fatto e sta facendo ben più di quanto si pensava potesse fare anni fa. Eppure tutti hanno concordato nel definire «instabile» la situazione in cui ci troviamo e tale da porci davanti a un bivio pressoché immediato: o ne usciamo con maggiore integrazione oppure l'eurozona finirà per disintegrarsi, perché così com'è non poggia su basi sufficientemente solide ed è esposta a mercati che della sua fragilità sono sempre più convinti.

L'analisi dei fenomeni già in atto di disintegrazione del tessuto europeo è quella che mi ha impressionato di più. Della parte più vistosa di essi ha appena parlato Mario Draghi, notando che quello bancario ha cessato di essere un sistema europeo, con la quasi cessazione dei flussi transfrontalieri e la chiusura della operatività di gran parte delle nostre banche entro i rispettivi confini nazionali. È di per sé un fatto gravissimo, che mina alla radice la vitalità dell'eurozona, ma c'è anche dell'altro, che arriva al punto – si diceva a Berlino – di erodere ormai nei funzionari di Bruxelles la loro forma mentis di funzionari europei, per richiuderli nella dimensione di una non prevista rappresentanza nazionale. Si sta o si va a Bruxelles per rappresentare interessi nazionali.

Bisogna allora sottrarsi a questa china e ci si accorge che, per farlo, servono insieme – qui l'ho scritto più volte – una maggiore integrazione europea e un radicamento di tale integrazione in sentimenti popolari che non siano più di ostilità, ma tornino ad essere di fiducia e di speranza in ciò che l'Europa può non toglierci, ma darci. Sotto questo profilo, che l'Europa arrivi presto ad offrirci un po' di crescita e non solo austerità è una premessa essenziale del rafforzamento istituzionale di cui essa ha bisogno. Tanto più che il percorso di integrazione sul quale è da anni incamminata impone ai suoi stati membri una massa crescente di regole e di controlli di uniformità e convergenza, che esige, per funzionare, un grado di accettazione nelle rispettive opinioni pubbliche ben superiore a quello attuale.

Emerge qui un profilo, che a Berlino abbiamo ben messo a fuoco e sul quale invece raramente si riflette, vale a dire la profonda differenza fra il nostro percorso di integrazione e quello degli stati che hanno deciso nella storia di unirsi con percorsi autenticamente federali. Prendiamo gli Stati Uniti. Qui l'integrazione è avvenuta dando alla federazione un suo governo, un bilancio che è diventato nei decenni sempre più robusto (da quando ci si è decisi a dotare la federazione di una rilevante tassazione propria), una valuta nella quale sono denominati i buoni del tesoro federali, una banca centrale che ha acquistato sempre più forza sul sistema bancario federale ed è divenuta il pacifico prestatore di ultima istanza. Fra le tante conseguenze di un assetto del genere, c'è quella che le vicende interne dei singoli stati membri sono assai poco rilevanti ai fini della stabilità del dollaro e della stessa stabilità del sistema bancario. La federazione può intervenire o non intervenire per curare gli shock asimmetrici che si producano sotto di essa, ma di sicuro non ha bisogno di imporre ai suoi stati membri convergenze rigide e patti di stabilità più o meno complicati per salvaguardare l'insieme.

I nostri stati membri non hanno voluto imboccare la strada di una vera federazione e non lo hanno voluto per difendere di più le proprie responsabilità autonome e affinché la loro voce restasse determinante in tutte le decisioni comuni. Poi però sono arrivati alla moneta unica e ora si accorgono che, per garantirne la stabilità senza disporre di un attrezzato livello federale, sono costretti ad assoggettare se stessi a molti più vincoli di quelli che hanno gli stati membri di una federazione. Ed eccoli lì, su un percorso di integrazione, che priva progressivamente di autonomia le loro decisioni di bilancio, che impone tetti invalicabili ai loro sistemi pensionistici, che consente o impedisce le spese di investimento, che interferisce con le prerogative costituzionali che alcuni di loro riconoscono alle loro regioni e ai loro enti locali. E se il percorso non cambia, così dovrà essere sempre di più, perché la sopravvivenza dell'euro non è legata al valore dei titoli di stato federali (che non ci sono), ma a quello dei titoli di ciascuno di loro, greci, tedeschi, italiani o finlandesi che siano. Senza un prestatore di ultima istanza.

Varrebbe la pena che cominciassimo a chiederci se il gioco vale la candela e se, preso atto che di maggiore integrazione c'è comunque bisogno, non sia il caso di cambiare percorso, imboccando quello di una effettiva federalizzazione. Tanto più che su quello attuale è ben possibile che la Corte Costituzionale tedesca finisca col dire che, oltre un certo limite, gli stessi vincoli all'autonomia di bilancio (necessari per l'euro) violano prerogative statali oggi intangibili e solo un cambiamento della Costituzione li potrebbe consentire. Ma se a un tale circolo vizioso si dovesse arrivare, non sarebbe meglio proporre ai nostri cittadini una vera federazione europea, nella quale tutti ci riconosceremmo e tutti saremmo più liberi?

Intanto si pensi alla crescita, anche per ricreare un po' d'amore per l'Europa. Ma poi la domanda sarà davanti a noi.

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