Titolo: RODOTA'. - Inserito da: Admin - Settembre 19, 2007, 12:24:07 am Rodotà: «Troppi messaggi, ci guadagna la destra»
Andrea Carugati «Non mi stupisce che questa ondata di disaffezione verso la politica si scateni adesso che il centrosinistra è al governo. Perché l’elettorato di questa maggioranza è sensibile alla legalità e al rispetto delle regole, sono nel suo Dna. E reagisce con severità e ritiene che i suoi rappresentanti non siano altrettanto fedeli a questo Dna». Stefano Rodotà, giurista ed ex presidente dell’Autorità garante per la privacy, dice la sua sull’ondata di anti-politica che attraversa l’Italia. Professor Rodotà, Umberto Eco sostiene che questa ventata neo-qualunquista è anche figlia di un eccesso di annunci del governo, cui non seguono i fatti. È d’accordo? «Condivido l’argomentazione di Eco, ma il problema è politico. In questo periodo l’agenda politica è stata dettata dalla destra: penso a due temi ossessivamente ripetuti, tasse e sicurezza. Può darsi che siano davvero i più sentiti dai cittadini, ma certamente il modo in cui sono stati posti l’ha deciso la destra. Una volta accettata questa agenda, le riposte del governo sono apparse sulla difensiva. In più c’è stata una frammentazione delle risposte nella maggioranza: c’è chi dice di tagliare le tasse subito, chi dice “sì ma dipende dalle risorse disponibili”... Ai cittadini resta un messaggio solo: il riconoscimento pubblico dell’insostenibilità del prelievo e una serie di proposte contraddittorie. Insomma, se anche il centrosinistra volesse fare un annuncio declinato al futuro, ci vorrebbe un minimo di concordia: a quando il taglio, per quale imposta e per quale no...». D’accordo. Ma in un Paese normale questo dovrebbe produrre un calo di consensi per il governo, e magari un rafforzamento dell’opposizione. Perché in Italia, invece, cresce il «neo-qualunquismo» di Grillo? «Perché il bipolarismo italiano è puramente oppositivo, la vittoria dell’altro percepita come un rischio per la stessa democrazia. In altri Paesi l’elettore deluso cambia schieramento, da noi molto meno: da questa impossibilità derivano il disincanto, il distacco. Che si traducono in questa forma di populismo. Che non è antipolitica, ma una forma di politica che non nasce oggi: l’appello diretto ai cittadini, senza mediazioni, le tecniche di marketing applicate alla politica sono tutti ingredienti del populismo berlusconiano. Questi fenomeni trovano un terreno già concimato. Così il degrado del linguaggio: ci sono partiti e personalità che ne hanno fatto un modo di comunicare. E da parte del sistema politico e di quello dei media c’è stata una grave sottovalutazione. Sui giornali fa notizia l’insulto, non la proposta seria». C’è stata, da parte del centrosinistra, una scarsa efficacia sul tema della legalità? «Il recupero della legalità non c’è stato. Faccio un esempio: si era ipotizzato di escludere dalla Commissione Antimafia le persone indagate o condannate per mafia. Era una proposta ragionevole, non una legge ma un codice di comportamento condiviso. Eppure c’è stato un rifiuto. E oggi ci troviamo davanti alla richiesta di escludere tutti i condannati dal Parlamento, anche per condanne insignificanti». Il centrosinistra se la caverà con un altro annuncio? «Per carità! Si presenti un disegno di legge e la maggioranza dica che è il suo primo obiettivo. Senza trattative sotterranee. Si faccia vedere all’opinione pubblica che dice sì e chi no: così si esce da questo indistinto rifiuto di tutto ciò che è politica. Altro passo da fare riguarda le proposte di legge di iniziativa popolare: in passato sono finite negli archivi del Parlamento, adesso questi canali vanno riaperti: le Camere devono avere l’obbligo di prendere in considerazione queste proposte e i promotori devono avere il diritto di seguirne l’iter. Così i cittadini possono partecipare alla costruzione dell’agenda politica, segnalare alcune priorità». Che analogie vede tra questa fase e il 1992? «Non mi pare che sia in arrivo un terremoto di quell’entità. E tuttavia la possibilità che questo rischio sia evitato è molto legata alla capacità della politica di reagire attraverso misure concrete. Questo non vuol dire portare in Parlamento le proposte di Grillo a scatola chiusa, perché non basterebbe. In discussione non ci sono stipendi e pensioni, ma lo loro stessa utilità. Per rilegittimarsi devono tornare ad essere degli interlocutori dei cittadini: con la massima trasparenza, l’accesso diretto alle informazioni. Se le istituzioni rispondono alle domande, consentono ai cittadini di intervenire e di capire se c’è o meno efficienza o imbroglio, dimostrano di essere utili». Crede che la nascita del Pd possa essere una risposta a questo disincanto? «Ho visto come è stato dilapidato il capitale delle primarie del 2005. E oggi vedo una consapevolezza diffusa che queste primarie coprono aggiustamenti di tipo tradizionale tra oligarchie. Alcuni dei gruppi impegnati nella fondazione del Pd lo dicono esplicitamente: basta guardare alle controversie sulle segreterie regionali. Io mi auguro che queste primarie diano una scossa, contribuiscano a uscire da questa situazione. Ma l’onere della prova tocca a chi ha messo in piedi questo strumento». Pubblicato il: 18.09.07 Modificato il: 18.09.07 alle ore 8.35 © l'Unità. Titolo: STEFANO RODOTA' - Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2007, 12:02:09 am L'ex ministro aveva contestato i senatori a vita per il loro sostegno a Prodi
Storace: «E' Napolitano quello indegno» L'esponente della Destra attacca il capo dello Stato . Reazioni: «Sconsiderato, tutta la Cdl condanni » TRIESTE - Continua il confronto a distanza tra l'ex ministro della Salute, Francesco Storace, e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato venerdì aveva preso le difese della senatrice a vita, Rita Levi Montalcini, presa di mira da Storace, assieme agli altri senatori a vita che siedono a Palazzo Madama, per il sostegno determinante (l'Unione al Senato conta solo sun un voto in più del centrodestra) più volte concesso al governo Prodi. «FAZIOSITA' ISTITUZIONALE» - Parlando da Trieste, Storace definisce «molto gravi» le affermazioni del Quirinale, che aveva parlato di intimidazioni indegne ai danni della scienziata. Per il leader del movimento La Destra sono due le motivazioni per le quali le affermazioni di Napolitano sono gravi. «La prima - ha spiegato - per le ragioni che riguardano la storia personale del Presidente che ancora deve farsi perdonare; la seconda per quelle che riguardano l'atteggiamento nepotistico delle istituzioni e per l'evidente faziosità istituzionale. Napolitano - ha affermato Storace - difende chi lo vota contro chi non lo ha votato». PATENTE DI INDEGNITA' - «Credo che sia Napolitano, viste le posizioni che ha assunto, a meritarsi la patente di indegnità. Anche perchè si muove a sostegno di una senatrice importante, per la quale il governo nella finanziaria ha stanziato tre milioni di euro ad personam. Nobel o non nobel - ha detto - i ricatti sono ricatti. Se dovessi scherzare - ha concluso Storace - dovrei considerare improbabile che il Capo della "casta" mandi i corazzieri a sedare i tumulti a Villa Arzilla». REAZIONI - L'attacco di Storace a Napolitano ha suscitato immediate reazioni in tutto il mondo politico. Prodi chiede che «la Cdl condanni questo attacco sconsiderato al capo dello Stato». In effetti anche esponenti del Centrodestra, come Alemanno, intervengono sostenendo che il «Presidente della Repubblica non si critica neanche quando dice cose che non si condividono». Secondo Veltroni, invece «la Casa delle libertà deve condannare tutta, senza se e senza ma, le dichiarazioni di Francesco Storace. È il minimo che ci possa aspettare di fronte all'inaudito attacco portato al presidente della Repubblica». Secondo il presidente della Camera Fausto Bertinotti: «La dichiarazione del senatore Storace è incompatibile con la civiltà politica. La questione che si pone non è di buona educazione, essa investe i fondamenti della convivenza civile della Repubblica». Piero Fassino ha definito le parole di Storace «espressioni vergognose e irresponsabili che squalificano chi le pronuncia. Mi auguro - ha aggiunto Fassino - che anche i dirigenti dei partiti dell'opposizione avranno la responsabilità di prendere nettamente le distanze da simili comportamenti». LUI ATTACCA DI NUOVO: «CRITICHE DELLA CASTA» - «Un bellissimo libro di Marcello Veneziani, "Contro i barbari", afferma che chi trova un nemico trova un tesoro» ha ancora detto il senatore Francesco Storace: «Oggi l'hanno trovato quelli del tesoretto. Le critiche della casta provocano solo sbadigli». 13 ottobre 2007 da corriere.it Titolo: Furio Colombo - Fascismo è... Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2007, 06:38:55 pm Fascismo è...
Furio Colombo Un ragazzo simpatico, questo Storace, molto ragazzo benché over fifty, molto autentico, un po’ impulsivo, ma con i tratti tipici del giovane uomo impaziente che controlla fino a un certo punto i suoi scatti di vitalità e di energia, sa ridere, sorridere e irridere, tutto gli viene condonato perché, si sa, sono ragazzi. Questo il ritratto che Matrix ha offerto di lui la sera del 17 ottobre di fronte al giornalista Mentana che ha avuto la buona idea di metterselo seduto di fronte due giorni dopo la violenta e ignobile aggressione a Rita Levi Montalcini. E la cattiva idea di autorizzare il suo interlocutore a cambiare come voleva le parole del suo attacco... E a descrivere da solo ragioni, svolgimento, ed esito dei suoi processi, mai confrontato da un testo o da un documento (lei veramente ha detto... per la verità i giudici hanno scritto...). Mai interrotto nelle sue festose scorribande, come quando fa sapere «non avrei mai detto ciò che Fini ha detto a Gerusalemme, nel luogo che ricorda la Shoah» (nessuno in studio ha ricordato la frase di Fini sul «fascismo male assoluto») e baldanzosamente precisa: «il fascismo è stata luce e ombra». Non segue alcun commento e lui allarga un sorriso. Sa che chi accorrerà alla sua «destra» (il partito che ha appena fondato) non va alla destra di mercato ma alla luce del fascismo. Perché ne parlo? So benissimo che dai tempi di Berlusconi, questa è la televisione, in Italia, sia quella pubblica che quella privata: domande amiche, nessun riscontro o confronto sulle risposte, dici quello che vuoi, menti come vuoi, e se non hai alcuna reputazione da difendere sei nel tuo elemento. Ne parlo perché in quella trasmissione c’ero anch’io, una lunga intervista filmata bene (al Senato, tra un voto e l’altro) tagliata bene, montata con cura, senza dispersioni o frammentazioni. All’annuncio della mia intervista, Storace (affettuosamente definito «Franti» nel titolo, forse con un riferimento colto al brano del diario minimo di Eco «E Franti l’infame sorrise»), ha pacatamente messo in dubbio il mio equilibrio mentale. Alla fine si è concesso due aneddoti, perché, si sa, i ragazzi hanno bisogno di sfogarsi e più sono sbruffoni e più sono simpatici, o questo era il tono del programma. Insultare Rita Levi Montalcini, a quanto pare, crea rispetto, attenzione cautela, un certo calore. Soprattutto crea un’ora di televisione benevola (le parole del capo dello Stato e il testo della Sen. Montalcini, pubblicato da Repubblica, li abbiamo ascoltati solo dalla voce e nella versione di Storace) e un autorevole, incontrastato diritto di ultima parola. Dunque di me Storace racconta che sono passato dalla Fiat al comunismo, con il tono furbo di uno che svela: «questa è buona, sentite questa...». Segue attenzione e silenzio compunto del conduttore. Allora, con senso dello spettacolo, Storace cambia tono e - sempre sicuro di condurre lo show - racconta: «Colombo questa mattina l’ho incontrato in Senato. Quando è passato vicino a me ha abbassato gli occhi». Tutti gli altri punti della trasmissione riguardano Mentana. Questo riguarda me e sono in grado di rispondere a Storace: non ho abbassato gli occhi davanti al fascismo neppure da bambino. E infatti non dimentico. Storace sa bene - anche se è temperamentalmente incline a mentire come i suoi amici negazionisti - che non abbasso gli occhi, adesso, né di fronte a lui né di fronte a coloro che formeranno il suo nuovo partito di destra-Salò, prima di confluire con una marcia gloriosa con Berlusconi, dove i meriti del suo tipo vengono prontamente riconosciuti. Se la destra è mercato, Storace si è messo in proprio, ha trovato negli insulti a Rita Levi Montalcini (di cui ha insinuato: «Era molto contenta quando riceveva i soldi dalla Regione Lazio») e nella volgarità dedicata al capo dello Stato, il suo avviamento, e in Matrix il suo maxi-spot. Ha anche detto, per far sapere al pubblico che non è solo: «Quante storie, ma se tutta la Casa delle libertà insulta ogni giorno i senatori a vita perché si permettono di votare». Ha detto, senza obiezioni da studio, che l’Assemblea Costituente (lui lo sa) voleva vietare il voto dei senatori a vita. Forse Mentana aveva davvero intenzione di confrontare Storace e la sua immensa volgarità con una intervista rivelatrice. Ma non gli è riuscito. Forse Storace ha un suo peso (non necessariamente morale) ed è consigliabile «maneggiarlo con cura». Forse, come diceva Moravia di gente che non gli piaceva: «Parla perché ha la bocca». Quanto a Storace, che ha toccato in questi giorni il punto più basso della politica italiana da molti anni, parla perché ha uno studio. Ma questa, caro Diario, è l’Italia dei nostri giorni. Pubblicato il: 19.10.07 Modificato il: 19.10.07 alle ore 8.49 © l'Unità. Titolo: Noi, nazisti della porta accanto - Ecco i nuovi estremisti di destra Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2007, 04:37:38 pm Aggressioni, risse e raduni segreti.
Centinaia di denunce sono arrivate negli ultimi sei mesi Tra Varese e Milano il nuovo laboratorio degli aspiranti resuscitatori del Terzo Reich Noi, nazisti della porta accanto Ecco i nuovi estremisti di destra dal nostro inviato PAOLO BERIZZI VARESE - La bambina ha sei anni e il braccio teso nel saluto nazista. I capelli biondi che le accarezzano le spalle, la frangetta, un vestito bianco, il sorriso inconsapevole come se stesse giocando alle belle statuine. In un'altra immagine è in piedi accanto al padre. Riproduce il gesto che le ha insegnato papà, camerata varesotto e nostalgico regimista. Poi ci sono i politici. Gente che ricopre incarichi istituzionali, che siede nei consigli comunali di importanti comuni lombardi. Nelle file di Alleanza Nazionale o del Movimento nazionalsocialista dei lavoratori (la riproduzione del partito nazista di Adolf Hitler, attivo dal 2002, tre seggi tra Nosate e Belgirate alle ultime elezioni amministrative). Le foto di cui Repubblica è entrata in possesso li ritraggono a volto scoperto, sprezzanti di fronte all'obiettivo, in pose ardite. La più truce è a metà tra una parata delle SS e un'istantanea di terroristi Nar. I quattro nazisti, giubbotto e occhiali scuri, uno di fianco all'altro, le mascelle serrate, salutano romanamente. Con una mano. Con l'altra impugnano pistole semiautomatiche. Sono puntate verso il fotografo. Uno la brandisce inclinandola in orizzontale; un altro la tiene appoggiata al petto. Sono nazisti d'Italia. Soldati delle nuova ultradestra del nostro Paese, una galassia che, tra partiti ufficiali, movimenti e sigle minori, conta qualcosa come 15 mila tra iscritti e simpatizzanti. Ben 97 episodi criminali del 2006 sono riconducibili a gruppi neofascisti, quasi il doppio di quelli registrati nel 2005. Un centinaio tra indagati, denunciati e arrestati solo negli ultimi sei mesi di quest'anno, in un'escalation di aggressioni e attentati soprattutto contro immigrati e avversati politici. I nazi che vi stiamo raccontando abitano nelle provincie di Varese e Milano. E' il nuovo laboratorio degli aspiranti resuscitatori del Terzo Reich. La Procura varesina li ha indagati per istigazione all'odio razziale. Una cinquantina di persone. Non solo e non tanto ragazzotti dai bicipiti gonfi e tatuati. Piuttosto professionisti, 40-50 anni, commercianti, antiquari, gioiellieri, politici noti, ben inseriti nel ricco tessuto sociale brianzolo. Tutti con una passione comune: il culto del Fuhrer e del Ventennio nazifascista. Li vedete immortalati in momenti di vita quotidiana: il giorno del matrimonio e assieme ai figli, in gita in montagna. Impegnati in parate militari nei boschi del varesotto, davanti a svastiche e falò. O al pub, tutti insieme, uniti dal "Sieg Heil!" e dal "Me ne frego!". Di fronte all'immagine di Hitler a grandezza naturale. Avvolti in bandiere con croci celtiche e uncinate e con il simbolo della Repubblica sociale italiana. Sono prodotti di un vento nero e denso che spira sull'Italia democratica del terzo millennio. Un vento che s'introduce nelle pieghe dell'antipolitica, punge le memorie e si insinua, infestandoli, in molti luoghi, e lì deposita una crosta sempre più spessa. Nelle curve degli stadi e nei consigli comunali. Nei pub di provincia e nelle sezioni dei partiti istituzionali (Fiamma tricolore, Forza Nuova, Fronte Nazionale). Nelle borgate e nei pensatoi della droite ezrapoundiana, lepeniana e franchista. Nei campi hobbit dove si formano i moderni balilla e in quelli rom presi di mira a colpi di molotov. La galassia nera è in fermento, sempre più nostalgica, sempre più violenta, sempre più sdoganata. In un hotel di Brescia sabato scorso è nato il Partito fascista repubblicano, fondatore tal Salvatore Macca, già combattente della Rsi e presidente emerito della Corte d'appello bresciana. A Sassari hanno varato il collettivo Azione fascista nazionalsocialista. A Latina è venuta al mondo Rifondazione fascista. E questo per dire solo i battesimi. Poi c'è tutto il resto: i raduni, i campi d'azione, i pestaggi rivendicati, i pellegrinaggi nei campi di concentramento per farsi ritrarre con l'accendino sotto le immagini delle sinagoghe bruciate (come i nazi-irredentisti altoatesini raccontati da L'Espresso in gita nel lager di Dachau). I negozi che vendono le felpe con il soldato SS che spara da sdraiato e i convegni come quello promosso il 29 settembre a Roma. Titolo: "Il passaggio del testimone - Dalla Rsi ai militanti del terzo millennio". Ai nazisti piacciono le birrerie. 24 febbraio 1920: nella birreria Hofbrauhaus di Monaco si proclama il manifesto del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Un anno dopo la guida del partito viene affidata a Adolf Hitler. 23 aprile 2007: al pub Biergarden di Buguggiate, Varese, si celebra la nascita del Fuhrer. Sono un centinaio a sbronzarsi di birra per festeggiare il compleanno del Capo. Intonano cori contro ebrei e comunisti, decantano la superiorità della razza ariana sui tavoli di legno del locale di Francesco Checco Lattuada, capogruppo di An a Busto Arsizio. "Sì, quella sera c'ero, ma solo perché il locale era mio" (ora è chiuso), si difende con qualche imbarazzo Lattuada. C'erano anche due suoi colleghi di partito, alla festicciola, Roberto Baggio e Alessandro Stazi, consiglieri aennini rispettivamente a Legnano e Rieti. Quest'ultimo accompagnato da un folto gruppo di camerati saliti dal Lazio. Sono stati tutti denunciati a piede libero, ma restano politicamente in carica. Sembrava di stare a Braunau (paese natale di Hitler) quella sera a Buguggiate. Ma il nazismo che andava in scena, spiato dalle cimici della Digos di Varese, era tutto italiano. Odorava di periferia, tracimava di odio contro gli immigrati. La bile che smuove il naziskin 25enne che incontriamo in un bar di Busto Arsizio. Sta piantato sugli anfibi con postura mussoliniana. "Di cosa parliamo...?", taglia corto. Cranio lucido, jeans aderenti, maglietta Blood and Honour (organizzazione internazionale per la difesa della razza ariana, simbolo una svastica nera in campo rosso). Solo la esse moscia lo umanizza un po', Andrea, il nome è inventato. Il resto è trucidismo puro. "Gli immigrati? Sono come gli ebrei, schifosi. Sterminarli tutti! Porco...", e giù una bestemmia, il motore dell'odio a pieni giri. Varese un po' più su. Gavirate. Agriturismo vista lago. Davanti a una tavola apparecchiata con salumi e formaggi, il padrone di casa Rainaldo Graziani, romano, figlio "orgoglioso" di Clemente, fondatore di Ordine Nuovo, leader degli ultradestricattolici di Compagnia Militante, prova a volare alto. "La nostra è una destra pensata, come dire: colta, che va sui contenuti". Quali siano questi contenuti un'idea se la sono fatta Maurizio Grigo e Luca Petrucci, procuratore capo e sostituto procuratore di Varese, titolari dell'inchiesta che ha stroncato, almeno per ora, il Movimento nazionalsocialista dei lavoratori. In cambio, tante lettere di minaccia. Graziani, pure indagato, se ne frega, atteggiamento che in fondo ha una sua coerenza storica. Dice: "Qui abbiamo ospitato due edizioni dell'Università d'estate, un forum di tutte le destre radicali europee. Non mi importa se mi danno del nazista. A me interessano altre cose: i valori naturali, la Fede, la patria, l'onore del nostro popolo". Altre parole, altri orizzonti. "Questo è l'avamposto dal quale partire alla conquista dell'Italia" confida a un amico il "generale" Pierluigi Pagliughi. 45 anni, commerciante da tempo convertito al nazismo, Pagliughi è il leader del Movimento lavoratori, di cui è consigliere comunale a Nosate. Secondo gli investigatori è lui l'ideologo della nuova culla nazista brianzola. Il programma politico? Un impasto di proposte di facile presa ("Tagliare i costi della burocrazia") e slogan di ammirazione per Hitler ("Avrebbe dato una Volkswagen gratis a tutti i tedeschi!"). Ma chi si muove alle spalle di Pagliughi? Solo giovani teste rasate o anche padri di famiglia con la camicia bruna nel cassetto? "Quello dei neonazisti è un ambiente molto eterogeneo", dice Fabio Mondora, dirigente della Digos di Varese. "Hanno un'organizzazione ben strutturata e collegata con gruppi estremisti stranieri" - aggiunge il sostituito procuratore Luca Petrucci. Dalla Brianza al Veneto. Anzi, al Veneto Fronte Skinhead. Vi ricordate il movimento nero più duro d'Italia, fondato nel 1986 e capace di intercettare e amalgamare giovani squadristi curvaioli e reduci repubblichini? Se lo davate per morto e sepolto, vi siete sbagliati. Il Fronte c'è, e lotta. Giordano Caracino, 27 anni, di lavoro fa il corriere. Guida il furgone dieci ore al giorno, poi, al motto di "Mai domi!", riunisce i suoi, 200 sparsi in tutto il Veneto, nei locali dell'hinterland vicentino. "Oggi il coraggio vero è affrontare la vita come gli arditi del Piave - dice - Arrivare a fine mese con i salari bassi e i mutui alti. Siamo noi i rappresentanti della working class". In passato il Fronte ha collaborato "in piazza" con il partito egemone della destra radicale italiana: Forza Nuova. Diecimila iscritti, il partito di Roberto Fiore ha messo il cappello sul "movimentismo" nero anti immigrati: "Ormai non ci picchiamo più coi "compagni", è più facile che ci siano risse con le compagnie interetniche - dice Paolo Caratossidis, nel direttivo nazionale forzanovista - Dove ci sono problemi di immigrazione, noi ci siamo". Se volano calci e pugni, fa niente. "Calci e pugni" d'altronde è anche il nome di una linea d'abbigliamento da stadio. La indossano i picchiatori neri delle curve romane e i militanti milanesi di "Cuore Nero". Alessandro "Todo" Todisco, 34 anni, operaio, ultrà interista, è il leader: "Ci hanno incendiato la sede prima che la inaugurassimo. Pensavano che avremmo sparato. Invece abbiamo fatto una festa. Vuole sapere cosa penso del nazismo? Sono stati nostri alleati, per questo dobbiamo rispettarli". Milano, Varese, Italia. I nazisti al tricolore. (20 ottobre 2007) da repubblica.it Titolo: Rodotà: «Poco rispetto per il Quirinale» Inserito da: Admin - Aprile 02, 2008, 03:00:22 pm POLITICA
Quindici anni di ostilità contro l'istituzione più alta della Repubblica Restano da vedere gli effetti dell'ennesimo strappo istituzionale alla vigilia del voto Il Colle ossessione del Cavaliere poi costretto a chiedere scusa di MASSIMO GIANNINI È infiacchito. Sembra imbolsito. Si dice che non abbia più tanta voglia. Ma ora che si avvicina l'ordalia del 13 aprile, sempre più spesso il Cavaliere stanco si lascia sopraffare dal vecchio Caimano che è in lui. Dai giorni ruggenti della sua discesa in campo del '94, Berlusconi ha trasformato il conflitto ideologico in uno strumento irriducibile della sua legittimazione politica, e il conflitto istituzionale in un metodo irrinunciabile della sua avventura di governo. Ora che risente vicina la possibilità di un ritorno a Palazzo Chigi, il leader del Pdl non resiste al richiamo della foresta. E riapre le ostilità contro con un simbolo che per gli italiani rappresenta la più preziosa delle istituzioni, ma per lui costituisce la più tormentosa delle ossessioni. Equiparare la presidenza della Repubblica alle "forche caudine" di un Capo dello Stato "che sta dall'altra parte" non è solo un'offesa nei confronti di un galantuomo come Giorgio Napolitano, che in questi due anni difficili non ha mai sconfinato dal perimetro delle funzioni istituzionali che la Costituzione gli assegna e non ha mai valicato il confine delle attribuzioni politiche che il mandato delle Camere gli ha assegnato. La sortita del Cavaliere è soprattutto un insulto nei confronti del sistema dei valori repubblicani, fondato sulla leale collaborazione tra le istituzioni, sul rispetto degli organi di garanzia, sul bilanciamento dei poteri dello Stato. Nonostante i quindici anni di militanza politica e i sei anni e mezzo di esperienza di governo, Berlusconi dimostra di non aver mai metabolizzato fino in fondo questi valori. Lui è e resta "altro". Per lui non ci sono interlocutori istituzionali o politici con i quali dialogare, ma solo nemici da sconfiggere o da imprigionare. Per lui il governo è e resta il Quartier Generale da espugnare, e il Quirinale è e resta il Palazzo d'Inverno da assediare. Ovviamente nell'attesa messianica di conquistare anche quello, e di consegnare finalmente se stesso alla Storia. La sua uscita di ieri si può spiegare solo in questa ottica distorta del gioco democratico. E a niente valgono i soliti tentativi di ridimensionare la portata dell'attacco al Colle, con la prassi collaudata delle autosmentite successive. Non bastano le parole riparatorie nei confronti di Napolitano, non basta evocare "l'ottimo rapporto", la "stima e l'affetto" ricambiati. Non basta la telefonata di scuse con il Capo dello Stato, per precisare che "lui non c'entra niente". Per quanto cordiale e contrita sia stata quella chiamata, il danno si è già prodotto. O meglio: ri-prodotto. La toppa che il Cavaliere prova a mettere in serata è peggiore del buco che creato nel pomeriggio. Berlusconi chiarisce che il suo discorso si riferiva al precedente settennato di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale il suo governo ha avuto "un rapporto dialettico", e con il quale si è creato un attrito a proposito della riforma della legge elettorale, con quel premio di maggioranza regionale "che il Quirinale ha preteso". Il Cavaliere mente due volte. La prima volta: il "rapporto dialettico" con Ciampi lo ha creato lui, con le continue forzature legislative che hanno piegato l'economia ai suoi sogni personali e il diritto ai suoi bisogni processuali. Se Ciampi ha rifiutato di firmare la legge Gasparri sulle Tv o la legge Castelli sulla giustizia non dipende dal fatto che stesse "dall'altra parte", cioè che fosse un pericoloso "comunista", ma dal fatto che "dall'altra parte" ci stesse invece lui, il Cavaliere, che era e resta un avventuroso populista. La seconda volta: non è stato certo Ciampi a imporre il premio su base regionale a Palazzo Madama nella formula mostruosa declinata dal "porcellum". Il Colle, in quell'occasione, si limitò a segnalare la necessità che si rispettasse il dettato costituzionale: l'articolo 57 prescrive che il Senato della Repubblica sia "eletto a base regionale". Tutto qui. Il resto, che l'Italia sta pagando a caro prezzo, lo fecero i sedicenti "esperti" della vecchia Casa delle Libertà: quattro apprendisti stregoni riuniti in una baita di Lorenzago. Semmai, se l'ex Capo dello Stato ha avuto una colpa, è stata quella di non aver rimandato alle Camere anche quell'orribile legge Calderoli, costruita con l'unico obiettivo (purtroppo raggiunto) di rendere il Paese ingovernabile. Altro che "dall'altra parte": Berlusconi dovrebbe ringraziare Ciampi, invece che insolentirlo. Si tratta ora di vedere quali saranno gli effetti di questo ennesimo strappo istituzionale, nei pochi giorni che restano prima delle elezioni. Anche se animato dalla giusta intenzione di ristabilire un principio, ma anche di svelenire la polemica, è difficile che il comunicato diffuso dal Quirinale possa chiudere la partita. Quel testo è al tempo stesso inquietante e confortante. Inquieta il fatto che la più alta magistratura istituzionale del Paese debba essere costretta a ribadire, in piena campagna elettorale, un'evidenza oggettiva di cui nessun leader politico e nessun cittadino comune dovrebbe mai dubitare: la presidenza della Repubblica è per definizione sostanziale e costituzionale un organo di garanzia, che interloquisce ma non interferisce con gli altri poteri dello Stato. Conforta il fatto che in questa nostra "Repubblica transitoria" in cui tutto sembra rapidamente deperibile e variamente manipolabile, dai fatti della cronaca ai giudizi della storia, il Quirinale rappresenta l'unico presidio autenticamente no-partisan del sistema democratico. L'unico "luogo" fisico e simbolico della politica italiana che non si lascia snaturare dalle logiche iper-partisan e che assicura la necessaria unità dell'azione e la doverosa continuità della missione, indipendentemente da chi sia l'inquilino che lo abita. Non è una cosa da poco, visti i possibili scenari del dopo 13 aprile. E visto soprattutto l'incontenibile istinto del Cavaliere ad usare l'Italia come una semplice appendice di Forza Italia. (2 aprile 2008) da repubblica.it Titolo: Rodotà: «Poco rispetto per il Quirinale» Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 09:24:09 am Rodotà: «Poco rispetto per il Quirinale»
Andrea Carugati «L’indicazione preventiva dei ministri potrebbe essere interpretata come un tentativo di condizionare il presidente della Repubblica e portare a un conflitto istituzionale. Per questo è stato opportuno che il segretario generale del Quirinale Donato Marra abbia ricordato le procedure legittime per la formazione di un governo». Stefano Rodotà, ordinario di Diritto civile alla Sapienza, commenta «l’attivismo» del premier in pectore Silvio Berlusconi, dai ministri indicati anzitempo, agli incontri internazionali con Putin al caso Alitalia. Rodotà in particolare cita il caso di Porta a Porta: Berlusconi in collegamento ha fatto nomi di ministri, Rosy Bindi ha fatto presente che la Costituzione prevedeva una procedura diversa e Bruno Vespa le ha detto, in sostanza, che le sue erano nostalgie per le lungaggini della Prima Repubblica. A quel punto Marra ha scritto a Vespa per ricordare le prerogative del Quirinale (la lettera è stata letta dal conduttore in una successiva puntata di Porta a Porta). «Il conduttore ha fatto una gaffe e Berlusconi, anche in questo caso, ha mostrato un senso delle istituzioni non molto elevato», dice Rodotà. Eppure è legittimo che un giornalista chieda al vincitore delle elezioni chi saranno i ministri... «Certamente, ma il ministro Bindi ha richiamato correttamente i poteri del Quirinale e il conduttore non ha colto l’occasione per ribadire la corretta prassi costituzionale. Anzi, ha quasi irriso il ragionamento del ministro Bindi. Il giornalista ha tutto il diritto di esercitarsi sul toto-ministri, ma non si deve mai dimenticare che i poteri del presidente della Repubblica nella formazione del governo non sono un’anticaglia». La lettera del Quirinale è stata indirizzata al giornalista, non al vincitore delle elezioni. «Nel momento in cui si sottolineano le prerogativa del presidente della Repubblica, c’è anche un’indicazione molto chiara al premier in pectore». Eppure ormai la prassi è cambiata. Il governo viene scelto dai cittadini, seppur in modo indiretto. «Si è creato un senso comune, ma in Italia non c’è l’elezione diretta del premier. In questi anni le modifiche alle leggi elettorali con l’indicazione preventiva del premier hanno creato creato una prassi che condiziona i poteri del presidente della Repubblica. E tuttavia questo non cancella la parte successiva dell’articolo 92 della Costituzione che riguarda il potere di nomina dei ministri. Nel 2001 già il presidente Ciampi aveva richiamato questa norma davanti all’attivismo di Berlusconi. Scalfaro fece di più: bloccò la nomina di Cesare Previti al ministero della Giustizia esercitando i suoi legittimi poteri. Non è solo un dato formale. L’Italia non è una repubblica presidenziale, la persona indicata sulle schede elettorali non è investita di alcun potere prima della nomina da parte del presidente della Repubblica e della fiducia del Parlamento. Non si tratta di passaggi superflui». Lei citava il caso del 2001. Le pare che oggi questo slittamento verso un presidenzialismo di fatto si sia accentuato? «C’è stata una maggiore evidenza pubblica di questo fenomeno sia nel caso Alitalia che nell’incontro con Putin. In entrambi i casi sarebbe stata auspicabile una maggiore misura da parte del premier in pectore. È normale che i potenziali interlocutori del caso Alitalia siano attenti al governo che verrà, e che Berlusconi dedichi altrettanta attenzione al dossier, anche incontrando Putin. E tuttavia non è il massimo dell’eleganza che un capo di stato straniero si precipiti a parlare non con il governo legittimo ma con il futuro premier. Anche se questo avviene in una sede privata come la villa in Sardegna». Sembrava un vertice internazionale... «Appunto, non è stato un segnale di particolare correttezza da parte di entrambi. Capisco la voglia di dare la sensazione che i poteri siano già passati e di mostrarsi efficiente, ma viviamo in una democrazia parlamentare e la forma è sostanza. L’incontro tra Gianni ed Enrico Letta sul caso Alitalia è stato un esempio positivo: questo è un modo corretto di affrontare una fase di transizione, senza tagliare fuori il governo in carica. Questo vale anche per la nomina del sostituto di Frattini alla Commissione europea: se le dimissioni ci saranno prima della nascita del novo governo, Prodi potrebbe essere costretto a colmare il vuoto. Anche in questo caso sarebbe corretta una consultazione tra le due parti. Ma non vi è dubbio che questa è una prerogativa del governo in carica». Sulle nomine degli enti pubblici Prodi ha fatto un passo indietro in attesa del voto... «Avrebbe potuto procedere alle nomine e non l’ha fatto per rispetto del futuro governo. Nel caso di Berlusconi invece vengono svolte attività che ancora non sono formalmente di competenza. È evidente che si tratta di due modi assai diversi di intendere le istituzioni». Pubblicato il: 20.04.08 Modificato il: 20.04.08 alle ore 8.11 © l'Unità. Titolo: STEFANO RODOTA' Una crisi di regime Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 05:29:38 pm L'EDITORIALE
Lo tsunami costituzionale di STEFANO RODOTA' 1) La turbolegge. Berlusconi vuole imporre in tre giorni una norma che cancella ogni traccia di divisione dei poteri, per impedire l'attuazione di un provvedimento giudiziario passato in giudicato e inventando un nuovo circuito istituzionale, che affida a un Parlamento incatenato il compito d'essere il killer dei giudici. Ma la strada scelta è, tecnicamente, non percorribile. Nella relazione che accompagna il disegno di legge del Governo si sostiene che non siamo di fronte ad una sentenza passata in giudicato, perché i giudici non hanno accertato un diritto, ma si sono limitati ad integrare la volontà di un privato, quella di Eluana Englaro, con un semplice provvedimento di"volontaria giurisdizione". Non è così. Quando la Cassazione ha ammesso il ricorso straordinario contro il decreto della Corte d'appello, che autorizzava la procedura di interruzione dei trattamenti, lo ha potuto fare proprio in considerazione del fatto che si trattava di un provvedimento relativo a diritti, che assume i caratteri del giudicato e che, quindi, detta una disciplina immutabile del diritto considerato. Ed è principio indiscutibile in tutti gli ordinamenti che la legge sopravvenuta non può influire sul diritto sul quale il magistrato si è pronunciato con un provvedimento passato in giudicato. Il Governo tenta una ennesima forzatura, pericolosa e inutile. Pericolosa, perché insiste su una soluzione che, con rigore tecnico, era stata ritenuta non percorribile dal Presidente della Repubblica: si vuole, dunque, mantenere aperto il conflitto con Napolitano. Inutile, perché non sarà possibile intervenire in modo legittimo per bloccare l'attività già avviata di interruzione dei trattamenti sulla base di una legge su questo punto chiaramente incostituzionale. Quali altri atti di forza, allora, si escogiteranno per espropriare i cittadini della possibilità di condurre "la lotta per il diritto" - è questo il titolo d'un classico del liberalismo ottocentesco, del giurista Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato negli anni del fascismo - e per impedire che possano avere ancora "giudici a Berlino"? Questa era l'orgogliosa sfida del mugnaio di Sans-Souci in presenza di Federico il Grande. Mugnai e giudici stanno perdendo diritto di cittadinanza in Italia? 2) L'inammissibile libertà. Dice il cardinale Ruini: "Preferisco parlare di una legge sulla fine della vita. La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto". Il mutamento linguistico, dunque, rivela un capovolgimento concettuale e politico. Per quante perplessità il ricorso al termine "testamento" possa suscitare dal punto di vista tecnico-giuridico, esso esprime bene il fine che si vuol raggiungere. Testamento biologico, testament de vie, living will ci parlano di un "atto personalissimo", in cui è sovrana la volontà dell'interessato. Certo, la vita non è un oggetto, ma appartiene sicuramente alla sfera più intima dell'interessato che, com'è ormai chiaro, giuridicamente può disporne e ne dispone. Quando, invece, si parla di una legge sulla fine della vita, il legislatore non si fa signore della morte, perché questo è un evento naturale sul quale nessuno può intervenire. Si impadronisce del morire, che è vicenda umana, alla quale si pretende di imporre regole autoritarie, incuranti delle ragioni della coscienza di ciascuno. La coscienza, allora, che in politica compare soprattutto come diritto al dissenso. Diritto già negato dal Presidente del Consiglio ai suoi ministri, che avrebbero potuto manifestarlo in quest'ultima vicenda solo dando contestualmente le dimissioni. E che i tempi imposti e la minaccia della fiducia negano anche ai parlamentari della maggioranza, perché il dissenso non è solo dire un sì o un no, ma la possibilità di argomentare, di discutere in quel foro democratico che continuiamo a chiamare Parlamento. Il fatto che il diktat berlusconiano non si estenda direttamente ai parlamentari dell'opposizione non esclude che anche nei loro confronti si commetta un sopruso. Ma bisogna guardare più a fondo. Quando le decisioni legislative incidono direttamente sull'autonomia delle persone nel governare la loro vita, la libertà di coscienza non è solo quella dei parlamentari. La libertà di coscienza da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi deve stabilire le regole: investe la legittimità stessa dell'intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: quando si affrontano i temi eticamente sensibili la libertà di coscienza dei legislatori può divenire massima, quella dei destinatari della norma minima. 3) Un "pieno" di diritto. Si è detto, e si continua a ripetere, che una legge è comunque necessara, perché bisogna colmare un pericoloso vuoto legislativo. Per l'ennesima volta invito a leggere la sentenza della Corte di Cassazione dell'ottobre 2007, la decisione centrale per il caso Englaro, che mostra rigorosamente come il diritto al rifiuto di cure, anche per il futuro, sia solidamente fondato su norme costituzionali, su convenzioni internazionali ratificate dall'Italia (non quella sui disabili, abusivamente richiamata nell'atto di indirizzo del ministro Sacconi), su articoli della legge sul servizio sanitario (e del codice civile, come quelli sull'amministrazione di sostegno per gli incapaci). Siamo di fronte a un "pieno" di diritto, che si vuole "svuotare" con una mossa restauratrice, invece di integrarlo con poche, semplici norme che rendano più agevole e sicuro l'esercizio di un diritto che, lo ripeto, già esiste, non è un'inaccettabile creazione giurisprudenziale. L'argomento del far west lo conosciamo e ha sempre prodotto danni, come dimostra tra l'altro la pessima legge sulla procreazione assistita, che davvero ha prodotto un far west legato ad un "turismo procreativo", che nasce da un proibizionismo cieco e rende più difficile la vita delle persone, delegittimando ai loro occhi una legge che sono obbligati ad aggirare. Se la turbolegge passerà, ponendo le premesse per una normativa proibizionista sulla fine della vita, si daranno incentivi al turismo "eutanasico", alle pratiche clandestine già tanto diffuse. Verrà così santificata la doppia morale - fate, ma senza clamore e scandalo. E saranno sconfitti tutti quelli che vogliono rimanere nel solco della legalità e dello Stato di diritto, come ha dolorosamente voluto Beppino Englaro, un eroe civile al quale nessuno dedicherà un film come ha fatto la civilissima America per le storie di Erin Brockovich e Harvey Mills. 4) La Costituzione "sovietica". Con la nuova dottrina costituzionale del Presidente del Consiglio si precipita in un abisso culturale, in mare di contraddizioni. Non si accorge, il Presidente del Consiglio, del grottesco di una argomentazione che lamenta la debolezza dei suoi poteri costituzionali, e poi accusa la stessa costituzione d'aver preso a modello quella sovietica, che appartiene ad uno dei regimi più violentemente dittatoriali che la modernità abbia conosciuto? Sa che la Costituzione italiana ha inventato un modo nuovo di parlare dell'eguaglianza? Che ha anticipato tutti gli sviluppi successivi su temi come quelli della salute o del paesaggio, all'epoca ignorati da tutti i grandi documenti costituzionali, la costituzione francese e quella tedesca, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'Onu e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo? Sarebbe vano ricordare al Presidente del Consiglio la bella frase con la quale Piero Calamandrei descriveva la nostra come una "Costituzione presbite", dunque capace di guardare lontano e di inglobare il futuro. Risponderebbe senza esitazioni che Calamandrei era "un comunista". E sarebbe pure vano ricordargli che "i principi supremi" della Costituzione non possono essere modificati neppure con il procedimento di revisione costituzionale, e che tra questi principi supremi vi è proprio quello di laicità, perduto in questo clima di sottoposizione della Costituzione alla tutela vaticana. E che esiste un principio che impone al Governo di "coprire" il Presidente della Repubblica, sì che ci si doveva attendere una protesta ufficiale per la dichiarazione ufficiale vaticana di "delusione" per il comportamento di Giorgio Napolitano. L'obiettivo è chiaro. Rompendo con la Costituzione, Berlusconi infrange il patto civile tra i cittadini e non ci porta verso una Terza o una Quarta Repubblica, ma verso un cambiamento di regime, ad una sovversione, ad una radicale sostituzione del governo della legge con quello degli uomini (Platone, non Stalin). Ha colto nel segno Ezio Mauro quando ha parlato di una palese deriva bonapartista. Stiamo vivendo una vicenda che sta a metà tra "Napoleone il piccolo" (Victor Hugo) e "La resistibile ascesa di Arturo Ui" (Bertolt Brecht). Resistibile, Ma bisogna resistere davvero e subito o non vi sarà tempo per ripensamenti e pentimenti. (9 febbraio 2009) da repubblica.it Titolo: STEFANO RODOTÀ. La nuova legge truffa Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 02:50:33 pm IL COMMENTO
La nuova legge truffa di STEFANO RODOTÀ Torna un'espressione che sembrava confinata nel passato - "legge truffa". Ed è giusto che si dica così, perché non altrimenti può essere definito il testo preparato dalla maggioranza per introdurre nel nostro sistema le "direttive anticipate di trattamento" (o testamento biologico) e che, in concreto, ha l'opposto obiettivo di cancellare ogni rilevanza della volontà delle persone. Non solo per quanto riguarda il morire, ma incidendo più in generale sulla possibilità stessa di governare liberamente la propria vita. Poiché, tuttavia, si discute di fondamenti, appunto dello statuto della persona e del rapporto tra la vita e le regole giuridiche, bisogna almeno fare un tentativo di andar oltre la rozzezza delle argomentazioni che ci hanno afflitto in queste difficili settimane e che rischiano di trascinarsi anche nell'immediato futuro. Due ammonimenti dovrebbero guidare chi si accinge a legiferare sulla dignità del morire. Il primo viene da un grande giudice americano, Oliver Wendell Holmes: "Hard cases make bad laws", i casi difficili producono leggi cattive. Questa affermazione lapidaria è stata variamente interpretata e discussa, ma se ne può cogliere il nocciolo nell'invito a separare la legge dall'occasione, la creazione di una norma destinata a durare dall'emozione di un momento. Rischia di accadere il contrario. L'ossessione della turbolegge (ieri in tre giorni, oggi in tre settimane) possiede la maggioranza e frastorna il Pd. Non riflessione pacata, ma frettolosa imposizione di norme incuranti della loro coerenza interna e, soprattutto, della loro conformità alla Costituzione. Il secondo ammonimento è nell'alta riflessione di Michel de Montaigne: "La vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme". Quest'intima sua natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da quest'antico conflitto, nascono le difficoltà che oggi registriamo, più intense di quelle del passato perché l'innovazione scientifica e tecnologica fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere, vivere, di morire. L'occhio del giurista, e del politico, deve registrare questa difficoltà, e cogliere le novità del quadro. Da una parte, l'impossibilità di continuare ad usare il diritto secondo gli schemi semplici del passato, pena la sua inefficacia, la sua riduzione a puro strumento autoritario, la perdita di legittimazione sociale. E, dall'altra, l'ampliarsi delle possibilità di scelta che appartengono alla libertà individuale, che riguardano solo la propria vita, e che per ciò non possono essere sacrificate da mosse autoritarie, da imposizioni ideologiche, senza violare l'eguale libertà di coscienza. La legge, dunque, deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d'un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all'irriducibile unicità di ciascuno - la vita, appunto. Quando ciò è avvenuto, libertà e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso "la rivoluzione del consenso informato" nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell'esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L'autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle "protettive". Riconoscere l'autonomia d'ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente. Non a caso, riflettendo proprio sul consenso informato, si è detto che questo strumento, sottraendo il corpo della persona alle pretese dello Stato e al potere del medico, aveva fatto nascere "un nuovo soggetto morale". Se il testo sul testamento biologico proposto dalla maggioranza dovesse diventare legge, sarebbe proprio questo soggetto a scomparire. Ma qui s'incontra un altro, e ineludibile, ammonimento, l'articolo 32 della Costituzione. Ricordiamone le ultime parole: "La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". è, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall'articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell'articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell'esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all'indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell'interessato. Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, l'antica promessa che il re, nella Magna Charta, fa ad ogni "uomo libero": "Non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese". Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale "in nessun caso" si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, una assemblea costituente, ha rinnovato la sua promessa di intoccabilità a tutti i cittadini. La proposta della maggioranza si allontana proprio da questo cammino costituzionale. Nega la libertà di decisione della persona, riporta il suo corpo sotto il potere del medico, fa divenire lo Stato l'arbitro delle modalità del vivere e del morire. Le "direttive anticipate di trattamento", di cui si parla nel titolo, non sono affatto direttive, ma indicazioni che il medico può tranquillamente ignorare, con un grottesco contrasto tra la minuziosità burocratica della procedura per la manifestazione della volontà dell'interessato e la mancanza di forza vincolante di questa dichiarazione, degradata a "orientamento". La libertà della persona viene ulteriormente limitata dalle norme che indicano trattamenti ai quali non si può rinunciare e, più in generale, da norme che vietano al medico di eseguire la volontà del paziente, anche quando questi sia del tutto cosciente. Tutto questo ha la sua origine in una premessa che altera gravemente il quadro costituzionale, poiché si afferma che "la Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile e indisponibile". Ora, se è ovvio che nessuno può disporre della vita altrui, altrettanto ovvio dovrebbe essere il principio che vuole ogni persona libera di rifiutare la cura, qualsiasi cura, disponendo così della sua vita. Proprio questo diritto viene illegittimamente negato quando si vieta al medico "la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente". Conosciamo, infatti, infiniti casi in cui persone hanno rifiutato interventi sicuramente benefici - dalla dialisi, alla trasfusione di sangue, all'amputazione di un arto - decidendo così di morire. Si introduce così un "obbligo di vivere", che contrasta proprio con i diritti fondamentali della persona. E' abusivo anche il divieto di rifiutare l'alimentazione e l'idratazione, definite "forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze", con una inquietante deriva verso una "scienza di Stato". Quella affermazione, infatti, è quasi unanimemente contestata dalla scienza medica, sì che un legislatore rispettoso davvero dei diritti delle persone dovrebbe, se mai, limitarsi a prevedere modalità informative tali da mettere ciascuno in condizione di valutare e decidere liberamente, davvero in "scienza e coscienza": ma, appunto, scienza e coscienza della persona, non del medico o di un legislatore invasivo. E si tratta pure di una affermazione puramente ideologica, che ha come unico fine quello di continuare a gettare un'ombra sulla conclusione della vicenda di Eluana Englaro. Inoltre, dietro il nominalismo della distinzione tra "trattamento" e "sostegno", si coglie la volontà di aggirare l'articolo 32, dove l'imposizione di trattamenti obbligatori è legata a situazioni particolari o eccezionali (vaccinazioni obbligatorie in caso di epidemia). Questa prepotenza legislativa si concreta anche in un trasferimento di enormi poteri ai medici, caricati di responsabilità che li indurranno ad assumere atteggiamenti fortemente restrittivi, così trasformando la proclamata "alleanza terapeutica" con il paziente in una situazione che prepara nuovi conflitti che, alla fine, saranno ancora i giudici a dover decidere. Delle molte sgrammaticature giuridiche di quel testo si potrà parlare in un'altra occasione. Ma qui conviene concludere con una domanda francamente politica. Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al "partito della morte", una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico? (15 febbraio 2009) da repubblica.it Titolo: Il "j'accuse" di Stefano Rodotà Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:05:51 am Una legge liberticida
di Daniela Minerva La proposta del governo sul testamento biologico è anticostituzionale. Perché toglie ai cittadini la libertà di scegliere. Il "j'accuse" di Stefano Rodotà Quando Emma Bonino e Pietro Ichino hanno chiesto, nei giorni scorsi, una moratoria sul testo Calabrò, in discussione al Senato, che si avvia a diventare la legge italiana sul testamento biologico, in molti hanno pensato che forse era la strada migliore. Per evitare una legge orribile che vieta di fatto a ciascuno la libertà di scegliere come e quando farsi o non farsi curare. Poi, il Senato l'ha rifiutata, ma il presidente Renato Schifani ha detto che, comunque, non c'è fretta e che il Parlamento deve prendersi tutto il tempo necessario per decidere su una materia così complessa. Insomma, tutta l'urgenza palesata dal centrodestra durante gli ultimi giorni di Eluana Englaro si è dissolta al vento di mille malumori, tanti e blasonati come quelli di Beppe Pisanu che obietta l'incostituzionalità del testo. E anche nel centrosinistra non sfugge a nessuno che il testo Calabrò, ancorché emendato in alcune sue parti, resta un testo pasticciato e inattuabile che permette agli operatori sanitari di mettere le mani sul nostro corpo senza che noi glielo consentiamo esplicitamente. Che genererà una serie infinita di controversie. E molti oggi si chiedono: ma c'è davvero bisogno di procedere con una norma di questo genere? Abbiamo girato la domanda al giurista Stefano Rodotà. Professor Rodotà, lei vede l'urgenza di una legge sul testamento biologico? "Nel nostro ordinamento abbiamo già tutte le norme che ci consentono di regolare la materia. Abbiamo il principio della libertà di cura espresso dalla Costituzione; la norma del Servizio sanitario sul consenso informato e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che all'articolo 3 vi fa esplicito riferimento; la Convenzione di Oviedo sulla biomedicina che dà rilevanza alle direttive anticipate. Poi, nel codice civile è stato introdotto il cosiddetto amministratore di sostegno a cui delegare le decisioni per nostro conto. Insomma: certo non c'è vuoto legislativo". Quindi non c'è bisogno della legge? "Non ce ne sarebbe bisogno, perché non c'è vuoto legislativo. Ma non esiste una convenzione sociale di accettazione di questi principi, come dimostra il fascicolo aperto dalla Procura di Udine a carico di Beppino Englaro, che non ha senso dal punto di vista giuridico. E in assenza di una legge, il rischio concreto che si continuino a manifestare conflitti è del tutto evidente. Quindi, per avere garantita la zona di libertà che indica la Costituzione, serve una legge che dice: 'Quella è una zona di libertà'". Ma la legge possibile oggi è il testo Calabrò. "No: quello è un testo contrastante con la Costituzione. Su questo non c'è il minimo dubbio". Finiremo con l'essere l'unico paese al mondo con obbligo di cura? "Sì. Eppure noi abbiamo una premessa costituzionale che tutela la libertà della persona e che vieta i trattamenti sanitari a chi non li accetti 'se non per disposizione di legge'. Ovvero in situazioni particolari, se ci sono pericoli per la collettività". Stiamo parlando dell'articolo 32? "Nell'articolo 13, l'articolo storico che fonda la libertà giuridica moderna, si dice che sono possibili limitazioni alla libertà personale attraverso la legge e con atto motivato dell'autorità giudiziaria. Il 32 è più forte: esplicita che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. E riconosce che c'è un punto in materia di trattamenti sanitari dove il legislatore si deve fermare. La logica è quella dell'Habeas corpus della Magna Charta inglese del 1215, quando il re disse agli uomini liberi: 'Non metteremo la mano su di te'. L'articolo 32 è il moderno Habeas corpus: lo Stato sovrano democratico dice al cittadino che non violerà il suo corpo. Con un testo di legge come il disegno Calabrò torneremmo indietro di 794 anni". Che tipo di legge dovremmo scrivere? "Una legge estremamente leggera che renda possibile accertare la volontà della persona e renderla vincolante. E basta. In queste materie si deve procedere con una legislazione per principi, perché si tratta di materie nelle quali l'innovazione scientifica e tecnologica è rapidissima, e di conseguenza la legislazione non può essere concepita come un inseguimento continuo, sarebbe sempre in ritardo. Quindi la legge non deve definire dettagli tecnici. E deve preoccuparsi che i principi di riferimento, quelli stabiliti dalla Costituzione, possano essere applicati alle situazioni specifiche, perché la vita non può essere racchiusa in un unico schema. Nessuna persona è uguale all'altra, nessuna sensibilità personale o famigliare può essere stabilita una volta per tutte". In concreto, quindi, cosa deve definire la legge? "Stabilire che la persona interessata debba essere messa nelle condizioni di poter liberamente decidere come applicare su di sé i principi di riferimento. Dunque, nel caso di un cittadino che si trovi in uno stato vegetativo dobbiamo fare solo due cose: accertare che lo stato sia effettivamente persistente; e accertare qual era l'effettiva volontà del soggetto, eventualmente ricorrendo all'ausilio di chi è stato nominato fiduciario dalla persona stessa". Invece in Senato si stanno discutendo questioni di dettaglio: come valuta l'emendamento dei rutelliani che esclude l'idratazione e la nutrizione artificiale dal novero dei trattamenti che possono essere oggetto delle Direttive anticipate di trattamento? Piace anche al centrodestra e quindi potrebbe essere il testo definitivo. "Si va alla ricerca di un compromesso, e si finisce col fare una forzatura col solo scopo di mantenere un imprinting ideologico. Ma questo tipo di esclusione è in contrasto con i principi che regolano la materia. L'anno scorso, con la sentenza 438/08, la Corte costituzionale ha sancito la validità del consenso informato perché è la sintesi di due diritti fondamentali: quello all'autodeterminazione e quello alla salute. Qualunque artificio che non tenga conto di questo è destinato a generare infinite controversie". (05 marzo 2009) da espresso.repubblica.it Titolo: STEFANO RODOTÀ Il dovere della chiarezza Inserito da: Admin - Luglio 13, 2009, 11:23:34 pm IL COMMENTO
Il dovere della chiarezza di STEFANO RODOTÀ Archiviato il G8, con un indubbio successo personale del presidente del Consiglio, dovranno pure essere archiviate tutte le vicende che, negli ultimi turbinosi tempi, hanno riguardato la sua figura pubblica? Può un nuovo corso politico cominciare all'insegna di una omissione? Non è un accanimento ingiustificato a sollecitare queste domande, ma proprio la necessità di avere una vita politica davvero limpida. Peraltro, era stato lo stesso Silvio Berlusconi a annunciare una svolta sul piano dei comportamenti. Un proposito limitato ai giorni aquilani o destinato a produrre qualche frutto anche in futuro? Il premier ha un'opportunità. Andare in un luogo che non ama, ma centrale per le istituzioni come il Parlamento, e rispondere alle domande che gli sono state poste. Ricordava ieri Eugenio Scalfari che la maggiore sobrietà mostrata da Berlusconi durante il G8 può darsi che sia stata determinata anche dalla chiarezza con la quale una parte del sistema dell'informazione ha criticato il suo modo d'impersonare la più alta responsabilità politica del Paese, con echi globali che certamente non hanno giovato né alla sua credibilità, né a quello che enfaticamente si chiama il buon nome dell'Italia. E' così emersa, inaspettatamente, la forza d'una opinione pubblica che si pensava ormai indifferente o addirittura dissolta, incapace di avere reazioni politicamente significative. Gli effetti si sono visti in occasione delle elezioni europee, nelle parole taglienti del segretario della conferenza episcopale italiana. Proprio questa risvegliata opinione pubblica, questo mondo che non ha dimenticato i doveri della moralità pubblica, sono ancora in credito. I buoni propositi sono sempre importanti, ma la loro fondatezza si deve subito misurare dal modo in cui si dimostra consapevolezza piena della responsabilità degli uomini pubblici nei confronti dei cittadini, di tutti i cittadini. E' giusto non alzare inutilmente i toni, ma questo non può significare dimenticare frettolosamente quel che è avvenuto e che, per altri versi, continua a essere oggetto di accertamenti giudiziari e inchieste giudiziarie. Se si scegliesse questa strada e non si continuasse a chiedere con voce sommessa ma chiara la verità, il già debole tessuto civile sarebbe ulteriormente logorato. Sono state proprio le troppe compiacenze e assoluzioni a buon mercato dei potenti a dare una spinta decisiva all'antipolitica, a creare un clima politico che ha spalancato le porte a una ricerca del consenso che fa leva più sui vizi che sulle virtù repubblicane. Illegalità sempre blandita, razzismo sempre meno strisciante, frequentazioni a dir poco disinvolte hanno legittimato una clima diffuso che costituisce un brodo di coltura che certo non fa bene alla democrazia. Qui è il punto. La vicenda delle frequentazioni di Berlusconi, che nessun criterio consente di confinare nel privato, dev'essere chiarita per evitare che, per l'ennesima volta, la resistenza passiva dei politici, il loro "ha dda passà 'a nuttata" o "chinati juncu che passa la china", alla fine trionfino, non solo garantendo impunità, ma dando un pessimo esempio sociale. Non si tratta di andare alla ricerca di responsabilità penali, ma di rimettere in onore la responsabilità politica, praticamente cancellata in questi anni. E' una impresa impegnativa, perché il fronte della responsabilità politica deve essere presidiato da molti soggetti. Quanta parte del sistema dell'informazione ha fatto il suo dovere? Quanta parte del ceto politico non vede l'ora di chiudere la "parentesi moralistica" per tornare agli usati costumi? Se attingiamo alla cultura pop, ci imbattiamo in Caterina Caselli: "La verità ti fa male, lo so... Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu". Probabilmente queste sono oggi le fonti, consapevoli o no, alle quali ci si ispira in un momento che esigerebbe meno leggerezza e maggiore consapevolezza di che cosa voglia dire far politica in un sistema democratico. Non suggerisco altre canzoni o altre letture. Richiamo il senso della verità in politica, che è componente essenziale della legittimazione stessa delle istituzioni, e che non può essere accantonato con una mossa cinica o di malinteso realismo politico (che, peraltro, non ha finora dato alcun profitto alle opposizioni). L'obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d'informazione sul versante dei cittadini. Nell'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'Onu si afferma che "ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Questo diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo aperto di conoscenza, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell'assolutismo politico, che vuole proprio escludere la discussione, il confronto, l'espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie. Proprio questa ovvia considerazione ci dice che la partita in corso intorno alle mille verità, contraddizioni, reticenze, bugie sulla vicenda personale del presidente del Consiglio deve concludersi in modo da evitare ogni inquinamento del sistema democratico. Aspettiamo pazienti. Ma della pazienza si può abusare, come si disse per quel Catilina citato a sproposito nei paraggi berlusconiani. Perché l'abuso non si consolidi, e diventi regola, bisogna non stancarsi di insistere. (13 luglio 2009) da repubblica.it Titolo: STEFANO RODOTA' Una crisi di regime Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2009, 03:27:15 pm Dopo le minacce eversive da Bonn
Rodotà: “Un errore il dialogo. Adesso Berlusconi va isolato” Andrea Fabozzi intervista Stefano Rodotà, da "il manifesto", 11 dicembre 2009 «Siamo al punto: dopo aver praticamente chiuso il parlamento, dopo aver ridotto il Consiglio dei ministri a un comitato di affari del presidente del Consiglio, ecco che Berlusconi annuncia la sospensione dei diritti costituzionali. Perché è questo il significato dell'attacco alle istituzioni di garanzia». Stefano Rodotà commenta con preoccupazione le parole di ieri di Silvio Berlusconi. E aggiunge: «Qualcuno mi aveva detto che ero stato eccessivo a scrivere che in Italia c'era il rischio dell'estinzione dello stato costituzionale di diritto ma è esattamente quello che sta succedendo. Nella cultura di Berlusconi non c'è la democrazia. È un padrone delle ferriere con l'attitudine a identificare l'interesse generale con il suo interesse personale». L'interesse e la volontà generale, spiega Berlusconi, si è manifestato al momento del voto. Bisogna lasciarlo governare. Il voto popolare non scioglie dall'osservanza dalle leggi. È un postulato elementare dello stato di diritto. Viceversa dobbiamo parlare di stato monarchico o assoluto che evidentemente è quello che ha in testa Berlusconi quando propone le riforme istituzionali. Dunque stiamo attenti. Per il cavaliere i poteri indipendenti non esistono. Sono automaticamente opposizione. Ossessivamente comunisti. E così la corte Costituzionale diventa un partito della sinistra ma Berlusconi neanche sa qual è la provenienza dei giudici costituzionali, se lo sapesse non parlerebbe così. Il discorso di ieri è chiarissimo: o si sta con chi ha vinto le elezioni ed è in testa nei sondaggi oppure si sta fuori. Ecco perché dice che è finita l'epoca della ipocrisia: è partito all'assalto delle istituzioni d garanzia. Lei vede un salto di qualità in questi attacchi? Siamo al punto di non ritorno? C'è un effetto reiterazione, questo è innegabile. Gli attacchi ci sono già stati, giusto un anno fa Berlusconi lanciò il suo affondo contro il capo dello stato a proposito del decreto per Eluana Englaro. Questa da una parte è la conferma di un atteggiamento consolidato ma dall'altra è il segnale gravissimo di una escalation che non si vuole in nessun modo arrestare. E così ieri, dopo aver detto mille volte che non si deve denigrare il nostro paese, in una sede istituzionale all'estero ha denigrato le massime istituzioni di garanzia del paese, il presidente della Repubblica e la Consulta. Ma quest'ultimo affondo lo ha travestito da difesa del parlamento. Lì si fanno le leggi - ha detto - e i giudici della Consulta si mettono di traverso. La risposta è molto semplice. Giudicare le leggi è il mestiere della corte Costituzionale. Se non lo facesse tradirebbe la sua missione. Diciamo pure che la Consulta si muove sempre con grandissima prudenza e se stanno crescendo le sue occasioni di intervento è perché c'è un'escalation nel mettere da parte la Costituzione. Non è la Corte che va sopra le righe ma il parlamento che sta uscendo dal circuito costituzionale corretto. Di fronte a una situazione del genere la Costituzione prevede qualche rimedio o garanzia? No, non ce ne sono perché la Costituzione è stata scritta da persone che avevano la democrazia nel sangue. Mentre adesso assistiamo a un'estraneità totale alla dimensione costituzionale. Se Berlusconi avesse il minimo senso della legalità costituzionale non direbbe queste cose. E dunque che fare? In questo momento tutti coloro che hanno un qualsiasi ruolo all'interno delle istituzioni devono prendere una posizione esplicita e pubblica per misurare la distanza tra chi ritiene che le istituzioni siano questo e chi ancora crede che le istituzioni siano il cuore della democrazia. E soprattutto, lo dico senza mezzi termini, con Berlusconi che segue questa linea devastante di politica istituzionale non si può avere nessun dialogo. Serve un cordone sanitario, fino a oggi l'atteggiamento del cavaliere e dei suoi pasdaran è stato troppo sottovalutato. Pensi alla discussione che si fa ogni volta che viene presentata una nuova legge, è davvero un fatto inedito. La prima preoccupazione è: «Napolitano la firmerà?». E la seconda: «Supererà l'ostacolo della Consulta?». Non c'è prova migliore di quanto il riferimento alla Costituzione sia ormai fuori dalla logica parlamentare. La maggioranza è un gruppo politico che come il capo Berlusconi ha da tempo deciso di vivere ai margini della legalità costituzionale. Non parlo di un rischio, parlo di quello che è già avvenuto. (11 dicembre 2009) da temi.repubblica.it Titolo: STEFANO RODOTA' Una crisi di regime Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 02:31:52 pm IL COMMENTO
Una crisi di regime di STEFANO RODOTA' CHE COSA indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile l'assai controverso decreto del Governo, ha confermato l'esclusione della lista del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione? In primo luogo rivela l'approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento senza farsi troppi scrupoli di legalità. E, poi, vi è una sorta di effetto boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che, da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall'altra, appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare, tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla competenza delle regioni. Proprio su quest'ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia.Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in conclusione, non è applicabile nel Lazio. I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo, rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle liste si considera rispettato quando "i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale". Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda l'assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E, seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato, presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione richiesta. Se il primo rilievo sottolinea l'approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il "pasticcio" combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla composizione della lista, trascinatosi fino all'ultimo momento, anzi oltre l'ultimo momento fissato per la presentazione della lista. È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco. La prepotenza ha impedito anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore, quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di maggioranza avesse un suo candidato. Si dirà che, una volta di più, i giudici comunisti hanno intralciato l'azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di garanzie costituzionali. Non possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e il decreto del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza e del Consiglio d'amministrazione della Rai hanno obbligato al silenzio una parte importante dell'informazione, rendendo così precaria proprio la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo. Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie costituzionali essenziali sono state sospese. Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell'accettabilità democratica è stato comunque varcato. Una crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e istituzionale fosse rappresentata dall'ansiosa domanda che accompagna fin dalle sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare: firmerà il Presidente della Repubblica? Questo vuol dire che è stata deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo). Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia ben nota è nata l'ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che, lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l'abisso nel quale stiamo precipitando, A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com'è alla tutela di "beni" costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un "fin qui, e non oltre", dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di regime. Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni l'essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all'ordine del giorno. Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini. È una novità non da poco, soprattutto dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica dell'opposizione dev'essere tutta politica "costituzionale". Dopo tante ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno strisciante, a un cambiamento di regime. © Riproduzione riservata (09 marzo 2010) da repubblica.it Titolo: STEFANO RODOTA' Una crisi di regime Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 11:04:00 pm IL COMMENTO
Una crisi di regime di STEFANO RODOTA' CHE COSA indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile l'assai controverso decreto del Governo, ha confermato l'esclusione della lista del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione? In primo luogo rivela l'approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento senza farsi troppi scrupoli di legalità. E, poi, vi è una sorta di effetto boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che, da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall'altra, appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare, tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla competenza delle regioni. Proprio su quest'ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia.Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in conclusione, non è applicabile nel Lazio. I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo, rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle liste si considera rispettato quando "i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale". Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda l'assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E, seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato, presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione richiesta. Se il primo rilievo sottolinea l'approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il "pasticcio" combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla composizione della lista, trascinatosi fino all'ultimo momento, anzi oltre l'ultimo momento fissato per la presentazione della lista. È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco. La prepotenza ha impedito anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore, quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di maggioranza avesse un suo candidato. Si dirà che, una volta di più, i giudici comunisti hanno intralciato l'azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di garanzie costituzionali. Non possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e il decreto del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza e del Consiglio d'amministrazione della Rai hanno obbligato al silenzio una parte importante dell'informazione, rendendo così precaria proprio la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo. Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie costituzionali essenziali sono state sospese. Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell'accettabilità democratica è stato comunque varcato. Una crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e istituzionale fosse rappresentata dall'ansiosa domanda che accompagna fin dalle sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare: firmerà il Presidente della Repubblica? Questo vuol dire che è stata deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo). Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia ben nota è nata l'ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che, lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l'abisso nel quale stiamo precipitando, A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com'è alla tutela di "beni" costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un "fin qui, e non oltre", dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di regime. Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni l'essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all'ordine del giorno. Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini. È una novità non da poco, soprattutto dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica dell'opposizione dev'essere tutta politica "costituzionale". Dopo tante ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno strisciante, a un cambiamento di regime. © Riproduzione riservata (09 marzo 2010) da repubblica.it Titolo: STEFANO RODOTÀ La legge che ordina il silenzio stampa Inserito da: Admin - Maggio 08, 2010, 03:09:47 pm IL COMMENTO
La legge che ordina il silenzio stampa di STEFANO RODOTÀ SE LA legge sulle intercettazioni verrà approvata nel testo in discussione al Senato, sarà fatto un passo pericoloso verso un mutamento di regime. I regimi non cambiano solo quando si è di fronte ad un colpo di Stato o ad una rottura frontale. Mutano pure per effetto di una erosione lenta, che cancella principi fondativi di un sistema. Se quel testo diverrà legge della Repubblica, in un colpo solo verranno pregiudicati la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto di sapere dei cittadini, il controllo diffuso sull'esercizio dei poteri, le possibilità d'indagine della magistratura. Ci stiamo privando di essenziali anticorpi democratici. La censura come primo passo concreto verso l'annunciata riforma costituzionale, visto che si incide sulla prima parte della Costituzione, quella dei principi e dei diritti, a parole dichiarata intoccabile? Se così sarà, dovremo chiederci se viviamo ancora in uno Stato costituzionale di diritto. Questa operazione sostanzialmente eversiva si ammanta del virtuoso proposito di tutelare la privacy. Ma, se questo fosse stato il vero obiettivo, era a portata di mano una soluzione che non metteva a rischio né principi, né diritti. Bastava prevedere che, d'intesa tra il giudice e gli avvocati delle parti, si distruggessero i contenuti delle intercettazioni relativi a persone estranee alle indagini o comunque irrilevanti; si conservassero in un archivio riservato le informazioni di cui era ancora dubbia la rilevanza; si rendessero pubblicabili, una volta portati a conoscenza delle parti, gli atti di indagine e le intercettazioni rilevanti. Su questa linea vi era stato un largo consenso, che avrebbe permesso una approvazione a larga maggioranza di una legge così congegnata. Ma l'obiettivo era diverso. La tutela della privacy è divenuta il pretesto per aggredire l'odiata magistratura, l'insopportabile stampa. Non si vuole che i magistrati indaghino sul "mostruoso connubio" tra politica e affari, sull'illegalità che corrode la società. Si vuole distogliere l'occhio dell'informazione non dal gossip, ma da vicende che inquietano i potenti, dal malaffare. Se quella legge fosse stata approvata, non sarebbe stato possibile dare notizie sul caso Scajola, perché si introduce un divieto di pubblicazione che non riguarda le sole intercettazioni. In un paese normale proprio quest'ultima vicenda avrebbe dovuto indurre alla prudenza. Sta accadendo il contrario. Al Senato si vuole chiudere al più presto. E questo è coerente con l'affermazione del presidente del Consiglio, secondo il quale in Italia "c'è fin troppa libertà di stampa". Quale migliore occasione per porre rimedio a questo eccesso di una bella legge censoria? Scajola, infatti, è stato costretto a dimettersi solo dalla forza dell'informazione. Una situazione apparsa intollerabile. Ecco, allora, il bisogno di arrivare subito ad una legge che interrompa fin dall'origine il circuito informativo, riducendo le informazioni che la magistratura può raccogliere, impedendo che le notizie possano giungere ai cittadini prima d'essere state sterilizzate dal passare del tempo. Non si può tollerare che i cittadini dispongano di informazioni che consentano loro di non essere soltanto spettatori delle vicende politiche, ma di divenire opinione pubblica consapevole e reattiva. Si arriva così all'infinito silenzio stampa, all'opinione pubblica impotente perché ignara dei fatti, visto che nulla può esser detto su qualsiasi fatto delittuoso fino all'udienza preliminare, dunque fino a un tempo che può essere lontano anni dal momento in cui l'indagine era stata aperta. Che cosa resterebbe della democrazia, che non vuol dire soltanto "governo del popolo", ma pure governo "in pubblico"? In tempi di corruzione dilagante si abbandona ogni ritegno e trasparenza, si dimentica il monito del giudice Brandeis: in democrazia "la luce del sole è il miglior disinfettante". Stiamo per essere traghettati verso un regime di miserabili arcana imperii, di un segreto assoluto posto a tutela di simoniaci commerci di qualsiasi bene, di corrotti e corruttori, di faccendieri e di veri criminali. Questo regime non avvolgerebbe soltanto in un velo oscuro proprio ciò che massimamente avrebbe bisogno di chiarezza. Creerebbe all'interno della società un grumo che la corromperebbe ancor più nel profondo. Le notizie impubblicabili, infatti non sarebbero custodite in forzieri inaccessibili. Sarebbero nelle mani di molti, di tutte le parti, dei loro avvocati e consulenti che ricevono le trascrizioni delle intercettazioni, gli atti d'indagine, gli avvisi di garanzia, i provvedimenti di custodia cautelare. Questo materiale scottante alimenterebbe i sentito dire, la circolazione di mezze notizie, le allusioni, la semina del sospetto. Renderebbe possibili pressioni sotterranee, o veri e propri ricatti. Creerebbe un clima propizio ad un "turismo delle notizie", alla pubblicazione su qualche giornale straniero di informazioni "proibite" che poi rimbalzerebbero in Italia. Accade sempre così quando ci si allontana dalla via retta della democrazia e dei diritti. Dal diritto d'informazione in primo luogo, che non è privilegio dei giornalisti, ma diritto fondamentale d'ogni persona, la premessa della sua cittadinanza attiva, del suo "conoscere per deliberare". Ce lo ricordano le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, dov'è sempre ripetuto che "la libertà d'informazione ha importanza fondamentale in una società democratica". In una sentenza del 2007, che riguardava due giornalisti francesi autori d'un libro sulle malefatte di un collaboratore di Mitterrand, la Corte ha ritenuto che la notorietà della persona e l'importanza della vicenda rendevano legittima la pubblicazione anche di notizie coperte dal segreto. In una sentenza del 2009 si è messo in evidenza che eccessivi risarcimenti del danno a carico di giornalisti e editori possono costituire una forma di intimidazione che viola la libertà d'informazione: che cosa dovremmo dire quando, da noi, il testo all'esame del Senato impugna come una clava le sanzioni pecuniarie con chiaro intento intimidatorio? E guardiamo anche agli Stati Uniti, al fermo discorso di Hillary Clinton sul nesso tra democrazia e libertà di espressione su Internet, alle ultime sentenze della Corte Suprema che, pure di fronte a casi sgradevoli e imbarazzanti, ha riaffermato la superiorità del Primo Emendamento, appunto della libertà di espressione Un velo d'ignoranza copre gli occhi del legislatore italiano. Ma non è il benefico velo che lo mette al riparo da pressioni, da influenze improprie. È l'opposto, è la resa alla imposizione di chi non vuole che si guardi al mondo quale veramente è. Nasce così un'anomalia culturale, prima ancora che giuridico-istituzionale. Ci allontaniamo dai territori della civiltà giuridica, e ci candidiamo ad esser membri a pieno titolo del club degli autoritari Certo la nostra Corte costituzionale prima, e poi quella di Strasburgo, potranno ancora salvarci. Intanto, però, la voce dei cittadini può farsi sentire, e non è detto che rimanga inascoltata. (08 maggio 2010) http://www.repubblica.it/rubriche/la-legge-bavaglio/2010/05/08/news/rodota_8_maggio-3903624/ Titolo: Intercettazioni, Procuratori antimafia: "Indagini a rischio" Inserito da: Admin - Maggio 09, 2010, 09:19:29 am L'INIZIATIVA
Intercettazioni, mobilitazione sul web Procuratori antimafia: "Indagini a rischio" Libertà e Giustizia: "Stanno addirittura peggiorando la legge" di CARMINE SAVIANO ROMA - Scatta dal web la mobilitazione contro il decreto Alfano sulle intercettazioni. Con una lettera inviata ai membri della commissione Giustizia del Senato. Affinché non approvino un provvedimento che "scardinerebbe aspetti essenziali del sistema costituzionale". E che imporrebbe "un pericoloso regime di opacità e segreto". L'appello è intitolato "La libertà è partecipazione informata" In calce porta le firme di giuristi e blogger tra cui Stefano Rodotà e Guido Scorza. Luogo d'origine la pagina Facebook "Libertà è partecipazione". E nel logo, al volto del ministro della Giustizia è sovrapposto lo slogan "Angelino is watching you": Angelino ti sta guardando. E arriva la denuncia dei Procuratori antimafia: "il decreto rischia di compromettere le nostre indagini". Ogni giorno Repubblica.it dedicherà uno spazio quotidiano per raccontare i contenuti e gli effetti di questa legge. La protesta dei blogger. E' da un anno che blogger, giornalisti e giuristi lottano contro il decreto Alfano. "La nostra protesta è partita con la manifestazione di Piazza Navona del 14 luglio scorso", dice Arturo Di Corinto, ricercatore alla Sapienza di Roma, promotore dell'appello e membro di Diritto alla Rete, il collettivo di blogger che chiede diritti per la libera espressione sul web. "Non si tratta solo di criticare il depotenziamento di uno strumento investigativo che, a oggi, permette di scoprire il 90% dei crimini", continua Di Corinto. "La nostra mobilitazione incrocia il tema del pluralismo dell'informazione: con il decreto Alfano sarà instaurata nel nostro paese una pesante censura preventiva". Un fronte democratico digitale. I promotori dell'appello mirano al coinvolgimento di "tutti quei raggruppamenti di persone che utilizzano Facebook per implementare la democrazia", continua Di Corinto. I destinatari sono "il Popolo Viola, il Popolo del Pomodoro, la Valigia Blu". Un fronte democratico digitale per "impedire che sia messo il bavaglio alla libera circolazione delle informazioni e delle idee". E l'intenzione è uscire dalla Rete. Proporre manifestazioni di piazza. Pacifiche, simboliche. Tra le idee: "C'è chi propone di andare scalzi all'ambasciata americana per chiedere aiuto a Barack Obama". Un pellegrinaggio democratico. Il decreto Alfano e le indagini sulla mafia. Il Ddl intercettazioni rischia di compromettere le indagini di mafia. E' la denuncia lanciata oggi dai 26 Procuratori Capo delle Direzioni Distrettuali Antimafia. E per Fiorella Pilato, membro del Csm, "colpisce, negli interventi dei Procuratori, la rilevazione che in molti casi i processi antimafia nascono da indagini sui reati di criminalità comune. Questo deve far riflettere anche il legislatore quando vuole intervenire in tema di intercettazioni differenziando quelle per le indagini di mafia e quelle per reati comuni". Il testo dell'appello. Al Senato la maggioranza cerca di imporre la legge sulle intercettazioni telefoniche che scardinerebbe aspetti essenziali del sistema costituzionale. Sono a rischio la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto dei cittadini ad essere informati. Non tutti i reati possono essere indagati attraverso le intercettazioni e viene sostanzialmente impedita la pubblicazione delle intercettazioni svolte. Una pesante censura cadrebbe sull'informazione. Anche su quella amatoriale e dei blog. Se quella legge fosse stata in vigore, non avremmo avuto alcuna notizia dei buoni affari immobiliari del Ministro Scajola e di quelli bancari di Consorte. Se la legge verrà approvata, la magistratura non potrà più intervenire efficacemente su illegalità e scandali come quelli svelati nella sanità e nella finanza, non potrà seguire reati gravissimi. Si dice di voler tutelare la Privacy: un obiettivo legittimo, che tuttavia può essere raggiunto senza violare principi e diritti. Si vuole, in realtà, imporre un pericoloso regime di opacità e segreto. Le libertà costituzionali non sono disponibili per nessuna maggioranza. Stefano Rodotà. Fiorello Cortiana, Juan Carlos De Martin, Arturo Di Corinto, Carlo Formenti , Guido Scorza. Facciamo sentire la nostra voce. Interveniamo direttamente aderendo all'appello e scrivendo ai senatori membri della Commissione Giustizia. L'appello di Libertà e Giustizia. "Il continuo peggioramento del ddl 1611 sulle intercettazioni in Commissione giustizia al Senato, dove si stanno approvando gli emendamenti al testo arrivato dalla Camera, rispecchia il terrore di una Casta colta con le mani nel sacco. Imporrà tra l'altro l'assoluto silenzio sugli sviluppi più importanti delle inchieste sulla corruzione, in uno dei Paesi più corrotti del mondo: il nostro. Quel testo, così come è ora, non impedisce soltanto la pubblicazione selvaggia di intercettazioni segrete, vieta anche la pubblicazione in qualsiasi forma, anche di riassunto, di tutti gli atti d'indagine, anche se non sono più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza. Se quel testo fosse già in vigore, per esempio, le rivelazioni giudiziarie che di giorno in giorno scoperchiano la consorteria di Balducci, Anemone e company, sarebbero rimaste un segreto custodito dal potere politico anche per questo reso sempre più assoluto. LeG si rivolge a tutte le forze che in Parlamento, sia nell'opposizione che nella maggioranza, hanno ancora a cuore la libera informazione, affinché si adoperino per impedire questo scempio contro la democrazia: l'approvazione cioè dell'ennesima legge anticostituzionale violentemente limitativa della libertà di informare e di essere informati. In assoluto, forse, la peggiore di tutte quelle ad oggi varate". (07 maggio 2010) http://www.repubblica.it/rubriche/la-legge-bavaglio/2010/05/07/news/mobilitazione_web-3892709/ Titolo: STEFANO RODOTA'. Privacy, trasparenza e diritto di sapere Inserito da: Admin - Giugno 13, 2010, 12:14:38 pm L'ANALISI
Privacy, trasparenza e diritto di sapere di STEFANO RODOTA' QUALE governo ha drasticamente ridotto la privacy dei dipendenti pubblici, modificando addirittura il primo articolo del Codice che regola questa materia? Quale governo ha messo nelle mani delle società di marketing la privacy telefonica delle persone, capovolgendo le regole che proprio gli interessati avevano mostrato di gradire? Quale governo ha incentivato il diffondersi della sorveglianza capillare sulle persone? Quale governo ha abbandonato ogni iniziativa sulla tutela della libertà su Internet, che aveva dato all'Italia un significativo primato internazionale? Quale maggioranza ha sfornato e continua a sfornare proposte di legge e emendamenti volti a limitare la privacy di chi naviga in rete? Proprio governo e maggioranza che ora innalzano il vessillo della privacy, invocano l'art. 15 della Costituzione e ricorrono al voto di fiducia. Questi fatti, incontestabili, non mettono soltanto in luce una contraddizione clamorosa. Consentono di cogliere quale sia l'obiettivo vero dell'improvviso entusiasmo per la riservatezza. Mentre viene sacrificata senza batter ciglio la privacy di milioni di persone, si fanno le barricate proprio là dove la riflessione culturale e l'evoluzione legislativa inducono a ritenere che, per alcune categorie di persone e in situazioni particolari, le "aspettative di privacy" debbano essere drasticamente ridotte. Si tratta delle "figure pubbliche", delle persone indagate, delle attività economiche. Questi non sono argomenti inventati oggi per dare sostegno a chi polemizza contro "la legge bavaglio". Quando, nel 2003, con una significativa convergenza tra il Garante per la privacy e il Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti, si misero a punto le regole sul diritto d'informare, l'articolo 6 del Codice di deontologia venne scritto così: "La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica". Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici. In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza. Si era consapevoli della necessità di non far divenire la privacy uno strumento che, invece di tutelare le sacrosante ragioni dell'intimità, serva a coprire attività che devono essere sempre sottoposte al giudizio di una opinione pubblica adeguatamente informata. Si seguiva così il filone inaugurato nel 1964 da una celebre sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso New York Times contro Sullivan, quando si riconobbe il diritto della stampa di pubblicare addirittura notizie false e diffamatorie riguardanti "figure pubbliche", salvo nel caso in cui ciò fosse fatto con "actual malice". Questa linea è stata seguita in moltissimi paesi e, in un caso riguardante uno stretto collaboratore del Presidente Mitterrand, la Corte europea dei diritti dell'uomo è andata oltre, affermando che, in un sistema democratico, è legittima persino la pubblicazione di notizie coperte dal segreto, per consentire il controllo su come viene esercitato il potere. Diritto di sapere, esercizio del controllo democratico e trasparenza sono strettamente intrecciati, e neppure il segreto e l'eventuale falsità della notizia possono interrompere questo circuito virtuoso, impedire la circolazione delle informazioni. Una pur minima cultura della privacy dovrebbe essere provvista di questo bagaglio, che ci avrebbe risparmiato quell'impasto di ignoranza e malafede che ci affligge in questi giorni. Ma la regressione culturale, con conseguente pessima politica, ci avvolge da ogni parte, sì che ogni volta si è costretti a ricominciare dall'abc. Ricordando, anzitutto, che è falso sostenere che la legge appena approvata dal Senato abbia come obiettivo quello di frenare il gossip, di impedire la pubblicità di informazioni irrilevanti o intime. Ripeto quello che è stato detto mille volte, scritto in disegni di legge: questo è un fine, sacrosanto, che si può agevolmente raggiungere, con il consenso di tutti, stabilendo la cancellazione di questi brani delle intercettazioni, irrilevanti per le indagini. Poiché non ci si è fermati a questo punto, ma si è voluto imporre il silenzio totale su notizie rivelatrici di malefatte politiche o amministrative e persino su ammissioni di mafiosi, allora è evidente che l'obiettivo è un altro, quello di mettere a punto una rete protettiva di un ceto che del disprezzo delle regole ha fatto la propria regola. La sintonia tra questo atteggiamento e l'assalto alla legalità costituzionale è del tutto evidente. E diventa chiarissimo che cosa si avvia ad essere il sistema di tutela della privacy, in un totale stravolgimento del rapporto tra pubblico e privato. Trasparenza crescente per l'inerme persona "comune"; opacità crescente di un ceto per il quale l'esercizio del potere non è più fonte di responsabilità, ma di immunità. Si mette a disposizione di poteri politici, economici, tecnologici la vita quotidiana d'ogni persona, scrutata in ogni momento, "profilata", ridotta ad oggetto di cui si può impunemente disporre. Si sottrae alla democrazia, come "governo in pubblico" una delle sue ragion d'essere, allungando l'ombra dove la trasparenza dovrebbe essere massima. È questa la logica che dev'essere capovolta, restituendo alla privacy l'onore che le spetta come elemento essenziale della libertà dei contemporanei. (13 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/13/news/privacy_trasparenza_e_diritto_di_sapere-4799093/ Titolo: STEFANO RODOTÀ La battaglia del post-it Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 11:56:55 am LE IDEE
La battaglia del post-it di STEFANO RODOTÀ LA MANIFESTAZIONE di oggi, che da piazza Navona a Roma si diramerà in tante piazze italiane, assume un significato politico e una forza simbolica che la proiettano al di là di altre iniziative di opposizione al disegno di legge sulle intercettazioni. In quelle piazze si parlerà di tre bavagli: al lavoro della magistratura, al diritto all'informazione, alla cultura. È ormai chiaro, infatti, il legame stretto che unisce gli attacchi alla legalità, all'esistenza stessa di un'opinione pubblica vigile, alla formazione del sapere critico. Una strategia che va avanti da tempo e che si vuol far arrivare al suo momento finale, ad una conclusione che negherebbe alcuni dei fondamenti che consentono ad un Paese di poter continuare a definirsi democratico. Il presidente del Consiglio non ha mai nascosto la sua ostilità a qualsiasi forma di controllo del potere. E ora, dopo aver messo il Parlamento nella condizione di non nuocere, vuole liberarsi in un colpo solo dell'odiata magistratura, di un sistema dell'informazione contro il quale aizza i cittadini, delle istituzioni culturali (università, in primo luogo) affamate con i tagli ai bilanci. Ma qualcuno si è messo di traverso, e oggi tornerà a dire in pubblico che intende continuare a farlo. Non è il caso di abbandonarsi all'autocompiacimento, o a un ottimismo superficiale. Registriamo i fatti. Centinaia di migliaia di persone hanno firmato documenti contro la legge bavaglio promossi da gruppi assai diversi. Su Internet, nelle università, da parte delle più diverse associazioni si insiste in una attività di analisi e denuncia degli aspetti gravemente repressivi di quel testo. Questa opposizione sociale non si è rintanata in qualche nicchia, ma ha coinvolto l'intero mondo dell'informazione, al di là degli steccati politici, ha diviso la stessa maggioranza. Segno evidente che quel disegno di legge è stato vastamente percepito come un inaccettabile sopruso. Questo è un fatto politico. In alcune materie non esiste la controprova, ma si può ragionevolmente ritenere che né le divisioni della maggioranza, né le inusuali durezze dell'opposizione sarebbero emerse con tanta chiarezza se vi fosse stata anche in questo caso quella acquiescenza di troppa parte dell'opinione pubblica che ha reso possibile le scorrerie di cui stiamo misurando i guasti e alle quali si vorrebbe continuare a garantire l'impunità nell'ombra. Ma il tempo dei silenzi è finito, si è individuato un nuovo terreno di lotta politica e non sarà facile per nessuno tentare di recintarlo. Questo è un monito anche per coloro i quali, proprio in questo periodo, stanno mettendo in discussione diritti fondamentali garantiti dalla prima parte della Costituzione. Proprio la Costituzione, infatti, è stata impugnata come arma pacifica da tutte le persone che hanno protestato, firmato e oggi torneranno in piazza. La Costituzione ha trovato i suoi nuovi difensori, e non sarà facile scippargliela. E la privacy? Queste settimane hanno mostrato pure l'ipocrisia e la doppiezza di coloro i quali si sono messi al riparo dell'articolo 15 della Costituzione e della garanzia lì prevista per la libertà di comunicazione. Proprio ieri, nella sua relazione al Parlamento, il Presidente dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali ha messo in evidenza quante e quali siano le violazioni quotidiane della privacy delle persone, previste, favorite, ignorate dal Governo e dalla sua maggioranza. In questi casi, che davvero toccano la vita quotidiana di milioni di persone, nemmeno un briciolo di quell'attenzione che invece scatta, sensibilissima, appena ci si avvicina ai centri di potere e alle figure pubbliche. Si ignora che già esiste una norma chiarissima in questa materia, consegnata all'articolo 6 del codice deontologico dell'attività giornalistica: "La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica". Qui il confine difficile tra diritto d'informazione e tutela della privacy è tracciato con assoluta chiarezza. Non vi è alcuna aspettativa di privacy da tutelare quando i fatti riguardano figure pubbliche e hanno rilevanza pubblica, perché forniscono elementi in base ai quali l'opinione pubblica può controllare l'esercizio del potere e l'affidabilità di politici, burocrati, imprenditori. Vogliamo uscire da questo brutto e non nuovo esercizio di strumentalizzazione delle istituzioni, dal loro pericoloso uso congiunturale? Vi è una via molto semplice per farlo, che converrà riproporre all'attenzione di quelli che saranno in piazza e, tramite loro, a quanti hanno responsabilità direttamente politiche e hanno finalmente compreso quale sia il pendio scivoloso che si sta imboccando con quel disegno di legge. Uno stralcio. Si abbandonino le pretese di rendere più difficile o addirittura impossibile l'attività d'indagine di magistratura e polizia e di bloccare le possibilità di impedire ai cittadini di veder legittimamente soddisfatto il loro diritto ad essere informati. Si presenti una proposta che vieti la pubblicazione di quanto è segreto, di quel che riguarda informazioni irrilevanti o riguardanti persone del tutto estranee alle indagini. E ci si fermi qui. Una proposta del genere troverebbe certamente larghissimo consenso, garantirebbe la genuina esigenza di privacy, eviterebbe gli abusi di cui tanto, e giustamente, ci si è lamentati. Prepariamoci, altrimenti, a mantenere aperti spiragli di democrazia nella malaugurata ipotesi che il disegno di legge venga approvato. È già emersa una strategia di disobbedienza civile che va dalla pubblicazione di notizie rilevanti anche in casi vietati dalla legge alla impugnativa davanti alla Corte costituzionale e, eventualmente alla Corte europea dei diritti dell'uomo; ad accordi che consentano la pubblicazione delle stesse notizie su siti Internet stranieri, ai quali gli italiani potrebbero accedere, ed essere così informati; alla lettura alle Camere delle pagine vietate che, entrando negli atti parlamentari, diverrebbero immediatamente pubblicabili. Ma oggi nelle piazze si celebra un successo già raggiunto, sì che speriamo che di questa strategia non vi sia bisogno. (01 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/07/01/news/la_battaglia_del_post-it-5293888/?ref=HREA-1 Titolo: STEFANO RODOTA'. L'eversione quotidiana Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 05:14:50 pm IL COMMENTO
L'eversione quotidiana di STEFANO RODOTA' I FATTI di questo periodo obbligano a concludere che l'attuale fase politica e istituzionale deve essere pure definita come quella dell'"eversione quotidiana". Questo nuovo dato di realtà può essere colto se si riflette su una domanda che molti hanno fatto negli ultimi tempi: vi è una differenza tra il tempo di Mani pulite e la nuova ondata corruttiva che è davanti ai nostri occhi? Questa differenza esiste, ed è profonda. Non siamo soltanto di fronte al prepotente ritorno di una corruzione alla quale l'azione giudiziaria aveva cercato di porre un argine. E che aveva sostanzialmente le sue radici in un bisogno della politica di "approvvigionarsi" di risorse finanziarie, con ovvie contiguità con il mondo degli affari e arricchimenti privati che accompagnavano il flusso di denaro verso i partiti. Oggi le cose sono diverse, e il caso Brancher, ultimo tra i tanti, lo illustra nel modo più eloquente. Si è nominato un ministro soltanto per provvederlo di uno "scudo istituzionale", che potesse sottrarlo all'accertamento delle sue eventuali responsabilità penali. Ecco il cambiamento. Mentre i comportamenti del passato rimanevano comunque nell'area dell'illegalità, ora si costruisce una "legalità speciale" che serve a far rientrare in un'area lecita quel che dovrebbe invece rimanerne fuori. Si distorce così il significato del ricorso alla legge, non più garanzia ma scappatoia. E all'ombra di questa legge distorta si pratica l'eversione quotidiana, uno stillicidio di comportamenti che stravolgono il funzionamento delle istituzioni e dell'intera vita pubblica. Certo, si è evitata almeno la conseguenza più scandalosa dell'affare Brancher, il ricorso al legittimo impedimento per sottrarsi al processo, grazie alle proteste dell'opinione pubblica e di una parte del mondo politico, accompagnate in modo decisivo dai potenti anticorpi istituzionali prodotti dall'azione del Presidente della Repubblica. Ma proprio l'intera ricostruzione dei fatti rivela altri aspetti inquietanti, che mettono radicalmente in dubbio la possibilità che Brancher rimanga al suo posto di ministro. Inoltre, questo caso non è isolato, né rappresenta una eccezione, visto che trova la sua origine in una delle più clamorose leggi fatte per la persona di Silvio Berlusconi, appunto quella sul legittimo impedimento. Ma il fondamento della nuova eversione non è qui soltanto, come testimonia tutto quello che è emerso intorno alla protezione civile, alle grandi opere, alla gestione di vere o presunte emergenze, alla privatizzazione del pubblico perseguita attraverso la creazione di società per azioni. Le vicende scandalose non sono l'effetto esclusivo di "deviazioni" personali. Sono rese possibili proprio dall'esistenza massiccia di una legalità speciale, di leggi congegnate per far crescere l'opacità dei comportamenti pubblici, oltre che di ordinanze sottratte a ogni controllo, che hanno sconvolto il sistema delle fonti del diritto, che hanno creato sacche di oscurità e di arbitrio, denunciate istituzionalmente nelle ultime settimane in particolare dalla Corte dei conti e dall'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici. Dalla lotta alla corruzione si è passati alla manipolazione istituzionale, che ha come fine proprio quello di legittimare formalmente comportamenti che ogni giorno cancellano ogni confine tra pubblico e privato, che fanno apparire superflua la moralità pubblica, che consentono tranquille e stupefacenti ammissioni di uso privato del potere da parte di personalità pubbliche. È questa l'eversione quotidiana, che corrompe istituzioni e costume, e così fa venir meno quella fiducia dei cittadini che è un carburante indispensabile per il buon funzionamento della macchina democratica. Mentre ai tempi di Mani pulite si tentava almeno di bonificare il terreno sul quale era fiorita la corruzione, oggi invece il terreno istituzionale viene pazientemente concimato perché comportamenti nella sostanza illeciti possano essere praticati legittimamente e alla luce del sole. Proprio la trasparenza impudica, che sfida con la sua esibizione legalità e rispetto dei cittadini, attribuisce a queste vicende un carattere eversivo. È così nato un nuovo "mostruoso connubio" tra politica, amministrazione e affari che fa impallidire quello denunciato nel 1880 da Silvio Spaventa, del quale vale la pena di citare alcune parole. "La protezione giuridica e la protezione civile, chiamando così tutti gli altri beni che i cittadini hanno diritto di chiedere allo Stato, oltre alla tutela del diritto, dev'essere intera, eguale, imparziale, accessibile a tutti, anche sotto un governo di parte. L'amministrazione dev'essere secondo la legge e non secondo l'arbitrio e l'interesse di partito; e la legge deve essere applicata a tutti con giustizia ed equanimità verso tutti". La maggior gravità della situazione di oggi, rispetto ai tempi di Spaventa e di Mani pulite, sta nel fatto che l'eversione quotidiana fa sì che neppure la legge possa essere invocata, non avendo la funzione di perseguire giustizia e eguaglianza, ma quella, opposta, di offrire impunità e privilegio. È evidente che con l'eversione quotidiana la democrazia non può convivere. E troppi guasti italiani derivano sempre di più dal fatto che questa convivenza è durata troppo a lungo. (28 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/28/news/l_eversione_quotidiana-5207377/?ref=HRER2-1 Titolo: STEFANO RODOTA' - Le regole calpestate Inserito da: Admin - Settembre 08, 2010, 09:11:18 am IL COMMENTO
Le regole calpestate La vicenda Fini richiama una tecnica ben conosciuta in politica. Quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l'attenzione dalle difficoltà reali. La maggioranza sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico sul presidente della Camera, concentrato di tutti i mali di STEFANO RODOTA' IN UNA ben ordinata repubblica la bagarre istituzionale montata intorno al Presidente della Camera dei deputati sarebbe impensabile. Ma dalle nostre parti si inventa ogni giorno una qualche "costituzione materiale", sì che siamo obbligati non solo a richiamare i dati costituzionali corretti, ma soprattutto a segnalare le forzature e i rischi grandi delle pretese di questi giorni, che tendono, una volta di più, ad eliminare persone e istituzioni che sono percepite come intralci sulla strada sempre più accidentata della ormai sconquassata (ex?) maggioranza di governo. La prima considerazione, allora, richiama una tecnica ben conosciuta in politica, quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l'attenzione dalle difficoltà reali. Prigioniera di scandali gravi, falcidiata dalle inevitabili dimissioni di due ministri, sconfitta in Parlamento su questioni come quella della legge bavaglio, incrinata nel collante finora rappresentato dal potere assoluto di Berlusconi, la maggioranza uscita vittoriosa dalle elezioni del 2008 sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico su Gianfranco Fini, concentrato di tutti i mali, sì che, una volta caduta la sua testa, si tornerebbe nel migliore dei mondi. Ma questa non è soltanto una impostazione palesemente pretestuosa. Com'è altre volte avvenuto in questa sciagurata stagione politica, l'interesse di breve periodo di una persona o di un gruppo non esita di fronte alle spallata istituzionale, proseguendo in una strategia che sta riducendo il nostro sistema ad un cumulo di macerie. Elementari regole di diritto parlamentare dovrebbero insegnare che il presidente del Senato o della Camera non possono essere sfiduciati o essere costretti alle dimissioni. La ragione di questa regola è evidente. Solo così l'alta funzione di dirigere una assemblea parlamentare, nell'interesse dell'assemblea stessa e non di una sua parte, può essere sottratta a pressioni, non dirò a ricatti, tendenti proprio a distorcere la funzione di garanzia, che esige distacco in primo luogo dai gruppi che lo hanno eletto. Il potere di questi gruppi si esaurisce nel momento dell'elezione. Lo sanno benissimo quelli che, all'interno della stessa maggioranza, mantengono senso dello Stato e rispetto delle istituzioni, come Giuseppe Pisanu, che non a caso ha liquidato ieri con poche parole la tesi delle dimissioni necessarie del presidente della Camera. E, invece, in questi giorni è stata sostenuta la tesi, francamente eversiva, secondo la quale il presidente della Camera sarebbe "il garante dell'attuazione del programma di governo", tramutando così una carica istituzionale di garanzia in un semplice terminale della volontà governativa. Non v'è bisogno d'invocare la separazione dei poteri per accorgersi dell'improponibilità di questa tesi, che conferma la voracità proprietaria di un Berlusconi che vuole ingoiare tutte le istituzioni. Peraltro, anche i precedenti evocati con molta approssimazione, come le dimissioni di Sandro Pertini dopo la fine dell'unità socialista, provano se mai il contrario, visto che, respingendo quelle dimissioni, la Camera ribadì proprio l'irrilevanza delle vicende successive al momento dell'elezione del presidente. A questa forzatura se ne è aggiunta una seconda, gravissima, con l'annuncio di Berlusconi e Bossi di recarsi dal presidente della Repubblica per chiedere appunto le dimissioni di Fini. Solo una sgrammaticatura istituzionale, l'ennesima? Molto peggio. I due nominati, per quanto abbiano dato infinite prove di totale insensibilità istituzionale, sanno benissimo che mai un presidente rigoroso come Giorgio Napolitano potrebbe dare il pur minimo ascolto ad una richiesta del genere. E allora? Quell'annuncio era rivolto all'opinione pubblica, per dar ad intendere che, se lo volesse, il presidente della Repubblica potrebbe porre fine a questa vicenda. Una volta divenuto chiaro che non è possibile alcun intervento di Napolitano, rimarrebbe comunque un fondo torbido, una sorta di sciagurato ammiccamento che allude ad un filo che lega presidente della Repubblica e presidente della Camera. Non sarebbe una novità. In modo sfrontato, e di nuovo ignorante d'ogni regola istituzionale, Berlusconi accusò pubblicamente Napolitano di non essere intervenuto sulla Corte costituzionale per impedire che fosse dichiarato illegittimo il Lodo Alfano. Anche il presidente della Repubblica è percepito come un intralcio, al quale possono essere rivolte richieste "irrituali" o vere e proprie minacce, come ha fatto Bossi evocando un milione di persone che arriverebbe a Roma per imporgli lo scioglimento delle Camere. La vicenda Fini dimostra una volta di più quanto sia profondo il malessere istituzionale. Per questo nessuna compiacenza è possibile. Non si tratta di difendere una persona, ma di recuperare quel po' di senso delle istituzioni senza il quale la democrazia muore. Siamo ancora in tempo. (08 settembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/09/08/news/rodota_fini-6852123/?ref=HREA-1 Titolo: STEFANO RODOTÀ Quando il fango cancella la politica Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2010, 10:45:06 am L'ANALISI
Quando il fango cancella la politica di STEFANO RODOTÀ In una bene ordinata repubblica si dovrebbe riflettere in primo luogo su una crisi che sta distruggendo l'intero tessuto istituzionale, senza farsi ogni giorno depistare da questa o quella microfibrillazione. In uno Stato non immemore di quelli che ancora sono suoi compiti, si dovrebbe riflettere sulla crescente rifeudalizzazione dei poteri, che quotidianamente lo svuota e ne cambia la natura. In un sistema politico non perduto nell'autoreferenzialità si dovrebbe riflettere su quanto sopravviva della rappresentanza e reagire coralmente alla sostituzione dell'intera politica con una macchina del fango sempre in funzione che contribuisce alla decomposizione sociale. Mai, nella storia della Repubblica, gli scontri istituzionali erano stati così violenti, ripetuti, quotidiani, emblematicamente riassunti dagli attacchi continui del Presidente del consiglio a tutte le istituzioni di garanzia. Mai s'era avuta una legge elettorale che, come quella attuale, consegna la selezione dei parlamentari ad oligarchie ristrettissime e manipola la rappresentanza. Mai s'era vissuto un periodo di sostanziale instabilità come quello cominciato nel 2006, che sembra aver fissato in due anni la durata possibile d'una legislatura. Mai la vita pubblica era stata attraversata da tanti "mostruosi connubi", dalla riduzione d'ogni cosa all'interesse privato, con irrisione palese di moralità e legalità. Si potrebbe continuare. Ma quel che più deve far meditare è l'apparire congiunto di tutti questi fattori. La novità della situazione, il reale mutamento qualitativo, derivano dal loro irrompere tutti insieme sulla scena pubblica, da una saldatura che ha cambiato faccia alle istituzioni e alla società, diventando così il vero connotato della cosiddetta Seconda Repubblica, il cui fallimento è certificato dal fatto che già se ne invoca una Terza. Com'è potuto accadere tutto questo? La riflessione politica s'arresta. E le spiegazioni centrate sull'antiberlusconismo si rivelano inadeguate. E non perché non siano grandissime le responsabilità di chi ha dato nome a questa fase. Ma perché lo stesso fenomeno Berlusconi ha potuto espandersi in un contesto rivelatosi propizio. Di questo si dovrebbe parlare, e non lo si fa. Con danno grandissimo per la stessa progettazione politica. L'ostacolo a una riflessione adeguata, il tabù da rimuovere, si chiama bipolarismo. Il dommatismo fa sempre male, soprattutto in politica, dove una delle regole da osservare è proprio la valutazione di ogni iniziativa secondo le conseguenze che produce. Ed è indubitabile che la via scelta per il bipolarismo all'italiana si sia rivelata disastrosa, anche perché, in un impeto fideistico, non si volle tener delle cautele a suo tempo suggerite. V'erano molti modi di arrivare al bipolarismo nel contesto storico e istituzionale italiano, e invece si è scelto quello che apriva la strada al populismo e alla concentrazione dei poteri. La riflessione politica deve partite dalla diagnosi critica della drammatica situazione attuale. Solo un'analisi impietosa può ricreare le condizioni per una politica di rinnovamento, che significa in primo luogo liberarsi del populismo e ripristinare le condizioni minime della stessa democrazia formale. E segnalo altre tre questioni che mi sembrano ineludibili. La vicenda Fiat Mirafiori si presenta come un caso esemplare di quello che viene chiamato "neomedievalismo istituzionale". Proprio perché viviamo in un mondo senza centro, si dice, il governo dei processi, e la creazione delle regole che li accompagnano, sono ormai appannaggio degli specifici soggetti che agiscono in presa diretta nelle situazioni considerate. Questo legittimerebbe la Fiat, come ogni altro soggetto transnazionale, ad essere insieme imprenditore e legislatore, giudice non solo delle convenienze ma pure dei diritti, a Chicago come a Torino. La domanda è: l'indubbia crisi della sovranità nazionale, determinata dalla globalizzazione, può legittimare il ritorno ad una logica feudale, ad una società delle appartenenze e degli status, dove la pienezza della cittadinanza in fabbrica, ad esempio, è subordinata all'appartenenza a un sindacato? Non è un ritorno agli anni '50 quello che si vuol realizzare, è un tuffo profondo in età lontane, prima della rivoluzione dei diritti dell'uomo. A molti tutto questo appare come innovazione, così come lo stesso Berlusconi viene presentato come l'incarnazione di un tempo di novità. Ma davvero non hanno nulla da dire le modernizzazioni autoritarie del secolo passato, e le diverse strade che seppero trovare le democrazie? La Seconda Repubblica ci consegna gli attacchi allo stesso Presidente della Repubblica; alla Corte costituzionale, descritta come un manipolo di reduci della sinistra che viola le prerogative del popolo sovrano; ad una magistratura all'interno della quale si troverebbe una vera "associazione per delinquere"; al Parlamento in sé, volta a volta considerato come un intralcio o come luogo di spregiudicati reclutamenti. Ora siamo all'assalto finale. Questo hanno colto gli studenti, e il Presidente della Repubblica che, ascoltandoli, ha visto l'elemento che differenzia il movimento di oggi da quelli del passato, la volontà di essere protagonisti e, insieme, interlocutori delle istituzioni, nelle quali si riconoscono attraverso la Costituzione. Questo ha colto Daniel Baremboin quando ha aperto la stagione della Scala leggendo l'articolo 9 della Costituzione. Questo dovrebbero cogliere le forze politiche: la Costituzione sta di nuovo incontrando il suo popolo, com'era avvenuto nel 2006, quando 16 milioni di persone dissero no alla riforma costituzionale berlusconiana. Le forze di opposizione non hanno saputo, o voluto, amministrare quel patrimonio. Anche da una riflessione su questo punto può partire un rinnovamento della politica. (29 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/12/29/news/rodota_commento-10670644/?ref=HREA-1 Titolo: STEFANO RODOTÀ La bandiera della dignità Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2011, 10:49:34 am L'ANALISI
La bandiera della dignità di STEFANO RODOTÀ È tempo di liberarsi dello spirito minoritario che, malgrado tutto, continua a lambire anche qualche parte della stessa opposizione. È questa l'indicazione (la lezione?) che viene dai molti luoghi che da molti mesi vedono la presenza costante di centinaia di migliaia di persone che, con continuità e passione, rivendicano libertà e diritti: un fenomeno che non può essere capito con gli schemi, invecchiati, del "risveglio della società civile" o di qualche partito "a vocazione maggioritaria". Non sono fiammate destinate a spegnersi, esasperazioni d'un giorno, generiche contrapposizioni tra Piazza e Palazzo. Non sono frammenti di società, grumi di interesse. È un movimento costante che accompagna ormai la politica italiana, e a questa indica le vie per ritrovare un senso. È l'opposto delle maggioranze "silenziose" che si consegnano, passive, in mani altrui. Donne, lavoratori, studenti, mondo della cultura si sono mossi guidati da un sentimento comune, che unifica iniziative solo nelle apparenze diverse. Questo sentimento si chiama dignità. Dignità nel lavoro, che non può essere riconsegnato al potere autocratico di nessun padrone. Dignità nel costruire liberamente la propria personalità, che ha il suo fondamento nell'accesso alla conoscenza, nella produzione del sapere critico. Dignità d'ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente. Proprio da questo sguardo più largo sono nate le condizioni per una manifestazione che non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l'hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l'intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica. È qui la radice dello straordinario successo di domenica, della consapevolezza d'essere di fronte ad una opportunità che non poteva essere perduta e che ha spinto tanti uomini ad essere presenti e tante donne a non cedere alla tentazione di rifiutarli, perché non s'era di fronte ad una generica "solidarietà" o alla pretesa di impadronirsi della parola altrui. Chi è rimasto prigioniero di se stesso, delle proprie ossessioni, è il Presidente dal consiglio, al quale era offerta una straordinaria opportunità per rimanere silenzioso, una volta tanto rispettoso degli altri. E invece altro non ha saputo trovare che le parole logore della polemica aggressiva, testimonianza eloquente della sua incapacità di comprendere i fenomeni sociali fuori di una rozza logica del potere. La vera faziosità è quella sua e di chi lo circonda, privi come sono di qualsiasi strumento culturale e quindi sempre più votati al rifiuto d'ogni dimensione argomentativa. Dignità, per loro, è parola senza senso, parte d'una lingua che sono incapaci di parlare. Nelle diverse manifestazioni, invece, si coglie la sintonia con le dinamiche che segnano questi anni. Le grandi ricerche di Luis Dumont ci hanno aiutato nel cogliere il passaggio dall'homo hierarchicus all'homo aequalis. Ma nei tempi recenti quel cammino si è allungato, ha visto comparire i tratti l'homo dignus, e proprio la dignità segna sempre più esplicitamente l'inizio del millennio, costituisce il punto d'avvio, il fondamento di costituzioni e carte dei diritti. Sul terreno dei principi questo è il vero lascito del costituzionalismo dell'ultima fase. Se la "rivoluzione dell'eguaglianza" era stato il connotato della modernità, la "rivoluzione della dignità" segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l'era della "costituzionalizzazione" della persona e dei nuovi rapporti che la legano all'innovazione scientifica e tecnologica. "Per vivere - ci ha ricordato Primo Levi - occorre un'identità, ossia una dignità". Solo da qui, dalla radice dell'umanità, può riprendere il cammino dei diritti. E proprio la forza unificante della dignità ci allontana da una costruzione dell'identità oppositiva, escludente, violenta, che ha giustamente spinto Francesco Remotti a scrivere contro quell'"ossessione identitaria" che non solo nel nostro paese sta avvelenando la convivenza civile. La dignità sociale, quella di cui ci parla l'articolo 3 della Costituzione, è invece costruzione di legami sociali, è anche la dignità dell'altro, dunque qualcosa che unifica e non divide, e che così produce rispetto e eguaglianza. Le manifestazioni di questi tempi, e quella di domenica con evidenza particolare, rivendicano il diritto a "un'esistenza libera e dignitosa". Sono le parole che leggiamo nell'articolo 36 della Costituzione che descrivono una condizione umana e sottolineano il nesso che lega inscindibilmente libertà e dignità. Più avanti, quando l'articolo 41 esclude che l'iniziativa economica privata possa svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà e dignità umana, di nuovo questi due principi appaiono inscindibili, e si può comprendere, allora, quale lacerazione provocherebbe nel tessuto costituzionale la minacciata riforma di quell'articolo, un vero "sbrego", come amava definire le sue idee di riforma costituzionale la franchezza cinica di Gianfranco Miglio. Intorno alla dignità, dunque, si delinea un nuovo rapporto tra principi, che vede la dignità dialogare con inedita efficacia con libertà e eguaglianza. Questa, peraltro, è la via segnata dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Qui, dopo aver sottolineato nel Preambolo che l'Unione "pone la persona al centro della sua azione", la Carta si apre con una affermazione inequivocabile: "La dignità umana è inviolabile". Proprio questo quadro di principi costituisce il contesto all'interno del quale i diversi movimenti si sono concretamente mossi, individuando così quella che deve essere considerata la vera agenda politica, la piattaforma comune delle forze di opposizione. Diritti delle persone, lavoro, conoscenza non si presentano come astrazioni. Ciascuna di quelle parole rinvia non solo a bisogni concreti, ma individua ormai pure forze davvero " politiche", che si presentano con evidenza sempre maggiore come soggetti attivi perché quei bisogni possano essere soddisfatti. Viene così rovesciato le schema dell'antipolitica, e si pone il problema della capacità dei diversi gruppi di opposizione di trovare legami veri con questa realtà. I segnali venuti finora sono deboli, troppo spesso sopraffatti dalle eterne logiche oligarchiche, dagli egoismi identitari di ciascun partito o gruppo politico. Si lamenta che ai problemi reali non si dia il giusto risalto. Ma chi è responsabile di tutto questo? Non quelli che con quei problemi si sono identificati, sì che oggi la responsabilità di farli entrare nel modo corretto nell'agenda politica ufficiale dipende dalla capacità dei partiti di trovare il giusto rapporto con i movimenti presenti nella società, di essere per loro interlocutori credibili. Torna così la questione iniziale, perché proprio questo è il cammino da seguire per abbandonare ogni spirito minoritario e ridare vigore ad una vera politica di opposizione. Le manifestazioni di questi mesi, infatti, dovrebbero essere valutate partendo anche da un dato che tutte le analisi serie sottolineano continuamente, e cioè che Berlusconi non ha il consenso della maggioranza degli italiani, non avendo mai superato il 37%. Il bagno di realtà di domenica, che ne accompagna tanti altri, dovrebbe indurre a volgere lo sguardo verso la vera maggioranza, perché solo così un vero cambiamento è possibile. (15 febbraio 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/politica Titolo: STEFANO RODOTA' - I cittadini calpestati Inserito da: Admin - Aprile 22, 2011, 05:04:38 pm IL COMMENTO
I cittadini calpestati di STEFANO RODOTÀ Ogni giorno ha la sua pena istituzionale. Davvero preoccupante è l'ultima trovata del governo: la fuga dai referendum. Mercoledì si è voluto cancellare quello sul nucleare. Ora si vuole fare lo stesso con i due quesiti che riguardano la privatizzazione dell'acqua. Le torsioni dell'ordinamento giuridico non finiscono mai, ed hanno sempre la stessa origine. È del tutto evidente la finalità strumentale dell'emendamento approvato dal Senato con il quale si vuole far cadere il referendum sul nucleare. Timoroso dell'"effetto Fukushima", che avrebbe indotto al voto un numero di cittadini sufficiente per raggiungere il quorum, il governo ha fatto approvare una modifica legislativa per azzerare quel referendum nella speranza che a questo punto non vi sarebbe stato il quorum per il temutissimo referendum sul legittimo impedimento e per gli scomodi referendum sull'acqua. Una volta di più si è usata disinvoltamente la legge per mettere il presidente del Consiglio al riparo dai rischi della democrazia. Una ennesima contraddizione, un segno ulteriore dell'irrompere continuo della logica ad personam. L'uomo che ogni giorno invoca l'investitura popolare, come fonte di una sua indiscutibile legittimazione, fugge di fronte ad un voto dei cittadini. Ma, fatta questa mossa, evidentemente gli strateghi della decostituzionalizzazione permanente devono essersi resi conto che i referendum sull'acqua hanno una autonoma e forte capacità di mobilitazione. Fanno appello a un dato di vita materiale, individuano bisogni, evocano il grande tema dei beni comuni, hanno già avuto un consenso senza precedenti nella storia della Repubblica, visto che quelle due richieste di referendum sono state firmate da 2 milioni di cittadini, senza alcun sostegno di grandi organizzazioni, senza visibilità nel sistema dei media. Pur in assenza del referendum sul nucleare, si devono esser detti i solerti curatori del benessere del presidente del Consiglio, rimane il rischio che il tema dell'acqua porti comunque i cittadini alle urne, renda possibile il raggiungimento del quorum e, quindi, trascini al successo anche il referendum sul legittimo impedimento. Per correre questo rischio? Via, allora, al bis dell'abrogazione, anche se così si fa sempre più sfacciata la manipolazione di un istituto chiave della nostra democrazia. Caduti i referendum sul nucleare e sull'acqua, con le loro immediate visibili motivazioni, e ridotta la consultazione solo a quello sul legittimo impedimento, si spera che diminuisca la spinta al voto e Berlusconi sia salvo. Quest'ultimo espediente ci dice quale prezzo si stia pagando per la salvezza di una persona. Travolto in più di un caso il fondamentale principio di eguaglianza, ora si vogliono espropriare i cittadini di un essenziale strumento di controllo, della loro funzione di "legislatore negativo". L'aggressione alle istituzioni prosegue inarrestabile. Ridotto il Parlamento a ruolo di passacarte dei provvedimenti del governo, sotto tiro il Presidente della Repubblica, vilipesa la Corte costituzionale, ora è il turno del referendum. Forse la traballante maggioranza ha un timore e una motivazione che va oltre la stessa obbligata difesa di Berlusconi. Può darsi che qualcuno abbia memoria del 1974, di quel voto sul referendum sul divorzio che mise in discussione equilibri politici che sembravano solidissimi. E allora la maggioranza vuole blindarsi contro questo ulteriore rischio, contro la possibilità che i cittadini, prendendo direttamente la parola, sconfessino il governo e accelerino la dissoluzione della maggioranza. È resistibile questa strategia? In attesa di conoscere i dettagli tecnici riguardanti i quesiti referendari sull'acqua è bene tornare per un momento sull'emendamento con il quale si è voluto cancellare il referendum sul nucleare. Questo è congegnato nel modo seguente: le parti dell'emendamento che prevedono l'abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario, sono incastonate tra due commi con i quali il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite "nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell'agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea". E lo farà entro dodici mesi adottando una "Strategia energetica nazionale", per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare. Si è giustamente ricordato che, fin dal 1978, la Corte costituzionale ha detto con chiarezza che, modificando le norme sottoposte a referendum, al Parlamento non è permesso di frustrare "gli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum" e che il referendum non si tiene solo se sono stati del tutto abbandonati "i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente". Si può ragionevolmente dubitare che, vista la formulazione dell'emendamento sul nucleare, questo sia avvenuto. E questo precedente induce ad essere sospettosi sulla soluzione che sarà adottata per l'acqua. Di questo dovrà occuparsi l'ufficio centrale del referendum che, qualora accerti quella che sembra essere una vera frode del legislatore, trasferirà il referendum sulle nuove norme. La partita, dunque, non è chiusa. Da questa vicenda può essere tratta una non indifferente morale politica. Alcuni esponenti dell'opposizione avrebbero dovuto manifestare maggiore sobrietà in occasione dell'approvazione dell'emendamento sul nucleare, senza abbandonarsi a grida di vittoria che assomigliano assai a un respiro di sollievo per essere stati liberati dall'obbligo di parlar chiaro su un tema così impegnativo e davvero determinante per il futuro dell'umanità. Dubito che questa sarebbe la reazione dei promotori del referendum sull'acqua qualora si seguisse la stessa strada. Ma proprio l'aggressione al referendum e ai diritti dei cittadini promotori e votanti, la spregiudicata manipolazione degli istituti costituzionali fanno nascere per l'opposizione un vero e proprio obbligo. Agire attivamente, mobilitarsi perché il quorum sia raggiunto, si voti su uno, due, tre o quattro quesiti. Si tratta di difendere il diritto dei cittadini a far sentire la loro voce, quale che sia l'opinione di ciascuno. Altrimenti, dovremo malinconicamente registrare l'ennesimo scarto tra parole e comportamenti, che certo non ha giovato alla credibilità delle istituzioni. (22 aprile 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/politica/2011/04/22/ Titolo: STEFANO RODOTA' - Sull'imbroglio decida la consulta Inserito da: Admin - Aprile 27, 2011, 02:44:26 pm L'ANALISI
Sull'imbroglio decida la consulta di STEFANO RODOTÀ Sia lode al presidente del Consiglio. Con la disinvoltura istituzionale che lo contraddistingue ha svelato le vere carte del governo sul nucleare, carte peraltro niente affatto coperte. La frode legislativa, già evidente, diviene ora conclamata. Berlusconi è stato chiaro. Un tema tanto importante come il nucleare non può essere affidato a cittadini "spaventati" da quanto è avvenuto in Giappone, che debbono "tranquillizzarsi". Meglio, dunque, non far votare un popolo emotivo, disinformato. Gli abbiamo scippato con uno stratagemma un referendum che avrebbe reso impossibile per anni il nucleare, e ora abbiamo le mani libere per tornare in pista già tra dodici mesi. Gabbati i cittadini, ma rassicurati gli imprenditori, poiché il presidente del Consiglio si è premurato di dire che i rapporti tra Enel e Electricité de France andranno comunque avanti. Un governo e una maggioranza senza dignità accantonano uno dopo l'altro gli strumenti della democrazia, non hanno neppure il pudore della reticenza, teorizzano il silenzio dei cittadini. Ma si può davvero restare passivi davanti a questo gioco delle tre carte istituzionali? Il famigerato emendamento approvato dal Senato diceva chiaramente quale fosse l'obiettivo che si voleva perseguire. Le parole di Berlusconi confermano l'interpretazione dei tanti che avevano sottolineato come la formale abrogazione delle norme sulle centrali nucleari fosse un espediente, anzi un imbroglio, per far sì che la politica nuclearista potesse continuare e per impedire che la partecipazione al voto di cittadini emotivi facesse raggiungere il quorum, consentendo così anche il successo del temutissimo referendum sul legittimo impedimento. È bene ricordare i fatti. Quell'emendamento si presenta formalmente come una abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario. Ma il primo e l'ultimo comma dicono il contrario. Si comincia con lo stabilire che il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite "nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea". E alla fine si dice che lo farà entro dodici mesi adottando una "Strategia energetica nazionale", per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare, di cui peraltro si parla esplicitamente all'inizio dell'emendamento. Il Parlamento ha trangugiato senza batter ciglio questa brodaglia, ennesimo esempio dell'incultura politica e istituzionale che ci circonda. Una volta che il decreto nel quale è stato infilato l'emendamento sarà stato convertito in legge, la parola passerà all'Ufficio per il referendum della Corte di Cassazione, che ha il compito di accertare se la nuova legge va nella direzione voluta dai promotori. Se la sua valutazione è positiva, il referendum non si tiene. Nel caso contrario, il referendum è "trasferito" sulle nuove norme e si va al voto. Dopo la clamorosa confessione pubblica del presidente del Consiglio, è dichiarato l'obiettivo di impedire il rispetto della volontà dei promotori. A questo punto, però, le cose si complicano assai. Che cosa accadrebbe, infatti, se la Cassazione, prendendo atto della frode ai danni dei cittadini, decidesse di far tenere il referendum facendo votare pro o contro l'abrogazione dell'emendamento-imbroglio? Se gli elettori votassero sì all'abrogazione, cancellerebbero certamente le norme con le quali il governo ha voluto riservarsi di riprendere la politica nucleare a proprio piacimento. Ma cancellerebbero pure la parte dell'emendamento che abroga le attuali norme sul nucleare. Queste tornerebbero in vigore, ridando al governo, da subito, il potere di procedere sulla strada della costruzione delle centrali nucleari. Come uscire da questo pasticcio? Facciamo un passo indietro. Nel 1978 la Corte costituzionale dovette affrontare appunto il problema di norme che, abrogando le disposizioni alle quali si riferiva il referendum, non rispettavano la volontà dei promotori. La soluzione fu trovata dichiarando l'incostituzionalità della norma della legge sul referendum che non prevedeva questa eventualità, e prevedendo il trasferimento del referendum sulle nuove norme. Ma, di fronte all'imbroglio attuale, questa strada non è praticabile, poiché produrrebbe l'esito paradossale di un voto referendario che si ritorce ancora di più contro l'intenzione dei proponenti. La Cassazione, allora, potrebbe sollevare la nuova questione, investendone la Corte costituzionale che, come nel 1978, dovrebbe cercar di porre riparo all'ennesima torsione alla quale il governo attuale sottopone le istituzioni. Una parola sul modo in cui Berlusconi considera i cittadini, ai quali sarebbe precluso il diritto di votare in situazioni di emotività, di sostanziale incompetenza. Già in occasione del referendum sulla legge sulla procreazione assistita, nel 2005, uno degli argomenti adoperati per indurre all'astensione fu quello che sottolineava la complessità tecnica di taluni quesiti, che avrebbe impedito ai cittadini di esprimere una valutazione adeguata. Tutti questi sono argomenti pericolosissimi dal punto di vista democratico, perché subordinano la possibilità di votare al giudizio che qualcuno esprime sulla competenza di ciascuno di noi e mettono così "sotto tutela" la stessa sovranità popolare. In questi casi la via non è quella del silenzio forzato, ma dell'informazione adeguata, quella che produce lo "scientific citizen", il "cittadino biologico", cioè persone dotate dei dati che le mettono in condizione di formarsi una opinione critica. È un caso che la Commissione di vigilanza della Rai non abbia ancora approvato il regolamento sulle trasmissioni per i referendum, precludendo ai cittadini proprio quell'accesso all'informazione che li riscatterebbe dall'emotività? (27 aprile 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/ambiente/2011/04/27/news/ Titolo: Stefano RODOTA', Il grande deserto dei diritti Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 12:33:01 am Il grande deserto dei diritti
di Stefano Rodotà, la Repubblica, 3 gennaio 2013 Si può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro. Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti. Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza. La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile. Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto abbastanza. Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito? Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione. Nelle sue venticinque pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta, nel bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile dipendente dell’economia. Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato. In un documento che insiste assai sull’Europa, era lecito attendersi che la giusta attenzione per la necessità di procedere verso una vera Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura esplicita che non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa dei mercati ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo l’esplicito riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la piena legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che avrebbe portato alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa. Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse. Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011. Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia. Serve un ritorno alla politica “costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici. (4 gennaio 2013) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-grande-deserto-dei-diritti/ Titolo: STEFANO RODOTA' Sono e resto un uomo di sinistra Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 11:51:48 am Sono e resto un uomo di sinistra
di STEFANO RODOTA' CARO direttore, non è mia abitudine replicare a chi critica le mie scelte o quel che scrivo. Ma l'articolo di ieri di Eugenio Scalfari esige alcune precisazioni, per ristabilire la verità dei fatti. E, soprattutto, per cogliere il senso di quel che è accaduto negli ultimi giorni. Si irride alla mia sottolineatura del fatto che nessuno del Pd mi abbia cercato in occasione della candidatura alla presidenza della Repubblica (non ho parlato di amici che, insieme a tanti altri, mi stanno sommergendo con migliaia di messaggi). E allora: perché avrebbe dovuto chiamarmi Bersani? Per la stessa ragione per cui, con grande sensibilità, mi ha chiamato dal Mali Romano Prodi, al quale voglio qui confermare tutta la mia stima. Quando si determinano conflitti personali o politici all'interno del suo mondo, un vero dirigente politico non scappa, non dice "non c'è problema ", non gira la testa dall'altra parte. Affronta il problema, altrimenti è lui a venir travolto dalla sua inconsapevolezza o pavidità. E sappiamo com'è andata concretamente a finire. La mia candidatura era inaccettabile perché proposta da Grillo? E allora bisogna parlare seriamente di molte cose, che qui posso solo accennare. È infantile, in primo luogo, adottare questo criterio, che denota in un partito l'esistenza di un soggetto fragile, insicuro, timoroso di perdere una identità peraltro mai conquistata. Nella drammatica giornata seguita all'assassinio di Giovanni Falcone, l'esigenza di una risposta istituzionale rapida chiedeva l'immediata elezione del presidente della Repubblica, che si trascinava da una quindicina di votazioni. Di fronte alla candidatura di Oscar Luigi Scalfaro, più d'uno nel Pds osservava che non si poteva votare il candidato "imposto da Pannella". Mi adoperai con successo, insieme ad altri, per mostrare l'infantilismo politico di quella reazione, sì che poi il Pds votò compatto e senza esitazioni, contribuendo a legittimare sé e il Parlamento di fronte al Paese. Incostituzionale il Movimento 5Stelle? Ma, se vogliamo fare l'esame del sangue di costituzionalità, dobbiamo partire dai partiti che saranno nell'imminente governo o maggioranza. Che dire della Lega, con le minacce di secessione, di valligiani armati, di usi impropri della bandiera, con il rifiuto della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, con le sue concrete politiche razziste e omofobe? È folklore o agire in sé incostituzionale? E tutto quello che ha documentato Repubblica nel corso di tanti anni sull'intrinseca e istituzionale incostituzionalità dell'agire dei diversi partiti berlusconiani? Di chi è la responsabilità del nostro andare a votare con una legge elettorale viziata di incostituziona-lità, come ci ha appena ricordato lo stesso presidente della Corte costituzionale? Le dichiarazioni di appartenenti al Movimento 5Stelle non si sono mai tradotte in atti che possano essere ritenuti incostituzionali, e il loro essere nel luogo costituzionale per eccellenza, il Parlamento, e il confronto e la dialettica che ciò comporta, dovrebbero essere da tutti considerati con serietà nella ardua fase di transizione politica e istituzionale che stiamo vivendo. Peraltro, una analisi seria del modo in cui si è arrivati alla mia candidatura, che poteva essere anche quella di Gustavo Zagrebelsky o di Gian Carlo Caselli o di Emma Bonino o di Romano Prodi, smentisce la tesi di una candidatura studiata a tavolino e usata strumentalmente da Grillo, se appena si ha nozione dell'iter che l'ha preceduta e del fatto che da mesi, e non soltanto in rete, vi erano appelli per una mia candidatura. Piuttosto ci si dovrebbe chiedere come mai persone storicamente appartenenti all'area della sinistra italiana siano state snobbate dall'ultima sua incarnazione e abbiano, invece, sollecitato l'attenzione del Movimento 5Stelle. L'analisi politica dovrebbe essere sempre questa, lontana da malumori o anatemi. Aggiungo che proprio questa vicenda ha smentito l'immagine di un Movimento tutto autoreferenziale, arroccato. Ha pubblicamente e ripetutamente dichiarato che non ero il candidato del Movimento, ma una personalità (bontà loro) nella quale si riconoscevano per la sua vita e la sua storia, mostrando così di voler aprire un dialogo con una società più larga. La prova è nel fatto che, con sempre maggiore chiarezza, i responsabili parlamentari e lo stesso Grillo hanno esplicitamente detto che la mia elezione li avrebbe resi pienamente disponibili per un via libera a un governo. Questo fatto politico, nuovo rispetto alle posizioni di qualche settimana fa, è stato ignorato, perché disturbava la strategia rovinosa, per sé e per la democrazia italiana, scelta dal Pd. E ora, libero della mia ingombrante presenza, forse il Pd dovrebbe seriamente interrogarsi su che cosa sia successo in questi giorni nella società italiana, senza giustificare la sua distrazione con l'alibi del Movimento 5Stelle e con il fantasma della Rete. Non contesto il diritto di Scalfari di dire che mai avrebbe pensato a me di fronte a Napolitano. Forse poteva dirlo in modo meno sprezzante. E può darsi che, scrivendo di non trovare alcun altro nome al posto di Napolitano, non abbia considerato che, così facendo, poneva una pietra tombale sull'intero Pd, ritenuto incapace di esprimere qualsiasi nome per la presidenza della Repubblica. Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità. (22 aprile 2013) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/22/news/lettera_rodot-57201730/?ref=HREC1-1 Titolo: RODOTA'. - Barbara Spinelli: "Uno scopo sbagliato" Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:00:50 am Sei in: Il Fatto Quotidiano > Politica & Palazzo
Costituzione stracciata, continuano le adesioni. Rodotà: “Una riforma di parte” Studiosi, giuristi, intellettuali e moltissimi cittadini non vogliono che questo Parlamento cambi la norma fondamentale in modo parziale e non condiviso. Barbara Spinelli: "Uno scopo sbagliato" di Redazione Il Fatto Quotidiano | 31 luglio 2013 Stefano Rodotà: “Una riforma di parte” A parte le indubbie ed evidenti forzature costituzionali, questo tentativo di revisione della Carta propone difficili questioni politiche. La prima riguarda il fatto che la revisione è parte del cosiddetto “cronoprogramma” di governo. Così si associa la modifica costituzionale alla maggioranza più debole, contraddittoria e precaria della storia della Repubblica e la si fa diventare una questione di parte, dunque oggetto di conflitto e non di condivisione. Ricordiamo che la scrittura della Costituzione fu resa possibile anche da quello che fu chiamato “l’isolamento della Costituente” rispetto al governo, sicché i costituenti riuscirono a lavorare insieme anche dopo che De Gasperi fece cadere il governo tripartito. Le due revisioni costituzionali generali degli ultimi anni sono state un fallimento proprio perché condotte all’insegna del conflitto e identificate con una maggioranza precaria: mi riferisco alla riforma del Titolo V che ha provocato più problemi di quanti volesse risolvere e alla “costituzione berlusconiana” bocciata da 16 milioni di cittadini nel 2006. Condivido, poi, quanto dice Salvatore Settis a proposito del fatto che la revisione costituzionale non può essere affidata a un parlamento di nominati. Aggiungo che si tratta di un Parlamento eletto sulla base di una legge viziata di incostituzionalità, argomento che mostra come sia stata imboccata una strada politicamente pericolosa. L’iniziativa del Fatto, che si collega a tante altre, è particolarmente importante perché di fronte a questi rischi è indispensabile una mobilitazione sociale che dia forza e legittimazione a chi in Parlamento ha deciso di fare opposizione. Conferma la necessità di insistere perché in seconda lettura il Parlamento non approvi la legge con la maggioranza dei due terzi, consentendo così ai cittadini di potersi esprimere anche sulla procedura di revisione. E infine prepara le condizioni perché, qualora la sciagurata revisione venga approvata, i cittadini possano organizzarsi e agire – come nel 2006 – per scongiurare una profonda distorsione del nostro sistema. Barbara Spinelli: “Uno scopo sbagliato” Doveva essere un governo breve, che abolisse il Porcellum e ci portasse senza traumi economici eccessivi a nuove elezioni. Invece abbiamo un esecutivo che crede di minimizzare quando si dice “di scopo”, e infatti uno scopo grande e incongruo ce l’ha: durare il tempo necessario per cambiare la Costituzione, senza subito darci, come dovrebbe a seguito del giudizio della Cassazione, una nuova legge elettorale. Risultato: un Parlamento di nominati, costituzionalmente screditato, nomina ristretti comitati incaricati d iriscrivere la Carta scavalcando regole e tempi che la Costituzione prescrive. Dove sia lo scopo è chiaro: fissare e affrancare un governo che – una volta definito “senza alternative” – diviene per forza di cose onnipotente, incontrollato, auto-perpetuantesi. La Costituzione, fatta di regole rigide per proteggerci con le sue mura, deve essere edulcorata, deve diventare presidenziale, e rompere i ponti con l’esperienza antifascista. Lo ha decretato la JP Morgan in un rapporto del 28 maggio scorso. In passato lo decretò il piano della P2. Adesso i governi di larghe intese eseguono. da Il Fatto Quotidiano del 31 luglio 2013 da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/31/costituzione-stracciata-continuano-adesioni-rodota-riforma-di-parte/672412/ Titolo: RODOTA'. - I forconi e la politica dei diritti Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2013, 10:43:36 am I forconi e la politica dei diritti
di Stefano Rodotà, da Repubblica, 13 dicembre 2013 Sapevamo che la povertà si estendeva, che dilagavano le diseguaglianze, che la percentuale della fiducia dei cittadini nelle istituzioni era precipitata al 2%. Eppure questi dati venivano considerati come pure registrazioni statistiche. Valutate alla stregua di variazioni di sondaggi e non come lo specchio di una situazione reale che rivelava quanto la coesione sociale fosse a rischio. Ora quel momento è arrivato, e bisogna chiedersi come una situazione così difficile possa essere governata democraticamente. È problema capitale per le istituzioni, che non possono ridurlo ad affare di ordine pubblico. Ma è compito pure delle forze politiche che non possono trasformare le critiche legittime nella tentazione di raccogliere consensi nella logica della spallata al sistema, della tolleranza di metodi violenti. I cittadini si sono sentiti privati della rappresentanza, affidati alle pure dinamiche economiche, amputati dei diritti. Da qui bisogna ripartire. La provvida decisione della Corte costituzionale mette di fronte alla necessità di una legge elettorale centrata non solo sulla governabilità, ma sul recupero della rappresentanza. E la dimensione dei diritti è quella dove si fa più evidente l’intreccio tra le varie questioni. Torniamo per un momento a Prato, dove la drammatica morte dei cinesi non è stata causata da un semplice incendio, ma proprio alla negazione dei loro diritti. Se ad essi fossero stati garantiti un lavoro legale e la sicurezza, il diritto alla salute e quello all’abitazione, dunque il rispetto minimo della dignità della persona, nessuno di loro sarebbe morto. Questo non è un caso eccezionale, ma la testimonianza di una separazione sempre più diffusa dell’economia dai diritti, che trascina con sé anche quella tra politica e diritti, causa non ultima della disaffezione dei cittadini. L’azione del Governo è in grado di colmare questa distanza? Oggi la risposta non può che essere negativa. L’attuale maggioranza ha come sua componente essenziale il Nuovo Centrodestra, apparso a qualcuno come una sorta di destra moderna e che, al contrario, al posto dei diritti civili pone i “valori non negoziabili”, ribaditi come irrinunciabile segno di identità. Al posto dei diritti del lavoro ha insediato una logica che ha fatto deperire le garanzie. Al posto del rispetto dell’altro ha collocato il reato di immigrazione clandestina e l’ostinato rifiuto di allargare la cittadinanza. Al posto della legalità costituzionale vi è ancora la coda lunga delle norme che hanno distorto la legge in custode di interessi privati. Ognuno di questi casi ha nomi e cognomi, corrispondenti esattamente a quelli di esponenti della nuova forza politica. E questo è un ostacolo che continua ad impedire una esplicita strategia di uscita dalla non politica dei diritti che ci affligge da anni. Cominciamo dalle clamorose inadempienze del Parlamento. Fin dal 2010, prima la Corte costituzionale, poi la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le persone dello stesso sesso, unite in una convivenza stabile, hanno «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Parole che non hanno trovato ascolto nelle aule parlamentari, sì che un diritto fondamentale continua ad essere ignorato. Il silenzio, che riguarda anche il riconoscimento delle unioni tra persone di sesso diverso, è destinato a continuare? Non meno scandaloso è quanto sta accadendo a proposito dell’accesso alle tecniche di procreazione assistita. La legge del 2004, il più scandaloso prodotto delle ideologie fondamentaliste, è stata demolita nei suoi punti essenziali da giudici italiani ed europei, ma per il Parlamento è come se nulla fosse accaduto e non vi è stato quell’intervento che, riconducendo a ragione quel che resta della legge, è necessario per restituire alle donne l’esercizio pieno dei loro diritti. Inoltre, è fallito per fortuna il tentativo di approvare una legge sulle decisioni sulla vita in contrasto con il diritto fondamentale all’autodeterminazione e con la norma costituzionale che vieta al legislatore di «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ma non si fa nessun passo nella direzione di approvare le poche norme necessarie per eliminare ogni dubbio intorno al diritto della persona di morire con dignità. E così il diritto di governare liberamente la propria vita — il nascere, il costruire le relazioni personali, il morire — è ricacciato in una precarietà che testimonia di una vergognosa indifferenza del legislatore. Sarà mai possibile rovesciare questa attitudine? La restaurazione della legalità attraverso i diritti investe direttamente l’essenziale tema del lavoro, che ha conosciuto una sua “riduzione privatistica” soprattutto attraverso l’articolo 8 del decreto 138 del 2011, dove si consente la possibilità di stipulare, a livello aziendale o territoriale, contratti collettivi o intese in deroga alle leggi. Il negoziato tra datori di lavoro e sindacati non avviene più con la garanzia della legge a tutela di diritti essenziali, ma torna ad essere affidato ai rapporti di forza, mai così “asimmetrici” come in questo tempo di crisi pesantissima. Questa norma deve essere cancellata, così come ha fatto la Corte costituzionale dichiarando illegittime norme limitative della rappresentanza sindacale, con una decisione che ci ricorda la necessità di una legge in materia che, nella logica costituzionale, riconosca ai lavoratori i diritti strettamente connessi alla loro condizione. E la questione del reddito di cittadinanza, della quale ci si vuol liberare con qualche mossa infastidita, rappresenta una buona occasione per ripensare il tema difficile del rapporto tra lavoro, cittadinanza, eguaglianza, dignità. Il filo è sempre quello che connette diritti e restaurazione della legalità. Lo vediamo discutendo di carcere, dove i diritti si scontrano con trattamenti inumani e degradanti e dove la responsabilità del Parlamento non si individua soltanto intorno ad amnistia e indulto, ma con la pari urgenza di incidere sulle cause del sovraffollamento, che hanno le loro radici in reati legati all’immigrazione o al traffico di stupefacenti, all’inadeguatezza del codice penale. Lo vediamo a proposito della tutela della privacy che, da una parte, esige maggior rigore all’interno; e, dall’altra, impone di non considerarla una questione “domestica”, ma un tema che imporrebbe una presenza del governo italiano in quella dimensione internazionale dove si gioca una inedita partita di legalità costituzionale. Lo vediamo nel deperimento continuo del diritto alla salute e di quello all’istruzione. Viviamo ormai in una situazione in cui la Costituzione è ignorata proprio nella parte dei principi e dei diritti. E lo stesso accade nell’Unione europea, amputata della sua Carta dei diritti fondamentale, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati. La simmetria tra Italia e Europa è rivelatrice. La lotta ai populismi, anche nella prospettiva delle prossime elezioni europee, passa proprio attraverso l’esplicito recupero del valore aggiunto assicurato proprio dalla garanzia dei diritti. Questo catalogo, ovviamente parziale, consente di cogliere i nessi tra politica e società, i limiti delle impostazioni solo economicistiche, la rilevanza dei principi di eguaglianza, dignità, solidarietà. Ma serve anche a mostrare non solo l’inaccettabilità di qualsiasi sottovalutazione dei diritti, ma pure la debolezza d’ogni posizione che ritenga possibile separarli dalla democrazia. È vero, i diritti sono deboli se la politica li abbandona. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi? (13 dicembre 2013) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-forconi-e-la-politica-dei-diritti/ Titolo: RODOTA': - «Sì, ero per il monocameralismo» Inserito da: Admin - Aprile 06, 2014, 05:50:02 pm Rodotà: «Sì, ero per il monocameralismo»
«Il mio disegno di legge del 1985 sul monocameralismo? Me lo ricordo perfettamente. Quel testo voleva rafforzare la rappresentanza dei cittadini e la centralità del Parlamento contro i tentativi che c’erano anche allora di spostare l’equilibrio a favore dell’esecutivo. Nel 1985 c’erano il proporzionale, le preferenze, i grandi partiti di massa, regolamenti parlamentari che davano enormi poteri ai gruppi di opposizione. Il nostro obiettivo era dare la massima forza alla rappresentanza parlamentare, mentre oggi la si vuole mortificare». Stefano Rodotà è un fiume in piena. Il conflitto tra il premier Renzi e il fronte dei «professoroni» che lo vede in prima fila insieme a Gustavo Zagrebelsky ha ulteriormente rafforzato la sua volontà di lanciare un allarme sui rischi di una «deriva autoritaria». E tuttavia anche lei il Senato lo voleva eliminare... «Certo, ma utilizzare questo argomento come obiezione alle mie critiche alle riforme di Renzi è culturalmente imbarazzante. Le critiche che ci arrivarono nel 1985 era che eravamo troppo parlamentaristi. Il nostro riferimento era rafforzare la reppresentanza del Parlamento, lo steso tema al centro della sentenza della Consulta contro il Porcellum. E l’Italicum è chiaramente in violazione di quella sentenza, basti pensare allo sbarramento dell’8% per i partiti non coalizzati. È qui l’abisso che divide le nostre proposte del 1985 da quelle di oggi». Il vostro appello ha avuto anche l’endorsment di Grillo e Casaleggio... «Ma che argomento è? Grillo firma quello che vuole, sono affari suoi. Quando c’è una proposta sul mercato chiunque ha il diritto di valutarla nel merito. Grillo vuole il vincolo di mandato per i parlamentari, noi no, mica c’è la proprietà transitiva verso Rodotà e Zagrebeslky». Rispetto al Senato di Renzi lei che obiezioni muove? «Ho letto pochi testi così sgrammaticati. Non mi pare neppure emendabile. Vedo poi che cambia continuamente. Ma questa disponibilità a cambiare mi pare soprattutto un segno di debolezza culturale e di approssimazione istituzionale. Gli argomenti portati sono imbarazzanti. Risparmiamo un miliardo? Ma questo è l’argomento più antipolitico che abbia sentito. È questo il metro per misurare la riforma costituzionale? Se aboliamo la presidenza della Repubblica e vendiamo il Quirinale si risparmia ancora di più...». Non rischia di sottovalutare l’indignazione popolare contro gli sprechi? «Assolutamente no. E infatti considero sacrosanta la proposta di eliminare i rimborsi nelle regioni che hanno generato fenomeni di corruzione. Ma di qui a tagliare il Senato per risparmiare c’è un salto pericoloso»: il Senato non è il Cnel». Voi che tipo di riforma vorreste? «Ci sono state tante proposte da parte dei firmatari del nostro appello. All’inizio del governo Letta alcuni di noi proposero di evitare la modifica del 138 e di fare subito le riforme possibili: la riduzione dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto. Se si fosse fatto, oggi avremmo già queste due riforme approvate. Altro che conservatorismo». In quali aspetti le vostre proposte differiscono da quelle del governo? «Se una sola delle Camera ha la competenza sulla fiducia e sui bilanci, per evitare di modificare gli equilibri costituzionali occorre dare al Senato poteri sulle leggi costituzionali, le grandi leggi di principio, l’attività di controllo e inchiesta parlamentare. E poi un Senato eletto direttamente dai cittadini con il proporzionale. C’è una proposta in Senato firmata da Walter Tocci e altri che riprende alcuni di questi obiettivi. Sarebbe una strada per avere un Senato di garanzia, ancor più necessario se si sceglie per la Camera una legge ipermaggioritaria come l’Italicum. Altrimenti un partito con poco più del 20% rischia di diventare dominus dell’intero sistema. Di un governo con troppi poteri. Ecco perché parliamo di sistema autoritario. E poi c’è il tema della legittimità di questo Parlamento...». Sarebbe illegittimo? «Questo Parlamento eletto con un Porcellum incostituzionale non è rappresentativo del Paese. E bisognerebbe interrogarsi sulla sua legittimazione a modificare la Costituzione in modo così radicale. Servirebbe un minimo di cautela, non certo la tracotanza di chi dice “prendere o lasciare”». Il ragionamento può essere ribaltato. Istituzioni così delegittimate hanno la necessità di profonde riforme per arginare i populismi. «Dipende da quale risposta si intende dare. Accentrare i poteri nelle mani di poche persone è una vecchia ricetta già utilizzata più volte. È la ricetta di chi dice basta coi sindacati, con i partitini, con i professoroni. Ma ce n’è un’altra. Visto che c’è un deficit di rappresentanza delle istituzioni, si può fare una buona manutenzione della macchina dello Stato riaprendo dei canali di comunicazione con i cittadini di tipo non populista». Come si traduce in concreto? «Si può rafforzare la capacità di decisione senza stravolgere gli equilibri e le garanzie. I cittadini devono poter intervenire valorizzando gli strumenti dell’iniziativa popolare e del referendum, rendendo vincolante la discussione delle proposte dei cittadini. Si potrebbe così canalizzare la rabbia che alimenta i populismi». È una risposta alla sfida di Grillo? «È un modo per aprire canali nuovi dopo che i vecchi, a partire dai partiti di massa, si sono rinsecchiti. Ci sono tante forme di partecipazione civica che vanno oltre le forme povere del M5S. Anche Obama ha saputo dare una risposta partecipativa capillare alla crisi della politica». DA - http://www.unita.it/politica/stefano-rodota-riforme-monocameralismo-italicum-grillo-renzi-senato-riforma--1.561213 Titolo: STEFANO RODOTA' - Perché i diritti non sono un lusso in tempo di crisi Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2014, 05:53:11 pm Perché i diritti non sono un lusso in tempo di crisi
Come fare se il mercato pretende di stabilire cosa è compatibile. Anche se si tratta di democrazia Di STEFANO RODOTA' NEL 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, "il diritto di avere diritti", ricordate su questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa). Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla nella sua interezza: "Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all'umanità, dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa". Così la fondazione dei diritti si fa assai impegnativa, esige una vera "politica dell'umanità", l'opposto di quella "politica del disgusto" di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell'altro. Quella del riconoscimento dei diritti è un'antica promessa. La ritroviamo all'origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: "Non metteremo la mano su di te". È l'habeas corpus , il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato "l'età dei diritti", alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del "lago Atlantico", negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse "generazioni" di diritti: civili, politici, sociali, legati all'innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei "vinti", l'italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all'eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell'umano a qualsiasi potere esterno. Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall'innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti "insaziabili", che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie. Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell'economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati "decidono", annettendo alla sfera dell'economico le prerogative proprie della politica e dell'organizzazione democratica della società? La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell'attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti "etico-democratici", i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di "difendere l'essere umano nella sua realtà più individuale e singolare". I diritti fondamentali "ultima utopia", come ha scritto Samuel Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto "imperialistico" la cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che, secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia, vissuta troppo spesso come "ultrademocrazia", e a riflettere sulla forza delle cose che ha interrotto quella che Giuliano Amato ha definito "la marcia trionfale dei diritti"? Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel "sud del mondo" che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell'Occidente. Al tempo stesso, però, l'attenzione per le costituzioni "degli altri" deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d'origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica. I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull'obbligo di renderne possibile l'attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell'altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella "politica dell'umanità" alla quale è legata la vicenda dei diritti. Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull'iniziativa delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi? © Riproduzione riservata 20 ottobre 2014 Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/10/20/news/perch_i_diritti_non_sono_un_lusso_in_tempo_di_crisi-98532362/?ref=HRER2-1 Titolo: Colloquio con Stefano Rodotà. L'Italia e la prima Carta dei Diritti per la Rete. Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2014, 06:01:59 pm L'Italia e la prima Carta dei Diritti per la Rete.
Colloquio con Stefano Rodotà Pubblicato: 20/10/2014 10:36 CEST Aggiornato: 20/10/2014 10:40 CEST L'Italia ha compiuto nei giorni scorsi il primo passo per realizzare una Carta dei Diritti di Internet, grazie all'impegno preso dalla Presidente della Camera Laura Boldrini che aveva incaricato il professor Stefano Rodotà, già Garante per la Privacy e uno dei giuristi più impegnati su questi temi. Il documento di 6 pagine che contiene 14 punti di indirizzo generale, verrà ben presto presentato a una delegazione dell'Unione Europea ed è "Fondata sul pieno riconoscimento di libertà, eguaglianza, dignità e diversità di ogni persona", anche perché, come ha ribadito la Boldrini: "Non possiamo lasciare il Web in mano ai potenti": La bozza è già online sul sito della Camera e per 4 mesi, a partire dal 27 Ottobre, tutti potranno contribuire alla stesura del testo definitivo, suggerendo modifiche, integrazioni e cancellazioni. Insomma, una grande consultazione popolare, la prima in Europa, su uno dei temi più sentiti nell'attuale fase storica del progresso umano: la libertà della Rete. Ne abbiamo parlato proprio con Rodotà. Perché la necessità di creare una carta fondamentale per i diritti su Internet? "Non è una novità: è una discussione cominciata qualche tempo fa. Sono anni che sottolineo non solo in Italia la necessità di creare una Carta dei diritti. Finora abbiamo avuto diverse iniziative: il Centro Berkman dell'Università di Harvard ha censito 87 dichiarazioni nel mondo, che sono quasi tutte esclusivamente di fonte collettiva, non statale, ma privata, e che hanno messo in evidenza la necessità di una carta dei diritti. L'iniziativa italiana si differenzia da queste, perché ha sede a livello istituzionale, nella Camera dei Deputati. Naturalmente non significa che questo testo assumerà un carattere vincolante, ma evidentemente diventa un punto di riferimento per una discussione istituzionale, tanto che ci sono state reazioni molte positive da parte dei Parlamenti francese, inglese e tedesco". Quali sono le linee fondamentali su cui vi siete soffermati? "Anzitutto per evitare equivoci e critiche, che in questi casi si manifestano regolarmente, qui non siamo di fronte a regole che vogliono impedire l'esercizio della libertà; ma, al contrario, si vuole impedire che la libertà in Rete e, quindi, i diritti individuali e collettivi siano subordinati agli interessi economici e alle esigenze di sicurezza. Ecco, perché parliamo di una dimensione costituzionale, perché vengono affermati principi e diritti. I principi di riferimento sono quelli classici: libertà uguaglianza e dignità. I quali, poi, si traducono in questo documento, anzitutto nel diritto a di accesso alla Rete, ad internet, come diritto fondamentale della persona, poiché internet è ormai uno spazio nel quale si manifesta sia l'attività pubblica sia lo svolgimento della vita privata. E questo evidentemente è una condizione di eguaglianza. Dal riconoscimento di questo diritto si trae immediatamente la conseguenza della necessaria 'neutralità' della Rete. Il che vuol dire, in primo luogo, che nessuno può essere discriminato ad esempio fornendo servizi migliori a chi può pagare di più. E questo è un principio che vale, non solo per quanto riguarda le pari opportunità delle persone, ma anche perché la rete possa funzionare in modo da offrire a tutti le stesse opportunità economiche. Finora, quella che è stata capacità generativa della Rete, cioè la capacità di innovazione continua, è stata resa possibile proprio dal fatto che tutti hanno potuto muoversi in Rete in condizioni di parità. Non solo un sapere collettivo, ma questo garantisce anche la concorrenza in modo economico. Se elimino la neutralità i più forti potranno creare condizioni e impedimenti per coloro che vogliono entrare in concorrenza con essi. Metterei in evidenza il fatto che garantire condizioni di libertà ed eguaglianza è una premessa indispensabile, perché sia resa possibile la partecipazione sociale e politica per tutti i cittadini nelle modalità nuove che la rete offre. Questa Dichiarazione non è una dichiarazione chiusa, un testo consegnato come un prodotto finito. È, al contrario, una base per una discussione più larga alla quale tutti potranno partecipare. Già oggi il testo della Dichiarazione si trova in Rete sul sito della Camera e dal 27 Ottobre ci sarà una vera e propria piattaforma strutturata, in modo tale che tutti possano fare le loro osservazioni, manifestare le loro critiche, proporre eliminazioni e/o integrazioni. Tutto questo materiale sarà poi utilizzato per elaborare la bozza definitiva della dichiarazione, che è stata concepita non come un affare interno ad uno stato, cosa che sarebbe ridicola, considerando il fatto che internet è uno spazio senza confini. Ma proprio per alimentare la discussione sovranazionale, in primo luogo in Europa, ma poi in aree sempre più vaste, a cominciare dall'America Latina, dove oggi vi è una grande sensibilità per questi temi, soprattutto dopo l'entrata in vigore di un'importante legge brasiliana." E comunque già si sono manifestate alcune critiche riguardo alla privacy e al diritto d'autore, nodi abituali nelle discussioni sulla Rete. "Per quanto riguarda il diritto d'autore abbiamo deliberatamente deciso di attivare questo punto molto delicato alla consultazione, che comincia a fine ottobre. Su questa base e su quella di un'ampia documentazione che abbiamo già raccolto, il tema del diritto d'autore sarà certamente presente nella stesura definitiva della dichiarazione, tenendo però conto della novità proprio rappresentata dalla rete, dove la conoscenza ha assunto un significato tutto nuovo ed è anche il prodotto dell'attività di un numero sterminato di persone. Per la privacy abbiamo, da una parte tenuto conto delle elaborazioni già note, in particolare in Europa, dove la sua tutela è particolarmente intensa e dove è in corso di approvazione il Regolamento che la regolerà in modo più preciso, mettendo però l'accento anche sugli aspetti nuovi del problema. Come quelli che riguardano il fatto che la nostra identità è sempre più costruita da altri, che acquisiscono le nostre informazioni e che, soprattutto dopo il caso Snowden, bisogna porre limiti precisi alle raccolte di informazioni di massa e alla violazione dei nostri apparati informativi. Sono state manifestate preoccupazioni per quanto riguarda la tutela della privacy, soprattutto nella forma del diritto all'oblio, sottolineando come questo possa limitare la libertà d'informazione. Va detto però che si sta sviluppando una linea, nata negli Stati Uniti e che in Italia ha avuto già esplicito riconoscimento, che ad esempio le persone note e tutte quelle che ricoprono funzioni pubbliche non possono impedire l'accesso alle loro informazioni." Da - http://www.huffingtonpost.it/gianni-rossi/italia-carta-diritti-rete-colluquio-stefano-rodota_b_6007094.html?utm_hp_ref=italy Titolo: Giornalismo, Stefano Rodotà: "La nuova legge sulla diffamazione è un pericolo... Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2015, 11:56:06 am Giornalismo, Stefano Rodotà: "La nuova legge sulla diffamazione è un pericolo per la democrazia"
Arturo Di Corinto, l'Huffington Post Pubblicato: 06/01/2015 19:49 CET Aggiornato: 06/01/2015 19:49 CET Attualmente il disegno di legge di riforma delle norme relative alla diffamazione a mezzo stampa è all'esame della II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati che si pronuncerà in "sede referente". Se il ddl sarà approvato dalla Camera senza emendamenti, rispetto al testo pervenuto dal Senato, diventerà legge. Fra i punti cardine del disegno di legge ci sono le norme che riguardano l'eliminazione del carcere per il giornalista autore della diffamazione, e la sua sostituzione con una pena pecuniaria fino a 50 mila euro, come pure l'obbligo di rettifica in 48 ore per le testate online e la possibilità di chiedere la cancellazione dell'articolo considerato diffamatorio. Alcuni le ritengono delle previsioni legislative di buon senso ma non la pensa così la gran parte del mondo giornalistico italiano che in queste ore ha firmato attraverso il sito nodiffamazione.it la lettera rivolta al Parlamento dalle associazioni per la libertà di stampa in cui si chiede ai legislatori di fermare la legge. I motivi di questa levata di scudi sono molti. Secondo Stefano Rodotà, si tratta di "una proposta che mette a rischio il diritto costituzionale ad informare ed essere informati", "per questo la legge è pericolosa, non solo per la libertà d'informazione ma per la democrazia stessa." La lettera che anche lui ha firmato sottolinea il fatto che in un mondo in cui l'informazione digitale, il giornalismo partecipativo e il dialogo online diventeranno maggioritari, si stia facendo una legge che non prevede adeguate garanzie per il web. E infatti sempre Rodotà ci dice: "Quello che pure mi preoccupa, è che viene pericolosamente ampliata la responsabilità del direttore per omesso controllo, ormai improponibile in via di principio e sicuramente devastante per i giornali online, caratterizzati da un continuo aggiornamento”. La riforma recita testualmente che "l'interessato può chiedere l'eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge" e introduce nel nostro ordinamento il diritto all'oblio senza bilanciarlo col diritto di cronaca e all'informazione. "Mi sembra" sostiene Rodotà che “la previsione di un assoluto diritto all’oblio, esercitato senza contraddittorio, è destinato a produrre un infinito contenzioso tutte le volte che, di fronte a richieste ingiustificate, il direttore legittimamente decida di non accoglierle. Ma la nuova norma può anche indurre ad accettare la richiesta solo per sottrarsi proprio ad un contenzioso costoso o ingestibile e, soprattutto, può portare alla decisione di non rendere pubbliche notizie per le quali è probabile la richiesta di cancellazione, con un gravissimo effetto di autocensura. I rischi non solo per la libertà d’informazione, ma per la stessa democrazia, sono evidenti." Alessandro Gilioli dell'Espresso è molto netto nella sua presa di posizione: "La minaccia di una multa così salata verrà usata dai potenti per dissuadere chiunque a scrivere di loro." "In particolare questa norma penalizza e intimidisce i giornalisti free-lance e i citizen journalist, ma anche i semplici utenti che esprimono il loro parere sui social network, insomma tutti coloro che non sono garantiti da un contratto e quindi dall'ufficio legale della loro azienda. Doveva evitare il carcere ai giornalisti colpevoli di riportare fatti falsi, rischia invece di diventare uno strumento di vendetta e di intimidazione senza precedenti della classe politica e dei potenti in genere verso chi dovrebbe controllarne l'operato." "Le mie perplessità riguardano invece l'obbligo di pubblicare la rettifica in così poco tempo - sostiene l'avvocato Carlo Blengino - La riforma prevede che le testate online lo facciano entro due giorni dalla richiesta. Chi conosce un poco come funzionano i giornali, sapendo che molti contributi vengono ormai da collaboratori esterni, che si dedicano anche a inchieste delicate, sa che questo lasso temporale è troppo stretto. E poi non sembra proprio un obbligo di rettifica, quanto un diritto di replica, assoluto e illimitato visto che il giornalista non può rispondervi". Gilioli taglia corto: "In sostanza, si vuole lasciare l'ultima parola al potente della politica o dell'economia, impedendo al giornalista di difendere le ragioni di quanto ha scritto". L'avvocato Giulio Vasaturo, docente all'Università Sapienza di Roma ci dice: "Positivo eliminare la pena detentiva per il reato di diffamazione, l'obbligo da parte del direttore di informare l'autore dell'articolo di una richiesta di rettifica e viceversa dell'obbligo per il direttore di dare seguito alla richiesta del giornalista stesso di modificare un testo "sbagliato", ma sono molte altre le cose che non funzionano nella legge. Ad esempio il fatto che nel caso di presunta diffamazione tramite il web la competenza territoriale spetti al giudice del luogo di residenza del querelante, ma soprattutto che non si siano esplorate norme più definite per porre un argine alle querele temerarie. E questo è proprio uno dei motivi di tanta opposizione al disegno di legge. Milena Gabanelli ce lo spiega così: "Nei paesi anglosassoni i giornalisti che diffamano sono puniti molto più severamente, ma al tempo stesso il codice di procedura civile prevede che in caso di lite temeraria, il querelante rischia di essere condannato ad una sanzione che è pari ad un multiplo di ciò che chiede come risarcimento danni (tal de' tali mi chiede 10 milioni, ma sa che rischia di doverne pagare 20). Questo perchè l'atto intimidatorio è un attacco alla libertà di stampa e quindi al diritto di ogni cittadino ad essere informato. Da noi nonostante sia prevista una sanzione, è raramente applicata ed è quantificabile in una multa da 1000 euro per aver disturbato il giudice". Diversi giornalisti dicono provocatoriamente che è meglio il carcere della riforma ma poi assentono con noti giuristi che andrebbe proposto un solo emendamento stralcio alla legge, che elimini il carcere e rinvii la discussione a una riforma organica della legge sulla stampa. Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/01/06/rodota-diffamazione-pericolo_n_6424424.html?1420570200&utm_hp_ref=italy |