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Forum Pubblico => L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. => Discussione aperta da: Admin - Marzo 14, 2012, 11:04:40 am



Titolo: Un programma contro i poteri criminali
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2012, 11:04:40 am
Un programma contro i poteri criminali

Per l’Italia la questione criminale è una componente essenziale delle dinamiche politiche ed economiche. È perciò indispensabile un piano straordinario per combattere i poteri criminali e restituire la democrazia ai cittadini e il mercato alla libera concorrenza: introduzione del reato di traffico di influenze, inasprimento delle pene per alcuni reati societari, inserimento del reato di autoriciclaggio, aumento della prescrizione… Riforme che possono dar vita a un vero blocco sociale per la legalità. Il caso di Confindustria Sicilia insegna.

di Roberto Scarpinato, da MicroMega 7/2012


La situazione attuale

In altri paesi europei di democrazia matura la questione criminale è un capitolo secondario delle storie nazionali che interessa solo gli specialisti di settore.
Tranne poche eccezioni le vicende criminali sono infatti inin­fluenti per il destino di quelle nazioni, per i loro assetti democratici ed economici globali.
In Italia invece la questione criminale coincide con la questione stessa dello Stato e della democrazia a causa del risalente protagonismo criminale di significativi settori delle classi dirigenti che si è storicamente declinato essenzialmente in tre forme: lo stragismo e l’omicidio come risorse occulte per condizionare la dialettica politica, la corruzione sistemica e l’utilizzo del metodo mafioso come instrumentum regni.

In sintesi la criminalità del potere è in Italia una componente essenziale delle dinamiche macropolitche e macroeconomiche che incide sui processi di composizione e di scomposizione del potere reale, con gravi ricadute sul destino economico dell’intera nazione [1]. Per questo motivo nel nostro paese il nefasto operare dei poteri criminali non è un problema a valle, residuale rispetto agli altri temi dell’agenda politica, ma a monte perché costituisce una delle cause che contribuiscono a determinare il declino della nazione. Gli analisti economici hanno quantificato le varie voci dei costi della corruzione sistemica e del condizionamento mafioso di ampi comparti economici (fatturati globali della corruzione e della mafia, incidenza sul pil, sugli investimenti stranieri, sul tasso bancario, sull’occupazione eccetera). Il dato di sintesi saliente è che i costi globali della corruzione sistemica e dell’economia criminale hanno un’incidenza così rilevante da poter essere metabolizzati solo nelle fasi espansive del ciclo economico. Nelle fasi recessive, come l’attuale, tali costi sono invece in grado di concorrere ad accellerare il rischio di default. Al riguardo la lezione dei precedenti storici è illuminante (rischio di default e conseguente istituzione della Banca d’Italia a seguito dell’interminabile serie di scandali bancari e finanziari inaugurata dal crack della Banca romana durante il periodo monarchico, rischio di default e imposizione dell’eurotassa nel 1996 che scaricava sulla collettività i costi necessari a evitare la bancarotta nazionale dopo decenni di Tangentopoli).

L’attuale contingenza storica è più grave delle precedenti. Una pluralità di fattori di carattere interno e internazionale infatti non consentono più di riassorbire le disfunzioni e l’irrefrenabile dilatazione dei costi determinate dai poteri criminali. Ragioni di spazio costringono a una brutale sintesi, a scapito del rigore argomentativo. Nella Prima Repubblica l’economia drogata di Tangentopoli e di Mafiopoli veniva alimentata da una spesa pubblica la cui continua lievitazione era finanziata con l’inflazione, poiché non esistevano vincoli internazionali che imponessero tetti massimi.

In tutto il vastissimo comparto economico foraggiato dalla spesa pubblica il libero mercato fondato sulla concorrenza e sulle regole era stato sostituito da una rete nazionale di mercati protetti e regolati, nati da accordi collusivi tra ceto politico, ceto imprenditoriale, ceto professionale e, nel Sud, aristocrazie mafiose. Come è noto, esistevano regole consolidate in base alle quali si operava una pacifica e capillare distribuzione interna di tutti gli appalti e delle forniture pubbliche con vantaggi reciproci. Il ceto imprenditoriale eliminava i costi della concorrenza e non aveva necessità di investire dunque in innovazione e ricerca. Il ceto politico utilizzava le risorse accumulate con le tangenti in parte per fini di arricchimento personale, in parte per finanziare enormi circuiti clientelari, tesaurizzando un voto di scambio che costituiva uno zoccolo duro del consenso politico non soggetto, a differenza del voto di opinione, a pericolose oscillazioni. I costi di tale abolizione del libero mercato venivano riversati sull’erario e sono noti: enorme dilatazione della spesa pubblica, rachitismo del tessuto imprenditoriale e penalizzazione delle imprese innovative, sistematica dispersione dei fondi statali ed europei destinati a emancipare il Sud dal sottosviluppo, perpetuazione delle condizioni che alimentano l’economia parallela del crimine organizzato.

Nei momenti di crisi, il recupero di competitività internazionale veniva affidato alle svalutazioni competitive invece che alla ricerca e all’innovazione tecnologica ritenute superflue da un ceto imprenditoriale educato – tranne poche minoranze – a riposare sugli allori e i facili guadagni dell’economia assistita e regolata di cui si è detto. L’adesione dell’Italia all’Unione europea e la globalizzazione dell’economia hanno fatto venire meno alcuni dei principali fattori che consentivano al sistema Italia di mantenersi in precario equilibrio. Il Trattato di Maastricht ha imposto rigorosi tetti massimi alla spesa pubblica. Ciò ha determinato una pericolosissima mutazione della corruzione sistemica che, finito il grasso della spesa pubblica, oltre che avventarsi sulle ultime tranche di finanziamenti europei, ha orientato i propri appetiti sui muscoli e il tessuto connettivo della nazione, cioè lo Stato sociale.

La nuova corruzione – il cui fatturato è stato quantificato dalla Corte dei Conti in sessanta miliardi di euro all’anno, dieci volte di più che nel 1992 – viene infatti finanziata in larga misura sottraendo risorse allo Stato sociale e dirottandole verso mille altri canali che consentono arricchimenti privati [2]. In sostanza invece che tagliare i costi della corruzione, si tagliano i costi dello Stato sociale, determinando così il correlativo impoverimento dei ceti medio-bassi la cui capacità di spesa e di consumo viene sempre più ridotta. La contrazione dei consumi comporta a sua volta una riduzione degli ordinativi e una contrazione della produzione. Se le imprese producono di meno diminuisce anche la base imponibile e l’introito fiscale. Si innesta così una spirale perversa dalla quale nell’attuale fase recessiva non pare possibile uscire tramite un rilancio della crescita in grado di riassorbire i costi della corruzione che si sommano a quelli di un’imponente evasione fiscale e di una economia mafiosa.

Ragioni di spazio impediscono di analizzare le molteplici sinergie negative tra corruzione ed evasione fiscale (come, ad esempio, la creazione di fondi neri sottratti al fisco per finanziare il pagamento di tangenti).
La crisi economica ha inoltre ripercussioni particolarmente gravi nel Meridione, intrecciandosi ancora una volta con la questione criminale. Le statistiche attestano come ogni anno cresca sempre di più la forbice economica tra Nord e Sud. Si sta scavando un fossato che può lentamente portare a una secessione economica tra queste due aree del paese con il rischio che, per evitare il pericolo di implosione sociale, si deleghi il compito di garantire la sussistenza di ampie porzioni delle masse popolari meridionali all’economia alternativa del crimine organizzato (come del resto già oggi avviene per le favelas urbane di Secondigliano, Scampia, Zen, Borgo Vecchio e tanti altri quartieri degradati delle metropoli del Sud).

A proposito di mafia, è bene infine ricordare come da tempo ormai il Sud si stia trasferendo al Nord. Non mi riferisco solo allo stabile radicamento territoriale in Lombardia e in altre regioni del Nord delle strutture organizzative delle mafie militari messa in luce dalle recenti inchieste della magistratura. La pubblica opinione e i media focalizzano la propria distratta e rapsodica attenzione solo sugli aspetti più appariscenti del fenomeno: intimidazioni violente e atti cruenti.
Ma l’aspetto più inquietante – che pure è stato messo in luce nelle ordinanze di custodia cautelare – è quello meno visibile della mancanza quasi totale di reazione della società civile e del ceto imprenditoriale, indice del successo sociale dell’economia mafiosa e della sua progressiva integrazione con l’economia del territorio. Il segreto di questo successo ha anche ragioni di carattere economico.
Le aristocrazie mafiose offrono infatti una serie di beni e servizi illegali per i quali esiste una domanda crescente da parte di significativi settori del ceto imprenditoriale, in quanto consentono di incrementare i profitti e ridurre i costi (per esempio l’offerta di capitali liquidi, lo smaltimento di rifiuti speciali con decurtazioni di prezzi sino al 60 per cento, l’esecuzione di opere a regola d’arte con sconti sino al 40 per cento rispetto ai prezzi di mercato, la fornitura di fatture false).

In estrema sintesi nell’attuale fase di recessione molte imprese cedono alla tentazione di affidare il recupero di competitività sul mercato non all’innovazione dei processi produttivi, ma alla riduzione dei costi e alle opportunità di guadagno discretamente offerti dai colletti bianchi delle mafie. Tale occulta e impropria risorsa competitiva sempre più spesso si coniuga poi con quella dello sviluppo della capacità corruttiva.
Come dimostrano centinaia di inchieste, nel vasto settore imprenditoriale che vive di commesse pubbliche un numero sempre crescente di imprenditori compete sviluppando le proprie capacità corruttive. Un attivismo frenetico per inserirsi in reti di relazione personali, per entrare in comitati di affari, in network di potere che continuano a svolgere la funzione di «regolatori» di mercati protetti, sottoposti a una sorta di barriera doganale di ingresso, e all’interno dei quali è stata di fatto abolita la libera concorrenza. La corruzione si rivela inoltre il principale terreno di penetrazione delle mafie nel circuito istituzionale e nell’economia.

I nuovi protagonisti delle vicende criminali italiane sono divenuti i «sistemi criminali», che, come in una sorta di evoluzione della specie, nascono dall’ibridazione della corruzione e delle mafie.
Si tratta di comitati di affari, di network di potere, talora definiti dalla stampa come cricche, o repliche della P2, costituiti da appartenenti a mondi diversi: il politico, il pubblico amministratore o altro esponente delle istituzioni, l’imprenditore, il faccendiere e, sempre più spesso, il colletto bianco delle mafie. Ciascuno mette in comune le risorse di cui dispone: capitali, reti di relazioni personali, potere politico, potere di intimidazione mafiosa. La sinergia tra tali risorse messe al servizio dello scopo comune di colonizzare progressivamente interi comparti economici e istituzionali, dà vita a macchine sociali dotate di straordinaria potenza e capacità di penetrazione.
Accostando le tessere che emergono da centinaia di processi penali da Bolzano a Palermo, emerge una sorta di rete nazionale di sistemi criminali operanti nei più svariati settori i quali spesso comunicano tra loro tramite comuni uomini cerniera. Una sorta di piovra nazionale che sta strangolando il paese.
Conclusivamente i sistemi criminali si stanno stabilizzando come il prototipo dei poteri criminali italiani nei segmenti più alti e appetibili del mercato (commercializzazione energie da fonti tradizionali e produzione energie alternative, alta tecnologia sanitaria, smaltimento rifiuti, privatizzazioni eccetera).
Da un punto di vista sociologico si tratta di un nuovo interclassismo criminale che coopta nei piani alti della classe dirigente le aristocrazie mafiose riservandosi gli affari di alto livello e lasciando alle mafie tradizionali solo il lavoro sporco di accumulazione primitiva del capitale tramite il traffico di stupefacenti e l’estrazione violenta delle risorse nei territori di origine.

Dall’esposizione che precede si desume come le principali vittime dei sistemi criminali siano il libero mercato fondato sulla concorrenza e lo Stato sociale di diritto. La via di uscita da tale impasse va costruita dunque anche attraverso la progettazione di una nuova alleanza strategica tra mercato e Stato, cioè tra ceti produttivi (settori evoluti del mondo imprenditoriale e sindacati) e settori dello Stato che ancora resistono alla colonizzazione da parte del ceto politico, per ripristinare il libero mercato e lo Stato di diritto, riavviando un ciclo espansivo virtuoso che ha tra le sue conditio sine qua non la disarticolazione dei sistemi criminali.
A questo riguardo, l’esperienza del nuovo corso storico della Confindustria siciliana avviato a Caltanissetta a partire dal 2005 assume la valenza di un interessante laboratorio socio-politico con virtuali proiezioni nazionali, in grado di partorire l’embrione di una nuova egemonia sociale da contrapporre ai vecchi blocchi di potere imperniati sulla rendita di posizione dei mercati regolati e sull’intermediazione parassitaria. L’aspetto più rilevante di tale esperienza non è la decisione di espellere gli imprenditori collusi o che non denunciano gli estortori, tanto pubblicizzata dai media nazionali. Il punto di svolta storico è invece costituito dalla nascita di una linea di frattura tra imprenditoria che vive di mercato e imprenditoria che vive di accordi collusivi con il ceto politico e le mafie.

Dopo un sotterraneo braccio di ferro senza esclusioni di colpi, intessuto anche di gravi intimidazioni mafiose, la parte più evoluta e consapevole della classe imprenditoriale locale, sostenuta dalla presidenza nazionale di Confindustria (Cordero di Montezemolo prima e Marcegaglia poi) è riuscita a prevalere. Determinante è stato l’intervento della magistratura che, nell’autonomo adempimento del proprio ruolo, ha messo fuori gioco alcuni dei principali protagonisti del vecchio mondo imprenditoriale che sino ad allora avevano egemonizzato gli incarichi di vertice all’interno delle associazioni degli imprenditori. Va tuttavia considerato che l’intervento penale, finalizzato solo ad accertare le specifiche responsabilità penali di singoli soggetti, non sarebbe stato in grado di incidere da solo sulle dinamiche sociali globali, se non fosse entrato in sinergia con tale riassetto di potere interno a Confindustria, che nel tempo ha assunto un respiro strategico di ampia portata tramite altri passaggi fondamentali. In primo luogo la tessitura di alleanze con le forze sindacali, con altre associazioni imprenditoriali e la comune progressiva riconquista di alcune tra le principali cabine di regia economica sul territorio, epurate dagli esponenti dell’imprenditoria collusa e parassitaria (camere di commercio, aree di sviluppo industriale, consorzi fidi eccetera). ln secondo luogo si è proceduto alla costruzione di una stabile cooperazione tra ceti produttivi e Stato per il monitoraggio costante del territorio, nonché alla creazione di un diritto sociale antimafia che nasce dal basso e che si concreta nella stipulazione di protocolli di legalità tra operatori economici e prefetture. Il segno unificante di tali iniziative è il superamento della cultura della delega alla magistratura e alle forze di polizia del contrasto ai poteri criminali.

Le forze produttive si fanno carico in prima persona di scandagliare il territorio segnalando tempestivamente alle autorità qualsiasi indice di anomalia (infiltrazioni mafiose ed esistenza di circuiti corruttivi) e assumendosi la responsabilità di sospendere ed espellere gli imprenditori che a vario titolo determinano un’alterazione della concorrenza e una distorsione del mercato. Talune delle norme introdotte dai protocolli di legalità sono state recepite a livello nazionale e trasformate in norme di legge. Il nuovo corso sta risalendo lentamente la penisola aprendo nuove linee di frattura all’interno del mondo imprenditoriale in tutto il Sud e approdando nella testa di ponte della Lombardia. Si tratta di embrioni, di un percorso incerto e sempre esposto a rischio di reversibilità. Tuttavia indica una possibile via di uscita.

Muovendo da tale consapevolezza e uscendo fuori dalle sterili logiche combinatorie di palazzo, è possibile allora immaginare di costruire intorno a tale linea di frattura un nuovo patto sociale che assembli le componenti più evolute del mondo imprenditoriale, del mondo sindacale e del ceto politico creando un asse di collegamento con quella consistente parte di società civile che da anni è rimasta priva di guida e rappresentanza perché troppo a lungo tradita da oligarchie partitiche prive di progettualità e interessate solo alla propria autoperpetuazione.
Questa Italia trasversale agli schieramenti ha declinato la propria virtuale potenza politica in occasione delle votazioni per l’elezione del sindaci di Milano, di Napoli e in quelle referendarie contro la privatizzazione dell’acqua.
Alla luce dell’analisi sin qui svolta, appare dunque prioritario mettere a punto un organico Piano nazionale anticorruzione e antimafia (Pnaa), di cui per ragioni di spazio non è possibile in questo scritto tracciare le linee di intervento che dovrebbero articolarsi sui vari piani dell’ordinamento (di diritto pubblico, di diritto dell’economia, di diritto penale) secondo una strategia multilivello [3]. Possiamo in questa sede accennare solo a pochi snodi ineludibili riguardanti il piano della prevenzione e della repressione penale, valorizzando in parte anche alcune soluzioni già abbozzate in varie proposte di legge giacenti in parlamento.

LE PROPOSTE

Revisione della tipologia dei reati contro la pubblica amministrazione. Gran parte della fenomenologia criminale sopra descritta sfugge in molti casi alla possibilità di un’incriminazione penale in parte per il suo carattere inedito, in parte per l’avvenuta depenalizzazione di alcune delle più pericolose condotte illegali realizzata mediante una serie di riforme legislative che hanno azzerato o ridotto ai minimi termini il rischio penale.
Come dimostrano quotidianamente le cronache giudiziarie, oggi la corruzione molto spesso non si esaurisce infatti nella tradizionale forma bilaterale dell’accordo criminoso tra due sole parti: il pubblico ufficiale che in cambio di un uso distorto del potere pubblico richiede o riceve una indebita remunerazione e il privato che la offre o ne è richiesto. La corruzione viene realizzata mediante complesse triangolazioni. Una delle modalità tipiche è la seguente.
Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio svolge un’attività amministrativa illecita non perché riceva in cambio un corrispettivo economico, ma perché soggetto al potere di influenza di referenti di sistemi criminali (comitati di affari, network di potere) in grado di agevolare le sue aspirazioni di carriera o di ascesa politica o di futuro inserimento nel giro di affari gestito dal sistema criminale medesimo. In taluni casi il pubblico ufficiale si limita a contraccambiare favori di tal genere già ricevuti in passato. I componenti dei sistemi criminali «vendono» il risultato così ottenuto (per esempio rilascio di autorizzazioni, di nullaosta, aggiudicazioni di appalti, modifiche del piano regolatore, emanazione di regolamenti di settore eccetera) ai soggetti richiedenti che operano nel mondo economico, i quali remunerano l’esercizio dell’attività di influenza mediante la corresponsione di indebiti vantaggi economici dissimulati sotto sofisticare operazioni di copertura (partecipazione occulta pro quota agli affari, ristrutturazione gratuita o sottocosto di palazzi, messa a disposizione gratuita di immobili, finanziamento di testate giornalistiche destinate a fallire di lì a poco eccetera).
In sostanza chi esercita l’abuso delle funzioni pubbliche non riceve denaro. Chi corrisponde il denaro non ha rapporti né con il pubblico ufficiale operante né con i quadri direttivi interni del sistema criminale. Chi prende i soldi non si espone direttamente con il pubblico ufficiale né con gli utilizzatori finali del risultato dell’illecito in quanto opera dietro le quinte utilizzando propri referenti esterni (figure ibride tra il lobbista, il procacciatore di affari, il faccendiere). Questi ultimi hanno il compito di assumere su di sé il rischio penale, addossandosi tutte le responsabilità e mettendo in salvo i quadri direttivi del sistema al cui servizio operano, i quali sono in grado di compensare adeguatamente la loro omertà e il loro eventuale «sacrificio».
Dinanzi a una realtà così complessa, occorre mettere in campo una pluralità di strumenti in grado non solo di colpire tutti i soggetti che operano a vario titolo nei vari momenti dell’iter criminoso che sfocia in singoli episodi corruttivi, ma anche di disarticolare i sistemi criminali in sé.
A tal fine occorre: 1) introdurre il reato di traffico di influenze, per colpire i soggetti che mediano tra pubblici ufficiali e utilizzatori finali degli atti di abuso; 2) ripristinare il reato di abuso di ufficio anche per fini non patrimoniali (unificandolo con quello di interesse privato in atti di ufficio), per sanzionare le condotte dei pubblici ufficiali soggetti al potere di influenza ma talora estranei agli accordi corruttivi retrostanti; 3) introdurre una specifica aggravante per le associazioni per delinquere che hanno le caratteristiche e le finalità operative tipiche dei sistemi criminali, al fine di colpire anche la semplice partecipazione ai sistemi; 4) elevare in modo significativo tutte le pene dei reati di corruzione, di traffico di influenze, di abuso di ufficio e contemporaneamente introdurre una circostanza attenuante speciale con riduzione della pena sino a due terzi per i rei confessi che denunciano i propri complici, in modo da spezzare i vincoli di reciproca omertà che legano i componenti dei sistemi criminali, così rendendone possibile la disarticolazione.

La nuova fattispecie di cui al punto 1 potrebbe essere formulata nei seguenti termini:
(Traffico di influenze illecite).«Chiunque, vantando credito presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, ovvero adducendo di doverne comprare il favore o soddisfare le richieste, fa dare o promettere a sé o ad altri denaro o altra utilità, quale prezzo per la propria mediazione o quale remunerazione per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica, nei casi di cui al primo comma, a chi versa o promette denaro o altra utilità. La condanna importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Le pene previste dal primo e dal secondo comma sono aumentate se il soggetto che vanta credito presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio ovvero adduce di doverne comprare il favore o soddisfare le richieste riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.
Le pene previste dal primo e dal secondo comma sono altresì aumentate se i fatti ivi previsti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giurisdizionali».

L’aggravante di cui al punto 3 potrebbe essere così formulata:
All’articolo 416 c.p. è aggiunto il seguente comma: «Se l’associazione è diretta a commettere reati per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici, ovvero al fine condizionare l’operato delle istituzioni, della pubblica amministrazione o di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali, si applica la pena della reclusione da cinque a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a nove anni nei casi previsti dal secondo comma».

La circostanza attenuante speciale di cui al punto 4, potrebbe essere così strutturata:
(Circostanza attenuante speciale). «Per i fatti previsti dagli articoli […] nei confronti dell’imputato che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, la pena è diminuita fino a due terzi».

Quanto alla riforma di cui al punto 3, si tratta di reintrodurre, unificandoli in un’unica fattispecie, i reati di abuso di ufficio per fini non patrimoniali e il reato di interesse privato in atti di ufficio, che sono stati aboliti dalla legge 16 luglio 1997 n. 234 con il risultato di alimentare l’incontrollabile diffusione a tutti i livelli del settore pubblico della metastasi del conflitto di interessi e dell’interesse privato in atti di ufficio, già sdoganata al vertice della piramide politica e istituzionale. Si è trattato di un vero e proprio disarmo unilaterale nei confronti del vastissimo fenomeno dell’abuso di ufficio per fini di lottizzazione e di capillare feudalizzazione delle istituzioni. La depenalizazzione di tali condotte ha agito da semaforo verde e propellente per una vera e propria deregulation selvaggia a costo penale zero della gestione delle funzioni pubbliche che, talora avvalendosi dello scudo stellare di un’insondabile discrezionalità tecnico-ammnistrativa, ha dato la stura alle varie vallettopoli, parentopoli, affittopoli, all’elargizione a pioggia di miliardi di euro di consulenze a parenti, clienti e amici degli amici eccetera. Tutti comportamenti criminali che determinano una sistematica predazione delle risorse pubbliche, una distorsione del libero mercato, e che vengono derubricati come «questione morale». Una truffa delle etichette che contrabbanda la criminalità di ampi settori delle classi dirigenti per semplici cadute di stile e di etica.
Tra l’altro la depenalizzazione dell’abuso di ufficio per fini non patrimoniali ha gravemente compromesso anche la possibilità di fare venire alla luce buona parte dei reati di corruzione. Infatti l’abuso di ufficio è uno degli indici più sintomatici della corruzione, lo strumento principe della sua consumazione. La possibilità di intervenire penalmente e di indagare su tali condotte di abuso costituiva un prezioso filo di Arianna seguendo il quale era possibile scoprire i sottostanti reati di corruzione e concussione.
La reintroduzione di tali fattispecie di reato, dovrebbe essere accompagnata da un’organica e analitica disciplina legislativa che sancisca a tutti i livelli istituzionali – iniziando dal parlamento e dal governo sino a discendere ai più piccoli comuni – l’incompatibilità tra interesse privato e funzioni pubbliche, per impedire le diffusissime situazioni di conflitto di interessi allo stato ampiamente legittimate.
Per ragioni di spazio non è possibile accennare anche ad altre innovazioni normative necessarie tra le quali, ad esempio, l’unificazione in un’unica fattispecie dei reati di concussione e corruzione, nonché la previsione di utilizzare in tale settore agenti sotto copertura da infiltrare all’interno della pubblica amministrazione e dei sistemi criminali per acquisire preziosi elementi di conoscenza sulle loro ramificate reti di relazioni.

Misure a tutela della trasparenza e della regolarità del mercato. Parallelamente, vanno previste una serie di innovazioni normative al fine di contrastare fenomeni di corruttela e malaffare nel settore privato, oggi non adeguatamente tipizzati in fattispecie incriminatrici, potenziando in tal modo la regolarità e la trasparenza del mercato a tutela delle imprese che operano nella legalità, dei consumatori e dei risparmiatori. Si indica qui di seguito una possibile traccia dei principali interventi.

A) Introduzione del reato di corruzione in affari privati come previsto dalla Convenzione penale europea nei termini che seguono:
Corruzione in affari privati
1) I dipendenti, i consulenti, i collaboratori di una società che indebitamente ricevono, per sé o per terze persone, denaro o altra utilità, o ne accettano la promessa in relazione al compimento, all’omissione o al ritardo di atti rientranti nei propri incarichi e funzioni, ovvero al compimento di atti contrari ai propri doveri, sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni.
2) Se si tratta di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, sono puniti con la reclusione da due a otto anni.
3) La condanna importa l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
4) Nei casi di cui al primo comma, chi dà o promette ai dipendenti, ai consulenti, ai collaboratori di una società denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. Quando la dazione o la promessa viene effettuata per un atto già compiuto, si applica la pena della reclusione da tre mesi a due anni.
5) Nei casi di cui al secondo comma, chi dà o promette agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei do¬ cumenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione fino a quattro anni. Quando la dazione o la promessa viene effettuata per un atto già compiuto, si applica la pena della reclusione da tre mesi a due anni.

B) Modifica degli articoli 2621, 2622 e 2624 del codice civile per ripristinare il falso in bilancio come reato di pericolo e non di danno, con aumenti di pena idonei a garantire il necessario effetto deterrente e a consentire le intercettazioni e la custodia cautelare in carcere.
Modifica del reato di cui all’art. 2621 c.c. «False comunicazioni sociali»
La pena (attualmente prevista sino a un massimo di due anni) va aumentata sino a sei anni e vanno cancellate le attuali soglie di non punibilità (commi 3, 4 e 5 dell’articolo 2621) per i falsi in bilancio che «non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene» e comunque inferiori al 5 per cento «dell’utile prima delle imposte, all’1 per cento del patrimonio netto e al 10 per cento delle valutazioni estimative».
Modifica del reato di cui all’articolo 2622 c.c.
La vecchia definizione di «false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori» va riformulata in «false comunicazioni nelle società quotate in Borsa», stabilendo la procedibilità di ufficio e l’elevazione della pena sino a 8 anni con l’aggravante dell’aumento sino alla metà per i falsi in bilancio che danneggiano gravemente i risparmiatori o la società. Oggi come è noto, il reato è perseguibile solo a querela della persona offesa. In tale tipologia di reato le persone offese sono di tre categorie: 1) l’azionista di controllo che in genere è proprio il mandante del reato; 2) il piccolo azionista che può essere tacitato facilmente; 3) i creditori che di solito ignorano il reato. Dunque la perseguibilità a querela si è risolta in una occulta depenalizzazione.
Modifica del reato di cui all’articolo 2624 che disciplina le «Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione».
Il reato, che attualmente è sottodimensionato a semplice contravvenzione e punito con l’arresto fino a un anno, va trasformato in delitto con una pena della reclusione fino a 6 anni, da elevarsi fino a 8 anni se il reato è commesso a proposito di una società soggetta a revisione obbligatoria e fino a 12 anni se la società ha subito «un grave nocumento» dalla falsa relazione.
Inoltre va previsto che per la consumazione del reato sia sufficiente che il falso sia stato commesso «consapevolmente» senza che sia più necessaria anche la prova dell’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni e senza che sia necessaria la condizione attualmente prevista di aver «cagionato un danno patrimoniale».

Misure finalizzate al contrasto del fenomeno del riciclaggio. Gli uomini della mafia godono oggi di una sorta di sostanziale statuto di impunità per una parte essenziale della loro attività criminale: quella che consiste nel riciclare nel circuito legale i proventi dei loro delitti. Tale impunità deriva dalla mancanza nel nostro ordinamento di una norma che punisca l’autoriciclaggio. Gli attuali articoli 648bis e 648ter c.p. prevendono infatti che non sono punibili per i reati di riciclaggio e di impiego in attività produttiva di denaro o utilità di provenienza illecita, coloro che hanno commesso i reati da cui provengono i proventi riciclati o reinvestiti. Quindi, per intenderci, i mafiosi ai quali viene imputato il reato di cui all’articolo 416bis c.p. e tutti gli altri reati produttivi di profitto – dalle estorsioni al traffico di stupefacenti alla manipolazione degli appalti eccetera – non possono essere incriminati anche per i reati di riciclaggio. Per tali reati possono essere incriminati solo coloro che per conto dei mafiosi effettuano le operazioni di riciclaggio. Ma ciò avviene solo in teoria, perché nella maggior parte dei casi non sono punibili per riciclaggio neanche i riciclatori. Ciò in quanto la criminalità mafiosa e organizzata in genere tende ad avvalersi per il riciclaggio di persone che hanno un rapporto stabile nel tempo con l’organizzazione. Proprio in virtù della stabilità di questo rapporto e della loro compenetrazione con gli interessi dell’associazione mafiosa, coloro che si occupano del riciclaggio vengono considerati concorrenti nello stesso reato di associazione mafiosa contestato agli altri componenti dell’organizzazione che svolgono compiti diversi. Il risultato è che essendo i riciclatori ritenuti responsabili del cosiddetto reato presupposto da cui si genera il profitto illecito, non possono essere a loro volta incriminati anche per lo loro specifica condotta di riciclaggio. Poiché in taluni casi il reato presupposto da cui deriva l’illecito profitto è punito con una pena meno grave di quella prevista per il riciclaggio, accade inoltre che molti riciclatori una volta scoperti, fanno di tutto per accreditare se stessi come concorrenti, come colpevoli del reato presupposto. Facciamo il caso che venga consumata una truffa ai danni della Comunità europea per svariati milioni di euro, punita da uno a sei anni. Poniamo che quei milioni di euro vengano poi riciclati nel circuito legale. Ebbene quel che accade è che i riciclatori per evitare di essere incriminati per i ben più gravi reati di riciclaggio puniti da quattro a dodici anni, si autoaccusano di avere partecipato alla consumazione della truffa, perché in tal modo guadagnano l’impunità per il riciclaggio. Si assiste così a una strana inversione delle parti in commedia, l’imputato che si dichiara colpevole di reati che non ha commesso, e il pm che invece deve dimostrare che è innocente di quei reati. Per capire quanto questo meccanismo disegni una vasta zona di impunità, occorre considerare che non vi è mafioso che si rispetti che non abbia già subito ed espiato una condanna per mafia ed abbia già subito una misura di prevenzione. Ebbene quella condanna opera per il futuro come patente di impunità garantita per il riciclaggio, in quanto essendo egli autore di reati presupposti non può essere più incriminato per i reati di cui agli articoli 648bis e 648ter c.p. La magistratura ha tentato di ovviare a tale grave deficit mediante la creazione per via giurisprudenziale di una sorta di fattispecie criptica di autoriciclaggio dando un’interpretazione molto estensiva del reato di intestazione fittizia di beni previsto dall’articolo 12quinquies decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, originariamente previsto dal legislatore solo per alcuni limitati casi di intestazione di beni a prestanome, ma non per i casi, ormai molto più frequenti e sofisticati, di partecipazione occulta di mafiosi a imprese legali che continuano a essere gestite dai titolari reali e non sono dunque delle mere teste di paglia (cosiddette imprese a partecipazione mafiosa).
Ma il reato di intestazione fittizia presenta il gravissimo tallone di Achille di essere soggetto nella maggior parte dei casi all’estinzione per prescrizione. Infatti il reato si consuma dal momento in cui l’impresa è stata costituita, spesso molto risalente nel tempo. Cosicché quando la magistratura a distanza di anni accerta che l’impresa è a partecipazione mafiosa, il reato è già prescritto o prossimo alla prescrizione. Per ovviare a tale tallone di Achille non è possibile prolungare i termini di prescrizione contestando oltre che il reato base anche l’aggravante speciale di agevolazione mafiosa di cui all’articolo 7 decreto legge 13 maggio 1991 n. 152, perché, come ha stabilito la giurisprudenza, tale aggravante sussiste solo nei casi in cui l’imprenditore abbia voluto favorire l’intera organizzazione mafiosa o una parte consistente della stessa (ad esempio un’intera famiglia mafiosa). Non sussiste invece quando, come avviene nella maggior parte dei casi, l’imprenditore vuole favorire il riciclaggio di singoli mafiosi. I limiti che ho indicato, che non riguardano solo la criminalità mafiosa, ma anche tutta la vastissima area della criminalità del profitto – ivi compresa la corruzione – hanno trasformato i reati di riciclaggio di cui agli articoli 648bis e 648ter c.p. in cani che abbaiano ma non sono in grado di mordere. Occorre dunque prevedere una modifica legislativa degli articoli 648bis e 648ter c.p. nei seguenti termini:
Al codice penale sono apportate le seguenti modifiche:
a) all’articolo 648bis, primo comma, le parole: «Fuori dei casi di concorso nel reato», sono soppresse; b) all’articolo 648ter, primo comma, le parole: «dei casi di concorso nel reato e» sono soppresse.

Riforma della normativa in materia di prescrizione dei reati. L’introduzione di nuove figure di reato e la revisione di quelle esistenti è destinata a rimanere in larga misura priva di concreta incidenza sulla realtà, se contemporaneamente non si provvede a una riforma delle norme che attualmente disciplinano l’istituto giuridico della prescrizione. Il diritto penale italiano prevede che tutti i reati, tranne quelli puniti con la pena dell’ergastolo, si estinguono dopo il decorso di un determinato tempo massimo dal momento in cui sono stati consumati e non già da quello in cui sono stati accertati. Ora occorre considerare che i reati dei colletti bianchi, oltre a essere privi di visibilità, vengono occultati mediante sapienti stratagemmi e omertà blindate, sicché in larghissima misura si estinguono, venendo scoperti solo a distanza di anni dal momento in cui sono stati consumati. La situazione si è ulteriormente aggravata a seguito della legge 5 dicembre 2005 n. 252 (cosiddetta ex Cirielli) che ha ridotto di vari anni i termini di prescrizione per un’amplissima fascia di reati. Si consideri che, ad esempio, dopo tale riduzione dei termini di prescrizione, le condanne definitive per i reati di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio sono crollate dalle 1.000 circa all’anno registrate sino al 2004 alle appena 130 del 2006; quelle per abuso di ufficio sono scemate da 1.305 a 45.
Al di là delle intenzioni del legislatore, tale regime normativo esplica effetti criminogeni in quanto la riduzione notevole del rischio penale opera da incentivo alla consumazione dei reati. Il rischio di essere scoperti è infatti stato ridotto a una manciata di anni dal momento in cui il reato è stato commesso, decorsi i quali si è definitivamente in salvo.
Ove pure si fosse così sfortunati o poco accorti da essere scoperti prima del decorso del tempo – quando per esempio mancano solo due o tre anni al maturare dei tempi di prescrizione – l’impunità è garantita lo stesso. È infatti sufficiente mettere in campo abili strategie dilatorie per allungare artificialmente i tempi dei processi in modo da far decorrere nelle more il tempo residuo necessario per l’estinzione del reato.
Oltre che a effetti criminogeni, l’attuale regime della prescrizione ha così dato vita anche a un fenomeno di abuso di massa del processo da parte di imputati che, ad esempio, impugnano strumentalmente le sentenze e le decisioni solo per dilazionare i tempi della definizione del processo sino a conseguire l’agognato traguardo finale della prescrizione. Indicativa delle dimensioni del fenomeno è l’enorme sproporzione statistica tra le impugnazioni proposte dai pubblici ministeri e quelle degli imputati. In Sicilia, ad esempio, dal 2007 al 30 settembre 2010 su un totale di 44.562 appelli, il 93 per cento riguarda gli appelli degli imputati e solo il 7 per cento quelli dei pubblici ministeri.
Tale sproporzione si spiega in quanto le impugnazioni del pubblici ministeri sono finalizzate esclusivamente a ottenere la riforma delle sentenze ritenute errate, mentre nella statistica delle impugnazioni degli imputati condannati rientrano in larghissima misura anche le impugnazioni strumentalmente finalizzate solo a conseguire l’impunità grazie alla sopravvenuta estinzione del reato.
Tenuto conto che non appare possibile garantire entro un certo numero di anni la scoperta dei reati gravi consumati con modalità occulte, e che non è possibile comprimere i tempi processuali oltre una certa misura, per ripristinare l’effettività della risposta penale appare necessario adeguare il regime normativo della prescrizione in Italia a quello già esistente in altri paesi europei che prevedono altri regimi più congrui.
In primo luogo dovrebbe abrogarsi la legge ex Cirielli ripristinando termini di prescrizione più congrui, analoghi a quelli previsti in precedenza [4]. In secondo luogo dovrebbe prevedersi una revisione in aumento delle pene attualmente sottodimensionate previste per molti gravi reati (a parte le pene per i reati di falso in bilancio di cui si è già detto, si pensi, ad esempio, che il reato di abuso di ufficio di cui all’articolo 323 c.p. è attualmente punito con la reclusione da uno a tre anni). Occorre infatti tenere conto che il termine di prescrizione è commisurato all’entità della pena prevista. Minore è la pena più breve è il termine di prescrizione. In terzo luogo, e questa è l’innovazione determinante, va previsto che la prescrizione viene definitivamente interrotta nel momento in cui viene esercitata l’azione penale mediante la richiesta di rinvio a giudizio o la richiesta di emissione di decreto penale di condanna.
In tal modo non solo si eleverebbe significativamente il rischio penale di essere scoperti e condannati disincentivando la consumazione di reati, ma si otterrebbe anche l’importantissimo effetto di deflazionare il carico dei processi penali pendenti, in quanto, non potendo più contare sul decorso della prescrizione, moltissimi imputati sarebbero indotti a definire il processo mediante patteggiamenti e riti alternativi.

Modifiche all’articolo 416ter del codice penale (Scambio elettorale politico-mafioso). Dopo la strage di Capaci si svolsero delle riunioni dell’Associazione nazionale dei magistrati ad Agrigento e a Palermo. Il clima era molto acceso, in molti minacciavano di dare le dimissioni, indicando come scandaloso il perdurare del nodo irrisolto dei rapporti mafia-politica. In tali sedi venne richiesto che si introducesse un nuovo reato finalizzato a sanzionare lo scambio elettorale politico-mafioso. Nella sua originaria formulazione il reato prevedeva la punibilità di chi otteneva la promessa di voti in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa di cui all’articolo 416bis o di suoi associati. Tale ampia formulazione nasceva dalla lezione dell’esperienza alla luce della quale emergeva che la mafia fornisce il suo sostegno elettorale al fine di avere a disposizione i politici, i quali, una volta eletti, sono tenuti a fornire ogni genere di favore e sostegno ai componenti dell’organizzazione. Nel corso della discussione finale in parlamento venne invece inopinatamente previsto che il reato è configurabile solo nei casi in cui la promessa dei voti è ottenuta in cambio dell’erogazione di denaro da parte delle associazioni mafiose. In tal modo venne operata una lobotomizzazione del reato che è stato ridotto a una sorta di zombie di rarissima applicazione, atteso che le mafie, tranne qualche conventicola di dilettanti, tesaurizzano in un’ottica di lungo periodo il sostegno elettorale fornito e non lo svendono certo per qualche migliaio di euro.
Per ripristinare l’effettività di questo reato destinato a presidiare un fronte cruciale del contrasto alle mafie, è necessario provvedere alla sua riformulazione nei seguenti termini:
L’articolo 416ter del codice penale è sostituito dal seguente:
Art. 416ter (Scambio elettorale politico mafioso).
«La pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416bis si applica anche a chi ottiene o si adopera per far ottenere la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità, ovvero in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze della associazione mafiosa di cui all’articolo 416bis o di suoi associati».

Tracciabilità informatica della spesa pubblica. La trasparenza della gestione della spesa pubblica costituisce uno dei più importanti anticorpi per prevenirne la sistematica predazione sotto una coltre di opacità realizzata con mille stratagemmi. Non è un caso che il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella sia stato assassinato il 6 gennaio 1980 proprio a causa del suo straordinario impegno sul fronte della programmazione e trasparenza della spesa pubblica che rischiava di compromettere i compositi interessi del sistema criminale, di cui la borghesia mafiosa era, allora come oggi, l’asse portante. A tutt’oggi, ad esempio, non è dato sapere che fine hanno fatto e faranno le migliaia di miliardi che l’Unione europea ha destinato alla Sicilia con i fondi strutturali del 2007-2013.
Una delle misure idonee a porre rimedio a tale deleteria situazione potrebbe consistere nello stabilire per tutta la pubblica amministrazione e le società a partecipazione pubblica, l’obbligo di legge di assicurare la pubblica tracciabilità informatica sul web di tutti i flussi gestionali della spesa pubblica dal momento del loro stanziamento iniziale a quelli dei passaggi intermedi sino all’erogazione finale. Ciò potrebbe essere realizzato anche mediante un sistema che consenta di identificare nominativamente nei vari passaggi i responsabili della gestione e i destinatari finali della spesa pubblica. Si attiverebbe così un sistema di vigilanza democratica affidato anche alla cittadinanza e alle camere di commercio.

Costituzione presso tutti i principali enti di spesa pubblica di unità permanenti anticorruzione. Contemporaneamente andrebbe prevista la costituzione presso tutti i principali enti di spesa pubblica di unità interne e permanenti anticorruzione con compiti di monitoraggio e di ispezione, costituite da personale specializzato indipendente formato e designato anche dalle principali forze produttive sul territorio che hanno preventivamente aderito al patto di legalità (camere di commercio, che tra l’altro sono enti pubblici, Confindustria, altre associazioni datoriali, sindacati). Tale unità dovrebbero essere destinatarie di tutte le segnalazioni provenienti da cittadini e da operatori economici circa l’esistenza di indici di anomalia nella gestione delle pratiche e nella gestione dei flussi di spesa nei vari uffici pubblici, sintomatici dell’esistenza di centri di intermediazione parassitaria.
Le unità speciali dovrebbero essere dotate di penetranti poteri ispettivi e di accesso idonei a verificare se le anomalie siano dovute solo a negligenze, a mere disfunzioni, oppure a condotte illegali.
Inoltre grazie ai loro collegamenti con le banche dati delle camere di commercio e la Banca dati – anagrafe unica dei contratti pubblici di cui si dirà nel punto seguente – le unità anticorruzione sarebbero in grado di svolgere un costante monitoraggio dei vari segmenti del mercato al fine di riscontrare la costituzione di anomale posizioni di oligopolio e di mercati «regolati» dai sistemi criminali.
Si tratta di un modo di declinare concretamente il superamento della cultura della delega e la costituzione di una nuova alleanza strategica tra privato e pubblico attivando una corresponsabilizzazione attiva della cittadinanza e dei ceti produttivi nel contrasto ai poteri criminali e alla gestione illegale delle risorse pubbliche.
Tale corresponsabilizzazione, come già accennato in precedenza, ha già avuto positiva e pratica applicazione nelle prassi attivate dal nuovo corso di Confindustria di Caltanissetta prima e della Sicilia poi.
Inoltre il principio della corresponsabilizzazione nel contrasto ai fenomeni criminali trova supporto nell’articolo 36 della Convenzione Onu contro la corruzione 5 ed è stata già attuata in vari settori dall’ordinamento giuridico italiano che prevede, ad esempio, l’obbligo di tutti gli intermediari finanziari (operatori bancari e professionisti operanti nel settore) di segnalare le operazioni sospette di riciclaggio alla Uif (Unità di informazione finanziaria presso la Banca d’Italia).
Le unità anticorruzione locali potrebbero costituire i punti di una rete nazionale facente capo a un’autorità nazionale anticorruzione la cui costituzione è imposta dall’articolo 6 della Convenzione Onu.
A tale Alto commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione e nel settore privato deve essere garantito uno statuto di assoluta indipendenza e autonomia sia in fase di nomina che durante lo svolgimento delle sue funzioni, in modo da sottrarlo al pericolo di condizionamento da parte di centri di potere politico ed economico.

Istituzione di una Banca dati-anagrafe unica dei contratti pubblici. La creazione di una Banca dati e anagrafe unica dei contratti, valida per qualunque tipo di contratto e di stazione appaltante sarebbe in grado di fornire in tempo reale le informazioni sui soggetti attuatori, sui contratti, sulle imprese partecipanti alle gare, sulle imprese esecutrici, sulle imprese subappaltatrici e sui noli. Si risponderebbe così all’esigenza di garantire la massima trasparenza del mercato degli appalti, consentendo di intervenire tempestivamente per contrastare l’operare dei sistemi criminali.
Il progetto è di aggregare la mole di dati informativi oggi frammentati presso i ministeri, le regioni, le stazioni appaltanti, le imprese e l’autorità di vigilanza, in un unico sistema di «dati gestionali» validati grazie alla possibilità di poterli incrociare fra loro. Si potrebbe inoltre prevedere una interoperatività – fruibile solo da determinati soggetti abilitati dalla legge per le loro funzioni – tra tale Banca dati-anagrafe unica dei contratti pubblici e le banche dati delle camere di commercio, dell’unità di informazione finanziaria presso la Banca d’Italia, delle forze di polizia nonché la Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia contenente atti giudiziari già desegretati e dati provenienti dall’estero.
La realizzazione di una siffatta Banca dati globale consentirebbe di porre in essere strategie concertate di vigilanza e di intervento da parte delle pubbliche autorità tra le quali non solo la magistratura e le forze di polizia, ma anche il ministero dell’Interno, le prefetture, il ministero delle Finanze, l’unità di informazione finanziaria presso la Banca d’Italia, l’Alto commissariato nazionale anticorruzione e le unità anticorruzione locali di cui si è detto.

Previsione di nuove fattispecie di risoluzione di contratti di appalto e di esclusione da gare di appalto pubbliche. Attualmente la legge vieta alle imprese che hanno subito un’estorsione senza denunciarla di partecipare ai pubblici appalti per un periodo di tre anni. Tale sanzione va estesa anche alle imprese che non hanno denunciato di avere ricevuto richieste di tangenti o di altre utilità da parte di pubblici funzionari, incaricati di pubblico servizio o trafficanti di influenza.
Inoltre occorre prevedere l’inserimento nel codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163, di un nuovo articolo che sancisca la risoluzione del contratto di appalto a seguito di accertamento di responsabilità in materia di corruzione ed altri gravi reati.
Nel caso di risoluzione, l’appaltatore ha diritto soltanto al pagamento dei lavori regolarmente eseguiti, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto.

Misure per prevenire la candidatura di persone condannate anche con sentenza non definitiva per gravi reati. L’esperienza ha ampiamente dimostrato che i partiti politici contravvengono sistematicamente ai codici di autoregolamentazione con i quali si impegnano a escludere dalle candidature per le elezioni nazionali e locali soggetti implicati in procedimenti per reati di mafia ed altri gravi reati. Basti considerare che in occasioni delle ultime elezioni nazionali sono stati candidati e portati in parlamento anche personaggi condannati in secondo grado per reati di mafia.
Tenuto conto dell’irredimibile incapacità di autoregolazione dei partiti, occorre disciplinare la materia con norme di legge cogenti. Non è sufficiente implementare le previsioni di legge già esistenti che prevedono la non candidabilità di persone condannate con sentenza definitiva per alcuni gravi reati.
Sono frequenti infatti i casi in cui a causa della prescrizione non è possibile pervenire a una sentenza definitiva nonostante l’accertamento dichiarato in sentenza della consumazione di gravi reati. Tanto che oggi la categoria dei prescritti colpevoli è divenuta superiore a quella degli condannati e degli assolti. Inoltre occorre prendere atto che le maggioranze politiche hanno continuato a mantenere in incarichi di governo persino soggetti di cui la magistratura aveva chiesto l’autorizzazione all’arresto per concorso esterno in associazione camorristica.
Appare dunque indispensabile e urgente costruire delle soluzioni normative che bilancino il principio di presunzione di innocenza sino alla sentenza definitiva con l’esigenza di impedire l’infiltrazione mafiosa nel tessuto istituzionale. A tal fine è possibile prevedere la sospensione dell’elettorato passivo delle persone la cui condanna per reati di mafia, di corruzione e altri gravi reati sia stata confermata in secondo grado con un duplice vaglio giurisdizionale.
Inoltre potrebbe prevedersi che i partiti politici che violano i codici di autoregolamentazione – da prescriversi come obbligatori per legge – candidando persone già rinviate a giudizio per reati di mafia e di corruzione, devono restituire una significativa quota del finanziamento pubblico erogato dallo Stato, qualora la persona sia stata poi condannata o comunque la consumazione del reato sia stata accertata con sentenza, anche se il reato è prescritto, qualora l’imputato non abbia rinunciato alla prescrizione.
Nel caso di condanna definitiva sopravvenuta all’elezione, dovrebbe comunque prevedersi la decadenza automatica degli eletti.

Divieto di conferire incarichi di collaborazione con la pubblica amministrazione a persone condannate con sentenza anche non definitiva per gravi reati. Sia al fine di elevare il rischio penale disincentivando le condotte illegali nel vasto mondo delle libere professioni, sia al fine di creare un’ulteriore cintura di sicurezza intorno al settore pubblico, può essere imposto per legge il divieto alle pubbliche amministrazioni, ivi compresi gli enti pubblici economici, e alle società a partecipazione pubblica, di conferire incarichi di collaborazione o consulenza o assimilati, anche se a tempo parziale o a titolo non oneroso, a coloro che sono stati condannati per reati contro la pubblica amministrazione, di mafia e per altri gravi reati (anche con sentenza non definitiva purché almeno confermata in secondo grado).

NOTE

[1] L’inestricabile intreccio macropolitico tra criminalità dei potenti e storia nazionale è stata colta sin dagli albori dello Stato unitario. Nel 1883 Filippo Turati pubblicava il saggio Lo Stato delinquente nel quale diagnosticava il carattere sistemico della corruzione delle classi dirigenti e le sue perniciose ricadute sulla questione sociale. Nel 1876 Leopoldo Franchetti, nella sua inchiesta sulle condizioni politiche e amministrative della Sicilia, capolavoro insuperato e sempre attuale sulla mafia, individuava nella borghesia mafiosa, asse portante degli equilibri politici nazionali, il cuore e la mente del sistema di potere mafioso, diagnosticandone per tale motivo la sostanziale irredimibilità con gli ordinari strumenti di repressione giudiziaria. La categoria gramsciana del «sovversivismo delle classi dominanti» individuava infine la terza tragica declinazione della criminalità del potere italiano, cioè il ciclico ricorso alla violenza stragista e all’omicidio politico come strumento «ordinario» di lotta politica. Strumento utilizzato palesemente durante il fascismo, e giocato occultamente con chirurgica sapienza durante la Prima Repubblica sino alle soglie della Repubblica la cui storia è stata inaugurata dallo stragismo politico mafioso del 1992-1993. Per un’analisi dei nessi tra storia della criminalità del potere e storia nazionale mi permetto di rinviare a S. Lodato, R. Scarpinato, Il ritorno del Principe, Chiarelettere, 2008.

[2] Si considerino, ad esempio, le privatizzazioni all’italiana di servizi pubblici, come lo smaltimento dei rifiuti, trasferiti a società private spesso riconducibili alle nomenklature al potere, con lievitazione dei costi a carico dei cittadini e dissesti ripianati dall’erario. O, ancora, il dirottamento di quote significative della spesa sanitaria verso cliniche private di cui sono soci personaggi occultamente legati al ceto politico-amministrativo, mentre gli ospedali pubblici vengono lasciati in condizioni di fatiscenza e i posti letto vengono continuamente ridotti.

[3] A questo riguardo va ricordato che l’adozione del Piano nazionale anticorruzione (Pna) costituisce l’adempimento di un preciso obbligo imposto all’Italia dalla sua appartenenza al Gruppo di Stati contro la corruzione (Greco), meccanismo anticorruzione costituito in seno al Consiglio d’Europa. Infatti, all’esito della procedura di valutazione negativa del nostro paese (conclusasi con il rapporto di valutazione del 2 luglio 2009), il Greco ha raccomandato, tra l’altro, che l’Italia adottasse efficaci politiche di prevenzione della corruzione e, tra queste, quella di un Piano nazionale anticorruzione. È prevista una procedura di follow-up diretta a verificare lo stato di attuazione delle raccomandazioni. La mancata attuazione del Pna potrà determinare l’apertura di una procedura di infrazione contro il nostro paese che allo stato è inadempiente. Quanto al Piano nazionale antimafia, il parlamento con legge 13 agosto 2010 n. 136 ha delegato il governo a emanare un decreto legislativo di riordino delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Tale legge è stata denominata «Piano straordinario contro le mafie» e ampiamente pubblicizzata sui media come una sorta di arma risolutiva per sconfiggere definitivamente le mafie nel terzo millennio. In realtà, come è stato messo in luce dagli specialisti della materia, si tratta in buona misura di una «truffa delle etichette». La legge infatti, pur prevedendo alcuni aspetti innovativi in ordine ai controlli nell’aggiudicazione degli appalti pubblici, si limita a prevedere un mero riordino della normativa penale e di prevenzione (con l’unica eccezione dell’introduzione del reato di turbata libertà di procedimento di scelta del contraente), senza farsi carico di colmare le numerose e gravi lacune esistenti e da tempo messe in luce dagli operatori.

[4] Si potrebbero prevedere i seguenti termini: vent’anni dalla consumazione del reato, nel caso di reati puniti con pena detentiva non inferiore a quindici anni; quindici anni dalla consumazione del reato, nel caso di reati puniti con pena detentiva non inferiore a dieci anni; dieci anni dalla consumazione del reato, nel caso di reati puniti con pena detentiva non inferiore a cinque anni; sette anni dalla consumazione del reato, nel caso di reati puniti con pena detentiva inferiore a cinque anni; cinque anni dalla consumazione del reato, nel caso di reati puniti con pena interdittiva, prescrittiva o pecuniaria. I termini vanno aumentati di un terzo quando si procede in ordine ai delitti contro la pubblica amministrazione. Nel caso di reato continuato, il termine della prescrizione dovrebbe decorrere dal momento in cui è cessata la continuazione, così come era previsto prima dell’entrata in vigore della legge ex Cirielli.

5 Articolo 36. Autorità specializzate. Ciascuno Stato parte assicura l’esistenza, conformemente ai princìpi fondamentali del proprio sistema giuridico, di uno o più organi o persone specializzate nella lotta alla corruzione mediante attività di individuazione e repressione. Tale o tali organismi o persone si vedono garantire l’indipendenza necessaria, conformemente ai princìpi fondamentali del sistema giuridico dello Stato parte, per potere esercitare le proprie funzioni efficacemente e al riparo da ogni indebita influenza. Tali persone o il personale di detto o di detti organi dovrebbero avere la formazione e le risorse necessarie per esercitare le loro mansioni.

(3 gennaio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/un-programma-contro-i-poteri-criminali/