LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTRICI e OPINIONISTE. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 18, 2012, 12:04:42 pm



Titolo: Adriana CERRETELLI
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2012, 12:04:42 pm
Il peso delle mancate risposte di Angela

di Adriana Cerretelli

18 gennaio 2012

Roma chiama. Fin de non recevoir, risponde, secca, Berlino. Altro che Merkmonti al posto di Merkozy.
Nella Germania di Angela Merkel oggi non ce n'è per nessuno: il rigore a senso unico è un dovere assoluto per tutti, la solidarietà invece non è e non sarà, a quanto pare, un diritto acquisito.

Anzi, la parola sembra sparita dal vocabolario tedesco, edizione 2011-12.

«L'Italia è un'economia forte, gli italiani sono in grado di aiutarsi da soli» ha scandito ieri il capo dei consiglieri economici della Merkel. Respingendo al mittente l'invito di Mario Monti a un ragionevole do ut des: in cambio del forte impegno italiano alla disciplina di bilancio, un gesto di incoraggiamento tedesco.

In concreto, un alleggerimento degli alti tassi di interesse che continuano a taglieggiare il servizio del nostro debito pubblico. Silenzio sul ruolo della Bce, anche se resta il convitato di pietra nella partita. Nein, nein, nein. Angela Merkel però gioca con il fuoco. Per non smentire in Germania il suo ruolo di castigamatti dei Paesi mediterranei indisciplinati, in breve per non rischiare di bruciarsi la carta che le ha permesso di risalire la china della popolarità, oggi oltre il 60%, il cancelliere non esita a mettere a rischio la tenuta dell'euro.

Sempre che non sia proprio questo il suo vero gioco: provocare una selezione darwiniana tra i suoi membri, liberandosi dei più deboli ma addossando proprio a loro la responsabilità dell'eventuale spaccatura (o collasso) della moneta unica.
Il sospetto diventa legittimo di fronte alla pretesa tedesca di ottenere dai partner la firma di una vera e propria cambiale in bianco con il nuovo patto fiscale: rinuncia alle sovranità nazionali sulle politiche di bilancio senza la garanzia di ammortizzatori o compensazioni di sorta, né in termini di solidarietà finanziaria né di stimoli alla crescita europea. Il tutto blindato in una nuova riforma dei Trattati europei.

Non è certo un sovversivo il premier italiano quando denuncia il rischio di «una crisi di rigetto» tra i cittadini europei, tra i quali già si contano 23 milioni di disoccupati. La Merkel dovrebbe sapere che i governi cambiano a Roma ma il ribellismo in Europa non fa parte del Dna dell'Italia. Che magari mugugna ma si adegua sempre alla disciplina, anche a prezzo di enormi sacrifici. E persino alla rinuncia della propria autonomia di bilancio, nell'atavica convinzione che il vincolo esterno sia una frusta provvidenziale per convincerci a vincere la riluttanza nazionale al cambiamento, alla perdita di rendite di posizione dure a morire.

Anche gli altri Paesi mediterranei si stanno tutti lentamente rimettendo in riga, Grecia compresa, se è vero che proprio ieri in una discussione a porte chiuse al Bundestag la Merkel stessa avrebbe riconosciuto che la crisi dell'euro andrebbe stabilizzandosi.
La Francia no. Da sempre nei momenti topici non ha esitato a rovesciare il tavolo europeo. È successo a metà degli anni 50 con il progetto di difesa comune europea, mai più resuscitato e nel 2005 con la bocciatura della Costituzione europea. Potrebbe succedere per la terza volta con il patto fiscale, magari in sede di ratifica. Già la perdita della tripla A è uno shock difficile da digerire per i francesi, perché sancisce la fine di ogni residua finzione di parità con la Germania. In breve la definitiva archiviazione del contratto franco-tedesco che aveva dato origine all'Europa comunitaria.

Un'umiliazione forse insostenibile per il Paese dalla grandeur ormai inesistente, quello che del progetto europeo amava ripetere, senza temere il ridicolo, «l'Europe c'est la France». Davvero questo Paese, a suo tempo fiero di avere strappato con la moneta unica alla Germania il condominio sul vecchio marco, ma oggi frustrato come non mai sarà ora disposto a consegnare a Berlino la sovranità sulle leve del bilancio francese? Si vedrà.
Certo le rigidità della Merkel, a meno che non vengano in qualche modo attutite, non aiuteranno l'intesa con Parigi: con Nicolas Sarkozy o, peggio, con il suo successore se sarà il socialista François Hollande che ha già bocciato il patto fiscale. Per questo è lungimirante l'appello di Monti a Berlino a non tirare troppo la corda del rigore e quindi dell'euro. Certo il premier chiede ossigeno per l'Italia ma pensa anche all'Europa. E alla Francia che diventa sempre pericolosa quando, come oggi, si ritrova con le spalle al muro, derubata della sua maestà europea.

Il Sole 24 ORE - Notizie (18 di 40 articoli)

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Titolo: Adriana Cerretelli. - Il «monocolo» tedesco
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 12:08:46 am
Il «monocolo» tedesco

di Adriana Cerretelli

09 febbraio 2012

Salvo sorprese in extremis, la Grecia eviterà il baratro, e l'eurozona un salto nel buio dalle conseguenze ignote.
La convocazione questo pomeriggio a Bruxelles dei ministri dell'Eurogruppo sembra indicare che, dopo giorni e giorni di negoziati perennemente sull'orlo della rottura, un accordo globale è finalmente a portata di mano.

Che il secondo salvataggio di Atene si farà: con un nuovo pacchetto di aiuti da oltre 130 miliardi, con la cancellazione di 100 miliardi di debiti detenuti dai creditori privati. E la probabile partecipazione anche della Bce all'intera operazione.
In cambio il Governo Papademos accetta una nuova stretta da 3,3 miliardi nel 2012 tra tagli e riforme, compresi 15mila nuovi licenziamenti quest'anno nel settore pubblico, una riduzione del 20% dei salari minimi nel settore privato, salassi per sussidi ai pensionati, spesa sanitaria, investimenti pubblici.
Evitato il default ellenico, perlomeno ufficialmente, e scongiurato per l'euro l'atterraggio in terra incognita con l'amputazione di un suo Paese membro, arriverà finalmente per tutti il momento di tirare un sospiro di sollievo e intravedere la fine di una crisi apparentemente infinita? La cautela è d'obbligo. Per almeno due ragioni.

La risposta a irresponsabilità, trucchi e intemperanze del malgoverno greco è stata e resta monocorde: rigore, rigore e ancora rigore con l'accetta, accompagnato da riforme strutturali imposte brutalmente tutte e subito. Questo furore ideologico punitivo potrebbe prima o poi provocare una violenta reazione di rigetto. A livello sociale e politico (le elezioni di aprile sono alle porte). Con possibili effetti a macchia d'olio in altri Paesi dell'euro, a loro volta sottoposti a duri programmi di austerità. L'ascesa di partiti populisti ed estremisti, a destra come a sinistra, non è un rischio da sottovalutare in un'Europa in recessione, già assediata da 23 milioni di disoccupati.

La ricetta a senso unico, che somministra sacrifici pesantissimi ma disarticolati dalle prospettive di sviluppo, cioè dalla speranza di un riscatto in tempi ragionevolmente brevi, potrebbe finire per provocare un devastante corto circuito in un'eurozona vittima della politica del "monocolo" tedesco. In ultima analisi dell'insostenibilità della cura. Perché da sola l'austerità non solo deprime la crescita ma provoca meccanicamente l'aumento di deficit e debito pubblico, cioè aggrava i mali che dovrebbe combattere. Dando vita a una perniciosa spirale perversa senza fine. Dopo il patto di stabilità, è arrivato il "fiscal compact" che stringe ulteriormente la disciplina sui conti pubblici senza troppo guardare altrove.

Eppure l'esperienza delle crisi in Irlanda e Spagna, due Paesi che in fatto di deficit e debito pubblici ostentavano parametri più che eccellenti, avrebbero dovuto insegnare che questa strada a senso unico è un percorso minato. Ora con le cure da cavallo di rigore, senza gli ammortizzatori della crescita economica e degli stimoli a favorirla, si rischia di compiere lo stesso errore.
C'è però un'altra ragione per cui l'accordo con Atene potrebbe non concludere il calvario né della Grecia né dell'euro. Oltre un biennio di emergenza, di malanimo e crescenti diffidenze reciproche hanno disarticolato l'Europa come mai prima. Ormai si cavalcano alla leggera le formule di cooperazione "spezzatino": chi c'è c'è e per gli altri si vedrà.

Se fosse stato mantenuto il quadro d'azione comunitario, gli strappi di gruppo si potrebbero chiamare avanguardie di un'Europa nuova, più dinamica ed efficiente. Visto che ormai si naviga a vista su rotte sempre più intergovernative, le fughe in avanti di alcuni diventano i passi indietro di tutti, spinti a ritroso sul sentiero delle conquiste collettive che si appannano. In questa Europa che si sfilaccia e non si ama più, comunque finisca la vicenda greca l'euro pare condannato a una vita instabile e grama. Con i mercati eternamente sul collo alla ricerca di tutti gli spazi che si offrano alla loro fame speculativa.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-09/monocolo-tedesco-064634.shtml?uuid=Aaz746oE


Titolo: Adriana CERRETELLI. Il timoniere bendato
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2012, 12:19:34 am
Il timoniere bendato

di Adriana Cerretelli

12 aprile 2012

Si fa presto a dire Spagna (come ieri si diceva Grecia) per spiegare la nuova tempesta di Pasqua che sta scuotendo Borse e mercati. Si fa presto anche ad accusare l'inesauribile, ottusa perfidia della speculazione che «non riconosce il giusto valore agli enormi sforzi di riforma spagnoli» come ha tenuto a sottolineare ieri il portavoce del ministero tedesco delle Finanze.

Troppo facile. Troppo comodo scaricare a turno sulle spalle di un solo Paese responsabilità e colpe che invece sono di molti. Anzi, di tutti i 17 dell'euro perché, volenti o nolenti e finché dura, una moneta comune comporta per il bene comune un bagaglio di diritti e di doveri collettivi. Che invece continuano clamorosamente a latitare.

Prova ne sia che la crisi scoppiata nel 2010 intorno all'epicentro ellenico, invece di indurre il club a serrare i ranghi, non ha fatto che dividerlo, approfondendo il divario tra soci del centro e della periferia, tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri, spaccando di fatto un'area monetaria che, per restare il credibile retroterra di una moneta unica, dovrebbe integrarsi di più e non continuare a sfilacciarsi senza posa.

È la non-Europa il vero bersaglio dei mercati. Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia e anche Francia sono di volta in volta obiettivi-test per verificarne la coesione che non c'è o, quando fa finta di materializzarsi, lo fa regolarmente sull'orlo del baratro, in ritardo e con il contagocce. In breve con azioni insufficienti per essere davvero convincenti. In questo modo, invece di disarmarli, si invitano a nozze gli speculatori di tutto il mondo.

Il gioco all'auto-massacro dura ormai da due anni e nulla per ora indica che terminerà a breve. Anche se la partita si fa sempre più pericolosa. Per tutti. Dando in pasto ai mercati rigore e riforme da cavallo nei Paesi più indebitati e vulnerabili, Angela Merkel era convinta di riuscire a prendere due piccioni con una fava: raddrizzando partner indisciplinati e potenzialmente troppo onerosi e restituendo così una vita tranquilla all'euro. Sbagliato. Perché per essere sostenibile la cura ha bisogno di crescita economica ma rigore e riforme la producono solo nel medio-lungo termine. A breve creano o aggravano recessione e tensioni sociali, come dimostra la cronaca quotidiana dell'eurozona.

I mercati l'hanno capito tanto bene che, nel giorno in cui il Governo di Mariano Rajoy ha annunciato nuovi tagli per 10 miliardi a istruzione e sanità (oltre ai 27 già varati) per ridurre il deficit spagnolo al 5,3% nel 2012, invece di premiarlo sono tornati a bastonarlo sugli spread.

Come stanno facendo con l'Italia di Mario Monti. Nella convinzione che austerità e riforme senza crescita finiscono per elidersi a vicenda. In una spirale perversa che non recupera stabilità ma, mandando lo sviluppo in picchiata, condanna il riequilibrio dei conti pubblici come la modernizzazione e la convergenza del sistema-euro alle fatiche di Sisifo.

Con la recessione in casa che si appesantisce, ormai il messaggio rigorista lascia dunque sui mercati il tempo che trova. In assenza di una autentica strategia e volontà politica europea, la Bce da sola più di tanto non può fare. La sua maxi-iniezione di liquidità alle banche ha guadagnato una tregua, non la pace. Non è servita a tonificare l'economia ma ha dato margini alle banche, tra l'altro italiane e spagnole, per acquistare titoli di Stato calmierando i tassi. A quelle stesse banche ora in sofferenza perché hanno in carico troppi bond sovrani, "intossicati" dalle prospettive di crescita negativa.

Comunque la si guardi, la svogliata politica di pseudo-salvataggio dell'euro sta arrivando a un punto morto. In un clima di distrazione quando non di fastidio diffuso.

La Francia di Nicolas Sarkozy, ligia al credo tedesco, è concentrata sulle imminenti presidenziali: vuole vincere contro il socialista François Hollande che rifiuta il rigore senza crescita. L'accoppiate Monti-Cameron che, all'ultimo vertice europeo sventolando la lettera dei 12, aveva fatto della crescita europea il suo cavallo di battaglia sembra essersi persa per strada in piena afasia. La Germania della Merkel spera cinicamente di riuscire a tirare a campare fino alle elezioni del settembre 2013 senza dover battere cassa al Bundestag per nuovi aiuti ai partner in difficoltà. Spera sempre di riuscirci costringendoli in una camicia di forza che li metta in grado di non nuocere e magari le permetta anche di sfruttare le loro vulnerabilità.

La sua però è una scommessa molto rischiosa. Perché i mercati, che ieri hanno lasciato parzialmente invenduta un'emissione di bund decennali a tassi storicamente bassi, stanno dimostrando di non avere più la sua stessa fiducia sui benefici dell'austerità a senso unico. E di considerare che i 17 dell'euro sono tutti sulla stessa barca. Peccato che il timoniere tedesco continui a non volerlo ammettere e, così facendo, rischi di condannare all'inutilità gli enormi sacrifici che impone ai membri più deboli dell'equipaggio.

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Titolo: Adriana Cerretelli. - Basta Europa dei prepotenti ...
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2012, 11:57:13 pm
Eurozona

È il momento di crescere

10 maggio 2012

Il Sole-24 Ore Milano


Le elezioni del 6 maggio hanno evidenziato la rottura tra la politica e i cittadini europei. Ora bisogna abbandonare il verticismo e la fissazione dell’austerity e far ripartire le economie attraverso solidarietà e integrazione.


Adriana Cerretelli

Basta Europa dei prepotenti, dei padroni che riconoscono solo la legge del più forte. Basta con l'Unione degenerata in una piramide feudale, in cima un grande Stato, l'unico davvero sovrano, e sotto la pletora di vassalli, valvassini e valvassori agli ordini. Basta con l'Europa inconcludente dei proclami: scandalosa quando la crisi economica morde, l'austerità fa il resto e il lavoro si trova sempre meno.

Mai prima d'ora, prima della super-domenica elettorale appena archiviata, si era toccato con mano e con tanta brutalità lo sciagurato divorzio tra l'Europa, le sue classi dirigenti e i suoi cittadini. Una rottura maturata sotto le coltri di un progetto comune che non solo ha perso velocità ma ha finito per rinnegare spirito e politica delle origini ostinandosi a ignorare la realtà: scontento e frustrazioni sempre più diffuse, i problemi della gente. Da qui la perdita di consenso popolare. Non è ancora un plebiscito negativo ma quasi. A questo punto o l'Europa riparte e torna a essere Europa oppure prima o poi muore. Per ricucire con i suoi popoli ha urgente bisogno di due cose: crescita economica e politica.

Per cominciare, recupero della dinamica democratica a tutti i livelli, inter-istituzionali compresi, ripudio di ogni deriva "direttoriale", riscoperta della comunità di diritto e relativa eguaglianza degli Stati di fronte alla legge oltre che del principio dell'unità nella diversità (non nell'uniformità). Solo per questa strada si può sperare di guarire la crisi di fiducia, di superare il mare di diffidenze reciproche che oggi avvelenano la convivenza europea.

Senza però una crescita economica tangibile, e non declamatoria, senza nuovi posti di lavoro, ponti e autostrade trans-europee, reti digitali ed energetiche, in breve senza l'Europa delle opportunità e della speranza al posto di quella del rigore e della disperazione, dalla palude non si esce.

Sarebbe sbagliato illudersi che da sola la Francia socialista di François Hollande, che ha vinto puntando tutto sul rilancio dell'economia europea, possa superare le resistenze tedesche. Evitando così che altrove in Europa si ripeta l'incubo della Grecia, dove l'eccesso di rigore ha fatto saltare domenica anche i parametri della democrazia con l'abnorme ascesa degli estremismi di ogni colore. Per riuscirci Parigi ha bisogno di formare una sorta di santa alleanza che faccia da solido contrappeso allo strapotere della Germania, che finora ha dilagato anche perché non ha trovato argini credibili.

Premesso che i binari della crescita nel rigore sono stretti ma obbligati per aprire un serio dialogo con Angela Merkel, premesso che Hollande pare accettare con convinzione il binomio, l'intesa con l'Italia di Mario Monti e con la Commissione Barroso, con la Spagna di Mariano Rajoi, Portogallo, Grecia, Belgio e anche Olanda sembra solo questione di tempo. Il vertice straordinario Ue del 23 maggio potrebbe essere il momento per testare nuove alchimie di potere insieme a ricette concrete per far ripartire l'economia.

Impresa non facile. Di idee sul tappeto ce ne sono molte: dai project bond per finanziare grandi infrastrutture all'aumento del capitale Bei, dal riorientamento dei fondi strutturali Ue non spesi alla tassa sulle transazioni finanziarie in parte per aumentare il bilancio Ue. Fino agli eurobond in un futuro non ravvicinato. E ancora: l'introduzione della golden rule per scorporare gli investimenti in sviluppo durevole dal calcolo dei deficit, l'interpretazione più flessibile del fiscal compact per allungare i tempi del risanamento dei conti pubblici rendendolo socialmente ed economicamente più accettabile.

Sono però tutte idee che in un modo o nell'altro chiamano in causa solidarietà e coesione, cioè lo spirito europeo che nell'ultimo biennio di crisi è mancato. O che, a danni ormai fatti, è stato tolto in extremis con il forcipe dei mercati dalla pancia di miopie e egoismi nazionali imperanti.

La crescita economica è indispensabile ma, per essere davvero europea e sostenibile, in prospettiva postula altro. Più integrazione a tutti i livelli. L'aggiornamento dello statuto della Bce, dei suoi obiettivi e margini di manovra dopo 10 anni di euro e l'avvenuta globalizzazione di economie e mercati. Un modello di società e sviluppo al passo con tempi. L'Unione politica. Senza, difficilmente l'euro potrà vivere a lungo.

La sfida è ciclopica. Passa per una controrivoluzione culturale alla riscoperta dell'Europa perduta. Fattibile? Di certo la rimessa in moto dell'economia è il primo passo per riconciliarsi con i cittadini, perché un progetto che distrugge la crescita non può attirare consensi. Il resto verrà se si ricostruirà la fiducia anche tra i Governi: se tutti torneranno a parlarsi alla pari, nel rispetto reciproco e riscoprendo il valore dell'interesse comune in un mondo globale dove l'Europa diventa sempre più piccola. E deve imparare ad agire in fretta.
Sul web

    Articolo originale – Il Sole-24 Ore it

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da - http://www.presseurop.eu/it/content/article/1961511-e-il-momento-di-crescere


Titolo: Adriana Cerretelli. I nervi scoperti di Berlino
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2012, 05:50:38 pm
I nervi scoperti di Berlino

di Adriana Cerretelli

7 agosto 2012

Di questi tempi sono davvero troppi i nervi scoperti in Europa. Né potrebbe essere altrimenti dopo due anni e mezzo di una brutta crisi che non passa, l'euro sempre in bilico sul vuoto, sfiducia e incomunicabilità crescenti tra gli Stati. In quel clima di «dissoluzione psicologica» europea denunciato da Mario Monti nell'intervista a “Der Spiegel”.

Un'intervista-verità. Politicamente coraggiosa perché parla a un pubblico tedesco non solo del disagio e dei sacrifici mediterranei, del preoccupante scontro Nord-Sud sul quale l'Europa rischia di schiantarsi ma anche di una Germania non priva di zone d'ombra, comunque perfettibile e ben lontana dal rappresentare quella Città del Sole europea che troppo spesso ha la pretesa di essere. Paradossalmente il presidente del Consiglio non dice niente di nuovo sugli attuali tormenti della politica europea (che non c'è) o sui sentimenti anti-tedeschi che da molti mesi covano non solo in Italia ma in tutta l'Unione, anche nei Paesi nordici più virtuosi.

Però li sintetizza in modo conciso ed efficace. Al punto da promuovere di fatto l'Italia a graffiante portavoce delle istanze euro-sud, ora che la Francia di François Hollande ha fatto una scelta di campo decisamente mitteleuropea, prendendo le distanze dalla sua vocazione mediterranea nonostante i tanti spunti emersi in una campagna elettorale ormai dimenticata. Monti però non cerca né vuole creare divisioni. Cerca l'Europa che si sta dissolvendo, tenta di recuperarla per i capelli a forza di coesione, fiducia, solidarietà. Di semplici verità invece di pregiudizi e propaganda: come il fatto che l'Italia ha bisogno di sostegno morale e non finanziario, che finora di aiuti ne ha dati all'Unione e non ne ha mai incassati. Che il debito italiano sarebbe al 120,3% e non al 123,4% se quei soldi non fossero stati versati. Che le banche francesi e tedesche hanno beneficiato degli aiuti dati alla Grecia, quelle italiane no, con il risultato che di fatto Roma ha dato di più di Parigi e Berlino. Che con gli alti tassi che oggi paga sui titoli di Stato l'Italia di fatto sovvenziona i bassi tassi tedeschi. La Germania, si sa, ama impartire lezioni agli altri. Non riceverne.

Soprattutto quando sono puntuali e inattaccabili. La levata di scudi contro Monti è stata dunque immediata, travolgente e by-partisan. Quasi tutta concentrata però sul presunto attentato alla democrazia parlamentare tedesca compiuto dal nostro quando dice l'ovvio e cioè che «se i governi hanno le mani completamente legate dai rispettivi parlamenti, senza nessuno spazio negoziale, sarà più probabile il collasso dell'Europa di una sua maggiore integrazione». Bundestag strapotente e intoccabile: una sentenza della Corte di Karlsruhe oblige.

La stessa Corte che, tra l'altro, di fatto terrà in ostaggio fino a metà settembre euro ed Europa insieme alla nascita dell'Esm, il fondo salva-Stati permanente che dovrebbe intervenire con la Bce per calmierare gli spread italiani e spagnoli. Per nessun europeo, come per nessun tedesco, esiste una causa giusta su cui immolare la sovranità parlamentare. Ma dove era e dove è l'attuale esercito di indignati tedeschi quando con il 6-pack e il fiscal compact si sancisce il diritto europeo di intrusione nelle decisioni parlamentari di bilancio o quando, come propone Angela Merkel, si promuove con l'unione fiscale l'esproprio subito delle sovranità nazionali sulle leve della spesa pubblica in cambio, forse domani, della mutualizzazione del debito dell'eurozona?

Se il sacrificio della normale dinamica democratica è ritenuto uno fondamentale rimedio anti-crisi, perché fa scandalo auspicare qualche spazio di manovra per il Governo di Berlino per rispondere con tempestività alla crisi evitando inutili e spesso astronomici costi aggiuntivi? Forse in Germania vige una legge sul doppiopesismo che consente di fare agli altri quello che non si vuole sia fatto a sé. Dalla Grecia, alla Spagna, all'Italia il sentiero dell'austerità si inerpica sempre più stretto e faticoso. Per salvare l'euro tutti devono fare la loro parte. Se a dirlo è un italiano, si chiami Monti o Draghi, magari sorprende ma rientra nel normale gioco di squadra europeo. O dovrebbe. Sempre che l'Europa non sia diventato un arnese da buttare.


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Titolo: Adriana Cerretelli. L'Europa dei passi indietro
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:02:33 pm
L'Europa dei passi indietro

di Adriana Cerretelli

18 ottobre 2012


Poche aspettative per oggi e domani, soltanto un «vertice europeo di tappa». In questa vigilia molti, tedeschi in primis, si affrettano a mettere le mani avanti sull'esito di un appuntamento che assomiglia fin troppo alla riedizione di quello di giugno. E non perché il suo successo spinga all'imitazione. Al contrario. Perché, in poco meno di quattro mesi, gli impegni presi allora per creare efficaci barriere antincendio e fermare la crisi dell'euro si sono impantanati nei confusi meandri delle divergenze interpretative, perfetto paravento degli irrisolti conflitti di interesse e di poteri nazionali.

E così oggi e domani a Bruxelles si terrà un vertice essenzialmente ripetitivo, per confermare che, nonostante tutto, le promesse di giugno saranno mantenute: sulla supervisione bancaria unica da affidare alla Bce come sulla ricapitalizzazione diretta delle banche da parte dell'Esm, il nuovo meccanismo europeo di stabilità nel frattempo divenuto teoricamente operativo. Anche se quasi certamente il calendario originario non verrà rispettato.
È molto improbabile, infatti, che il nuovo sistema di vigilanza centralizzata riesca a scattare dal 1° gennaio anche se, al contrario del suo ministro delle Finanze, Angela Merkel insieme tra gli altri a Italia e Francia vorrebbe stringere i tempi. Germania a parte, a remare contro la scadenza ravvicinata ci sono anche altri Paesi, dentro e fuori dall'euro. Anche se dietro le quinte si starebbe preparando una soluzione ad hoc per la Spagna, qualora si facesse avanti in novembre con una formale richiesta di aiuti per le sue banche (o forse anche altro), per non costringerla a veder lievitare il debito dei 60 miliardi di cui ha bisogno (il 6% del suo Pil).

Strana Europa quella che si riunisce oggi e domani al vertice di Bruxelles. Malata di mutua sfiducia e crescente assenza di consenso popolare, da una parte sfida la relativa clemenza che perdura sui mercati rimandando le decisioni su vigilanza e codice di condotta dell'Esm e impedendo così alla Bce di far ricorso ai suoi "bazooka" anti-spread e non. Dall'altra, pur rallentando l'attuazione degli impegni di giugno che la doterebbero di un prezioso arsenale anti-crisi da mobilitare a breve, se necessario, non esita ad accelerare la corsa verso riforme radicali di medio termine: coraggiose ma forse premature quando le riforme già annunciate, vitali per i più deboli, segnano il passo per ragioni di comodo varie, di contrapposizione di interessi e freni elettoral-ideologici.
«Solidarietà e integrazione devono andare di pari passo» ha mandato a dire ieri a Berlino il presidente francese François Hollande. In perfetta sintonia con la posizione di Mario Monti. Tanto più che la pessima retorica populista del Nord, che si ostina a chiosare sul presunto "dolce far niente" del Sud, è smentita dai fatti. Nell'ultimo biennio il deficit medio dell'eurozona è crollato dal 6,5% al 3,2%, il debito viaggia ormai sotto il 92%. Negli ultimi otto mesi la bilancia commerciale è passata da un deficit di 27 miliardi a un surplus di 47, grazie alla ripresa dell'export mediterraneo, in particolare di Grecia, Spagna e Italia. Il tutto tra recessione (-0,3%), disoccupazione oltre l'11%, salari in discesa e l'inflazione al 2,6% annuo.

Con il "sottile" patto europeo sulla crescita che procede a rilento, e la cosiddetta solidarietà europea che quando gioca lo fa a condizioni durissime per i malcapitati che la chiedono, pretendere anche, come fa Wolfgang Schäuble, un'ulteriore stretta sulle sovranità nazionali in fatto di bilancio e riforme strutturali, diventa un esercizio politicamente spericolato. Tanto è vero che la Merkel ha fatto sapere che se ne parlerà al vertice ma con cautela. Dopo che l'eurozona ha già digerito 6 pack, fiscal compact e 2-pack, cioè tre accordi che imbrigliano gli spazi di manovra dei Paesi membri e legittimano anche il diritto di intrusione europea negli iter decisionali nazionali, ora il ministro tedesco propone di creare un super-commissario europeo con il potere di respingere i bilanci nazionali o di sospenderne l'attuazione qualora non rispettino le regole di stabilità.

A garanzia dell'attuazione delle riforme economiche, poi, in futuro gli Stati dovrebbero firmare "contratti individuali" con Bruxelles: altra idea tedesca sul tavolo del vertice, sia pure presentata nel rapporto Van Rumpuy. Il contentino in tutto questo sarebbe la creazione di un fondo per l'eurozona in grado di stabilizzarla in caso di shock asimettrici o di distribuire aiuti ai riformisti più ambiziosi. «Se dal 2000, invece delle raccomandazioni Ue ignorate ci fossero stati questi contratti, non saremmo arrivati alla crisi di oggi» commentava ieri un diplomatico europeo. «Prima di andare oltre quello, che è già molto, che abbiamo già deciso su disciplina e controllo sui bilanci, cominciamo a metterlo in pratica» gli replicava un altro, di idee opposte.
Vertice di tappa, certo, quello che va a incominciare. Ma con disgressioni sul futuro prossimo e decisioni da mettere in bella copia già in dicembre, per avviare negoziati concreti nel 2013. A Bruxelles si annunciano scontri al calor bianco.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-10-18/leuropa-passi-indietro-063620.shtml?uuid=AbpcfGuG


Titolo: Adriana CERRETELLI Il risveglio francese
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2012, 04:09:28 pm
Il risveglio francese

di Adriana Cerretelli

20 ottobre 2012

Ha finalmente riaperto gli occhi la Bella addormentata francese. A risvegliarla non è stato il Principe azzurro ma una fattucchiera tedesca ormai tanto sicura di sé e delle sue arti da volerle somministrare questa volta una pozione esagerata. Ha ottenuto l'effetto contrario. Approfittando della relativa tregua sui mercati, preoccupata di compiacere al massimo i propri elettori chiamati alle urne nel settembre prossimo, pretendeva, la fattucchiera, di riuscire a continuare a rallentare a suo piacimento gli aiuti da erogare, via Esm e Bce, ai Paesi euro in difficoltà in barba all'accordo Ue di giugno.

E al tempo stesso di concludere al più presto, e in cambio di niente, l'assalto alle sovranità di bilancio altrui, creando un super-commissario europeo con diritto di veto, senza nemmeno aspettare l'entrata in vigore di tutte e tre le riforme che hanno già abbondantemente ed efficacemente imbrigliato i margini di manovra dei partner. «L'Europa non è un riformatorio» le aveva mandato a dire François Hollande alla vigilia del vertice di Bruxelles. Poi poco prima dell'incontro, rompendo l'etichetta felpata della diplomazia, con una sortita decisamente inconsueta il presidente francese ha espresso pubblicamente il suo dissenso dalle posizioni di Angela Merkel: «Il tema di questo vertice non è l'unione di bilancio ma l'unione bancaria, cioè il rispetto degli impegni che abbiamo preso il 29 giugno».

Capisco, ha aggiunto con una punta di veleno, che il cancelliere abbia scadenze elettorali e quindi discrepanze di calendario, ma con la Germania abbiamo una responsabilità comune, che è quella di portare l'eurozona fuori dalla crisi. Dopo un triennio al cloroformio, che ha visto la Francia come il grosso del club dell'euro allo sbando, succubi delle proprie debolezze e quindi in balìa delle decisioni, peraltro spesso pasticciate e confuse, di una Germania senza argini, ora l'Europa sembra pronta a tornare Europa, cioè una famiglia plurale e dialettica che fa gioco di squadra: l'Europa migliore che forse un giorno ritroverà così anche il consenso dei suoi popoli.

Se i prossimi mesi confermeranno nei fatti la svolta del presidente francese, potranno finalmente crearsi le basi per uscire davvero dalla crisi e ricostruire l'Europa su basi più solide, moderne e adeguate alle sfide globali. I primi risultati positivi si sono visti subito al vertice. Il risveglio di Hollande insieme all'attivismo dell'Italia di Mario Monti, alla determinazione della Spagna di Mariano Rajoy e alla preoccupazione dei Paesi medio-piccoli (non solo mediterranei) sono riusciti per ora ad arrestare l'involuzione verso un'unione sempre più sbilanciata e divisa, alla lunga perniciosa per tutti in quanto politicamente, socialmente ed economicamente insostenibile. E in fondo anche ad evitare alla Germania di farsi del male da sola.

In uno stato di crescente isolamento. Niente super-commissario ai bilanci con diritto di veto. La Merkel si è ritrovata in minoranza. Per ora il suo progetto finisce nel cassetto. Non è escluso che ne possa uscire in futuro, adeguatamente limato e corretto, in un'Europa "normale" che abbia ritrovato gli strumenti di un dialogo alla pari e di un'integrazione più spinta ma anche più equilibrata. Su aiuti ai Paesi in difficoltà e unione bancaria ha vinto il compromesso all'europea. La vigilanza unica, che a regime interesserà tutte le oltre 6mila banche Ue, dovrà attendere almeno fino alla fine del 2013, come vuole la Germania. Mario Draghi del resto aveva anticipato al Parlamento europeo che, per renderla operativa, ci vorrà più o meno un anno.

Nell'attesa si è deciso di chiudere entro l'anno almeno i negoziati sulle regole di accesso agli aiuti Esm: ci penseranno i ministri dell'Eurogruppo, anche se per la ricapitalizzazione diretta delle banche spagnole la strada resta tutta in salita. Non è quello che auspicavano Francia, Italia e Spagna ma si spera che il segnale basti a convincere i mercati che sull'unione bancaria l'Europa fa sul serio.

Ed è intenzionata a fare il possibile per tenere la Grecia a bordo. Quasi tutti i problemi aperti restano irrisolti. Altri si annunciano. L'inglese David Cameron ha ribadito che porrà il veto in novembre sul bilancio pluriennale dell'Unione. Però la resurrezione politica della Francia in Europa, la nuova grinta di Hollande, se non si perderà per strada, promette tempi nuovi o meglio antichi: la ripresa di un processo di integrazione consensuale e democratico scandito dal principio dell'unità nella diversità. Lasciando Bruxelles ieri la Merkel ha affermato di «tenere molto» ai suoi rapporti con Hollande nonostante le rispettive diversità. Buon segno per l'Europa.

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Titolo: Adriana Cerretelli. La strada stretta (ma obbligata) di Italia e Europa
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 06:02:35 pm
La strada stretta (ma obbligata) di Italia e Europa

di Adriana Cerretelli

11 dicembre 2012


Sui desiderata europei, trasparenti e spesso anche conclamati, non ci sono mai stati dubbi. Ora che Mario Monti ha deciso di gettare la spugna lo stupore si alterna ai timori su stabilità e futuro della terza economia dell'euro.

«L'Italia non è la Grecia» amava ripetere un alto esponente della Bundesbank al tempo dei negoziati di Maastricht. «Perché, se si muove in modo avventato, a differenza della Grecia, è in grado da sola di rovesciare la barca della moneta unica». Vent'anni dopo, quel giudizio che riassume il grande incubo europeo non deve rischiare di diventare una profezia. Per questo si respira tensione a Bruxelles e dintorni.
Mario Monti è una personalità molto apprezzata in Europa. E sui mercati: i sussulti di ieri, per certi versi fisiologici, sono stati eloquenti. Naturalmente nessuno nell'Unione a 27 può seriamente pensare di sottrarre i paesi membri al libero gioco della democrazia elettorale. Gli intermezzi tecnocratici non possono che avere una durata limitata.
Però la prospettiva di un rientro da protagonista di Silvio Berlusconi sulla scena politica manda in fibrillazione molte cancellerie. Non è il cambio della guardia a Roma a preoccupare. Ci mancherebbe. Si temono le divisioni e lacerazioni che hanno segnato quella stagione.

Preoccupa e molto, invece, il rischio di vedere interrotto il cammino di consolidamento dei conti pubblici, delle riforme strutturali in larga parte ancora da fare e del recupero di credibilità del paese. In breve, si teme di veder riapparire lo spettro dell'instabilità e insieme dell'evanescenza italiana. Che soltanto un Governo forte, scaturito da un chiaro ed inequivocabile mandato delle urne, è in grado di garantire. Agli occhi di Bruxelles il Pd di Pierluigi Bersani ha le carte in regola, a patto di neutralizzare l'ipoteca di alleati allergici all'agenda del rigore e delle riforme. E questo vale per chiunque, sinistra, centro o destra, offra queste garanzie.
L'Italia ha bisogno di Europa. Ma anche l'Europa ha bisogno di Italia. Di un interlocutore solido, serio e responsabile capace di mediare, se necessario, tra le sue molte asperità e mille contraddizioni. Soprattutto nei prossimi mesi nel corso del nuovo round di delicate riforme istituzionali che, prima o poi, dovrebbero sfociare in più integrazione e in nuove cessioni di sovranità nazionali su bilancio, riforme, politiche sociali e fiscali.

Già oggi del resto, sul filo delle ultime riforme anti-crisi che hanno rafforzato la governance dell'euro, i margini di manovra dei Governi sono molto limitati. I conti pubblici in equilibrio sono un traguardo obbligato. Come la riduzione del debito. Ancora non lo è ma presto lo diventerà anche il recupero di competitività globale attraverso impegni contrattuali vincolanti per le riforme strutturali. Patti e Trattati Ue a parte, ci pensano poi i mercati a mantenere la pressione per cambiamento e modernizzazione dei sistemi-paese, sanzionando in tempo reale i renitenti a disciplina e riforme.
Illusorio immaginare di cambiare il corso delle cose (a meno di non far saltare il tavolo). L'aveva promesso il socialista François Hollande, facendo della crescita economica europea il suo cavallo di battaglia elettorale per temperare la gelida stretta dell'austerità. Una volta all'Eliseo, la sua Francia si sta mettendo in riga sul modello tedesco senza grandi guizzi. Illusorio anche credere che un'eventuale vittoria in autunno della socialdemocrazia tedesca, magari alleata con i verdi, allenterebbe la morsa dell'austerità sull'euro-sud.
Sono due le molle che potrebbero indurre la Germania a diluire un po' la linea del rigore: la prova provata che, in dosi eccessive, contraddice i suoi obiettivi (come in Grecia, dove fa salire il debito invece di farlo scendere) e l'arrivo della recessione anche dentro i suoi confini.

In entrambi i casi l'austerità non sarà rimessa in discussione, perché ritenuta strumento necessario a carburare una crescita sostenibile. Però sarà finalmente ammortizzata da stimoli europei all'espansione economica, agli investimenti nell'industria, nell'innovazione, nelle infrastrutture, nell'energia.
Per l'Italia in recessione per la quarta volta in 10 anni, con la disoccupazione giovanile e non in viaggio verso nuovi record e le risorse di bilancio che latitano, sarebbe una provvidenziale boccata di ossigeno: la spinta allo sviluppo finora mancata, in grado di evitare il salto nel buio del depauperamento e della deindustrializzazione del paese. Per il nuovo Governo il prezioso viatico di un'Europa "amica" e non più soltanto arcigna.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-11/strada-stretta-obbligata-italia-063526.shtml?uuid=AbbG0vAH


Titolo: Adriana Cerretelli. L'industrial compact che serve all'Europa
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2013, 11:44:44 pm
L'industrial compact che serve all'Europa

di Adriana Cerretelli

06 febbraio 2013


In Italia il futuro dell'Ilva resta in bilico. In Belgio Arcelormittal annuncia nuove chiusure di impianti e 1.300 licenziamenti dopo analoghi smantellamenti in Francia. Oggi ci sarà una manifestazione a Strasburgo, dove è riunito in plenaria l'Europarlamento. Tutti, lavoratori e deputati, invocano una politica industriale europea per uscire dall'emergenza e invertire il declino economico e sociale del continente. Ma il vertice Ue che si apre domani a Bruxelles ignorerà il tema. Deciderà invece nuovi tagli al bilancio comune nel prossimo settennato 2014-20, in particolare nelle politiche per la competitività futura.

Eppure, fuori dalla cronaca pura, il quadro appare ancora più drammatico. Tra il 2003 e il 2011 la produzione di acciaio in Cina è cresciuto del 208%, in Europa è calata dell'8%. I primi dieci produttori del mondo sono tutti asiatici, sei cinesi. Arcelormittal, il numero uno, ha sede legale a Lussemburgo ma è indiano. Per trovare il primo nome europeo in classifica, Thyssen-Krupp, il simbolo stesso dell'industrializzazione tedesca d'antan, bisogna scendere al 19° posto.

Per l'auto il panorama non è più confortante. Mercato europeo in picchiata nel 2012, -8,2%, il livello più basso dal 1993, contro +5% cinese. Produttori alle corde sotto il peso di sovra-capacità che cercano disperatamente di ignorare da sempre. Intanto gli emergenti crescono, inesorabili. Aerospaziale e chimica detengono ancora la leadership mondiale: fino a quando? Si potrebbe continuare a lungo.

Nell'Europa in recessione si è fatto il Fiscal compact per stringere la cinghia del rigore nei conti pubblici. Si disserta di "growth compact" ma chissà se mai vedrà la luce in un'Unione il cui Paese leader, la Germania, ha un cancelliere convinto che «la crescita sia il premio della virtù» e forse per questo si appresta, d'intesa con l'inglese David Cameron, a tagliare ancora, al vertice Ue di domani e dopo a Bruxelles, il bilancio pluriennale Ue 2014-20, compresa la voce investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione.

Di "industrial compact", di politica industriale europea, invece, si parla poco, anche se potrebbe diventare il nuovo motore dello sviluppo: il principio della fine della de-industrializzazione di un continente che si era illuso di poter imboccare senza danni la scorciatoia delle delocalizzazioni rinunciando a cuor leggero al manifatturiero per scoprire, complice la grande crisi economico-finanziaria, di aver sbagliato scommessa. Di dover ora correre ai ripari rilocalizzando, rimpatriando gli investimenti per fare crescita e quindi essere in grado di ripagare stabilmente i debiti.

Proprio perché è la polizza sul benessere futuro, la reindustrializzazione dell'Europa dovrebbe dunque diventare la madre di tutte le battaglie. Dovrebbe ma lo sarà? L'impresa è improba ma necessaria. Antonio Tajani, il responsabile Ue all'Industria, ha lanciato il sasso nello stagno di Bruxelles. Il 19 scorso la Commissione Barroso ha riunito per la prima volta un seminario sulla competitività.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-02-06/lindustrial-compact-serve-europa-064013.shtml?uuid=AbV78cRH


Titolo: Adriana CERRETELLI L’allarme italiano parla all’Europa
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2013, 05:17:44 pm
L’allarme italiano parla all’Europa

27 febbraio 2013
Il Sole-24 Ore Milano

    Tom Janssen

Gli italiani hanno bocciato Mario Monti e il protettorato di Angela Merkel, sabotando la sua strategia di congelare la crisi dell'Unione fino alle elezioni tedesche di settembre. Ora l'integrazione deve riprendere.

Adriana Cerretelli

Angela Merkel ha fatto di tutto per sgombrare dalla sua strada verso le elezioni di settembre il pericolo di nuovi sussulti di instabilità europea.

In Italia ha giocato a fondo la carta Monti, senza però andare oltre i tanti attestati di stima per evitare l'effetto boomerang prodotto l'anno scorso in Francia dal suo esplicito sostegno a Nicolas Sarkozy.

Poi ha ricucito in qualche modo con il successore, François Hollande. E per salvaguardare la quiete sui mercati è arrivata a depenalizzare il mancato rispetto degli impegni anti-deficit di Parigi con una lettera in cui la Commissione Ue ufficializza la nuova linea flessibile nell'applicazione delle regole. Come nei fatti era già accaduto con Grecia, Portogallo e Spagna.

La strategia del cancelliere non ha funzionato. Il responso delle urne in Italia ha clamorosamente riaperto la piaga dell'instabilità, dentro e fuori dai suoi confini. Come prevedibile, i mercati sono ripartiti all'attacco. L'Europa trema e, per ridurre i danni, sogna il commissariamento del nostro paese, il suo eterno ritorno nei ranghi dei sorvegliati speciali, de jure e non solo de facto. Insieme a Grecia & Co.

Con il suo scatto di nervi elettorale l'Italia in realtà travalica la dimensione nazionale dello scontento per mettere l'Europa, sempre sfuggente, di fronte a una serie di verità scomode, di nodi volutamente irrisolti che cominciano, come si vede, a venire al pettine. E rischiano di rimettere in croce l'euro non tanto per la riesplosione della questione italiana quanto perché l'Italia, terza economia del club, mette a nudo tutti i problemi della moneta unica finora rappezzati a metà oppure accortamente tenuti sotto il tappeto.

Il voto di domenica racconta molto di più della diffusa insofferenza verso la politica del rigore e delle tasse in un paese prostrato da recessione e disoccupazione. Esprime la rivolta contro i bramini di un sistema che, dopo aver deciso di entrare nella moneta unica, non ha fatto le scelte conseguenti per restarci: non si è modernizzato, né auto-riformato, non si è "sborbonizzato" né liberalizzato per diventare più competitivo mettendosi al passo con i partner. Creando così nella gente la falsa illusione che si potesse sempre tirare a campare come prima perpetuando grandi e piccole rendite di posizione senza mai pagarne lo scotto.

Invece no. Ma gli italiani non sono i soli in Europa a non aver fatto i conti con la scelta della moneta unica. È da qui che esplode il dilemma: «Più o meno Europa», «Stare o non stare nell'euro». Il dilemma non è solo italiano ma è la domanda proibita, molto più diffusa di quanto non si creda, tra i membri del club e aspiranti tali.

Nasce e cresce in un quadriennio di crisi, capace di offrire solo la risposta dogmatica del rigore e delle riforme forzate alla tedesca, senza gli ammortizzatori della crescita e men che meno della solidarietà intra-europea. Addirittura senza, se del caso, il ricorso alla normale dinamica democratica in nome di una presunta più efficace opzione tecnocratica. Il tutto mentre si accentua la frattura Nord-Sud e l'Europa e la sua industria non cessano di perdere quote sul mercato globale.

I sacrifici non piacciono a nessuno. Men che meno a chi in giro per le sue capitali, non a torto, nota che «l'Europa ha i soldi per salvare le banche ma non per far ripartire crescita e lavoro». I mercati, d'altra parte, hanno bisogno di certezze sulla futura tenuta e integrità dell'euro per recuperare la calma. Basterà e fino a quando la garanzia Draghi ora che l'Italia rischia di scoperchiare il vaso di Pandora dei troppi problemi irrisolti dell'euro e dell'Unione?

Proprio mentre dovunque si disgrega il consenso popolare all'Europa, paradossalmente la moneta unica ha bisogno per resistere ai suoi guai interni di accelerare sull'integrazione varando la triplice unione, bancaria, di bilancio e politica. Cioè di decidere una volta per tutte se accettare davvero un destino condiviso fino in fondo a tutti i livelli e secondo l'ormai prevalente e pervasivo modello tedesco.

Le elezioni in Germania e le europee che seguiranno nel 2014 hanno momentaneamente congelato dibattito e negoziati, allontanando di alcuni mesi il momento della verità, delle scelte tra le troppe contraddizioni che fanno l'Europa. Ma le inquietudini restano, anzi crescono un po' dovunque. Anche nella Francia di Hollande.

Basterà la flessibilità delle regole sul rigore concessa dalla Merkel a tenere a bada i mercati tirando avanti fino a settembre senza grandi drammi? L'Italia ha tirato un sonoro campanello di allarme in Europa. Sarebbe pericoloso ignorarlo. Per tutti.
Sul web

   
Dalla Germania

L’ultima vittima di Angela Merkel

Angela Merkel è riuscita a perdere le elezioni italiane?

La stampa tedesca constata il “caos politico italiano” associandolo al fallimento della politica di austerity voluta dalla cancelliera.

La Süddeutsche Zeitung sottolinea che

    il freddo realismo con cui Berlino ha insistito sulle riforme nell’Ue è percepito come un diktat ostile. Monti e Bersani – ma anche Berlino e Bruxelles – non sono riusciti a far capire agli italiani che la cura drastica porterà alla guarigione.

A questo punto è meglio rifiutarsi di seguire Merkel nella sua politica economica, consiglia il giornalista Eric Bonse su Cicero. Sarkozy in Francia, Mark Rutte nei Paesi Bassi e ora Mario Monti in Italia hanno dimostrato che “imparare da Angie significa imparare a perdere!”

    Resta da capire perché tutto questo rimbalzi su Merkel. Attorno a sé crea solo terra bruciata, e non ci dicano che questo non ha nulla a che vedere con la sua politica…

Una risposta prova a fornirla la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Il quotidiano conservatore attacca i “partiti politici degenerati che possono continuare a saccheggiare” l’Italia:

    Questa pietra miliare della destabilizzazione del paese e dell’Unione è stata possibile soltanto grazie a una legge elettorale sconcertante che alcuni politici astuti – nota bene, durante il governo di Berlusconi – hanno cucito su misura per le necessità del Cavaliere. […] 357, cifra storica di queste elezioni, è la somma degli anni dei quattro candidati e del presidente. Per i milioni di giovani italiani che in questo paradiso di deputati arricchiti non trovano lavoro, né formazione, né pensione, né università in grado di funzionare, dopo queste elezioni non cambierà nulla.

da - http://www.presseurop.eu/it/content/article/3467921-l-allarme-italiano-parla-all-europa


Titolo: Adriana Cerretelli. Non bisogna avere esitazioni
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2013, 04:41:24 pm
Non bisogna avere esitazioni

di Adriana Cerretelli

21 marzo 2013


Con un buon toccasana a portata di mano, con l'esplicito beneplacito di Bruxelles e con un paese che boccheggia nella recessione carico di disoccupati, nessun Governo dovrebbe più avere esitazioni nè tentennamenti. Ma agire subito per sbloccare i crediti delle imprese verso la pubblica amministrazione. Una manna da 70-80 miliardi.
Dovrebbe farlo al più presto per almeno tre ottime ragioni.

La prima: il rilancio della crescita non può essere lasciato deliberatamente in frigorifero quando, come ha affermato ieri il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, solo il pagamento di una prima tranche del debito, per esempio da 48 miliardi, potrebbe tradursi nella creazione di 250 mila posti di lavoro in 5 anni e nell'aumento del Pil dell'1% annuo nei primi 3 anni e dell'1,5 a partire dal 2018. L'Italia non può e non deve rassegnarsi all'impoverimento e alla de-industrializzazione e neppure a restare in eterno all'ultimo posto nella scala europea dello sviluppo. Perché non c'è decrescita felice per nessuno : se la torta si rimpicciolisce, le fette da distribuire saranno sempre più minuscole. Per tutti.

La seconda si chiama Cipro, l'ennesimo disastroso salvataggio europeo che rischia di fare più male che bene a coesione e credibilità della zona euro nonché alla sua governance collettiva. Con il rischio, alla lunga, di indurre nuove rigidità nella gestione del club al posto delle recenti aperture per un'applicazione delle regole ragionevolmente più flessibile.

La terza è, salvo sorprese, la longevità molto ridotta del Governo Monti. Nei suoi 15 mesi di vita ha fatto tanto rigore e niente sviluppo. Ora gli si offre l'occasione di chiudere in bellezza, di prendere finalmente una decisione che fornisca una vitale boccata di ossigeno a un sistema produttivo allo stremo. Sarebbe un peccato non coglierla. Il tempo stringe per tutti ma soprattutto per le imprese in crisi di liquidità. Di giorni utili per passare ai fatti non ne restano molti. Meglio non buttarli via.

Il paese ne ha bisogno. Non ci sono più alibi europei da invocare per bloccare il dossier nei cassetti. «Nessuno può più accusare l'Europa di lasciar morire le imprese con la rigidità delle sue regole anti-deficit e anti-debito», commentava qualcuno ieri a Bruxelles.

Lo stesso Vittorio Grilli lo ha riconosciuto nell'intervista al nostro giornale: «Dopo il via libera della Commissione europea non vedo ragioni per non procedere con un provvedimento d'urgenza per sbloccare i pagamenti della pubblica amministrazione». Se è vero che siamo davanti a un'emergenza e io credo che sia vero, ha aggiunto il ministro dell'Economia, è giusto partire il prima possibile.

«Ci stiamo lavorando con estrema urgenza, poi toccherà a Monti decidere quando spingere il bottone».
Con la dichiarazione congiunta Tajani-Rehn, blindata per iscritto e resa nota lunedì a Roma, sono cadute tutte le riserve europee: la liquidazione dei debiti commerciali pregressi, vi si legge, potrà essere annoverata tra i cosiddetti «fattori attenuanti» nella valutazione di deficit e debiti.

In breve, l'inevitabile aumento una tantum del debito italiano, che deriverà dai pagamenti dovuti alle imprese italiane, non comporterà l'automatica e finora temuta violazione del patto di stabilità. D'altra parte il rigore con cui l'Italia di Monti ha imbrigliato il deficit dentro i limiti europei stabiliti le ha parallelamente aperto margini di flessibilità sul fronte degli investimenti produttivi.

Per una volta è stato il testardo gioco di squadra Roma-Bruxelles, il palleggio tra il ministro agli Affari europei Enzo Moavero e il commissario Ue all'Industria Antonio Tajani, a superare ostacoli che all'inizio sembravano inamovibili. Da una parte la battaglia per favorire la crescita rendendo le regole dei patti europei più "intelligenti". Dall'altra la crociata per sveltire i pagamenti in Europa, cancellando una volta per tutte il record negativo dell'Italia (180 giorni) e rimuovendo il macigno dell'enorme debito pregresso che soffoca le imprese e la ripresa.

A questo punto tocca a Monti «spingere il bottone» e dare una sferzata allo sviluppo. Perché non al Consiglio dei ministri di oggi? Sarebbe un peccato, in fondo, regalare la medaglia ai suoi successori.

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Titolo: Adriana Cerretelli. Se l'Europa cambia pelle
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2013, 09:07:14 am
Se l'Europa cambia pelle

di Adriana Cerretelli
8 settembre 2013

Tensioni e liti euro-americane tappezzano da anni le stanze del G-20. Almeno quanto le divisioni intra-europee. Il vertice di San Pietroburgo ha ribadito questo consumato copione. Però con alcune varianti che confermano almeno tre cose.

Primo, la globalizzazione dell'economia non facilita quella degli interessi, al contrario. Con il risultato che non la governance multilaterale non solo non decolla ma diventa ogni giorno più difficile, quasi impossibile: l'impotenza dell'Onu "docet", il naufragio del Doha Round sulla liberalizzazione del commercio internazionale pure, gli sterili balletti del G-20 oggi sulla Siria, ieri sulla grande crisi finanziaria e i modi per uscirne, anche.

Secondo, di sicuro non aiuta il relativo declino dell'Occidente che, ancor più che nella perdita di terreno economico nei confronti dei grandi paesi emergenti, si manifesta nella clamorosa sconfessione per ignavia dei suoi valori fondamentali. Come non aiuta la pallida leadership americana, l'imbarazzante debolezza della presidenza di Barak Obama.

Terzo, il rachitismo dell'Europa divisa sulla scena globale, quindi la sua irrilevanza, non fanno notizia da tempo. Ma questa volta è successo di peggio. L'Europa è implosa sulle contraddizioni della sua non-politicaestera comune, della sua non-politica di euro-difesa. Sulle sue velleità di "soft power" che altro non sono che l'ipocrita coniugazione di disvalori radicati in società sempre più deboli, ripiegate su se stesse. Alla deriva. Se, nonostante il suo tentativo di salvare la faccia con la coalizione dei Dieci, l'America di Obama è stata messa in croce a San Pietroburgo, sulla Siria l'Europa è andata letteralmente in pezzi.

Chiamata a misurarsi sul terreno che da sempre pretende esserle il più congeniale, quello del rispettodei diritti umani fondamentali e dei trattati internazionali che, tra l'altro, vietano l'uso di armi chimiche, non ha trovato di meglio che fare un passo indietro, nascondendosi dietro il comodo schermo dell'Onu, di un'autorizzazione a un attacco contro Damasco che quasi certamente non ci sarà mai, visto la ferma opposizione della Russia di Vladimir Putin.

Intendiamoci, nessuno invoca venti di guerra anche perché nessuno sottovaluta i rischi di un intervento nella polveriera siriana, il potenziale destabilizzante per l'intera regione, le vie del petrolio, l'economia e la pace mondiali. Da qui a far finta di niente sulle migliaia di civili ammazzati, a puntare su improbabili miracoli di negoziati diplomatici ancora tutti da convocare, il passo però è davvero troppo lungo. O perlomeno dovrebbe esserlo per tutti. Invece no.

Con l'eccezione della Francia di Francois Hollande (che però assomiglia un po' troppo a quella di Nicolas Sarkozy che si mise alla testa della campagna di Libia nella vana speranza di recuperare popolarità in casa) e della Gran Bretagna di David Cameron paralizzata dalla bocciatura Parlamentare, l'Europa ha suonato la ritirata sventolando le nobili bandiere dell'Onu. Guidata dalla Germania di Angela Merkel (attenta, nell'imminenza delle elezioni, a non rischiare corti circuiti con la propria opinione pubblica), l'Europa al G-20 ha preferito isolare la Francia e schierarsi con Putin e con la Cina piuttosto che con l'America di Obama. Il cancelliere è arrivato a rifiutarsi di firmare (salvo ripensamento in extremis) il documento sponsorizzato dalla Casa Bianca e firmato da 10 paesi, tra cui l'Italia, in cui si limita ad auspicare una forte punizione per la Siria di Assad.

Resta che a San Pietroburgo il "neutralismo" tedesco l'ha fatta da padrone, anche perché in perfetta sintonia con gli umori delle pubbliche opinioni europee, in un momento di crisi conclamata in Francia e Inghilterra, le due potenze militari europee indispensabili per creare una credibile politica estera e di difesa comuni.
Dal G-20, dunque, il primo gesto di leadership politica a tutto tondo della Germania in Europa e nel mondo che segue la leadership economico-monetaria ormai ampiamente consolidata? Molto probabile, vista la preoccupante dissolvenza degli altri grandi attori della scena europea.

Sarebbe esagerato (e infondato) ipotizzare la rottura del legame transatlantico, anche perché Berlino è tra i massimi promotori del negoziato in corso su un grande patto economico Usa-Ue. Però le affinità elettive della Germania con Russia e Cina non sono nuove: potrebbero approfondirsi sul filo di interessi comuni, non necessariamente coincidenti con quelli Usa. Nell'imperante anarchia multilaterale potrebbe essere questa la svolta di San Pietroburgo. In cantiere per dopodomani.

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Titolo: Adriana Cerretelli. Usa-Ue la vera sfida al Dragone cinese
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 07:59:15 am
Usa-Ue la vera sfida al Dragone cinese

di Adriana Cerretelli
14 marzo 2014

C'è chi, proiettando le tendenze dell'ultimo decennio sul prossimo, prevede entro il 2020 il grande balzo in avanti della Cina sulla scena mondiale con il sorpasso degli Usa, l'Europa alle corde e comunque ormai legata a doppio filo commerciale a Pechino (si veda Il Sole 24 Ore del 27 febbraio).

Altri, invece, partendo da cifre e fatti inoppugnabili, scommettono sulla carta dell'economia transatlantica come unica risposta forte alle nuove sfide dell'era globale.

Europa e Stati Uniti insieme per tener testa al dragone e contenerne gli ardori. In gergo si chiama Ttip, Partnership transatlantica su commercio e investimenti, la ricetta per crescere di più e competere da posizioni di maggior forza con gli emergenti.

Avviata nel luglio scorso, l'iniziativa è già al quarto round negoziale che si conclude oggi a Bruxelles. Non è una strada in discesa, ma si vorrebbe concludere in fretta, entro fine anno. Il potenziale di un accordo è talmente invitante che dovrebbe aiutare a superare molte divergenze.

In un'economia transatlantica che è già la più grande e ricca del mondo, vale più del 50% del Pil mondiale in valore e il 40% in termini di potere di acquisto, movimenta 5 trilioni di dollari di scambi commerciali all'anno e occupa oltre 15 milioni di lavoratori, si calcola che il patto potrebbe carburare la crescita su ciascun lato dell'Atlantico di altri 100 miliardi di dollari annui. Con tutti i nuovi posti di lavoro del caso.

Forse ancor più del fatto che Usa e Ue sono la prima fonte e destinazione dei rispettivi investimenti diretti all'estero, quello che colpisce nell'ultimo studio, appena pubblicato, su L'economia transatlantica 2014, è il forte grado di interdipendenza reciproca che oscura le "ombre cinesi" che tormentano l'immaginario in Occidente.

L'Europa, per esempio, dal 2000 a oggi ha attirato il 56% degli investimenti globali Usa contro l'1,2% della Cina. In Irlanda gli americani hanno investito il sestuplo, in Olanda il quadruplo che a Pechino. La Gran Bretagna da sola ha assorbito il triplo degli investimenti Usa diretti nei Bric, cioè in Cina, India, Russia e Brasile messe insieme. La Germania ha incassato più di tutta l'America centrale, Messico compreso. L'Italia, con 34,5 miliardi, più dell'India (27,7). Per le società Usa l'Europa è la principale fonte di profitti esteri, 230 miliardi di dollari nel 2013, il 57% del totale, più di quanto abbiano fruttato Asia e America Latina insieme. Nonostante la crisi dell'euro abbia falcidiato gli investimenti europei negli Stati Uniti, questi restano comunque il quadruplo di quelli cinesi. E si potrebbe continuare a lungo sciorinando cifre.
Non c'è niente da dimostrare, in fondo, sulla profondità dei legami economici transatlantici che esistono da tempo e prosperano allegramente. C'è invece da sfruttare, meglio di quanto non si sia fatto finora, il loro enorme potenziale.

Dopo aver a lungo snobbato la vecchia Europa, tutto assorbito dal Pacifico, il presidente Barack Obama, che il 26 marzo sarà a Bruxelles per il vertice Ue-Usa, si è ricreduto. Ha capito che solo creando un solido mercato transatlantico, da 800 milioni di persone con alto potere di acquisto e di innovazione tecnologica, in grado di fissare norme e standard mondiali, avrebbe potuto tener testa al rimescolamento di equilibri di potenza sulla scena globale.

Il negoziato continua ma gli ostacoli da superare sono immensi, tanto che c'è chi teme che alla fine la montagna partorirà un topolino. L'Europa ha paura di uscire schiacciata dal braccio di ferro con gli americani, un po' come il junior partner anche se è il più "vecchio". Poi ci sono gli scontri cultural-economici sulla carne agli ormoni, sugli Ogm e il cibo-Frankenstein, in breve sugli standard di sicurezza alimentare, di tutela dei consumatori. E della privacy, dopo gli scandali sullo spionaggio dei cittadini americani.

«Non passeranno», giura Karel De Gucht, il negoziatore europeo. Ma gli americani da sempre interpretano le preoccupazioni Ue come una forma mascherata di protezionismo: non capiscono perché gli europei mangino di gusto le loro bistecche a New York ma poi ne vietino l'import. Bisognerà trovare un modo per intendersi. Questa volta con il Ttip si gioca una partita strategica a lungo termine, il posto dell'Occidente nei futuri equilibri globali, non un semplice accordo commerciale. Nessuno può permettersi il lusso di arrendersi alle difficoltà.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-03-14/usa-ue-vera-sfida-dragone-cinese-071117.shtml?uuid=ABtzKz2


Titolo: Adriana Cerretelli - Bruxelles aspetta segnali forti dall'Italia
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2014, 12:14:08 pm
Bruxelles aspetta segnali forti dall'Italia

Adriana Cerretelli
19 marzo 2014

Qualche cauta apertura di credito condita di belle parole e molti incoraggiamenti ad agire presto e bene. Però niente assegni in bianco né concessioni fino a quando non si cominceranno a vedere risultati concreti. Questo passa oggi il convento europeo all'Italia e di questo si devono per ora accontentare il governo Renzi e il suo calendario riformista.

Sia pure con toni diversi, il messaggio è stato univoco a Parigi come a Berlino. Nessuno si attende che sarà diverso quello che scaturirà dal vertice Ue che si terrà domani e dopo a Bruxelles. Più che un nuovo campione da laboratorio, l'Italia di Renzi appare un ben noto esemplare, potenzialmente deludente, finito per l'ennesima volta sotto osservazione. Troppe volte il Paese ha preso impegni poi non mantenuti, troppe volte ha tradito attese e promesse.

L'Europa e soprattutto l'euro hanno però un disperato bisogno di un'Italia stabile e risanata, del recupero di crescita e competitività della terza economia della zona: sarebbe altrimenti illusorio credere nella prossima soluzione del teorema delle incertezze collettive europee. Hanno quindi urgente bisogno delle riforme di Renzi attuate insieme al rigoroso rispetto della tabella di marcia per risanare la finanza pubblica.

Le ambizioni del premier e le preoccupazioni europee dunque oggi coincidono perfettamente tra loro, come l'interesse nazionale si identifica con quello generale europeo. Da qui a dire che per questo la strada dei risanamento e della modernizzazione del sistema-Paese sarà più agevole, appare però prematuro. Un passo troppo lungo visti i negativi riscontri del passato e le finora insuperate resistenze agli imperativi di un cambiamento ormai improcrastinabile da parte di lobby e gruppi di potere inossidabili. Con un'aggravante: a poco più di due mesi dalle europee di fine maggio, la riluttanza alle riforme, alla rinuncia di laute rendite di posizione consolidate nel tempo, potrebbe trovare l'alleato ideale nel crescente anti-europeismo del Paese creando una miscela esplosiva, ancora più difficile da neutralizzare per chi ci voglia provare.

L'Italia di Matteo Renzi in realtà non ha più alternative. Oggi è presa tra due fuochi, cui può sfuggire soltanto rassegnandosi a smentire la cattiva reputazione accumulata in Europa. Deve fare i conti da una parte con lo spettro di una procedura Ue anti-squilibri macroeconomici eccessivi (e possibili sanzioni) che potrebbe scattare a fine giugno in assenza di risultati tangibili sulle riforme strutturali annunciate. Dall'altra con il fiscal compact, cioè con l'impegno a ridurre il debito pubblico (133% del Pil) a partire dal 2016 di circa 45 miliardi all'anno per i prossimi vent'anni per riportarlo al tetto del 60% fissato da Maastricht.

Ci vuole una crescita sostenuta, almeno del 2,6% calcolano a Bruxelles, per mettere il bilancio italiano al riparo dall'incubo degli aggiustamenti insufficienti e delle manovre aggiuntive. Quest'anno rimedieremo un +0,6%, dopo il -1,9 dell'anno scorso. Mancano all'appello 2 punti di Pil per avere uno sviluppo in grado di darci sicurezza finanziaria. Soltanto le riforme strutturali possono assicurarlo liberando il potenziale di crescita oggi soffocato dalla giungla dei vincoli inutili, da inefficienze burocratiche e malagiustizia civile, dal cattivo funzionamento del mercato del lavoro.

Se da qui a fine giugno Renzi riuscirà a strappare risultati concreti su questi fronti, a dare segnali forti e provati della volontà e, soprattutto, di una capacità riformatrice in grado di avviare una catena di effetti virtuosi nel Paese, quasi certamente l'Europa, che oggi non è disposta a fargli sconti, non si limiterà a stare a guardare.

Al contrario, potrebbe riconoscergli l'agognata flessibilità negli impegni assunti per ridurre deficit (a zero) e debito, magari concedendo all'Italia più margini di manovra negli investimenti. Magari evitando di richiamarla all'obbligo di destinare al taglio del debito tutti i guadagni derivanti da mini-spread e mini-tassi di interesse, tenendo conto dei cosiddetti "altri fattori rilevanti". Come la necessità di dare impulso alla crescita, appunto. E sapendo che le riforme richiedono tempo, almeno qualche anno, per sortire effetti positivi. Potrebbe, il condizionale è d'obbligo. Finora Renzi ha ottenuto il beneficio del dubbio. Che non durerà a lungo se non seguiranno fatti convincenti. Ci sono poco più di tre mesi per riuscirci.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-19/bruxelles-aspetta-segnali-forti-italia-064056.shtml?uuid=ABEeb23


Titolo: Adriana CERRETELLI I compiti a casa restano una prova ineludibile
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 05:21:59 pm
I compiti a casa restano una prova ineludibile

Di Adriana Cerretelli
22 marzo 2014

«Di sicuro non soffre di subalternità ideologica e men che meno psicologica», commentava ieri un diplomatico di lungo corso al termine del vertice Ue di Bruxelles, il primo di Matteo Renzi l'Europeo. Nella due giorni del summit e prima negli incontri di Berlino e Parigi, l'interessato del resto ha fatto di tutto per presentarsi come il giovane premier italiano ed europeista che cavalca l'Europa per addomesticarla e migliorarla, di sicuro non per subirla in modo supino.

L'approccio è nuovo. Smentisce in modo clamoroso quello fideistico, quasi clericale, con il quale tradizionalmente (salvo rare eccezioni) i politici italiani si sono abbeverati al verbo europeo. Anche se più in sintonia con la nuova Europa che avanza, l'atteggiamento sorprende e sconcerta chi in Europa era abituato a trattare con un'Italia indisciplinata ma mite, prigioniera di complessi di inferiorità che facevano anche comodo a molti.

Renzi no. La sua Italia non sarà più, l'ha ripetuto ancora ieri, quella che si presenterà a Bruxelles con il cappello in mano, a prendere ordini e a sottoporsi a commissioni d'esame. E se è vero che oggi si ritrova a pagare per i debiti del passato, è ancora più vero, dice il premier, che ora intende pagare per i debiti del futuro, che sono crescita, occupazione, scuola e innovazione.

Parole. Un uragano di parole. Di promesse. Di meraviglie riformiste da realizzare in fretta. Musica per le orecchie dei suoi interlocutori, soprattutto per la Germania di Angela Merkel che non vorrebbe altro per cominciare a dormire sonni più tranquilli sulle sorti dell'eurozona e della sua terza economia anchilosata da gravi disfunzioni strutturali.

Parole convincenti? Se sulle riforme l'Europa attende il premier al varco dei fatti prima di pronunciarsi, sui conti pubblici lo segue con malcelata preoccupazione: avverte un profumo di eresia, di intolleranza alla disciplina. Di qui il sospetto che forse i numeri non tornino con rischi di manovre correttive e mancanza di coperture sufficienti per fare le promesse riforme, nonostante le rassicurazioni in contrario.

Rispetto del vincolo del 3% per il deficit? No, ni, sì, però… Flessibilità nell'utilizzo dei margini di bilancio al di sotto della soglia? Sì sacrosanto, beh forse, vedremo, aspettiamo il Dep… Fondi strutturali Ue per oltre 12 miliardi a rischio (perché non ancora spesi, N.d.R.)? Va trovata una soluzione ai meccanismi burocratici, l'Italia è un contribuente netto del bilancio Ue, non può perdere gli aiuti perché i cofinanziamenti nazionali sono bloccati dal patto di stabilità... Fiscal compact, che dal 2016 ci imporrà di tagliare il debito pubblico di oltre 45 miliardi all'anno? E' un impegno preso, lo confermiamo però i soldi vanno usati per pagare il futuro, non il passato...
Indicazioni contraddittorie, messaggi ondivaghi che suscitano sgradevoli incertezze e diffidenze nei partner che in passato sono già inciampati nelle "furbizie" nostrane risoltesi a nostro danno e che sono anche gli stessi che dovranno decidere se darci o no fiducia, se renderci o no un po' meno rigida la gabbia delle regole Ue nella quale ci troviamo.
Per incassare dividendi sicuri, la novità Renzi dovrebbe fare esattamente il contrario: capovolgere la sensazione europea della solita Italia all'arrembaggio confuso e disordinato dei codici di condotta di un'Europa che invece con la crisi si è data regole sempre più ordinate, precise e invasive.

Per questo i famosi compiti a casa restano il banco di prova ineludibile, la vera discriminante che plasmerà il nostro rapporto con l'Europa. Solo dopo averli fatti, i compiti, si potrà cominciare a discettare, anche a ragione, sui patti «anacronistici», sulla senilità di un'Europa indubbiamente sclerotica in molte giunture e non abbastanza flessibile nell'abbraccio con l'economia globale e le sue sfide.
Non sarà però con l'illusionismo, risanatore o riformatore che sia, che si riuscirà a ricostruire immagine e ruolo dell'Italia in Europa. Solo con risultati inoppugnabili alla mano Renzi potrà recuperarne la credibilità. E solo così farà davvero l'interesse delle famiglie italiane di cui si preoccupa. Quell'interesse si chiama sviluppo, lavoro, fiducia nel futuro.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-22/i-compiti-casa-restano-prova-ineludibile-081611.shtml?uuid=ABawzr4


Titolo: Adriana Cerretelli Se la fine di Atene è la fine dell’euro
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2015, 11:08:28 am
Se la fine di Atene è la fine dell’euro

Di Adriana Cerretelli 23 Aprile 2015

Prima, a distrarre l’attenzione generale, era la crisi russo-ucraina all’apice della sua violenza. Ora è la crisi dell’immigrazione incontrollata che si rovescia sulle coste europee. Nessuno contesta gravità e pericoli di entrambe per la futura stabilità dell’Europa. Piano piano e senza fracasso, però, la terza crisi del momento, quella greca, potenzialmente la più devastante nell’immediato, scivola verso l’abisso.

Ormai a Bruxelles e dintorni se ne parla come di un fatto acquisito, una strada senza uscita. «Il quadro giuridico non permette di soccorrere la Grecia» afferma un negoziatore. Forse che c’era, quel quadro, ai tempi dei precedenti salvataggi di Atene? I Trattati Ue li vietavano. Eppure alla fine il Fondo salva-Stati fu fatto e la Bce si mosse per soffocare l’incendio speculativo che divorava l’euro.

Oggi si respira rassegnazione. Come se volesse dissociarsi da una decisione che, se ci sarà, sarà tutta e soltanto sua, l’Europa si mette in lutto preventivo. Aspettando il peggio, i funerali di Atene. «I greci non sono seri, il governo Tsipras non offre niente di concreto. Impossibile aiutarli», si insiste. Ma proprio lunedì il governo ha approvato il decreto per rastrellare fondi dalle casse di comuni ed enti locali, più di 1,5 miliardi, per pagare stipendi, pensioni e creditori. Si fa così anche in Olanda, l’avrebbero rassicurato i “mentori” Ue. Ma la Grecia è in piazza per gridare di nuovo «basta austerità».
 
Basta? La vulgata vuole che il Paese abbia incassato gli aiuti senza pagarne lo scotto. Le cifre smentiscono tra il 2008 e il 2013 il Pil greco è sceso del 27%, la spesa pubblica reale del 35%, i disoccupati sono arrivati al 28%. Il deficit strutturale è calato del 20% del Pil tra 2009 e 2014, il bilancio primario del 12%, come il disavanzo dei conti correnti. Sforzo irrilevante? Ancora insufficiente? Tutto positivo, visto il raddoppio del debito malgrado la parziale ristrutturazione?

Altro leitmotiv. Non si possono fare sconti alla Grecia che non collabora: sarebbe un regalo ai partiti populisti e uno schiaffo ai governi dei sacrifici.

Allora perché la Francia è stata appena risparmiata da una multa da circa 4 miliardi che avrebbe dovuto pagare per non aver rispettato il tetto del 3% di deficit negli ultimi otto anni, gli stessi del calvario greco? Nonostante la grazia ricevuta, Parigi ora rifiuta di fare i tagli strutturali richiesti, li riduce quasi a metà «per non compromettere la ripresa». In questo caso nessuno insorge né richiama l’intangibilità delle regole Ue, i patti da rispettare.

Come si fa a chiudere gli occhi davanti a un Paese grande ricco e arrogante e a infierire su uno povero e allo stremo anche per l’eccesso di sacrifici che gli è stato imposto? Come si giustifica la Caienna delle regole per alcuni e la flessibilità per altri?

La Grecia è testardamente indisciplinata, si ripete. La Francia no? Eppure continua a godere di spread e tassi “tedeschi” che non merita. Sì, ma se crolla la Francia crollano l’euro e l’Europa, se cade la Grecia non succederà quasi niente, Grecia esclusa. Questa l'ultima verità rivelata ma niente lo prova. Al contrario. Dopo 13 anni di vita, la gracilità politica e di consensi dell’euro potrebbe riservare pessime sorprese a democrazie in balia dei sondaggi quotidiani, prive di cultura e sensibilità europee, guidate da leader nazionali incapaci di guardare oltre gli ostacoli, se non fa loro comodo. Ampiamente dotati però del coraggio dell’irresponsabilità collegiale.

A loro difesa sventolano l’alibi dell’irresponsabilità della Grecia insolvente. La Grecia, 2% del Pil dell’euro e 3% del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si sa da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino, affonderà dunque nel marasma più nero. Ma prima o poi, complice l’interdipendenza, quell’atto di incoscienza collettiva ricadrà su euro ed Europa. Non sarebbe meglio una sana Realpolitik, meno costosa per tutti?

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-04-23/se-fine-atene-e-fine-dell-euro-071419.shtml?uuid=ABj4s2TD


Titolo: Adriana CERRETELLI L’Europa del cinismo
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2015, 05:22:47 pm
L’Europa del cinismo

Di Adriana Cerretelli
Martedì 21 Aprile 2015

Nonostante ami proclamarsi campione mondiale della difesa dei diritti umani e si fregi con orgoglio del premio Nobel per la pace, l’Europa non è facile alla compassione. Ancora meno alla solidarietà. Quando nell’estate del 2013 il siriano Bashar Assad rovesciò armi chimiche sui propri civili presunti ribelli, rumoreggiò immediato lo sdegno ma poi i Governi Ue preferirono voltare la testa. L’anno scorso nel Mediterraneo sono morti 3.200 emigranti senza sortire reazioni degne di nota in fatto di concrete azioni comuni.

Con buona pace di allarmi, proteste e sollecitazioni italiane.
Il 2015 però è cominciato con due violenti pugni nello stomaco all’Europa dell’indifferenza e dell’inazione. Prima a Parigi l’attacco del terrorismo islamico alla sede di Charlie Hebdo: 12 morti, una grandiosa manifestazione che ha raccolto 2 milioni di persone sugli Champs Elysées e poi un vertice Ue fatto di tanti buoni propositi e promesse di maggiore cooperazione intra-Ue. Si vedrà.

Ora l’annegamento in un solo week-end di 900 emigranti davanti alle coste libiche, 1.800 dall’inizio dell’anno. A fronte di 24mila arrivi e 10mila salvataggi riusciti. «È in gioco la reputazione dell’Europa. Non si può avere un’emergenza europea e una risposta solo italiana», avverte da Lussemburgo il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ricordando che dei 278mila irregolari residenti attualmente nella Ue, 171mila sono entrati dall’Italia.

Dopodomani a Bruxelles si terrà, come chiesto dall’Italia, un vertice straordinario sull’immigrazione dei 28 leader Ue. Di nuovo tante promesse e pochi fatti? Forse no. Questa volta, pare, l’Europa s’è desta davvero. Schiacciata dalla forza di numeri e di interessi che sembrano far breccia nel suo coriaceo cinismo.

Dopo aver pubblicamente “criminalizzato” Mare Nostrum per attivismo nei salvataggi, equiparato a un invito a delinquere per i trafficanti di esseri umani, ora la Germania e i suoi alleati del Nord e dell’Est fanno marcia indietro. Riconoscono che, all’evidenza, la fine della costosa operazione italiana, cui è subentrata in novembre l’europea Triton in formato ridotto e bilancio pari a un terzo, ha reso più incerti i controlli della frontiera mediterranea.

Dunque si parla di raddoppiarne i fondi. Si pensa a una più equa distribuzione degli immigrati che richiedono asilo insieme alla creazione di campi ad hoc in Medio Oriente e NordAfrica per evitarne viaggi suicidi. Si discute su come affrontare il teorema impossibile del crocevia libico.

Finalmente, insomma, saremmo a una svolta epocale, con l’instabilità del Mediterraneo destinata a diventare quello che è: un problema di tutti e non di pochi. Anche perché, con un reddito medio pro capite 30 volte superiore a quello della maggioranza dei Paesi africani, cioè con un divario 10 volte più grande di quello che divide Stati Uniti e Messico, l’Europa resta e resterà una calamita irresistibile per i più poveri.

In attesa di decisioni concrete, il condizionale è d’obbligo. La pressione migratoria è enorme e destinata a salire tra guerre, caos e terrorismo che infiammano il bacino mediterraneo e oltre. Ma almeno altrettanto condizionante – e paralizzante - per i Governi è la pressione anti-immigrazione, non importa se legale o no, che scuote tutti i paesi da Nord a Sud, Svezia, Finlandia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, rafforzando i partiti populisti e euroscettici.

Il che non aiuta né maggiori investimenti nella stabilità del Mediterraneo né la spartizione degli immigrati magari per quote, tanto più quando è impossibile prevederne i flussi ma poi è perfettamente lecita, una volta accolti, la loro libera circolazione nell’Unione. Lo stesso vale per la Libia: intervento militare escluso ma alternative nebulose.

All’Europa non basta, dunque, aver capito che la normalizzazione del Mediterraneo è un interesse primario che non può più ignorare. Resta il grande punto interrogativo sui tempi e modi per arrivarci con l’approccio comune che serve.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-04-21/l-europa-cinismo-072606.shtml?uuid=ABVyLrSD


Titolo: Adriana CERRETELLI L’Europa eviti il suicidio collettivo
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 04:53:38 pm
L’Europa eviti il suicidio collettivo

Di Adriana Cerretelli
Lunedì 06 Luglio 2015

Molto più che la vittoria netta di Alexis Tsipras è la sconfitta bruciante e clamorosa dell’Europa e dell’eurozona. Uno shock che alla lunga potrebbe avere conseguenze ancora più devastanti di quello che, esattamente dieci anni fa, vide a sorpresa Francia e Olanda bocciare per referendum il progetto di Costituzione europea e di lì scattare la silenziosa ma inarrestata involuzione intergovernativa dell’Unione.

Guerra psicologica e aperte intimidazioni da Bruxelles e dintorni paradossalmente non sono bastate ad addomesticare un popolo, quello greco, furiosamente filo-europeista e filo-euro (80%) ma prostrato da un durissimo quinquennio di austerità. Che, nelle intenzioni dei creditori, dovrebbe continuare ancora a lungo ma senza, almeno finora, nessun sollievo sul fronte di un debito ritenuto da tutti insostenibile.

Il 61% dei greci ieri ha detto no al rigore senza remissione. Ma non ha detto no all’euro e men che meno all’Europa.

Sono gli europei che fin dal principio hanno forzato un’equazione inesistente, non prevista dai Trattati ma accarezzata con convinzione da chi, e sono molti, considera la Grecia e il suo risanamento una partita persa, il governo attuale semplicemente insopportabile, le sue richieste inaccettabili perché ne scatenerebbero subito altre, e per questo vede Grexit come la liberazione: indolore politicamente perché Tsipras ora l’avrebbe, sostengono, servita su un piatto d’argento e finanziariamente perché l’avvenuto rafforzamento della governance dell’euro combinato con l’arsenale di misure della Bce ne consentirebbe la salvaguardia senza costi né traumi eccessivi. Anzi, divorzio prezioso per fare la moneta unica più forte e coesa.

Illusioni. Mai in passato le secessioni dalle politiche comuni (difesa, immigrazione, giustizia, sociale, moneta), pretese da Irlanda, Gran Bretagna, Danimarca, Svezia tanto per citare qualche nome, ne hanno corroborato il successo. Al contrario, nella migliore delle ipotesi, ne hanno complicato l’attuazione e danneggiato l’efficacia.

Integrità e irreversibilità fanno parte del Dna dell'euro. Che non contempla espulsioni, più o meno ben mascherate. Per questo Grexit equivarrebbe a un suicidio collettivo. Presto, forse già oggi, potrebbe rivelarsi incontrollabile il ballo delle Borse e degli spread sui mercati. E i primi a soffrirne potrebbero essere i Paesi più deboli come Portogallo, Spagna e Italia, come sempre a vantaggio dei più forti.

Questa volta gli investitori potrebbero però mostrarsi severi con l’intera area per comprovata incapacità, in 5 mesi di negoziati, di regolare un problema minore come quello greco (2% del Pil, 3% del debito): cosa succederebbe domani, si chiederebbero, se il problema diventasse portoghese, spagnolo o italiano? O addirittura francese?

Facile da pilotare cominciando ad abbandonare le banche greche al collasso in cui già si trovano, Grexit rischierebbe di trasformarsi in un enorme boomerang per l’Europa: e non solo perché, in un momento di insicurezze generalizzate dentro e fuori dalle sue frontiere, scaricherebbe un Paese di importanza geo-politica non marginale. Non solo perché, oltre a destabilizzare se stessa oscurando il proprio futuro, esporterebbe instabilità nell’economia mondiale fragilizzando una ripresa che non riesce a irrobustirsi.

Ma anche e soprattutto perché si accanirebbe contro un partner e un popolo che hanno avuto il torto di esprimere dissenso da regole e politiche che, anche quando applicate nel modo più serio e rigoroso, finora hanno prodotto encomiabili virtù di bilancio ma non altrettante virtù di sviluppo economico.

Se anche la Germania, l’indiscusso campione europeo, cresce poco sopra l’1%, forse sarebbe opportuna qualche autocritica, il ripensamento del modello europeo, dei suoi parametri e delle sue regole e dei suoi tabù per metterlo al passo con economia e competitori globali, per dargli quella spinta che da sole le riforme strutturali, la modernizzazione di sistema non bastano a imprimergli. Ci vuole la volontà politica di stare insieme senza ambiguità e senza retro-pensieri. Ma oggi più che mai ci vuole lungimiranza, la fine dei dogmi intoccabili, una nuova dottrina europea coraggiosa e innovativa. Non la rottura dei negoziati con Atene.

Invece, quando Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, avverte il governo che l’uscita della Grecia potrebbe costare miliardi al bilancio tedesco in pareggio, perché i profitti della Buba che vi confluiscono risentirebbero in negativo dei costi dell’operazione, illustra in modo esemplare quanto troppo ci si concentri, nell’Europa che conta e decide, sugli interessi particolari, sia pure importanti, perdendo di vista l’interesse generale.

Grexit non può essere ridotta a una mera partita contabile. Atene è le radici, la storia, la cultura, la democrazia europea. L’Europa non si può dimenticare un pezzo fondamentale della sua identità. Adesso sarebbe ora che la Grecia facesse altrettanto.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-07-06/l-europa-eviti-suicidio-collettivo-070324.shtml?uuid=ACiY2WM


Titolo: Adriana CERRETELLI Grexit, il veleno dei luoghi comuni
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 06:12:44 pm
Grexit, il veleno dei luoghi comuni

Di Adriana Cerretelli
10 luglio 2015Commenti (2)

Greci: cinici, bari, irrecuperabili. Tedeschi (e nordici): modelli di virtù, vittime innocenti, ingiustamente condannate a pagare i debiti altrui.

Se questa è Europa, meglio un taglio netto, Grexit e un nuovo euro, questa volta quello dei migliori.

Questo sillogismo è l'alibi morale che domenica a Bruxelles fornirà la giustificazione ai 28 capi di Governo dell'Unione per decretare con sollievo la cacciata della Grecia e la sua inevitabile discesa agli inferi. A meno che un piano credibile di riforme del Governo Tsipras, le dissuasive pressioni americane e lo scoppio della bolla cinese con i rischi di contagio globale che si porta dietro, non facciano il miracolo di riportare l'Europa alla ragione convincendola a non farsi del male da sola.

Ma davvero le semplificazioni manichee, il trionfo di apodittici luoghi comuni, che oggi guidano gli assalti dei partiti anti-sistema come la paludata propaganda dei partiti “perbene”, offrono un quadro onesto e veritiero della realtà europea? Quando si afferma che la Germania paga troppo per un euro inquinato dalla presenza greca e i suoi cittadini soffrono troppo per i bassi tassi che deprimono conti e risparmi, si tace sui benefici, 90 miliardi, che quei tassi fruttano alle casse dello Stato e all'orgoglio tedesco del pareggio di bilancio per il secondo anno consecutivo. Per non dire dei vantaggi competitivi per le loro imprese.

Quando si decantano le virtù dell'economia e delle riforme tedesche, precisa Gerhard Schick, economista e deputato verde al Bundestag, si trascurano due cose: mini-tassi, cambio favorevole e prezzi in discesa sono i tre shock positivi incassati per inerzia dalla nostra economia con il semplice passaggio dal marco all'euro. Le riforme invece hanno perso slancio: una crescita media che da anni oscilla intorno all'1% non esprime dinamismo. Vivacchia. La Germania ha urgente bisogno di cambiare, continua Schick in un incontro alla think tank Bruegel. «Deve ristrutturare il debito dei governi regionali e locali dove, usiamo ripetere in Germania, la Grecia non è così lontana. Deve migliorare l'efficienza dell'erario, visto che ogni anno perdiamo 10 miliardi di entrate fiscali per evasione, e semplificare il sistema Iva».

Non è uno scherzo né uno scambio inconsulto di paese: ironicamente alcuni problemi da risolvere sono gli stessi in Grecia e in Germania. Però la Grecia è irrecuperabile, ricattatrice, diversa da tutti gli altri paesi mediterranei, sbagliato ammetterla nell'euro: «C'è stato un tempo in cui si diceva lo stesso di noi, che non avremmo mai potuto diventare democratici», ricorda Schick. C'è stato anche un tempo in cui il Trattato di Versailles impose alla Germania oneri insostenibili creando risentimenti nazionali che sfociarono nella II guerra mondiale. Ma un altro in cui, era il 1953, le fu rimesso il 60% dei debiti e fu la ricostruzione.

Possibile che chi porta sulla pelle i segni delle ferite inflitte da eccessi, vendette e stupidità altrui non li conosca abbastanza da evitarli? E che chi ha conosciuto anche una solidarietà generosa e decisiva per il suo futuro non sia in grado di uscire dagli schemi contabil-punitivi per abbracciare con la Grecia la stessa logica di riconciliazione che ha fatto la pace e la prosperità dell'Europa nel dopoguerra? Già, ma i greci barano, non rispettano le regole. Le prime a rompere il patto di stabilità nel 2003 furono Francia e Germania. «Eravamo nella stessa situazione dei greci, dovevamo scegliere tra riforme strutturali e obblighi europei di risparmio. Nemmeno noi saremmo stati in grado politicamente di reggere il processo di riforma facendo più risparmi.

Scegliemmo le riforme, lo rifarei anche oggi» ricorda Joschka Fisher, ministro degli Esteri dell'allora Governo Schroeder. La Francia invece ha continuato a violare le regole anti-deficit fino a incorrere nelle multe, che le sono state però risparmiate con spregiudicate contorsioni interpretative. In nome del superiore interesse europeo. Perché nessuna grazia alla Grecia, a dispetto dei cattivi e disinibiti maestri? Il Governo Tsipras è inaffidabile, i greci fannulloni, evasori e truffaldini, lo Stato inesistente, dice la martellante vulgata imperante. Vero? In parte sì. Nel 2014 però la Grecia ha ridotto del 10,7% la spesa pubblica (in Italia è salita dello 0,2), il più alto taglio Ue.

Negli ultimi 5 anni il saldo di bilancio strutturale è migliorato di 20 punti, quello della bilancia corrente di 16. Ma il debito è schizzato dal 120 al 180 %, complice una recessione paurosa figlia della Troika. I Governi precedenti però hanno rispettato solo il 30% degli impegni presi. Ora invece da quello di Tsipras se ne pretende l'attuazione “blindata” del 100% come pre-condizione alla concessione di nuovi aiuti. Perché? Tsipras non appartiene all'establishment politico europeo, è un leader di estrema sinistra che tra i tanti ha il torto di contestare il pensiero unico dominante in nome di una politica di crescita che renda sostenibili i debiti e restituisca fiducia e futuro alla Grecia come all'Europa. Grexit sarà indolore ma esemplare e ricompatterà l'euro: l'ultimo luogo comune di questa vigilia. Finanziariamente è tutto da dimostrare, come economicamente. Gli americani giurano che sarebbe la “Lehman 2” dell'economia mondiale. Politicamente sarebbe il disastro: l'Europa fondata sulla paura è un cemento inconciliabile con la democrazia.

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Titolo: Adriana CERRETELLI I pericoli sottovalutati dell’Europa dei diktat
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2015, 05:48:00 pm
I pericoli sottovalutati dell’Europa dei diktat

Di Adriana Cerretelli con un commento di Carlo Bastasin13 Luglio 2015

Una volta gli ultimatum si davano al nemico per dargli la scelta tra guerra e capitolazione. In Europa la pratica era caduta in disuso negli ultimi 70 anni. Evidentemente mai niente è definitivo. Oggi in un contesto diverso, l’Eurozona, tornano i diktat senza i cannoni e sono diretti ai partner, che in genere è difficile assimilare alla categoria dei nemici.

Doveva essere, quello di ieri a Bruxelles, l’ultimo vertice dei 19 capi di governo dell’euro sul caso Grecia. Doveva essere il teatro dell’accordo per dare il via ai negoziati per il terzo salvataggio del Paese in cambio di nuovo rigore e riforme, dopo che Alexis Tsipras era andato a Canossa coprendosi la testa di cenere e accettando di capitolare di fronte a tutte le richieste dei creditori, anzi offrendo anche qualcosa di più per porre fine all’asfissia finanziaria del Paese. Invece del vertice della ricucitura è diventato quello dei diktat.

    Se si spezza l’asse Berlino-Parigi
I partner (?) hanno dato tre giorni, per l’esattezza 72 ore, ad Atene per ottenere l’approvazione parlamentare di 1) la riforma del sistema Iva con allargamento della base imponibile, 2) il miglioramento della sostenibilità del sistema pensionistico in vista di una riforma globale, 3) l’adozione di un Codice di Procedura civile per accelerare i processi e ridurne i costi, 4) la salvaguardia dell'indipendenza dell’Ufficio di Statistica, 5) la piena attuazione delle regole del Fiscal Compact con introduzione di tagli automatici alla spesa in caso di deviazioni dai target di surplus primario, previa approvazione della Troika, 6) la trasposizione della direttiva che regola il bail-in in caso di default delle banche.

Solo dopo il via libera vincolante a tutte queste misure, accompagnato dall’approvazione parlamentare anche di tutti gli altri impegni contenuti in un elenco di 4 pagine stilato dai ministri dell’Eurogruppo e presentato al vertice, «potrà essere presa la decisione di avviare i negoziati» per far fronte al fabbisogno greco calcolato in 82-86 miliardi, banche incluse. È previsto anche il conferimento in un Fondo indipendente, gestito dalle autorità elleniche sotto la supervisione della Troika, di beni greci per 50 miliardi da privatizzare per abbattere il debito.

«Qualora nessun accordo fosse raggiunto, alla Grecia si offrirà l’uscita dall’Eurozona, con possibile ristrutturazione del debito». L’aut aut è inequivocabile, le richieste quasi impossibili da soddisfare: da anni l’Europa rivendica invano quelle riforme che ora vuole tutte e subito. Tanto da legittimare il sospetto di una provocazione mirata a ottenere Grexit. Facendo ricadere su Atene la responsabilità politica.

«Non faremo un accordo a qualsiasi prezzo. In questi mesi è stata persa la moneta più importante, la fiducia» ha chiarito Angela Merkel entrando al vertice e smentendo contrasti con Wolfgang Schäuble, il suo ministro delle Finanze. «Faremo l’accordo se tutti lo vorranno davvero» ha risposto Tsipras.

Atmosfera di estrema tensione, i leader europei spaccati a metà, 50% a favore della cacciata di Atene, 50% contro. Da una parte il cancelliere, riconosciuto campione di ogni mediazione politica, questa volta meno incline a praticarla se non di fronte a un accordo-capestro con la Grecia blindato nell’esecuzione, difendibile al Bundenstag.

Dall’altra il presidente francese François Hollande, difensore stentoreo e determinato della permanenza della Grecia nell’euro in nome della sua irreversibilità. Sul collo l’ombra di Marine Le Pen e del suo Fronte Nazionale che, nello strappo ellenico, troverebbe la breccia per inseguire la diserzione della Francia, la fine della moneta unica e dell’Europa.

In mezzo un Paese con l’acqua alla gola che, nella migliore delle ipotesi, è destinato a finire sotto una soffocante tutela europea e non può permettersi il lusso di ribellarsi al tallone dei partner né alle loro condizioni draconiane. Salvo optare per la logica del tanto peggio tanto meglio. Che però alla fine può anche prevalere quando l’alternativa si riduce a scegliere tra peste o colera, comunque tra una disperazione o l’altra.

Ancora non si sa se il diktat dell’Eurogruppo, fotocopia perfetta della proposta tedesca presentata da Schäuble ai colleghi, sarà sottoscritto dai capi di governo dell’euro e firmato anche da Tsipras. I negoziati continuano...

Comunque finirà, la partita scriverà una pessima pagina della storia europea. La peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale. La Grecia ha le sue colpe e nessuno le nega. Ma i suoi interlocutori non sono senza peccato, Germania in testa. La Grecia però resta un dettaglio della storia europea, invece se ne è fatto un monumento inutile e dannoso alla causa collettiva. Dimenticando che oggi le priorità sono altre: crescita economica, sicurezza, consenso dei cittadini, un posto da protagonista nella competizione globale in difesa di una vecchia civiltà altrimenti condannata al declino.

Se alla fine sarà messa alla porta dalla furia punitiva del Nord con un accordo inaccettabile e se la Francia perderà la battaglia, la Grecia finirà malissimo ma per l’Europa e la Germania alla lunga andrà peggio. Nel mondo globale non si vince da soli né in pochi, nemmeno i più Grandi possono illudersi di riuscirci.

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Titolo: Adriana Cerretelli Il realismo dei mercati toglie alibi all’Europa
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 10, 2016, 12:18:11 pm
Il realismo dei mercati toglie alibi all’Europa

Di Adriana Cerretelli
9 Febbraio 2016

Tra la tragedia di Aleppo e quella di Atene corre un filo che rischia di scrivere la tragedia europea. Cinquantamila nuovi disperati in fuga da bombe e morte in Siria premono alle frontiere della Turchia. Si aggiungono ai 2,5 milioni che già vi risiedono, pronti a tentare la via del mare per raggiungere la Grecia e da qui risalire attraverso i Balcani verso il Nord dell’Unione.

Germania la meta preferita. Prostrata dalla crisi economico-finanziaria, da tensioni sociali e rigore senza fine in cambio degli aiuti europei per la sopravvivenza, la Grecia corre verso l’isolamento geo-politico. Ufficialmente tutti, governi e Commissione Ue, si sbracciano per negarlo ma i mercati li smentiscono spudoratamente.

Il crollo della Borsa di Atene ieri è un segnale inequivocabile della crisi di fiducia nel Paese e nel suo futuro europeo: fuori da Schengen e fuori dall’euro.

Dopo la pausa estiva, il rischio Grexit torna a colpire con carica doppia. Virtualmente letale. Ma la tempesta sui mercati non risparmia nessuno, tanto meno l’Italia.

Chi salverà la Grecia questa volta? E chi salverà l’Europa da se stessa?

Nel week-end i ministri degli Esteri Ue, insieme a quelli non–Ue dei Balcani, hanno discusso di rinforzi da inviare ai confine greco-macedone per sigillarlo chiudendo la strada ai profughi in arrivo da Sud.

La Macedonia ieri ha annunciato il raddoppio del reticolato di 30 chilometri che la separa dalla Grecia. Che dunque potrebbe diventare un immenso campo profughi abbandonato al proprio infausto destino tra l’indifferenza di chi continua a spacciarsi come partner ma si comporta altrimenti con l’alibi - come potrebbe mancare? - della comprovate lacune elleniche su controllo e gestione delle frontiere nazionali, che sono anche europee.

Ma chi oggi nell’Unione è a prova di reprimende su questo fronte?

«Presa in mezzo tra la crisi politica di Angela Merkel in Germania e le promesse, finora vacue, della Turchia di Tayyip Erdogan di limitare il flusso dei rifugiati, la Grecia potrebbe finire stritolata dalle altrui inadempienze più che dalle proprie.

Nel tentativo di rintuzzare in casa le crescenti contestazioni della sua politica della porta aperta e fermare il suo continuo calo di popolarità alla vigilia di tre importanti elezioni regionali, il cancelliere ieri è andato ad Ankara, per un secondo incontro con i turchi in meno di un mese, questa volta con in tasca tre miliardi sonanti di aiuti Ue.

Per ora la Turchia non sembra precipitarsi a fermare i flussi per fare un favore all’Unione: sono partiti in 900mila l’anno scorso riversandosi in Grecia per poi risalire verso la Germania. Né l’inverno ha finora rallentato le partenze.

Forse anche per questo Merkel e il premier turco hanno annunciato ieri che giovedì, alla riunione dei ministri della Difesa atlantici, chiederanno il supporto della Nato per sorvegliare l’Egeo.

Più passa il tempo nella sostanziale inazione e più la crisi rischia di sfuggire di mano. Insieme alla tenuta dell’Europa. Alla quale tutti, paradossalmente, chiedono concessioni, nazionali naturalmente.

La Merkel ne ha bisogno dall’Unione, dai sui vicini e dalla Nato per restare salda in sella. L’inglese David Cameron per evitare Brexit. Il francese Francois Hollande per tornare ad esistere politicamente. L’italiano Matteo Renzi per ottenere maggiori margini di manovra sul bilancio. Idem per Portogallo e Grecia, mentre la Spagna tenta tra mille difficoltà di formare il nuovo Governo. L’Austria rivendica 600 milioni per coprire i costi sostenuti per i rifugiati. I maggiori paesi dell’Est restano arroccati sul rifiuto di partecipare alla loro riallocazione.

Mancano otto giorni al nuovo vertice dei 28 leader dell’Unione: nessuno può permettersi il lusso di un fallimento ma le premesse di un successo oggi appaiono più che labili. La politica continua a ostentare impotenza di azione e di leadership. Economia e Borse ne risentono ma pagano anche incertezze e frenate in arrivo dal mondo globale. In questo panorama desolante quando il presidente della Bce Mario Draghi dà la scossa ai Governi su conti pubblici e riforme fa impeccabilmente il suo mestiere (troppo spesso invano).

E quando i governatori centrali di Francia e Germania insieme invocano maggiore integrazione dell’eurozona e un euro-ministro dell’Economia per promuovere la crescita economica a lungo termine, hanno ragione. Anche se tutti purtroppo in questo momento parlano all’Europa dell’irrealtà.

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Titolo: Adriana CERRETELLI Il rischio del patto tra due debolezze
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 23, 2016, 10:26:50 am
Il rischio del patto tra due debolezze

Di Adriana Cerretelli20 febbraio 2016

Sembrava, anzi alla vigilia molti lo davano per certo, che sarebbe stato tutto in discesa il vertice europeo anti-Brexit: quasi un atto notarile per apporre 28 firme in calce a un testo prenegoziato. Però, più l'appuntamento si avvicinava, più l'ottimismo facilone si dileguava, gli attriti tra Paesi membri si moltiplicavano fino alla drammatizzazione del “o la va o la spacca”, “adesso o mai più” che l'altro ieri ha aperto la riunione dei 28 leader dell'Unione. Un'altra giornata di trattative e infine ieri a tarda sera l'annuncio dell'accordo.

Che gli inglesi fossero negoziatori notoriamente coriacei lo si sapeva. L'Europa lo scoprì a sue spese ai tempi di Margaret Thatcher. E anche se forse oggi il Regno di sua Maestà non è più quello di allora, David Cameron nella partita si giocava la carriera: non poteva rientrare a Londra a mani semi-vuote e nemmeno con un'intesa troppo esile per sostenere al referendum l'urto con un un paese largamente euroscettico.

Per questo al di là del solito mantra da tutti condiviso, e tra l'altro ripescato dal laburista Tony Blair, sull'Unione meno burocratica, più semplice nelle regole e competitiva nelle politiche, Cameron voleva ben altro: un largo rimpatrio della sovranità nazionale su mercato unico, integrazione dei servizi finanziari e banche, libera circolazione dei lavoratori con benefici sociali al seguito. Pur non volendo aderire alla moneta unica, pretendeva poi di non subire la supremazia del blocco euro e ancora meno la pulsione dei partner verso «un'Unione sempre più stretta», come da Trattati Ue.

Di bizzarro in questa battaglia c'era che, tra clausole di opt-out e meccanismi Ue per le cooperazioni rafforzate, Londra da anni vive in auto-isolamento da molte politiche europee. È difficile quindi afferrare la vera sostanza delle sue attuali rivendicazioni: a meno di non credere che l'obiettivo non sia la difesa da presunte prevaricazioni altrui ma la conquista di un diritto di veto su ambizioni presenti e future dei partner. «Vogliono prendere il meglio dei due mondi senza mai pagare dazio», riassume un negoziatore europeo.

Ed è proprio questo sospetto che ha provocato la generale levata di scudi al vertice: se la Gran Bretagna voleva rimpatriare la propria sovranità, i suoi interlocutori non erano certo disposti a svendere la propria e neanche quella europea finora faticosamente costruita.
Era partito da qui un braccio di ferro interminabile, con la Francia di Hollande capofila del partito schierato a tutela degli interessi collettivi continentali, Germania e Italia comprese, non meno che di quelli nazionali : niente regali all'insularità britannica, che di mezzo ci sia la City, il codice europeo unico di regolamentazione bancaria (impossibile raddoppiarlo), l'integrità del mercato unico finanziario e non, la libertà europea di fare salti in avanti, con chi lo voglia, verso un'Unione sempre più compatta e coesa.

Meno netta invece l'opposizione alla richiesta inglese di limitare temporaneamente i benefici sociali per i lavoratori Ue. I 13 anni rivendicati da Londra ma bocciati senza appello dai Paesi dell'Est sono diventati 7. Se in questo caso Cameron ha incontrato meno resistenza in difesa del principio fondamentale della libera circolazione delle persone è perché altri Paesi, Danimarca in primis ma anche alcuni Laender tedeschi, intenderebbero copiarne il modello.

La verità è che oggi l'Europa prova a fare la voce grossa perché sa di giocarsi nel negoziato con gli inglesi la credibilità del suo progetto integrativo e un'identità esistenziale già messa a durissima prova da profonde divisioni e nazionalismi interni sempre più aggressivi. In realtà da tempo l'Europa è diventata molto più inglese di quanto non appaia a prima vista. Molto più liquida e meno governabile rispetto anche solo a dieci anni fa. Paradossalmente questa entità allo sbando e priva di collanti che accomunino, lenta nelle decisioni e scarsa di leadership ora che Angela Merkel traballa sotto il peso della politica di apertura ai profughi, dovrebbe piacere agli inglesi che dovranno decidere se uscirne o no. Invece sembra che in questo agglomerato confuso e anarcoide, che gioca a scaricabarile sui rifugiati, molti non vedano oggi l'interesse né l'utilità di restare.

Alla fine l'accordo è arrivato. Senza vincitori né vinti. Un patto tra debolezze contrapposte, comuni a chi vuole più Europa come a chi ne vuole meno. Forse non valeva la pena di spendere tanto tempo per cambiare qualcosa che non cambiasse quasi niente.

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Titolo: Adriana CERRETELLI La commozione non basta
Inserito da: Arlecchino - Marzo 23, 2016, 05:57:43 pm
La commozione non basta

Di Adriana Cerretelli
23 marzo 2016

Il solito festival europeo di emozioni, deprecazione generale e retorica solidaristica. Da Madrid a Londra, da Parigi a Bruxelles lo sghembo quadrilatero del terrore jihadista semina morti e feriti a centinaia, si allarga e non promette remissione. Al contrario. Ma il vero problema non sono loro, i kamikaze dell’Islam e chi gli sta dietro, li organizza e finanzia nell’ombra. Il vero problema siamo noi, le nostre società dal pianto facile ma brevissimo di fronte all’orrore della macelleria a ripetizione, delle città rese invivibili dalla paura del nichilismo di pochi: dura poco però, il tempo di dimenticare aspettando un nuovo attentato e ricominciare il ciclo sterile della commozione mordi e fuggi, seguita dalla semi-inazione che comunque ancora non riesce a essere davvero comune.

Intendiamoci: nessuno può condannare l’Europa perché ama il suo pacifico tran-tran, la sua relativamente grassa e comoda way of life, una rassicurante normalità quotidiana. Ma nessuno può illudersi sul terrorismo islamico: non ha alcuna intenzione di abbandonarci a breve.

Dunque basta rimozioni collettive: ci fanno solo male e non risolvono niente. Si limitano a evocare lo spettro di Monaco. Naturalmente le polemiche si sprecano in queste ore.

Bruxelles è un simbolo dell’Europa, il cuore delle sue istituzioni e della Nato, città ferita anche con la complicità della propria “belgitude”: 19 comuni, 19 corpi di polizia solo di recente ridotti a 6 ma malati di incomunicabilità tra loro, di connivenze con corruzione e malaffare, di patti indecenti con il mondo sommerso della delinquenza che spesso marcia indisturbata di conserva con le cellule del terrore. Bruxelles, la capitale europea che tra qualche anno rischia di ritrovarsi a maggioranza musulmana e già ospita il maggior numero di foreign fighters in un paese multilingue che perde identità nell'eccesso delle sue diversità. Del resto Bruxelles è anche la città da cui partì il kamikaze che il 9 settembre 2001, due giorni prima dell'attentato alle Torre Gemelle, uccise In Afghanistan Ahmad Massud, il Leone del Panshir eroe della resistenza anti-sovietica.

Belgio e Francia, due vicini che non si amano granché: a Parigi le barzellette sull'ottusità belga circolano quanto quelle sui carabinieri in Italia. Anche per questo dialogo e collaborazione tra intelligence e polizie non funziona molto.

In Europa non va meglio. Qualche passo avanti ma stentato: la sfiducia reciproca tra strutture giudiziarie e di tutela della sicurezza domina a tutto vantaggio dei terroristi. Il famoso PNR, il registro europeo dei passeggeri aerei ritenuto, non solo dagli americani, uno strumento di lotta decisivo, non riesce a vedere la luce. Come una seria politica europea integrata sulla sicurezza comune. Come un’efficace politica estera nella cintura delle crisi circostanti.

Tutto vero in queste polemiche, tutti pezzi di analisi ineccepibili dell'ennesima emergenza europea irrisolta. Anche se si tende sempre a parlare degli attentati che purtroppo ci sono stati, mai di quelli scongiurati: oltre 300 nel 2015 secondo i dati Europol. Segno tangibile che, dopo tutto, c'è anche qualcosa che funziona nell'Unione.

Ma il problema di fondo è un altro. I terroristi non sono degli alieni ma i vicini della porta accanto, quasi sempre con in tasca il nostro stesso passaporto. Anche per questo spesso imprendibili. Per combattere questa “guerra civile” su scala europea, che ne sfrutta abilmente le libertà senza frontiere, sono fondamentali nell'immediato banche-dati comuni e sistematici scambi di informazioni tra servizi e forze dell'ordine nel segno della fiducia reciproca, tutta da creare, per prevenire e reprimere gli attentati.

Ma quegli strumenti non servono per risolverla alla radice. Per riuscirci, e tanto più ora che si misura con la grande ondata dei rifugiati in maggioranza musulmani e per non condannarsi in prospettiva al disastro, l'Europa deve trasformare l'attuale scontro in un costruttivo incontro di civiltà. Basta ghetti o periferie off-limits per cominciare ma basta anche con le favole: l'Islam smetta di definirsi pacifico e noi di far finta di crederci. I moderati musulmani escano allo scoperto isolando davvero i loro figli degeneri.

E noi europei finiamola di rifugiarci nel relativismo culturale che divide e non aiuta a creare ponti. Riscopriamo con coerenza il valore dei valori fondamentali della nostra identità. Solo intavolando un dialogo tra pari, nella convinzione dei meriti dei rispettivi patrimoni culturali, l'Europa potrà scommettere su un futuro diverso e più ricco di opportunità. Pacificazione e integrazione sono sfide di lunga lena ma si deve cominciare adesso per realizzarle dopodomani. L'alternativa per la società europea è rassegnarsi a sopportare la compagnia del terrorismo.

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Titolo: Adriana CERRETELLI Se Berlino gioca col fuoco e «brucia» l’Europa
Inserito da: Arlecchino - Aprile 23, 2016, 12:10:49 pm
Se Berlino gioca col fuoco e «brucia» l’Europa

Di Adriana Cerretelli
22 Aprile 2016

Decisamente la Germania gioca con il fuoco quando prova a scaricare all’esterno, come fa in questi giorni, il peso delle sue tensioni e contraddizioni interne: quasi che l’outsourcing, inaugurato con l’emergenza rifugiati esportata in Turchia, non sia l’eccezione ma la nuova regola della sua politica europea.

Gioca con il fuoco perché le divisioni intra-europee sono sempre più solide, stabilità e riprese economica sempre più fragili e incerte. La supplenza di Mario Draghi da sola non può fare miracoli, tanto meno quando le sue scelte sono criticate ad alta voce dal maggiore azionista di riferimento, complicandone l’efficacia, erodendo la credibilità internazionale della Bce come istituzione europea forte e condivisa.

Il bersaglio è noto: l’indipendenza e la politica monetaria dell’Eurotower, i bassi tassi che assillano banche, assicurazioni e fondi pensione tedeschi, incoraggiano l’ascesa di movimenti populisti e anti-europei, in breve devastano gli equilibri politici ed economici del paese. Contro Mario Draghi in questi giorni sono partiti attacchi a raffica ma quello più velenoso (poi rimangiato) è arrivato da Wolfgang Schauble, il potente ministro delle Finanze.

Il presidente della Bce ieri ha rintuzzato tutte le accuse: il nostro mandato, ha puntualizzato, è perseguire la stabilità dei prezzi per tutta l’eurozona e non solo per la Germania, il mandato è stabilito dal Trattato costitutivo, noi obbediamo alla legge europea e non ai politici perché siamo indipendenti per statuto. Oggi il Consiglio è stato unanime nel difendere l’indipendenza della Bce e la scelta dell’attuale politica monetaria. Che del resto non è diversa da quelle attuate in gran parte del mondo. E funziona ma ha bisogno di tempo. «Certo, se ci fossero anche le riforme strutturali, gli effetti sarebbero più rapidi».

Draghi ha fatto un impeccabile richiamo all’ortodossia blindata nell’atto costitutivo dell’eurozona: la stessa ritenuta inviolabile dai tedeschi, evidentemente però se applicata agli altri.

Lo dimostrarono del resto nel 2003, quando decisero che il patto di stabilità andava loro stretto e quindi ne violarono le regole. Il sospetto che Berlino oggi sia tentata di ripercorrere quella strada nasce dalla fragorosa irruzione nel dibattito ieri anche di Angela Merkel, con frasi palesemente ambigue: «La Bce è indipendente nella gestione delle sue politiche, ha un mandato chiaro. Ma è legittimo che in Germania si discuta del fatto che ci sono stati tassi di interesse molto più alti. Questo non va confuso con l’interferenza nella politica indipendente della Bce, che io sostengo».

Una volta erano i presidenti francesi a lanciarsi in simili contorsioni semantiche per essere immancabilmente bacchettati dai tedeschi, che non a caso pretesero una Bce indipendente, proprio anche per evitare simili digressioni pubbliche sui livelli dei tassi ai massimi livelli politici.

Altri tempi. Altra Germania. Altra Europa, più equilibrata e coesa. Non l’attuale, rissoso condominio di separati in casa.

Oggi ad Amsterdam i ministri finanziari dell’Eurogruppo, presente come sempre Draghi, affronteranno tutti i nodi più spinosi dell’Eurozona: la crescita che stenta a irrobustirsi e alla lunga minaccia sostenibilità dei debiti pubblici e stabilità delle banche, la riluttanza dei Governi ad accelerare sulle riforme e della Germania a investire parte dei suoi surplus eccessivi nella ripresa dell’area, l’unione bancaria monca e il trattamento dei titoli sovrani nei bilanci degli istituti di credito, la semplificazione del patto di stabilità e la difficoltà di rispettarlo, la governance del futuro.

Gli scontri sono assicurati. Forse per l’occasione qualcuno potrebbe ricordare a Schäuble che è stato proprio il suo gran rifiuto a praticare una politica economica più attiva e dinamica in Germania e in Europa ad aver implicitamente affidato alla Bce il complito di supplirvi con una politica monetaria espansiva e la mutualizzazione mascherata dei rischi attraverso il suo bilancio (visto che quasi nessuno lo guarda).

O che è stato un policy-mix sbagliato, figlio di una indiscutibile dottrina tutta tedesca, a scaricare su Draghi il compito di rilanciare economia e inflazione con misure non ortodosse che ora a Berlino si criticano senza voler capire che non possono tutto, senza il fattivo contributo dei Governi.

Naturalmente le colpe dell’Europa piombata in una crisi a tutto tondo vanno equamente spartite tra tutti i suoi Stati membri. Ma proprio perché la crisi cominciata nel 2009 e tuttora irrisolta ne ha fatto il dominus incontrastato, ricade inevitabilmente sulla Germania il carico della maggiore responsabilità.

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Titolo: Adriana CERRETELLI Esorcismi finanziari ma la politica è senza scudo
Inserito da: Arlecchino - Giugno 18, 2016, 11:57:11 am
L’EDITORIALE

Esorcismi finanziari ma la politica è senza scudo

di Adriana Cerretelli - 17 giugno 2016

Non si vuole fare sorprendere, questa volta, l’Europa. E tanto meno soccombere a speculazione e isteria dei mercati. Per prevenire e al tempo stesso scoraggiare la grande paura di Brexit con la sua carica di destabilizzazioni al seguito, in queste ore e a tutti i livelli si stanno approntando gli strumenti dei più sofisticati esorcismi finanziari.

La mobilitazione è generale, coinvolge i Governi, con Bce e Fmi in prima linea. Ne hanno parlato ieri a Lussemburgo i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo nell’ultimo incontro prima del referendum inglese del 23 giugno, per concordare gli ultimi dettagli delle operazioni. E ribadire l’invito a restare.

Con una ripresa fragile, la deflazione in agguato, le Borse in altalenante discesa, la vulnerabilità del settore bancario, bund e simili in territorio negativo, di sicuro nessuno può permettersi di rischiare lo scontro a mani nude con uno shock finanziario incontrollato.

Sullo shock politico, altrettanto inevitabile in caso di divorzio ma non altrettanto immediato, per ora si preferisce invece glissare: scaramanzia, malriposto senso del pudore, confusione di idee e di intenti, banale incapacità di reagire a breve, impotenza consapevole, difficile dirlo.

Forse la scarsa voglia di guardarsi allo specchio, di provare a penetrare le ragioni profonde della propria crisi di identità e delle spinte centrifughe che alimenta, non viene da una scelta di vigliaccheria e disimpegno collettivo ma nasce da un soprassalto di lucidità, di spietato cinismo.

In questo momento l’Europa sa di non essere in grado di riaggregarsi ma solo di disaggregarsi: sempre meno la fiducia reciproca, la solidarietà e i minimi comuni denominatori, sempre più le crepe nella stabilità politica dei suoi Governi, più populismo, nazionalismo e euroscetticismo nelle sue democrazie provate da una lunga crisi economica e sociale. Meglio dunque non scavare troppo tra gli istinti perversi generali, affidarsi alla corrente degli eventi e aspettare (anche le elezioni francesi, olandesi e tedesche dell’anno prossimo) per non rischiare, con un precipitoso esercizio di volontarismo a tavolino, di rompere il giocattolo invece di ripararlo. O di provocare tragici gesti inconsulti, come quello che ieri a Londra ha falciato la prima vittima politica di Brexit e dell’intolleranza che alimenta.

Questa inedia europea per certi aspetti virtuosa, in quanto figlia della brutale constatazione dei propri limiti, trova la sua giustificazione anche nella sorda guerra interistituzionale che da troppo tempo tormenta l’Unione. I suoi cittadini non riescono più a percepire l’Europa come il gigante buono che distribuisce pace e benessere. La vedono piuttosto come un Moloch invasivo e troppo esigente. Con un gran paradosso: i loro Governi hanno un atteggiamento identico verso le istituzioni comuni, che pure essi stessi si sono dati e alle quali hanno delegato poteri esclusivi e indipendenti.

È questa sconcertante identificazione di sentimenti tra base e vertici, l’ansia generale di riappropriarsi della sovranità fin qui ceduta e comunitarizzata, a paralizzare l’Unione sfaldandola a poco a poco. “Brexizzandola” a prescindere, indipendentemente dal destino di Brexit.

Gli esempi, quasi quotidiani, si sprecano. Il più eclatante è il rapporto tempestoso tra la Bce di Mario Draghi e la Germania, con il primo costretto a rintuzzare gli attacchi della seconda sventolando i Trattati e la propria indipendenza per statuto. Meno vistoso ma anche più insidioso il rapporto tra Governi e una Commissione Ue che negli anni, a differenza della Bce, ha ceduto terreno, trasformandosi da organo di iniziativa legislativa e di mediazione tra posizioni e interessi nazionali conflittuali in istituzione subalterna, notaio della deriva intergovernativa europea.

Quando prova a rialzare la testa, come spesso avviene con la squadra Juncker, viene subito richiamata all’ordine. Accadde l’estate scorsa nel pieno di Grexit. E ora con le critiche aperte alla sua gestione interpretativa, troppo libera e politicizzata a detta di tedeschi e olandesi, del patto di stabilità. Mano troppo morbida con Spagna e Portogallo che non rispettano le regole anti-deficit. Con l’Italia su flessibilità e debito, come pure il Belgio, accusa a voce alta il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Meglio sostituirla con un organo indipendente che applichi automaticamente le regole, minacciano da tempo i tedeschi.

Non è solo il consenso: anche le strutture europee vanno dunque lentamente sfarinandosi nella complice distrazione dei più. Per questo gli ammortizzatori finanziari anti-Brexit oggi sono indispensabili ma non bastano: in assenza di quelli politici si limiteranno a tamponare i contraccolpi dell’ennesima crisi mal gestita, che andrà da aggiungersi all’arsenale europeo prossimo alla saturazione.

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Titolo: Adriana CERRETELLI L’Unione chiuda le sue crepe
Inserito da: Arlecchino - Luglio 01, 2016, 05:35:01 pm
L’Unione chiuda le sue crepe

  di Adriana Cerretelli
29 giugno 2016

Se è vero che in due giorni, dopo il sì alla Brexit, la sterlina è precipitata ai minimi da 30 anni, le Borse hanno bruciato una cifra pari al Pil del Belgio, alcune grandi banche meditano di partire dalla City privata del passaporto europeo, industrie del calibro di Toyota e Honda guardano altrove, gli investimenti languono, l'economia viaggia verso la frenata, è probabile che il passare del tempo e lo scontro con la realtà, per ora molto punitiva, raggeli molti entusiasmi nelle file dei separatisti.

Se il tempo, l'incertezza e i guasti evidenti potrebbero riportare gli inglesi con i piedi per terra e la lucidità ritrovata nella salvaguardia dei loro interessi nazionali, quello stesso tempo, le stesse incertezze e i guasti paralleli rischiano di mettere l'Europa dei 27 con le spalle al muro, in balia delle divisioni politiche interne ma, ancor più, degli assalti speculativi dei mercati, con il sistema bancario nel mirino e lo sguardo concentrato sui Paesi più vulnerabili, Italia in testa. A Bruxelles non ha riservato sorprese ieri sera, né qualcuno se lo aspettava, l'ultima cena di David Cameron a un vertice europeo.

Si sapeva già che notifica di Brexit e ricorso all’art. 50 del Trattato per avviare i negoziati sul divorzio, erano rimandati a settembre, all’arrivo del nuovo primo ministro e alla sua decisione. Non a caso a fine settembre, il 27, si terrà per discuterne il vertice informale dei 27 a Bratislava.

Tre mesi di attesa però possono essere un’eternità, quando l’incertezza dilaga offrendo occasioni insperate alla speculazione sui mercati, dove le banche da tempo denunciano fragilità diffuse e certo non hanno bisogno di nuove spallate: non a caso l’allarme di Mario Draghi sulla tenuta delle istituzioni finanziarie, come sull’impatto di Brexit sulla crescita economica dell’eurozona, è suonato forte e chiaro ieri al vertice. E ascoltato.

Tutto vogliono oggi i leader europei fuorché, nel bel mezzo della secessione britannica, una nuova estate bollente, il remake di quella del 2012 raffreddata alla fine dal famoso “whatever it takes” del presidente della Bce. Tutto vogliono fuorché vedere il settore bancario in tempesta in un’eurozona dove magagne, opacità, scheletri negli armadi non sono monopoli esclusivi di nessuno ma abbastanza distribuiti da eccitare gli appetiti di speculatori, all’assalto di un’unione bancaria europea ancora molto incompiuta, nonché le preoccupazioni dei governi.

Naturalmente tra i troppi crediti deteriorati e il grande carico di titoli di Stato accumulati nei bilanci, l’Italia resta, a torto o a ragione, il grande anello debole del sistema. O almeno questa è l’opinione dei mercati. Per questo la crisi va fermata prima che scoppi. E con tutti i mezzi. Se la si lasciasse scatenare, diventerebbe poi molto più difficile e costoso riportarla sotto controllo.

Ma questi tre mesi di apnea negoziale, potenzialmente devastanti sul fronte finanziario, potrebbero rivelarsi anche sul fronte politico una tregua avvelenata per l’Europa che cerca di reagire compatta alla sua prima devastante sconfitta storica ma stenta a mimetizzare ansie, dubbie e lacerazioni sulla linea da prendere in concreto con Londra.

Niente negoziati fino a che non sarà attivato l’art. 50: su questo punto tutti d’accordo. Il resto è caos e tensioni. Impazzano le polemiche contro la triplice tedesco-franco-italiana riunitasi a Berlino alla vigilia del vertice, contro le parziali declinazioni di partnership, dai 6 Paesi Fondatori alle incursioni della coppia franco-tedesca. C’è l’attacco ufficiale all’attuale assetto istituzionale comunitario.

I Paesi dell’Est chiedono la testa del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, caprio espiatorio da sacrificare sull’altare di Brexit, anche se non si capisce perché. La Polonia di Kaczinski va oltre e denuncia «il fallimento della visione europea del Trattato di Lisbona, all’origine dell’esplosione dell’euroscetticismo in Francia e Olanda». Il governo di Varsavia presenta un piano per elaborare un nuovo Trattato e «spostare il centro del potere istituzionale dalla Commissione agli Stati membri, cioè al Consiglio europeo» chiedendo anche le teste di Juncker e del polacco Donald Tusk.

La Polonia in realtà non inventa niente di nuovo, semplicemente esaspera il sistema intergovernativo che da tempo muove l’Unione. Segno dei tempi, come Brexit ha dimostrato, come annunciano i sommovimenti politici in Olanda e Francia e, in fondo, anche in Germania, che tutte andranno alle elezioni nel 2017, cioè nell’anno in cui dovrebbero cominciare i negoziati per Brexit.

Le manovre sugli assetti istituzionali futuri si incrociano con i disaccordi sui tempi del divorzio da accordare agli inglesi. Angela Merkel, il cauto pompiere europeo, non mette fretta, come i Paesi del Nord. Francia e Italia preferirebbero accorciare l’attesa, l’europarlamento minimizzarla.

Stamattina a Bruxelles ci sarà il primo vertice a 27, senza Londra. Tutte le crepe nella coesione europea rischiano di venire a galla. C’è da sperare che non impediscano di bloccare sul nascere i focolai di una crisi bancaria. L’Europa di oggi non ne ha proprio bisogno.

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    Adriana Cerretelli.

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Titolo: Adriana CERRETELLI L’accelerazione di Londra
Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2016, 12:09:27 pm
L’accelerazione di Londra

    –di Adriana Cerretelli 15 luglio 2016

I paralleli sono sempre antipatici e, a volte, sono anche sbagliati. Nel caso specifico lo shock è lo stesso, si chiama Brexit. I contraccolpi rischiano di essere devastanti per la maggioranza degli inglesi che l’hanno voluto come per l’Europa che lo subisce. Dal 23 giugno, il fatidico giorno del no, la reazione dei mercati è stata pesante per tutti, al di là e al di qua della Manica. Le convergenze finiscono qui.

La Gran Bretagna ha accelerato al massimo i tempi della risposta interna: dimissioni a raffica e quasi istantanee dei grandi protagonisti della scommessa referendaria, cambio di Governo in 20 giorni e ieri, 24 ore dopo il suo insediamento, l’annuncio di un prossimo cambio di passo della politica economica del Regno in predicato di divorzio dall’Unione.

Anche se ha deluso sull’immediata riduzione dei tassi, la Banca d’Inghilterra lascia intendere che si muoverà in agosto, quando potrà meglio valutare l’entità del rallentamento della crescita economica provocato da Brexit. Deciso ad agire di concerto con il governatore, il nuovo cancelliere della Scacchiere, Philip Hammond, preannuncia subito rottura con la strategia del predecessore: niente bilanci rettificativi o d’urgenza, invece frenata sulla politica di austerità.

«Visto che lasciamo l’Ue, dobbiamo farlo in modo da proteggere l’economia britannica»: in concreto, il processo di riduzione del deficit continuerà ma cambieranno «ritmo e parametri di riferimento».

In altre parole, per minimizzare i costi dell’abbandono, la politica monetaria ed economica inglese diventerà più espansiva, si allontanerà dal modello europeo per farsi più americana. Non che fin qui l’approccio di Londra sia stato in regolare sintonia con quello continentale. Tutt’altro. Solo che ora la spinta autonomista sembra destinata ad accentuarsi. Per provare a cavalcare con le mani completamente libere il mondo e la globalizzazione. Scavalcando la dimensione europea: però solo fino a un certo punto, visto che ieri Hammond ha contestualmente promesso di difendere a spada tratta gli interessi della City, assicurando alla florida industria finanziaria che vi è accasata l’accesso al mercato unico Ue, passaporto europeo compreso, cioè alla licenza che oggi consente a chi opera da Londra di poterlo fare su tutto il mercato europeo. Anche se l’Europa non pare affatto condividere e la Francia ha già detto no.

L’uscita della Gran Bretagna non arriverà prima del 2018, anche perché le elezioni dell’anno prossimo in Olanda, Francia e Germania non consentiranno di farlo prima. Però il Governo di Theresa May non perde tempo nell’indicare il nuovo corso. Perché, dice il suo cancelliere, «se c’è una cosa dannosa per l’economia è l’incertezza, la crisi di fiducia che scoraggia le imprese che vogliono investire, aprire nuovi impianti, creare lavoro».

Terremotata dallo stesso shock, con implicazioni anche più gravi per il contagio separatista che potrebbe portarsi dietro e il raffreddamento di una ripresa economica già piuttosto stentata, l’Europa per ora rifugge dal “nuovismo”, fedele alla strategia merkeliana del passo dopo passo, calibrato sullo scorrere degli eventi.

Brexit è stato il detonatore di una crisi bancaria europea con epicentro l’Italia? Va fermata subito però senza sconfessare le regole vigenti, piuttosto sfruttandone al massimo tutti gli spazi per ridurre al minimo destabilizzazione economica e finanziaria e impopolarità dell’Europa presso cittadini e risparmiatori.

È evidente che senza banche sane, liberate della zavorra delle sofferenze accumulate, l’economia non riesce a ripartire: gli enormi sforzi della Bce, finora poco premiati dai risultati, sono del resto la spia tangibile di una malattia che ha radici profonde quanto finora trascurate. È altrettanto evidente che una ripresa solida passa per riforme strutturali ben fatte, iniezioni di liberismo ed efficientismo all’inglese nonché per un rigore più temperato e convincente piani di investimento su scala continentale.

Sarebbe sbagliato però non riconoscere che da mesi, sia pure con calma (troppa), qualcosa si muove: le regole si fanno meno arcigne, gli spazi di manovra nazionale si ampliano, si afferma un approccio più ragionevole. Naturalmente ci vuol altro per muovere il pachiderma Europa afflitto da troppe crisi. Bisognerebbe anche agire in fretta perché più languono disoccupazione e insicurezze sociali e più prosperano i populismi, nazionalismi, euroscetticismi di ogni colore.

La Gran Bretagna si sta imbarcando nella sua solitaria rivoluzione copernicana con tempestività e il coraggio di reinventarsi cercandosi un nuovo posto al sole. Sarebbe ora che l’Europa provasse a imitarla un po’. La crescita economica non può più attendere. E nemmeno un nuovo ordine europeo.

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Titolo: Adriana Cerretelli - Alibi
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2016, 06:49:36 pm
Alibi
Di Adriana Cerretelli 25 ottobre 2016
Forse il Ceta non è morto ma ormai si aggira come uno zombie tra le macerie della politica commerciale europea.

Il gran rifiuto della Vallonia impedisce al Belgio di ratificare l’accordo di libero scambio tra Unione e Canada, quindi di raggiungere la necessaria approvazione unanime a 28. Quindi di tenere il previsto summit bilaterale che dopodomani a Bruxelles avrebbe dovuto apporre il sigillo conclusivo a 7 anni di negoziati difficili ma alla fine soddisfacenti per tutti.

Se non scaturisse dalle libere dinamiche delle regole europee e democratiche, sarebbe raccapricciante la fronda di un mini-parlamento regionale, rappresenta 3,5 milioni di persone, che impedisce a oltre mezzo miliardo di europei e a 35 milioni di canadesi di beneficiare dell’aumento del libero scambio.

Potrebbe perfino apparire una vicenda marginale, da non drammatizzare troppo perché prima o poi troverà una soluzione, magari entro l’anno, se non rischiasse di affondare, con la credibilità negoziale dell’Unione, un’intesa che ne accoglie quasi tutte le rivendicazioni e promette di potenziare del 20% l’interscambio e la crescita dell’economia di 12 miliardi di euro all’anno, 9 miliardi di dollari per il Canada. Numeri magici in questi tempi grami.

Potrebbe, se non fosse che è l’ultima espressione della “politica dei no” che sta sfiancando l’Unione senza pietà. La bocciatura della Vallonia arriva infatti dopo il no della Danimarca a una maggiore integrazione nella politica Ue degli Interni e della Giustizia. Dopo il no dell’Olanda, per referendum consultivo (votanti, 30% del totale), alla ratifica dell’accordo di associazione Ue-Ucraina già provvisoriamente in vigore. Dopo il no all’Unione degli inglesi, il più devastante.

«È in atto una rivoluzione democratica trainata da Internet che cambia la società, come a suo tempo la stampa. La politica deve cambiare, soprattutto quella europea, la più antiquata con le sue soluzioni anni ’70 per problemi anni ’50», commenta brutale un osservatore olandese.

Nella nuova metafisica del no, all'assalto di ogni ordine costituito, nazionale, europeo, globale, c'è dentro di tutto: insicurezze crescenti dei cittadini, paure del nuovo, del diverso, del più forte, del più competitivo, del futuro. C'è furore emotivo e trionfo dell'irrazionalità, spesso frutto di scarsa conoscenza o di abili manipolazioni esterne. In democrazia il consenso è ineludibile, non importa se spesso le società o loro agguerrite minoranze non sanno quel che si fanno quando votano contro il libero commercio e l'Europa, grandi motori di sviluppo e lavoro. O per i muri e l'arroccamento nazional-identitario.

«È un testo-marmellata, 300 pagine di Trattato, 3000 di annessi, 2 dichiarazioni interpretative e varie bilaterali» taglia corto il portavoce del parlamento vallone. Del Ceta non piace soprattutto l'ISDS, la clausola che crea un tribunale arbitrale permanente per risolvere le vertenze tra multinazionali e governi. L'ISDS oggi compare in 1.400 accordi commerciali bilaterali sottoscritti dai paesi Ue e in circa 3.000 nel mondo. In questo modo salterebbero gli standard sociali e ambientali europei, denuncia Paul Magnette, presidente della Vallonia e nuovo eroe anti-sistema che sogna, pare, di diventare premier del Belgio. In realtà il Ceta, si dice, ha la colpa di essere il fratello minore del Ttip, l'accordo con gli Usa in stand-by. Accusa pretestuosa. Il Ceta accetta tutto quello che il Ttip rifiuta: dazi industriali quasi tutti azzerati, mercato aperto per servizi e appalti pubblici a tutti i livelli di Governo, mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali, forte protezione per investimenti e ben 143 indicazioni geografiche Ue. Tutela dei diritti del lavoro e dell'ambiente. Evidentemente nelle democrazie europee in transizione più degli interessi concreti oggi conta il governo delle emozioni no global, che esprimono il disagio di società spesso abbandonate a se stesse o alle risposte sempliciste dei populismi di varia matrice. Magnette l'ha capito, cavalca l'onda perché sa di esprimere gli stessi malumori che agitano le società tedesche, francesi, austriache, italiane, etc. Se non riuscirà a tranquillizzare gli elettori risolvendo presto il trinomio impazzito democrazia-commercio-politiche comuni, difficilmente l'Europa potrà resistere al popolo dei suoi sempre più numerosi Signor No.

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Titolo: Adriana Cerretelli. Un pugno nello stomaco dell’Europa
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 24, 2017, 06:06:05 pm
Un pugno nello stomaco dell’Europa

Di Adriana Cerretelli

Sarà il pugno nello stomaco che servirà all’Europa per uscire dal suo autismo, ritrovare la volontà di esistere da protagonista smettendola di vivacchiare tra beata indifferenza, colpevole ignavia e metodica inazione nel nuovo mondo che le sta crollando addosso? Dovrà esserlo perché il 45° presidente degli Stati Uniti non le offre scelte alternative né scappatoie, semplicemente volta pagina e annuncia un nuovo ordine mondiale dove viene prima di tutto l’America, «di nuovo forte, sicura, prospera e orgogliosa», un’America patriottica, protezionista, revanscista e meno generosa con il resto del mondo.

Il primo documento della Casa Bianca di Trump
L’Europa è avvisata. Donald Trump farà sul serio. Sarà quasi certamente il salutare shock esterno che la costringerà a reagire al proprio quieto vivere e ai propri temporeggiamenti: a contarsi, riorganizzarsi e ricostruirsi su nuove architetture, nuove regole e nuovi Trattati. Del resto, ancora prima di approdare alla Casa Bianca, il neo presidente aveva provveduto a far piazza pulita di luoghi comuni, pilastri e certezze del Dopoguerra su cui per decenni l’Unione si è accomodata, convinta a torto della loro eternità.

Certo, la svolta americana la coglie nel momento peggiore, nel pieno di un anno elettorale importante, che vedrà alle urne Francia e Germania, i suoi pesi massimi, insieme a Olanda e forse anche Italia. Il 2017 si annuncia dunque come un anno perso: troppo rischioso prendere decisioni di respiro europeo in un’Unione che perde consensi popolari, dove democrazie e partiti tradizionali appaiono fragilizzati, i movimenti nazionalisti, euroscettici e anti-sistema hanno il vento in poppa.

Il gioco del surplace per altri 10-12 mesi rischia però di presentare all’Europa un conto salatissimo. Proibitivo? Se dovesse realizzare solo la metà delle promesse per far tornare grande l’America, il neo-presidente stravolgerà gli equilibri mondiali e l’Europa potrà a stare inerte a guardare solo a proprio rischio.

L’America e il popolo al primo posto
Di più. Trump ne ha pubblicamente stanato tutti i limiti e le debolezze, diventando di fatto la voce stentorea della sua cattiva coscienza, mettendola alle strette di fronte a se stessa e al mondo intero, davanti al quale oggi appare ancora più fragile e anche delegittimata: gli Stati Uniti sono il suo alleato storico e il principale partner economico (e viceversa), insieme fanno il 50% del Pil globale e un terzo degli scambi internazionali. Oggi però sono anche il maggiore critico.

Certo, smontare simili legami di interdipendenza costa a tutti ma, a meno che non provveda rapidamente a smentirlo con i fatti, Trump potrebbe essere tentato di giustificarsi dicendo che ormai l’Europa è un’entità inutile e inefficace, un peso morto più che un prezioso alter-ego, come una volta.

Per quanto approssimativa, la sua fotografia dell’Unione ne illumina i mali insieme agli incubi. Non gli basta infatti benedire Brexit e offrire a Londra un Trattato di libero scambio rafforzandone la posizione nei negoziati sul divorzio dall’Ue (non importa se l’accordo non è fattibile finchè gli inglesi sono nell’Unione). Trump va oltre evocando diserzioni future, mestando così nei torbidi di divisioni e spinte centrifughe europee, nelle crescenti difficoltà di integrazione e convivenza interna: dall’euro alla ripresa debole, crisi migratoria, terrorismo, sicurezza e difesa. Il tutto mentre la proiezione esterna si fa sempre più incerta e faticosa: dal Medio Oriente all’Africa, all’Est Europa con la Moldavia che ripudia l’intesa con l’Ue optando per la Russia e l’Ucraina che barcolla tradita.

Quando parla dell’Europa al servizio della Germania, Trump provoca ma dice mezze verità, toccando un altro nervo scoperto del club: per continuare a esistere, deve rafforzarsi e riformarsi al più presto ma non può poiché diffida di sé stesso, dei suoi soci (troppi?), dell’egemonia tedesca e dei suoi interlocutori deboli.

Se dice che la Nato è obsoleta esagera ma costringe l’Europa a fare quello che finora non ha mai voluto fare: assumersi più responsabilità e oneri finanziari per la difesa in un mondo, anche il suo, sempre più instabile, caotico e insicuro. E quando sembra flirtare con la Russia di Vladimir Putin, minacciandola di intendenza con lo storico antagonista, frusta la vulnerabilità europea, che riposa su una scelta di cinica pigrizia, anche ideologica, non di impotenza politico-strategica obbligata. L’elegia del protezionismo, invece, è un’arma a doppio taglio che alla lunga si ritorce su chi la usa.

È troppo presto per precipitarsi alle conclusioni, dando per scontato che su queste basi il rapporto transatlantico sia destinato a morire. Di sicuro, per resistere al ciclone Trump l’Europa dovrà cambiare, tornare a sua volta grande. Per molti aspetti parlare la sua stessa lingua. Ne sarà capace?

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    Adriana Cerretelli.

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Titolo: Adriana Cerretelli L’Italia e i baratti franco- tedeschi
Inserito da: Arlecchino - Luglio 16, 2017, 04:52:24 pm
L’Italia e i baratti franco- tedeschi

–di Adriana Cerretelli

Ancora non è chiaro se questa volta l’Europa salterà davvero il fosso per diventare quello che non riuscì ad essere a Maastricht e cioè un’unione economica e monetaria vera, preludio di un’unione politica inevitabile.

Non è chiaro perché nulla si muove, perlomeno alla luce del sole, in attesa delle elezioni tedesche del 24 settembre. E perché l’unione spuria e azzoppata nata 25 anni fa, combinata con la grande crisi partita nel 2008, si è allevata in seno tali e tante divergenze economiche, squilibri finanziari, conflittualità di interessi e mutua sfiducia da complicare non poco la ricerca di una dottrina e di un’ambizione condivisa.

Ma quando c’è volontà politica, gli ostacoli sono superabili. Se si aggiungono le molte pressioni esterne, da Stati Uniti, Russia o Cina poco importa, l’auto-ricostruzione diventa la scelta obbligata della sopravvivenza nell’era globale. Il ritorno della ripresa economica che si va consolidando, l’elezione in Francia dell’europeista Emmanuel Macron, le sue apparenti affinità elettive con la Germania di Angela Merkel creano le condizioni per poter sperare in una nuova svolta storica.

Le premesse ci sono tutte, il progetto invece va scritto e ben calibrato per farlo decollare davvero. Dietro le quinte fervono sondaggi e trattative informali. Una cena ieri sera a Bruxelles, in margine alla riunione dell’Eurogruppo, ha riunito intorno a un tavolo Wolfgang Schäuble, Bruno le Maire e Piercarlo Padoan, ministri finanziari di Germania, Francia e Italia, i tre maggiori azionisti dell’eurozona. Anche in vista del Consiglio di cooperazione franco-tedesco di domani a Parigi.

A fianco di Macron che al suo primo vertice Ue, il 23 giugno scorso, non faceva che martellare in modo quasi ossessivo sul ruolo cruciale e l’esclusiva del rapporto franco-tedesco come chiave di qualsiasi rilancio europeo, Merkel l’aveva subito corretto sottolineando il contributo di tutti i Paesi.

Le discussioni a tre di Bruxelles sono avvenute nello stesso spirito inclusivo che muove i tedeschi. Per diverse ragioni: non farsi intrappolare dai francesi nella logica del direttorio “uber alles”, che ha sempre il suo peso ma non lo stesso che aveva in passato nella piccola Unione; non eccitare le diffidenze di molti partner allergici allo strapotere tedesco (e francese, se tale sarà nei fatti).

Coinvolgere infine al massimo livello l’Italia, come a Maastricht, perché interlocutore e problema di rilievo. La sostenibilità del suo enorme debito pubblico e delle sue banche gravate dai crediti inesigibili, malattia peraltro diffusa in quasi tutta l’area, rappresenta infatti la garanzia ineludibile della futura stabilità dell’euro. Per questo, tra l’altro, l'offensiva di Matteo Renzi contro Fiscal compact e regole Ue anti-deficit non fanno l’interesse del Paese ma lo danneggiano indebolendone una volta di più la reputazione di Paese maturo e, soprattutto, affidabile. La questione italiana e la sua evoluzione saranno dirimenti per il futuro dell’eurozona e ancora di più per il posto che l’Italia occuperà nell’organigramma della nuova Europa. Tanto più che non si sa quale piega prenderà, alla fine, l’intesa franco-tedesca e quindi l’assetto futuro dell’eurozona.

Macron ha messo le carte in tavola. Il suo polo economico dell’Uem, da affiancare a quello monetario, passa per la creazione di un ministro delle Finanze e di un bilancio dell’eurozona, con funzioni l’uno di coordinamento delle politiche economiche in chiave di rilancio dello sviluppo e l’altro di volano degli investimenti e camera di compensazione in caso di shock asimmetrici. In sintesi, più crescita, meno rigore, solidarietà nella stabilità.

I tedeschi, che vogliono la riforma dell’eurozona e per farla hanno bisogno della Francia ma diffidano, come sempre, delle sue vere intenzioni visto che in quasi un decennio non si è mai premurata di rispettare il tetto del 3% per il deficit, prima di muoversi intendono procurarsi precise garanzie.

La prima, la più importante per convincere la propria opinione pubblica al grande passo della solidarietà finanziaria (controllata) con i partner, sarebbe la conquista della presidenza della Bce nel 2019, alla scadenza del mandato di Mario Draghi. Il candidato di Merkel sarebbe Jens Weidmann, il “falco” oggi alla guida della Bundesbank. Boccone amaro da digerire per la Francia di Macron che, comunque, per vedere realizzate le sue ambizioni europee dovrà prima dimostrare di saper fare davvero le riforme che promette e rispettare le regole Ue anti-deficit. Boccone ancora più amaro per l’Italia che, se non approfitta dei prossimi mesi per fare ordine in casa, rischia di dover presto fare i conti con il rialzo dei tassi di interessi sul debito e un’Europa molto meno pragmatica e permissiva sui conti pubblici di quella degli ultimi anni.

In realtà, le discussioni sulla nuova Europa sono appena cominciate. Ci vorranno mesi prima di vederne la fisionomia definitiva. Per essere solida, duratura e protagonista nel mondo globale, una costruzione meno lacunosa e contraddittoria di quella di Maastricht, questa volta dovrà poggiare su pilastri meno fragili e incerti.

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Titolo: Adriana CERRETELLI La politica industriale che serve all’Europa
Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2017, 10:29:30 pm
La politica industriale che serve all’Europa

Di Adriana Cerretelli 
20 settembre 2017

Dieci anni fa gli addetti ai lavori ci ridevano sopra: l’idea di un treno carico di container che partiva dalla Cina per scaricare, 11mila km dopo, merci in Europa sembrava uno scherzo, l’iperbole della fantasia e anche dell’irrazionalità.

L’anno scorso sulla nuova via della seta, come la chiamano i cinesi, sono transitate 500mila tonnellate di manufatti destinati all’Unione. Nel primo semestre di quest’anno la cifra è già cresciuta più del 140% rispetto allo stesso periodo 2016. Per i vantaggi nel confronto con il tradizionale trasporto via porti e aeroporti: in quanto meno costosa e più accessibile a tutti, la rotaia apre il mercato europeo anche alla concorrenza delle aree più povere della Cina, quelle finora tagliate fuori dalla grande corsa all’Ovest.

Ma i cinesi sono noti per il puntiglio con cui elaborano le strategie di lungo termine: la ferrovia di Marco Polo è il corollario logico del programma Made in China 2025 con i suoi colossali investimenti per far compiere all’industria manifatturiera il balzo in avanti verso l’innovazione tecnologica più spinta, il viaggio verso il 4.0 e il G5 per conquistare nuovi primati globali nella robotica e intelligenza artificiale applicata, passando per l’industria militare.

Nasce da qui, dalla grande paura di ritrovarsi nel giro di qualche anno completamente schiacciati dalla concorrenza di Pechino, l’improvvisa conversione dell’Europa all’idea di una politica industriale ambiziosa e strutturata, che le permetta di tener testa all’avanzata del “bulldozer” in parte ricalcandone lo schema di battaglia.

La settimana scorsa, nel discorso sullo Stato dell’Unione, ci ha pensato il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker a sdoganarla ufficialmente. Muovendosi peraltro nel solco aperto da Antonio Tajani , quando era commissario Ue all’Industria e anche ora da presidente dell’europarlamento.

L’Europa ha una base industriale forte che, con i suoi 32 milioni di addetti, sta uscendo dal buio della grande crisi: il suo valore aggiunto lordo è cresciuto del 6,4% tra il 2009 e il 2016, quello del manifatturiero del 25% in termini reali tanto che la sua quota nel Pil Ue è passata dal 15,5 % al 17,1%. Nello stesso periodo la produttività del lavoro è salita in media del 2,7% contro lo 0,7% degli Stati Uniti e il 3,4% del Giappone. Anche la tendenza alla riduzione dei posti di lavoro si è rovesciata: ne sono stati persi 1,8 milioni tra il 2009 e il 2013 ma dal 2013 ne sono stati creati 1,5 milioni di nuovi. Gli investimenti tornano a crescere anche se restano bassi quelli nell’innovazione del futuro, il tessuto della nuova rivoluzione industriale globale che avanza a passi rapidissimi.

Di qui l’estrema precarietà dell’attuale pedigree europeo, se l’Unione non si mette quanto prima al passo con gli enormi cambiamenti in atto: scelta obbligata perché, in quanto volano di produttività e crescita, cioè di prosperità condivisa, l’industria non è un patrimonio fungibile ma irrinunciabile.

In piena sintonia con l’approccio italo-franco-tedesco, la dottrina Juncker punta a sostenere vecchie e nuove leadership industriali europee, portando al 20% entro il 2020 la quota del manifatturiero nel Pil, puntando su innovazione, decarbonizzazione e digitalizzazione a tappeto, perché oggi nell’Ue solo un quinto delle imprese è sufficientemente digitalizzato ed è urgente il passaggio alla nuova generazione di connettività 5G, la chiave dell’intelligenza artificiale applicata alla produzione.

Se questo è l’obiettivo, i mezzi per raggiungerlo sono: completamento del mercato unico, unione bancaria e unione dei mercato dei capitali per facilitare la raccolta degli enormi capitali necessari a vincere la sfida, investimenti massicci in istruzione e formazione continua, un fondo per stimolare la cooperazione militare europea, una riforma della politica di concorrenza in quanto a sua volta motore di innovazione e investimenti tramite la spinta alla produttività. Infine una politica commerciale che, ribadendo il credo negli scambi aperti ne pretende anche equità e sostenibilità attraverso il rafforzamento degli strumenti di difesa commerciale e un nuovo sistema di valutazione degli investimenti extra-Ue nei settori industriali strategici (tecnologie di punta, infrastrutture, difesa).

Finalmente l’Europa s’è desta. O almeno sembra. Tutti i suoi Stati membri, Italia in testa con il secondo manifatturiero dell’Unione dopo la Germania, dovranno comunque fare molto seriamente la propria parte per poter vincere ciascuno la scommessa della sopravvivenza. La Cina è sempre più vicina, perché ha saputo cavalcare le libere frontiere della globalizzazione economica prima e meglio dei suoi concorrenti europei. Anche se l’Europa siamo noi, soltanto ora, in ritardo e purtroppo dopo i cinesi, cominciamo a scoprire e sfruttare le grandi potenzialità del suo ricco mercato e della sua massa critica. Vietati i ripensamenti e le solite logiche dell’ognun per sé. Questa volta sarebbero letali per tutti.

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Titolo: Adriana Cerretelli In cerca di un nuovo ordine
Inserito da: Arlecchino - Marzo 15, 2018, 10:11:27 am
In cerca di un nuovo ordine

Di Adriana Cerretelli

Più crescita mondiale dice l’Ocse, 3,9% quest’anno e il prossimo, a patto che non esploda il protezionismo. Ma i venti di guerre commerciali e gli altolà agli investimenti cinesi in Occidente, la cronaca di questi giorni, sono solo protezionismo nudo e crudo o non invece il grimaldello di un sommovimento culturale?

Un sommovimento che fa i conti con il sistema del dopoguerra in frantumi e i contraccolpi della globalizzazione a ruota libera per ricostruire un nuovo ordine mondiale fatto di più equilibrio e meno Far West. L'interrogativo non ha una risposta immediata: arriverà solo quando la polvere delle attuali tensioni si sarà posata e se ne potranno misurare gli effetti concreti. Per ora colpisce un fatto paradossale: dietro i violenti scontri euro-americani si intravede una singolare ma sommersa unità di intenti. Che di fatto anima la comune politica di containment della Cina.

Tra Stati Uniti ed Europa oggi gli attriti appaiono insanabili. Impegnato nella campagna elettorale in Pennsylvania, Donald Trump sembra giocare a spararle sempre più grosse: non solo dazi imminenti sull'import di acciaio e alluminio da Ue, Canada e Giappone ma balzelli anche sulle auto tedesche, che pure sono ampiamente prodotte anche negli Stati Uniti.

L'Europa si prepara a rispondere prendendo in ostaggio quasi 3 miliardi di export Usa. Però prima di procedere aspetta le misure americane e continua a negoziare per ottenere sconti e ridurre i danni alla propria industria.

I segnali dalla Casa Bianca sono tanti e confusi: gli europei devono abbassare i dazi, agricoli in testa, aumentare i contributi alle spese militari in sede Nato, fare di più nei negoziati con la Cina per ridurne le enormi sovraccapacità produttive, prima di tutto nella siderurgia. Sono tutti i Leitmotiv dell'America First, dove però la supremazia suona più difensiva che offensiva, ansiosa di correzioni di squilibri mondiali consolidati più che di nuovi spazi di potenza da riempire. In fondo suona più europea che “gringa”.

Il parallelismo di interessi tra le sue sponde dell'Atlantico diventa più evidente se si guarda alle reazioni di Washington e Berlino di fronte alle scalate cinesi di imprese strategiche, il cui controllo rientra nella difesa della sicurezza nazionale.

Proprio perché avrebbe permesso alla Cina il sorpasso degli Stati Uniti nella tecnologia 5G, anticamera dell'intelligenza artificiale, Trump ha bloccato la scalata ostile di Broadcom al concorrente Qualcomm, n.2 americano nei semiconduttori, come aveva già fatto nel 2017 con Lattice e prima di lui il presidente Barak Obama con Aixtron. Per le stesse ragioni il Congresso rafforzerà controlli e raggio di azione della potente commissione sugli investimenti esteri.

In Germania come in Europa le vulnerabilità sono maggiori perché le salvaguardie sono tradizionalmente minori. Anche se ora il modello americano sta diventando sempre più quello da imitare. Dopo aver digerito due anni fa lo shock della conquista di Kuka, il suo campione nella robotica, da parte della cinese Midea, Berlino ha subito in febbraio un colpo ancora più duro quando Geely è diventata con poco meno del 10% il maggior azionista di Daimler che controlla Mercedes-Benz, all'avanguardia nelle batterie per l'auto elettrica. Anche il n.1 nel capitale di Deutsche Bank è diventato cinese.

Per questo da liberista incrollabile la Germania ha cambiato verso: non solo si sta armando di difese più efficaci contro investimenti esteri ostili ma con Francia e Italia invoca una cintura di sicurezza anche europea. I timori dell'Unione vanno ormai oltre quelli della sistematica rapina delle sue supertecnologie destinate a foraggiare il Made in China 2025, il programma industriale per fare della Cina il numero 1 del mondo nel manifatturiero di punta. Passano per le intrusioni in casa propria che dividono e condizionano i partner Ue sommersi e comprati dagli investimenti a pioggia per costruire le infrastrutture della nuova Via della Seta, dai vertici annuali del gruppo 16+1 che lega a doppio filo Pechino con i paesi dell'Est e dei Balcani, di cui 11 Ue. Il tutto mentre da anni Bruxelles tenta invano di strappare a Pechino un accordo sugli investimenti che ne abbatta le troppe barriere.

Tutto protezionismo? Certo, la spirale di ritorsioni e contro-ritorsioni è dietro l'angolo. Per tutti. Ed è molto stretto e accidentato il sentiero per rifare un ordine mondiale più equo ed equilibrato per tutti. Ma è un rischio da correre. Se Stati Uniti ed Europa si stanno ricredendo sui benefici illimitati del liberismo incontrollato non è per sconfessione ideologica ma perché sono stufi di vederlo strumentalizzato da concorrenti spregiudicati che lo usano per giocare con le carte truccate.

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Titolo: Adriana CERRETELLI. Debolezze altrui e spazi per l’Italia
Inserito da: Arlecchino - Giugno 24, 2018, 11:41:28 am
Debolezze altrui e spazi per l’Italia

Adriana Cerretelli

L’atteggiamento dell’Italia in Europa è sempre stato quello del buon soldato, spesso insubordinato ma fedele e mai seriamente ribelle: coscienza della propria fragilità nazionale, ricerca di un asilo sicuro e anche di un senso di direzione. Dopo aver distribuito molti dividendi ma non sanato i ritardi di modernizzazione del paese, il famoso vincolo esterno, euro compreso, ha finito per creare intolleranze: troppo intrusivo, troppo rigore e norme economiche eccessive e sbagliate. Il consenso è saltato, i partiti nazional-populisti hanno vinto.

E così, per la prima volta nella storia comunitaria, l’Italia del Governo Conte si è messa di traverso. Con decisione e apparentemente senza paura. Ma fa paura, perché un partner tradizionalmente malleabile che all’improvviso diventa insolente, esigente e ostinato, evocando l’oltranzismo strumentale della Gran Bretagna thatcheriana, la burbanza dei veti ricattatori di Grecia e Spagna agli esordi europei, è un oggetto sconosciuto, pericoloso da maneggiare. Soprattutto nell’Europa divisa di oggi, a differenza di quella di ieri.

Realisticamente quali margini di manovra ha oggi l’Italia?
Di sicuro ha quelli delle debolezze altrui, che sono molte, ben distribuite e fatte anche delle diffuse idiosincrasie anti-Ue. Investono lo stesso direttorio franco-tedesco, usurato residuo del passato più che vivace motore del presente. E soprattutto, altro fatto inedito e sorprendente, assediano la Germania, dove il Governo Merkel rischia la caduta dopo tre mesi di vita.

Macron ci ha provato ma il suo europeismo modernista non sfonda né trova una spalla convinta nel cancelliere di una Germania mutante che non è più la sua. Merkel, fino a un anno fa abile demiurgo e pontiere di un’Unione spaccata, oggi ne è diventata ostaggio: debole e condizionata da un paese che non la segue, sbanda a destra, sempre più nazionalista e introverso, ostile all’Europa che costa, se per trasferimenti finanziari o migratori conta poco. Il fronte del Nord, Olanda, Scandinavia, Austria e Baltici, vive le stesse introversioni. Perfino il cautissimo europeismo della Merkel appare sempre più solo, disarmato e controcorrente. Merkel però non vuole perdere la cancelleria. E Macron non vuole perdere lei perché sa che chi venisse dopo sarebbe un interlocutore più duro. Però Macron da solo non può salvarla. E questo apre uno spazio all’Italia per giocare la sua partita a scacchi, provando a rompere il monopolio franco-tedesco. Anche con la sponda degli altri scontenti. L’occasione saranno i vertici di Bruxelles di domenica sui migranti e 4 giorni dopo sulle riforme europee. Finora Francia e Germania hanno provato a metterla in trappola, l’Italia, sul fronte migranti come sulla riforma di unione bancaria e eurozona. Nel primo caso non per cattiveria ma per la tradizionale remissività nazionale coniugata con una geografia ostile che finora ha fatto del nostro paese la vittima naturale degli altrui interessi europei. Nel secondo caso perché imprevedibilità e sbandate sull’euro dell’attuale governo insieme alla potenziale instabilità economico-finanziaria, complici iper-debito, banche fragili, scarsa produttività e competitività di sistema, crescita sotto la media Ue, rappresentano un pericolo reale per la tenuta dell’euro. Di qui il tentativo di imbrigliarla in una disciplina più stringente: riforma dell’eurozona con tetti massimi per le sofferenze, requisiti patrimoniali più esigenti per le banche, incalzante sorveglianza sul debito, prestiti ESM e aiuti Ue solo se condizionati al rispetto di nuove e vecchie regole. Tutte misure di salvaguardia per prevenire il rischio Italia e tranquillizzare i mercati: anche dopo la fine del QE di Mario Draghi, il governo dell’euro farà whatever it takes per impedire all’Italia di nuocere a sé stessa e agli altri membri del club. Di paternalismi più o meno benevoli ma prevalentemente interessati la nuova Italia non è disposta ad accettarne più. Vuole co-negoziare in prima persona le misure che la riguardano e non subirle. In alternativa, per affermare le sue ragioni, potrebbe anche usare l’arma del veto: sulla riforma del Trattato Esm, sul nuovo bilancio Ue multi-annuale 2021-27. Potrebbe, come ha già fatto, minacciare di bloccare il suo contributo ai fondi per la Turchia e per l’Africa. Potrebbe decidere di applicare la convenzione di Dublino solo alle frontiere di terra in attesa di modifiche. E non accettare i rifugiati respinti dalla Germania se non nell’ambito di un’intesa più generale.

Sono molte le carte da giocare, con realismo. L’Italia non può uscire dall’euro ma nemmeno l’euro dall'Italia. Le migrazioni vanno regolate e i migranti che ci sono vanno gestiti senza provare a scaricarli sul vicino. Per diventare migliore, l’Europa ha bisogno di pompieri intelligenti, non di guastatori e ipocriti opportunisti.

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Adriana Cerretelli

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Titolo: Adriana CERRETELLI Vertice Ue, un compromesso di facciata ha evitato il peggio
Inserito da: Arlecchino - Giugno 30, 2018, 04:43:58 pm

Vertice Ue, un compromesso di facciata ha evitato il peggio

Di Adriana Cerretelli 30 giugno 2018

Hanno cantato tutti vittoria dopo un vertice che ha sfiorato il disastro, si è ripreso in una notturna al calor bianco e ha partorito un accordo di facciata più che di sostanza.

Era il meglio che si poteva fare su una materia, la politica migratoria, che divide le scene politiche interne e non può unire quella europea. La quale, in assenza di leader solidi e lungimiranti, non può che esprimere la somma di troppe risse nazionali e relativi partiti popolar-nazionalisti in ascesa. Questa volta la posta era molto più alta dell’oggetto in contesa: non a caso tutti l’hanno strumentalizzata con gli occhi puntati in casa.

La posta era la tenuta dell’Europa, di Schengen, la libera circolazione delle persone, pilastro delle quattro libertà del mercato unico. Caduto un mattone, avrebbe potuto crollare l’intero castello, euro compreso. In gioco era anche la sopravvivenza politica di Angela Merkel: senza la calma olimpica delle mediazioni del cancelliere nella convinzione degli interessi europei della Germania, il governo dei vari nazionalismi Ue sarebbe diventato ancora più difficile e forse impossibile. Il peggio è stato evitato. Il vertice però non ha prodotto il meglio ma il solito: un accordo di facciata che non risolve quasi niente ma rimanda problemi e rese dei conti. Come nel caso della riforma di eurozona e banche.

Nel comunicato finale dedicato al capitolo migranti, gli ottimisti vedono il principio di una svolta nella politica comune di asilo e gestione dei flussi: l’idea di una responsabilità condivisa, che potrebbe cominciare a farsi strada, come spera l’Italia, l’impegno a rafforzare il controllo delle frontiere e a lanciare una coerente politica di sviluppo e sinergie diffuse con l’Africa e la fascia dei Paesi del Mediterraneo che potrebbero accogliere “piattaforme di sbarco” per scoraggiare partenze e negrieri e smistare gli arrivi.

I realisti vedono alcuni auspici, più o meno ipocriti, e tanto status quo, nessuna voglia di politica migratoria comune. Per confermarlo, i 28 non hanno avuto nemmeno il buon gusto di attendere la fine del vertice. I Paesi di Visegrad, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, hanno inneggiato al loro «successo»: protezione rafforzata delle frontiere, redistribuzione dei rifugiati solo volontaria e mai obbligatoria, riforma di Dublino per consenso, cioè di fatto impossibile. Francia e Spagna hanno detto subito no a “centri chiusi” sul loro territorio e alla disponibilità ad accogliere migranti salvati in mare. Anche l’Italia, ha però detto il premier Conte, rifiuta i centri chiusi e non ha fatto accordi con la Merkel per riprendersi i rifugiati approdati in Germania.

Dopo il vertice sarà la volontarietà dei singoli a muovere la politica migratoria europea. Insieme agli accordi bilaterali. Il cancelliere tedesco ieri ne ha annunciati con Francia, Spagna e Grecia, disposti a riprendere i rifugiati approdati in Germania dai rispettivi Paesi per favorire la vittoria di Merkel nel duello con la Baviera. Però volontarismo e bilateralismo in un’Europa sempre più intergovernativa e sempre meno comunitaria ne postulano la frammentazione. Promettono un quadro di divisioni e steccati.

Se si aggiunge che da domenica alla guida dell’Unione ci sarà l’Austria con il suo duro programma di muri, prevale il timore che nell’impossibilità di organizzarne una gestione europea, come il vertice ha confermato, la sfida migratoria resti una bomba ad orologeria. In questo scenario i rischi per l’Italia sono destinati ad aumentare: la sua geografia non può cambiare come non cambierà Dublino che ne fa un Paese di prima accoglienza, gli ammortizzatori solidaristici europei restano una promessa evanescente come il controllo degli sbarchi. In compenso il mancato accordo con Merkel, ieri irritata con l’Italia ma prodiga di comprensione per Spagna e Grecia, potrebbe rivelarsi un atto di pericolosa miopia politica nell’Europa dove contano i rapporti di forza e si dovranno presto decidere le riforme di banche e Eurozona. E lo spettro di una mini-Schengen non è fugato.

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Titolo: Adriana CERRETELLI SE nazionalismi E MURI smontano l’Europa
Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2018, 12:42:11 pm
NUOVE CORTINE DI FERRO

 Adriana Cerretelli

SE nazionalismi E MURI smontano l’Europa

La caduta del muro di Berlino, la riunificazione tedesca prima ed europea poi l’avevano disintegrata, si sperava per sempre. Invece, quasi 30 anni dopo, una nuova cortina di ferro rischia di calare sull’Unione. I brillanti autori però non sono i nostalgici della defunta Urss o la Russia dello zar Putin.
Oggi ci pensano gli europei da soli, alzando steccati in casa propria, da Nord a Sud più che da Est a Ovest come allora, perché il Mediterraneo come le Alpi, il Brennero e i Balcani stanno tutti a Sud. E non li ferma la prospettiva di far saltare Schengen, la libera circolazione delle persone, il mercato unico e poi forse l’euro e tutto il domino europeo. Migrazioni e migranti sono la molla della furia autodistruttrice che consuma l’Unione, proprio quando l’emergenza flussi si è placata: sono 45.000 i salvati in mare nei primi sei mesi dell’anno e sono 20 alla settimana i casi trattati alla frontiera tedesca, ha ricordato ieri il deputato tedesco Udo Bullmann, presidente degli euro-socialisti.
In realtà la crisi è politica, per questo è una trappola mortale che erode la stabilità e i margini di manovra delle democrazie. Già il recente vertice Ue prometteva molto poco di buono: nell’immediato centri chiusi di detenzione solo su base volontaria e sullo sfondo di accordi bilaterali tra Stati Ue. Più protezione alle frontiere esterne, più aiuti e outsourcing del problema in Africa per domani e dopo. L’accordo doveva salvare il Governo Merkel ma il suo ministro degli Interni l’ha bocciato: insufficiente per ricompattare l’alleanza Cdu-Csu.
E così il cancelliere, fino a ieri l’indiscusso campione globale dell’Europa aperta e liberale, paladino del multilateralismo e dei valori umanitari, nemico giurato di tutti i protezionismi, insomma l’anti-Trump incarnato, ha siglato la propria resa. Ora attende il via libera dell’Spd, altro partner di coalizione. Già nel 2016 sponsorizzando l’accordo con la Turchia autoritaria di Erdogan per fermare i flussi incontrollati provocati da una sua decisione unilaterale, aveva dato prova di cinismo spregiudicato. Ora la sua capitolazione, con l’assenso ai centri di detenzione alle frontiere tedesche dove convogliare i rifugiati già registrati in altri paesi Ue in attesa di rimandarveli. Di fatto Angela Merkel ha accettato di comportarsi come l’esecrato Trump al confine messicano.
Molto peggio, ha abiurato al proprio credo per piegarsi alle sirene del neo-nazionalismo tedesco e dell’estrema-destra, che non sono molto diversi da quelli che proliferano in Austria, Italia, Francia, Olanda, Scandinavia, Polonia e Ungheria: li chiamano populismi per spregiarli, come se bastasse a fermarli. A non mettere in croce l’Europa.
Nessun paese però è in grado di influenzare il corso della storia europea come la Germania. Nel bene e nel male. Non a caso ieri a Strasburgo Sebastian Kurz, cancelliere austriaco e nuovo presidente dell’Ue, ha chiarito che se Berlino chiuderà le frontiere, Vienna seguirà blindando i confini a Sud, con Slovenia (già chiusi) e Italia. Inevitabilmente, ha detto, altri seguiranno e sarà la fine di Schengen, si dice temporanea.
Altrettanto inevitabilmente vittime designate del neo-nazionalismo tedesco diventeranno anche le riforme dell’eurozona e dell’unione bancaria, il bilancio pluriennale europeo: tutto quel che richiede solidarietà ma non quello che implica disciplina, rigore e la cosiddetta responsabilità, che per definizione non apparterrebbe ai paesi mediterranei. Ma la sbandata a destra di Merkel finirà anche per cambiare faccia e politiche dei popolari europei, primo gruppo (Ppe) dell’europarlamento, dove si potrebbero presto scoprire insospettate sintonie con Viktor Orban, l’autoritario premier ungherese che molti oggi vorrebbero mettere alla porta. Dove l’Opa della Lega europea, vagheggiata da Matteo Salvini con gli occhi puntati sulle europee del 2019, potrebbe apparire meno delirio politico e molto più progetto concreto e fattibile.
Nessuno però in Italia si deve illudere troppo. Anche se, guardando ai sempre più diffusi e condivisi malumori europei, il nostro isolamento potrebbe apparire più geografico che politico e in parte lo è, nella realtà paradossalmente l’assunto non funziona. Il primo test è venuto dal recente vertice Ue: pur conclamando, Merkel in testa, comprensione per il gran fardello migratorio di cui si è fatta e si fa carico l’Italia, poi ha pensato più alla ricollocazione dei rifugiati illegali tedeschi che alla responsabilità condivisa dei migranti che sbarcano in Italia, ai centri di detenzione “volontari” ma sempre in Italia. Se ci sarà crisi al Brennero, nessuno muoverà un dito: per Bruxelles le misure tedesche in linea con le regole Ue. Se ci saranno, le riforme di euro e banche punteranno prima di tutto a imbrigliarci per impedirci di nuocere agli altri. In breve, populisti di lotta o di Governo poco importa: per l’Europa che si sfalda inseguendo i più vari nazionalismi, restano sempre italiani. Le radicate e spesso gratuite diffidenze dei partner si vincono però solo dimostrando nei fatti che sono infondate.

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Adriana Cerretelli
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