Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Inserito da: Admin - Settembre 04, 2011, 05:26:09 pm 4/9/2011
Il processo che va fatto a Gheddafi VLADIMIRO ZAGREBELSKY L’uccisione è spesso la fine che attende il tiranno caduto. La sua morte impedisce che egli possa ancora coagulare la resistenza al nuovo regime, soddisfa la sete di vendetta, chiude una bocca che parlando potrebbe imbarazzare tanti, in patria e fuori. Ecco perché sono inquietanti certi cenni a un «diritto di ucciderlo» che, con riferimento a Gheddafi, si sono sentiti da parte di esponenti degli insorti. Ma se Gheddafi sarà catturato vivo, chi e come lo giudicherà? Un processo è diritto non solo di Gheddafi stesso, ma anche del popolo libico e della comunità internazionale. E i processi non servono solo a condannare o assolvere, ma anche a documentare e ricostruire. Come i diritti fondamentali della persona umana e la loro protezione sono ora considerati patrimonio dell'umanità nel suo insieme e non più come un affare interno ai singoli stati, così si è affermata la convinzione che la punizione dei crimini contro l'umanità non possa essere lasciata alla discrezione dei singoli stati. I processi di Norimberga e di Tokyo, benché condotti da tribunali istituiti dai vincitori della guerra, hanno portato ad affermazioni di principio importanti, da cui ormai non si può prescindere. Negli anni recenti le Nazioni Unite hanno istituito speciali tribunali internazionali, ad esempio per i crimini commessi nella ex Jugoslavia o per il genocidio nel Ruanda. Nel 1998 (con lo Statuto di Roma), l'istituzione della Corte Penale Internazionale ha rappresentato un atto di coerenza e un punto di arrivo fondamentale. Se i più gravi crimini (genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra, crimine di aggressione) riguardano la comunità internazionale nel suo complesso, allora la loro punizione deve essere assicurata a livello internazionale. E' stata superata l'idea che l'intervento giudiziario impedisce soluzioni politiche concordate, che mettono fine a drammatici conflitti interni consentendo ad esempio a governanti criminali di abbandonare il paese con un salvacondotto e trovare rifugio altrove: che la politica cioè, piuttosto che la giustizia, sia adatta a gestire simili emergenze. E' invece prevalsa una posizione di principio, che esclude l'impunità per i più grandi crimini contro l'umanità e rifiuta di considerarli un affare interno (gestito dai vincitori). Il principio su cui si basa la creazione della Corte internazionale deve però fare ancora i conti con atteggiamenti che lo contraddicono. Quella stessa comunità internazionale che dichiara di non poter sopportare la commissione dei crimini contro l'umanità tollera che, prima della loro caduta, i tiranni che li commettono non siano «disturbati» e siano invece riveriti, assecondati in tutte le loro pretese e considerati interlocutori validi per concludere ogni genere di affare. Esistono ancora grandi ipocrisie ed anche resistenze. Diversi tra i principali paesi (Stati Uniti, Russia, Cina, India, ecc.) rifiutano ancora di riconoscere la giurisdizione della Corte internazionale perché non intendono rimettere a un'istanza internazionale l'esame di denunce di crimini commessi da propri cittadini (militari, funzionari, ecc.). Ma la ratifica dello Statuto di Roma da parte di ben 117 stati è comunque un buon segno. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 1970, all'unanimità dei suoi membri (anche quelli che per loro conto non hanno ratificato la convenzione istitutiva della Corte internazionale), ha dato incarico al Procuratore presso la Corte di procedere per i sistematici attacchi condotti dallo scorso febbraio contro civili. Il Consiglio di sicurezza ha imposto a tutti gli stati ed anche alla Libia, che non ne ha ratificato il trattato istitutivo, l'obbligo di collaborare con la Corte internazionale. Ma le autorità libiche potrebbero decidere di procedere in sede nazionale e quindi non consegnerebbero gli imputati. Occorre però chiedersi quale processo l'odierna Libia sarebbe in grado di assicurare. Un processo efficace ed equo da parte di giudici indipendenti? O si tratterebbe di un processo sommario, un'apparenza di processo? La Libia procederebbe anche per crimini diversi e ulteriori rispetto a quelli per cui è competente la Corte internazionale, ma per questi ultimi non sarebbe ammissibile un doppio processo, sia in sede nazionale sia davanti alla Corte internazionale. La Corte è stata istituita in posizione complementare rispetto alle giurisdizioni nazionali, nella considerazione che sono innanzitutto gli stati che sono chiamati a giudicare e punire i responsabili di quei crimini. Ne hanno il dovere ed anche il diritto. Purché lo facciano in modo efficace e secondo le regole dell'equo processo, così come lo farebbe la Corte internazionale. Spetta quindi alla Corte accertare l'adeguatezza del processo che la Libia metterebbe in piedi e nel suo giudizio essa considererebbe certo le condizioni presenti in Libia, la mancanza di un sistema giudiziario, le violenze e le tensioni tribali e infine anche la prevedibile applicazione della pena di morte; pena che lo statuto della Corte internazionale non prevede, inserito come esso è nel solco del movimento mondiale che la rifiuta. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9159 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Un boomerang per chi vuole la verità Inserito da: Admin - Settembre 14, 2011, 08:57:52 am 14/9/2011
Un boomerang per chi vuole la verità VLADIMIRO ZAGREBELSKY Se l'associazione americana di vittime di abusi sessuali commessi da preti cattolici desidera attirare l'attenzione pubblica sulla gravità del problema, la denunzia del Papa e di alcuni cardinali alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità serve certo allo scopo. Ma è difficile immaginare che la denunzia possa avere una lunga vita processuale dopo l'esame del Procuratore. Ciò detto naturalmente con la cautela necessaria nell'esprimere un'opinione senza aver avuto accesso agli atti. La Corte penale internazionale, istituita con lo Statuto di Roma del 1998, è competente per i più gravi crimini contro l'umanità. Tra tali crimini è considerato anche lo stupro accanto ad altre forme di violenza sessuale, ma perché si ponga una questione di competenza della Corte internazionale, deve sempre trattarsi di comportamenti che s'inseriscono nell'ambito di un "attacco generalizzato o sistematico contro la popolazione civile". Basterebbe questo per esprimere i più forti dubbi sulla possibilità che le vicende portate all'esame della Corte internazionale giustifichino l'apertura di un'indagine. Non è il numero elevato di casi che dimostra di per sé l'esistenza di un attacco generalizzato o sistematico alla popolazione civile. Occorre inoltre che vi sia l'intenzione di portare un simile attacco attraverso la commissione delle singole violenze. Per quanto gravi, diffuse, risalenti nel tempo e persistenti siano le pratiche denunziate, sembra francamente che ad altre vicende si riferiscano le previsioni dello Statuto della Corte internazionale. Tutti, senza che conti la loro posizione nelle gerarchie di uno Stato o, in questo caso, al tempo stesso di una Chiesa e di uno Stato, possono essere chiamati a rispondere dei crimini contro l'umanità. Ma la responsabilità penale è personale. Non si risponde per il fatto altrui, né per il fatto proprio inconsapevole. E' un principio generale nella materia penale, affermato anche nello Statuto della Corte internazionale, che specifica le condizioni perché sia affermata la responsabilità individuale. Si tratta del caso in cui la persona ha commesso il crimine personalmente o tramite altra persona, ne ha ordinato o incoraggiato la commissione, ha fornito aiuto o assistenza o i mezzi necessari. E la persona ha tenuto uno di quei comportamenti essendo consapevole di inserirsi in un attacco generalizzato o sistematico alla popolazione civile. La semplice tolleranza, debolezza nel reprimere, copertura dei fatti sotto un velo di silenzio, non rientra nei casi ora descritti. Anche sotto il profilo della mancanza di responsabilità penale personale di coloro che sono stati denunziati, è dunque ben difficile che un' inchiesta sia aperta presso la Corte internazionale. E' peraltro evidente che i casi denunziati avrebbero sempre dovuto dar luogo a processi penali nei singoli stati per punirne i responsabili. L’iniziativa di ricorrere alla Corte internazionale in questo caso suggerisce un commento di carattere generale. L'azione dei giudici (e prima ancora dei Procuratori) è legata a condizioni e regole precise. Si è già detto dell'àmbito della loro competenza e della personalità della responsabilità penale. Si deve aggiungere, evidentemente, la presunzione di non colpevolezza ed anche il complesso di regole e garanzie che riguardano la raccolta e la valutazione delle prove. Le conclusioni cui può giungere il giudice ne sono fortemente condizionate. Una sentenza di assoluzione o di improcedibilità rischia di essere interpretata nel senso che il fatto non è avvenuto o che l'accusato non ha alcuna responsabilità. Un boomerang dunque per chi crede di poter usare (qui direi, forzare) la via giudiziaria allo scopo di ottenere l'accertamento di una verità assoluta e a tutto campo. La mancanza di responsabilità penale (o della competenza del giudice a esaminarla) non significa che altro tipo di responsabilità debba esser fatta valere su un terreno diverso da quello giudiziario. Molto spesso - specie qui, da noi, in Italia - si pretende che l'intervento di un'assoluzione (perfino nel caso di una prescrizione del reato) chiuda il discorso. Invece di spingere a riaprirlo sul terreno proprio di altre responsabilità, quella politica, quella professionale, quella morale. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9194 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Se il cane da guardia non morde Inserito da: Admin - Settembre 30, 2011, 03:39:09 pm 30/9/2011 - STAMPA E GIUSTIZIA
Se il cane da guardia non morde VLADIMIRO ZAGREBELSKY Cane da guardia della democrazia. Questo è il ruolo che la stampa svolge (deve svolgere, deve poter svolgere) in una società democratica, secondo una formula ripetutamente utilizzata, con lessico anglosassone, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’immagine è ricca di indicazioni. Il buon cane da guardia gira libero attorno a casa, orecchie tese e naso al vento. E abbaia, anche più forte del necessario e qualche volta deve mordere. Così la stampa. La libertà di espressione è uno dei fondamenti essenziali di una società democratica e vale non soltanto per le informazioni o le idee accolte con favore o che sono inoffensive o indifferenti, ma proprio e specialmente per quelle che urtano e inquietano. Sulle questioni di interesse per il dibattito pubblico, al diritto di diffondere informazioni e opinioni corrisponde quello del pubblico di riceverle. Certo è possibile prevedere limiti alla libertà di espressione, quando siano in pericolo la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico o occorra difendere la morale o la reputazione altrui, oppure si debba impedire la divulgazione di segreti o sia necessario proteggere l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario. Riprendo dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo questa elencazione di ipotesi di restrizioni legittime. Ma anche in quei casi solo una necessità imperativa può giustificare le limitazioni. Alle ristrette possibilità di cui dispone l’autorità pubblica nel limitare la libertà di informazione si accompagna però il richiamo ai doveri professionali e alla responsabilità di chi, esponendo i fatti ed esprimendo il suo pensiero, si avvale della libertà di espressione. Questo quadro di principi costituisce un tratto identitario della civiltà europea e occidentale. Nessuna società europea può distaccarsene, nessun governo può rifiutarlo o forzarlo. Ma da tempo in Italia si discute aspramente di limitazioni da imporre alla possibilità di pubblicare (e quindi commentare) informazioni tratte dalle indagini giudiziarie. Si parla quasi solo delle intercettazioni telefoniche, ma si tratta di tutte le informazioni, anche quelle che si ricavano dalle testimonianze, da documenti, ecc. L’argomento che si usa è legato al diritto, anch’esso fondamentale, che le persone hanno al rispetto della propria reputazione e alla riservatezza della vita privata. L’occasione contingente della presente, acuta sensibilità rispetto a questo diritto delle persone spinge spesso ad assimilare il potente di turno a ciascuno di noi. Egli infatti dice: difendo la mia vita privata, ma lo faccio perché la nostra, di noi tutti, è in pericolo. Chi fosse impressionato dall’argomento, dovrebbe però considerare che non siamo tutti eguali e che meritano di essere conosciuti e commentati anche aspetti della cosiddetta vita privata dell’uomo politico, proprio perché egli si è candidato e si candiderà a essere eletto dai cittadini. Egli non «fa i fatti suoi», ma si occupa «dei fatti nostri» e si è esposto volontariamente all’esame del pubblico. Dovendo tener conto della libertà di informazione, si dice spesso da parte governativa che si dovrebbe poter pubblicare solo quello che ha «rilievo penale». Purtroppo anche dall’opposizione si tende a seguire questa strada, come se fosse possibile stabilire ciò che in una conversazione è penalmente rilevante e come se questo fosse il vero discrimine tra ciò che è pubblicabile e ciò che non lo è. Raramente una conversazione è in sé penalmente rilevante. Può esserlo se esprime minaccia o ingiuria, oppure rivela informazioni che devono rimaner segrete. Ma altrimenti il suo significato in un processo penale deriva dal contesto generale delle prove. La più innocente delle conversazioni telefoniche prova almeno che i due si conoscono. Non solo, ma ciò che ora sembra irrilevante può assumere altro senso e importanza in seguito, quando altre prove illumineranno diversamente la scena. E infine, occorrerà attendere il giudizio definitivo per costatare che questa o quella informazione, questa o quella frase hanno avuto peso nella decisione del giudice? I tempi di un’efficace informazione non corrispondono a quelli propri della giustizia penale. Ma quello della rilevanza penale non è solo un criterio inutilizzabile in pratica. Più radicalmente è un criterio sbagliato. Da una parte, proprio perché una notizia riguarda un fatto rilevante per l’indagine o il processo penale, la protezione dell’efficacia della indagine può richiedere di impedirne o ritardarne la divulgazione. E dall’altra e soprattutto, perché il dibattito che legittimamente e doverosamente si svolge nella società democratica, considera un ambito di fatti che va ben oltre ciò che è «penalmente rilevante». L’opinione pubblica si interessa e si forma su ciò che è socialmente, culturalmente, economicamente, politicamente significativo. Il giudizio su ciò che è significativo e ciò che non lo è deve restare prevalentemente nelle mani di chi fa uso della libertà di espressione che la Costituzione e le convenzioni internazionali gli assicurano. E si tratta di un giudizio legato alla specificità del caso concreto, che mal sopporta regole generali e astratte, come sono quelle che impongono le leggi. Non dunque il rilievo «penale», ma il rilievo «sociale» spinge il giornale e il giornalista a pubblicare o a trascurare una notizia e ancor prima, nel giornalismo di inchiesta, a cercarla, fino a forzare il segreto che altri è interessato ad assicurare. I confini del lecito e dell’illecito nell’attività giornalistica sono inevitabilmente incerti. Esigenze e interessi diversi e opposti si contrappongono. Un bilanciamento è necessario: uno prevale e l’altro soffre. La violazione dei limiti imposti dalle leggi e dalla deontologia professionale è nell’ordine delle cose possibili. Ma anche quando ciò avvenga e sia quindi legittima una reazione repressiva o si imponga il risarcimento dei danni morali procurati ad altri, la protezione della libertà di stampa in generale richiede che la sanzione sia equilibrata. E che essa non produca un effetto di generale intimidazione alla libera stampa: giornalisti, giornali e editori. Dalle decisioni della Corte europea i parlamenti nazionali e i giudici ricavano che una sanzione penale detentiva è giustificata solo quando si sia di fronte a discorsi che incitano alla violenza o all’odio razziale, mentre anche le sanzioni economiche non devono essere eccessive. Ma di tutto ciò è scarso l’eco nel dibattito politico, né nei progetti che il parlamento è chiamato a discutere. Forte è invece la preoccupazione di assicurarsi che il cane da guardia non morda e sia prudente nell’abbaiare. Insomma, che non disturbi. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9262 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Amanda, c'è un giudice a Perugia Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 09:27:23 am 6/10/2011
Amanda, c'è un giudice a Perugia VLADIMIRO ZAGREBELSKY Le reazioni alla sentenza della Corte di assise di appello di Perugia sono andate oltre l’immaginabile. Il Dipartimento di Stato americano si è compiaciuto (un’imputata è americana), il primo ministro britannico si è rammaricato (la vittima era inglese), la piazza di Perugia ha insultato i giudici, la folla di Seattle ha accolto l’imputata come un’eroina. Nessuno ha ancora letto la motivazione della sentenza (che non c’è ancora) e pochissimi hanno letto quella di segno contrario pronunciata dalla Corte di assise di primo grado. Ma molti evidentemente hanno la loro ferma opinione, non solo sull’innocenza o la colpevolezza degli imputati, ma anche sulle colpe dei giudici e del sistema in cui operano. Un sistema «medievale», si è detto, mentre è il sistema alternativo che affonda le sue radici nell’Inghilterra del dodicesimo secolo. Prima di dir qualcosa sul sistema italiano, va brevemente detto che negli Stati Uniti un’accusa come quella portata nel processo di Perugia avrebbe esposto gli imputati al rischio della condanna alla pena capitale e il giudizio sulla loro colpevolezza sarebbe stato reso da una giuria popolare con le semplici parole di «guilty» o di «not guilty», colpevoli o non colpevoli. Ben difficilmente l’appello sarebbe stato ammesso e comunque solo su questioni di procedura. Nessuna motivazione sulla valutazione della prova, nessun controllo o rinnovo del giudizio da parte di un altro giudice. Semplice e rapido, ma, come tutti sanno, non esente dal rischio di errore (tragico nel caso della condanna a morte). In Italia, ma anche in altri Paesi europei, come la Francia o il Belgio, i delitti più gravi, come l’omicidio, sono giudicati dalla Corte di assise, che da noi è un collegio di otto giudici, due magistrati e sei giudici popolari, estratti a sorte sulle liste elettorali. Ogni decisione è presa a maggioranza dei voti e, in caso di parità, prevale la soluzione più favorevole all’imputato. Dopo letto in aula il dispositivo della sentenza, segue la redazione e la pubblicazione della motivazione. Secondo la nostra Costituzione, tutti i provvedimenti giudiziari devono essere motivati. La motivazione obbliga il giudice a render conto dell’uso che ha fatto del potere pubblico che gli è assegnato, permette il controllo e la critica da parte dell’opinione pubblica e, infine, consente il controllo in appello e poi eventualmente in Cassazione. Motivazione e controllo vanno di pari passo, infatti dove, come nel sistema di giuria, non c’è motivazione non c’è nemmeno appello. Qui la legittimità della sentenza si fonda sulla motivazione, controllata da un altro giudice in un nuovo processo, là risiede invece nel giudizio immotivato «dei pari» (Medioevo, appunto). Il sistema processuale italiano, fondato sulla motivazione delle sentenze e sul loro controllo in appello e in Cassazione, tiene conto della problematicità e dell’opinabilità della valutazione delle prove. Accade (tanto più in un collegio ampio come quello della Corte di assise) che la conclusione sia adottata a maggioranza, sulla colpevolezza o la pena. Il pubblico non lo sa e si stupirebbe chi crede che la valutazione delle prove sia qualcosa di meccanico e matematico, che porta a un risultato che tutti dovrebbero condividere. Talora invece il collegio giudicante si divide. Accade anche, come in questo caso, che la conclusione raggiunta dai giudici di primo grado non sia condivisa da quelli di appello. Il sistema suppone che talora sia necessario correggere, che il giudizio di appello sia più attendibile di quello di primo grado e che il giudizio definitivo sia quello successivo della Cassazione. Ma l’esistenza della motivazione delle sentenze e lo svolgimento di un nuovo giudizio davanti ai nuovi giudici mette in luce la problematicità della valutazione della prova: la possibilità di conclusioni diverse ne è la conseguenza. Chi non ha esperienza del giudicare può essere sconcertato e chiedersi chi sbaglia. In realtà normalmente la questione non si pone in termini di giusto/sbagliato. Essa però richiede una soluzione del contrasto. Nel nostro sistema, come in tanti altri, la soluzione deriva dalla presunzione di non colpevolezza, dal principio «in dubio pro reo». La condanna viene pronunciata se i giudici concludono che l’imputato è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Essendo stata abolita dal nuovo codice di procedura penale (1989) la formula di assoluzione per insufficienza di prove, i giudici pronunciano sentenza di assoluzione, non solo quando vi sia la prova dell’innocenza, ma anche quando manchi, sia insufficiente o sia contraddittoria la prova. Ciò che spesso accade. La difficoltà dell’opera dei giudici in casi come quello di Perugia e la presunzione di innocenza degli imputati richiederebbero, attorno al processo, un poco di silenzio. Silenzio certo da parte dei magistrati, prudenza anche da parte degli avvocati e della stampa. Si tratta di esigenze fondamentali dell’equo processo, così come lo si intende in Europa. E’ in gioco l’indipendenza di giudizio dei giudici, che devono essere tenuti al riparo da pressioni e suggestioni esterne. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte notato che il clamore esterno e i «giudizi tramite stampa» possono influenzare i giudici, particolarmente quelli non professionali, e incidere sull’equità del processo. Ciò che è avvenuto attorno al processo di Perugia (e spesso accade in Italia) è lontano anni luce dal clima richiesto. Nell’altro sistema di cui si è parlato e in Europa particolarmente nel Regno Unito, si sarebbe più volte parlato di «contempt of court». Se non quel reato, almeno il costume che lo esprime potrebbe essere utilmente copiato. Un sistema così garantista ha dei prezzi. Produce fisiologicamente casi in cui un delitto resta impunito. Il delitto è stato commesso, ma non è raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio che una persona identificata ne sia responsabile. Donde il dolore delle vittime. Qui poi, come in tanti altri casi, vi è anche la lunga detenzione degli imputati nel corso del procedimento. La legge prevede un indennizzo in questi casi (se la sentenza di assoluzione diverrà definitiva). Si tratta di una somma di denaro a carico dello Stato. Le sofferenze, che la sentenza di assoluzione certifica essere state ingiuste, non possono essere riparate. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9286 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY L'Islam e noi: la Primavera è lontana Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2011, 05:33:36 pm 30/10/2011 - FEDE E CITTADINANZA
L'Islam e noi: la Primavera è lontana VLADIMIRO ZAGREBELSKY Due notizie giungono insieme e permettono una riflessione sulla concezione dei diritti fondamentali che ha maturato l'Europa, rispetto a quella che emerge da alcuni paesi, ove prevale la religione islamica. È di ieri la notizia che la condotta del Comune e la contrastata procedura per l’autorizzazione a costruire a Torino una moschea, luogo di culto dei musulmani, sono state convalidate da una sentenza del Tribunale amministrativo. Le leggi italiane dunque non impediscono a chi professa la religione islamica di avere, alla luce del sole, un degno luogo di culto. Sembrerebbe ovvio, eppure è stato necessario l’intervento di un giudice, poiché vi sono resistenze. La decisione certifica che, osservate le ordinarie norme urbanistiche, nessun impedimento può essere frapposto sulla base della fede religiosa, sgradita ad alcuni, ai cui riti è destinato il luogo di culto. Corretto e, insisto, ovvio alla luce di ciò che stabiliscono la nostra Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questi stessi giorni le nuove autorità dell’Egitto, ed anche esponenti di quelle libiche, hanno annunciato le prime che continuerà a essere necessaria una speciale autorizzazione per costruire chiese cristiane e le seconde che lo Stato libico riconoscerà un posto privilegiato alla sharia, la legge che i musulmani ritengono rivelata da Dio. Sulla compatibilità di questa fonte del diritto con i principi che sono propri delle democrazie, si è pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo, quando le è stata sottoposta la questione della compatibilità, appunto con i principi democratici, dello scioglimento di un partito politico turco, che aveva nel proprio programma l’instaurazione della sharia in Turchia. E la Corte europea ha affermato che l’imposizione della sharia come legge fondamentale non sarebbe stata compatibile né con la laicità, cardine della democraticità dello Stato, né con l’eguaglianza dei cittadini. Nel progetto di quel partito, infatti, sarebbe stato reintrodotto il sistema ottomano del diverso statuto giuridico delle persone secondo la religione professata. Si può aggiungere che in diversi Paesi musulmani, che si richiamano alla sharia, la libertà religiosa di chi non aderisce alla religione islamica soffre gravi restrizioni. La libertà di religione non riguarda solo la libertà di coscienza individuale, ma anche quella di cambiare religione, di manifestare la propria adesione a una religione individualmente e collettivamente, in pubblico e in privato, con il culto, l’insegnamento e il compimento dei riti. Tutti aspetti di libertà religiosa che hanno dato luogo a talora drammatiche repressioni. Tornando alla costruzione di luoghi di culto e alle pratiche religiose alle quali sono destinati, le due contrastanti notizie consentono innanzitutto di rilevare quanto profonda sia la diversità di tradizioni culturali e giuridiche in materia di libertà fondamentali in generale e di libertà religiosa in particolare. Anche se si è consapevoli del fatto che il superamento di pratiche restrittive fuori dell’Europa sarà probabilmente lungo e contrastato, occorre mantenere fermezza di posizioni ideali e continuità nella pressione perché l’attuale stato di cose muti. L’Unione europea e i singoli Stati membri dichiarano di tener conto della necessità di protezione dei diritti fondamentali in tutte le relazioni commerciali e di cooperazione che allacciano con altri Stati. Periodicamente il Parlamento europeo produce in proposito una abbastanza triste relazione. Abbastanza triste, perché ne risulta che troppo spesso l’interesse economico o politico prevale e spinge a chiudere gli occhi sulla natura dei governi con cui si tratta. Le recenti relazioni con i Paesi del Nord-Africa ne sono un evidente esempio. Ma un tratto essenziale del diverso modo di intendere i diritti fondamentali in Europa e in gran parte del resto del mondo, riguarda, oltre che il loro contenuto, la natura stessa dei diritti dell’uomo. Per il loro riconoscimento e la loro protezione non vale, nei rapporti tra gli Stati, il principio di reciprocità. Uno Stato non può rifiutare sul suo territorio a cittadini di un altro Stato (o a fedeli di una specifica religione) di esercitare un loro diritto fondamentale per il fatto che in quell’altro Stato eguale riconoscimento e protezione non sono assicurati. Si tratta di una questione essenziale, che è conseguenza diretta della convinzione raggiunta in Europa, che i diritti e le libertà fondamentali appartengono alle persone originariamente e non per concessione degli Stati. Le violazioni che avvengono altrove non giustificano le violazioni che si commetterebbero in Europa. L’Europa, se così si comportasse, colpirebbe se stessa e i fondamenti della propria cultura. Oggi dunque, mentre non dimentichiamo che la libertà di religione non è garantita altrove e a chi ne soffre assicuriamo la nostra simpatia (nel senso etimologico del patire insieme), possiamo dire che siamo fortunati ed anche orgogliosi di ciò che avviene da noi, in Europa. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9379 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Un patto per la giustizia civile Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 10:40:31 am 18/11/2011
Un patto per la giustizia civile VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il clamore delle discussioni e dei contrasti attorno alla giustizia penale, e a un certo numero di processi in particolare, ha oscurato, ormai da molti anni, l’attenzione che merita l’altro ramo della giustizia ordinaria, quello della giustizia civile. Eppure è soprattutto questa che più soffre e che maggiormente espone l’Italia alle critiche e alle condanne provenienti dall’Europa e dagli organismi internazionali. Nell’amministrazione della giustizia penale sono certo in gioco interessi e diritti fondamentali: la libertà, il patrimonio, l'onore delle persone che vi sono implicate. Ma le controversie civili riguardano tutti i cittadini nella loro vita ordinaria, quella privata e quella familiare, il lavoro, le attività commerciali. Si tratta di campi in cui vengono in discussione diritti fondamentali delle persone: diritti che sono offesi o addirittura negati se non è assicurato un efficiente servizio giustizia. Sono ormai trent’anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per non aver assicurato la conclusione di procedimenti in tempi ragionevoli. E la Corte ha dovuto constatare che non si tratta solo di numerose violazioni singole, ma di una pratica sistematica. È il sistema nel suo complesso che non è in grado di produrre sentenze in tempi ragionevoli. Si tratta di una carenza strutturale che incide sui diritti, che sono oggetto delle controversie civili. Ed è, per l’Italia, insieme alle condizioni delle carceri e al trattamento degli immigrati, il tema che più la espone sul fronte della protezione dei diritti fondamentali. Le denunzie e le richieste di riforme capaci di risolvere questo problema, non hanno fino ad ora avuto risposte efficaci. Da qualche tempo però si sono levate altre voci critiche, mosse da considerazioni di natura economica. È possibile che in questo, come in altri campi, l’urgenza economica spinga ad affrontare problemi che questioni di principio non sono riuscite a smuovere? Cerchiamo di non perdere anche l’occasione che si presenta con il nuovo governo. Il presidente Monti ne ha fatto menzione nel discorso programmatico al Senato. Il governatore della Banca d’Italia Draghi, nelle sue Considerazioni finali dello scorso 31 maggio, ha indicato in un punto percentuale del Pil annuo la possibile incidenza negativa della disfunzione della giustizia civile. Una quantificazione frutto di calcoli difficili e presuntivi, che indica comunque un ordine di grandezza allarmante e tale da rendere interessante, anche solo dal punto di vista economico, un incisivo impegno di riforma. Pendono in Italia oltre cinque milioni e mezzo di processi civili. La loro distribuzione sul territorio, tra i diversi uffici giudiziari, è molto diseguale e apparentemente senza rapporto con il traffico economico e con l’entità e composizione sociale della popolazione. Così ad esempio nel territorio della Corte d’Appello di Torino pendono circa 175.000 procedimenti, mentre nel territorio di quella di Bari ne sono pendenti quasi 500.000. Nella Corte d’Appello di Milano pendono circa 330.000 procedimenti, mentre in quella di Napoli ve ne sono oltre un milione (il 20% del totale nazionale) e a Roma oltre 800.000. Numeri che non sembrano riflettere differenze oggettive dei vari territori. Solo differenze legate alla maggiore o minore litigiosità locale? Difficile crederlo. C’è da chiedersi, ad esempio se sempre e dappertutto le cause civili da cancellare dal ruolo scompaiano effettivamente dalle statistiche o invece continuino a mettere in mostra un carico di lavoro maggiore del reale (e quindi meritevole di maggiori organici di personale e maggiori risorse). Oppure se le cause seriali, che andrebbero riunite e rapidamente definite, sono invece separatamente introdotte dagli avvocati e tali mantenute dai magistrati. Domande cui occorre dare risposta per poter apprestare rimedi. Perché le differenze di produttività degli uffici sono davvero impressionanti, certo legate a problemi di organizzazione degli uffici giudiziari e di modo d'essere e di agire dell’avvocatura locale. La giacenza media delle cause civili risulta di 280 giorni al Tribunale di Torino, di 304 a Milano, di 365 a Roma, di 449 a Napoli e di 776 Bari. Come ha recentemente ricordato il vicepresidente del Csm Vietti, riprendendo dati del Consiglio d’Europa in un suo agile e utile libro sull’amministrazione della giustizia, non v’è un problema generale di produttività dei magistrati italiani. Ma occorre assicurare che tutti gli uffici giudiziari lavorino allineandosi sui migliori standard di produttività già presenti in Italia (e lo strumento del processo telematico va generalizzato). Il ministro della Giustizia, responsabile per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi, ha la possibilità di avvalersi di esperti di scienza dell’organizzazione e di analisi economica, da mettere accanto a magistrati ed avvocati per identificare le pratiche virtuose e diffonderle (con opportuno uso di sollecitazione e autorità). Il Csm, pur in un ambito di competenza diverso, ha accumulato una notevole esperienza in proposito e potrebbe svolgere un’utile opera in coordinamento con quella del ministero. È però chiaro che è necessario intervenire in modo integrato su tutti i lati dell’universo giudiziario, non esclusi gli avvocati. Non si può infatti ignorare che vi è una componente patologica della domanda di giustizia civile, che pone l’Italia ai primissimi posti tra i Paesi del Consiglio d’Europa per numero di cause iniziate, e che l’avvocatura può esercitare una funzione di filtro delle cause ingiustificate oppure di moltiplicazione di esse. In proposito, ad esempio, Daniela Marchesi, esperta di analisi economica del diritto, ha sottolineato l’incidenza del metodo di calcolo delle tariffe professionali, come incentivo alla moltiplicazione delle cause civili. La lotta alla «componente patologica» deve accompagnarsi ad iniziative di riduzione di quella «fisiologica». Se in altri Paesi europei la quantità di cause introdotte presso i giudici è minore, è anche perché sono disponibili e funzionano mezzi alternativi di risoluzione delle controversie. La recente legge che ha previsto l’obbligo di esperire un tentativo di mediazione tra le parti, prima di investire il giudice, sta cominciando a dare i primi risultati positivi. I centri di mediazione delle Camere di commercio danno in genere buoni risultati. Ma anche qui vi sono grandi diversità sul territorio. Il ministero potrebbe forse operare per far sì che tutti gli Ordini degli avvocati aprano i centri per la mediazione. Al nuovo ministro si presenta un lavoro complesso e difficile. Le condizioni di urgenza nazionale potrebbero però darle la forza che è mancata ai ministri che l’hanno preceduta. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9448 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Se la corruzione si insinua in magistratura Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 12:46:25 am 7/12/2011
Se la corruzione si insinua in magistratura VLADIMIRO ZAGREBELSKY L’ arresto di un giudice e la condanna in un non lontano passato di qualche altro sono per fortuna eventi rarissimi. Si può immaginare che esista un numero oscuro di casi di corruzione che rimangono nascosti, ma si tratta comunque di fenomeno estremamente limitato. Tuttavia è necessaria una riflessione che vada oltre i commenti sulla capacità delle organizzazioni mafiose di infiltrarsi nelle istituzioni e sulla potenza del denaro. Occorre una riflessione sulla magistratura. Naturalmente ciò riguarda anche i parlamentari, le articolazioni governative, gli enti locali, l’amministrazione pubblica, gli organi di polizia, ecc., ma per la magistratura l’urgenza e la gravità delle questioni che si pongono sono di speciale forza. Il ruolo assegnato dalla legge ai magistrati e la larga discrezionalità loro riconosciuta nell’esercitarlo spiegano perché da essi, ancor più che da altri, si richieda personale indiscutibile integrità; oltre i confini di ciò che è normale chiedere a chi esercita altre, pur importanti, funzioni. E forte è il rilievo che assumono anche le sole apparenze, così come è sempre sottolineato da chi si occupa di etica delle professioni giudiziarie, dagli organi disciplinari e dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo. I cittadini possono forse accettare l’errore dell’uomo magistrato ma non l’inquinamento di una giustizia che, anche oltre ciò che è realistico, sono portati a pensare con la G maiuscola. Interrogarsi allora partendo dal versante di chi corrompe, non è sufficiente. Occorre anche chiedersi come sia possibile che anche all’interno della magistratura si insinui la corruzione, la pressione indebita, il favoritismo. Intendo con ciò dire che esiste un problema per la magistratura nel suo complesso. È difficile credere che episodi di corruzione siano nella magistratura più frequenti ora che nei tempi andati (la corruzione ha tante forme). Ma quel che mi pare proprio del tempo presente è la rivendicazione da parte di molti magistrati del diritto (o addirittura del dovere) di vivere da persona tra le persone, da privato tra i privati, come tutti, senza limiti particolari, appena usciti dal tribunale. Pretesa più che discutibile, anche senza cadere in un elitarismo codino, che celebri la separatezza. Ma quella pretesa e la sua messa in pratica nello stile di vita hanno molte implicazioni. Modifica la percezione di ciò che è normalmente lecito o innocuo, ma è inopportuno o addirittura illecito per il magistrato. E rende difficile, dall’esterno, valutare il senso di certi comportamenti, di certe frequentazioni e di certi rapporti confidenziali. Accade - è accaduto - che l’esplodere di uno scandalo coinvolgente magistrati inneschi nei loro colleghi sentimenti vari, tra cui non c’è la sorpresa. Ma in altri casi è la sorpresa, l’incredulità che prevale. L’una e l’altra situazione richiede riflessione e risposta a domande. Perché, se tra colleghi non ci si sorprende troppo se un’indagine per corruzione tocca un magistrato, non si sono attivati anticorpi per una preventiva difesa dell’istituzione? Perché, invece, se tutti cadono dalle nuvole, la vigilanza dei capi degli uffici giudiziari non si è attivata o è stata inefficace? Nel primo caso giocano diversi fattori. Uno spirito malinteso di colleganza, una solidarietà di gruppo (i panni sporchi si lavano in famiglia: famiglia, nei molti significati del termine). E il richiamo alla presunzione di innocenza. Questa vale solo per la responsabilità penale, ma tende ora ad estendersi ad ogni genere di condotta incompatibile con i doveri che incombono in conseguenza del ruolo svolto nella società. Gli indizi che giustificano un sospetto sono quindi ignorati (o al più fanno oggetto di pettegolezzo). La pigrizia nel sollevare tra colleghi (ma qui vanno anche ricordati gli avvocati, la cui vita professionale è strettamente legata a quella dei magistrati) una questione spesso imbarazzante e difficile, viene così giustificata col richiamo a un nobile principio: la presunzione di innocenza. Che però c’entra ben poco e finisce con il legittimare silenzi, tolleranze, oggettive connivenze. Ne risulta un danno per l’istituzione giudiziaria nel suo complesso e per la sua credibilità di fronte ai cittadini. Il secondo caso apparentemente è più semplice. Se nessuno sapeva niente, cosa si poteva fare? Ma la questione appunto riguarda la mancanza di vigilanza interna, quella sociale tra colleghi e quella formalmente prevista da parte dei capi degli uffici. Questi sono spesso ritrosi ad esercitare una funzione di vigilanza non facile. Tra una vigilanza con metodi di polizia e il tener gli occhi chiusi per viver tranquilli c’è di mezzo la funzione attenta e sollecita che consente di raccogliere i segnali, non accontentarsene, riconoscere ciò che vien fatto correre per denigrare il giudice scrupoloso e approfondire invece quel che appare serio. Perché il fatto che nessuno sapesse niente delle frequentazioni e della vita «privata» del magistrato che si scopre corrotto o a rischio di corruzione, non chiude il discorso. Ne apre invece uno diverso. La magistratura dovrebbe chiarire e sanzionare le inerzie di chi avrebbe dovuto vigilare e conoscere. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9526 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Pagamenti pubblici: Italia colpevole Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2011, 05:47:53 pm 18/12/2011
Pagamenti pubblici: Italia colpevole VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il suicidio di un imprenditore veneto legato alla crisi in cui si era venuta a trovare la sua piccola impresa, per l'impossibilità di ricevere il pagamento dei crediti che vantava nei confronti di enti pubblici per i quali aveva lavorato, è purtroppo solo l'ultimo di una serie. La vicenda denunzia una prassi ampia e risalente nel tempo, da parte di enti pubblici debitori. Lo Stato è un cattivo pagatore. Chi lavora ad esempio per le Asl conosce gli enormi ritardi con i quali ottiene il pagamento corrispondente alle forniture effettuate. In Italia i ritardi e l'incertezza che vi è legata sono imponenti. Ma non si tratta di fenomeno solo italiano, se l'Unione europea ha dovuto recentemente approvare una nuova direttiva relativa alla lotta ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, anche per il caso in cui il debitore sia un’amministrazione o un'impresa pubblica. La direttiva muove dalla constatazione che «sebbene le merci siano fornite e i servizi prestati, molte delle relative fatture sono pagate ben oltre il termine stabilito. I ritardi nel pagamento influiscono negativamente sulla liquidità e complicano la gestione finanziaria delle imprese. Essi compromettono anche la loro competitività e redditività quando il creditore deve ricorrere a un finanziamento esterno a causa di ritardi nei pagamenti. Il rischio di tali effetti negativi aumenta considerevolmente nei periodi di recessione economica, quando l'accesso al finanziamento diventa più difficile». La direttiva stabilisce per i debitori enti o imprese pubblici un termine di trenta giorni per il pagamento, prorogabile a certe condizioni fino a sessanta giorni e a tal fine considera la specificità della situazione degli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria. L'adeguamento dell'ordinamento nazionale deve avvenire entro il marzo 2013. In un primo tempo la direttiva è stata esclusa della legge comunitaria 2011, con l'evidente intento di ritardarne al massimo il recepimento. Ora però l'attuazione della direttiva è oggetto, sotto forma di delega al governo, della legge dello scorso novembre che porta il nome di Statuto dell'impresa. I tempi di adempimento dovrebbero essere al massimo accelerati ed anche definita in modo ragionevole e utile alla vita delle imprese la questione dell' enorme debito pubblico legato a contratti conclusi ed eseguiti antecedentemente. Si tratta di questione di grande importanza anche ai fini del rilancio dell'attività produttiva e, quindi, della difesa del lavoro. E' in gioco la sopravvivenza stessa di molte piccole e medie industrie. Vien fatto di pensare a quando, invece di pagare i debiti, il governo investiva il Parlamento di una proposta di modificare la Costituzione per proclamare la libertà d'impresa! Va aggiunto che non si tratta soltanto di una questione che riguarda l'attività economica. Il diritto al pacifico godimento dei beni entra nell'elenco dei diritti fondamentali considerati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che vincola anche l'Italia. Esso riguarda egualmente le persone fisiche e quelle giuridiche. E non si tratta solo del diritto di proprietà disciplinato dalla normativa interna, poiché concerne anche i crediti, quando questi siano ormai liquidi ed esigibili o appaiano comunque ben fondati. L'Italia è già stata condannata per violazione di questo diritto in un caso in cui ingenti crediti d'imposta vantati da una società erano stati pagati dall'amministrazione pubblica con ritardi che andavano da cinque a dieci anni (e in larga misura mediante titoli del debito pubblico). L'impresa aveva dovuto indebitarsi con banche e con privati ed era finita in liquidazione. La sentenza è del 1993, ma la pratica viziosa dello Stato non si è interrotta. La direttiva europea prevede anche che lo Stato incentivi le buone prassi e pubblichi un elenco dei soggetti che sono buoni pagatori. Se si vogliono mettere le imprese italiane in grado di agire e competere e se si vogliono attirare gli investimenti esteri, sarebbe necessario che un simile elenco contenesse in prima fila proprio lo Stato, gli enti e le imprese pubbliche. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9560 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY. Perché servono i magistrati specializzati Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2011, 04:02:55 pm 29/12/2011 - IL CASO
Perché servono i magistrati specializzati VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il prossimo raggiungimento del termine stabilito per la rotazione dei magistrati nelle varie articolazioni degli uffici giudiziari e in particolare nei gruppi di lavoro istituiti nelle Procure della Repubblica, porta alla luce temi di fondo riguardanti la magistratura. Si tratta in sintesi dell’applicazione delle leggi e delle delibere del Consiglio superiore della magistratura che hanno definito in dieci anni il limite massimo di permanenza dei magistrati nella stessa area di attività, nell’una o nell’altra materia. Nel dare applicazione alla legge, il Csm ha stabilito nel 2008 che i dirigenti degli uffici giudiziari provvedessero, nel triennio che ora si conclude, a progressivamente modificare la composizione dei gruppi di lavoro, in modo da limitare i costi operativi derivanti dal contemporaneo trasferimento ad altri compiti dei numerosi magistrati che raggiungono ora il limite decennale. La maggior parte degli uffici giudiziari si sono adeguati, mentre in pochi casi la transizione al nuovo regime non ha avuto luogo. Ed ora la questione viene a scadenza. Il Csm ha recentemente ribadito che le disposizioni in materia vanno applicate. Qualche precauzione organizzativa potrà essere adottata dai dirigenti degli uffici, come quella di lasciare in capo al magistrato che ne è titolare le più complesse procedure già in corso. Ma nell’immediato l’operazione non sarà senza costi per l’efficienza degli uffici. Così stando le cose, interessa allora ai cittadini comprendere il senso del problema e prim’ancora la ragione di disposizioni come quelle di cui trattiamo. La temporaneità degli incarichi collide con il valore positivo della specializzazione. I magistrati trattano materie molto diverse. Mi riferisco alle conoscenze, non solo giuridiche, necessarie per ben condurre una causa di separazione tra coniugi, oppure una causa riguardante i brevetti o la gestione di un fallimento e, per le Procure della Repubblica, a quelle richieste da indagini in tema di criminalità organizzata, terrorismo, reati finanziari e fallimentari o contro l’ambiente e la sicurezza sul lavoro. Si tratta di conoscenze ed esperienze non solo radicalmente diverse tra loro, ma anche spesso strettamente specialistiche, di faticosa e difficile acquisizione. Perché allora disperderle? E perché mettere a rischio il buon esito di certe indagini o di certi processi, con magistrati non forti delle loro conoscenze e invece deboli di fronte a organi di polizia, consulenti tecnici ed avvocati che sempre più sono specializzati? La specializzazione anche in magistratura è indispensabile. L’idea del magistrato tuttofare è sempre meno credibile. Tra le altre ragioni, la necessità di consentire almeno un minimo di specializzazione dovrebbe spingere ad eliminare i piccoli Tribunali o almeno a concentrare nei Tribunali capoluogo le materie che maggiormente richiedono specializzazione. Ma la lunga permanenza nelle stesse funzioni e nello stesso luogo comporta necessariamente la creazione di una rete di rapporti con persone ed ambienti legati alla specifica materia. Possono essere gli avvocati che curano quel tipo di affari, oppure l’uno o l’altro ufficio di polizia o i consulenti tecnici, ecc. Possono crearsi allora rapporti che interferiscono con il corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie. La temporaneità degli incarichi in magistratura, ora disciplinata dalla legge, è stata introdotta fin dagli Anni Ottanta dal Csm, sull’onda di problemi, talora gravissimi, che emergevano nelle sezioni fallimentari dei Tribunali: grandi poteri discrezionali, grandi interessi economici, ristretto ambiente di professionisti operanti nel settore. Via via la temporaneità è stata estesa a tutta l’attività giudiziaria. La soluzione adottata dal legislatore e prim’ancora dal Csm tende a contrastare gli effetti negativi che possono aversi per la lunga permanenza dei magistrati nella stessa area di competenza. Ci si può allora domandare se la secca perdita delle professionalità maturate nel tempo sia per l'amministrazione della giustizia proporzionata al vantaggio e se vi siano alternative meno pesanti. Se inquinamenti o legami impropri si sono creati attorno ad un magistrato, è quel magistrato che andrebbe rimosso, non tutti gli altri insieme. Sarebbe saggio, nell’interesse del servizio pubblico giudiziario, procedere in questo modo. Si tratta però di una soluzione difficilmente praticabile, quando si vada oltre i casi rari in cui esiste la prova di comportamenti gravi. La diffusa debolezza della vigilanza dei dirigenti degli uffici, l’evanescenza di certe situazioni inopportune ed anche qualche garantismo di troppo del Csm, hanno spinto all’adozione di un sistema che ricorda i «tagli lineari» per tutelare il bilancio dello Stato, oppure la pratica di richiamare all’ordine tutti gli allievi, buoni e cattivi, per non sapere o volere identificare e sanzionare i pochi che lo meritano. Il costo di un simile sistema è elevato, ma va imputato solo in parte al sistema stesso, poiché esso deriva innanzitutto dalla necessità di reagire a fenomeni di malcostume. Ne pagano il prezzo come spesso accade coloro cui nulla si può rimproverare e soprattutto lo paga il servizio pubblico, che disperde i valori professionali che si sono costruiti nel tempo. Ma superata la fase transitoria, si può credere che i dirigenti degli uffici e il Csm sapranno senza troppa difficoltà assicurare per tempo una rotazione che consenta di preparare ed inserire validamente nei gruppi i nuovi giunti e così garantire l’efficienza duratura delle strutture specializzate. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9594 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Ungheria, prova di diritto per l'Ue Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2012, 07:54:04 pm 5/1/2012
Ungheria, prova di diritto per l'Ue VLADIMIRO ZAGREBELSKY L’attenzione focalizzata sulle difficoltà economiche e finanziarie dell’Italia e dell’Europa e la discussione sulle misure prese o da prendere per uscire dalla crisi, rischia di mettere in ombra, sotto la pressione dell’urgenza, un tratto fondamentale dell’Unione europea. Da lungo tempo ormai l’iniziale esclusivo scopo di creare un mercato comune si è arricchito di componenti diverse, di natura culturale e politica. Di esse si dà conto in apertura del Trattato sull’Unione, dichiarando che essa «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». La coerenza con quei principi delle leggi e dei comportamenti di ciascuno dei ventisette Paesi membri è condizione per l’adesione all’Unione e per l’esercizio dei diritti che essa comporta. Tanto che la partecipazione di uno Stato membro può essere sospesa se gli organi dell’Unione constatano che esiste un rischio di violazione grave di quei valori. Le vicende in corso in Ungheria ci aiutano a ricordarcene. L’Ungheria ha aderito (ha chiesto di aderire ed è stata accolta) all’Unione europea nel 2004, superando i test di democraticità e di compatibilità del sistema economico. Da allora il Paese ha vissuto gravi crisi economiche e politiche, ora giunte a un punto che allarma gli organi dell’Unione e l’opinione pubblica ungherese ed europea. Alle critiche provenienti dall’Unione e da altri Stati, il primo ministro ungherese Orban reagisce proclamando che nessuno può dettare al suo Paese ciò che deve fare. Con ciò solletica il suo elettorato e il nazionalismo ungherese, ma nega in radice la logica dell’appartenenza a una comunità come l’Unione. In Europa le vicende interne agli Stati membri, siano esse economiche o relative alla democrazia e alle libertà civili, riguardano tutti, istituzioni europee e cittadini. Non è irrilevante che ogni cittadino di ciascuno Stato membro sia anche cittadino dell’Unione. Vinte le elezioni politiche e ottenuti, per il gioco della legge elettorale, più di due terzi dei seggi parlamentari, il governo ha introdotto modifiche alla Costituzione e alle leggi che confliggono con i valori propri dell’Unione. Sono stati fatti inquietanti richiami alla «ungheresità» etnica che urtano gli Stati confinanti in cui vivono minoranze magiare, è stata abolita la indipendenza della Banca centrale e sono state drasticamente ridotte l’indipendenza della magistratura e la libertà della stampa. Un’ampia epurazione è in corso. Il presidente della Corte suprema, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è dimesso. Il reclutamento dei nuovi magistrati è ormai nelle mani di un organismo che risponde al governo. La composizione della Corte costituzionale è modificata per legarla alla maggioranza di governo. La stampa, le radio e televisioni sono sottoposte a limitazioni e controlli che hanno iniziato a produrre dimissioni e licenziamenti di giornalisti non in linea. Il quadro che deriva dal contemporaneo attacco alla magistratura e alla stampa, il terzo e il quarto potere in democrazia, è per un verso classico in ogni regime autoritario e per l’altro è in esplicita rotta di collisione con i principi di democrazia su cui l’Unione europea si fonda e che sono comuni a tutti gli Stati membri. Merita di essere particolarmente richiamato un aspetto delle riforme che il governo ungherese, forte della sua maggioranza, ha introdotto. Si tratta dell’attribuzione a un organo amministrativo legato al governo della possibilità di obbligare i giornalisti a svelare l’identità delle loro fonti di informazione. La Corte costituzionale, prima della modifica della sua composizione, ne ha constatato la incostituzionalità, rilevando che solo il giudice può obbligare in casi eccezionali il giornalista a rivelare le sue fonti. Un orientamento della Corte costituzionale in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e la pratica esistente negli altri Paesi dell’Unione. L’eccezionalità della violazione del segreto delle fonti, ammessa solo quando sia assolutamente necessaria per tutelare fondamentali interessi pubblici, è una regola indispensabile per consentire alla stampa di svolgere il suo ruolo di informazione e controllo nella società democratica. Per rimarcare la distanza tra le pretese del governo ungherese e la pratica negli altri Paesi si può ricordare la recente sentenza della Cassazione francese, che ha annullato un’indagine promossa dal pubblico ministero (che in Francia dipende dal ministro della giustizia), per individuare le fonti dei giornalisti che avevano ottenuto e pubblicato notizie da una istruttoria penale riguardante anche personaggi politici della maggioranza governativa. La Corte di Cassazione, richiamando la Convenzione europea dei diritti umani, ha osservato che le notizie pubblicate, da un lato avevano un notevole interesse per il pubblico e dall’altro non mettevano in pericolo essenziali esigenze di segretezza e ha annullato l’indagine. Proteggere le fonti delle notizie raccolte dai giornalisti, è necessario per evitare che esse si inaridiscano e per consentire alla società di far emergere notizie imbarazzanti per il potere, mantenendo vivo il dibattito democratico. Poiché la sola volontà della maggioranza non basta a dar linfa a una democrazia. L’indipendenza della magistratura, la libertà della stampa e la completezza dell’informazione della opinione pubblica, sono condizioni essenziali per la vitalità delle istituzioni della democrazia a garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Centottant’anni orsono Tocqueville, segnalando i pericoli della dittatura della maggioranza, scriveva che «quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge». da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9614 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Così la giustizia può aiutare l'economia Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2012, 12:08:32 pm 18/1/2012
Così la giustizia può aiutare l'economia VLADIMIRO ZAGREBELSKY Ascoltando la relazione che il ministro della Giustizia Severino ha svolto in Parlamento sull’amministrazione della giustizia nell’anno decorso, si aveva la rassicurante sensazione che ella parlava di ciò che conosce. Di ciò di cui conosce in dati reali e la loro importanza, ma anche la difficoltà di affrontarne i problemi. Nessuna semplificazione o facile promessa di soluzione, quindi, ma descrizione della grave situazione e illustrazione delle sue implicazioni generali, unite all’indicazione di specifiche misure prese, da questo e dal precedente governo. Si tratta di interventi legislativi e amministrativi tutti in chiave di efficienza (o rimozione di cause dell’inefficienza). E proprio questi si richiedono al ministro della Giustizia, sia perché il principale problema della giustizia in Italia è la sua grave inefficienza (di cui la durata e onerosità dei procedimenti civili e penali è l’aspetto più vistoso), sia perché proprio questa è la responsabilità che la Costituzione assegna al ministro della Giustizia, cui spettano l’organizzazione e i servizi relativi alla giustizia. Il ministro ha impostato il suo discorso, di cui non si possono qui seguire tutti i numerosi capitoli, secondo linee di cultura istituzionale lungamente rimaste in ombra sia a livello politico, sia nell’ambito della magistratura e dell’avvocatura: le due categorie professionali che il ministro ha giustamente più di una volta accomunato, richiamandole alle loro responsabilità di attori del servizio giustizia. Innanzitutto il ministro ha nettamente inserito l’amministrazione della giustizia tra i servizi pubblici i cui risultati devono essere valutati nel quadro generale dell’interesse pubblico. Anche quindi, specie di questi tempi, per gli effetti che essa produce nell’economia del Paese. Troppo spesso le riflessioni dei magistrati sul proprio ruolo e le prese di posizione dell’avvocatura non alzano lo sguardo al quadro generale degli effetti che, non questa o quella decisione giudiziaria determina, ma la gestione generale dei flussi di domanda di giustizia. In passato la resistenza a discorsi e iniziative tesi a promuovere l’efficienza del servizio sono stati contrastati, sia in un’ottica corporativa di difesa del modo di lavorare di ciascun magistrato, sia in chiave politica rifiutando l’efficienza di una giustizia di cui si chiedeva prima la riforma. A lungo le due posizioni si son date reciproco sostegno. E il rilievo dell’organizzazione degli uffici giudiziari e dell’interazione con il lavoro degli avvocati non sono ancor oggi pienamente apprezzati. Certo il ministro ha fatto riferimento alle buone pratiche messe in opera qua e là, ma occorre far opera di selezione e generalizzazione. Se occorre rimuovere abitudini sedimentate e risvegliare il senso istituzionale di magistrati e avvocati, il ministro non dovrebbe aver timore delle reazioni corporative che cercherebbero di nascondersi sotto i grandi principi dell’indipendenza dei magistrati e degli avvocati. E’ ora necessario distinguere ciò che tali principi comportano e che è intoccabile da ciò che invece rappresenta inammissibili e talora comodi individualismi refrattari alle esigenze del servizio. Nello stesso ordine di idee il ministro ha fatto riferimento alla specializzazione dei magistrati, anche di recente oggetto di dibattito. La specializzazione dei magistrati è stata legata dal ministro alla produttività degli uffici e alla qualità delle decisioni, alla loro prevedibilità e costanza. Quantità e qualità della produzione giudiziaria considerate insieme, come è giusto. E’ noto l’imbarazzo manifestato da avvocati specializzati nella materia in discussione in certe cause complesse, nel dover difendere in piccoli Tribunali davanti a magistrati non preparati, magari umanamente e professionalmente ricchi, ma senza specifica esperienza. Il ministro ne ha parlato anche riferendo sui lavori in corso per la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, che porterà alla eliminazione dei piccoli uffici. In essi nessuna specializzazione è possibile. In proposito, sarebbe da prevedere che la competenza dei Tribunali per materie che richiedono specializzazione sia attribuita dalla legge solo alle grandi sedi distrettuali. E’ possibile che la riforma delle circoscrizioni, con l’identificazione delle dimensioni ottimali degli uffici e del numero minimo di magistrati, sia l’occasione di una riflessione profonda sulla natura del servizio, che richiede che l’organizzazione degli uffici e la formazione dei magistrati assicuri nel giudicante l’equilibrio tra vastità di esperienza e specializzazione. I tempi di questo governo non sono lunghi, tanto quanto la soluzione dei problemi della giustizia italiana richiederebbe. Ma non è poco ciò che è in cantiere e il ministro sa che proprio le difficoltà che il Paese attraversa potrebbero facilitare l’introduzione di riforme necessarie, ma che fino ad ora si sono dimostrate impossibili. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9660 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY L'occasione perduta Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2012, 11:50:49 am 4/2/2012
L'occasione perduta VLADIMIRO ZAGREBELSKY In Italia e in Grecia nel corso degli Anni 90 sono state introdotte davanti ai giudici italiani delle azioni civili per ottenere il risarcimento dei danni subiti dalle vittime di stragi commesse dalle truppe del Reich tedesco contro la popolazione civile tra il 1943 e il 1945 e, in un caso diverso, il risarcimento dei danni subiti da un militare italiano internato e costretto a lavoro forzato. Le azioni civili sono state rivolte nei confronti della Repubblica Federale di Germania. Sia in Italia che in Grecia i giudici, fino alla Corte di Cassazione, hanno affermato che la Germania doveva rispondere civilmente di quei fatti e l’hanno condannata a versare un risarcimento. L'esecuzione di quelle sentenze ha portato all’iscrizione di ipoteca su un bene immobile di proprietà dello Stato tedesco in Italia. La stessa cosa è avvenuta anche in esecuzione della sentenza greca, che è stata dichiarata esecutiva in Italia. Le sentenze italiane e greche hanno suscitato speranze nelle vittime delle atrocità naziste ed anche molto interesse tra i giuristi per il loro carattere innovativo. Ora la Corte internazionale di giustizia ha giudicato che l’Italia, ammettendo che la Germania venisse convenuta in giudizio davanti ai giudici italiani e poi dando esecuzione alle loro sentenze e a quella greca, ha violato il diritto internazionale, che prevede l’immunità degli Stati dalla giurisdizione di uno Stato diverso, quando si tratti di atti che, come quelli delle forze armate, sono espressione di poteri pubblici statali. Le sentenze italiane e greche avevano ritenuto che le ragioni della immunità consuetudinaria degli Stati dalla giurisdizione altrui dovessero cedere in casi gravi di violazione del diritto internazionale umanitario o, più in generale, di fronte al cosiddetto jus cogens, il nocciolo duro, non derogabile, del diritto internazionale. Ed è questa la tesi che, senza successo, hanno in sostanza sostenuto davanti alla Corte internazionale il governo italiano ed anche quello greco intervenuto. La sentenza della Corte internazionale, organo giudiziario delle Nazioni Unite, competente a giudicare le controversie tra gli Stati fondate sul diritto internazionale, è, come sempre, estesamente e dettagliatamente argomentata. La Corte ha ricostruito la ragione e la portata del principio d’immunità degli Stati ed ha concluso che, allo stato attuale, il diritto internazionale non prevede l’eccezione che il governo italiano (e i giudici italiani e greci) ritenevano invece sussistente. Il fondamento dell’immunità degli Stati è legato al principio di parità e sovranità, nel senso che nessuno Stato, per i suoi atti sovrani, riconosce la giurisdizione di un altro Stato. Inoltre si ritiene che nei rapporti tra gli Stati l’intervento dei giudici, per sua natura, non sia adatto e opportuno, mentre la soluzione dei problemi e conflitti reciproci sarebbe meglio cercata a livello politico. Se si considera l’estrema varietà dei casi, la loro gravità e la serietà delle conseguenze che possono derivarne, è difficile non ammettere che la duttilità e varietà delle soluzioni politiche le facciano preferire. Ed in effetti tra Italia e Germania (che ha riconosciuto la sua responsabilità per gli atti delle truppe naziste in Italia) sono intervenuti trattati diretti a consentire risarcimenti. Trattati però che hanno avuto limitatissime applicazioni. E la Germania ha versato allo Stato italiano un indennizzo. Molte, e anzi la maggior parte delle vittime sono però rimaste senza risarcimento. Vero è che la Corte internazionale ha avuto cura di chiarire che la questione di cui era investita era soltanto quella riguardante la giurisdizione e non invece quella sostanziale del diritto dei singoli a ottenere un risarcimento. Ma è difficile pensare che la soluzione procedurale adottata non si rifletta sulle possibilità concrete dei singoli di ottenere il risarcimento cui aspirano. La prima lettura della sentenza della Corte internazionale di giustizia impressiona per la cura impiegata nella vasta ricerca delle tracce - nei documenti internazionali, nella giurisprudenza internazionale e in quella interna degli Stati - della maturazione di un diverso contenuto della consuetudine internazionale. Ne risulta che effettivamente la posizione assunta dalle giurisdizioni italiana e greca è isolata nel quadro internazionale. Ma il diritto internazionale consuetudinario evolve per mezzo dei comportamenti degli Stati e anche delle sentenze dei giudici che, nel riconoscere un’evoluzione del diritto, in realtà lo creano o almeno lo consolidano. E’ quello che la Corte internazionale di giustizia, massimo organo giurisdizionale nella materia, non ha fatto. Per la verità non da sola, poiché in casi analoghi, quanto alla questione giuridica, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso nello stesso senso. Si può riconoscere la serietà delle argomentazioni che la Corte internazionale ha svolto e al tempo stesso esprimere rammarico per l’occasione persa di imprimere al diritto internazionale un’evoluzione che avrebbe potuto dare ai diritti fondamentali delle persone, e alla possibilità di farli valere efficacemente in giudizio, il peso che dal dopoguerra essi in altri campi hanno conquistato. Rammarico ed anche preoccupazione, perché gli effetti non riguardano solo la storia tragica del passato, ma anche ciò che avviene ora nel mondo, attorno e durante le tante operazioni militari che gli Stati compiono fuori del loro territorio. Il principio riaffermato dalla Corte internazionale di giustizia fissa una regola che sarà ormai per molto tempo immutabile. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9734 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Quei giudici europei che difendono i diritti dell'uomo Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2012, 11:20:10 pm 7/2/2012
Quei giudici europei che difendono i diritti dell'uomo VLADIMIRO ZAGREBELSKY Rispetto alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e ai successivi Patti dei diritti civili e politici e dei diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, si caratterizza per il fatto che viene istituito un giudice di quei diritti e di quelle libertà. E’ questa la grande novità, che per la prima volta si trova in uno strumento di diritto internazionale. I diritti dell’uomo avevano già trovato riconoscimento in Europa, ma solo a livello statale interno, con conseguente ruolo giocato dai giudici nazionali. Così era nella francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che essenzialmente rinviava alla legge la definizione dei diritti e le condizioni del loro esercizio. Ma mai si era ammesso che gli Stati rispondessero davanti ad un giudice esterno delle violazioni dei diritti fondamentali dei singoli. La natura di «controllo giurisdizionale esterno» è tuttora la caratteristica principale del sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, che copre la vasta area dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa. Il sistema si fonda sull’istituzione di una Corte indipendente, capace di accertare le violazioni da parte degli Stati ed imporre loro di ripararle. Nel procedimento che si apre davanti alla Corte la persona ricorrente e lo Stato convenuto in giudizio sono parti processuali a pari titolo, con eguali diritti e doveri. La persona fa valere i diritti di cui è titolare e che non derivano dallo Stato, ma sono da questi «riconosciuti» (art.1 Conv.). Il fatto che la Corte europea assicuri un controllo «esterno» implica un certo numero di conseguenze profondamente innovative. Quel controllo innanzitutto rompe i confini degli Stati e la connessa pretesa della legge statale di fondare ed esaurire un proprio ordinamento giuridico particolare ed esclusivo. La singola persona diviene soggetto di diritto internazionale, che fa valere diritti propri nella controversia contro uno Stato. La Corte europea applica un diritto europeo, maneggiando e creando un diritto che non origina dall’opera di parlamenti e non trova in ciò la propria legittimazione. Si tratta di un diritto di origine largamente giurisprudenziale, la cui creazione (ri)dà spazio al ruolo del giudice giurista (in luogo di quello del giudice semplice esegeta della legge chiamato ad applicare). La giurisprudenza della Corte europea, legata com’è ai casi specifici che le vengono sottoposti (giurisprudenza casistica) mette sullo sfondo la regola generale e astratta (come pretende di essere la legge) rispetto all’esigenza di disciplina richiesta ed espressa dal caso concreto. La soluzione del caso non deriva tanto dall’applicazione di una regola generale ed astratta che lo precede, quanto, al contrario (per la persuasività della ratio decidendi e per la forza del precedente), contribuisce a creare la regola per fatti analoghi. La definizione dei singoli diritti resta generale e vaga nella Convenzione. Non si tratta di un difetto redazionale. Si tratta invece di una scelta, che rimette al giudice la responsabilità di adattare la portata dei diritti e delle libertà fondamentali alle esigenze dei tempi e allo sviluppo delle correnti culturali e sociali espresse dalla società europea contemporanea. La Corte pratica un’interpretazione ed una applicazione della Convenzione, che essa stessa definisce dinamica e evolutiva secondo lo scopo della Convenzione che è quello di rendere concreta ed effettiva la protezione dei diritti e delle libertà dell’individuo. Quando la Corte Costituzionale italiana, con due sentenze del 2007, ha affermato l’obbligo per il giudice, prima di eventualmente sollevare la questione di costituzionalità, di fare ogni sforzo possibile per interpretare le leggi nazionali in modo tale da renderle compatibili con la Convenzione europea «così come interpretata dalla Corte europea», ha necessariamente fatto rinvio sia al contenuto della giurisprudenza europea, sia al suo metodo casistico, teso alla protezione effettiva del diritto del singolo individuo. Esercizio certo non facile, ma necessario, non solo da parte del giudice (e della stessa Corte Costituzionale), ma anche da parte del legislatore chiamato a produrre leggi compatibili con la Convenzione nel loro contenuto e nella loro struttura. I giudici che compongono la Corte sono indipendenti e partecipano ai lavori della Corte a titolo individuale, non di «rappresentanti» del Paese a titolo del quale sono stati eletti. Essi sono chiamati ad esprimersi liberamente. La loro origine ed esperienza nazionale contribuisce alla ricchezza, pluralismo e completezza del dibattito interno alla Corte, in vista di decisioni che riflettano o siano compatibili con la cultura europea e con i sistemi giuridici presenti in Europa. Ma non si può dire che i giudici portino nel dibattito interno alla Corte un «orientamento culturale prevalente» nel loro Paese di origine. In società pluralistiche come sono quella italiana e generalmente quelle europee, ciascuno si ritrova su posizioni (ed in compagnie) diverse, tema per tema, questione per questione. Cosicché piuttosto che ad una maggioranza o a una minoranza, questione per questione si appartiene contemporaneamente a diverse minoranze o maggioranze diversamente composte. Ciascun giudice della Corte esprime dunque la sua posizione, caso per caso, materia per materia, senza pretesa di parlare per un’intera società. E’ però l’apporto che i molti giudici danno alla discussione, che consente alla Corte, almeno nella sue intenzioni, di raggiungere conclusioni che riflettono le tendenze di fondo delle società europee. Questo testo è un estratto della Lecture che Vladimiro Zagrebelsky farà oggi, alle 17,30, nell’Aula Magna dell’Università di Torino (Via Verdi 8). L’appuntamento è organizzato dal CSF (http://www.csfederalismo.it/), istituito nel 2000, con sede al Collegio Carlo Alberto che ha come fondatori la Compagnia di San Paolo e le Università di Torino, Pavia e Milano. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9746 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Dramma carceri nella paralisi "tecnica" e politica Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2012, 07:31:30 pm 12/2/2012
Dramma carceri nella paralisi "tecnica" e politica VLADIMIRO ZAGREBELSKY L’attenzione alla gravità delle condizioni di vita in carcere viene spesso richiamata da episodi clamorosi o tragici, come le morti in carcere e in particolare i suicidi di detenuti. Non meno significativi i suicidi compiuti da agenti di custodia, poiché anch'essi sono spia del clima carcerario troppo degradato e teso per essere sopportato. Ma l'occasionale attenzione dell'opinione pubblica presto svanisce, mentre il problema resta, giorno per giorno, ormai da troppi anni. Nelle carceri italiane i detenuti sono ora circa 68.000 e sono ristretti in prigioni che potrebbero riceverne solo 45.000. Il sovraffollamento è la principale ragione delle condizioni inaccettabili in cui la detenzione ha luogo, sia per coloro che sono in espiazione di una pena definitiva, sia per le persone che sono detenute per ragioni cautelari nel corso del procedimento. Condizioni inaccettabili in linea generale, anche se qua e là, per le migliori condizioni delle strutture e le iniziative dei direttori degli istituti, la situazione è migliore e non drammatica. Ma si tratta di eccezioni, cosicché è ormai evidente che il problema è sistemico e gravissimo. Lo ha ripetutamente detto il presidente della Repubblica. Lo ha detto in Parlamento, ed anche uscendo da visite nelle carceri, il ministro della Giustizia. Le ricerche effettuate sulle dimensioni e ragioni del fenomeno dei suicidi in carcere sembrano indicare che il sovraffollamento è solo uno dei fattori incentivanti, mentre a esso si aggiungono altri elementi che concorrono ad aumentare la tensione interna all'istituto penitenziario, nei rapporti tra detenuti e tra i detenuti e il personale penitenziario. Ma il sovraffollamento impone al personale un sovraccarico di lavoro e lo rende più penoso; le strutture sono messe a dura prova e la loro utilizzabilità è ridotta; l'assistenza medica risulta più difficile e meno tempestiva, quella psicologica in particolare. Il sovraffollamento non è solo gravoso in sé, ma è causa di altri motivi di sofferenza aggiuntiva. Si può continuare così? Sembrerebbe di no, poiché c'è un'evidente contraddizione con la Costituzione che vieta le pene contrarie al senso di umanità, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibiscono le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Tuttavia nulla di veramente risolutivo si muove. Il decreto cosiddetto «svuota carceri» (che il Senato dovrebbe approvare definitivamente tra qualche giorno) porta da dodici a diciotto mesi il periodo finale della detenzione espiabile in detenzione domiciliare. Poco più di 3000 detenuti potrebbero essere ammessi al beneficio. Il precedente termine di dodici mesi era stato previsto da una legge del 2010 che fu chiamata «sfolla carceri». Né uno slogan, né l'altro si rivela utile a sostituire la realtà alle speranze o ai messaggi ottimistici. I risultati infatti sono modesti, se raffrontati alle dimensioni del problema: nelle carceri si affollano 23.000 detenuti di troppo. Di troppo rispetto alla capienza e alle possibilità di una vita decente da parte di chi, privato della libertà, non lo è degli altri diritti e soprattutto non del diritto al rispetto della dignità. Non invece di troppo in assoluto, poiché il rapporto detenuti/popolazione in Italia non è significativamente diverso da quello di Paesi europei comparabili ed anzi è spesso inferiore. Si tratta di un fattore che indica che la prospettiva spesso avanzata di risolvere il problema mediante l'eliminazione dalle leggi di molte ipotesi di reato è illusoria. Si può certo depenalizzare un certo numero di reati, ma non sono questi quelli per cui si scontano effettivamente pene detentive. Le sanzioni alternative al carcere stentano ad assumere una vera incidenza nel sistema. E i programmi di aumento dei posti in carcere non sono realizzabili in tempi brevi, mentre ora urge metter fine a un’emergenza che è tale ed è insopportabile. Negli Stati Uniti il sovraccarico delle carceri - con tutto ciò che esso comporta - è già stato riconosciuto come causa di trattamento «crudele e inusuale» e quindi contrario alla Costituzione. La Suprema Corte federale ha quindi disposto l’anno scorso che la California riduca di 40.000 il numero dei detenuti. Una sentenza e una iniziativa certamente eccezionale, ma resa obbligata dalla eccezionale gravità della situazione creata dal sovraffollamento. In Italia è disponibile una sola misura: l’indulto. L’indulto è uno sconto di pena rispetto a quella stabilita dal giudice e si applica a tutti i condannati per i reati che il provvedimento di indulto considera (escludendo la applicazione per certi reati o per i condannati recidivi). Si può immaginare che un indulto di un anno porterebbe alla scarcerazione immediata di circa diecimila detenuti. Certo uno sconto di pena congegnato come l’indulto è per certi versi irragionevole rispetto ai criteri stabiliti dalla legge per la punizione di ciascun reato. Ma, come in passato, la logica che dovrebbe spingere ad una simile iniziativa legislativa risponde solo alla necessità di interrompere il protrarsi di una situazione oggettivamente intollerabile. E per analoga ragione all’indulto dovrebbe essere unita anche un’amnistia per un certo numero di reati selezionati tra quelli minori e di minor allarme sociale. L’amnistia, che estingue il reato, ridurrebbe la massa di 3,4 milioni di procedimenti pendenti e largamente destinati comunque alla prescrizione. Anch’essa peraltro contribuirebbe a ridurre il numero dei detenuti, che spesso scontano pene per reati minori unitamente a quelle per i reati più gravi. In mancanza di alternative rapidamente praticabili ed efficaci, rifiutare la soluzione dell’indulto significa che si è pronti a tollerarla. Purtroppo è ciò che avviene. Il governo, alle prese con problemi di natura economica urgenti e costretto ogni giorno ad osservare il sismografo dei malumori e degli interessi dei partiti che lo sostengono in Parlamento, rinvia ad una iniziativa parlamentare. Dal Parlamento, ove sarebbe necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non arrivano proposte, perché il partito che dimostrasse di essere disponibile a sconti di pena sarebbe subito aggredito dai partiti all'opposizione, che griderebbero al tradimento del diritto dei cittadini alla sicurezza. E, in prossimità di elezioni, il rischio di pagare un prezzo elettorale è reale. Fermo quindi il «governo tecnico» e ferma la «politica», che si ritrae da un terreno in cui i soli radicali sembrano impegnati a mantenere vivo il dibattito sui temi dei diritti e delle libertà; temi che, essendo controversi, sono scomparsi dall’orizzonte delle iniziative altrui. Perché l’emergenza economica e finanziaria in cui l’Italia si trova, tra i tanti pesi che impone, provoca anche il grave silenzio sulle questioni di cittadinanza che, sebbene (sanamente) divisive, restano inevitabili per rendere viva e civile la nostra società da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9763 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Noi brava gente? Non è sempre vero Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2012, 04:40:23 pm 24/2/2012
Noi brava gente? Non è sempre vero VLADIMIRO ZAGREBELSKY L’Italia non pratica e anzi vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. L’Italia assicura asilo ai profughi secondo le regole internazionali. Italiani brava gente. La sentenza che i diciassette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ieri all’unanimità emesso, ci dice che non è sempre vero e che qualche volta c’è scarto tra la realtà e la diffusa convinzione di esser noi all’avanguardia delle nazioni civili. Occasione quindi di riflessione e reazione, per far sì che quello scarto non ci sia mai più. I fatti oggetto della sentenza vennero all’epoca molto pubblicizzati. Canali televisivi influenti ne dettero compiaciuta notizia, come di un’occasione in cui il governo aveva dimostrato la sua efficienza nel difendere i confini dall’invasione di migranti illegali. Invece di continuare a ricevere stranieri sulle nostre spiagge, per poi dover iniziare la difficile e spesso impossibile pratica dell’espulsione, semplicemente erano state inviate navi militari a intercettare in alto mare e a riportare indietro, in Libia, gli indesiderati barconi ed il loro carico umano. Semplice, economico e pratico, «poche storie!». Come ricordò il ministro dell’Interno in Senato si trattava di applicare l’accordo firmato nel 2009, sotto la tenda di Gheddafi. In quell’anno furono eseguite nove operazioni simili e centinaia di migranti furono respinti in quel modo. L’accordo italo-libico è poi stato sospeso nel 2011 nel corso della recente rivoluzione libica. La Corte europea ha giudicato sul ricorso di undici somali e tredici eritrei respinti in Libia con quelle modalità. Essi hanno sostenuto che l’Italia li aveva esposti al rischio di trattamenti inumani da parte delle autorità libiche e di quelle del Paese di origine, se fossero stati colà riportati, e che l’Italia aveva eseguito una «espulsione collettiva», proibita dalle convenzioni internazionali e in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le modalità poi del respingimento avevano impedito ai ricorrenti di ottenere il controllo giudiziario della loro posizione. Una serie di autorevoli organismi internazionali è intervenuta davanti alla Corte, in appoggio ai ricorrenti. Tra questi gli uffici dell’Alto Commissario ai Rifugiati e dell’Alto Commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite. La Corte ha innanzitutto dichiarato che i ricorrenti erano stati imbarcati a bordo delle navi italiane e che quindi, secondo la legge internazionale e italiana, si erano venuti a trovare nella giurisdizione dello Stato italiano: sotto il controllo continuo ed esclusivo, di diritto e di fatto, delle autorità italiane, tenute ad osservare le disposizioni della Convenzione europea. La Corte ha affermato che le autorità italiane avevano consegnato i ricorrenti a quelle libiche nella piena consapevolezza del trattamento che rischiavano. Come accertato da organizzazioni internazionali serie ed affidabili come Amnesty International e Human Rights Watch e come anche confermato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, i migranti respinti in Libia erano messi in detenzione in condizioni inumane, anche con casi di tortura. E lo stesso rischio vi sarebbe stato se e quanto dalla Libia i ricorrenti fossero stati riportati in Somalia o Eritrea, dove esisteva una pratica di detenzione e tortura dei cittadini che avevano tentato di lasciare il Paese. La Corte ha quindi affermato che l’Italia aveva violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Si tratta di un divieto assoluto, che non riguarda solo il comportamento diretto delle autorità statali, ma anche quello indiretto del trasferimento ad altro Stato ove quelle pratiche hanno luogo. Non solo quindi il divieto di torturare, ma anche quello di non trasferire la persona in uno Stato ove sarà esposto al rischio di tortura o trattamento inumano. Lo stesso meccanismo della protezione anche indiretta opera quando l’espulsione o l’estradizione è verso uno Stato che pratica la pena di morte. La violazione di cui l’Italia è stata ritenuta responsabile è tra le più gravi. Colpisce che essa si riferisca ad azioni che gli equipaggi delle navi militari sono stati obbligati a compiere, dopo che in altre circostanze quello stesso personale militare si era guadagnato l’ammirazione per l’opera efficace e rischiosa compiuta, secondo la legge del mare, per soccorrere battelli in difficoltà, scortarli a terra e salvarne da morte gli occupanti. Per questa loro attività quegli equipaggi erano stati elogiati dal Commissario di diritti umani del Consiglio d’Europa. La Corte europea ha anche ritenuto che l’Italia abbia commesso una violazione del divieto di «espulsione collettiva», di espulsione cioè in blocco, senza esame della situazione individuale di ciascuna persona. Senza identificazione e accertamento dei motivi che inducono la persona alla fuga dal suo Paese, non si può accertare se l’espulsione crei pericolo per la vita o l’incolumità della persona o di persecuzione politica o religiosa o altro. Il diritto al rifugio che un migrante può avere non è assicurato quando, com’è avvenuto, non si accerti la condizione personale di ciascuno. La pratica della riconsegna collettiva alla Libia di tutti i migranti raccolti in mare, ha evidentemente impedito ogni esame individuale e, a maggior ragione, il ricorso a un giudice. La sentenza è definitiva. I principi affermati - non nuovi nella giurisprudenza della Corte europea - valgono per l’Italia come per tutti i quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Ed anche, val la pena di ricordare, per i Paesi membri dell’Unione Europea quando definiscono la politica e le iniziative comunitarie di contrasto e gestione dell’immigrazione irregolare. Ma intanto e innanzitutto il governo italiano (il nuovo governo) deve dare esecuzione alla sentenza, non solo indennizzando i ricorrenti, ma anche cessando pratiche come quelle che la Corte ha condannato ed assicurando a tutti coloro che in qualunque modo, anche irregolare o illegale, vengono a trovarsi nella giurisdizione italiana, il pieno ed eguale godimento dei diritti fondamentali. Diritti che non appartengono ai soli cittadini, ma sono propri di tutte le persone umane. DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9810 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Se le richieste dell'Europa sono una scusa Inserito da: Admin - Marzo 20, 2012, 11:30:17 pm 20/3/2012 - MODIFICHE ALLE LEGGI
Se le richieste dell'Europa sono una scusa VLADIMIRO ZAGREBELSKY Non sempre ce lo chiede l’Europa. Nel dibattito politico il rinvio a una supposta richiesta proveniente da una non specificata «Europa», serve spesso a imprimere a una proposta un carattere di indiscutibile cogenza e qualche volta ad allontanare da sé la responsabilità dell’iniziativa. Ma la formuletta del «ce lo chiede l’Europa» è equivoca se non altro perché non specifica da quale istituzione europea e con quale tipo di provvedimento, la richiesta venga avanzata. I regolamenti dell’Unione europea si applicano direttamente, alle direttive bisogna dare attuazione, le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione e quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno eseguite. L’altra vasta varietà di prese di posizione di organismi europei richiederebbe sempre precisazioni, anche per verificarne il diverso grado e tipo di effetto vincolante. Alcuni temi di attuale discussione e contrasto in Italia, per un verso o per altro, rientrano nel genere della (falsa) osservanza di obblighi europei. Comincerei ricordando che la responsabilità civile diretta dei magistrati è stata introdotta dalla Camera nella legge comunitaria (che dovrebbe riguardare solo l’attuazione di direttive comunitarie) presentandola come la necessaria conseguenza di un obbligo derivante da sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Ma sarebbe bastato - e basterebbe ancora - leggere quelle sentenze per vedere che si tratta di una tesi del tutto inventata. Le due sentenze cui ci si riferisce affermano soltanto la responsabilità dello Stato per la violazione del diritto dell’Unione, anche quando la violazione sia avvenuta per un atto giudiziario. Mentre dal Consiglio d’Europa viene l’indicazione che i magistrati rispondano civilmente solo in via indiretta (nei confronti dello Stato, responsabile diretto) e solo per dolo o colpa grave. Ecco dunque un caso di falsa prospettazione dell’esistenza di un obbligo europeo, che porta a conseguenze addirittura opposte all’indirizzo proveniente dagli organi europei. Ma anche nel caso della abolizione del delitto di concussione, che sarebbe obbligata da una richiesta «europea» nell’ambito della lotta alla corruzione, c’è un grave fraintendimento. Nel corso del monitoraggio della messa in opera della convenzione contro la corruzione nelle transazioni internazionali, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che non è un’istituzione europea) ha indicato che la debolezza della repressione della corruzione deriva innanzitutto dal meccanismo della prescrizione dei reati, che troppo gravemente incide sulla capacità della magistratura di giudicare, e ha richiesto quindi all’Italia di provvedere a modificarne il regime. Analoga richiesta e messa in mora dell’Italia era già venuta dal comitato di valutazione degli Stati aderenti alla Convenzione penale contro la corruzione del Consiglio d’Europa. Questa quindi la prima, indiscutibile indicazione che è stata data all’Italia. Eco scarsa o nulla finora! Troppi interessi in campo. Si propone invece di abolire la concussione (il delitto del pubblico ufficiale che abusando delle sue funzioni, costringe o induce altri a versar denaro o dare altra utilità) e si dice che si tratterebbe di un obbligo europeo. In realtà l’obbligo derivante dalla convenzione internazionale cui l’Italia ha aderito è quello di combattere efficacemente la corruzione (nella specie nei confronti di funzionari, ministri ecc. stranieri). La questione della concussione è stata posta perché è sembrato che troppo facilmente (tanto più se i fatti si sono svolti all’estero) gli imputati di corruzione possano difendersi dicendo di essere stati costretti o indotti a pagare per l’abuso che il pubblico ufficiale ha fatto delle sue funzioni. In tal caso è punibile chi ha ricevuto, ma non chi è stato costretto a pagare. E il documento Ocse conclude chiedendo all’Italia di eliminare questo tipo di difesa utilizzata dai corruttori che sostengono di essere stati costretti a pagare. Non quindi l’abolizione della concussione, ma il contrasto al suo richiamo strumentale nel processo. Di questo si tratta e non di altro. La proposta in discussione prevede invece che venga eliminata la concussione dal codice penale e che, come ora avviene, sia il corrotto che il corruttore vengano puniti per il delitto di corruzione, anche quando chi ha pagato sia stato a ciò indotto dal pubblico ufficiale. La condotta di minaccia o violenza del pubblico ufficiale che abusa delle sue funzioni rientrerebbe invece nel delitto di estorsione. Ma anche nel nuovo sistema chi ha pagato il pubblico funzionario cercherà di sostenere di aver pagato perché costretto (estorsione o concussione che sia). Esattamente come ora si può fare con il delitto di concussione, perché la prova che consente di distinguere la costrizione dalla induzione è difficile e non può che essere valutata dal giudice caso per caso. Una riforma quindi ben poco utile rispetto alle preoccupazioni avanzate dall’Ocse. Una riforma inoltre che, come tutte quelle che maneggiano le previsioni del codice penale, rischia di avere conseguenze imprevedibili nella sua applicazione nei procedimenti penali già in corso. Ma concludendo va detto che troppo sbrigativamente si usa l’argomento europeo, talora inventandolo, tal altra fraintendendolo. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9902 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Anche quella omosessuale è una "famiglia" Inserito da: Admin - Marzo 27, 2012, 07:24:01 pm 27/3/2012
Anche quella omosessuale è una "famiglia" VLADIMIRO ZAGREBELSKY La carta di soggiorno riconosciuta dalla Questura di Reggio Emilia a un cittadino uruguayano sposato in Spagna con un italiano, è la diretta conseguenza della sentenza del Tribunale che ha annullato il diniego inizialmente opposto. Il Tribunale ha affermato che il diritto dell’Unione europea, che ha tra i suoi fondamenti la libertà di circolazione nei Paesi membri, implica il diritto a veder tutelata l’unione familiare, così come formatasi nel Paese di provenienza. Il Tribunale ha confermato che la questione del matrimonio tra persone dello stesso sesso è di competenza dei parlamenti nazionali. Il diritto dell’Unione però disciplina aspetti specifici che sono di sua pertinenza e tra questi quello della libertà di circolazione. La sentenza ricostruisce il diritto dell’Unione e quello italiano conseguente e limita la sua portata ad un aspetto specifico: quello degli effetti sulla nozione di famiglia di un matrimonio (come quello omosessuale ammesso dalla Spagna), in funzione della libertà di circolazione dei cittadini europei nell’ambito dell’Unione. Benché importante, si tratta di questione delimitata. Ma il Tribunale chiude la sua motivazione con un richiamo che va ben oltre il caso specifico, osservando come «lungi dall’attuare un riconoscimento dello status matrimoniale, la soluzione adottata appaia comunque conforme all’esigenza di dare attuazione al "diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia" riconosciuto all’unione affettiva tra due persone dello stesso sesso dall’articolo 2 della Costituzione». Un diritto riconosciuto dalla Corte costituzionale con una sentenza del 2010 e in linea con quanto affermato dalla Corte europea dei diritti umani. Quest’ultima ha confermato che appartiene agli Stati ammettere o negare i matrimoni omosessuali, ma che le unioni omosessuali (come d’altronde le unioni di fatto eterosessuali) danno luogo a una vita di famiglia, che va rispettata e protetta. Nello stesso senso si è recentemente espressa la Cassazione italiana sviluppando la motivazione di una sentenza con la quale ha negato la possibilità di trascrivere in Italia un matrimonio omosessuale celebrato all’estero. La Cassazione ha affermato che quel tipo di unione, indipendentemente dalla forma matrimoniale che il diritto italiano attualmente non ammette, merita il riconoscimento che deriva dal fatto che essa costituisce una famiglia. E la Carta dei diritti dell’Unione ha voluto espressamente considerare che esistono modi diversi dal matrimonio di costituire una famiglia. La Costituzione, come la Convenzione europea dei diritti umani e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, vieta ogni discriminazione sulla base, tra l’altro, del sesso. Il divieto di discriminazione non equivale però al diritto a un trattamento per ogni aspetto eguale. Ma ogni differenza deve essere fondata su una differenza rilevante della situazione disciplinata. Larga è in proposito la discrezionalità di cui il legislatore può far uso, ma non senza limiti. Vegliano a che non ne abusi la Corte Costituzionale e la Corte europea. Ecco allora che la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia rivela un respiro che va ben oltre il limitato caso concreto. I giudici nazionali ed europei adottano ormai una linea univoca: che le unioni omosessuali siano o no riconosciute come una forma legittima di matrimonio, è certo che esse non possono essere trattate come un fatto irrilevante. Una serie di aspetti della vita di coppia sono già presi in conto dalle leggi italiane. Il Tribunale cita ad esempio il risarcimento dei danni derivanti dalla morte del compagno, il trasferimento del contratto di locazione, il diritto del convivente omosessuale di astenersi dal testimoniare. Altri diritti verranno fatti valere davanti ai giudici, che dovranno giudicare tenendo presente che in linea di principio il rispetto della vita familiare non può aver contenuto diverso se si tratta di coppia omo o eterosessuale. Giudicheranno interpretando le leggi in vigore, fin dove è possibile farlo in coerenza con i principi affermati, oppure rinvieranno alla Corte Costituzionale l’esame della costituzionalità di quelle leggi. E poi, se i ricorrenti non avranno avuto soddisfazione vi sarà magari anche il ricorso contro l’Italia davanti alla Corte europea dei diritti umani. I Parlamenti spesso si dimostrano inclini ad evitare di prendere posizione in materie sensibili, che dividono e suscitano emozioni profonde, radicate nella tradizione e nell’abitudine secolare. I giudici invece non possono sottrarsi all’obbligo di decidere le cause che vengono loro presentate. Un poco per volta emerge un orientamento; nel nostro caso un orientamento omogeneo in sede nazionale ed europea. Ma le decisioni dei giudici riguardano ogni volta la sola questione posta e rischiano di non essere costanti e univoche. Da tempo si attende che il Parlamento assuma le sue responsabilità legislative e regoli una buona volta la materia. Piuttosto che piccole specifiche disposizioni, è il momento della disciplina organica. Comunque le si voglia chiamare, si tratta di riconoscere e disciplinare le unioni omosessuali. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9929 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Verità e rispetto il dovere degli stati verso le vittime Inserito da: Admin - Aprile 17, 2012, 12:01:46 pm 17/4/2012
Verità e rispetto il dovere degli stati verso le vittime VLADIMIRO ZAGREBELSKY Ha suscitato emozione e persino indignazione la sentenza della Corte di Assise d'appello di Brescia nella parte in cui, assolvendo gli imputati della strage di Piazza della Loggia, condanna i familiari delle vittime, costituiti parte civile, a pagare le spese processuali. La gravità del fatto oggetto del processo - ed anche il suo inserimento in una serie di vicende analoghe per natura e per esito processuale - spiega la reazione ed anche l’iniziativa del governo per porre rimedio a quello che è sentito come un aspetto particolarmente ingiusto della sentenza. Una prima impressione potrebbe collocare questa reazione esclusivamente sul piano delle sensibilità morali. Già, se così fosse, si tratterebbe di questione grave. Ma v'è di più. Il rispetto per le vittime (qui sono vittime i familiari di coloro che vennero uccisi) è un dovere giuridico dello Stato, che assume molte forme. Qui non si tratta di un fatto riducibile alla sua dimensione patrimoniale, ma del possibile conflitto con obblighi che lo Stato ha assunto ratificando trattati internazionali in materia di diritti umani fondamentali. Mi riferisco al Patto dei diritti civili delle Nazioni Unite e soprattutto alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Entrambi i trattati impongono agli Stati di proteggere la vita delle persone e di impedire che esse siano vittime di torture o di trattamenti inumani. E l'obbligo dello Stato si estende, dopo che fatti di quel genere si siano verificati, al dovere di svolgere indagini efficaci per identificare e punire i responsabili assicurando alle vittime la possibilità di partecipare alle indagini, esserne informate e ricevere, se possibile, adeguata soddisfazione. Un tal obbligo, che si dice «procedurale» non per sminuirne l'importanza, ma solo per distinguerlo da quello «sostanziale» di non uccidere e non torturare, è particolarmente grave quando sia messa in discussione la responsabilità di organi dello Stato nella commissione dei fatti o nella copertura dei responsabili. Ed è questo il caso nelle vicende legate alle stragi commesse in quella che è stata chiamata la «strategia della tensione». Lo stesso discorso, riferito all'obbligo dello Stato italiano di indagare e punire, va fatto anche per quel che riguarda il comportamento di forze di polizia nella scuola Diaz a Genova. Ma di ciò occorrerà discutere quando le sentenze saranno definitive. Per ora va solo detto che contro l'Italia pende già un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. E proprio la Corte europea ha ieri pubblicato una sentenza che riguarda i diritti delle vittime. Si trattava di uno degli episodi più bui della guerra in Europa: l'uccisione di oltre 20.000 prigionieri di guerra polacchi nelle foreste di Katyn. Il 1˚ settembre del 1938 le truppe naziste invasero la Polonia. Qualche settimana prima l'accordo Molotov-Ribbentrop aveva previsto la spartizione della Polonia tra la Germania nazista e la Russia sovietica. E il 17 dello stesso mese le truppe sovietiche entrarono nel territorio polacco. Ne seguì l'annessione di parte della Polonia all'Urss e 13 milioni di polacchi divennero cittadini sovietici. 250.000 polacchi vennero presi prigionieri. Nel 1940, 21.857 di essi, in gran parte ufficiali dell'esercito, vennero uccisi per esplicito ordine di Stalin e del Politburo sovietico. La conferma di quella responsabilità è venuta dai documenti pubblicati dal governo russo dal 1990, da ammissioni dei nuovi dirigenti russi ed anche da una dichiarazione ufficiale della Duma russa nel 2010. Ma per lungo tempo le autorità sovietiche (e, al seguito, quelle comuniste polacche) attribuirono la responsabilità del massacro ai nazisti. Le indagini sulle responsabilità vennero svolte dalle autorità russe solo dopo la caduta del sistema sovietico, ma si conclusero nel nulla, con una decisione di archiviazione del 2004, di cui i familiari delle vittime ancora non hanno potuto avere conoscenza. L'indagine della Procura Militare è stata segretata e vi sono affermazioni di giudici russi che lasciano addirittura aperta l'ipotesi che questa o quella vittima sia in realtà «scomparsa». Ad una presa di posizione di accettazione della responsabilità politica di Stalin e del partito comunista, non ha fatto seguito, rispetto alle singole vittime, un’attività concreta ed efficace di chiarimento dei fatti, offerta di tutte la informazioni possibili, ricerca dei corpi, riparazione. L'interesse della sentenza della Corte europea (non definitiva, poiché certo sarà appellata dal governo russo) risiede nel fatto che la Corte ha ritenuto che il comportamento delle autorità russe nei confronti delle vittime (i familiari degli uccisi), ha costituito un trattamento inumano, vietato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La Corte non ha potuto esaminare il fatto in sé della strage, né la mancanza di indagini efficaci sulle responsabilità di singole persone, poiché tutto si è svolto prima che la Russia, nel 1998, ratificasse la Convenzione. Ma in questo come in altri precedenti casi, ha affermato che l'inerzia, il distacco burocratico, la reticenza, il rifiuto di considerare le legittime richieste delle vittime costituiscono una violazione grave, «inumana» dei diritti delle vittime. Tutte le vicende sono diverse l'una dall'altra e questa storica della strage di Katyn è difficilmente comparabile ad altre, ma le vittime e i familiari delle vittime hanno tutti, allo stesso modo, diritto ad un rispetto effettivo da parte dello Stato. Anche quelle delle stragi che hanno insanguinato per anni la politica e le vite degli italiani. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10003 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY La roulette russa giudici-lavoro Inserito da: Admin - Maggio 02, 2012, 09:26:38 am 1/5/2012
La roulette russa giudici-lavoro VLADIMIRO ZAGREBELSKY Nel dibattito sulle possibili modifiche dell’articolo 18 della legge del 1970, che va sotto il nome di Statuto dei Lavoratori, si è inserito un argomento che, per la sua rilevanza generale, va segnalato e commentato indipendentemente dall’esito che avrà infine la proposta governativa ora all’esame del Senato. La questione riguarda il ruolo del giudice nel decidere l’annullamento di un licenziamento, perché intimato senza giusta causa, con la conseguente reintegra del lavoratore nel posto di lavoro. Accanto ai motivi di merito portati dalle varie parti attorno all’ipotesi di adottare una «soluzione tedesca», si è accennato anche al tema della affidabilità dei giudici, con quella che potrebbe essere liquidata come una battuta impropria: «Sì ma, i giudici italiani non sono come quelli tedeschi». Non so quanto approfondita sia la conoscenza degli orientamenti e del modo di lavorare dei giudici tedeschi nel loro complesso, ma egualmente, per la realtà italiana, la questione non è liquidabile come se si trattasse solo di una fastidiosa insinuazione. Il problema invece è della massima importanza e non riguarda solo il diritto del lavoro. La prevedibilità delle decisioni dei giudici è un aspetto fondamentale dello Stato di diritto, che richiede che i diritti e le libertà dei cittadini siano disciplinati dalla legge. La ragionevole certezza che le leggi possono assicurare è però vanificata quando la loro applicazione da parte del giudice è imprevedibile, oscillante, contraddittoria. Anche se è molto raro che una legge sia tanto chiara da escludere più interpretazioni, occorrerebbe che il legislatore producesse leggi che prevengano quanto più possibile le divergenze applicative. Ma ciò spesso non avviene per la difettosa tecnica di redazione o perché, alla ricerca di un accordo, si lasciano aperti e si rinviano alla decisione giudiziaria punti di conflitto politico. Un esempio di questa tendenza negativa si può vedere proprio nella proposta governativa sull’articolo 18, che in una particolare ipotesi sembra legare una diversa disciplina al caso in cui la mancanza della causa legittima di licenziamento sia «manifesta» e a quello in cui manifesta non sia, anche se accertata dal giudice. Una simile previsione è evidentemente destinata a produrre la massima imprevedibilità delle decisioni, su un punto di particolare rilevanza per la parti. Per portare comunque a un livello sopportabile le divergenze interpretative, soccorrono strumenti processuali conosciuti dagli Stati ben ordinati. Solitamente si ricorre alla forza vincolante delle sentenze della Corte di Cassazione, oppure a varie forme di vincolo nascente dai precedenti derivanti dalle sentenze rese da altri giudici in casi analoghi. Non si giunge mai a una soluzione che elimini ogni incertezza. Rimane comunque un certo tempo in cui le discordanze attendono che il sistema di assesti e giunga a stabilità. Ma ciò che non è accettabile è un’imprevedibilità strutturale e senza rimedio efficace. Nella materia riguardante la giusta causa nei licenziamenti una recentissima indagine di Andrea Ichino e Paolo Pinotti, pubblicata da La voce, ha reso evidente come, non solo la durata dei procedimenti giudiziari, ma anche e soprattutto i loro esiti siano diversissimi secondo il giudice cui la causa è stata assegnata. E poiché l’assegnazione a questo o a quel giudice è casuale, secondo criteri pressoché automatici, i due autori hanno potuto parlare di «roulette russa», così per il lavoratore che per il datore di lavoro. Cosa che è particolarmente grave quando la decisione sia resa da un giudice singolo e non collegiale e sia immediatamente esecutiva. Naturalmente un’indagine statistica, che maneggia numeri e non tieni conto delle specificità di ogni caso, va utilizzata per quel che può dare. Le percentuali che sono state estratte dai dati vanno trattate con prudenza. Ma l’esperienza diffusa conferma che l’indicazione non è priva di fondamento e non limitata al campo del diritto del lavoro. D’altra parte, proprio in quest’ultima materia la recente applicazione della norma sul diritto a istituire rappresentanze sindacali - che al lettore sembrerebbe univoca ha mostrato sorprendenti contrasti tra giudice e giudice nel decidere la medesima questione. Diverse valutazioni dei fatti nella loro specificità sono fisiologiche, poiché dipendono spesso dalla necessità di valutare circostanze e prove su cui è normale che si manifestino opinioni diverse. Il susseguirsi dei diversi gradi del processo - l’appello, la Cassazione - tende a garantire una conclusione motivata e accettabile anche quando opinioni diverse siano plausibili. La questione si presenta però diversamente quando si tratta di interpretare la legge (o il sistema delle leggi) applicabile. In questo caso il coesistere nel tempo di diverse e contrastanti interpretazioni, adottate da questo o da quel giudice, mette in discussione la stessa legge. Nell’assicurare i fondamenti dello Stato di diritto in Europa, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiede che la disciplina dei diritti e delle libertà sia definita in modo ragionevolmente conoscibile e prevedibile nella sua applicazione da parte dei giudici. In diversi casi essa ha negato a un testo normativo la qualità di «legge», proprio perché l’applicazione da parte dei giudici era oscillante e imprevedibile, in modo tale che il cittadino era in sostanza alla mercé della decisione dell’autorità pubblica nel caso concreto. L’impressione è che il fenomeno della discordanza di giudizi siano particolarmente grave in Italia. I giudici sembrano ritenere scarsamente vincolante la giurisprudenza della Corte di Cassazione e accade che persino questa sia incoerente, instabile e incapace di assicurare un’applicazione eguale della legge. E sono deboli gli strumenti processuali destinati a risolvere i conflitti di giurisprudenza. In Francia è stato instaurato un sistema per cui la prima decisione di un giudice su una legge che pone problemi interpretativi importanti, viene subito portata all’esame della Corte d’appello e poi con precedenza all’esame della Corte di Cassazione, perché questa possa rapidamente dire la parola definitiva. Si tratta di un sistema pratico, che suppone però che la sentenza della Cassazione sia poi vincolante per l’insieme dei giudici. In Italia la cultura professionale dei magistrati esalta la loro individuale indipendenza e mette in ombra il profilo istituzionale del giudizio. Si parla del potere giudiziario come «potere diffuso», come se ciascun giudice ne fosse personalmente depositario. Il valore del precedente, che assicura prevedibilità anche quando non appaia pienamente convincente, è largamente rifiutato e tende invece a prevalere l’autorità della decisione del singolo giudice. E’ un tratto culturale e professionale che, nella sua forza, è specificamente italiano; frutto di una storia svoltasi nel dopoguerra, di liberazione dal peso di una gerarchia conservatrice, insensibile alla novità rappresentata dalla Costituzione repubblicana. Ma quel periodo storico è in Italia da tempo concluso, cosicché le ragioni di un ordinato funzionamento del complesso sistema giudiziario dovrebbero ora prevalere. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10051 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Fecondazione, cosa divide l'Italia dall'Europa Inserito da: Admin - Maggio 29, 2012, 11:05:08 am 28/5/2012
Fecondazione, cosa divide l'Italia dall'Europa VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il sintetico comunicato stampa con cui la Corte costituzionale ha dato notizia della restituzione degli atti ai giudici che hanno sollevato questione di costituzionalità del divieto di fecondazione assistita di tipo eterologo (con gameti di persona estranea alla coppia), intendeva certo corrispondere all’attesa ansiosa dei molti che sono oggetto di quel divieto e che speravano che esso fosse levato. Accanto a costoro, ma con speranza opposta, stavano gli altri, che ritengono fondamentale mantenere in Italia quel divieto. E le dichiarazioni rese dagli uni e dagli altri, oltre che le posizioni espresse dai commentatori, hanno spesso riempito di contenuti opposti quelle poche righe di comunicato, interpretando la decisione della Corte alla luce delle proprie speranze. Ma a ben vedere la decisione interlocutoria della Corte è affatto neutra e non lancia segnali circa il suo orientamento sul merito della questione. Ed è persino possibile che un orientamento non si sia ancora formato e maturi solo quando le eccezioni di costituzionalità della legge 40 del 2004 verranno riproposte e riprese in esame. L’unica cosa che si può ora dire è che la Corte non ha deciso. Si può aggiungere che avrebbe potuto farlo, in un senso o nell’altro, ma non è contrario alla prassi il fatto di restituire gli atti ai giudici remittenti quando nel frattempo si sia verificato un fatto nuovo e potenzialmente rilevante. Nel caso specifico il fatto nuovo è formalmente di grande rilievo. Tutti i giudici che avevano posto alla Corte costituzionale il quesito di costituzionalità del divieto di quel particolare tipo di fecondazione medicalmente assistita, si erano riferiti anche al tenore di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, richiamandola a sostegno della tesi della incostituzionalità. Ma la sentenza citata non era ancora divenuta definitiva e nel frattempo è stata riformata dalla Grande Camera della Corte. Venuto meno il punto d’appoggio di uno degli argomenti sviluppati dai giudici remittenti, si può comprendere che la Corte costituzionale attenda la riconsiderazione del quadro di riferimento per pronunciarsi sul fondamento delle eccezioni di costituzionalità. Il fatto nuovo è però solo formalmente rilevante. Nella sostanza invece credo che lo sia ben poco. Le due sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano la condizione di due coppie che, secondo la legge austriaca, non possono ricorrere in patria all’inseminazione eterologa, unico modo per esse di procreare. La legge austriaca applicata a quei ricorrenti non è identica a quella italiana, che prevede un generale divieto di fecondazione eterologa. Non solo, ma la differenza di valutazione che ha portato la Corte europea prima a pronunciarsi nel senso che il divieto ledeva il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare e poi, con la successiva sentenza definitiva, a negare invece che l’Austria avesse violato quel diritto, riguarda il cosiddetto «margine di apprezzamento nazionale» nella protezione dei diritti fondamentali della persona. Un margine che la prima sentenza aveva ritenuto oltrepassato nel caso concreto e che invece la Grande Camera ha giudicato compatibile con il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le particolarità dei diversi casi concreti sono quindi di speciale importanza. Naturalmente la questione del margine di discrezionalità lasciato ai singoli Stati nella scelta delle modalità di protezione dei diritti e delle libertà che essi hanno «riconosciuto» ratificando la Convenzione europea, è tutt’altro che irrilevante. Per un suo allargamento anzi premono gli Stati per svincolarsi quanto più possibile dal controllo che in sede europea svolge la Corte. Ma ciò che in proposito ha detto la Corte europea nel caso austriaco, non può avere meccanica trasposizione nella situazione italiana. Toccherà invece alla Corte costituzionale valutare se, con riferimento alle norme costituzionali italiane, il complessivo sistema della legge n.40, con i valori e le esigenze che essa esprime, sia equilibrato e proporzionato nella limitazione del diritto individuale al rispetto delle scelte di vita privata e famigliare che si proiettano nelle scelte procreative (quanto alle restrizioni possibili la Convenzione europea richiede che esse siano «necessarie di una società democratica»). Ciò che invece vincola la Corte costituzionale è il principio di diritto affermato dalla Corte europea, quando ha detto che rientrano nell’ambito della vita privata e familiare protetta dalla Convenzione le decisioni di diventare o non diventare genitori. Si tratta di affermazione che la Corte ha fatto nella prima, come nella seconda e definitiva sua sentenza nel caso austriaco (richiamando anche suoi precedenti in casi relativi all’Irlanda e al Regno Unito). Nello stesso senso si era pronunciata la Corte costituzionale austriaca e il principio non era stato negato dal governo austriaco nello svolgimento della procedura davanti alla Corte europea. E’ difficile immaginare che la Corte costituzionale italiana vada in altra e contraria direzione su questo punto. Dunque la Corte costituzionale esaminerà la questione del divieto imposto dalla legge italiana in rapporto ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e anche in relazione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha già detto la Corte costituzionale va intesa «come interpretata dalla Corte europea». E a questo proposito - se non altro per non esporre l’Italia al rischio di una sentenza di violazione della Corte europea - la Corte costituzionale terrà certo conto dei criteri seguiti in sede europea nella gestione del difficile criterio del margine di apprezzamento nazionale. Nel definire i limiti della discrezionalità nazionale, la Corte europea fa sempre riferimento al «consenso europeo», per come esso emerge dalle legislazioni e dalle prassi dei quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Più chiaro l’orientamento europeo, più ristretto l’ambito della discrezionalità dei singoli Stati nel separarsene, e viceversa. Non solo, ma la Corte europea sottolinea sempre che la sua giurisprudenza è evolutiva e cerca di seguire le dinamiche culturali e sociali che emergono dagli Stati europei. Nel caso austriaco la Corte europea, invitando gli Stati europei a un costante aggiornamento, ha riconosciuto che è evidente una tendenza europea nel senso di autorizzare pratiche di fecondazione eterologa. Un orientamento che non è smentito da differenze riguardo ai limiti alla possibilità di conoscere l’identità del donatore e talora alla diversa considerazione della donazione di sperma maschile o di ovuli femminili. Oggi un divieto come quello posto dalla legge italiana è presente solo in Lituania e Turchia. In questo quadro europeo dovrebbero essere molto forti le esigenze nazionali italiane, per separarsi dall’orientamento che assolutamente prevale in Europa. Tanto più che quel tipo di fecondazione è facilmente disponibile in tanti Paesi a noi vicini e quindi utilizzabile, sol che se ne abbiano le possibilità economiche e pratiche. Il divieto, che si giustificherebbe per la «non naturalità» del procedimento e per l’inusuale rapporto che si instaurerebbe tra il nato e coloro che hanno contribuito a generarlo, resta quindi sterile questione di principio. Essa è imposta da chi la condivide a coppie che già soffrono della infertilità e che vorrebbero realizzare il loro legittimo desiderio di divenir genitori usufruendo, come è garantito dal Patto internazionale dei diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, della possibilità di «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni». da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10154 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Le nomine Agcom e il primato del pluralismo Inserito da: Admin - Luglio 01, 2012, 03:31:28 pm 13/6/2012
Le nomine Agcom e il primato del pluralismo VLADIMIRO ZAGREBELSKY Sarebbe bene sostituire la misteriosa sigla della Agcom con il suo nome vero, per ricordare la natura e la missione di quella Autorità indipendente, che è istituita «per le garanzie nelle comunicazioni». Essa svolgerà un ruolo decisivo nella assegnazione delle frequenze per le trasmissioni televisive: un ruolo determinante per ciò che vedremo, ascolteremo e sapremo nei prossimi anni. La gravità degli attuali problemi economici, che monopolizzano le attenzioni e preoccupazioni, spinge a vedere solo il profilo economico di questioni che invece riguardano anche altre ed importanti esigenze. E’ significativo che le critiche largamente portate alle recenti nomine dei componenti della Autorità finiscano spesso con il riflettersi solo sulle previsioni di comportamento di questo o quel commissario nelle decisioni che hanno conseguenze economiche sui vari operatori televisivi, attuali o potenziali. Nessuno, specie di questi tempi, può sottovalutare la portata economica delle decisioni da prendere. Ma essa non deve esaurire l’ attenzione di chi le prende, né la vigilanza della pubblica opinione. In un suo intervento a «Otto e mezzo» de La7, l’altro giorno il segretario del Pd ha menzionato la cacciata «politica» di Santoro dalla Rai come un esempio di inettitudine «economica» da parte di una impresa, che dovrebbe curare i suoi interessi. Difficile nascondere lo stupore: non un cenno al profilo che riguarda la qualità dell’informazione fornita dalla Rai, responsabile del servizio pubblico. Come se, al contrario, non ci fosse stato nulla da dire nel caso in cui il programma cancellato non avesse avuto grande audience. Evidentemente l’unica logica è ormai quella dei costi/ricavi economici. La informazione, completa e pluralistica è un bene pubblico, condizione fondamentale di una società idonea a far vivere il sistema democratico. Ad essa deve tendere l’opera del Parlamento, del Governo e della Agenzia per le garanzie nelle comunicazioni. In linea con ciò che prescrive la Costituzione, è ora giunta a ricordarcelo una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Con essa l’Italia è stata riconosciuta in violazione della libertà di espressione e informazione. Da tempo la situazione italiana è ritenuta allarmante in tutte le sedi europee. Nel 2003 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione, rilevando che il livello di concentrazione del mercato televisivo italiano era il più alto in Europa ed era caratterizzato da un duopolio fra RAI e Mediaset. All'epoca poi entrambe erano sotto l'influenza del presidente del Consiglio. Il Parlamento europeo ha anche notato che il sistema audiovisivo italiano continuava ad operare fuori di un quadro legale, in violazione di quanto stabilito nel 1994 e poi ancora nel 2002 dalla Corte costituzionale. Il caso italiano deciso dalla Corte europea è straordinario innanzitutto nel suo svolgimento. I governi italiani succedutisi nel tempo a partire dal 1999 sono riusciti a farsi condannare dal Consiglio di Stato, dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e ora infine dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. E le sentenze in materia della Corte costituzionale sono andate nello stesso senso, ma sono rimaste ignorate da Parlamento e Governo. Tutti i giudici in terra si sono pronunciati: contro il governo, contro la legge italiana e contro l’applicazione fattane che «aveva favorito gli operatori esistenti a danno dei nuovi, anche se questi erano titolari di concessione, ma si trovavano nella impossibilità di trasmettere per la mancata assegnazione di radiofrequenze». Si trattava della società Centro europa 7, che nel 1999 aveva ottenuto la concessione per l’installazione di una rete televisiva con diritto a tre radiofrequenze atte a coprire l’80% del territorio nazionale. L’attribuzione di quelle frequenze doveva essere fatta secondo le prescrizioni di un «piano di assegnazione», che però fu attuato solo nel 2008. Nel frattempo, mentre si preparava il passaggio alle trasmissioni numeriche, una serie di norme transitorie aveva permesso agli operatori già attivi di continuare a trasmettere occupando le relative frequenze. L’impedimento valeva, infatti, per i nuovi operatori, cui le frequenze non venivano assegnate. La Corte europea - nella stessa linea seguita da tutti i giudici che sono intervenuti nella vicenda - ha addebitato all’Italia di non avere adottato una legislazione e una azione amministrativa idonee a «garantire un effettivo pluralismo nei media». Non basta infatti l’esistenza di più canali e la possibilità teorica di accedere al mercato audiovisivo. Occorre invece una possibilità effettiva, in modo da «assicurare nel contenuto dei programmi, considerato nel suo insieme, una diversità che rifletta quanto più possibile la varietà delle correnti di opinioni che attraversano la società». Poiché la democrazia si fonda sulla libertà di espressione e richiede il massimo pluralismo delle voci. I media audiovisivi, poi, svolgono un ruolo particolarmente importante, perché la trasmissione di suono e immagine produce un effetto più immediato e potente del messaggio scritto. «Se un gruppo economico o politico potente fosse autorizzato a dominare il mercato dei media audiovisivi, che hanno il potere di far passare messaggi immediati, una simile posizione dominante sarebbe lesiva della libertà di comunicare e di ricevere informazioni e condurrebbe quel gruppo ad esercitare una pressione che restringerebbe la libertà editoriale, mettendo in crisi il ruolo fondamentale della libertà di espressione nella società democratica, in particolare quando si tratti di informazioni e idee di interesse generale, che, d’altra parte, il pubblico ha diritto di conoscere». La considerazione degli interessi economici, se isolata e insensibile alle esigenze dei doveri e diritti fondamentali, potrebbe spingere ad assegnare tutte le frequenze ad un solo operatore, se solo ce ne fosse uno abbastanza ricco da offrire un prezzo più alto di tutti gli altri. Ma lo Stato deve assicurare il massimo grado possibile di pluralismo nella informazione, anche pagando qualche necessario prezzo economico, specialmente quando «il sistema nazionale è caratterizzato da un duopolio». Ciò vale naturalmente quando si tratti di mettere una pluralità di operatori in condizioni di trasmettere. Ma vale altrettanto quando si considera il «servizio pubblico» cui è destinata la Rai e che essa deve essere messa in grado di svolgere al riparo da pressioni, censure, allettamenti politici o altrimenti forti. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10222 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Quel delitto che l'Italia non punisce Inserito da: Admin - Luglio 06, 2012, 11:04:55 am 6/7/2012
Quel delitto che l'Italia non punisce VLADIMIRO ZAGREBELSKY La sentenza della Cassazione conclude sul piano della giustizia penale una vicenda nazionale tra le più gravi. Riferendosi ai dirigenti della polizia e agli agenti che avevano agito nella scuola Diaz in coda alla giornata di proteste contro il G8 del 2001, la Corte di appello di Genova, nella sentenza che ora la Cassazione sostanzialmente ha confermato, aveva parlato di «tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità civile» e di «enormità dei fatti che hanno portato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». I fatti sono noti. Per giustificare l’irruzione nella scuola vennero portate al suo interno delle bottiglie molotov per attribuirne il possesso ai manifestanti che vi si erano raccolti e che poi, tutti insieme, furono arrestati. E’ noto anche che costoro furono minacciati ed umiliati dalle forze di polizia, violentemente colpiti, feriti anche gravemente. Decine di persone, molte straniere, furono ferite, due furono in pericolo di vita. Le imputazioni hanno riguardato la calunnia nei confronti degli arrestati, la falsificazione dei verbali di arresto. Le violenze sulle persone hanno dato luogo ad imputazioni di lesioni. Mentre il primo blocco di accuse ha portato infine a un certo numero di condanne di dirigenti, funzionari, agenti di polizia, la sentenza ha concluso che i delitti di lesioni personali sono ormai estinti per il decorso del termine di prescrizione. E’ sui fatti gravissimi cui si riferiscono le imputazioni di lesioni che merita qui soffermarsi. Sul resto almeno, pur dopo undici anni, la giustizia penale si è pronunciata. Ma le violenze fisiche, pur accertate, sono rimaste senza sanzione. Almeno alcune di queste hanno avuto la sostanza di ciò che a livello internazionale si chiama tortura. Mi riferisco alla definizione che ne offre la Convenzione dell’Onu contro la tortura, del 1984, che l’Italia ha ratificato nel 1988: l’atto con il quale un agente della funzione pubblica - personalmente o da altri su sua istigazione o con il suo consenso - infligge dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, per ottenere informazioni o confessioni, o per punire o intimorire la vittima. Oltre ad episodi di vera tortura, nell’assalto alla scuola Diaz se ne sono verificati altri, che costituiscono trattamenti inumani e degradanti, anch’essi vietati dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo, che l’Italia ha ratificato nel 1955. La Convenzione Onu contro la tortura impone agli Stati di prevedere nel loro sistema penale interno il delitto di tortura, con pene di gravità adeguata, mettere in atto opera di prevenzione e assicurare la punizione dei responsabili. Analogo obbligo deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e da quella europea contro la tortura. Ma l’Italia non ha mai introdotto nel suo codice penale il delitto di tortura. La tortura, quindi, come tale, non è punibile in Italia. E rispetto all’obbligo assunto dall’Italia nei confronti della comunità internazionale, non si tratta semplicemente di un lungo ritardo o di una disattenzione. L’Italia ha ricevuto nel corso degli anni una serie di solleciti da parte del Comitato europeo contro la tortura e dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. L’Italia ha espressamente rifiutato di dare esecuzione a quelle raccomandazioni. Nel 2008 il governo italiano dell’epoca ha formalmente dichiarato di non accogliere la raccomandazione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sostenendo che in realtà già ora la tortura è punita, applicando quando è il caso le norme che sanzionano l’arresto illegale, le percosse, le lesioni, le minacce, l’omicidio. Una risposta capace di trarre in errore, come la vicenda delle violenze nella scuola Diaz o l’altra di violenze su detenuti in carcere recentemente giudicata dal Tribunale di Asti, ben dimostrano. Nessuna di quelle norme ha portato a condanne: i reati di lesioni contestati si sono prescritti, finendo nel nulla. Nel frattempo sembra che nemmeno siano state applicate sanzioni disciplinari e anzi che qualcuno dei responsabili abbia ottenuto promozioni. Se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo. Accanto all’inadeguata gravità delle pene e l’operare dei condoni, è il meccanismo italiano della prescrizione che rende solo apparente la repressione dei fatti di tortura (come peraltro anche quella di altri gravi reati). Ma di questo, nella sua risposta al Consiglio dei diritti umani, il governo non ha fatto cenno. La conseguenza sul piano della credibilità internazionale dell’Italia è seria. Essa sarà aggravata e certificata quando sulla responsabilità del governo italiano, per aver lasciato impunite quelle violenze, si pronuncerà la Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale già sono stati presentati ricorsi. In Parlamento si sono arenate iniziative legislative. Il pretesto fatto valere è stato quello della necessità di proteggere la polizia da false accuse. Ma le false accuse vanno scoperte e sanzionate nei processi. E purtroppo vi sono anche accuse più che fondate. Per altro verso in Parlamento si è preteso che le violenze, per costituire tortura, dovessero essere «ripetute» e non soltanto, come è ovvio, raggiungere un certo livello di gravità. In conclusione nulla si è fatto. Recentemente la discussione è ripresa. V’è chi si preoccupa e sostiene che solo ipotizzare in una legge che un agente pubblico possa torturare è offensivo per i corpi di polizia. Purtroppo i fatti dimostrano che non si tratta di ipotizzare, ma di prevedere ed essere pronti a punire. E a me pare sia offensivo piuttosto pensare che le forze di polizia, nel loro complesso, preferiscano l’impunità di coloro che tradiscono la loro missione di legalità e rispetto delle persone. Per attenuare l’impressione che si abbiano di mira le forze di polizia e trovare in Parlamento la necessaria condivisione, sta emergendo l’ipotesi di prevedere un delitto generico di tortura, che potrebbe essere commesso da chiunque, aggiungendo un’aggravante quando il fatto sia commesso da un agente pubblico. Un recente disegno di legge di iniziativa del sen. Marcenaro ed altri va in questa direzione. Soluzione tuttavia non facile, perché la finalità che muove il torturatore, nella definizione data dalla Convenzione Onu, rinvia naturalmente alla azione di forze di polizia o comunque ad organi dello Stato e difficilmente invece ad un soggetto indifferenziato. Ma, se serve a sbloccare la situazione, può trattarsi di soluzione opportuna. E sarebbe bene che, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo discuterà i ricorsi contro l’Italia o il Consiglio dei diritti umani dell’Onu riprenderà in esame la questione, il governo si presenti potendo dire almeno che è stato messo rimedio, per il futuro, alla grave mancanza. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10302 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY nioni gay, la strada verso una soluzione condivisa Inserito da: Admin - Luglio 19, 2012, 10:04:42 pm 19/7/2012
Unioni gay, la strada verso una soluzione condivisa VLADIMIRO ZAGREBELSKY Torna nella discussione pubblica la questione del riconoscimento giuridico da dare alle coppie omosessuali. A Milano il Consiglio comunale esamina la proposta di istituire un registro delle unioni civili: coppie di fatto da assimilare per certi versi alle coppie sposate. Nel Pd il tema ha dato luogo a vivaci contrapposizioni. V’è dunque motivo per ritornare su un problema ineludibile, che attende ancora soluzione. Nel diritto italiano e in quello europeo vi sono alcuni punti fermi. Fermi per il momento, poiché l’evoluzione che in materia si è svolta nel passato, è naturalmente destinata a continuare. Ma allo stato attuale si tratta di un punto di arrivo da cui non si può prescindere. La Corte Costituzionale ha affermato che il matrimonio su cui si fonda la famiglia, secondo l’articolo 29 della Costituzione, è quello previsto dal Codice Civile, come unione di persone di sesso diverso. Al tempo stesso la Corte ha ritenuto che il riconoscimento da parte della Repubblica dei diritti fondamentali dell’uomo e delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, secondo l’articolo 2 della Costituzione, riguarda anche l’unione omosessuale. Essa è «intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Ma non v’è omogeneità tra il matrimonio cui la Costituzione si richiama e l’unione omosessuale. Il riconoscimento giuridico di quest’ultima non richiede necessariamente l’equiparazione al matrimonio, come dimostra la varietà delle soluzioni adottate dai vari Paesi europei. Spetta quindi al Parlamento individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire, mediante il controllo di ragionevolezza delle soluzioni legislative, a tutela di specifiche situazioni, che richiedano un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale. Nel diritto europeo dei diritti umani, cui l’Italia è vincolata, da un lato si afferma che la soluzione di ammettere i matrimoni omosessuali è possibile, ma non obbligatoria per gli Stati e, dall’altro però si dice che le unioni omosessuali stabili possono dare origine a una «vita familiare» al cui rispetto gli Stati sono tenuti (articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Vi è una forte sintonia e piena compatibilità tra il diritto costituzionale italiano e il diritto europeo in materia, sia nel riconoscere discrezionalità al legislatore nazionale, sia nel pretendere però che le unioni omosessuali stabili non siano lasciate nel limbo dell’irrilevante, del non riconosciuto dal diritto o addirittura del costretto alla clandestinità. Nelle leggi di molti Stati europei ed anche in quelle italiane, così come nelle decisioni dei giudici, si trovano diversi esempi in cui alle coppie di fatto vengono riconosciuti diritti sociali come quelli delle coppie sposate. Ne sono esempi il diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla morte del compagno, il trasferimento del contratto di locazione e altri ancora. Quando poi alla coppia di fatto è riconosciuto un certo diritto, allora da quel diritto non può essere esclusa una coppia per il solo fatto di essere omosessuale, poiché si tratterebbe di discriminazione inammissibile. Questo il quadro nel quale si colloca la richiesta di introdurre il matrimonio omosessuale. Richiesta ammissibile, ma senza risposta vincolata alla sola soluzione matrimoniale. E d’altra parte, anche per le coppie eterosessuali la tendenza generale sembra essere quella che allarga le possibilità di scelta, senza costringere all’alternativa tra il matrimonio o il nulla. Le numerose soluzioni europee di Pacs, Dico e simili stanno a dimostrare in che senso si evolvano le esigenze sociali. Ed è anche significativo che la scelta matrimoniale, unica disponibile, sia sempre meno adottata da coppie che pur hanno uno stabile progetto di vita comune. L’introduzione del matrimonio omosessuale, pienamente equiparato a quello tra persone di sesso diverso, trova divisa la società italiana. E la divisione sarebbe anche più evidente quando, come sarebbe necessario, si affrontassero nel dettaglio i vari aspetti collegati al matrimonio. Basta pensare alla possibilità della adozione richiesta dalla coppia omosessuale (ancora in Italia non è ammessa l’adozione da parte del singolo, o da parte della coppia di fatto). E’ sbagliato ritenere che l’opposizione sia solo di parte cattolica e che su questa come su altre questioni che hanno a che fare con l’etica sociale sia possibile tracciare un confine netto, tra una comunità cattolica e una che cattolica non è o non si sente. Intanto è esperienza comune costatare quante differenze di atteggiamento e quante sfumature di opinione esistano tra gli italiani cattolici e poi – frutto della Storia - diverse istanze etiche e sociali sono condivise anche da chi non si richiama all’insegnamento della Chiesa. Sarebbe grave per la società italiana se esistessero due rigidi fronti opposti su temi di questo genere. Facilmente sarebbero campi l’un contro l’altro armato. Ma non è così, per fortuna. Né, in materia, corre una divisione secondo le categorie della destra e della sinistra politica, maggioranza governativa e opposizione. Si tratta di una realtà di cui occorre tener conto. Essa rende difficile arrivare a conclusioni legislative, ma ha il vantaggio di esprimere vitalità democratica e possibilità di evoluzione senza drammi e «guerre di religione». La pretesa di ottenere la soluzione maggiore, quella matrimoniale, in questo quadro sociale e politico, contrasta con la via della progressiva risposta alle esigenze legittime di riconoscimento e regolazione, che nessuna persona o gruppo ragionevole potrebbe respingere. Non si tratta di chiudere un discorso che per sua natura non può cristallizzarsi, ma di permettere una soluzione il più possibile condivisa, incapace di urtare chicchessia e idonea a dar riconoscimento ad una realtà sociale che ne ha diritto. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10346 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY In difesa della salute Inserito da: Admin - Luglio 27, 2012, 04:31:06 pm 26/7/2012
In difesa della salute VLADIMIRO ZAGREBELSKY Le frequenti notizie di stampa riguardanti la salute sono per lo più preoccupanti. Episodi di «malasanità» mettono in ombra la vasta area di «buonasanità» offerta dal Servizio Sanitario Nazionale italiano. La massima sensibilità rispetto a tutto ciò che riguarda la salute è comprensibile, ma può in proposito essere utile qualche osservazione generale. Lo Stato sociale europeo e in particolare quello italiano ha ormai radici tanto forti che l’accumularsi nel tempo di diritti assicurati dalle leggi non rappresenta più soltanto un dato legislativo, contingente e mutevole nel tempo. Un alto livello di sicurezza sociale è ormai acquisito come naturale e irretrattabile. In particolare per la salute ogni insufficienza e ogni arretramento nel servizio pubblico sono vissuti come un diniego di giustizia. Il servizio pubblico sanitario si ritiene debba essere non solo tendenzialmente totale, ma anche gratuito, cosicché l’introduzione o l’aumento dei ticket non è questione che rinvia a scelte politiche, come tali discusse, ma lede diritti. Si tratta di una cultura e di una civiltà che distingue l’Italia e larga parte d’Europa, ma che è lontana dall’essere universale. Basta pensare alla battaglia politica, ancora in corso negli Stati Uniti, per l’introduzione di un sistema di assicurazione generalizzata in materia sanitaria, ove gli interessi economici coinvolti fanno leva su radicati contrasti culturali in ordine al ruolo della società e dello Stato rispetto all’individuo. Nella Costituzione italiana la tutela della salute è riconosciuta come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della società. Si tratta dell’unico diritto della persona che la Costituzione qualifica come fondamentale. E’ un diritto i cui contenuti sono in certa misura indefiniti e mobili. Essi si arricchiscono con lo sviluppo della ricerca medica e l’aumento delle terapie a disposizione dell’umanità; essi però si riducono quando le risorse economiche pubbliche scarseggiano. Il Comitato delle Nazioni Unite responsabile della vigilanza sull’attuazione del Patto internazionale dei diritti economici e sociali (1966), definendo la portata del diritto alla salute come il «diritto alle migliori condizioni di salute fisica e mentale raggiungibili», ha tra l’altro affermato che esso implica il dovere degli Stati, una volta raggiunto un certo livello di garanzia della salute, di non arretrare. Si tratta di orientamento che appoggia la resistenza, oggi evidente in molti Paesi, alla diminuzione dei servizi sanitari come conseguenza di tagli alle risorse pubbliche ad essi destinate. Una resistenza che si manifesta in Italia, ma anche in Portogallo, Spagna, Francia e riguarda, senza le necessarie distinzioni, sia la vera eliminazione di servizi, sia le modifiche organizzative o gestionali dirette a diversamente utilizzare le risorse disponibili. In proposito il primo che viene in mente è il tema della geografia della medicina di prossimità e dell’articolazione sul territorio dei diversi livelli dell’intervento medico. Ad esso si riferiscono sia l’impianto del recente Piano della Regione Piemonte sia l’annunciato progetto del Ministro della Salute Balduzzi sul ruolo e l’organizzazione dei medici di base. I provvedimenti conseguenti alla c.d. «spending review» promettono meno risorse economiche anche nel settore sanitario. Ma il ministro Grilli, pochi giorni orsono, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, ha assicurato che la revisione della spesa sanitaria garantisce economie di spesa, senza alcuna incidenza negativa sul livello qualitativo e quantitativo dei servizi erogati ai cittadini. C’è da chiedersi come questo sia possibile, quando si considerino le riduzioni delle risorse di origine statale insieme a quelle regionali. E’ probabile che l’effettiva erogazione dei servizi subisca una diminuzione o un rallentamento. La disponibilità teorica può non mutare, ma le liste di attesa si allungano (e cresce il ricorso alla sanità privata). La riduzione dei finanziamenti all’attività del privato sociale –spesso decisiva per rendere effettivo l’accesso alle cure - lascia intatti apparentemente il ruolo e l’ampiezza del servizio pubblico, che però diventa meno fruibile da parte di fasce sociali deboli e particolarmente vulnerabili. Con ciò si vuol dire che il termine «tagli» può condurre a equivoci e a nascondimenti della realtà. Sul piano formale si può negare che il «taglio» sia stato apportato, anche se c’è chi nella realtà lo patisce. La trasparenza in materia è molto importante, sia perché assicura la corretta informazione della cittadinanza, sia perché riporta la responsabilità delle scelte nel luogo istituzionale proprio, sia esso il governo nazionale o quello regionale. Se sono necessarie riduzioni nei servizi offerti in materia sanitaria, le scelte da fare richiedono partecipazione e chiarezza, secondo criteri di priorità razionali e non discriminatori. Partecipazione al processo decisionale, pubblicità delle scelte effettuate, non discriminazione nei loro effetti, sono criteri sottolineati da tutte le organizzazioni internazionali, come il già ricordato Comitato economicosociale delle Nazioni Unite e l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Merita uno speciale richiamo la regola della non discriminazione. Essa non vieta soltanto le dirette esclusioni di parte della popolazione dall’accesso ai servizi di prevenzione e di cura (per ragioni di razza, sesso, religione, origine, condizione economica o sociale, ecc.). Essa riguarda anche la più insidiosa discriminazione indiretta, quella che fa pesare di fatto su gruppi della popolazione le loro caratteristiche o debolezze, che non riguardano lo stato di salute, ma che incidono sulla possibilità di avvalersi dei benefici che sono a disposizione della generalità. Gli esempi sono facili. Il più evidente è quello che riguarda la c.d. accessibilità economica del servizio sanitario, legata alla sostenibilità del relativo costo. Ma l’elenco degli esempi è lungo. Se il luogo in cui è fornito il servizio sanitario viene allontanato, senza prevedere mezzi di trasporto adatti a chi, per salute, età o altro non ne dispone, una misura che sembra neutra si traduce in una discriminazione indiretta. La complessità delle procedure amministrative da seguire per accedere al servizio, se non accompagnata da una sufficiente e capillare informazione, finisce con l’escludere chi, per la non conoscenza della lingua o per altro, si perde tra gli uffici e gli sportelli, che pure – apparentemente - gli sono aperti. Il discorso può allungarsi, ma ciò che emerge è la necessità di evitare i «tagli lineari» e di discutere invece e stabilire criteri e priorità, nel disegnare l’area coperta dal servizio pubblico e nello stabilirne l’accessibilità e il costo per gli utenti. Altra cosa è la lotta agli sprechi e alla corruzione. Una lotta che è da appoggiare senza riserve. Essa sì può ridurre i costi complessivi a carico dello Stato e delle Regioni, senza diminuire l’ampiezza del diritto alla salute di tutte le persone. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10374 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Una disciplina per l'obiezione Inserito da: Admin - Agosto 09, 2012, 05:46:29 pm 9/8/2012
Una disciplina per l'obiezione VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il Comitato nazionale per la bioetica ha pubblicato un parere sul fondamento e la portata dell’obiezione di coscienza. Sulla richiesta, cioè, del singolo di essere esonerato da un obbligo previsto dalla legge, perché ritiene che tale obbligo contrasti con la propria coscienza e sia lesivo di un suo diritto fondamentale. Il Comitato ha affermato che l’obiezione di coscienza in materia bioetica costituisce un diritto della persona costituzionalmente fondato sui diritti inviolabili dell’uomo; un diritto però che va esercitato in modo sostenibile, così da non limitare né rendere più gravoso l’esercizio di diritti riconosciuti ad altri dalla legge. Il parere affronta specificamente questioni di bioetica e in particolare quelle derivanti dall’esistenza di diverse concezioni sull’inizio e la fine della vita umana e quindi sulla portata del diritto fondamentale alla vita. Le argomentazioni sviluppate dal Comitato per fondare le sue conclusioni, sono particolarmente complesse e spesso opinabili nei vari passaggi. Ma è certo condivisibile la conclusione che l’obiezione di coscienza, in certe circostanze e in certi limiti, deve essere riconosciuta dalla legge, per non entrare in collisione con il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa (art.19 della Costituzione) o, come più compiutamente afferma la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art.9), di veder rispettata la propria libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Da questi diritti costituzionali viene normalmente tratto il fondamento della richiesta di riconoscimento della obiezione di coscienza. E l’ultima Carta dei diritti fondamentali, in ordine di tempo, quella dell’Unione Europea, espressamente prevede all’art.10, come corollario della libertà di pensiero, coscienza e religione, il dovere degli Stati di riconoscere l’obiezione di coscienza disciplinandola con le leggi nazionali. Il Comitato ritiene anche che il riconoscimento legale della obiezione di coscienza sia un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili (nella specie il diritto alla vita). Ci si potrebbe esprimere in modo diverso, riconoscendo semplicemente che vi sono materie in cui non vale il principio di maggioranza o piuttosto che esso trova limiti e freni nel riconoscimento dei diritti fondamentali degli individui e delle minoranze. Tra questi vi è il diritto di mantenere e veder rispettati i propri diversi orientamenti filosofici, etici e religiosi. Donde la difficoltà di legiferare, con la pretesa della maggioranza che si esprime in Parlamento di dettar legge in via generale, senza eccezioni e senza spazio per il dissenso. La legge italiana riconosce la possibilità di evitare attività contrarie ai dettami della propria etica o religione in materia di interruzione volontaria della gravidanza e di procreazione medicalmente assistita (oltre che nella sperimentazione sugli animali). Ma lo spazio lasciato al dissenso dei singoli non può mettere nel nulla o render difficile per gli altri il godimento dei diritti riconosciuti dalla legge o più in generale impedire il funzionamento di un servizio pubblico. Donde la necessità di contemperare esigenze contrapposte o, come scrive il Comitato, di tener conto della possibilità che l’obiezione di coscienza possa “essere piegata a strumento di sabotaggio nelle mani di minoranze fortemente organizzate oppure oggetto di abuso opportunistico da parte di singoli”. E’ necessario allora prevedere una disciplina dell’obiezione di coscienza “sostenibile” con la predisposizione di un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento del personale che ricorra alla mobilità del personale. Il Comitato suggerisce anche di ricorrere a forme di reclutamento differenziato, in modo da equilibrare il numero degli obiettori e dei non obiettori e così assicurare il servizio previsto dalla legge. Si tratta di un’indicazione molto importante, che merita qualche sviluppo. L’obiezione del libero professionista che si astiene dal praticare certi trattamenti sanitari, ritenendoli contrastanti con le proprie convinzioni etiche, è cosa diversa da quella di chi liberamente sceglie di operare come dipendente di un ente pubblico, che ha come missione specifica quella di fornire al pubblico un servizio il cui contenuto è definito dalla legge. Un bando di concorso per un posto in un ospedale pubblico che descriva le mansioni che il vincitore sarà chiamato a svolgere implica evidentemente da parte dei concorrenti l’accettazione del relativo dovere e l’esclusione di obiezioni. L’obiezione di coscienza che taluno avanzi nei confronti di questa o quella specifica attività dovrebbe portarlo a non partecipare al concorso e a orientarsi professionalmente altrove. In proposito si può pensare al testimone di Geova che rifiuti di praticare trasfusioni di sangue e tuttavia pretenda di partecipare a un concorso per un posto di chirurgo in un ospedale pubblico. Va anche aggiunto che la riserva mentale di obiettare successivamente e sottrarsi così allo svolgimento delle mansioni oggetto del concorso, sarebbe inammissibile e contrasterebbe con il dovere di chi si è visto affidare funzioni pubbliche di adempierle con disciplina e onore (art.54 della Costituzione). Né concorsi per posti pubblici così definiti sarebbero discriminatori poiché l’orientamento etico o religioso dei singoli avrebbe solo rilevanza per le scelte libere di ciascuna persona. Altro discorso evidentemente si dovrebbe fare se ci si trovasse nel diverso caso di attività imposte a tutti dalla legge, com’era il servizio militare prima dell’abolizione della leva obbligatoria. Tra i numerosi aspetti discussi dal Comitato, uno ancora merita di essere ricordato per la sua importanza. Il Comitato precisa che il tema e i problemi della obiezione di coscienza non riguardano il diverso campo della libertà costituzionale del singolo individuo - non più il sanitario, ma il paziente - di definire e gestire i suoi interessi, diritti e valori in tema di salute; libertà che lo Stato deve rispettare. Il Comitato fa l’esempio di una norma che imponesse a un testimone di Geova, per la tutela della sua stessa salute, di sottoporsi a una trasfusione di sangue che egli rifiuta secondo i precetti della sua religione. In realtà la ragione del rifiuto è irrilevante, poiché nella sfera del singolo, come riconosce l’art.32 della Costituzione, prevale l’autonomia individuale. Allo stesso modo, afferma il Comitato, è irrilevante per lo Stato la ragione che spinge taluno, anche attraverso dichiarazioni anticipate, a rifiutare qualunque altro tipo di trattamento. da - Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY La gravità delle pene Inserito da: Admin - Agosto 25, 2012, 05:48:44 pm 25/8/2012
La gravità delle pene VLADIMIRO ZAGREBELSKY L’inumanità di ciò che ha fatto Breivik non deriva solo dalle decine di giovani vite che ha spento e dalle centinaia di feriti e mutilati che ha prodotto, ma anche dalla presunzione del superuomo che, per lanciare al mondo il suo messaggio, riduce a oggetto irrilevante la persona delle sue vittime. Vittime anche a suoi occhi incolpevoli, ma strumenti utili al suo disegno. Certa essendo – e anzi rivendicata - la sua colpevolezza, come resistere alla tentazione di trasferire dal fatto alla persona il giudizio di «non umanità»? Che farne? Come punirlo? Punirlo o renderlo inoffensivo, o entrambi? Come in altri atroci casi il dibattito esce dalle aule giudiziarie, dagli studi dei criminologi e dei penalisti, dai parlamenti e investe la società nel suo complesso. La richiesta è solitamente di maggior severità delle pene inflitte ed anche di lunga, se non definitiva, esclusione del colpevole dal consorzio sociale. In Norvegia il difficile (impossibile?) quesito sulla capacità di intendere e di volere di Breivik è stato oggetto di sondaggio di opinione e la maggioranza ha detto di volerlo condannato piuttosto che internato in custodia psichiatrica. In Belgio, pochi giorni orsono, la liberazione condizionale dopo sedici anni di reclusione, della moglie complice del Dutroux che seviziò e uccise numerose giovani ragazze, ha spinto centinaia di persone a protestare in corteo, guidate da parenti delle vittime. In Italia le condizioni, spesso inumane, in cui i detenuti vengono tenuti in carcere non riescono a suscitare grande turbamento nella società. Negli Stati Uniti i candidati alla presidenza si guardano bene dal mettere in discussione la pena di morte, ma persino si tengono lontani dal problema della diffusione delle armi da fuoco, pur davanti alle ripetute stragi con esse compiute. Segnali diversi di un atteggiamento che ha tratti simili. La storia delle pene criminali riflette la varietà degli scopi del potere statale di punire, dopo che lo Stato ne ha assunto il monopolio, progressivamente escludendo o limitando la vendetta privata. Essa illustra anche l’evoluzione dei costumi e della sensibilità umana, che ha portato via via ad attenuare le più atroci sofferenze inflitte ai rei. A lungo pene con sofferenze per noi oggi inconcepibili rimasero in vigore e furono praticate in società per altri versi celebrate come modelli di raffinata civiltà. Tra i tanti, la Venezia del ‘600 e ‘700 né può essere un esempio. Si trattava non solo della pena di morte, ma con essa di torture efferate, praticate in pubblico per punire il colpevole e, con le sue sofferenze, ammonire il popolo. Il popolo ne era intimorito, ma anche partecipava allo spettacolo. Ciò che in Europa fa parte della storia, è ancora visibile altrove nel mondo e qui da noi ora suscita orrore. Ma si tratta di storia nostra ancora recente e non priva di lasciti. Cesare Beccaria, solo duecentocinquant’anni orsono, combatteva la pena di morte e la pratica della tortura, ma per i più gravi reati suggeriva una pena gravissima, una «perpetua e gravosa detenzione»; sulla sua scia Denis Diderot, proponeva di sostituire la pena di morte con la «schiavitù perpetua», con «una dura e crudele schiavitù». E si trattava degli intellettuali più illuminati della loro epoca, quella in cui affondano le radici del diritto del nostro tempo. Nello stesso ordine di idee, la proposta del Comitato della legislazione penale dell’Assemblea costituente francese del 1789 di abolire la pena di morte, era accompagnata e sostenuta dall’atrocità della pena sostitutiva: pena detentiva da dodici a ventiquattro anni, così descritta: «Il condannato sarà detenuto in una segreta oscura, in completa solitudine. Corpo e membra porteranno i ferri. Del pane dell’acqua e della paglia gli forniranno lo stretto necessario per nutrimento e doloroso riposo». Una volta al mese la porta della cella sarà aperta «per offrire al popolo una lezione importante. Il popolo potrà vedere il condannato carico dei ferri al fondo della sua cella, e leggerà sopra la porta il nome del condannato, il delitto e la sentenza». E’ passato il tempo, i costumi si sono addolciti, la repulsione per la crudeltà, anche e specialmente se praticata dallo Stato, è cresciuta nella società. Ma la questione della gravità della pena da infliggere ai colpevoli di reati (non necessariamente solo dei più gravi) è sempre aperta e riguarda la giustificazione e lo scopo della pena, insieme alla legittimazione dello Stato e della società a infliggerla. La retribuzione per il male cagionato si accompagna alla preoccupazione di eliminare il pericolo che il criminale può rappresentare. Pene dolorose dunque, e lunghe o persino perpetue, come l’ergastolo («fino alla fine»). Ma a queste elementari richieste si accompagna ora, pur senza integralmente sostituirsi ad esse, un diverso atteggiamento, non disperato rispetto alla natura inemendabile del criminale, ma ottimista o almeno non chiuso alla speranza. Si tratta della scelta, anche propria della nostra Costituzione, che vede nella pena l’occasione e la possibilità di risocializzazione del reo: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Pene lunghissime e tanto più le pene perpetue, non solo finiscono per applicarsi nel corso del tempo a persone che necessariamente sono diventate radicalmente diverse da quelle che hanno commesso il delitto (perché allora continuare a punirle?), ma in più, sopprimendo ogni speranza nel detenuto, lo incattiviscono piuttosto che aprirlo a rapporti corretti con gli altri. Chi opera nelle carceri a contatto con i detenuti conosce questa dinamica nell’esecuzione delle pene. Sono questi degli argomenti che rispondono alle domande di fondo sul potere o addirittura del dovere di punire? E sul come e quanto punire? O sono solo considerazioni che arricchiscono il quadro, mostrando quanto complesso e relativo esso sia? Forse senza risposta definitiva e tranquillizzante. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10458 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Una legge incompatibile con i diritti Inserito da: Admin - Agosto 29, 2012, 04:52:58 pm 29/8/2012
Una legge incompatibile con i diritti VLADIMIRO ZAGREBELSKY La legge italiana che disciplina l’utilizzo delle procedure mediche di fecondazione assistita e più particolarmente le limitazioni che essa impone, sono oggetto di critiche e polemiche fin dalla sua approvazione nel 2004. Critiche e polemiche che riguardano sia la legge in sé, sia le linee guida emanate dal ministero della Salute per specificarne, integrarne e aggiornarne le previsioni. Come si ricorda un referendum parzialmente abrogativo venne fatto fallire nel 2005 con il non raggiungimento del quorum di votanti. E’ recente la decisione dalla Corte Costituzionale di restituire ai giudici che l’avevano prospettata, la questione di costituzionalità del divieto di ricorso alla fecondazione con ovocita o gamete di persona esterna alla coppia (la fecondazione eterologa). La questione verrà certo riproposta e la Corte Costituzionale deciderà. In passato, nel 2009, la stessa Corte aveva dichiarato incostituzionale perché irragionevole e in contrasto con il diritto fondamentale della donna alla salute, la limitazione a tre degli embrioni da impiantare contemporaneamente, senza possibilità di produrne un maggior numero da utilizzare nel caso che il primo impianto non avesse avuto esito positivo. Ora è un diverso aspetto della regolamentazione, che una diversa Corte ritiene incompatibile con i diritti fondamentali della persona. Ancora una volta si tratta dell’irragionevolezza di un impedimento posto dalla legge italiana all’accesso a una tecnica che è frutto del progresso medico. In proposito va ricordato che il Patto internazionale dei diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, riconosce a tutti la possibilità di «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni». Limiti e condizioni sono possibili, ma, come per tutte le deroghe a diritti fondamentali, essi devono essere ristretti al minimo indispensabile per la tutela di altri diritti fondamentali confliggenti. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso il ricorso di una coppia italiana protagonista (e vittima) di una vicenda esemplare dell’irragionevolezza della legge, che li esclude dalla possibilità di utilizzare le tecniche di fecondazione medicalmente assistita. I due ricorrenti avevano generato una figlia malata di mucoviscidosi. Fu così che essi appresero di essere entrambi portatori sani di quella malattia. Nel corso di una successiva gravidanza, la diagnosi prenatale rivelò che il feto era anch’esso malato. Ricorrendo alla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, essi procedettero all’aborto. Poiché tuttavia desideravano un secondo figlio e naturalmente volevano evitare che fosse malato, richiesero di procedere alla fecondazione artificiale, per conoscere lo stato dell’embrione prima di impiantarlo, escludere quello malato e utilizzare quello sano. La legge che disciplina la materia limita il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita al solo caso in cui la coppia è sterile o infertile. Le linee guida ministeriali del 2008 hanno ritenuto che sia assimilabile al caso d’infertilità maschile quello in cui l’uomo sia portatore delle malattie sessualmente trasmissibili derivanti da infezione da Hiv o da Epatite B e C. Ma non hanno considerato altre situazioni di genitori malati. E così alla coppia restò negata la possibilità di superare l’infermità e dar corso, con la fecondazione medicalmente assistita, a una gravidanza che si sarebbe conclusa con la nascita di un bimbo sano. La Corte europea ha rilevato che la legge italiana nel caso in cui la diagnosi prenatale riveli che il feto è portatore di anomalie o malformazioni, consente di procedere all’interruzione della gravidanza. In effetti proprio a ciò aveva fatto ricorso la coppia, nella gravidanza successiva alla nascita della figlia malata. Vi è dunque, secondo la Corte, un’evidente irragionevolezza della disciplina, che, permettendo l’aborto e invece proibendo l’inseminazione medica con i soli embrioni sani, autorizza il più (e il più penoso), mentre nega il meno (e meno grave). La Corte ha così rifiutato gli argomenti del governo italiano, che sosteneva che la legge tende a proteggere la dignità e libertà di coscienza dei medici e a evitare possibili derive eugenetiche. Argomenti contraddetti dal fatto che la legge consente di procedere all’aborto in casi come quello esaminato dalla Corte. In più ha pesato il fatto che la grande maggioranza dei Paesi europei consente la fecondazione medicalmente assistita per prevenire la trasmissione di malattie genetiche (solo l’Italia e l’Austria la vietano e la Svizzera ha in corso un progetto di legge per ammetterla). Irragionevole nel sistema legislativo italiano e ingiustificato nel quadro della tendenza europea, il divieto ha inciso senza ragione sul diritto della coppia al rispetto delle scelte di vita personale e familiare, garantito dalla Convenzione europea dei diritti umani. La sentenza non è definitiva. Il governo italiano può chiederne il riesame da parte della Grande Camera della Corte europea. Se diverrà definitiva, sarà vincolante per l’Italia, una modifica della legge sarà inevitabile e saranno inapplicabili le linee guida ministeriali. La Corte Costituzionale ha già più volte detto che la conformità alla Convenzione europea dei diritti umani, «nella interpretazione datane dalla Corte europea», è condizione della costituzionalità delle leggi nazionali. Una revisione della legge potrebbe convincere il legislatore ad abbandonare l’ambizione di disciplinare il dettaglio, con ammissioni ed esclusioni particolari che inevitabilmente creano disparità irragionevoli. Questa è una materia in cui occorrerebbe lasciar spazio alle scelte individuali (in questo caso quella di non rinunciare a procreare un figlio, un figlio sano) e alla responsabilità dei medici nel fare il miglior uso possibile del frutto della ricerca e dell’avanzamento delle conoscenze e possibilità umane. La Corte Costituzionale ha già ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10470 Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il contrasto tra numeri e salute Inserito da: Admin - Novembre 06, 2012, 10:22:57 pm Editoriali
06/11/2012 Il contrasto tra numeri e salute Vladimiro Zagrebelsky Alla fine pare che i fondi per mantenere il livello di assistenza ai malati gravi non autosufficienti, come principalmente quelli colpiti dalla Sla, siano stati trovati. C’erano dunque. Ma il disegno di legge di stabilità, presentato dal ministro dell’Economia e delle Finanze a nome del governo, li tagliava, destinandoli altrove. Se il lavoro che si svolge in Parlamento per riscrivere la manovra finanziaria di fine anno risolverà il problema, si potrebbe esser soddisfatti, un errore e un torto saranno stati riparati e si potrebbe dire che tutto è bene quel che finisce bene. Non è però così semplice e la vicenda, anche se avrà conclusione positiva, merita qualche riflessione. Anche perché potrebbe essere vista come l’esempio di un problema più generale. Il diritto alla salute – intesa questa come il più elevato livello dello stato di salute raggiungibile dalla persona – è l’unico diritto che la Costituzione qualifica come fondamentale. E non per enfasi e sovrabbondanza redazionale, ma per meditata e discussa ragione nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente. L’Italia è poi tenuta a garantire questo diritto per trattati internazionali come il Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, la Carta sociale europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Certo la disponibilità delle risorse economiche incide sulle prestazioni dello Stato anche in materia di diritto alla salute e di diritti fondamentali in generale. Ma un’attenta identificazione delle priorità è indispensabile e deve essere motivata e aperta alla discussione. Nulla di questo è avvenuto, fino a quando hanno fatto irruzione i malati e le loro famiglie, forti della loro estrema debolezza e dell’irresistibile impressione delle immagini del dolore esposto davanti alla sede del governo. Possibile che, almeno per prudenza se non per rispetto di quei malati, il governo non abbia evitato di dover affrontare l’insostenibile impatto dell’indignazione e della reazione sorte nell’opinione pubblica e quindi in Parlamento? Una risposta può essere forse trovata nel fatto che il disegno di legge di stabilità viene presentato dal solo ministro dell’Economia e delle Finanze, senza l’abituale «concerto» degli altri ministri interessati. Ma sarebbe una risposta formalistica e insufficiente. In realtà è illuminante il fatto che, quando la proposta governativa ha incontrato le prime critiche, la reazione è stata del tipo: «Fate quel che volete, purché il saldo rimanga invariato». Il saldo, quindi, unico scopo da ottenere. Perché il saldo è «tecnico» e il resto è «politica»! Certo le scelte tra i vari interessi e valori da proteggere o promuovere o invece penalizzare o limitare appartiene alla sfera della politica, che trova il suo luogo naturale nel Parlamento e i suoi attori nei partiti politici e nelle organizzazioni della società. Ma è difficilmente comprensibile l’estraneità ostentata e a tratti persino compiaciuta dei responsabili economici del governo, che palesemente godono di un’assoluta preminenza. Così soltanto si spiega che, solo al montare della protesta, i ministri della Salute e delle Politiche Sociali abbiano potuto intervenire e operare efficacemente. I malati gravi non autosufficienti, portatori di patologie degenerative, oltre a richiedere le cure e gli strumenti necessari per sopravvivere, hanno necessità di disporre delle apparecchiature, che consentono loro di alleviare il peso della vita: si tratta di apparecchi costosi e in continua evoluzione tecnologica, che consentono di spostarsi, comunicare, compiere gesti elementari. L’assistenza continua è indispensabile, così come una complessa organizzazione di mezzi e persone. Quando il malato si trova nel suo domicilio, non si può imporre ai famigliari un impegno totale, continuo, insostenibile. Tra l’altro, se l’assistenza domiciliare efficace non è assicurata, necessariamente aumentano i ricoveri e i relativi costi per il Servizio Sanitario Nazionale. La questione dunque rientra a pieno titolo nel campo della politica sanitaria e del diritto alla salute. Essa merita di essere discussa e poi decisa riconoscendone la complessità e delicatezza. Malamente è affrontata con la brutalità dell’Economia. Meglio la consapevolezza e la responsabilità della Salute. da - http://lastampa.it/2012/11/06/cultura/opinioni/editoriali/il-contrasto-tra-numeri-e-salute-J2ZyAnq3fkHMyZ69c7vYOK/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY L’anonimato e i diritti dei neonati Inserito da: Admin - Novembre 12, 2012, 04:04:33 pm Editoriali
12/11/2012 L’anonimato e i diritti dei neonati Vladimiro Zagrebelsky La legge sulla fecondazione medicalmente assistita esclude la possibilità della madre di dichiarare di voler rimanere anonima e persino stabilisce che, nel caso di inseminazione eterologa, il coniuge o il convivente che ha consentito non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità. La volontà di generare un figlio non può dunque essere revocata. Questa la legge vigente. Ma ora alla Camera dei Deputati è stata approvata (ancora in Commissione) una modifica, che ammette il «parto anonimo»: la madre vuole rimanere anonima e per il figlio si apre la procedura di adozione. Ma tutti hanno diritto al rispetto dell’identità personale. I limiti che la legge impone alla possibilità di conoscere l’identità dei genitori e la propria ascendenza devono quindi essere mantenuti nello stretto necessario, quando essa confligga con la tutela di altri diritti fondamentali. In tal senso si è da tempo pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha esaminato recentemente il caso italiano e la legge che vieta che venga svelata al figlio l’identità della madre, che partorendo abbia dichiarato di voler mantenere l’anonimato. La violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini biologiche è stata vista nel fatto che – a differenza delle regole vigenti negli altri Paesi europei che permettono il parto anonimo - la legge italiana non ammette eccezioni o limiti temporali. Il diritto del figlio è annullato dalla decisione della madre di abbandonarlo e di rimanere per sempre inconoscibile. L’esigenza di trovare una disciplina che riesca a contemperare l’interesse della madre e il diritto del figlio, con procedure e valutazioni che permettano di superare l’anonimato, deve ora trovare riscontro nella legge italiana. Rimane superata la diversa posizione assunta nel 2005 dalla Corte Costituzionale, che aveva ritenuto che la possibilità di vincere l’anonimato della madre avrebbe comunque impedito di «assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e … distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». La Corte si riferiva all’intenzione della legge di evitare parti clandestini, aborti clandestini, infanticidi. Così decidendo però la Corte metteva nel nulla il diritto del figlio alla propria identità (persino quando esistano motivi di salute che richiedano la conoscenza dell’identità dei genitori). E lo faceva richiamando le «situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale» in cui la madre sceglieva l’anonimato e l’abbandono del figlio. Ora quando la madre si trovi in condizioni drammatiche, tanto gravi da indurla a rinunciare al figlio, si può capire che la legge ammetta il parto anonimo. Ma la legge non richiede che vi siano motivi gravi per la scelta dell’anonimato e la madre può rifiutare il figlio solo perché concepito fuori del matrimonio o non desiderato. In tal modo essa semplicemente si sottrae ai doveri di genitore. L’anonimità della madre, tanto più se unita all’impossibilità assoluta di superarla, dovrebbe essere riservata a situazioni estreme. E’ incomprensibile quindi che la si ammetta anche nel caso di donna che partorisca a seguito di fecondazione medicalmente assistita: dopo quindi una scelta consapevole, una volontà di generare fermamente manifestata nella lunga e gravosa procedura medica. Proprio per questo è probabile che questa nuova possibile scelta non venga mai esercitata. La riforma assume allora un più che discutibile valore di principio: un generale diritto di rifiutare il figlio al momento del parto. E’ stato detto in proposito che «tutte le madri sono eguali». Vero, ma le condizioni in cui si diventa madri non lo sono. E i figli hanno diritti. da - http://lastampa.it/2012/11/12/cultura/opinioni/editoriali/l-anonimato-e-i-diritti-dei-neonati-Ma7BdjJgHczR9mCxbuy9eP/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Quei vuoti difficili da riempire Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2012, 05:34:18 pm Editoriali
02/12/2012 Quei vuoti difficili da riempire Vladimiro Zagrebelsky Decenni di attività industriale senza riguardo per le regole di protezione della salute e dell’ambiente hanno prodotto un disastro sul terreno e nei corpi di lavoratori dell’Ilva e di abitanti di Taranto. Nemmeno le istituzioni pubbliche ne escono indenni. E nemmeno i sindacati dei lavoratori, se è vero che nel corso degli anni la loro azione è stata timida e inefficace. Il disastro va oltre la dimensione ambientale e sanitaria e, come questa, lascerà ferite difficilmente rimarginabili. Snodi essenziali del sistema andrebbero ripensati, se ce ne fosse la forza e la capacità. Oggi si è davanti al dilemma che oppone salute e lavoro: il pericolo per la salute alla certezza della perdita del lavoro di molti, non solo a Taranto. Una situazione creatasi perché nel tempo si è tollerato che il problema crescesse fino a divenire drammatico. Il riferimento alla tolleranza rinvia alla responsabilità di governi e autorità loca li, che si sono dimostrati incapaci di disciplinare la con dotta dell’azienda. Non sorprenderebbe che quella tolleranza sia stata a lungo alimentata da connivenze, da pratiche corruttive, da scambi di favori a livello governativo e locale. Enorme infatti era il peso dell’Ilva, sia come capacità di interferire nella azione di controllo, che avrebbe dovuto essere svolta ai vari livelli governativi e locali, sia come possibilità di mettere sul tavolo le conseguenze sociali di ogni intralcio alla realizzazione delle politiche aziendali. Argomento quest’ultimo spiacevole, ma fondato sui fatti e quindi ineludibile, anche ora. Una considerazione, che richiama l’idea del ricatto, non sarebbe però sul tavolo di chi deve gestire la situazione presente, se fin dall’inizio ciascuno avesse fatto il suo dovere, senza lasciar crescere un problema ora non affrontabile senza danni. Lo scontro che si alimenta opponendo i diritti della «politica» all’azione della magistratura, nasce anche questa volta male. Per decenni le espressioni nazionali e locali della «politica» sono state inefficaci e timide, se non conniventi. Oggi dichiarazioni orgogliose di autonomia della «politica» suonano stonate. Ancora una volta. Venendo a tempi recenti, la gravità della situazione e la natura dell’azione della magistratura erano state rese note dalla Procura della Repubblica di Taranto. Il procuratore era stato sentito due volte lungamente dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, a febbraio e a settembre di quest’anno. Il procuratore aveva parlato chiaro e aveva anche auspicato collaborazione e convergenza di azione tra le diverse istituzioni. La magistratura non è chiamata a risolvere problemi generali, né disporrebbe dei mezzi per farlo. Essa non gestisce questioni come quella che oggi oppone le esigenze dell’economia nazionale e dell’occupazione a quelle della protezione dell’ambiente e della salute. La magistratura è chiamata ad applicare la legge e dispone di strumenti processuali che sono stati disegnati a quello specifico scopo. La legge punisce chi procura un disastro dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità. Quando sia necessario per evitare che le conseguenze del reato siano aggravate o protratte nel tempo, la legge prevede che il giudice disponga il sequestro delle cose con le quali il reato è commesso. I margini di discrezionalità per il magistrato sono ristretti, se egli rimane nell’ambito del suo ruolo, specialmente quando sia grave il pericolo derivante dalla continuazione dell’azione che costituisce il delitto. Questo quadro di norme non deriva da un’arbitraria decisione della magistratura, ma dall’attenta opera legislativa prodotta dal Parlamento, sede massima delle scelte politiche. Ha allora poca base la critica alla rigidità della magistratura, alla sua cecità e insensibilità alle conseguenze economiche e sociali dei suoi provvedimenti. E ciò specialmente da parte di chi protesta ogni volta che l’azione giudiziaria sembra fuoriuscire dagli stretti limiti del suo ruolo. Naturalmente però resta il problema dell’adeguatezza del sistema vigente rispetto alle esigenze proprie di situazioni di grande portata come quella che l’Ilva ha creato, nell’inerzia di chi avrebbe dovuto contrastarla. Non è questa la prima volta che l’azione della magistratura lascia irrisolti o addirittura crea problemi su piani diversi, ma collegati a quello su cui essa opera. Non solo l’obbligo di esercitare l’azione penale, ma soprattutto la rigidità degli strumenti processuali che la legge ha stabilito producono talora difficoltà e danni collaterali. Questa volta sono di particolare importanza. La descrizione delle ragioni che spiegano la natura dei provvedimenti della magistratura non deve portare a negare l’esistenza del problema. Irresponsabile e comunque sterile sarebbe accontentarsi del fatto che impianti pericolosi sono chiusi, che responsabili di gravi reati sono in carcere o indagati e che la magistratura ha fatto il suo dovere. Il governo ha approvato un decreto legge, in considerazione «dei prevalenti profili di protezione dell’ambiente e della salute, di ordine pubblico, di salvaguardia dei livelli occupazionali». Il governo afferma che l’Autorizzazione Integrata Ambientale dello scorso ottobre e il Piano operativo presentato dall’azienda per metterne in opera le prescrizioni «assicurano l’immediata esecuzione di misure finalizzate alla tutela della salute e alla protezione ambientale e prevedono graduali ulteriori interventi sulla base di un ordine di priorità finalizzato al risanamento progressivo degli impianti». Il decreto legge ha stabilito che le misure a tutela dell’ambiente e della salute di cui alla Autorizzazione - quelle e solo quelle - sono «in grado di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili». Il governo ha quindi reimmesso la società Ilva nel possesso dei beni dell’impresa e, senza limiti quantitativi in rapporto all’inquinamento cagionato, l’ha «autorizzata alla prosecuzione dell’attività produttiva nello stabilimento e della conseguente commercializzazione dei prodotti per tutto il periodo di validità dell’Autorizzazione Integrata Ambientale, salvo che sia riscontrata da parte dell’autorità amministrativa competente l’inosservanza delle prescrizioni impartite nell’Autorizzazione stessa». Perché nessun dubbio sia possibile, il governo ha poi stabilito che i provvedimenti di sequestro dell’autorità giudiziaria consentono di diritto, in ogni caso, la prosecuzione dell’attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti. Consentono e consentiranno, cioè, proprio quello che ora essi espressamente impediscono. Per giunta il decreto esclude ogni possibile intervento della magistratura, anche per il caso in cui l’azienda si sottragga agli obblighi stabiliti dall’Autorizzazione Integrata Aziendale; la sanzione prevista è infatti amministrativa ed è irrogata, se del caso, dal Prefetto. Facile osservare che non basta una legge per stabilire che ciò che è scritto in un provvedimento governativo (la Autorizzazione) è il migliore e il più idoneo possibile, né che le premesse del decreto legislativo sono piene di affermazioni che appartengono alla categoria delle speranze. In ogni caso il decreto, ora sottoposto alla firma del Presidente della Repubblica, contiene un’esplicita modifica, per legge, di provvedimenti giudiziari: modifica dei provvedimenti di sequestro già assunti e non solo modifica per il futuro della legge che li disciplina. E per di più in considerazione di una specifica situazione, una specifica azienda, specifiche persone. Cosa resta del codice penale e del codice di procedura? Cosa resta dell’obbligo per la magistratura di perseguire i reati? Bisognerebbe ricordarsi del fondamento delle democrazie costituzionali moderne, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789): «ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione». Intravedere il disastro di istituzioni e principi fondamentali della Repubblica, allarma e rattrista. Tuttavia non manca anche un poco di simpatia, per la magistratura e per il governo. Simpatia però nel senso etimologico del «patire insieme». da - http://lastampa.it/2012/12/02/cultura/opinioni/editoriali/quei-vuoti-difficili-da-riempire-OTef3PnqacuvkEBnZV7mPM/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Quel monito sui ritardi del Csm Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2013, 11:37:07 pm Editoriali
07/02/2013 Quel monito sui ritardi del Csm Vladimiro Zagrebelsky Breve, secco, durissimo è il richiamo che il Presidente della Repubblica ha inviato al Consiglio Superiore della Magistratura. Il Presidente nota, ancora una volta, che molti uffici giudiziari rimangono molto a lungo privi dei loro magistrati dirigenti: presidenti di corte d’appello, procuratori generali, presidenti di tribunale e procuratori della Repubblica, presidenti di sezione delle corti e dei tribunali. Responsabile del ritardo è il Csm, nella cui competenza costituzionale ricade l’assegnazione dei magistrati alle diverse funzioni. Il Presidente sottolinea che il ritardo del Csm contrasta con il dovere costituzionale di assicurare il buon andamento della amministrazione della giustizia ed è tale da avere pesanti ricadute sul prestigio della istituzione. Per restaurare la prima e per ricostituire il secondo c’è da augurarsi una pronta, autocritica e concreta risposta da parte del Csm. Il rispetto che si è guadagnato il vice-presidente Vietti gli consente di agire per indurre il Consiglio ad operare in sintonia con i suoi doveri costituzionali e con il richiamo del Presidente. Da tempo i ritardi del Csm sono noti e criticamente vissuti entro e fuori della magistratura. Lo è anche il merito delle scelte nelle nomine dei capi degli uffici, come è naturale che sia in un campo che richiede difficili valutazioni (previsioni) di attitudini direttive di magistrati che spesso non hanno ancora avuto modo di manifestarle. Ma ora è questione dei ritardi, che il Presidente connette anche “al trascinarsi di contrasti e/o di tentativi di accordo tra le diverse componenti della rappresentanza della magistratura in seno al Csm”. Non si tratta quindi di pigrizia o disorganizzazione, ma di un difetto che riguarda il metodo che produce le decisioni. Un metodo che incide sui tempi ed anche sul contenuto delle decisioni. Quanto ai tempi, basta vedere l’ordine del giorno del Consiglio di questa settimana. Le deliberazioni sull’attribuzione di incarichi direttivi - tra cui quella di procuratore generale di Palermo - riguardano tutte posti che sono vacanti da più di un anno. Il Csm è stato previsto dalla Costituzione per assicurare la autonomia della magistratura da ogni altro potere dello Stato e tutelare la indipendenza dei magistrati. Una missione che il Csm ha nel tempo garantito come effetto della sottrazione di competenze prima della Costituzione assegnate al governo e al ministro della giustizia. Ma tolta l’influenza governativa, incompatibile con i principi della separazione dei poteri e dello stato di diritto, si sono nel tempo manifestate derive negative di altro (ma talora simile) tipo. Il Csm è composto da due terzi di magistrati eletti dai loro pari e da un terzo di professori o avvocati eletti dal Parlamento. I magistrati sono eletti con metodo proporzionale su liste che nella loro quasi totalità sono presentate dalle varie “correnti” della Associazione nazionale magistrati. I componenti “laici” sono eletti per spartizione tra i partiti presenti in Parlamento. Gli uni e gli altri, i componenti “togati” e quelli “laici” operano nel Csm con maggiore o minore autonomia dal gruppo che ne ha sostenuto l’elezione, a seconda del loro carattere, del loro senso istituzionale, delle loro aspettative. Per quel che riguarda la magistratura, a partire dagli Anni 60 del secolo scorso, i gruppi si sono formati ed affrontati sulla base di importanti e talora radicali differenze sulle concezione del ruolo della magistratura nel sistema disegnato dalla Costituzione. Nel tempo le differenze si sono affievolite. I gruppi si sono articolati e divisi. La loro identità o, come amano dire, le loro “sensibilità culturali” si sono diluite e mescolate. Ciò che rischia di rimanere è la gestione del potere, con l’avvertenza che non si tratta di una chiave di lettura univoca e da sola capace di spiegare tutto, oscurando l’area del funzionamento virtuoso dell’istituzione. E chi nel Csm è interessato a gestire il potere trova la massima occasione di impegnarsi nell’attribuzione degli incarichi direttivi (e di qualche altro incarico importante) negli uffici giudiziari. Naturalmente questa degenerazione non riguarda i soli componenti eletti dalla magistratura. D’altronde la parabola dei partiti politici non è stata molto differente. Basta vedere, tra gli esempi più recenti, come i partiti in Parlamento hanno creduto di poter adempiere al loro dovere di rinnovare la composizione delle varie Autorità Indipendenti. Se il criterio di scelta del candidato da sostenere per l’assegnazione di un incarico direttivo è quello dell’appartenenza, allora la lottizzazione è la naturale conseguenza, indifferente o quasi al merito. E la ricerca dell’accordo, che spesso richiede che numerose pedine siano sul mercato, trascina le pratiche di rinvio in rinvio. Discutibili quindi i risultati ed anche tardivi. Che fare? Nulla può pretendere il mondo della politica. La autonomia dell’ordine giudiziario e la indipendenza dei magistrati non è nella disponibilità dei partiti, né del Parlamento. E nella esperienza storica che viviamo, essi non offrono un modello cui si possa far riferimento. Ma nella magistratura cresce l’insofferenza. Il monito del presidente Napolitano, che avverte la caduta del prestigio del Csm, dovrebbe dar forza a una reazione del corpo stesso della magistratura. E’ la magistratura che elegge i componenti del Csm, che ne sono i rappresentanti. La scarsissima partecipazione dei giovani magistrati alla vita associativa e alla discussione sul ruolo del potere giudiziario è un segno inequivoco della mancanza di idee - e di ideali - per cui valga la pena dedicare tempo e energia. Per questo la nostalgia della vivacità dei primissimi decenni di vita della Costituzione repubblicana non è solo il frutto dell’avanzare dell’età di chi in quegli anni ha avuto la fortuna di iniziare il suo servizio in magistratura. da - http://www.lastampa.it/2013/02/07/cultura/opinioni/editoriali/quel-monito-sui-ritardi-del-csm-OGA6EDvOpMDMKmnrVJ7pWL/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Coppie di fatto, i paletti dell’Europa Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2013, 11:20:08 pm Editoriali
20/02/2013 Coppie di fatto, i paletti dell’Europa Vladimiro Zagrebelsky La Corte europea dei diritti umani, decidendo un ricorso contro l’Austria, ha chiarito, con un’importante sentenza definitiva, alcuni aspetti dei problemi che sono discussi in materia di unioni omosessuali. La Corte, come d’abitudine, ha giudicato un caso concreto ma ha anche fatto il punto indicando alcuni principi tratti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Convenzione che lega tutti i Paesi del Consiglio d’Europa, Italia compresa. Nei principi affermati non si tratta di una sentenza innovativa, ma anzi essa conferma e sviluppa posizioni ormai stabilizzate nella sua giurisprudenza: giurisprudenza che, come ha più volte affermato la Corte costituzionale italiana, esprime il contenuto dei vari diritti considerati dalla Convenzione che l’Italia si è obbligata a rispettare. Il caso riguardava una coppia omosessuale stabilmente unita. Una delle due donne aveva un figlio, nato da una precedente relazione non matrimoniale con un uomo. Il figlio viveva affidato in via esclusiva alla madre, ma teneva contatti con il padre. La compagna chiedeva di poter adottare quel bambino, così da sottolineare il suo inserimento nella vita familiare instauratasi tra le due donne. Il padre del bambino si opponeva. La legge austriaca permette l’adozione congiunta da parte di persone non sposate, conviventi eterosessuali. L’adozione, mentre crea un legame genitoriale con l’adottante, fa cessare quello con il genitore biologico dello stesso sesso dell’adottante. Nel caso sottoposto alla Corte europea dopo il rifiuto opposto dai giudici austriaci, l’adozione richiesta dalle due donne congiuntamente, secondo la legge austriaca, fermo rimanendo il rapporto con il padre, avrebbe fatto cessare il rapporto giuridico tra il bambino e sua madre: conseguenza evidentemente per tutti inaccettabile, perché in contrasto con l’interesse del bambino ed anche con lo scopo che muoveva le due donne ormai stabilmente unite. La Corte ha ritenuto che il rifiuto dell’adozione richiesta sia stato motivato esclusivamente sulla base del fatto che si trattava di coppia omosessuale. Tale argomento preliminare aveva escluso la necessità di esaminare nel caso concreto se quell’adozione fosse o meno nell’interesse del bambino (criterio sempre prevalente nelle procedure di adozione), in un caso in cui il padre era comunque attento a mantenere un rapporto con il figlio e si opponeva alla richiesta adozione. La Corte ha ragionato sulla base del principio di non discriminazione, affermato dalla Convenzione anche a proposito delle differenze di orientamento sessuale e ha constatato che la domanda di adozione era stata respinta solo per il differente trattamento che la legge austriaca riserva alle coppie omosessuali rispetto alle coppie eterosessuali (entrambe non unite in matrimonio). Donde la violazione del diritto al rispetto delle scelte di ordine familiare, che la Convenzione assicura a tutti, senza alcuna distinzione. La Corte non ha detto che quell’adozione doveva essere accettata dai giudici austriaci; ha soltanto constatato che il rifiuto era stato motivato esclusivamente sulla base di un argomento discriminatorio, astratto e generale, legato all’orientamento omosessuale della coppia che quell’adozione richiedeva. Nel caso concreto, tenendo conto di tutte le circostanze, i giudici, come avviene per le adozioni da parte di coppie eterosessuali, avrebbero dovuto esaminare se quell’adozione era o non era nell’interesse del bambino e conseguentemente se l’opposizione del padre era o non era da superare. Il caso a questo punto può interessare solo marginalmente, perché alla fine su quella adozione decideranno i giudici austriaci valutando il preminente interesse del bambino nel contesto specifico in cui vive. Ma l’occasione ha offerto alla Corte la possibilità di mettere in chiaro alcuni principi di ordine generale. Innanzitutto la Corte ha ricordato quanto già in precedenza affermato, che le stabili convivenze di fatto, etero o omosessuali, costituiscono una situazione di vita familiare che richiede di essere rispettata dalle leggi e dai giudici dello Stato. La Corte costituzionale italiana ha in proposito parlato di formazione sociale che merita rispetto e tutela. Ciò però non vuol dire che gli Stati siano obbligati ad ammettere nella loro legislazione anche il matrimonio omosessuale. Altre forme di riconoscimento delle unioni di fatto, etero o omosessuali, sono possibili e idonee a tutelare le esigenze di carattere personale e familiare di coloro che le compongono. E quelle forme, comunque si chiamino nella legislazione degli Stati, possono offrire alle unioni di fatto una regolamentazione diversa e più ristretta di quella conseguente al matrimonio; lo Stato ha una certa discrezionalità nel scegliere il contenuto della regolamentazione (in particolare per quanto riguarda la possibilità di adottare), con il limite generale della ragionevolezza. Ma si tratta di soluzioni per riconoscere e tutelare la vita familiare delle coppie di fatto, che non possono essere diverse a seconda che si tratti di unioni etero o omosessuali. Una diversità di trattamento – come nel caso austriaco giudicato dalla Corte - sarebbe discriminatoria per ragioni di orientamento sessuale e contrario alla Convenzione. La Corte ha constatato che la maggior parte dei dieci Stati europei che ammettono le coppie di fatto all’adozione congiunta, non distingue tra coppie etero e coppie omosessuali e ne ha tratto argomento per negare che vi sia un significativo consenso europeo che giustifichi la discriminazione. Ai principi enunciati dalla Corte europea possono naturalmente e in vario senso essere opposte ragioni di dissenso. Non può però negarsi che il quadro complessivo si presenta articolato ed equilibrato. Lascia spazio a scelte legislative diverse nei vari Stati, cui impone solo di riconoscere legislativamente la realtà delle coppie di fatto etero e omosessuali, ammettere che esse danno corpo a una vita di famiglia che va rispettata e non imporre un trattamento diverso (discriminatorio) alle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali. Il Parlamento italiano, nella nuova composizione che attendiamo, avrà di fronte a sé diverse opzioni possibili per adeguarsi ai principi europei che è tenuto a rispettare. Ciò che non gli è permesso è perseverare nell’inerzia. da - http://lastampa.it/2013/02/20/cultura/opinioni/editoriali/coppie-di-fatto-i-paletti-dell-europa-wVXk0FU7Sub54JSfFc7cxN/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY L’equilibrio tra notizie e segreto Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 08:44:23 am Editoriali
14/06/2013 L’equilibrio tra notizie e segreto Vladimiro Zagrebelsky La notizia che il governo degli Stati Uniti raccoglie e analizza un enorme numero di dati sulle comunicazioni di tutti e in tutto il mondo, non ha certo sorpreso gli addetti ai lavori, le varie istituzioni nazionali ed europee che curano la protezione dei dati personali, gli altri governi e i loro servizi di sicurezza (sarebbe imperdonabile se ne fossero stati all’oscuro e si può invece ipotizzare che vi siano forme di collaborazione tra governi). Ma la diffusione della notizia, per le sue modalità, per la massa di informazioni e la circolazione immediata sui media di tutto il mondo, ha provocato di per se stesse conseguenze sul piano dell’opinione pubblica generale e delle istituzioni pubbliche. Le domande che sorgono riguardano materia complessa e delicatissima, per il legame – reale e soprattutto percepito – con la sicurezza delle società e la protezione dalle attività terroristiche. La sensibilità rispetto alla protezione della riservatezza della vita personale, oppure la disponibilità a rinunciare a quella protezione in vista di una maggior sicurezza, si contrappongono senza che sia evidente il punto di equilibrio. Nessuno dubita che sospetti terroristi possano e anzi debbano essere controllati nei loro movimenti e contatti, mentre sono inammissibili forme di controllo generalizzate, «a strascico» cercando di pescare quel che rimane nella rete. Ma dove finisce il legittimo sospetto su una persona e comincia il sospetto su un gruppo, e quanto grande può essere quel gruppo sospetto senza cadere nell’eccesso di un controllo generalizzato? E poi, se gruppi privati che gestiscono la rete raccolgono e trattano masse di dati personali, in che limiti deve esserne escluso un governo, che, invece che per fini commerciali, li usa per fini di sicurezza? Quesiti difficili, la cui serietà nasce da una esigenza di limiti e bilanciamento, non dalla validità indiscutibile delle due concorrenti richieste di protezione. In ogni caso queste però vanno coltivate e contemperate con adeguate soluzioni anche procedurali. Stupisce che si faccia valere che l’attività dell’agenzia americana è soggetta a controllo giudiziario, quando il controllo sarebbe effettuato da un «giudice segreto». Ed anche che il Congresso ha autorizzato e quindi conosce quella attività. Il riferimento ai Parlamenti è spesso il finale necessario punto di arrivo, ma il principio di maggioranza che è loro proprio, gioca con forti limiti quando si tratta di diritti fondamentali delle persone. Dell’esigenza di protezione della riservatezza dei dati personali (di noi tutti, non solo dei cittadini americani, di cui pare solo preoccuparsi quel governo), si è scritto molto in questi giorni e si può sperare che ora anche si agisca. Un altro aspetto della vicenda della diffusione dell’informazione è rimasto un poco in ombra. Come già per Wikileaks e per la diffusione dei documenti effettuata da Julian Assange, corrono due interpretazioni opposte del fatto e dei loro autori. Traditori per alcuni, difensori dei diritti di tutti (e della democrazia) per altri. Con una certa soddisfazione per l’arricchimento di informazione che ho ricevuto su temi di grande rilievo, inclino a preferire la seconda versione. Con ogni cautela possibile, fino a che non saranno noti e chiari i motivi dei protagonisti, disposti peraltro a correre enormi rischi personali. Anche qui la questione non consente semplificazioni. Che i governi debbano poter agire anche nel segreto è in sé indiscutibile. Chi protesterebbe chiedendo immediata trasparenza mentre un governo opera per ottenere la liberazione di un cittadino sequestrato all’estero? Tutto in streaming? Follia. Ma l’area in cui il potere pubblico – che non è solo il governo – pretende di impedire la conoscenza di quel che fa, è veramente troppo vasta per essere ragionevolmente giustificata e compatibile con il diritto dei cittadini a elaborare una opinione (anche elettorale) informata. Per esempio, dai documenti pubblicati da Wikileaks, risulta che sorrisi, pacche sulle spalle, dichiarazioni di apprezzamento tra presidenti e capi di governo sono spesso una messinscena per noi spettatori: gli ambasciatori avevano già avvertito il loro governo che l’ospite era in realtà un personaggio infrequentabile. E questo scarto, tra realtà e rappresentazione, viene giustificato e protetto richiamando le esigenze della diplomazia. Fin dove però l’opinione pubblica deve restarne all’oscuro? I possibili esempi di eccesso – un caso di chiusura della casta degli addetti ai lavori – sono infiniti. Bisognerebbe accettare l’idea che l’area del segreto (e la durata del segreto, quando questo è giustificato) sia molto ristretta e giustificata da esigenze molto serie e temporanee. Ma la valutazione resta naturalmente nelle mani di chi detiene il segreto e non può essere effettuata dall’opinione pubblica, appunto perché essa è tenuta all’oscuro. Una risposta che affida al detentore del segreto, che spesso è anche l’autore del fatto occultato, la valutazione dello stringente interesse pubblico che obbliga alla segretazione, non risolve il problema. Anzi, lo conferma. E’ così che le fughe di notizie come quella di questi giorni e le altre precedenti nella storia, insieme al giornalismo di inchiesta che ne è spesso all’origine, hanno anche effetto positivo. Esse tengono in allarme chi gestisce potere pubblico segreto. Purtroppo talora anche facendo trapelare ciò che sarebbe necessario tener ancora nascosto, ma spesso, come è il caso di questi giorni, informando l’opinione pubblica di importanti elementi per la formazione dei suoi convincimenti e punti di vista. Se i governi sanno che «può succedere» che le notizie escano, cercheranno modi di protezione più avanzati, peraltro inutilmente come si è visto. Ma gli attori della vita pubblica sapranno anche – ed ora sanno – che esiste il rischio che fatti e condotte inammissibili diventino noti. E’ questa possibilità che può contribuire alla prudenza, non tanto nel segretare i fatti, ma piuttosto nel non commetterli. O almeno a non esagerare. DA - http://lastampa.it/2013/06/14/cultura/opinioni/editoriali/lequilibrio-tra-notizie-e-segreto-LZZS7DVsFLBVWQTm0f2wVN/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il primato delle regole sul voto popolare Inserito da: Admin - Giugno 24, 2013, 11:45:17 am Editoriali
24/06/2013 Il primato delle regole sul voto popolare Vladimiro Zagrebelsky L’aspirazione dell’onorevole Biancofiore a ricorrere alla Corte europea dei diritti umani, in difesa del diritto di Silvio Berlusconi a un processo equo, non ha spazio nel sistema europeo di cui l’Italia è parte. Alla Corte europea possono ricorrere le vittime, non gli amici ed estimatori. Quella dichiarazione può dunque essere relegata tra le stravaganze. Ma non va lasciato in ombra un tema - quello delle conseguenze di condanne sul diritto dei cittadini di partecipare alle elezioni - che invece merita di essere trattato e discusso con riferimento al diritto europeo, cui l’Italia è legata. Per garantire la democraticità degli Stati europei, la Convenzione europea dei diritti umani stabilisce che le elezioni si svolgano in modo da assicurare «la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo». In linea di principio tutti i cittadini devono poter votare e poter portarsi candidati per essere eletti. Ma se questo è il principio, in tutti i sistemi vi sono limitazioni. Basti pensare ovviamente all’età minima per essere elettori o per essere eletti. Ma le leggi elettorali di tutti gli Stati in vario modo prevedono anche casi di esclusione dai diritti elettorali, legati a condanne penali o ad altre circostanze assimilabili alle condanne. Proprio come, nei Paesi dell’Est europeo, la passata collaborazione con i regimi comunisti prima della caduta del sistema sovietico. Quelle limitazioni hanno dato occasione a una serie di ricorsi alla Corte europea; in tempi recenti, contro l’Austria, il Regno Unito ed anche l’Italia. Si trattava di persone che, in conseguenza di condanne penali, avevano perduto, temporaneamente o per sempre, il diritto di partecipare alle elezioni legislative. La Corte ha riconosciuto che sono giustificate, in uno Stato democratico, sospensioni temporanee e persino esclusioni definitive dai diritti elettorali, quando queste siano proporzionate, ragionevolmente collegate alle condanne riportate e non indiscriminate. Secondo questi criteri la Corte ha affermato che viola la Convenzione europea dei diritti umani, la legislazione britannica, che priva del diritto di votare tutti i condannati a pena detentiva (con solo marginali eccezioni). La resistenza del Parlamento britannico a ridurre e ad articolare i casi di esclusione dal voto ha dato luogo a un braccio di ferro con la Corte, che è ancora in corso e che si iscrive tra le manifestazioni di rifiuto della integrazione europea che caratterizza ora la politica di quel Paese. La Corte ha anche censurato il sistema austriaco, per motivi analoghi a quelli che si riferiscono alla legge britannica. Con una sentenza dell’anno scorso, invece, la legge italiana, che stabilisce i casi di interdizione dai pubblici uffici e conseguente esclusione dal diritto elettorale, è stata ritenuta proporzionata, per l’attenzione che essa presta alla natura e alla gravità del reato commesso, risultante dalla valutazione che ne fanno i giudici nel caso concreto. E il ricorso contro l’Italia è stato respinto. In tutti questi casi, i ricorrenti lamentavano di essere esclusi dal diritto di votare alle elezioni legislative. Il diritto di portarsi candidato, pur normalmente collegato al diritto di votare, mostra però un profilo specifico. L’esclusione dal diritto di votare per ragioni legate a condanne penali, riguarda sempre e comunque un numero ridotto di persone rispetto alle dimensioni generali dell’elettorato, cosicché non si hanno conseguenze sul risultato elettorale generale. In certi casi invece l’esclusione di un candidato può incidere sulle fortune della sua lista, sull’esito delle elezioni e, quindi, sulla composizione del Parlamento. Il problema dell’esclusione di candidature alle elezioni è quindi più complesso di quello della perdita del diritto di votare. Esso non riguarda solo il diritto della persona che intende candidarsi, ma si proietta sulla stessa «scelta del corpo legislativo» da parte del popolo elettore. E’ indiscusso il diritto degli Stati di proteggere il proprio Parlamento dalla candidatura di chi si sia reso responsabile di scorrettezze e infedeltà gravi, ma si pone la questione della giustificazione e proporzione. Un caso è stato esaminato dalla Corte europea. Si trattava del presidente della Repubblica lituana, che era stato dichiarato decaduto dalla carica per gli abusi e le irregolarità commessi. In vista delle imminenti nuove elezioni del Parlamento, l’ex presidente, che godeva di un importante seguito elettorale, aveva dichiarato di volersi candidare. Era stata allora approvata una legge che impediva ai presidenti dichiarati decaduti di candidarsi. La formula era generale, ma si trattava evidentemente di legge «ad personam», contro l’unica che si trovava in quella situazione. E l’interdizione era perpetua. La Corte europea con una sentenza del 2011 ha ritenuto che in quel caso era sproporzionata la previsione di un’incapacità elettorale definitiva e irreversibile. Era stato rotto l’equilibrio tra l’esigenza, da un lato di escludere da cariche pubbliche e in particolare dal Parlamento, persone che avevano dimostrato di non assicurare la necessaria correttezza e affidabilità e dall’altro di non limitare eccessivamente l’espressione del voto popolare. La violazione della Convenzione europea da parte della Lituania indica che la concezione europea del valore delle libere elezioni non corrisponde alla pretesa di chi ritiene che ogni limitazione e regolamentazione sia una inaccettabile violazione del principio democratico di prevalenza, comunque, della maggioranza degli elettori. Regole e interdizioni legali, non sproporzionate rispetto allo scopo legittimo, sono cautele possibili in difesa delle istituzioni pubbliche: come per l’esclusione del diritto di votare, così anche quando si tratta di escludere l’eleggibilità di chi troverebbe sostegno nell’elettorato. Esse sono destinate a operare quando non funzionano i filtri che normalmente dovrebbero essere attivati in sede politica nella formazione delle liste elettorali. da - http://www.lastampa.it/2013/06/24/cultura/opinioni/editoriali/il-primato-delle-regole-sul-voto-popolare-phRsOiKIXyeEjXChzvFZiN/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY In gioco la credibilità dello Stato Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2014, 05:18:03 pm Editoriali
12/01/2014 In gioco la credibilità dello Stato Vladimiro Zagrebelsky Le «cure compassionevoli» sono quelle che possono intervenire quando ciò che è normalmente autorizzato e praticato, è ormai inutile. Si chiamano cure compassionevoli. Compassionevoli, ma pur sempre cure. E cure, che si vogliono somministrate in strutture del Servizio sanitario nazionale. Il caso Stamina ha aspetti che giustificano gravi sospetti. Esistono però problemi che sono presenti nell’attività ordinaria di medici e di strutture ospedaliere, che non emergono nei media e che tuttavia mettono a dura prova le regole routinarie, il senso di responsabilità dei medici, il dolore dei malati e di chi sta loro vicino. La patologia di una vicenda, intendo dire, non deve mettere in ombra l’esistenza di una normalità di casi difficili. Una normalità in cui l’integrità dei protagonisti è fuori discussione e le decisioni da prendere sono ardue e rischiose. Le deviazioni deontologiche, ipotizzabili in questa o quella vicenda particolare, consentono analisi semplici e chiedono rimedi noti. Sono più difficili i problemi di cui non ci si può liberare identificando colpevoli. La domanda di «cure compassionevoli» è uno di questi. Le regole ordinarie sono impraticabili e quelle eccezionali, che pur esistono, lasciano largo spazio a scelte discrezionali difficili, rischiose; scelte discutibili a priori e discusse a posteriori, quando l’esito sia negativo. Le cure compassionevoli sono praticate e regolamentate in Italia come altrove nel mondo. Ed anche l’Unione Europea con i suoi organi vigila e promuove l’armonizzazione delle regole. Si tratta di regole che riguardano i medici e gli ospedali. Dopo l’opera dei medici, talora sono chiamati a decidere i giudici e il loro ruolo è controverso. Con l’espressione «cure compassionevoli» si intende l’uso di farmaci «off-label», non (ancora) autorizzati o non autorizzati per quello specifico uso: farmaci cui ricorre il medico, in assenza di terapie autorizzate, con il consenso del paziente. Naturalmente ciascuno e libero di curarsi come vuole, ma il problema nasce quando si pretende che sia una struttura pubblica, lo Stato dunque, a praticare una terapia non autorizzata in situazioni normali. Il problema non si presenta solo in Italia. Recentemente la Corte europea dei diritti umani ha esaminato un ricorso contro la Bulgaria, le cui autorità amministrative e i cui giudici avevano rifiutato di autorizzare la somministrazione a malati terminali di cancro di un farmaco non registrato in quello Stato. La Corte ha affermato che il diritto alla salute non implica un dovere assoluto dello Stato di agire, anche in violazione delle regole che si è dato in materia di sicurezza sanitaria. E in effetti una cosa è il diritto a non essere oggetto di attentati alla propria salute, altro è la pretesa che non vi siano limiti al dovere dello Stato di provvedere. Ed anche la Corte Costituzionale ha ritenuto che il diritto alla salute, pur fondamentale, trova limiti in considerazione di altri diritti e principi costituzionali. Le regole italiane ammettono l’uso dei farmaci riconosciuti per le cure compassionevoli dalla Commissione unica del farmaco del ministero della Salute, in considerazione del fatto che sono stati già registrati in altri Stati o sono in corso di sperimentazione per quella patologia. L’uso di tali farmaci è ammesso a condizione che la procedura di sperimentazione sia già in stadio avanzato o esistano pubblicazioni scientifiche, accreditate in campo internazionale, da cui se ne possa desumere l’affidabilità. E il ricorso a tale tipo di terapia deve essere eccezionale e legato alla specificità della concreta situazione del paziente. Il pericolo è infatti che una applicazione generalizzata diventi una via per sottrarsi alle rigide regole della sperimentazione clinica dei nuovi farmaci. Solo in tal modo si può ritenere che il medico, conformemente al giuramento prestato, abbia agito secondo «scienza e coscienza». Come si vede, ad ogni passo il medico deve compiere valutazioni impegnative, in cui il confine tra il giusto e lo sbagliato è discutibile e l’errore sempre possibile. Esistono casi in cui l’adozione da parte del medico di una terapia non autorizzata ha portato quel medico davanti al giudice penale, imputato per avere cagionato l’aggravamento o la morte del paziente. Ma - ed ecco il problema esploso ora nella vicenda Stamina - al giudice si richiede anche di prender decisioni quando la cura non è praticata, ma impedita. A chi, se non a un giudice, può il paziente richiedere che sia garantito il suo diritto alla salute? Che si tratti di un diritto è fuori discussione, donde la competenza del giudice. Ciò che invece è discutibile sono i limiti e le condizioni per l’applicazione al paziente delle regole esistenti. Ecco allora che le incertezze, le valutazioni, i rischi entro i quali si muove il medico, si trasferiscono al giudice. E la similitudine delle posizioni del medico e del giudice si vede anche nel fatto che l’uno e l’altro non possono evitare di prendere una decisione; con la differenza però che quella del giudice è l’ultima, definitiva. Il giudice, in più deve ricorrere alla perizia di un esperto, poiché egli tutto ignora della specifica disciplina medica. In molti casi i veri esperti sono pochissimi e difficilmente raggiungibili. E le valutazioni di un perito sono spesso smentite dal giudizio di altri. Donde decisioni difformi e lo scandalo di cure ordinate e di cure negate da giudici diversi in casi che sembrano eguali. Come quello di due fratelli affetti dallo stesso male, per l’uno dei quali un giudice ordinò la cura e per l’altro un altro giudice la negò. Da tutto ciò potrebbe trarsi la conclusione che in un campo così difficile, tutto quello che è avvenuto non è che il prodotto inevitabile della difficile natura del problema. E rassegnarsi a dire che si sia nel migliore - ancorché penoso - mondo possibile. Non è così. Si poteva far meglio. In questa vicenda il governo nel corso del tempo ha dato segnali contraddittori, equivoci, come quando ha vietato le cure Stamina, ma ha autorizzato la continuazione di quelle già in corso. Il parlamento - lo ha ammesso la presidente della Commissione sanità del Senato - ha legiferato senza le conoscenze necessarie. E per far chiarezza si è dovuto attendere – come è ormai abitudine - che si attivasse un’indagine penale. E i giudici? I giudici, con decisioni molto argomentate e palesemente meditate, hanno dato risposte in contrasto l’una con l’altra. La funzione della giustizia è di decidere i casi singoli, ma è anche quella di assicurare stabilità e prevedibilità del diritto che i giudici enunciano. Il sistema giudiziario nel suo complesso non ha dato buona prova. La cattiva prova anzi è venuta dall’insieme del sistema istituzionale. Conclusioni di organi scientificamente attrezzati, cui la legge rimette valutazioni altamente tecniche, dovrebbero essere rispettate, anche dai giudici. La ricerca, per distaccarsene, di possibili vizi formali dei provvedimenti amministrativi rischia di condurre a distorsioni dei ruoli reciproci; a scapito dell’osservanza delle regole stabilite, sulla serietà della «cura» prevale l’umana «compassione». Ma è questa la funzione dei giudici? Il conflitto con la comunità scientifica accreditata, non mette in discussione la credibilità di uno Stato di cui anche l’istituzione giudiziaria è parte? Da - http://lastampa.it/2014/01/12/cultura/opinioni/editoriali/in-gioco-la-credibilit-dello-stato-V92pJl3f1rd2nObbNO4APK/pagina.html Titolo: Noi se scendiamo in piazza lo si fa' da gregge oppure per difendere privilegi... Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 11:26:00 am Italiani timidi nel difendere i nostri valori
09/01/2015 Vladimiro Zagrebelsky Appena diffusasi la notizia del massacro, la gente è scesa subito in piazza a Parigi e in tutta la Francia, con Berlino, Londra, Vienna, Bruxelles, ed anche Lima e Tirana, Pristina e Buenos Aires e tante altre città del mondo. L’ha fatto per stare insieme, cittadini con cittadini, e dire che la libertà è di tutti, non solo dei giornalisti di “Charlie Hebdo» uccisi dai barbari. I giornali del mondo e i siti web sono pieni di immagini di quelle manifestazioni. L’effetto della partecipazione è così moltiplicato. L’Italia è rimasta a lungo assente e, per quanto si sa, si è mossa quando ha preso l’iniziativa la comunità francese. Così ieri sera vi sono state manifestazioni a Torino, a Firenze e a Roma, davanti all’ambasciata di Francia. Una cosa sentita e degna, ma diversa rispetto alle manifestazioni spontanee, istintive dei cittadini, proprio perché la spinta è stata di cittadini francesi. Sarebbe stato bello che fossero i torinesi, i fiorentini e i romani, cittadini europei, a dimostrare spontaneamente il loro sdegno e la decisione di difendere ad ogni costo la propria libertà. Perché ciò che è avvenuto a Parigi non è un fatto francese, ma un’aggressione a un tratto essenziale della cultura e della civiltà europea. La libertà di espressione è stata in Europa conquistata a duro prezzo. Alla Francia e alla Rivoluzione dobbiamo l’affermazione che «la libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’Uomo». E se a Roma manca una piazza della Bastiglia ove manifestare, vi è però Campo dei Fiori con il monumento a Giordano Bruno. Due anni orsono a Tolosa un terrorista islamista franco-algerino (come i sospettati della strage di Parigi) ha ucciso bambini ebrei francesi all’entrata della loro scuola. Li ha uccisi perché ebrei e perché scolari. Anche allora la gente in Francia e in molte città europee sentì la necessità di esprimere collettivamente il proprio dolore e la propria unità, senza creder sufficienti i discorsi e i telegrammi delle autorità pubbliche. In Italia, anche su suggerimento di questo giornale, il ministro dell’Istruzione Profumo dispose che di quegli assassinii si parlasse nelle scuole. Giusta iniziativa, perché anche quella non era una storia francese, ma un attacco a tutti noi, all’Europa. Ma fu necessaria una circolare ministeriale. Nei giorni scorsi le tante manifestazioni a Parigi e in Europa hanno visto scendere in strada persone orgogliose di esser parte di una civiltà fondata sulla libertà di pensiero, di espressione ed anche di religione. L’Europa, nei secoli ha prodotto le guerre di religione, i roghi di eretici e dissidenti, i lager nazisti e sovietici, la shoah. Ma ha saputo superare l’odio religioso e l’intolleranza ideologica, dando in ciò il meglio di se stessa. L’Europa di oggi ha Carte dei diritti e Costituzioni che proteggono la dignità e la libertà di tutti. Nell’Unione europea, per i diritti e le libertà, i confini sono caduti. Si dirà, con qualche ragione, che questa visione forza la realtà delle cose. Sì, ma non troppo, se si guarda altrove nel mondo. E comunque è al meglio che occorre attaccarsi, non al peggio che pur resiste e proprio ora vuol riemergere. Le libertà sono il fondamento irrinunciabile dell’Europa; non si può consentire, sotto il pretesto di culture diverse e intolleranti, ch’esse vengano limitate. In queste ore i governi attivano misure speciali di vigilanza e studiano nuove leggi, in particolare contro gli jihadisti di ritorno. Si può immaginare che i servizi di sicurezza vengano meglio attivati sul terreno, interno e esterno, che produce terroristi come quelli entrati in azione a Parigi. Tuttavia le necessarie azioni di polizia non basteranno. Esse vanno condivise e sostenute in un quadro di valori. Senza tradirne l’essenza, è indispensabile la consapevole e proclamata volontà di difendere e mantenere viva la civiltà della nostra Europa. Da - http://www.lastampa.it/2015/01/09/cultura/opinioni/editoriali/italiani-timidi-nel-difendere-i-nostri-valori-zU5XGEVO0wUp1tZ7q8AnbO/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY I diritti, la legge e la libertà di coscienza Inserito da: Arlecchino - Febbraio 28, 2017, 11:15:05 pm I diritti, la legge e la libertà di coscienza Pubblicato il 27/02/2017 - Ultima modifica il 27/02/2017 alle ore 12:40 Vladimiro Zagrebelsky Già nel 2012 il Comitato nazionale di bioetica – organo di consulenza della presidenza del Consiglio - ha affrontato i complessi problemi che accompagnano l’obiezione di coscienza. La lettura dell’approfondito parere del Comitato potrebbe spegnere le polemiche che riguardano la recente decisione di un ospedale romano di reclutare medici che, in presenza delle condizioni definite dalla legge, assicurino l’esecuzione delle interruzioni di gravidanza e così permettano l’adempimento del dovere legale cui l’ospedale è soggetto. Il Comitato ha affermato che l’obiezione di coscienza non può essere strumento di sabotaggio della legge, tanto più se «nelle mani di minoranze fortemente organizzate, oppure oggetto di abuso opportunistico da parte di singoli». L’obiezione di coscienza permette al singolo di sottrarsi all’obbligo di compiere una determinata attività, ma non gli consente di impedire che l’attività prevista dalla legge sia altrimenti svolta. È così che il Comitato ha concluso, raccomandando «la predisposizione di un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento … che può prevedere forme di mobilità del personale e di reclutamento differenziato atti a equilibrare, sulla base dei dati disponibili, il numero degli obiettori e dei non obiettori». Certo il parere del Comitato rimane oggetto di legittima discussione, ma consente almeno di dire che la decisione dell’ospedale romano non è estemporanea e discriminatoria. E d’altra parte, dall’epoca di quel parere, la situazione in Italia non ha fatto che peggiorare, tanto che vi sono zone in cui il numero massiccio di obiettori rende di fatto inoperante il servizio pubblico stabilito dalla legge n.194 del 1978. È per questa situazione che il Comitato europeo dei diritti sociali ha accolto un ricorso contro l’Italia, constatando che lo Stato non assicura l’applicazione della legge. Ma, si dice, reclutando «non obiettori» si discriminano gli «obiettori» escludendoli dalla possibilità di essere reclutati per posti ospedalieri. È tuttavia paradossale la pretesa di esser assunti per una determinata attività - che l’ospedale deve assicurare - e al tempo stesso pretendere di non svolgerla. Talora poi non sono possibili semplici accorgimenti organizzativi nella distribuzione degli incarichi interni all’ospedale. Basta pensare ai piccoli ospedali o ad attività specifiche, come quella del biologo che opera nell’ambito della procedura di fecondazione medicalmente assistita: quello può fare nell’ospedale e non altro. Infatti un’altra struttura ospedaliera, tenuta a fornire il servizio, ha limitato la procedura di reclutamento del necessario biologo a specialisti disposti a svolgere quel lavoro. Benché la discussione odierna riguardi la legge sull’interruzione della gravidanza, occorre essere avvertiti che le soluzioni adottate hanno conseguenze su un’ampia varietà di casi, destinati certo ad aumentare nel futuro. Un rilevante esempio è nel progetto in discussione alla Camera sulle disposizioni anticipate per il trattamento medico, che prevede la possibilità di obiezione di coscienza da parte dei medici. Ma la questione delle obiezioni di coscienza (non necessariamente a base religiosa) e anche di quelle di deontologia professionale (come quella recentemente avanzata per non eseguire la circoncisione rituale in ospedali pubblici), non si pongono solo quando è la legge ordinaria a prevederne la possibilità. Il rispetto della libertà di coscienza, di cui l’obiezione è un aspetto, anche senza una legge specifica, trova fondamento nella Costituzione, nella Convenzione europea dei diritti umani e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. I contrasti culturali ed etici, per il marcato pluralismo delle nostre società e non solo come conseguenza dell’immigrazione, pongono sempre nuovi aspetti. Se da un lato vi è il diritto di ciascuno a non esser costretto a compiere attività che in coscienza non ritiene di poter accettare e la questione connessa delle conseguenze che gliene derivano, dall’altro vi è il dovere delle varie pubbliche istituzioni di applicare la legge con i costi che sono da assumere per operare il ragionevole contemperamento di esigenze che possono dar luogo a conflitto. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/02/27/cultura/opinioni/editoriali/i-diritti-la-legge-e-la-libert-di-coscienza-n0XcxAXiwfVW76wKsShdmK/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il rispetto che manca verso una legge di civiltà Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2017, 11:19:00 pm Il rispetto che manca verso una legge di civiltà Pubblicato il 16/06/2017 Ultima modifica il 16/06/2017 alle ore 06:33 Vladimiro Zagrebelsky Ciò che stupisce e anche indigna è che in Senato si venga alle mani per impedire la discussione di un progetto di legge che riguarda il riconoscimento della cittadinanza italiana anche a qualcuno che non è figlio di genitori italiani. Si chiama ius soli, ma come ora accade spesso nelle nostre leggi, non vuol dire quel che significa. Infatti la legge non prevede che si sia italiani, qualunque sia la nazionalità dei genitori, per il solo fatto di nascere in territorio italiano. Né l’opposto criterio dello ius sanguinis, che in linea di principio collegherebbe la cittadinanza al legame di sangue con entrambi i genitori italiani, è quello che regge la legge fino ad ora in vigore, la quale conosce profonde attenuazioni della regola. Ma basta l’uso di due parole come terra e sangue a scatenare gli istinti contro la ragione. E, con gli istinti, i muscoli! L’Italia è un Paese il cui carattere e la cui ricchezza derivano da ondate di migrazioni e dominazioni straniere, che hanno creato una popolazione italiana nei cui geni, modi di vita e cultura non ci sono solo i romani, ma anche i greci, gli arabi, i normanni, gli ebrei, i germani e tanti altri. Adesso e nel prevedibile futuro l’Italia e l’Europa ricevono gran numero di stranieri. Vi sono da un lato il rimescolamento tra europei, frutto benefico della libertà di circolazione nell’Unione europea e dall’altro il fenomeno storico del movimento di popolazioni sotto la spinta di guerre e miseria nei territori di origine. Per quanto si possa disciplinare quello che sta avvenendo, è illusorio pensare di arrestarlo. Truffaldino, nella propaganda politica, far credere di essere in grado di farlo. Triste pensare a una società omogenea (la difesa della razza?), chiusa nel suo modo di vivere e priva di ciò che gli altri portano. Ma la prospettiva di chi si scalmana in Parlamento e in piazza è proprio questa, sicura di trovar consensi nella pancia del suo elettorato. La legge che integra quella vigente, ammette nuovi casi di acquisto della cittadinanza, che riguardano chi nasce in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno abbia regolare permesso di soggiorno permanente. In tal modo diventa decisivo il fatto che il genitore risieda regolarmente e permanentemente in Italia. È poi previsto che lo straniero, se è nato in Italia o vi ha fatto ingresso da minorenne, acquista la cittadinanza se ha regolarmente frequentato in Italia le scuole del sistema nazionale per un tempo diversificato a seconda dell’età che egli aveva all’arrivo in Italia. L’articolazione dei casi è equilibrata e mette l’Italia in linea con tendenze già presenti in diversi Paesi europei in una materia che da tempo è condizionata dalla sempre maggior mobilità delle persone. Soprattutto essa tiene conto dell’intrinseca italianità di chi fin dalla nascita e per la frequenza delle scuole italiane, cresce qui, nel contesto italiano, insieme a giovani italiani. Si tratta di riconoscere la cittadinanza sociale, accanto a quella di sangue o di luogo di nascita. Come ogni legge che regola materie complesse anche questa meriterebbe in Parlamento un’attenta discussione, articolo per articolo, parola per parola. Lo stesso va detto anche per le altre leggi sui diritti civili da lungo tempo pendenti. Ma un’attenta discussione, tesa a eliminare problemi applicativi, richiederebbe un atteggiamento rispettoso non solo del Parlamento, che si continua a scrivere con la maiuscola, ma anche delle persone cui la legge si rivolge. In questo caso la rissa parlamentare propone lo scontro tra un generico «noi» e un generico «loro». Imbarca sulla nave nazionale anche chi tra i «noi» non lo meriterebbe e rifiuta chi tra i «loro» sente e vive ormai da italiano. Ma per fortuna il sentimento maggioritario tra gli italiani non segue questa strada nefasta. Non è un caso che il progetto di legge derivi anche da un’iniziativa legislativa popolare. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/06/16/cultura/opinioni/editoriali/il-rispetto-che-manca-verso-una-legge-di-civilt-zElnc6XsMuqvxdJVLmTe9N/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il coraggio e le regole per i migranti Inserito da: Arlecchino - Gennaio 12, 2018, 12:25:31 pm Il coraggio e le regole per i migranti
Pubblicato il 12/01/2018 VLADIMIRO ZAGREBELSKY Il prossimo 14 gennaio sarà celebrata la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato istituita dalla Chiesa cattolica. Dopo la analoga promossa dalle Nazioni Unite, essa sarà occasione per nuovamente affrontare il tema, sperabilmente non in chiave di contrapposizione e propaganda elettorale. Le dimensioni e le cause del fenomeno mondiale odierno delle migrazioni e, in particolare, di quello verso l’Italia e l’Europa rendono insufficiente, anche se stringente, il richiamo al dovere individuale e nazionale di assicurare sempre umanità nel rapporto con gli stranieri che giungono in Italia. E con l’umanità, l’osservanza rigorosa delle prescrizioni costituzionali e delle Convenzioni internazionali in materia. Esse riguardano essenzialmente il rapporto con l’individuo che arriva nel territorio dello Stato. Ma quando si tratta di un fenomeno di massa, grandioso, diversificato e di lunga durata come quello che affronta ora l’Europa, la quantità modifica la qualità del problema. Alla realtà del problema, poi, si aggiunge una dimensione altra, anch’essa da non ignorare. Si tratta della percezione del fenomeno, non importa quanto distorta da disinformazione o propaganda politica e da difficili esperienze personali o di intere fasce sociali più di altre a contatto con l’arrivo di migranti. La paura e l’adesione a proposte sempliciste e assurde richiedono un forte impegno per diffondere un’informazione corretta. È infatti reale il rischio che prevalgano posizioni potenzialmente antidemocratiche e xenofobe. A questo si riferiva la preoccupazione manifestata dal ministro Minniti, sui rischi che correrebbe la democrazia se la questione migranti non venisse affrontata e venisse lasciato campo libero a forze estremiste. Una paura esagerata e creata ad arte è certo sbagliata, ma resta un oggettivo dato politico e sociale di cui occorre responsabilmente tener conto. Alle regole del trattamento individuale del migrante deve dunque aggiungersi una chiara e realistica linea politica di gestione e governo del fenomeno. L’Europa e l’Italia hanno già conosciuto e non dovrebbe dimenticare gli effetti delle guerre su individui e su intere popolazioni. Per regolare il problema dei milioni di civili e militari dispersi in Europa alla fine della guerra nacque la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati. Ora un’analoga situazione, altrove nel mondo, è all’origine di molte fughe da zone di guerra; anche, ma non solo, verso l’Europa. Fughe di persone che cercano e, secondo la Convenzione, hanno diritto di ricevere asilo. Vi è però una tendenza a svalutare la differenza che esiste tra chi lascia il proprio Paese per cercare condizioni economiche migliori e coloro che fuggono dal pericolo cui sono esposti di persecuzioni e trattamenti inumani: tra migranti economici cioè e rifugiati. Tutti questi ultimi, ma non i primi hanno il diritto assoluto di essere accolti, protetti come rifugiati e non respinti. Certo è spesso difficile distinguere gli uni dagli altri, ma è necessario farlo poiché la confusione porta necessariamente ad attenuare o a rendere impraticabile la piena tutela delle vittime di guerre e persecuzioni. Coloro che arrivano non sono necessariamente quelli che più avrebbero bisogno di accoglienza e rifugio. In grande misura arrivano uomini giovani e sani. E gli altri? Quelli che, magari in condizioni peggiori, non riescono a partire e ad arrivare? Ora le dure e illegali modalità della fuga verso l’Europa hanno un grave effetto discriminatorio e le alternative sono del tutto insufficienti. Anche per questo motivo e non solo per prevenire le drammatiche traversate del mare, è necessaria una politica di immigrazione regolata; l’unica che possa dare risultati liberando l’Italia e l’Europa dalla rassegnata e sola gestione d’emergenza di vicende ineluttabili e da altri determinate. L’attivazione di regolari canali di immigrazione è anche il modo concreto di disincentivare il ricorso agli attuali pericolosi percorsi di migrazione verso l’Italia. I quali percorsi non si esauriranno se non si apriranno stabili e non solo simboliche vie alternative, legittime e controllate. Ai governi spetta affrontare un problema che è ineludibile. Le azioni praticabili sono difficili e rischiose. I piani su cui intervenire sono necessariamente numerosi, di politica interna e di controlli e accordi internazionali. La sensazione di dover affrontare un problema troppo grande può spingere governi e forze politiche all’inerzia o ad atteggiamenti puramente propagandistici oppure, in Italia, vittimistici. Altri Paesi in Europa hanno ricevuto un maggior numero di migranti, senza parlare di ciò che avviene in altre parti del mondo. Occorre invece coraggio, concretezza e riconoscimento della necessità di distinguere all’interno del grande fenomeno delle migrazioni. È quel che sembra fare ora il governo anche con politiche di accordi con paesi africani la cui inevitabilità si accompagna però ad aspetti di pericolosità rispetto ai diritti umani delle persone dei migranti. La vigilanza deve essere massima, ma gli interlocutori necessari sono quelli che sono e non quelli che si preferirebbe fossero. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2018/01/12/cultura/opinioni/editoriali/il-coraggio-e-le-regole-per-i-migranti-I0BF5nZ9zinpSfqwIclcyO/pagina.html Titolo: VLADIMIRO ZAGREBELSKY Rispettare i prof aiuta a costruire un Paese migliore Inserito da: Arlecchino - Aprile 13, 2018, 04:12:44 pm Rispettare i prof aiuta a costruire un Paese migliore
Pubblicato il 08/04/2018 - Ultima modifica il 08/04/2018 alle ore 15:18 Vladimiro Zagrebelsky La gravità dei frequenti episodi, che vedono insegnanti insultati, irrisi, picchiati dagli alunni o dai loro genitori, va oltre quella dei singoli casi. Si è infatti davanti ad un fenomeno sociale che vede gli insegnanti avviliti, impediti di svolgere il loro lavoro e, occorrerebbe dire, la loro missione sociale. Ogni autorevolezza della figura professionale dell’insegnate è perduta e con essa il rispetto per la persona e la possibilità stessa di far opera di educazione. L’impressione è che il fenomeno sia sottovalutato, particolarmente quando gli autori delle violenze siano gli allievi, riducendo le aggressioni a bambinate delle quali basta scusarsi per farla franca (dopo avere naturalmente umiliato l’insegnante diffondendo le immagini riprese con i cellulari). E invece si tratta di una manifestazione di radicale rifiuto del rapporto docente-discente, cui purtroppo spesso si adeguano le famiglie. L’origine di ciò cui assistiamo è complessa e di lunga data. Altri ha certo competenza per approfondirne le cause sociali, tanto più che non riguarda solo l’Italia. Per restare a esperienze a noi vicine, si può ricordare ciò che avviene nelle scuole più difficili delle periferie parigine, dove gli insegnanti temono per la loro stessa incolumità fisica. Ma là appare una reazione da parte delle autorità di governo, che si manifesta anche con parole, che qui sembrano mancare, per rassegnazione o indifferenza. Mancano qui manifestazioni impegnative di solidarietà per i singoli insegnanti, ma anche complessivamente per la categoria, cui pure, più che ad altre, la società e la Repubblica dovrebbero tenere. Il rispetto per l’insegnante è indispensabile. Esso si fonda sulla sua capacità professionale, fatta di conoscenza della materia che insegna e di aggiornati metodi didattici, ma anche sull’autorevolezza che discende dalla consapevolezza del ruolo non paritario, che distingue chi insegna da chi deve imparare. Non è irrilevante nell’avvilimento della funzione, ma è anzi segno di mancanza di apprezzamento, il penoso trattamento economico degli insegnanti di tutti i livelli. In una società tanto attenta al denaro, lo stipendio è un’importante indicazione del valore che si assegna alla persona che lo riceve. E non è certo segno di attenzione a questo importante aspetto l’occasionale regalia dispensata da questo o quel governo. Dovrebbero essere oggetto di attenzione e di proposte non solo lo specifico problema della mancanza di rispetto o addirittura della violenza contro gli insegnanti, patologia grave di una generale situazione dell’istruzione, ma anche quello della formazione, selezione e valorizzazione della preparazione e aggiornamento professionale dei docenti. Da questo evidentemente dipende quella che vogliamo sia una buona scuola. Una scuola di alta qualità è interesse della nostra società. La cultura dei giovani che escono dalla scuola condiziona la vitalità e civiltà della società tutta e il suo carattere democratico. Come difendere le istituzioni democratiche dalla crescente dipendenza da valori effimeri e irresistibili emozioni o dalla fascinazione di impossibili promesse diffuse da pifferai magici cui si accodano crescenti colonne della popolazione? Come, se non con la scuola, far crescere la capacità critica, l’autonomia di pensiero che fanno di un individuo un cittadino, rendendolo capace di partecipare effettivamente alla vita sociale del Paese? In gioco non c’è solo un efficace «ascensore sociale» che renda dinamica una società rigida come la nostra, non ci sono solo questioni che riguardano le capacità degli studenti a partecipare alla competizione per il posto di lavoro. In gioco è la stessa precondizione della vita democratica della società italiana. Ma si tratta di questioni che richiedono visione culturale e politica di ampio respiro e di lunga durata. Non di questo, però, si occupano i partiti che discutono del nostro prossimo governo. Se non ai vincitori delle elezioni, almeno ai perdenti che dicono volersi rifondare si potrebbe chiedere di pensare a una visione della società di domani e a un programma per la scuola che la prepara. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2018/04/08/cultura/opinioni/editoriali/rispettare-i-prof-aiuta-a-costruire-un-paese-migliore-KGzhSDW9EBvgHVB5dHCefO/pagina.html |