LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 26, 2011, 05:11:12 pm



Titolo: Enrico MARRO -
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 05:11:12 pm
I contenuti - Il Cavaliere consapevole che non sarà facile convincere i partner europei

Nella missiva tutte le «cose fatte»

«Il nostro sistema è sostenibile»

Debito pubblico: l'Ue si attende misure concrete per una riduzione non simbolica dello stock, in tempi rapidi

ROMA - Una lettera a Bruxelles, lunga quattordici pagine. Con la quale il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non elenca nel dettaglio tutte le misure che il governo prenderà per rafforzare il risanamento dei conti pubblici, ma alla quale il premier affida comunque la speranza di passare il severo esame che subirà oggi al Consiglio dei capi di Stato e di governo dell'Unione. Speranza riposta su un solo impegno preciso: il rispetto dell'obiettivo dell'anticipo del pareggio di bilancio al 2013 deciso con le manovre della scorsa estate, costi quel che costi, se necessario anche con misure aggiuntive.

Sulla previdenza si afferma l'obiettivo dell'età pensionabile a 67 anni nel 2026, senza spiegare come. In pratica, il governo si sarebbe orientato ad anticipare, dal 2014 al 2012, il percorso di aumento graduale da 60 a 65 anni dell'età pensionabile delle donne del settore privato. L'accordo con la Lega, ha detto ieri sera il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini a Ballarò , prevede «67 anni per donne e uomini del settore pubblico e di quello privato, gradualmente aumentando l'età pensionabile dal 2012 al 2025». In pratica da quell'anno tutti, anche per effetto della «finestra mobile» e dell'adeguamento alla speranza di vita, andranno in pensione di vecchiaia non prima di aver compiuto 67 anni.

La lunghezza della missiva alla Commissione europea serve per ricordare tutti i provvedimenti già adottati dall'esecutivo con i decreti di luglio e agosto, che comportano una correzione dei conti pubblici del valore cumulato di 145 miliardi di euro nel quadriennio 2011-2014. Anche sul nodo delle pensioni, dove pure lo stesso Berlusconi si era esposto direttamente qualche giorno fa annunciando nuovi provvedimenti, si ricordano tutte le riforme fatte negli ultimi anni, che hanno ricevuto giudizi positivi dallo stesso esecutivo di Bruxelles e dall'Ocse, e si ritiene che questi provvedimenti garantiscano la sostenibilità finanziaria del sistema. Un'orgogliosa rivendicazione delle riforme fatte e che diversi Paesi a cominciare la stessa Francia, che come noi conservano le pensioni di anzianità, non sono riusciti a fare.

Nella lettera Berlusconi illustra anche i capitoli sui quali il governo interverrà con il decreto sviluppo, anticipando novità importanti rispetto alle bozze circolate nei giorni scorsi. Ci sarebbe una nuova stretta sul pubblico impiego, con l'obiettivo di ridurre il numero dei dipendenti pubblici, ricorrendo, se necessario, anche alla messa in mobilità. Per il settore privato si accennerebbe invece a una revisione delle norme sui licenziamenti per motivi economici, con l'obiettivo di stabilire in questi casi un indennizzo del lavoratore, senza diritto al reintegro. Ci sono poi le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali e la riforma delle professioni, con l'abolizione delle tariffe minime. Tutte richieste, per inciso, sollecitate dalla Bce nella lettera di inizio agosto, e che finora erano rimaste inesaudite.
Grande importanza viene data anche al rilancio delle infrastrutture e alle norme di semplificazione. Per favorire la crescita si punta sull'aumento del tasso di occupazione, in particolare femminile, con i contratti agevolati di inserimento. Per i giovani si conferma la già annunciata riduzione dei contributi sull'apprendistato e si prevedono misure per frenare l'abuso dei contratti atipici e favorire la stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Per il Mezzogiorno e le aree sottoutilizzate ci sarebbe il credito di imposta sulle assunzioni.

Berlusconi sa bene che convincere la Ue e soprattutto i mercati, su queste basi, sarà molto difficile. Sa che dovrà affrontare il forte scetticismo delle altre capitali europee sulla capacità del suo governo di gestire la crisi, ma anche quello dei mercati sull'efficacia del nuovo Fondo Salva Stati. La trattativa su questo fronte, in questi due giorni, non ha fatto grandi progressi sui meccanismi per rafforzare e rendere più flessibile lo strumento. Avanzamenti che sarebbero tanto più urgenti proprio perché quel Fondo, pensato per i piccoli Paesi, domani potrebbe essere lo strumento europeo con il quale, se servisse, intervenire in Italia e in Spagna. E c'è anche il timore che se i mercati domani dovessero reagire male, giudicando il Fondo inadeguato all'impresa, gli altri governi potrebbero anche addossarne a Berlusconi la responsabilità.

Quello che è certo è che oggi, a Bruxelles, all'Italia verranno chiesti sforzi aggiuntivi e impegni molto precisi. Non solo garanzie puntuali sulla tenuta degli obiettivi di deficit. Al punto in cui si è arrivati potrebbe non bastare. Una nuova forte riforma delle pensioni non porterebbe grandi risparmi nell'immediato, ma sarebbe utile per blindare i conti a lungo termine e soprattutto darebbe all'Europa, che lo chiede, un segnale di capacità politica. Il premier ci puntava, ma al momento non è in grado di offrire molto al riguardo. Così l'attenzione rischia di spostarsi, a partire da domani, sul nodo cruciale, il debito pubblico. Da ridurre, e in modo certo non simbolico, in tempi molto rapidi.

Enrico Marro
Mario Sensini

26 ottobre 2011 07:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_ottobre_26/lettera-europa-marro-sensini_7e59ebd8-ff90-11e0-9c44-5417ae399559.shtml


Titolo: Enrico MARRO Camusso rompe con il governo
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2012, 06:18:23 pm
La leader della Cgil: «Situazione grave Ma quella di Monti non è la ricetta giusta»

Camusso rompe con il governo: «Sulle pensioni un intervento folle» «La Fornero aggredisce i lavoratori».

Il contratto unico? Sarebbe solo un nuovo apartheid a danno dei giovani


ROMA - La stangata del governo Monti ha provocato la mobilitazione di tutti i sindacati, che cercano di dar voce alla protesta di lavoratori e pensionati. I motivi di questa opposizione durissima e di quella che ci sarà rispetto a ogni ipotesi di modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori li spiega il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso.

Il governo dice che la manovra ha salvato l'Italia da una situazione dove erano a rischio i risparmi e le tredicesime. È d'accordo?
«Vedo che si autoattribuiscono il ruolo di salvatori della Patria. La realtà è che la situazione era ed è grave, ma la ricetta giusta non è quella di Monti».

Perché?
«Perché grava sui soliti noti: chi ha un reddito Irpef dichiarato, in genere medio basso. Perché punta a far cassa rapidamente su chi non può sottrarsi e non si è mai sottratto al Fisco. Determina recessione e quindi non mette affatto al riparo il Paese. Hanno solo preso tempo».

Servirà un'altra manovra?
«Di sicuro, non c'è una spinta alla crescita. C'è invece l'impoverimento di gran parte del Paese, perché la logica è stata quella di trovare chi pagasse il prezzo del pareggio di bilancio».

Lei al posto di Monti che avrebbe fatto?
«Lo abbiamo detto molte volte. Avremmo introdotto forme serie di prelievo sulle grandi ricchezze e non misure così leggere che rasentano la trasparenza. Avremmo messo un sano tetto alle retribuzioni più alte e alla pluralità di incarichi pubblici e cumuli multipli tra stipendi e pensioni d'oro. E avremmo fatto cose più incisive sull'evasione, solo per fare qualche esempio».

La riforma delle pensioni è pesante. Ma nell'opinione pubblica c'è anche la consapevolezza che è la conseguenza degli errori del passato. Non crede che nel '95 fu uno sbaglio, anche del sindacato, escludere dal contributivo i lavoratori con più di 18 anni di servizio?
«La Cgil già allora pensava che il contributivo pro quota potesse essere una soluzione e Sergio Cofferati lo disse pubblicamente. Oggi comunque tra i lavoratori e i pensionati che frequento io non c'è nessuno che trovi la riforma Fornero ragionevole. C'è una straordinaria sottovalutazione e una supponenza impressionante da parte del governo nel non capire le conseguenze di questa riforma, che rappresenta un intervento brutale sui prossimi 6-7 anni per tante persone che non potranno accedere alla pensione e non avranno un sussidio. C'è un livello di aggressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che, fatto da una donna, stupisce molto».

Ma come, si dice che Fornero ministro l'abbia voluto la Cgil, sbarrando la strada a Carlo Dell'Aringa...
«Non è vero. La Cgil non ha partecipato al totoministri e non ha posto veti di sorta. Ma mi interessa tornare sulle pensioni perché c'è una cosa che nessuno ha notato ed è gravissima».

Quale?
«Nella riforma c'è una norma programmatica che affida a una commissione di studiare la possibilità che i lavoratori spostino una parte dei contributi previdenziali dal sistema pubblico alle assicurazioni private. Questa è una riforma per smontare il pilastro delle pensioni pubbliche. Quindi Fornero non tiri in ballo a sproposito Lama, perché lei ha fatto esattamente una riforma contro i suoi figli, anzi i suoi nipoti».

Mettere in sicurezza finanziaria le pensioni è un modo per garantire il pagamento delle stesse alle prossime generazioni.
«No, no, il sistema era già in sicurezza».

Non può negare che finora chi è andato col retributivo spesso ha ricevuto un regalo rispetto ai contributi versati.
«Guardi che il fondo lavoratori dipendenti è in attivo mentre le gestioni in passivo sono pagate coi contributi dei parasubordinati. Ha idea invece di che dramma sociale creerà questa riforma per i lavoratori dipendenti e i precari, determinando insicurezza e paure? Che senso ha tutto questo? Quello di regalare il sistema alle assicurazioni?».

Sta dicendo che Fornero lavora per le assicurazioni private?
«Se guardo la manovra, sì. Ma un governo di tecnici non può pensare di trasformare il Welfare senza discuterne con nessuno».

Quasi quasi era meglio Berlusconi?
«No, perché se siamo arrivati a questo punto è per colpa dei suoi governi. Ma ciò non significa che questo esecutivo possa fare qualsiasi cosa. Quando sento dire che bisogna riformare il ciclo della vita..., ma chi sono gli unti del signore pure loro?».

Meglio andare alle elezioni anticipate?
«Questo governo è nato per affrontare un'emergenza. Trovo che ci sia un tratto autoritario nel voler dire che sarà il grade riformatore del Paese, perché questo spetta alla politica».

Ci saranno altri scioperi?
«Valuteremo con Cisl e Uil. Io sono per continuare la mobilitazione. Non finisce qui. Contesto che si possa pensare che ci siano lavori che si possono fare fino a 70 anni. Fornero scenda dalla cattedra: se la immagina una sala operatoria con infermieri settantenni? Si rende conto che c'è gente che si fa un mazzo così e non può farselo più nemmeno a 66 anni? Mica sono tutti banchieri. Invece, trattiamo la gente che va in pensione dopo 42 anni come se fossero dei profittatori mentre c'è a chi basta una legislatura».

Dopo le pensioni, tocca al mercato del lavoro. Fornero propone il contratto unico per i giovani, senza le tutele al 100% dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
«Sarebbe un nuovo apartheid, a danno dei giovani. Se facciamo un'analisi della realtà, vediamo che la precarietà c'è soprattutto dove non si applica l'articolo 18, nelle piccole aziende. Quindi tutta questa discussione è fondata su un presupposto falso. Vogliamo combattere la precarietà? Si rialzi l'obbligo scolastico, si punti sull'apprendistato e si cancellino le 52 forme contrattuali atipiche».

Insomma per la Cgil l'articolo 18 resta un totem, come dice Fornero. Ammetterà almeno che bisogna superare il dualismo del mercato del lavoro tra garantiti e precari.
«Non è un totem, ma una norma di civiltà. Vogliamo superare il dualismo? Lancio una sfida: facciamo costare il lavoro precario di più di quello a tempo indeterminato e scommettiamo che nessuno più dirà che il problema è l'articolo 18?».

Fornero dice che le donne non devono rivendicare compensazioni ma parità, anche nei lavori domestici. È d'accordo?
«Fornero dovrebbe intanto ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco e farne una sulla paternità obbligatoria. Sarebbero passi in avanti concreti verso la parità».

Enrico Marro

19 dicembre 2011 | 11:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_19/camusso-sulle-pensioni-un-intervento-folle-governo-supponente-enrico-marro_77532ece-2a12-11e1-88bd-433b1e8e4c01.shtml


Titolo: Enrico Marro. PARTICOLARE NELLA VICENDA ESODATI
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2012, 04:44:38 pm
Il caso PARTICOLARE NELLA VICENDA ESODATI

Esodati, il giallo del messaggio Inps

La questione dell'adeguamento dei requisiti per chi ha 40 anni di contributi alle regole sull'aspettativa di vita


ROMA - La circolare «scomparsa», la chiama Giancarlo Santorsola, lavoratore esodato del settore bancario attualmente a carico del Fondo di solidarietà del credito, che ha scritto alle segreterie dei ministri del Lavoro e del Tesoro, oltre che ai leader sindacali e ai parlamentari Giuliano Cazzola del Pdl e Cesare Damiano del Pd. È successo che il 3 agosto scorso sul sito dell'Inps è apparso il messaggio numero 13.052 che per qualche ora ha rovinato la giornata del signor Santorsola. Il quale è uno dei 120 mila esodati finora salvaguardati attraverso due decreti del governo (il primo per 65 mila lavoratori e il secondo per altri 55 mila).

Gli esodati sono quei lavoratori che rischiano di restare senza stipendio e senza pensione perché usciti più o meno volontariamente da aziende in crisi, con l'aspettativa di andare di lì a poco in pensione e invece si sono ritrovati improvvisamente con lo scenario cambiato dalla riforma della previdenza dello scorso dicembre, che ha inasprito fortemente i requisiti (età e contributi) necessari per lasciare il lavoro.
Quanti siano questi lavoratori a rischio di rimanere senza reddito per periodi più o meno lunghi nessuno lo sa.

La questione è stata e ancora è al centro di un duro scontro fra governo e sindacati, governo e Inps, governo e forze politiche. Alla fine lo stesso ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha ammesso che gli esodati potrebbero essere più dei 120 mila salvaguardati finora, ma che il problema, nel caso, si presenterà nei prossimi anni. Intanto quelli salvaguardati possono dormire sonni tranquilli, perché potranno andare in pensione con le vecchie regole (quelle prima della riforma Fornero) non appena le raggiungeranno. I 120 mila sono stati individuati in una serie di categorie (lavoratori in mobilità, ammessi a contribuzione volontaria, usciti con accordi individuali, assistiti dai fondi di solidarietà, eccetera) a patto che abbiano determinati requisiti di età e contribuzione.

Il signor Santorsola è uno di questi. È stato lo stesso Inps presieduto da Antonio Mastrapasqua a dargli la buona notizia con una lettera come quella che è stata spedita a tutti gli altri esodati da salvaguardare individuati dall'istituto. Solo che quando il nostro bancario ha letto il messaggio 13.052 dell'Inps è improvvisamente diventato di cattivo umore, perché lì dentro si prevedeva che anche ai cosiddetti «quarantisti» si applicava l'adeguamento alla speranza di vita, cioè i tre mesi in più necessari per raggiungere la pensione a partire dal 2013, già decisi prima della riforma Fornero. I quarantisti sono quelli che con le vecchie regole potevano andare in pensione anticipata (si chiamava pensione di anzianità) con 40 anni di contributi, indipendentemente dall'età. Tra gli esodati salvaguardati ci sono diverse migliaia di lavoratori che come Santorsola potranno andare in quiescenza al raggiungimento dei 40 anni (dopo la riforma Fornero servono invece 42 anni e un mese per gli uomini e 41 anni e un mese per le donne). Ma a costoro si applicano anche i tre mesi in più che scattano dal 2013? In questo caso ci sarebbero circa 1.200 lavoratori a rischio di restare senza reddito per qualche mese.

Secondo il bancario che protesta, l'applicazione dei tre mesi ai quarantisti salvaguardati sarebbe «illegittimo». Comunque sia, già la sera del 3 agosto l'Inps ha ritirato dal sito il messaggio. «Sono necessari ulteriori approfondimenti con i ministeri vigilanti» (Lavoro, Economia), spiegano all'Inps. «Del resto - aggiungono - non c'è urgenza perché i tre mesi in più scatterebbero dal prossimo anno». E i tecnici assicurano: «Si troverà una soluzione per salvaguardare anche questi casi, o non applicando l'adeguamento alla speranza di vita o prolungando di qualche mese l'ammortizzatore sociale». Un piccolo caso, che conferma però quante spine riservi ancora la questione degli esodati.

Enrico Marro

7 agosto 2012 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_agosto_07/20120807NAZ11_05_82880372-e052-11e1-8d28-fa97424fa7f2.shtml


Titolo: Enrico Marro. Ecco la Controriforma dei partiti
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2012, 05:11:08 pm
Pdl e Pd pronti a cambiare anche la riforma del lavoro se torneranno a Palazzo Chigi

Pensioni a 58 anni e più esodati

Ecco la Controriforma dei partiti

La possibilità di lasciare dopo 35 anni accettando un assegno mensile calcolato con il sistema contributivo


ROMA - Fatte le riforme già si pensa alle controriforme? Ovviamente per Pd e Pdl non si tratta di questo, ma di correggere gli «errori» della riforma delle pensioni e di quella del mercato del lavoro, entrambe firmate dal ministro del Welfare, Elsa Fornero. Ed entrambe che già si annunciano argomento della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2013.

Per cambiare la riforma della previdenza, nel mirino sia del Pd sia del Pdl (per non parlare delle opposizioni), alla Camera qualche giorno fa è già stato compiuto un primo atto. È passato un ordine del giorno, proposto dall'ex ministro del Lavoro Cesare Damiano (Pd), che impegna il governo a favorire l'iter parlamentare del testo di riforma della riforma già varato dalla commissione Lavoro. Si tratta di 5 articoli che unificano le proposte di legge Damiano, Dozzo (Lega) e Paladini (Idv) e che hanno ricevuto anche il voto di Pdl (tranne Giuliano Cazzola), Udc, Fli, Pt (Popolo e territorio). Nel testo, consegnato ora al parere delle altre commissioni, non solo si propone un ulteriore ampliamento della platea degli «esodati» da salvaguardare, ma si introduce un nuovo canale di pensionamento che riporta in vita la possibilità di lasciare il lavoro a 58 anni.

È vero che si tratta di un canale aggiuntivo e non sostitutivo delle regole previste dalla riforma Fornero, ma di fatto la ammorbidirebbe di molto. La proposta di legge, passata col voto bipartisan in commissione Lavoro, introduce infatti la sperimentazione fino al 2017 della possibilità di andare in pensione per uomini e donne in una età vantaggiosa: per i lavoratori dipendenti 58 anni (57 le donne) fino a tutto il 2015 e poi 59 (58 le donne) fino alla fine del 2017, purché si abbiano 35 anni di contributi e ricevendo però un assegno più leggero perché calcolato tutto col sistema contributivo. Oggi, dopo la riforma Fornero, per andare in pensione anticipata ci vogliono almeno 42 anni e un mese di contributi (41 e un mese per le donne) e 62 anni di età (sotto scattano le penalizzazioni).
Il testo bipartisan prevede inoltre due allargamenti della platea degli esodati. Potrebbero andare in pensione con le vecchie regole: 1) i lavoratori coinvolti in accordi di mobilità stipulati entro il 31 dicembre 2012 anche in sede non governativa; 2) le persone autorizzate alla contribuzione volontaria, eliminando i vincoli attuali (aver versato almeno un contributo prima del 4 dicembre 2011 e non aver lavorato dopo l'autorizzazione). Inoltre, la maturazione del diritto alla pensione entro 24 mesi dalla fine della mobilità avverrebbe senza tener conto dell'adeguamento alla speranza di vita, spiega Damiano.
L'ultimo articolo prevede la spesa per finanziare queste novità e le relative coperture. Servirebbero 5 miliardi di euro fino al 2019 (che si sommerebbero ai 14 miliardi già stanziati dal governo per salvaguardare 120 mila esodati). Il testo propone di reperirli aumentando il prelievo fiscale su giochi pubblici online e lotterie istantanee, ferma restando la clausola di salvaguardia già prevista dalla legge, che potrebbe far aumentare i contributi sulle imprese.

Che la riforma delle pensioni vada «aggiustata, innanzitutto per risolvere il problema degli esodati e per introdurre degli spazi di flessibilità sul pensionamento», lo ha ribadito ieri in una conversazione con il quotidiano Il Foglio anche Stefano Fassina, responsabile Economia e Lavoro del Pd. Ma già due mesi fa dal Pdl era arrivato un messaggio ancora più duro. Era stato l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, a dire che la riforma Fornero, a causa del «repentino passaggio alle nuove regole senza scale o scaloni», aveva reso il sistema previdenziale italiano «insostenibile sul piano sociale». È necessario, concludeva Sacconi, reintrodurre una «transizione che gradualmente conduca alle età più elevate in termini di maggiore flessibilità». E lo stesso Cazzola, esperto di pensioni del Pdl, spiega che non ha appoggiato il testo di legge bipartisan della Camera perché «non è il caso di riaprire la questione degli esodati», ma che condivide l'idea di un canale di pensionamento anticipato, sia pure penalizzato dal calcolo contributivo. Anzi rivendica: «Quella proposta l'avevo presentata io».

Sull'altra grande riforma Fornero, quella del mercato del lavoro, sia il Pd sia il Pdl sono pronti, se torneranno al governo, a rimetterci le mani. Ma, a differenza che sulle pensioni, con intenti opposti. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha confermato ieri in un'intervista al Sole 24 Ore l'intenzione di intervenire. È chiaro poi che un governo che dovesse avere anche il sostegno di Sel (Nichi Vendola) probabilmente subirebbe la pressione per ripristinare l'articolo 18 (tutela dai licenziamenti) e comunque per restringere l'area dei contratti precari.
Al contrario, un governo di centrodestra potrebbe tornare sulla riforma del mercato del lavoro per aumentare la flessibilità.

Enrico Marro

10 agosto 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_agosto_10/pensioni-a-58-anni-e-piu-esodati-la-controriforma-dei-partiti-enrico-marro_e1ae4f54-e2ab-11e1-84ce-ad634664744d.shtml


Titolo: Enrico Marro. Dalla recessione c'è chi ci guadagna. Ecco perché
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 07:05:10 pm
Rata dimezzata per i mutui precrisi a tasso variabile.

Dalla recessione c'è chi ci guadagna. Ecco perché

di Enrico Marro

15 agosto 2012


Anche nella crisi dei debiti sovrani ci sono risparmiatori fortunati, che averlo minimamente calcolato incassano un piccolo dividendo dalla crisi, e risparmiatori sfortunati, che sono costretti a pagarlo, invece, il "dividendo".

Un esempio lampante è quello del mutuo: chi ha avuto la fortuna di accenderlo prima della crisi, cioè prima del 2008, e di sceglierlo a tasso variabile, oggi vede la sua rata dimezzata rispetto ai terribili mesi seguiti al fallimento di Lehman Brothers, quando (con un mercato interbancario impazzito) il valore dell'Euribor a tre mesi era schizzato fino a sfiorare il 5,5%.

Come è possibile? Basta fare un rapido calcolo: lo spread medio per un mutuo acceso nel 2007-2008 era dell'1-1,5% (ma con alcune offerte online che scendevano sotto l'1%), a cui bisognava aggiungere nel dopo Lehman un Euribor a tre mesi arrivato al 5,5%. Un esempio: il signor Rossi, che aveva spuntato a suo tempo uno spread dell'1% per il suo mutuo variabile, ai picchi della crisi di liquidità interbancaria di fine 2008 paga un tasso complessivo del 6,5% (5,5% Euribor e 1% spread). Vale a dire, per un mutuo trentennale da 200mila euro, una rata che supera i 1.200 euro al mese. E oggi? Con l'Euribor a tre mesi sceso allo 0,34% stappa lo spumante: il tasso complessivo è dell'1,34% e la rata mensile è scesa a circa 650 euro, quasi la metà.

Un mutuo così a buon mercato oggi, pur avendo liquidità, si può pensare anche di non estinguere. Sì, perché impiegando la liquidità in un conto deposito vincolato attualmente si porta a casa un ulteriore "dividendo della crisi". In che modo? Torniamo al nostro esempio: il signor Rossi eredita dalla nonna 200mila euro di risparmi. Vincolandolo a 36 mesi presso uno dei migliori conti deposito (i pochi che tra l'altro continuano a pagare i bolli sui depositi), porta a casa un tasso lordo del 5,4%. Cioè il 4,32% netto, che su 200mila euro si traducono in un incasso mensile di circa 720 euro. Quindi il signor Rossi, al momento, guadagna se si tiene il mutuo a tassi stracciati senza estinguerlo e investe la liquidità su un prodotto teoricamente sicuro come un conto deposito.

Certo, non sarà sempre così: l'Euribor potrebbe rialzare la testa (anche se la politica monetaria Bce lascia presupporre un ulteriore lieve abbassamento), e le banche - meno assetate di liquidità che in passato - stanno abbassando i tassi dei conti deposito, ma al momento uno dei paradossi dell'eurocrisi è questo. Uno strabismo, come nota Marco Liera in un articolo comparso sul Sole 24 Ore, che rappresenta il combinato disposto tra la recessione (che abbassa il costo del debito per chi l'aveva contratto negli anni passati) e l'incertezza sulla solvibilità dell'emittente sovrano Italia (che spinge al rialzo i ritorni sul reddito fisso domestico) determinando questo fenomeno inusuale.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-08-15/ecco-guadagna-crisi-132049.shtml?uuid=AbeompOG


Titolo: Enrico Marro. Aiuti per le nuove imprese
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2012, 09:51:13 am
La crescita L'esecutivo punta a semplificare la burocrazia per le aziende

Aiuti per le nuove imprese

Ecco il piano del governo

In un decreto anche le misure per l'agenda digitale La spending review

ROMA - L'agosto terribile sui mercati finanziari non c'è stato. Almeno finora, per fortuna. Ma questo non significa che il governo possa abbassare la guardia e non c'è da stupirsi quindi che ieri il presidente del Consiglio abbia voluto smentire qualsiasi ipotesi di un prossimo abbassamento delle tasse. Mario Monti sta invece studiando i dossier presentati dai singoli ministri sulle cose fatte e quelle da fare, che verranno esaminati nella prossima riunione di governo venerdì 24 agosto. Tre le priorità: rilanciare la crescita, tagliare ancora la spesa pubblica improduttiva, ridurre il debito pubblico.

Sulla crescita l'agenda del ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ha in programma un decreto legge Sviluppo bis nel quale confluiranno due provvedimenti già in preparazione da tempo, quello sull'agenda digitale e quello per favorire lo start up imprenditoriale, cioè la nascita di nuove aziende.

L'agenda digitale ha come obiettivo l'e-government, cioè la telematizzazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e utenti (famiglie e imprese) e più in generale la diffusione dell'economia online. Per questo bisognerà portare, entro il 2013, la copertura della banda larga di base (2 megabit per secondo) al 100% della popolazione e avviare la realizzazione della banda ultra larga (100 megabit) nelle grandi città. Saranno anche previsti sgravi per favorire l'e-commerce, cioè gli acquisti e le transazioni online. Quanto alle misure per le start up, si punta a riunire in un unico fondo le risorse (alcune decine di milioni) attualmente sparse in diverse voci del bilancio pubblico per concentrarle sui progetti migliori. Sia sull'agenda digitale sia sul resto il problema maggiore è quello delle risorse. Servirebbero investimenti massicci mentre al massimo nelle pieghe del bilancio si reperiranno 2-3 miliardi.

Molto atteso dalle imprese è il provvedimento sulle semplificazioni, che tra l'altro sarebbe a costo zero. In questi mesi le associazioni imprenditoriali hanno suggerito al ministero un'ottantina di semplificazioni che coinvolgono procedure, autorizzazioni, concessioni volte a snellire oneri e passaggi burocratici che complicano la vita delle aziende soprattutto in materia ambientale e di mercato del lavoro.
Una spinta alla crescita dovrebbe infine arrivare dal capitolo infrastrutture. Le opere in lista d'attesa per essere sbloccate sono molte. Tra queste gli assi autostradali Orte-Mestre, Benevento-Cancello (Telesina) e Termoli-San Vittore. Entro la fine della legislatura il ministro vorrebbe sbloccare infrastrutture per complessivi 25 miliardi, in buona parte coinvolgendo capitali privati, anche attraverso il nuovo strumento dei project bond.

Completano l'agenda Passera progetti di più lungo periodo e la cui fattibilità è tutta da verificare. C'è il piano nazionale degli aeroporti, per tagliare quelli di piccole dimensioni (ma ci hanno già provato senza successo altri governi) che dovrebbe arrivare entro la fine dell'anno. Tempi lunghi anche per la Strategia energetica nazionale, documento che verrà sottoposto alla consultazione pubblica online e che prevede l'aumento della produzione nazionale di idrocarburi (anche attraverso le trivellazioni in mare) e punta a fare dell'Italia il principale hub per l'ingresso di gas verso l'Europa con la costruzione di rigassificatori, gasdotti di importazione e impianti di stoccaggio.
Sulla revisione della spesa pubblica i tempi saranno invece più veloci. È atteso a settembre il secondo decreto di spending review. Il superconsulente di Monti, Enrico Bondi, ha individuato almeno 10 miliardi di spesa fuori linea negli enti locali. Attraverso la definizione dei costi standard e il potenziamento della Consip (acquisti centralizzati) si dovrebbero ridurre gli sprechi. Obiettivo al quale dovranno concorrere, nei piani del governo, anche il riordino delle agevolazioni fiscali (rapporto Vieri Ceriani) e il taglio degli incentivi alle imprese (rapporto Giavazzi).

Infine, l'attacco al debito pubblico. Il sentiero è stato tracciato dal ministro dell'Economia, Vittorio Grilli: dismissioni per 15-20 miliardi l'anno che, accompagnate a un consistente avanzo primario di bilancio e a una moderata crescita del Pil, ridurranno il debito in linea con gli obiettivi del Fiscal compact, cioè del 3% l'anno. Può funzionare solo a una serie di condizioni, tra le quali la ripresa della crescita e il ritorno della calma sui mercati finanziari, che appaiono ancora lontane. Altrimenti serviranno misure più forti. Per saperlo bisognerà tenere d'occhio tre date: il 6 settembre, la riunione del consiglio direttivo della Banca centrale europea (abbasserà i tassi?); il 12 settembre, quando la Corte costituzionale tedesca deciderà sulla legittimità del fondo salva Stati e del Fiscal compact; il 14-15 settembre, la riunione dei ministri finanziari della zona euro (partiranno i nuovi aiuti alla Spagna? E l'Italia che farà?).

Enrico Marro

17 agosto 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA


Titolo: Enrico MARRO - Scelte tormentate
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2012, 07:32:24 pm
L'EDITORIALE

Scelte tormentate

La manovra decisa dal governo Monti è fatta con i tagli della spesa. Spesso simbolici ma sempre utili


Non è una stangata vecchia maniera. E meno male, perché il Paese non l'avrebbe sopportata. Quella decisa nella notte dal governo è una manovra fatta in gran parte con tagli della spesa. E verrà ridotta l'Irpef, anche se l'Iva aumenterà di un punto. Proprio ieri l'Istat ha certificato che la capacità di acquisto delle famiglie è scesa al minimo dal 2000 e quella di risparmio ha anch'essa toccato il fondo. L'economia italiana ha davanti una montagna da scalare. Per la ripresa bisognerà aspettare il 2014, ha confermato sempre ieri il Fondo monetario internazionale. A maggior ragione non è stato serio lo spettacolo al quale hanno assistito ieri sera milioni di telespettatori con il sottosegretario all'Economia, Gianfranco Polillo, che va a Ballarò e annuncia, mentre è ancora in corso il Consiglio dei ministri, il taglio dell'Irpef e Palazzo Chigi che, poco dopo, smentisce categoricamente, salvo poi prendere per fortuna altre decisioni.

In questo contesto arriva una manovra che ha la forte impronta di Enrico Bondi, il commissario per la revisione della spesa pubblica voluto dal presidente del Consiglio. Grazie a lui la spending review è passata dalle discussioni accademiche alle misure concrete. Ecco allora il giro di vite sulle consulenze, il blocco degli acquisti di immobili da parte delle pubbliche amministrazioni, il divieto di comprare o affittare altre auto blu fino alla fine del 2014 (e ci mancherebbe!), le disposizioni per lo spegnimento delle luci negli uffici pubblici la notte (ma non ci si poteva pensare prima?) e perfino dei lampioni, dove possibile. Talvolta misure simboliche, ma sempre utili. Così come è giusto che Monti abbia scelto la linea dura sulla riscossione delle multe per le quote latte, richiamando in campo Equitalia. Un atto doveroso nei confronti degli allevatori onesti.

E ci voleva anche l'adesione alla Tobin tax, la tassa sulle transazioni finanziarie. Con la scelta dell'Italia sono infatti 11 i Paesi europei favorevoli e ciò può aiutare a vincere resistenze di bottega come quelle del Regno Unito. Se siamo tutti d'accordo che un eccesso di finanza ha arricchito solo gli speculatori e precipitato nella crisi gli Stati e le famiglie, non si vede perché il Fisco dovrebbe voltarsi dall'altra parte. Infine, non è molto, ma può aiutare, lo stanziamento di 1,6 miliardi per detassare il salario di produttività.

Restano i punti dolenti. Tagliare un altro miliardo e mezzo alla Sanità può avere un senso solo se si tratta di sprechi, ma chi ce lo garantisce con queste Regioni? Non è che finirà con nuove addizionali e ticket o con liste d'attesa più lunghe in ospedali e ambulatori? Attenzione anche al riordino delle agevolazioni fiscali, per non colpire i più deboli. Sappiamo inoltre che il decreto Bondi di luglio sta incontrando mille resistenze, sul taglio delle Province e dei dipendenti pubblici. Anche le misure di ieri richiedono una miriade di provvedimenti applicativi. Gli inciampi si nascondono nei dettagli. Vedremo quante decisioni incideranno davvero e quante invece rimarranno sulla carta. Intanto prendiamoci il taglio dell'Irpef e proviamo a ripartire.

Enrico Marro

10 ottobre 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_10/scelte-tormentate-marro_a6605200-1297-11e2-9375-5d5e6dfabc1a.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Che fine hanno fatto i tagli di Bondi?
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 06:12:30 pm
Spesa pubblica da rivedere

Che fine hanno fatto i tagli di Bondi?

Monti è stato così contento della spending review che ha chiesto al supercommissario di andare avanti


Enrico Bondi tutte le mattine arriva nel suo ufficio al primo piano del ministero dell'Economia alle 8.30 e va via dopo circa 12 ore, ma pochissimi sanno quello che fa. Lo sa ovviamente il presidente del Consiglio, Mario Monti, che a questo anziano manager, che venerdì compirà 78 anni, ha affidato il compito di risanare l'azienda Italia, dopo aver rimesso a posto Montedison e Parmalat.

Monti è stato così contento della prima operazionedi revisione della spesa pubblica, la cosiddetta spending review, varata su proposta dello stesso Bondi il 5 luglio, che ha chiesto al supercommissario di andare avanti. Dopo aver tagliato gli sprechi negli acquisti pubblici di beni e servizi, aver disposto la riduzione dei dipendenti pubblici, quella delle Province, il taglio delle auto blu, e quello dei consigli di amministrazione delle società pubbliche, Bondi dovrebbe proseguire a caccia di altri risparmi, dopo i 26 miliardi di euro individuati per il triennio 2012-2014. I nuovi provvedimenti arriveranno, a metà ottobre, con la legge di Stabilità, quella che una volta si chiamava Finanziaria. Intanto però, Monti, Bondi e gli altri ministri interessati sono alle prese con le mille difficoltà che sta attraversando il processo di attuazione del provvedimento di luglio. Difficoltà inevitabili, se si pensa che il decreto legge 95 prevedeva circa cento provvedimenti applicativi fra regolamenti, circolari, direttive, decreti ministeriali e interministeriali. Ma il fatto è che stanno emergendo non solo ostacoli procedurali, ma resistenze di ogni genere.

Prendiamo il taglio dei dipendenti pubblici: del 20% per quanto riguarda i dirigenti, del 10% per il restante personale. La norma interessa i ministeri e tutte le altre amministrazioni centrali e gli enti pubblici non economici. La circolare del ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, prevedeva che tutti questi soggetti dovessero inviare le loro proposte di taglio entro il 28 settembre se sono enti o agenzie - cioè avrebbero dovuto farlo al massimo l'altro ieri -, oppure entro giovedì prossimo negli altri casi. Al ministero sono ottimisti, dicono che «i moduli stanno arrivando» ma intanto hanno convocato per domani mattina a Palazzo Vidoni i capi del personale di tutte le amministrazioni interessate. Cercheranno di convincerli non solo a far presto, ma anche che devono proporre tagli superiori alle soglie indicate dalla legge, altrimenti non saranno possibili le «compensazioni» tra un ufficio e l'altro, cioè quegli aggiustamenti (spostamenti e mobilità) finalizzati a evitare tagli lineari e licenziamenti.

Ma i desiderata del governo si scontrano già con i problemi sollevati formalmente da alcune amministrazioni di prima grandezza. Per esempio, l'Inps. Il presidente dell'istituto di previdenza, Antonio Mastrapasqua, ha scritto una lettera al ministro Patroni Griffi chiedendogli senza tanti giri di parole di «non ricomprendere l'Inps nell'ambito della riduzione delle dotazioni organiche». Altrimenti verrebbe messa a repentaglio la «tenuta dei servizi e, nel complesso, dell'efficienza del Welfare del Paese». Negli ultimi 15 anni, conclude Mastrapasqua, i dipendenti dell'Inps sono già diminuiti da 42 mila a meno di 27 mila. Ora è vero che con l'incorporazione di Inpdap ed Enpals il SuperInps avrà 34 mila dipendenti ma è pur sempre la metà, dice il presidente, rispetto ai 70 mila del superInps tedesco e un terzo nei confronti dei cugini francesi.
Dal centro alla periferia, le resistenze, se possibile, aumentano. Il caso eclatante è quello delle 107 Province. La legge ne prevede il dimezzamento, ma sono le Regioni, anche qui, a dover proporre l'accorpamento tra gli enti presenti nel loro territorio. E anche qui c'è un termine, che scadrà fra appena tre giorni, mercoledì 3 ottobre, assegnato ai Consigli delle autonomie locali, e uno appena più in là, il 23 ottobre, per le proposte finali delle Regioni. Bene, pure in questo caso, vista l'aria che tira, Patroni Griffi ha dovuto fare la voce grossa e in un doppio incontro che ha avuto con i governatori e con l'Upi, l'unione delle province, ha avvertito tutti che se le proposte non arriveranno, il governo procederà d'ufficio, se necessario anche con un decreto legge. Vedremo.

Monti e Bondi comunque guardano avanti. Il governo ha individuato almeno altri tre campi sui quali intervenire per ridurre ancora la spesa pubblica improduttiva: gli incentivi alle imprese, dove ha chiesto una consulenza all'economista Francesco Giavazzi, i costi della politica, dove si è rivolto all'ex premier Giuliano Amato, la giungla delle agevolazioni fiscali, già censite a suo tempo in oltre 720 per un valore di 260 miliardi dal sottosegretario Vieri Ceriani. Il nuovo pacchetto di misure di riduzione della spesa pubblica ha un obiettivo minimo: trovare circa 6 miliardi e mezzo di euro per evitare che dal primo luglio 2013 le aliquote Iva del 10% e del 21% aumentino di due punti.
L'operazione è complicata su tutti e tre i fronti. Per quanto riguarda gli incentivi alle imprese, i tagli sui quali si lavora non ammontano ai 10 miliardi suggeriti da Giavazzi, ma a 2-2,5 miliardi, ai quali si potrebbero sommare altrettanti risparmi eliminando parte degli incentivi regionali, ma qui il governo non può intervenire direttamente a causa dell'autonomia concessa in materia dal titolo V della Costituzione. Quanto alle agevolazioni fiscali, buona parte sono intoccabili perché si tratta di detrazioni familiari e per spese mediche. Infine, i costi della politica. Qui ci sono ampi margini. Il governo comincerà a intervenire già giovedì con un decreto legge taglia costi e taglia poltrone (vedi articolo sopra). L'importante è che poi vada avanti.

Enrico Marro

30 settembre 2012 | 22:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_settembre_30/bondi-tagli_a6bdea70-0b38-11e2-a8fc-5291cd90e2f2.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Rivisti il tetto e la franchigia di 250 euro
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2012, 12:00:21 pm
La voce dei prestiti potrebbe essere eliminata dal conteggio dei 3.000 euro

Mutui prima casa e spese mediche

Rivisti il tetto e la franchigia di 250 euro

Legge di Stabilità, i relatori lavorano all'aumento delle detrazioni


ROMA - Ci saranno più detrazioni sul lavoro dipendente e sui carichi familiari, ma sarà rivista anche la stretta sugli sgravi: non solo non ci sarà più la retroattività (il nuovo regime scatterà infatti nel 2013 e non più nel 2012) ma si interverrà anche nel merito della manovra su detrazioni e deduzioni. L'obiettivo è di togliere alcune voci dal tetto di 3mila euro, in particolare gli interessi passivi del mutuo. Ma anche di rivedere la franchigia di 250 euro, a partire dalle spese mediche, che potrebbero essere escluse oppure considerate nel loro insieme anziché per singola ricevuta. È possibile anche un aumento delle risorse per detassare il salario di produttività.

Sono queste le ultime novità che emergono dalla discussione in corso tra i relatori di maggioranza alla Legge di Stabilità, Renato Brunetta (Pdl), Pier Paolo Baretta (Pd) e Amedeo Ciccanti (Udc), in vista delle modifiche alla manovra che gli stessi presenteranno la prossima settimana, dopo l'intesa raggiunta mercoledì scorso con il ministro dell'Economia, Vittorio Grilli.

I paradossi della franchigia
Sul togliere le spese per i mutui dal tetto di 3 mila euro c'è un largo consenso, tanto più che essendo questo limite valido per l'insieme delle spese detraibili, chi ha un mutuo fa presto a raggiungere i 570 euro sottraibili dall'imposta (il 19% di 3mila euro) e non può quindi detrarre nient'altro. Ma anche sulla franchigia la volontà di intervenire è forte. Spiega Baretta: «Sarebbe meglio escluderla per le spese sanitarie. La norma della legge di Stabilità va sicuramente rivista perché produce effetti paradossali in quanto la franchigia si applica a ogni singola spesa». Questo significa, continua il relatore, che se una persona sostiene molte spese mediche e farmaceutiche durante l'anno ma nessuna di queste singolarmente supera i 250 euro, non può portare in detrazione nulla, anche se ha speso molte migliaia di euro. Al contrario un'altra persona che in un anno ha una sola ricevuta, poniamo di 400 euro per una prestazione specialistica, può detrarre dall'imposta il 19% della quota eccedente 250 euro, quindi in questo caso 28,5 euro (il 19% di 150 euro).

Migliora il fabbisogno
Ovviamente tutte queste modifiche dovranno fare i conti con le coperture finanziarie necessarie. Infatti, il governo ha posto un limite invalicabile: gli emendamenti non devono cambiare i saldi della manovra, che dovrà quindi sempre assicurare il pareggio di bilancio nel 2013. In questo senso, buone notizie sono arrivate ieri dalla rilevazione sul fabbisogno di ottobre. Anche se nel mese è aumentato (13,1 miliardi rispetto a 1,9 miliardi dell'ottobre 2011), nei primi dieci mesi del 2012 il fabbisogno complessivo è migliorato, scendendo a 58,5 miliardi rispetto ai 60,9 miliardi dello stesso periodo dell'anno scorso. Un andamento, commenta il ministero dell'Economia, «coerente con il trend ipotizzato per il raggiungimento dell'obiettivo annuo». Le entrate vanno bene, dice il Tesoro, e «si evidenziano minori pagamenti di interessi sul debito pubblico». Il dato negativo di ottobre è invece condizionato dall'«erogazione di 5,7 miliardi a favore dell' European Stability Mechanism (Esm)», il cosiddetto fondo salva Stati, e dal «venir meno dell'introito di circa 2,8 miliardi» realizzato un anno fa con l'asta delle frequenze 4g (banda larga).

Il nodo delle coperture
Ma torniamo alla legge di Stabilità. Con l'abbandono del disegno iniziale, che prevedeva il taglio di un punto delle prime due aliquote Irpef sui redditi fino a 28 mila euro, si liberano risorse nel 2013 per 4,3 miliardi circa. Quasi 1,2 devono però essere destinati a coprire il mancato aumento di un punto dell'aliquota Iva al 10% dal prossimo mese di luglio. Inoltre, per eliminare la retroattività  al 2012 della stretta su deduzioni e detrazioni serve poco più di un miliardo. Dei 4,3 miliardi ne restano quindi circa 2. Secondo l'intesa di massima tra maggioranza e governo, dovrebbero essere destinati in particolare alla riduzione del cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo del lavoro per l'impresa e il salario netto che va al lavoratore. Ma se si interverrà anche per mitigare la stretta a base di tetti e franchigie, che, al netto della retroattività, vale un miliardo, il tesoretto per tagliare il cuneo si alleggerirà di conseguenza.

Meno detrazioni
Appare molto probabile un aumento delle detrazioni sul lavoro dipendente. Oggi, quella base, pari a 1.840 euro per chi ne dichiara non più di 8mila, si riduce progressivamente fino ad annullarsi per chi ha redditi superiori a 55mila euro l'anno. L'incremento di questo sgravio sta particolarmente a cuore al Pd. Ma si interverrà anche sui carichi familiari, cavallo di battaglia dei centristi. La detrazione sui figli oggi è al massimo di 900 euro (mille per i disabili), anche qui decrescente, fino a scomparire per chi guadagna più di 95mila euro (110mila con due figli). Quella sul coniuge, 800 euro di base, si annulla sopra gli 80mila euro. Di quanto saliranno queste detrazioni? Dipende appunto da quanto dei due miliardi a disposizione per il 2013 si utilizzerà per questo scopo e da quanto verrà invece destinato a modificare franchigie e tetti, come vorrebbe Baretta, oppure a rafforzare la dote per la detassazione del salario di produttività, come invece propone Brunetta. Il relatore del Pdl chiede addirittura di raddoppiare lo stanziamento del governo (1,2 miliardi nel 2013 e 400 milioni nel 2014). In particolare sul 2014 sembrerebbe esserci spazio. E sempre nel 2014 dovrebbero arrivare sgravi per le imprese, forse sull'Irap.

Esodati
Oltre alle modifiche che riguardano l'impianto della manovra restano numerose questioni collaterali da risolvere. Per esempio, trovare nuove risorse per gli esodati, i lavoratori che dopo la riforma delle pensioni rischiano di trovarsi nei prossimi mesi senza lavoro e senza pensione. Giuliano Cazzola (Pdl) propone «un contributo di solidarietà sulle baby pensioni a valere sulla quota eccedente il trattamento minimo. Si tratta di una platea di circa 500mila persone per una spesa annua di oltre 9 miliardi. Così la copertura per la tutela degli esodati resterebbe nell'ambito del sistema pensionistico e avrebbe un segno di equità». Intanto, il capogruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, avverte il governo: «Se non si correggono i tagli agli organici delle forze di polizia la legge di Stabilità non è votabile. Così come, senza modifiche, finirà nel cestino il regolamento sulle pensioni del comparto sicurezza-difesa», quello approvato di recente dal consiglio dei ministri che prevede un piccolo e graduale aumento dell'età pensionabile, da 60 a 62 anni.

Enrico Marro

3 novembre 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_novembre_03/legge-stabilita-detrazioni-mutui-sanita_41bb8c98-257f-11e2-a01c-141eb51207fd.shtml


Titolo: Enrico MARRO. tesoro da centinaia di milioni cresciuto di dieci volte in 14 anni
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2013, 05:43:11 pm
TOTALMENTE DISATTESO L'ESITO DEL REFERENDUM ABROGATIVO PROMOSSO 20 ANNI FA DAI RADICALI

Un «tesoro» da centinaia di milioni cresciuto di dieci volte in 14 anni

Il picco nel 2008: 503 milioni a fronte di 110 di spese. Dopo il taglio dl 2012 ai partiti toccano 159 milioni di euro



ROMA - E pensare che se solo si fosse rispettata la volontà degli elettori, il finanziamento pubblico ai partiti non esisterebbe più da 20 anni, da quando cioè più di 34 milioni e mezzo di italiani dissero di sì al referendum abrogativo promosso dal partito radicale di Marco Pannella. Invece stiamo ancora parlando di come eliminare il finanziamento. Anzi l'argomento non è mai stato vivo come ora mentre, paradossalmente, ad essere scomparsi, almeno dal Parlamento, sono proprio i radicali. Adesso quella loro antica battaglia è diventata di nuovo di massa grazie al Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, che ieri ha annunciato la rinuncia alla propria quota di rimborsi per le elezioni appena tenute, 42,7 milioni di euro, in attesa di ottenere, nel nuovo Parlamento, una legge che abolisca per tutti i partiti i finanziamenti elettorali. Finora si è trattato di quasi 200 milioni di euro l'anno, considerando i rimborsi per tutte le elezioni - politiche, europee e regionali - che vengono incassati appunto in rate annuali. Ora, dopo la riforma dello scorso luglio, questa cifra si è all'incirca dimezzata. E per le sole elezioni politiche del 24 e 25 febbraio la torta che i partiti dovrebbero spartirsi durante la legislatura ammonta, secondo l'Ansa, a 159 milioni. Una somma che verrà ripartita proporzionalmente ai voti presi.
Ma perché il finanziamento c'è ancora? Perché, nonostante il 90,3% di sì al referendum del 1993, i partiti di allora si inventano un sotterfugio per farlo rinascere, attraverso appunto i rimborsi elettorali o meglio il «contributo per le spese elettorali», come lo definisce la legge 515 del 10 dicembre 1993. Del resto, il ragionamento che fanno allora tutti i partiti, radicali esclusi ovviamente, è che il voto è stato condizionato dal clima di protesta dovuto a Tangentopoli e che se la politica non deve essere appannaggio solo dei ricchi una qualche forma di finanziamento è necessaria. E pazienza se gli elettori non sono d'accordo, col tempo capiranno. Non è andata così. L'indignazione popolare è cresciuta di pari passo con l'entità dei rimborsi.

Calcolando tutto in euro (fino al 2001 c'era la lira), si è infatti passati, considerando solo i rimborsi per le elezioni politiche, dai 47 milioni di contributi erogati complessivamente ai partiti per le politiche del 1994 agli oltre 500 milioni previsti per le consultazioni del 2008. La spesa a carico dei contribuenti si è insomma decuplicata in 14 anni. Ma soprattutto è aumentato il divario tra il contributo e quanto effettivamente speso. Se nel 1994 a fronte dei 47 milioni incassati le spese documentate erano state di 36 milioni, nel 2008 il rapporto era di quasi cinque a uno: 503 milioni di rimborsi previsti a fronte di 110 milioni di spese. Un meccanismo illogico e indifendibile. Che gli stessi partiti, senza vergogna, hanno perfezionato negli anni. E così nel 1999 con la legge 157 il contributo viene sganciato dalle spese sostenute e ritorna a tutti gli effetti un finanziamento alimentato da un fondo per le politiche di quasi 200 milioni di euro per la legislatura.

Ma non passano neppure tre anni e nel 2002 l'ingordigia dei partiti si sfoga nella legge 156 che più che raddoppia il fondo, portandolo a 469 milioni, e nell'abbassamento dal 4% all'1% della soglia di voti da prendere alle elezioni per accedere al bottino. Il risultato sarà un altro dei tanti intollerabili paradossi di questa storia: che anche i partiti che non entrano alla Camera perché non superano la soglia di sbarramento del 4% prevista dalla legge elettorale, accedono ugualmente ai rimborsi purché abbiano preso almeno l'1%. Ma la ciliegina finale arriverà nel 2006 quando con la legge 51 si stabilirà addirittura che i soldi sono dovuti per l'intero ammontare previsto dal fondo anche se la legislatura finisce anticipatamente. Prima invece le rate annuali si interrompevano in caso di elezioni anticipate. Succede così che, dal 2008, a causa della brusca fine della quindicesima legislatura (governo Prodi), i partiti mentre cominciano a prendere le rate del rimborso delle politiche di quell'anno continuino a riscuotere anche le rate della legislatura precedente che doveva finire tre anni dopo. Doppio rimborso, insomma. Un'enormità davanti alla quale gli stessi partiti si rendono conto che conviene tornare indietro e la norma infatti viene presto cancellata.

Ci sono però voluti gli scandali che nel 2012 hanno colpito i tesorieri della Margherita e della Lega e le spese folli che sono venute fuori anche alla Regione Lazio per riaprire il dibattito. E arrivare a una prima risposta con una legge approvata il 5 luglio: taglio del 50% dei rimborsi ai partiti. Dai previsti 182 milioni incassati nel 2011 sommando le rate dei rimborsi elettorali (politiche, europee, regionali) si passa a 91 milioni dal 2012. Il 70% di questi saranno erogazioni ricevute direttamente dallo Stato (63,7 milioni), il 30% (27,3 milioni) «cofinanziamenti»: in pratica per ogni euro di contributi privati ricevuti da persone fisiche o enti i partiti avranno anche 50 centesimi dallo Stato. Diventa obbligatoria la certificazione dei bilanci; viene istituita una Commissione di controllo formata da 5 magistrati designati dai presidenti della Corte dei Conti, della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato; i conti dei partiti devono essere pubblicati in Internet; sono previste dure sanzioni per chi viola le regole; la soglia oltre la quale le donazioni private devono essere dichiarate scende da 50 mila a 5 mila euro. Per avere i contributi bisogna avere almeno un eletto in Parlamento.

Pensavano di aver fatto abbastanza i partiti questa volta. I 163 milioni che si risparmieranno nel 2012 e nel 2013 andranno ai terremotati, si vantavano. E il Pd sul suo sito spiegava che i 91 milioni di contributi previsti per il 2012 per tutti i partiti equivalgono a 1,5 euro per italiano contro i 2,4 che vengono dati in Francia e i 5,6 in Germania. Solo che accanto ai rimborsi elettorali andrebbero conteggiati anche i contributi ai gruppi parlamentari erogati dai bilanci di Camera e Senato, fino al 2011 circa 75 milioni l'anno, e i finanziamenti ai giornali di partito, una cinquantina di milioni l'anno. E questo senza contare tutti i finanziamenti a livello regionale, altri 75 milioni circa l'anno, prima delle ultime riforme. Un sistema che non poteva andare avanti se anche un vecchio comunista come Ugo Sposetti, strenuo difensore del finanziamento pubblico, giusto un anno fa, davanti al moltiplicarsi degli scandali, diceva all'Espresso: «L'indignazione dei cittadini ci metterà tutti sullo stesso piano. E ci spedirà a casa tutti. Tra sei mesi». Sulla data è stato precipitoso, ma sul resto ci è andato molto vicino.

Enrico Marro

13 marzo 2013 | 11:22
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da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_03/un-tesoro-da-centinaia-di-milioni-cresciuto-di-dieci-volte-in-14-anni-enrico-marro_57d97ff0-83c4-11e2-9582-bc92fde137a8.shtml


Titolo: Enrico Marro. Barilla: Confindustria cambi Squinzi: ma senza distruggere
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2013, 04:56:06 pm
Duello sull'energia

Barilla: Confindustria cambi Squinzi: ma senza distruggere

Conti: per Enel nessun conflitto d'interessi


ROMA - Scintille in Confindustria tra Guido Barilla, presidente dell'omonimo gruppo alimentare, e i vertici dell'associazione di rappresentanza degli imprenditori. Confindustria «potrebbe essere facilmente assimilata a quel mondo politico e istituzionale che tanto critichiamo», ha detto mercoledì Barilla intervenendo all'assemblea privata, alla vigilia dell'assemblea pubblica di oggi, dove oltre al presidente Giorgio Squinzi parleranno il presidente del Consiglio, Enrico Letta, e il ministro dello Sviluppo, Flavio Zanonato. L'uscita di Barilla non ha colto di sorpresa i colleghi, che già mercoledì mattina avevano potuto leggere un'intervista dello stesso imprenditore al quotidiano La Stampa, molto critica verso la Confindustria: «Nata per sostenere le imprese di prodotto è diventata rappresentante anche di interessi contrastanti, come quelli delle aziende di servizi alle imprese e delle utilities inciampando in un continuo e concreto conflitto d'interesse». Nel mirino di Barilla le aziende di servizi, come l'energia, altrimenti Confindustria «non può battersi sui prezzi» perché rappresenta anche le società che di questi prezzi beneficiano.

Nell'assemblea privata il presidente del gruppo alimentare ha allargato il discorso: «Abbiamo perso di vista la visione generale e d'insieme del nostro ruolo, finendo per essere corresponsabili della crisi del nostro Paese». Per questo, ha concluso, è «necessaria e urgente» una «rigenerazione».
A Barilla ha subito replicato il vicepresidente della Confindustria, Fulvio Conti, che è anche amministratore delegato dell'Enel: «Non c'è alcun conflitto d'interessi. Barilla ha per caso un conflitto di interesse con chi gli fornisce la farina? Ha semplicemente un fornitore che gli fornisce un materiale. Il nostro costo dell'energia è equivalente a quello di altri Paesi, la differenza in più che viene dalle tasse, imposte e sussidi alle rinnovabili».

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi (Imagoeconomica)Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi (Imagoeconomica)
Per mediare è intervenuto il presidente Squinzi che, nell'assemblea privata, è ricorso a una battuta efficace: «Faccio collanti, sono abituato a tenere insieme i pezzi. Anche le divergenze vanno bene, ci si confronta per trovare una sintesi». Squinzi ha quindi confermato che la commissione Pesenti da lui nominata sta lavorando a una riforma della Confindustria che «dovrà interpretare la forte esigenza di modernizzazione». «Abbiamo avuto - ha concluso - solo una minima flessione delle associate dello 0,6% ma la domanda di adesione è rimasta alta, nonostante la crisi». Ieri l'assemblea ha approvato all'unanimità il bilancio 2012 dell'associazione, dice una nota, chiuso in «sostanziale pareggio», con un risultato positivo della gestione operativa e finanziaria di 91.303 euro. Risultato raggiunto grazie anche al taglio del 3,3% della spesa per consulenze, del 6,1% di quella per telecomunicazioni, del 5,1% delle uscite per acquisti di beni e servizi e del 5,6% delle erogazioni ad enti. L'assemblea privata ha anche rinnovato il 40% dei membri della giunta, il parlamentino di Confindustria, che conta 190 persone. Entrano tra gli altri (56 le new entry) Francesco Gaetano Caltagirone, Marco Patuano (Telecom), Chicco Testa (Confindustria energia), Lamberto Vallino Gancia (Federvini), Daniel Lapeyere (Sanofi Aventis).

Enrico Marro

23 maggio 2013 | 12:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_maggio_23/barilla-confindustria-squinzi_3b865e4e-c394-11e2-8072-09f5b2e9767e.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Buona volontà e vecchi riflessi
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2013, 11:59:22 am
OTTANTA ARTICOLI E QUALCHE DIFETTO

Buona volontà e vecchi riflessi

Ottanta articoli «per gli italiani che vogliono fare», dice il presidente del Consiglio Enrico Letta. Col provvedimento approvato sabato il governo prova a invertire le aspettative, superando la fase dei sacrifici acuti che ha caratterizzato il «montismo». Le aspettative sono importanti, ma il decreto «del fare» è solo un primo passo. Ora ci vuole che il Parlamento lo approvi rapidamente, che le imprese facciano la loro parte e che l'esecutivo affronti con coraggio il taglio della spesa e la lotta all'evasione.

Le misure più importanti del decreto sono indirizzate agli imprenditori. I 5 miliardi della Cassa depositi per i prestiti agevolati; il potenziamento del fondo di garanzia; l'alleggerimento del costo dell'energia; i tre miliardi spostati sulle infrastrutture comunali; l'allentamento della morsa di Equitalia e il piano per smaltire un milione di cause civili prefigurano un ambiente meno ostile all'impresa. Che si spera venga colto. Anche le famiglie, con più difficoltà, possono trovare qualcosa di buono: dalle bollette che si ridurranno (ma prima vediamo di quanto) alle borse di studio per gli studenti fuori sede. Oggettivamente segnali modesti, in attesa delle decisioni che il governo deve ancora prendere su Iva, Imu e occupazione giovanile, cruciali per stabilire se l'esecutivo Letta sarà capace di una manovra a tutto tondo per la crescita.

Il decreto varato venerdì è la dimostrazione che si possono prendere decisioni utili senza dover ricorrere per forza a manovre lacrime e sangue. E ciò è buono per far tornare un clima di fiducia e ottimismo. Ora però è auspicabile continuare con coerenza e trovare le risorse, questa volta denari sonanti, per le scelte più difficili. Servono svariati miliardi per sciogliere tre nodi ineludibili: l'Iva, l'Imu e gli incentivi alle assunzioni dei giovani. Poiché non ci sono i soldi per far tutto, bisogna partire dalle cose più urgenti. In questo senso, un rinvio sull'Iva, spostando di qualche mese l'aumento dal 21 al 22%, consentirebbe intanto di investire sul lavoro, priorità fra l'altro in linea col percorso cominciato venerdì, e di cercare le risorse per la riforma del prelievo sulla casa. Come hanno scritto Alesina e Giavazzi sul Corriere , ogni anno lo Stato spende 350 miliardi di euro, al netto delle pensioni: possibile che non si riesca a trovare qualche miliardo per coprire Iva e Imu? Possibile se il Tesoro continua ad essere sommerso da richieste dei partiti di nuove e ingenti spese da coprire «in qualche modo», mai con tagli di spesa e spesso con nuove e improbabili tasse: sulle sigarette, gli alcolici, i giochi e via dicendo. Del resto, anche la copertura degli ecobonus è stata alla fine trovata aumentando alcune aliquote agevolate dell'Iva. Si rischia così di perdere l'occasione unica di un governo di larghissima maggioranza per affondare il coltello negli sprechi della spesa pubblica.

Una considerazione analoga si può fare anche dal lato delle entrate. Sappiamo che ogni anno ci sono almeno 120-150 miliardi di euro di tasse evase. Possibile che non si riesca a recuperarne 4-6-8 in più di quanto fatto finora? Il CorrierEconomia spiega che ci sono 129 banche dati che se fossero incrociate tra loro permetterebbero una lotta più efficace all'evasione. A chi paga le tasse interessa certo che il fisco sia amico, ma anche che faccia pagare chi finora non lo ha fatto. Sono anni che non si va oltre 10-12 miliardi di maggiori entrate da lotta all'evasione. Quanti ne incasseremo nel 2014 grazie al fisco amico?

ENRICO MARRO

17 giugno 2013 | 10:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_17/buona-volonta-vecchi-riflessi-marro_218f00ca-d70f-11e2-a4df-7eff8733b462.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Imu: service tax e prima rata cancellata
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2013, 07:24:09 pm
Soluzione ponte e riforma delle imposte

Imu: service tax e prima rata cancellata

Il Tesoro cerca risorse per 2,4 miliardi per evitare il pagamento di settembre


ROMA - Il rompicapo dell'Imu ruota attorno alle coperture. Per ora l'unica disponibilità data dal ministero dell'Economia è sulle risorse per abolire la prima rata del 2013, quella che si doveva pagare a giugno e che è stata rinviata al 16 settembre. Col decreto che il governo approverà probabilmente nell'ultimo consiglio dei ministri di agosto si stabilirà, in un modo o nell'altro, che quella rata, appunto, non è più dovuta. Per fare questo l'Economia sta cercando una copertura di 2,4 miliardi, pari al mancato gettito della prima rata dell'Imu sulla prima casa e sui terreni agricoli. Benché si tratti di una copertura una tantum, spiegano al Tesoro, i tecnici stanno faticando a trovarla, stando attenti a evitare aumenti delle entrate, altrimenti per i contribuenti sarebbe fin troppo facile concludere che mentre risparmiano da una parte pagano di più da un'altra. Insomma, una presa in giro. Ma la questione si complica maledettamente quando si passa a esaminare il destino della parte restante dell'Imu 2013 sulla prima casa e che cosa fare dal 2014, tenendo conto che il gettito annuo dell'imposta sull'abitazione principale è di circa 4 miliardi.

DUE DOMANDE - In altri termini, le due domande che non hanno ancora una risposta sono:
1) Nel 2013 l'Imu sulla prima casa non si pagherà per nulla o solo per metà?
2) Dal 2014, quando l'Imu dovrebbe essere sostituita con una nuova imposta, sulla prima casa si pagherà ancora?
Le risposte non ci sono perché finora non è stato trovato un accordo nella maggioranza tra il Pdl, che chiede di abolire del tutto il prelievo sulla prima casa a partire da quest'anno, e il Pd, che propone una rimodulazione dell'imposta che esenterebbe dal pagamento i redditi medio bassi. Potrebbe essere una riunione della cabina di regia al massimo livello politico, probabilmente la prossima settimana a Palazzo Chigi, ad affrontare la questione. Ma ancora una volta decisivi saranno i costi della riforma. Non a caso, dall'Economia, il sottosegretario Pier Paolo Baretta avverte: «Se qualcuno pensa che si possa cancellare completamente l'Imu sulla prima casa nel 2013 e trascinarsi questa manovra nella riforma strutturale, allora deve dire come copre i 4 miliardi di mancato gettito per quest'anno e i 4 che servirebbero dal 2014 in poi».

IPOTESI - Al Tesoro ritengono che questa sia un'ipotesi irrealistica e lavorano a soluzioni di compromesso sulla scia del dossier tecnico diffuso il 7 agosto che individua nove diverse vie d'uscita mettendone in risalto pregi e difetti. L'idea principale è quella della cosiddetta Service tax, una nuova imposta che, nella sostanza, metterebbe insieme l'Imu e la Tares cioè la rinnovata tassa sui rifiuti (più cara delle precedenti). Sarebbero poi i Comuni a decidere come modularla fino al punto, se vogliono, di non applicarla alla prima casa. Per fare questo sarebbero agevolati dal fatto che lo Stato, con la riforma, aumenterebbe di due miliardi l'anno i trasferimenti agli enti locali.

SERVICE TAX - Se la Service tax partisse quest'anno con un pagamento a dicembre, formalmente l'Imu sarebbe cancellata, ma non è detto che tutti i proprietari di prima casa non pagherebbero più nulla. Per loro, infatti, il 2013 si concluderebbe certamente col fatto di non aver pagato l'Imu mentre l'eventuale versamento della nuova imposta a dicembre dipenderebbe dalle decisioni del Comune dove si trova l'immobile. In questo schema servirebbe una copertura una tantum di 2 miliardi quest'anno e di 2 miliardi strutturale dal 2014, che dovrebbero essere trovati soprattutto sul versante della spending review, cioè con tagli della spesa improduttiva. Se invece la nuova tassa debuttasse l'anno prossimo, la copertura da trovare per quest'anno salirebbe a 4 miliardi. Decisamente troppi per il Tesoro, tenendo conto che bisognerebbe reperire anche le risorse per evitare l'aumento dell'Iva a ottobre (un miliardo), per rifinanziare la cassa integrazione in deroga e per tagliare il cuneo fiscale sul lavoro.

17 agosto 2013 | 10:53
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Enrico Marro

da - http://www.corriere.it/economia/13_agosto_17/imu-service-tax-e-prima-rata-cancellata-enrico-marro_5ef1a474-06f6-11e3-9c6f-1ce18bc58c39.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Letta: ora il governo non ha più scadenza
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2013, 04:30:36 pm
Scelta civica: «Cedimento pericoloso del premier alle richieste del Pdl»

Letta: ora il governo non ha più scadenza

Berlusconi: rispettati i patti. Epifani soddisfatto, la Cgil no. Dai ministri del Pdl una nota per ringraziare il Cavaliere



ROMA - «Adesso possiamo guardare al futuro con molta maggiore fiducia». Un Enrico Letta in maniche di camicia, affiancato dal vicepremier Angelino Alfano e da mezza squadra di governo, scesa in sala stampa per spiegare le decisioni prese sull'Imu e sul resto, ostenta a tal punto la sua soddisfazione che, quando gli chiedono quanto andrà avanti l'esecutivo, risponde: «La giornata di oggi credo possa far finalmente finire le domande sulla durata del governo. Non c'è più scadenza».

Sono le 19.30, il Consiglio dei ministri è finito prima del previsto e ha approvato un pacchetto di misure che vanno dall'abolizione dell'Imu sulla prima casa al rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, dal piano casa alla salvaguardia di altri 6.500 lavoratori esodati. Un lavoro «equilibrato», dice Letta, che va incontro alle richieste del Pdl e del Pd. «È una vittoria del governo, non del Pdl».

Il presidente del consiglio raccoglie l'approvazione di Alfano: «Faccio fatica a nascondere la mia soddisfazione, gli italiani dovevano pagare una tassa e non la pagheranno», esordisce in conferenza stampa. E subito dopo arrivano le parole del leader del Pdl, Silvio Berlusconi: «Promesso. Realizzato. Sull'Imu sulla prima casa e sui terreni e fabbricati funzionali alle attività agricole il Popolo della libertà ha rispettato il patto con i suoi elettori e il presidente Letta ha rispettato le intese con il Pdl. Con la riforma di oggi invertiamo la rotta su un sentiero virtuoso di crescita: il valore degli immobili aumenta, il reddito aumenta, i consumi ripartono, si creano nuovi posti di lavoro, le aspettative sul futuro tornano ad essere positive».

Ma anche il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, approva: «Le decisioni prese dal Consiglio dei ministri costituiscono una soluzione equilibrata dal punto di vista sociale e delle emergenze. Il governo ha tenuto conto delle situazioni più difficili. Anche la scelta sull'Imu è corretta, soprattutto in vista della riforma e della trasformazione nel senso di un'imposta federale a partire dal prossimo anno». Fuori dal coro invece il terzo leader della maggioranza, l'ex premier Mario Monti che, a nome di Scelta civica, critica l'abolizione totale dell'Imu sulla prima casa che lui stesso aveva varato due anni fa. Si è trattato, dice, di un «cedimento pericoloso» alle richieste di Berlusconi «per far sopravvivere il governo». Una decisione, aggiunge, che realizza «un'apparente soddisfazione per i proprietari di case, che tutti i cittadini finiranno per pagare con piccoli aumenti di piccole tasse e con l'aumento dei tassi d'interesse». Accuse brucianti lanciate poco prima che il consiglio dei ministri si riunisse e alle quali Letta replica così in conferenza stampa: «È una riforma che difendo per il merito non per l'intesa politica. È un buon compromesso e una buona riforma che riguarda questo settore, aiuta l'edilizia, i comuni e la famiglia». Ma a ribadire la valenza politica della soluzione trovata ieri arriva una nota dei ministri del Pdl: «La cancellazione di una tassa ingiusta e recessiva è certamente un risultato di tutto il governo. A noi sia consentito un ringraziamento particolare al presidente Berlusconi», senza il quale «questo risultato non ci sarebbe stato».

Dall'opposizione il Movimento 5 stelle boccia senza appello il decreto: «La service tax promette di essere confusa, pasticciata, poco trasparente. E vedrà i cittadini nel solito ruolo di vittime destinate a risparmiare da un lato e a pagare di più dall'altro». Critiche alle quali aveva preventivamente risposto Letta in conferenza stampa, assicurando che «la service tax non sarà un'Imu mascherata». «Per nulla convinta delle soluzioni sull'Imu» si dice la Cgil, che giudica insufficienti anche le decisioni sulla cassa integrazione in deroga e sugli esodati, e per questo si prepara ad avanzare al governo forti richieste di taglio delle tasse sul lavoro e di modifica delle regole pensionistiche in vista della prossima legge di Stabilità.

29 agosto 2013 | 8:12
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Enrico Marro

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_29/letta-governo-non-ha-piu-scadenza_5105aebc-106c-11e3-abea-779a600e18b3.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Salvare le banche è costato almeno 18mila miliardi di dollari
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2013, 04:32:49 pm
Cinque anni fa il crac di Lehman.

Salvare le banche è costato almeno 18mila miliardi di dollari

di Enrico Marro
13 settembre 2013


Sono passati cinque anni dal crack di Lehman Brothers, avvenuto quel 15 settembre in cui il colosso americano - travolto dalla crisi dei mutui subprime - annunciò di voler ricorrere al Chapter 11 trascinando il mondo sull'orlo di una crisi sistemica senza precedenti. Come ricorda Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, per tenere in piedi gli istituti di credito le banche centrali hanno schiacciato i tassi a zero e immesso liquidità in misura mai vista. I bond di ogni ordine e grado sono saliti di prezzo e Wall Street ha festeggiato con l'indice S&P cresciuto di due volte e mezza mentre a Main Street, cioè nell'economia reale fiaccata da disoccupazione e stretta ai finanziamenti, i consumi hanno languito a lungo.

Ma quanto è costato rimettere in sesto le banche e far ripartire l'economia? Se lo è chiesto il famoso blog finanziario Usa Zero Hedge, provando a fare i conti grazie ai dati contenuti in un report di Deutsche Bank. Ecco i risultati: il debito consolidato dei Paesi del G-7 (dove c'è anche l'Italia) è cresciuto di 18mila miliardi di dollari a un record mai visto di 140mila miliardi. Ma attenzione: di questi 18mila miliardi ben 5mila miliardi arrivano dall'azione delle banche centrali del G-7 (ossia Fed, Banca del Giappone, Banca d'Inghilterra e Bce). E solo mille miliardi si devono alla crescita del Pil nominale.

In altre parole: per ottenere un dollaro di crescita nel mondo sviluppato, sono stati necessari 18 dollari di debiti, 5 dei quali forniti dalle banche centrali. E come nota Deutsche Bank nel report citato da Zero Hedge, l'enorme debito consolidato accumulato negli ultimi anni (pari al 440% del Pil dei G-7) resta gestibile solo se i tassi dei bond governativi non si impennano. Altrimenti sono dolori.


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da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-12/cinque-anni-crac-lehman-175201.shtml?uuid=AboID6VI


Titolo: Enrico MARRO - Legge di Stabilità, cifre sull’acqua
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2013, 05:04:32 pm
L’EDITORIALE
Legge di Stabilità, cifre sull’acqua

Speravamo in una legge di Stabilità di svolta, ma non lo è. Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, aveva alimentato grandi aspettative. La manovra, disse in tv a Porta a Porta , «avrà come cuore l’intervento per ridurre le tasse sul lavoro e aumentare i soldi in busta paga dei lavoratori». Ma a conti fatti, con un misero miliardo e mezzo nel 2014, le retribuzioni nette aumenteranno, se va bene, in media di 10-15 euro al mese.
Come nel 2007, non se ne accorgerà nessuno. Non passa di qui il rilancio dei consumi. E, se non riparte la domanda, non saranno tardivi sgravi sull’Irap a rendere le imprese più competitive né alcuni incentivi a convincerle ad assumere. Lavoratori e pensionati si accorgeranno invece subito dei tagli e dovranno fare i conti con nuove tasse come la Tresi per capire se rispetto a prima ci guadagnano (forse, se hanno solo la casa d’abitazione) o ci rimettono (probabilmente, se hanno più abitazioni o se inquilini). Saranno in balia delle decisioni dei Comuni sulla stessa Tresi e delle Regioni, che si rifaranno sui cittadini per il miliardo di tagli subiti.
La manovra varata ieri dal Consiglio dei ministri è insufficiente a rilanciare lo sviluppo. Rischia invece di replicare un brutto film già visto. Appena un anno fa. La seconda manovra del governo Monti puntava anch’essa sulla riduzione dell’Irpef, in maniera diretta, anziché attraverso le detrazioni. Tagliava infatti di un punto le due aliquote più basse. Su questo si impegnavano ben 4,2 miliardi nel 2013. In Parlamento la manovra fu «riscritta» dai capigruppo della maggioranza Brunetta e Baretta. Le aliquote Irpef rimasero immutate e in compenso aumentarono le detrazioni sui carichi familiari e si stabilì che non sarebbe scattato l’aumento dell’Iva a luglio.
Quella legge di Stabilità non ha rilanciato la crescita, anzi la recessione è stata maggiore del previsto. Anche questa volta il Parlamento cambierà la manovra. Speriamo senza assalti alla diligenza. Ma la sostanza, temiamo, resterà la stessa: tanti interventi, magari singolarmente utili, sempre piccoli, talvolta che si annullano tra loro. Una legge di Stabilità all’insegna del «vorrei ma non posso». Perché le intenzioni possono essere le migliori, e quelle di Enrico Letta sicuramente lo sono, ma non si può realizzare una svolta se il governo di larghe intese, anziché realizzare poche grandi riforme che nessun altro esecutivo potrebbe fare, percorre la strada ovvia del compromesso. Non c’è un cambio di passo: né sulle tasse (la pressione fiscale scenderebbe in misura infinitesimale) né sull’evasione fiscale; né sulla spesa né sul debito pubblico.
Si parte con un testo di una novantina di pagine, una trentina di articoli e centinaia di commi, che si moltiplicheranno strada facendo. Si concluderà come al solito all’ultimo minuto a dicembre, su un maxiemendamento che cambierà tutto per non cambiare nulla. E tra un anno scopriremo che mezza manovra sarà rimasta sulla carta perché ancora non saranno stati varati i decreti attuativi, come ha rivelato Il Sole 24Ore due giorni fa, spiegando che tutte le leggi varate dal governo Monti e da quello attuale richiedono 725 provvedimenti applicativi, 469 dei quali ancora da adottare.

16 ottobre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ENRICO MARRO

http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_16/legge-stabilita-cifre-sull-acqua-59786afe-3622-11e3-b4e4-e4dfbe302858.shtmlhttp://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_16/legge-stabilita-cifre-sull-acqua-59786afe-3622-11e3-b4e4-e4dfbe302858.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Sulla casa, per favore, più serietà
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 07:24:16 pm
Sulla casa, per favore, più serietà

La patrimoniale dell’incertezza

Il governo non dovrebbe disorientare i cittadini, almeno sulle cose importanti. La casa è una di queste. Purtroppo il disegno di legge di Stabilità complica una situazione già complicata. Ormai, siamo davanti a un rompicapo: dopo l’Imu sugli immobili, la Tarsu sui rifiuti, la cedolare secca sugli affitti, sono in arrivo la Tasi sui servizi indivisibili (polizia locale, illuminazione pubblica e altro), la Tari che assorbirà la Tarsu, e la Trise, il nuovo tributo comunale composto dalle stesse Tasi e Tari.

Non è uno scherzo, ma ciò che hanno partorito in materia gli ultimi governi. Vittime i cittadini: proprietari e inquilini. Nessuno è in grado di districarsi da solo in questo groviglio di norme, aliquote e addizionali. Tutti hanno bisogno di uno specialista. Anche il pensionato, che non ha altro che la casa d’abitazione e magari quella al paese d’origine, deve ricorrere ai patronati o a professionisti. E stiamo solo parlando delle procedure. Se poi qualcuno volesse anche capire se e quanto pagherà, dovrebbe consultare l’indovino.

Prendiamo la seconda rata Imu sulla casa d’abitazione. Il governo, quando a maggio abolì la prima rata, promise che avrebbe cancellato anche la seconda. Solo che a poco più di un mese dal 16 dicembre, giorno ultimo per pagare, l’esecutivo non ha ancora né varato il decreto legge necessario, né indicato come farà a trovare i 2,4 miliardi di entrate alternative. Tanto che ogni giorno fioriscono nuove ipotesi, dall’aumento delle accise (sigarette, alcol e benzina) a un contributo straordinario sul settore bancario. E comunque non ha ancora chiarito se la cancellazione della seconda rata sarà totale o parziale.
I Comuni poi hanno tempo fino al 9 dicembre per deliberare sulle aliquote e, sempre a dicembre, scatterà l’aumento della tassa sui rifiuti, 30 centesimi in più a metro quadro. Poi qualcuno può meravigliarsi se non ripartono i consumi? Ci dicano che cosa dobbiamo fare: possiamo andare al ristorante con la famiglia o è meglio che i soldi li teniamo da parte per la seconda rata dell’Imu? Quando ce lo farà sapere il governo, il 15 dicembre?

Purtroppo questa confusione è drammaticamente comprensibile, anche se non giustificabile. Comprensibile perché, in verità, l’esecutivo Letta idee chiare sulla casa non le ha mai avute, per il semplice fatto che nella maggioranza e nella squadra di ministri convivono posizioni opposte. C’è chi l’Imu non l’avrebbe toccata per nulla e chi invece vuole cancellarla per sempre dal vocabolario.

L’idea della Service tax è nata così, per consentire ai primi di dire che attraverso Tasi e Tari un prelievo sulla prima casa sarebbe comunque rimasto, come avviene negli altri Paesi, e ai secondi di cantare vittoria sull’abolizione dell’Imu, salvo poi scoprire che dalla combinazione delle componenti del nuovo tributo potrebbe derivare un prelievo addirittura maggiore, anche sulle prime case.

Il governo smentisce che si pagherà di più e passa la palla ai Comuni: saranno loro a decidere, in omaggio al federalismo. Ma il federalismo come alibi non è quello che serve. Vorremmo invece che il governo facesse chiarezza e partorisse un sistema semplice. È troppo?

02 novembre 2013
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ENRICO MARRO

Da - http://www.corriere.it/economia/13_novembre_02/patrimoniale-dell-incertezza-d965a87e-4385-11e3-830a-3ecafc65029e.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Proposte confuse e contraddittorie L’instabilità di una legge
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:40:04 pm
Proposte confuse e contraddittorie

L’instabilità di una legge

Questa legge di Stabilità è nata male e rischia di finire peggio. La manovra di finanza pubblica per il 2014 è stata scritta in fretta e furia all’ultimo momento per rispettare la scadenza del 15 ottobre. Le settimane precedenti erano state infatti assorbite da una battaglia politica dove solo in extremis , quando Silvio Berlusconi in Senato ha annunciato a sorpresa il voto di fiducia, si è capito che non ci sarebbe stata la crisi di governo.

L’esecutivo Letta-Alfano ne è uscito rafforzato, si disse. Ma del tempo prezioso si era perso. E ci siamo trovati così un disegno di legge che assomiglia alle vecchie Finanziarie, un testo «aperto al confronto parlamentare», come ha spiegato lo stesso presidente del Consiglio. Con l’aggravante che, questa volta, titolati ad assaltare la diligenza con un’alluvione di proposte di modifica sono due partiti, Pd e Pdl, che non vanno d’accordo su nulla e già pensano alla prossima campagna elettorale.

Assistiamo così da settimane a cose incredibili. Per esempio: Renato Brunetta, il capogruppo del Pdl alla Camera, non un deputato qualsiasi, che tutti i giorni attacca il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ora perché «fa tenerezza», ora perché «non rispetta i patti», ora perché «fa male a se stesso e al Paese». È un suo diritto, per carità, ma stupisce che Saccomanni e lo stesso Letta subiscano questo logoramento. Il tutto accompagnato dagli oltre 3 mila emendamenti per cambiare la legge di Stabilità presentati da tutti i gruppi politici; dal relatore di maggioranza per il Pdl, Luigi D’Alì, che ha già proposto una sua riscrittura della Trise, la nuova tassa sugli immobili, sostituendola con la Tuc; e dalle contraddizioni del Pd. Con il relatore democratico Giorgio Santini che lavora per concentrare le detrazioni in busta paga sui redditi bassi mentre altri senatori dello stesso partito si accordano con colleghi del Pdl per seguire un’altra strada, l’aumento della no tax area. E con il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, anche lui del Pd, che prima dice «costerebbe troppo» e il giorno dopo «valuteremo».

Fermiamoci qui. La confusione è oltre il livello di guardia, i cittadini sono disorientati e le imprese bloccate dall’incertezza. Una manovra senz’anima e senza ambizione rischia di finire preda dei mille appetiti parlamentari e ostaggio di una battaglia dove gli interessi del Paese restano in secondo piano. Ci vorrebbe un sussulto di responsabilità. La legge di Stabilità è il provvedimento più importante per il Bilancio pubblico, il biglietto da visita con il quale ci presentiamo a Bruxelles che quest’anno svolgerà un esame rafforzato sulle manovre degli Stati membri. Fino al 31 dicembre, termine per l’approvazione della legge, si può rimediare. Sappiamo che i 3.093 emendamenti decadranno e che le sole modifiche che passeranno, magari con la fiducia, saranno quelle dei relatori in accordo con il governo.

Né il Pdl né il Pd possono illudersi di vincere: l’unico finale di partita sulla legge di Stabilità è il pareggio. Ne prendano atto subito, concordino le poche cose che tutti invocano, cioè un forte taglio delle tasse sul lavoro e una riforma dell’Imu semplice e trasparente, e chiudano il match. Evitando scenari che il Paese non merita.

13 novembre 2013
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Enrico Marro

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_13/instabilita-una-legge-46ce8598-4c28-11e3-b498-cf01e116218a.shtml


Titolo: E. Marro. Nel programma meno Irap e Irpef Cabina di regia contro la burocrazia
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2014, 10:42:00 am
Il piano - Le proposte dovranno essere confrontate con il partito di Alfano e i centristi
Nel programma meno Irap e Irpef
Cabina di regia contro la burocrazia
Incentivi per le assunzioni, assegno ai disoccupati e rendite tassate



ROMA - Si partirà con una scossa all’economia, tagliando le tasse, per creare lavoro e rilanciare i consumi. Lo staff di Matteo Renzi sta compulsando schede e documenti che dovrebbero costituire la base del programma del prossimo governo. Per ora si tratta proposte non ancora condivise col Nuovo centrodestra e con i centristi, ma c’è da scommettere che il segretario del Pd non accetterà modifiche sostanziali. Se il governo Renzi otterrà la fiducia, i primi provvedimenti saranno dedicati all’abbassamento del costo del lavoro per creare nuova occupazione. Come prevede il progetto di Jobs Act, annunciato l’8 gennaio, l’Irap dovrebbe scendere del 10%, con un risparmio d’imposta per le imprese di quasi 2 miliardi e mezzo. Accanto a questo taglio generalizzato scatterebbero incentivi per l’assunzione di giovani con meno di 30 anni: le aziende, in questo caso, pagherebbero solo i contributi previdenziali ma non le imposte. Per le assunzioni di giovani in attività innovative e di ricerca ci sarebbe anche un credito d’imposta. In tutto, questi incentivi costerebbero un paio di miliardi.

Sempre il Jobs Act prevede l’introduzione del contratto d’inserimento a tutele progressive, che rende più facili i licenziamenti. E quindi sarà necessario un assegno universale di tutela del reddito per chi perde il lavoro. Che, nelle intenzioni di Renzi, dovrebbe sostenere in particolare chi viene licenziato e non è più ricollocabile e anche i giovani che non trovano lavoro, a patto però che seguano un corso di formazione. La misura (importo, durata) di questo intervento non è ancora definita perché bisognerà fare i conti con le risorse disponibili. Il taglio delle tasse nei piani di Renzi prevede infatti anche una riduzione dell’Irpef sui redditi più bassi: diminuire di un punto le prime due aliquote (23% fino a 15 mila euro, 27% tra 15 mila e 28 mila euro) costerebbe circa 5 miliardi di minor gettito. Fin qui il taglio del cuneo fiscale sul lavoro e la spinta ai consumi. Azione alla quale si affiancherà il capitolo scuola, che contiene un piano di manutenzione straordinaria degli edifici e per la realizzazione di campus universitari, per una spesa prevista di 5 miliardi, e lo sblocco della retribuzione accessoria degli insegnanti per premiare i più meritevoli.

Ma dove si troveranno le risorse per finanziare questo programma economico così dispendioso? Dal taglio della spesa pubblica (spending review), dalla riduzione degli interessi sul debito e dal rientro dei capitali dall’estero, come già prevedeva il governo Letta, ma anche da un aumento della tassazione delle rendite, come dice ancora il Jobs Act. Anche qui la manovra è da mettere a punto. Si tratta, come quello dell’assegno universale, di un capitolo molto delicato, dove le distanze con il centrodestra sono notevoli. L’inasprimento del prelievo dovrebbe risparmiare i titoli di stato (ma i falchi dello staff renziano vorrebbero includerli per lo meno oltre certe soglie di patrimonio) e riguardare in particolare le grandi ricchezze finanziarie, quei 3.800 miliardi di euro complessivamente detenuti dalle famiglie, secondo Banca d’Italia, ma fortemente concentrati sulle fasce più ricche. Quanto alla spending review il programma impostato dal governo Letta, con l’obiettivo di tagliare 32 miliardi di spesa pubblica a regime (dal 2016 in poi), andrà avanti, ma con un’accelerazione, per ottenere risparmi significativi già quest’anno. Ulteriori risorse dovrebbero arrivare anche da un piano di incentivi per l’emersione dal nero.

Se l’azione di governo e la ripresa internazionale produrranno un aumento del Prodotto interno, magari superiore all’1% previsto da Letta per il 2014 (impresa difficilissima, visti i dati di ieri sul mini rimbalzo del Pil dello 0,1% nell’ultimo trimestre del 2013), il compito di Renzi sul fronte dei saldi di finanza pubblica sarà agevolato. In ogni caso, l’aspirante premier punta a ottenere da Bruxelles, in cambio delle riforme, lo scomputo degli investimenti per la crescita dal deficit. Per rassicurare mercati e commissione Ue verrà confermato anche il programma di privatizzazioni e dismissioni, a patto che non si traduca in svendite di imprese pubbliche. Piuttosto si allargherà l’azione alle migliaia di aziende partecipate da Regioni ed enti locali, con l’obiettivo di restituire al mercato tutte le attività che è più logico siano gestite dal privato, comprese le farmacie comunali e le centrali del latte.

Infine, forse la cosa più importante per dare efficacia all’azione di governo: una cabina di regia a Palazzo Chigi che dovrà lavorare a ritmi forsennati per smaltire il prima possibile l’arretrato di circa 850 decreti attuativi che si trascina dal governo Monti, altrimenti tante riforme resteranno sulla carta. E per evitare il ripetersi di questo ingorgo e togliere il potere di interdizione dalle mani dei vertici delle burocrazie ministeriali, Renzi vorrebbe che i provvedimenti del suo governo fossero immediatamente precettivi. Anche questa un’impresa ardua. Ma i suoi ci credono. «Vedrete, sarà una svolta - assicurano -. Anche sul piano comunicativo. I provvedimenti non si prenderanno per rispettare i saldi finanziari, ma avranno la persona al centro: sia esso lavoratore o imprenditore, studente o giovane disoccupato».

15 febbraio 2014
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Enrico Marro

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_15/nel-programma-meno-irap-irpef-cabina-regia-contro-burocrazia-fae8a90a-960b-11e3-9817-5b9e59440d59.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Sergio RIZZO. Lavoro, fisco, burocrazia: ecco l’agenda Renzi.
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2014, 11:51:44 am
Le riforme

Lavoro, fisco, burocrazia: ecco l’agenda Renzi
Pronto il programma del premier. Spending review, verso la conferma del commissario Cottarelli


Programma in quattro tappe per il governo Renzi, secondo quanto ha annunciato ieri lo stesso presidente del consiglio incaricato, dopo l’investitura ricevuta dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Prima di tutto, entro febbraio, la legge elettorale e le riforme istituzionali, ma già a marzo, la seconda tappa, con i provvedimenti per incentivare l’occupazione, compresa l’abolizione dell’articolo 18 per i primi tre anni per i nuovi assunti. Lo scossone al mercato del lavoro dovrebbe essere accompagnato dalla detassazione delle assunzioni dei giovani fino a 30 anni, in particolare nei settori dell’innovazione e ricerca, e dalla creazione di un’Agenzia federale per l’occupazione che riporterebbe al centro il coordinamento delle politiche di collocamento e formazione, oggi svolte in autonomia dalle Regioni. Poi ad aprile la terza tappa, la grande riforma della pubblica amministrazione per sburocratizzare il sistema, allineando le regole per i dipendenti pubblici a quelle dei lavoratori privati, così da permettere l’utilizzo degli ammortizzatori sociali per ridurre le eccedenze di personale, togliendo di mezzo anche i Tar nelle cause di lavoro e riconducendole ai giudici ordinari, come nel settore privato. Una rivoluzione che toccherebbe anche l’inamovibilità dei dirigenti pubblici, che diverrebbero licenziabili come i manager privati. E comunque tutti gli incarichi per gli alti burocrati dovrebbero durare al massimo 6 anni.

Rilanciato il lavoro, riformata la macchina statale, a maggio il percorso iniziale del governo Renzi dovrebbe concludersi con la riforma del fisco. Meno Irap per le aziende; meno Irpef per i lavoratori dipendenti, con una manovra sulle detrazioni che dovrebbe alleggerire le tasse fino a un massimo di circa 450 euro l’anno sui redditi inferiori a 15 mila euro. In compenso aumenterà il prelievo sulle rendite finanziarie (non è ancora chiaro se e in che misura verranno coinvolti i titoli di Stato; sul programma inoltre non c’è stato ancora un confronto con il centrodestra). Le risorse per coprire la manovra verranno comunque in gran parte dal taglio della spesa pubblica: 3-4 miliardi già nel 2014. Gli uomini di Renzi sono molto soddisfatti del lavoro fatto dal commissario Carlo Cottarelli, che quindi dovrebbe essere confermato.


L’occupazione
Addio articolo 18 per i nuovi assunti Incentivi sui posti ad alta innovazione
Subito dopo la riforma della legge elettorale, i primi provvedimenti economici del governo Renzi, se il premier incaricato riceverà la fiducia, riguarderanno il lavoro. Entro marzo saranno varate le misure per rilanciare l’occupazione e riformare gli ammortizzatori sociali. Qualcuno, tra i collaboratori di Matteo Renzi, sogna il milione di posti di lavoro in più. Ma non rifacendosi alla fallimentare promessa di Silvio Berlusconi del ‘94 (l’occupazione non aumentò per nulla fino al 1998) bensì alle politiche del presidente americano Obama che incentivano i settori della ricerca e innovazione (nell’ultimo anno gli occupati negli Stati Uniti sono complessivamente aumentati da 143 a 145 milioni). Barack Obama che del resto si è ispirato anche alle ricerche di un giovane economista italiano, Enrico Moretti, che insegna negli Stati Uniti e che nei suoi studi spiega come ogni posto di lavoro creato nella ricerca e innovazione ne produca a cascata cinque nei servizi. Insomma, riuscire ad avere 200 mila occupati in più nei settori di punta dell’economia porterebbe appunto a un altro milione di posti di lavoro in più. Un obiettivo al quale Renzi ha sempre creduto. Ecco perché del piano per il lavoro faranno parte gli incentivi alle assunzioni dei giovani under 30, ma solo se aggiuntive (non verrebbero cioè dati alle aziende che prima licenziano). Queste assunzioni dovrebbero essere defiscalizzate (l’impresa paga solo i contributi previdenziali) e ulteriormente agevolate nel caso di lavoratori impiegati nei settori dell’innovazione e della ricerca. Il tutto sulla scia di provvedimenti già presi dal governo Letta. Ma il vero scossone al mercato del lavoro dovrebbe essere dato dall’introduzione del contratto di inserimento a tutele progressive, che per tutte le nuove assunzioni consentirebbe all’impresa di licenziare entro i primi tre anni in cambio di un indennizzo crescente in funzione dell’anzianità di servizio. Infine, a sostenere le assunzioni interverrebbe il taglio dell’Irap del 10%, che farebbe risparmiare alle aziende circa 2 miliardi e mezzo all’anno, e la costituzione di una Agenzia federale per l’occupazione che riporterebbe al centro le politiche per l’impiego e la formazione oggi di competenza delle Regioni (ma sarà necessaria anche una modifica del titolo V della Costituzione). L’abolizione dell’articolo 18 sulle nuove assunzioni renderà i licenziamenti più facili. In compenso saranno appunto rafforzate le politiche per l’impiego, mettendo in rete il sistema di collocamento pubblico e quello privato, e saranno riformati gli ammortizzatori sociali: indebolendo i sussidi per i lavoratori della grande industria e estendendoli a chi finora non ne ha beneficiato. La cassa integrazione, sulla scia di quanto già previsto dalla riforma Fornero, resterà solo per sostenere i lavoratori delle aziende che possono uscire dalla crisi mentre non ci saranno più gli ammortizzatori che durano 4-7-10 anni( Cigs+indennità di mobilità)per dare un sussidio ai dipendenti di aziende senza futuro. In questi casi, i lavoratori dovranno partecipare a corsi di formazione ricevendo un sussidio e solo coloro che non fossero ricollocabili continuerebbero ad essere assistiti, magari con un’Aspi (la nuova indennità di disoccupazione introdotta dalla Fornero) di durata maggiore, mentre gli altri dovrebbero accettare i nuovi lavori offerti.
Enr. Ma.


La semplificazione
Dipendenti pubblici uguali ai privati Tar ridimensionati, potrebbero sparire
Da vent’anni a questa parte non c’è stato governo che non abbia giurato di voler riformare la burocrazia. Ma non c’è stato governo che abbia tenuto fede alla promessa. La pubblica amministrazione è sempre rimasta quella palude stagnante che respinge gli investitori esteri e complica la vita delle aziende. Secondo la graduatoria Doing business della Banca mondiale, l’Italia è trentunesima su 34 Paesi avanzati per contesto favorevole a fare impresa, e occupa a livello mondiale la posizione numero 65 su 189. In questi numeri c’è la dimensione della scommessa del governo di Matto Renzi, che si propone di chiudere entro un paio di mesi la sua riforma della pubblica amministrazione. I suoi più stretti collaboratori stanno lavorando su alcune proposte che rappresenterebbero l’ossatura di un provvedimento da approvare nei primi consigli dei ministri. Tema principale, l’allineamento delle regole per i pubblici dipendenti con quelle del lavoro privato. Un intervento su argomenti da sempre considerati tabù, dalla mobilità interna alla flessibilità, all’orario di lavoro, fino all’applicazione degli ammortizzatori sociali e di strumenti come contratti di solidarietà in caso di esuberi. Il passaggio chiave sarebbe la fine della giurisdizione dei Tar sulle controversie nel pubblico impiego, che passerebbe così al giudice ordinario. Una svolta che metterebbe in discussione la stessa sopravvivenza dei tribunali amministrativi. L’obiettivo è rivoluzionare una cultura basata finora sulla intoccabilità del dipendente pubblico, trasformando la pubblica amministrazione da erogatrice di stipendi in erogatrice di servizi valutabili sulla base di costi e benefici. Proposito, per rimanere nel mood renziano, smisuratamente ambizioso: il che induce ad alzare ancora di più il livello del confronto con i poteri della burocrazia. Cominciando dalla revisione delle norme che nel 1972 hanno reso di fatto inamovibili i dirigenti pubblici, per i quali si potrebbe profilare la libertà di licenziamento come nel privato. Non dovrebbe essere più possibile per gli alti burocrati la permanenza a vita a capo di un ufficio o un dipartimento: ogni incarico dovrebbe ruotare dopo sei anni al massimo, anche per i manager delle aziende pubbliche. E i magistrati dovrebbero lavorare in esclusiva: quindi stop a consulenze governative e nelle authority, incarichi extragiudiziali e relative prebende. Un capitolo a parte dovrebbe poi riguardare la semplificazione, altro tema sul quale sono stati riversati inutilmente in questi anni fiumi di parole. Gli esperti di Renzi hanno proposto l’applicazione dei poteri sostitutivi del prefetto se una pratica non viene tassativamente completata entro un determinato lasso di tempo. Ma anche l’abolizione delle Camere di commercio e la loro sostituzione con speciali agenzie per gestire tutti i rapporti burocratici fra strutture pubbliche e imprese. E l’introduzione dell’obbligo della posta certificata in tutti i rapporti fra le amministrazioni, con pesantissime sanzioni a carico dei dirigenti che non rispettano la direttiva. Un’idea dei risparmi anche economici che sarebbe possibile ottenere dalla digitalizzazione degli atti è in una stima secondo cui ogni «faldone» relativo a un processo penale ha un costo medio a carico dello Stato di 30 mila euro per le sole spese di fotocopia e cancelleria. Auguri.
Sergio Rizzo


Le tasse
Prelievo più alto sulle rendite per agire sull’Irap e sulle detrazioni
A maggio toccherà al fisco. Giusto un paio di mesi per fare le cose per bene, assicura Filippo Taddei, responsabile Economia della segreteria di Matteo Renzi: «Il taglio della pressione fiscale sul lavoro sarà certo e duraturo. Solo così può ripartire la crescita». Sarà quindi una manovra strutturale, non una tantum. Uno sconto permanente, probabilmente articolato in un piano pluriennale di tagli crescenti, che darà ad aziende e lavoratori la prospettiva di un fisco via via più leggero. Meno Irap per le imprese e meno Irpef per le famiglie. Obiettivo: più occupazione, più consumi, l’economia che riprende a crescere. Il problema è che una manovra del genere costa molto. Tagliare l’Irap del 10%, come ha promesso Renzi presentando l’8 gennaio il Jobs act, vale quasi due miliardi e mezzo di euro. Ridurre di un punto le prime due aliquote dell’Irpef (quella del 27% fino a 15mila euro e quella del 28% tra 15 e 28mila euro) altri 5 miliardi, col rischio, per giunta, che spalmandosi sull’intera platea dei contribuenti il beneficio sia così piccolo che nessuno se ne accorga. Ecco perché lo staff del premier incaricato sta abbandonando quest’ultima idea per puntare invece su una riforma delle detrazioni per aumentare il risparmio d’imposta per i redditi tra 8mila (sotto questa cifra non si paga l’Irpef) e 15mila euro, con un vantaggio per questi ultimi di circa 450 euro l’anno. La manovra sarebbe limitata ai lavoratori dipendenti (per gli autonomi è previsto il taglio dell’Irap) e costerebbe sempre 5 miliardi, ma sarebbe avvertita dai redditi bassi. Essa restituirebbe inoltre una maggiore articolazione alla curva dell’Irpef che oggi, a causa dell’effetto distorsivo delle detrazioni, nonostante veda formalmente 5 aliquote (23, 27, 38, 41 e 43%) si riduce, di fatto, a due aliquote, del 30% tra 8 e 28 mila euro e del 40% sopra. Da dove verranno le ingenti risorse finanziarie che serviranno per coprire l’alleggerimento dell’Irap, dell’Irpef, la riforma degli ammortizzatori sociali e gli incentivi per le assunzioni? Anche da un aumento del prelievo sulle rendite finanziarie, che lo staff di Renzi conferma, anche se non è ancora chiaro se e come potrebbero essere coinvolti i titoli di Stato (circolano diverse ipotesi, dalla loro esclusione all’inasprimento del prelievo solo per i grandi patrimoni). Ma il grosso delle risorse arriverebbe dal taglio della spesa pubblica, centrale e periferica. Dagli ambienti vicini al presidente del consiglio incaricato filtra infatti una grande soddisfazione per il lavoro fatto finora dal commissario alla spending review, Carlo Cottarelli. Il tecnico nominato da Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni, spiegano, avrebbe individuato con precisione le spese da tagliare e l’obiettivo di risparmiare almeno tre miliardi già nel 2014 sarebbe alla portata. È probabile quindi che Cottarelli resti al suo posto e anzi acceleri e magari aumenti l’obiettivo a regime di un taglio strutturale della spesa pubblica di 32 miliardi di euro a partire dal 2016. Altre entrate potrebbero arrivare dalla lotta all’evasione fiscale, ma queste non verranno cifrate perché incerte. Ma resta il fatto che ogni euro in più recuperato dall’evasione, confermano i tecnici, andrà nel fondo per ridurre le tasse sul lavoro già predisposto dal governo Letta.
Enr. Ma.

18 febbraio 2014
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Enrico Marro Sergio Rizzo


Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_18/lavoro-fisco-burocrazia-ecco-l-agenda-renzi-b542f3b6-9862-11e3-8bdc-e469d814c716.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Il piano prevede risparmi per 4 miliardi già nel 2014
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 06:04:36 pm
Il piano prevede risparmi per 4 miliardi già nel 2014
Il summit Renzi-Padoan: tagli alla spesa pubblica e mobilità dei dirigenti
La spending review per ridurre il cuneo fiscale

Anche se il governo Renzi dovesse aumentare il prelievo sulle rendite finanziarie (Bot compresi, secondo quanto prospettato ieri dal sottosegretario alla presidenza Delrio), non è da qui che verrà il grosso delle risorse per rilanciare l’occupazione e la crescita dell’economia. Con un eventuale allineamento della tassazione alla media europea (l’Italia, col 12,5% sui titoli di Stato e il 20% su azioni, obbligazioni, dividendi e depositi, si colloca 2-3 punti sotto) si potrebbe incassare infatti al massimo un miliardo, dicono gli esperti. E comunque anche un inasprimento dell’aliquota del 12,5% sui titoli di Stato colpirebbe solo una piccola parte di questi, quelli in mano alle famiglie, ovvero 174 miliardi su un totale di 1.740 miliardi in circolazione (dati Banca d’Italia). Il 90% dei Bot, Cct e altri titoli di Stato è infatti detenuto da banche, assicurazioni e società finanziarie, tutti soggetti per i quali i redditi da capitale finiscono nell’imponibile fiscale complessivo, e che quindi sono indifferenti alle variazioni dell’aliquota secca.

Niente nuove tasse- La manovra sulle rendite avrebbe soprattutto un valore simbolico: come ha spiegato Delrio, far pagare di più chi vive di rendita per abbassare il prelievo sul lavoro. «Niente nuove tasse - dicono a Palazzo Chigi - ma una rimodulazione fermo restando l’orizzonte del governo di una diminuzione della pressione fiscale complessiva». Questo proposito di Renzi dovrà però fare i conti con le valutazioni del neoministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, impegnato già ieri sera, a Palazzo Chigi, nella prima riunione di lavoro con il presidente del Consiglio. Padoan, da economista, ha sempre sostenuto la necessità di un riequilibrio del trattamento fiscale tra lavoro e rendita. Ma in veste di titolare del Tesoro dovrà fare i conti con la necessità di non spaventare i mercati ai quali ogni anno l’Italia chiede di sottoscrivere circa 400 miliardi di titoli di Stato per finanziare il proprio debito pubblico.

Revisione della spesa - In ogni caso, non sono le rendite la leva sulla quale conta il governo per azionare il programma di rilancio economico. Che poggia invece su altre voci ben più consistenti. Innanzitutto la revisione della spesa pubblica. Secondo il lavoro fatto sui 25 tavoli di settore coordinati in questi mesi dal commissario Carlo Cottarelli, si potrebbero tagliare già nel 2014 almeno 4 miliardi di euro. Come? Un miliardo con l’estensione alle Regioni e alle forniture sanitarie del raggio di azione della Consip, la società dell’Economia per l’acquisto centralizzato di beni e servizi, e dal taglio della spesa per locazioni (730 milioni l’anno solo quella dello Stato centrale). Risparmi importanti dovrebbero arrivare dalla chiusura e messa in liquidazione delle società partecipate, in particolare quelle degli enti locali che ne contano oltre 2 mila in perdita, dalla rinegoziazione dei contratti di fornitura (energia, servizi, manutenzione), dalla riorganizzazione dell’amministrazione centrale con l’accorpamento di strutture (per esempio le scuole di formazione dei dirigenti), dall’attuazione dell’Agenda digitale, dal taglio dei costi della politica, a partire dalle auto blu. C’è poi il capitolo dipendenti pubblici: non ci saranno licenziamenti, ha detto Delrio. Ma la mobilità sì, per spostare il personale da dove non serve, e gli esuberi verranno gestiti con l’estensione al pubblico degli ammortizzatori sociali.

Eliminare gli abusi - Cottarelli ha anche verificato che è possibile ridurre gli incentivi alle imprese ed eliminare abusi e sovrapposizioni, anche con controlli più severi, nelle prestazioni sociali e assistenziali, così come si può risparmiare riorganizzando e informatizzando la giustizia, tagliando enti inutili e accorpandone altri. È chiaro che non tutto si potrà fare subito, ma almeno 4 miliardi si dovrebbero ricavare già nel 2014, secondo il governo, fermo restando l’obiettivo di raggiungere un taglio della spesa di 32 miliardi nel 2016.
Quattro miliardi dalla spending review quindi, ai quali si aggiungeranno 3 miliardi dal rientro dei capitali nascosti all’estero, secondo il provvedimento varato dal governo Letta, e 3 miliardi da minore spesa per interessi sul debito, grazie all’andamento favorevole dei mercati. Insomma una decina di miliardi per finanziare una robusta riduzione, si parla di 7-8 miliardi, del cuneo fiscale sul lavoro: 2,5 miliardi in meno per le imprese con un taglio del 10% dell’Irap e il resto ai lavoratori dipendenti e ai pensionati attraverso un aumento delle detrazioni sui redditi bassi per ottenere fino a 450 euro l’anno in più per chi guadagna 15 mila euro. I restanti 2-3 miliardi potrebbero essere destinati agli incentivi per assumere i giovani e all’assegno minimo di garanzia, cioè un sussidio di disoccupazione cui avrebbero diritto anche in giovani che non riescono a trovare lavoro purché partecipino a un programma di formazione. Ci sono infine le entrate una tantum, come gli 8-10 miliardi dalle privatizzazioni impostate dal governo Letta e i proventi da un eventuale accordo con la Svizzera per il rientro dei capitali. Entrate che andranno a riduzione del debito.

24 febbraio 2014
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Enrico Marro

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_24/summit-renzi-padoan-tagli-spesa-pubblica-mobilita-dirigenti-ec7d86de-9d1c-11e3-bc9d-c89ba57f02d5.shtml


Titolo: Enrico MARRO - I conti in tasca ai piani di Renzi Troppe cifre senza reali...
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2014, 06:15:38 pm
I conti in tasca ai piani di Renzi
Troppe cifre senza reali riscontri

Matteo Renzi, con i suoi interventi programmatici in Parlamento, ha cambiato l’approccio alle relazioni tra Italia e Unione Europea. Per la prima volta, nelle parole di un presidente del Consiglio, non c’è la preoccupazione prioritaria di impostare la politica economica secondo le raccomandazioni, gli indirizzi o le reprimende della Commissione europea. Non è un caso che Renzi non abbia fatto cenno alla necessità/obbligo di rispettare la regola del deficit del 3% del Prodotto interno lordo, al pareggio strutturale di bilancio, al Fiscal compact per rientrare dall’abnorme debito pubblico. E non è un caso che abbia voluto rimarcare come il suo primo viaggio all’estero non sarà né a Bruxelles né a Berlino, ma a Tunisi. Tutto ciò manda all’Europa il messaggio che, dopo la stagione dei governi tecnici o semitecnici, questo è un governo politico, senza alcun timore reverenziale verso i tecnocrati della Commissione europea. Detto che questa mossa riequilibra un atteggiamento che in passato a tratti è sembrato di sudditanza - che oltretutto finisce per nuocere all’idea stessa di Europa unita - i problemi base dell’economia e della finanza pubblica italiane restano quelli di sempre.

Il governo Renzi potrà anche andare a Bruxelles a chiedere, e magari ottenere, più tempo per rientrare dal debito pubblico, ma se non prenderà provvedimenti efficaci e credibili dovrà fare i conti con i mercati, ai quali ogni anno l’Italia è costretta a chiedere di sottoscrivere 400 miliardi di euro in titoli di Stato. E credibilità significa innanzitutto prendere misure che abbiano una copertura finanziaria certa. Va benissimo promettere un taglio del cuneo fiscale per alleggerire di 10 miliardi le tasse su imprese e lavoratori, ma se si dice che questo sconto verrà coperto con il taglio della spesa pubblica per 3-4 miliardi, bisogna spiegare come. Perché si può avere la massima fiducia nel lavoro del commissario Carlo Cottarelli, ma è un dato di fatto che altre valide persone prima di lui, da Piero Giarda a Enrico Bondi, ci hanno provato, ma con scarsi risultati.

Che cosa è cambiato davvero per farci credere che nei 7-8 mesi dell’anno che restano si potranno risparmiare diversi miliardi? Così come, se si dice che una parte della copertura del taglio del cuneo verrà dall’aumento del prelievo sulle rendite finanziarie per allinearlo alla media europea, bisogna che il governo non lasci i mercati nell’incertezza e chiarisca subito che cosa si appresta a fare. Pensa di partire aumentando le tasse? Farebbe meglio a guadagnarsi prima la credibilità tagliando la spesa. Così come non ci si può limitare, nell’annunciata riforma del lavoro, a prefigurare l’introduzione di un sussidio universale di disoccupazione senza dire almeno su che ordine di grandezza di spesa si ragiona e dove si prendono le risorse necessarie, perché un conto è potenziare l’Aspi, cioè l’indennità introdotta dalla Fornero, e tutt’altra cosa è dare 500 euro al mese a 3 milioni di disoccupati, per un costo annuo di 18 miliardi. Se Renzi non darà presto una risposta a questi interrogativi, che del resto lui stesso ha suscitato mettendo così tanta carne al fuoco, l’entusiasmo col quale sembra essere stato accolto dai cittadini, dalla maggioranza e dai mercati lascerà il posto a tensioni crescenti. E a danni rilevanti.

27 febbraio 2014
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Enrico Marro

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_27/i-conti-intasca-piani-renzi-069396ac-9f76-11e3-b156-8d7b053a3bcc.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Tagli ai manager, mossa del Tesoro Da aprile scattano i primi ...
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2014, 11:39:59 pm
Tagli ai manager, mossa del Tesoro Da aprile scattano i primi risparmi
Retribuzione massima (escluse le quotate): 311 mila euro.
Il ministro Poletti: serve una maggiore equità tra il trattamento economico dei manager e quello di un impiegato


di Enrico Marro

ROMA - Secondo il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nessun manager pubblico deve prendere un stipendio superiore a quello del presidente della Repubblica, cioè 239.181 euro lordi l’anno. Ma al momento non è chiaro se questo tetto dovrebbe applicarsi ai dirigenti apicali del pubblico impiego, ai presidenti e amministratori delegati delle società pubbliche o a entrambe le categorie. Al Tesoro si vuole prima di tutto far chiarezza sulle norme già vigenti e su quelle che stanno per scattare, visto che è stato appena pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» (numero 63 del 17 marzo) il Regolamento sui compensi per gli amministratori delle società controllate dal ministero dell’Economia non quotate e che non emettono strumenti finanziari quotati sui mercati regolamentati.

Si tratta di un decreto ministeriale firmato dall’ex ministro Fabrizio Saccomanni che entrerà in vigore dal primo aprile e riguarderà quindi le prossime nomine. Per queste società, che vanno da Invitalia all’Anas, dalla Consap all’Expo 2015, dall’Enav al Poligrafico, da Italia Lavoro alla Sogesid, scatta una classificazione secondo tre «fasce di complessità», che tengono conto del valore della produzione, degli investimenti e del numero dei dipendenti. Nella prima fascia, quella dove rientrano le società più importanti come Rai e Anas l’importo massimo complessivo degli emolumenti, compresa la parte variabile, non potrà superare il trattamento economico annuo del primo presidente della Corte di Cassazione, cioè 311mila euro lordi. Nella seconda fascia, quella delle società intermedie come il Poligrafico, il tetto alla retribuzione totale sarà pari all’80% di quello della prima fascia, cioè 248.800 euro lordi. Nella terza fascia, quella delle società minori tipo Sogesid (tutela del territorio), il tetto scende al 60%, cioè a 186.600 euro lordi. Tali limiti, specifica il decreto, si applicano «all’amministratore delegato, ovvero al presidente, qualora lo stesso sia l’unico componente del consiglio di amministrazione al quale sono state attribuite deleghe». Qualora ai presidenti siano invece conferite specifiche deleghe operative l’emolumento «non può essere superiore al 30% del compenso massimo previsto per l’amministratore delegato».

Per le società quotate, cioè Eni, Enel e Finmeccanica, e per quelle non presenti in Borsa ma che emettono strumenti finanziari quotati, come la Cassa depositi e prestiti, le Ferrovie dello Stato, le Poste, si applicano invece le norme varate dal governo Monti con il decreto Salva Italia come modificate dalla legge 98 del 2013. Esse stabiliscono che per le società quotate direttamente o indirettamente controllate dalle pubbliche amministrazioni è sottoposta all’approvazione dell’assemblea degli azionisti una proposta sulla remunerazione dell’amministratore delegato e del presidente che preveda un taglio del 25% «del trattamento economico complessivo a qualsiasi titolo determinato, compreso quello per eventuali rapporti di lavoro con la medesima società». Tale proposta viene approvata dall’azionista pubblico, dice la legge. Per le società pubbliche o controllate dal pubblico non quotate ma che emettono titoli obbligazionari il taglio del 25% si applica direttamente, ovviamente sempre sulle nomine successive all’entrata in vigore della riforma, cioè dal 21 agosto scorso.

Detto questo, è evidente che anche dopo i tagli decisi dai governi Monti e Letta, siamo ancora lontani dall’obiettivo di Renzi. I 239mila euro del presidente Napolitano sono infatti abbondantemente sotto il tetto dei 311mila fissato per le società non quotate, mentre il taglio del 25% sulle altre interviene su emolumenti altissimi, come quelli degli amministratori delegati dell’Eni Paolo Scaroni (6,52 milioni lordi), dell’Enel Fulvio Conti (3,95 milioni lordi), di Finmeccanica Alessandro Pansa (1,02 milioni lordi), delle Poste Massimo Sarmi (2,2 milioni lordi, compresi 638.746 euro di competenza del 2011 ma erogati nel 2012), del presidente delle stesse Poste, Giovani Ialongo (903.611 euro lordi), dell’ad della Cassa depositi e prestiti Giovanni Gorno Tempini (1,035 milioni lordi), delle Ferrovie Mauro Moretti (873.666 euro lordi). Proprio con quest’ultimo continua la polemica politica. Moretti prima ha annunciato il suo addio nel caso gli tagliassero lo stipendio e poi ha spiegato al Corriere che è disposto a lavorare gratis purché si difendano le retribuzioni dei suoi dirigenti. Parole accolte ironicamente dal ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi: «Se vuole lavorare gratis sono molto contento». E comunque, aggiunge, «nessuno è indispensabile». Anche secondo il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, «serve una maggiore equità tra il trattamento dei manager e quello di un impiegato». «La differenza - aggiunge il renziano Davide Faraone, responsabile del welfare Pd - è di 12 volte: una vergogna. Nel resto d’Europa è al massimo di 5».

25 marzo 2014 | 10:15
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_marzo_25/tagli-manager-mossa-tesoro-aprile-scattano-primi-risparmi-7ad4f2cc-b3e4-11e3-be28-0f08b38e26f7.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Sanità e sprechi, l’equità negata
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2014, 11:34:38 pm
Sanità e sprechi, l’equità negata

Il Def che Renzi varerà sarà diverso dai precedenti solo se conterrà un credibile percorso pluriennale di tagli strutturali della spesa pubblica

di ENRICO MARRO

In queste ore alla presidenza del Consiglio e al ministero dell’Economia si stanno facendo le ultime verifiche sul testo del Def, il Documento di economia e finanza che domani verrà approvato dal governo, il piano triennale che, nelle intenzioni di Matteo Renzi, dovrà conciliare il rilancio della crescita con il rispetto del percorso di risanamento dei conti pubblici («non perché ce lo chiede l’Europa, ma per i nostri figli»).

Al centro della manovra per il 2014 ci sarà il taglio, da maggio, delle tasse di 80 euro al mese per i lavoratori dipendenti che guadagnano fino a 1.500 euro netti, ha promesso lo stesso presidente del Consiglio, per un costo su base annua di 10 miliardi. Per il periodo maggio-dicembre il governo deve quindi trovare 6,6 miliardi per finanziare lo sgravio Irpef. Le coperture ci sono tutte e verranno dai tagli di spesa, assicura Renzi. La credibilità dell’operazione bonus in busta paga si misurerà, in Italia e in Europa, proprio su questo, cioè su quanta parte delle risorse necessarie a far salire gli stipendi medio-bassi verrà da riduzioni permanenti della spesa pubblica.

Il presidente e il titolare dell’Economia Pier Carlo Padoan dovranno saper respingere i veti dei ministri. Non ci possono essere capitoli di spesa esclusi a priori, nemmeno la Sanità, dove gli sprechi sono doppiamente gravi, perché tolgono risorse preziose che potrebbero essere impiegate per migliorare un servizio fondamentale che, in tante parti d’Italia, è a livelli ancora inaccettabili.

È vero, il ministro della Sanità è impegnato in una trattativa con le Regioni per un nuovo Patto per la Salute che faccia risparmiare «dieci miliardi di euro in tre, quattro anni» da investire, spiega Beatrice Lorenzin, nello stesso settore «in infrastrutture, ricerca, personale e accesso alle cure più innovative». Non è un risultato scontato, visto che anche in questa materia lo Stato, a causa del Titolo V della Costituzione, deve scendere a patti col sistema delle autonomie, ma è il minimo che si possa fare. Secondo il rapporto del commissario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli, l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul Prodotto interno lordo è salita dal 5,7% del 2000 al 7,1% del 2013. Dal 2009 le uscite non crescono più, essendosi fermate intorno a 111 miliardi di euro l’anno, ma il peso sul Pil, dice il commissario, deve scendere se l’Italia vuole riuscire a ridurre le tasse. Si può fare, a partire dall’applicazione di criteri uniformi negli acquisti (costi standard), dalla famigerata siringa agli appalti più importanti. E invece, proprio a causa della gestione inefficiente della Sanità, metà delle Regioni sono commissariate, col risultato che i cittadini pagano pesanti addizionali Irpef per coprire i buchi di bilancio. Il tutto mentre il 50% degli assistiti e il 70% delle ricette sono esenti dal pagamento del ticket, con punte dell’86% nel Sud. Uno spreco inaccettabile ai danni degli onesti: prestazioni regalate agli evasori mentre c’è chi non ha i soldi per andare dal dentista.

Il Def che Renzi varerà domani sarà diverso dai precedenti solo se conterrà un credibile percorso pluriennale di tagli strutturali della spesa pubblica, come premessa di altrettanti tagli permanenti delle tasse. Non ci possono più essere zone franche. È stato lo stesso Renzi a dirlo, ponendo giustamente anche il tema delle spese militari. Sanità e pensioni sono i principali capitoli di spesa del bilancio. Tutti sappiamo che contengono ampie sacche di spreco. Adesso vanno rimosse.

7 aprile 2014 | 08:38
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DA - http://www.corriere.it/economia/14_aprile_07/sanita-sprechi-l-equita-negata-45bbd342-be13-11e3-955c-9b992d9cbe5b.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Cosa c’è nel Def
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2014, 04:17:15 pm

Cosa c’è nel Def
Non è una legge, ma i numeri devono tornare (anche per la Ue)
Il «Documento di economia e finanza» dal 1988 al 2009) è stato sempre smentito dai fatti. Bruxelles lo commenterà entro l’inizio di giugno
Di Enrico Marro

Nonostante l’attività del ministero dell’Economia sia stata assorbita nelle ultime settimane dalla preparazione del Def, il piano economico triennale, è bene tenere a mente due cose: che il «Documento di economia e finanza» non è una legge e che fin da quando si chiamava Dpef (Documento di programmazione economico finanziaria, dal 1988 al 2009) è stato sempre smentito dai fatti. Le previsioni triennali si sono rivelate spesso sbagliate. In parte è comprensibile perché nessuno ha la sfera di cristallo. In parte dipende dal fatto che è forte la tentazione per i governi di piegare le stime ai propri obiettivi e strategie. Governi che oltretutto spesso impostano un Def che poi lasciano in eredità a esecutivi diversi. Le novità del Documento che oggi Renzi illustrerà al termine del Consiglio dei ministri, dal taglio delle tasse in busta paga alla riduzione della spesa pubblica, dagli investimenti che rilanceranno la crescita all’invio della dichiarazione dei redditi precompilata a casa dei contribuenti, sono ancora una volta solo un insieme di obiettivi che avranno bisogno di singoli provvedimenti di legge per diventare realtà. Nonostante tutti questi limiti, il piano economico del governo italiano, come quello di tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea, verrà trasmesso a Bruxelles dove, entro il 2 giugno, la commissione pubblicherà il giudizio sui singoli piani con le eventuali raccomandazioni che, se adottate dal successivo consiglio europeo del 26-27 giugno, diventeranno vincolanti per i singoli Stati. Una sorta di esame preventivo che, secondo le nuove regole europee, debutta quest’anno con lo scopo di rafforzare il coordinamento delle politiche economiche nell’Ue e che condizionerà la stesura della legge di Stabilità, la manovra 2015, che il governo varerà a settembre. Si spera quindi che, questa volta, il piano sia più aderente alla realtà. Altrimenti sarà inevitabile concludere che sarebbe stato meglio impiegare tutte le energie utilizzate in queste settimane per scrivere subito e bene i provvedimenti di legge tanto attesi.

8 aprile 2014 | 09:19
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_aprile_08/non-legge-ma-numeri-devono-tornare-anche-la-ue-8f480c40-beec-11e3-9575-baed47a7b816.shtml


Titolo: Enrico MARRO - «Il bonus deve restare. Solo così le famiglie tornano a spendere»
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2014, 01:50:23 pm
INTERVISTA AL MINISTRO DELL’ECONOMIA
«Il bonus deve restare. Solo così le famiglie tornano a spendere»
Padoan: «Regioni ed enti locali facciano la loro parte o scatteranno i tagli lineari. Dobbiamo fare presto, la tregua sui mercati durerà poco»
di Enrico Marro

ROMA - «C’è una ripresa dell’economia che è ancora debole ma che si sta pian piano rafforzando. Dare uno stimolo alle famiglie a reddito medio-basso può avere un effetto immediato, che sarà tanto più forte quanto migliori saranno le aspettative - dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan -. Se la fiducia si rafforzerà, allora ci sarà più propensione a spendere piuttosto che a risparmiare. Mi aspetto quindi che sia dal lato delle famiglie che delle imprese, che avranno un taglio dell’Irap del 10%, ci sia una maggiore propensione a spendere e a investire. E quindi una maggiore crescita dell’economia».

Il prodotto interno lordo crescerà nel 2014 più dello 0,8%?
«Credo proprio di sì, anche se non si può stimare di quanto. Il decreto che abbiamo approvato è una componente della strategia di riforme, comprese quelle istituzionali. Penso ci siano le condizioni per un salto di qualità. L’Italia finora ha sofferto di una percezione di qualità mediamente peggiore di quella di altri Paesi. C’è un enorme problema di fiducia nell’Italia. Per questo dobbiamo innanzitutto fare le cose seriamente: riforme strutturali, coperture che garantiscano l’equilibrio finanziario. Fatto questo si può andare in Europa e dire: cerchiamo di essere ragionevoli e avere regole più attente alla crescita e all’occupazione. E questo non lo chiede l’Italia come scusa per una scarsa disciplina finanziaria, ma lo richiedono i fatti e la gente. Veniamo da una recessione cominciata sette anni fa e abbiamo più del 12% di disoccupati. Queste sono le nostre priorità. E dobbiamo fare presto».

Perché?
«Perché lo stato favorevole dei mercati finanziari non durerà in eterno, il ciclo finanziario va verso una fase più restrittiva. I tassi in America riprenderanno a salire e questo ci arriverà addosso. Non abbiamo moltissimo tempo, dobbiamo sfruttare questa finestra di opportunità per fare le riforme e rilanciare l’economia».

Quanto sarebbe costato dare il bonus anche agli «incapienti», quelli con redditi sotto gli 8 mila euro lordi l’anno?
«Almeno un miliardo in più. Ora abbiamo dato una risposta all’obiettivo immediato del presidente del Consiglio di dare 80 euro in più al mese a una fascia di lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi, che noi stimiamo di 10 milioni di persone, che nella recessione hanno subito la decurtazione più forte del potere d’acquisto. Per gli incapienti si interverrà probabilmente con la legge di Stabilità per il 2015, anno in cui ci attendiamo dalla spending review risorse sufficienti non solo per rendere strutturale il bonus 2014, ma anche per intervenire a favore dei redditi fino a 8 mila euro».

Nel 2015 interverrete anche a favore dei pensionati, considerando che quasi la metà prende meno di mille euro al mese? Renzi ha recentemente promesso che nel 2015 provvederà. Conferma?
«Confermo innanzitutto che il bonus contenuto nel decreto deve essere permanente, perché se non è permanente non è credibile e non viene speso. Ovviamente cercheremo di allargare il più possibile la platea, compatibilmente con le risorse. E quindi guarderemo anche ai pensionati a basso reddito».

Ministro, lei non conosceva Renzi prima di entrare nel governo. Che cosa la colpisce di più del premier?
«Sicuramente la grande energia, ma anche la capacità di avere il polso del Paese e di leggere, al di là delle convenzioni, come si può dare più fiducia alla gente. Ha un approccio di estrema concretezza».

Discussioni, escludendo il calcio?
«Più che discussioni, un gioco delle parti. Da una parte la sua grande propensione a trovare soldi per risolvere i problemi della gente e dall’altra la necessità, propria del ministro dell’Economia, di richiamare tutti al vincolo dei conti in ordine».

Com’è andata con i suoi colleghi in consiglio dei ministri?
«La riunione era stata preparata. C’è stata una discussione costruttiva».

Con tutti?
«Se vuole farmi dire che ho litigato con questo o con quell’altro, non è andata così. Ci sono alcuni ministeri che sopportano tagli maggiori nel 2014, come l’Agricoltura e la Difesa. Per gli altri i tagli sono più limitati, ma ciò va interpretato come un incentivo a trovare riduzioni di spesa permanenti per gli anni prossimi, perché questo non è che un processo appena iniziato».

Avete portato dal 12 al 26%, il prelievo sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia possedute dalle banche. Una stangata che secondo le banche sarebbe retroattiva, perché i bilanci sono già chiusi, e con evidenti profili di incostituzionalità.
«C’è stato un confronto molto franco con l’Abi, l’associazione delle banche, che è stato risolto perché si interverrà sulla situazione patrimoniale e non sui bilanci».

Lei sposa in pieno questa rivalutazione delle quote decisa dal governo Letta, che invece secondo alcuni sarebbe un regalo alle banche?
«Non è stato un regalo, ma un aggiustamento delle vecchie quote, che non erano mai state rivalutate, al valore di mercato».

Accanto a una tantum come questa, per finanziare il bonus ci sono i tagli della spesa pubblica. Se non dovessero arrivare i 4,5 miliardi attesi, scatteranno clausole di salvaguardia?
«Sì, ci sono clausole di salvaguardia misura per misura, altrimenti il provvedimento non potrebbe ricevere il visto della Ragioneria generale. Clausole che prevedono, secondo i casi, utilizzo di risorse accantonate per altri fini, tagli lineari, aumenti di imposta».

Sicuro che non scatteranno?
«Noi siamo molto fiduciosi che i tagli di spesa funzioneranno e che ne deriveranno i risparmi attesi».

Nel 2015 i tagli dovranno raddoppiare, come farete?
«Nel 2015 le voci una tantum saranno rimpiazzate da tagli permanenti. Si possono fare molti progressi in particolare sull’efficientamento dell’acquisto di beni e servizi. Il lavoro del commissario per la spending review entrerà in una nuova fase: dopo aver individuato cosa aggredire nella spesa dovrà occuparsi dei meccanismi perché a tutti i livelli si spenda meglio».

Anche a livello decentrato, dove i precedenti tentativi sono falliti?
«Sì. Anche Regioni ed enti locali dovranno fare la loro parte in egual misura che lo Stato, con meccanismi che premieranno chi spende meglio e penalizzeranno chi spende peggio. Sia i ministeri sia le autonomie locali hanno libertà su come tagliare nel 2014 i 700 milioni previsti, ma se non lo faranno scatteranno i tagli lineari».

Riuscirete a far vendere le municipalizzate in perdita?
«Le municipalizzate sono troppe. Ci vuole un processo di efficientamento assistito da meccanismi di incentivo e disincentivo. Dobbiamo gestire molto meglio questa materia, come anche credo che molte risorse possano venire dalla dismissione del patrimonio immobiliare. È un tema che sarà nella mia agenda molto presto».

Sulla sanità niente tagli?
«Non ci sono tagli specifici, ma è anche vero che le Regioni possono tagliare voci di spesa sanitaria per ridurre gli sprechi».

Ministro, nonostante il bonus e il taglio dell’Irap, l’Italia resterà ai vertici internazionali del prelievo fiscale. Quando riusciremo a perdere questo primato?
«Intanto cominciamo a ridurre il cuneo fiscale, che è particolarmente alto. Poi attueremo la delega fiscale. Avremo un significativo aumento della base imponibile e del gettito. A quel punto ci sarà un abbattimento del prelievo individuale perché spalmeremo il maggior gettito su una platea più ampia. Ci saranno risultati importanti nella lotta all’evasione».

Da diversi anni non si recuperano più di 12-13 miliardi l’anno su un gettito evaso di 120 miliardi. Perché dovremmo credere alla svolta?
«Nel 2015 prevediamo di aumentare di 3 miliardi il recupero dell’evasione. È possibile con una strategia modulare che riguarderà vari aspetti, dalla trasparenza alla lotta alla criminalità tributaria all’incrocio fra le banche dati. Sulla base dell’esperienza di altri Paesi, posso dire che i risultati maggiori si hanno modernizzando l’amministrazione tributaria, cambiando il rapporto fiduciario coi contribuenti».

Che ne pensa del contrasto d’interessi. La possibilità, per esempio, di detrarre la ricevuta dell’idraulico?
«Che se si stabilisce un rapporto nuovo tra Fisco e contribuente, ciò determina un cambiamento dei comportamenti. A quel punto non servirà il contrasto d’interessi, il livello di compliance, di fedeltà fiscale, aumenterà automaticamente. Io ho vissuto a lungo in Francia, dove il rapporto col Fisco è appunto molto diverso che da noi: l’idea di evadere o eludere è molto lontana dal modo di pensare della gente normale. In un Paese ad alta evasione come il nostro non è così. È questo che dobbiamo cambiare. Non si fa da un giorno all’altro, ma è il nostro obiettivo. Quindi: amministrazione trasparente, non vessatoria, più efficiente, usando le nuove tecnologie».

Anche con l’invio a casa della dichiarazione dei redditi precompilata?
«Sì. Cominceremo con i dipendenti pubblici e i pensionati, nel 2015».

Ministro, la manovra è soggetta al via libera della commissione europea, che lei ha informato del rinvio del pareggio strutturale di bilancio al 2016. Se il parere fosse negativo?
«La commissione ci darà un parere a maggio, dopo le sue previsioni economiche. Penso ci siano ragioni molto valide, sia in termini di eventi eccezionali sia di intensità delle riforme strutturali, per giustificare un leggero rallentamento del percorso di rientro. Aggiungo che molti Paesi sono ancora nella zona di deficit eccessivo dalla quale l’Italia è uscita. Se il nostro Paese non avesse il debito che ha, la nostra posizione fiscale sarebbe di gran lunga una delle più solide della zona euro. La riduzione del debito è essenzialmente un problema di crescita».

Glielo chiedo anche da economista. Un po’ di inflazione farebbe bene all’Italia?
«Se l’inflazione obiettivo per la zona euro, cioè il 2%, fosse effettivamente raggiunta, staremmo meglio tutti».

20 aprile 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_aprile_20/bonus-deve-restare-solo-cosi-famiglie-tornano-spendere-506cfa40-c850-11e3-bf3a-6dacbd42b809.shtml


Titolo: Enrico MARRO - quattro regole d'oro per investire i propri risparmi senza ansie
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 05:53:35 pm
Le quattro regole d'oro per investire i propri risparmi senza ansie né rimorsi
Sia che ci si affidi a professionisti che si ricorra al fai-da-te, investire i propri risparmi comporta scelte molto importanti.
Dietro alle quali ci vogliono poche ma ferree regole. Vediamo quali sono secondo alcuni gestori i rischi da non sottovalutare

di Enrico Marro

1. Regole d'oro per investire / Individua il tuo profilo di rischio
Primo punto fondamentale, necessario prima di iniziare a investire, è quello legato alle tue caratteristiche. Quali sono i tuoi obiettivi di investimento? Qual è la tua propensione al rischio, quale il tuo livello di conoscenza degli strumenti, quale il tuo reddito presente e futuro? E soprattutto, quali sono le tue esigenze future? «Tutte queste informazioni consentono di capire il cliente e soprattutto di delineare un identikit di investitore/risparmiatore necessario a costruire un portafoglio in linea con le sue caratteristiche oggettive», spiega Gabriele Roghi, responsabile della consulenza agli investimenti di Invest Banca.
«Il rischio va considerato come fattore centrale della propria asset allocation – fa eco Antonio Bottillo, ad per l'Italia di Natixis Global AM - : è importante utilizzare parametri di misurazione del rischio come input primari per definire un obiettivo in termini di rischiosità anziché in termini di rendimento, in modo da conferire maggior stabilità al portafoglio».

2. Regole d'oro per investire / Scegli obiettivi e orizzonte temporale
Più è lungo l'orizzonte temporale, più elevato è il grado di rischio che si è in grado di sopportare. «Questo deriva dalla considerazione che asset class con maggiore rendimento atteso hanno anche una volatilità più elevata – spiega ancora Roghi - . Se sono disposto a "restare investito" per molto tempo, ho una buona probabilità di tornare a guadagnare anche se ho la sventura di iniziare a investire ai massimi di mercato (ad esempio lo S&P500 dal massimo del 2007 è tornato su nuovi massimi nel 2013)».
In ogni caso, come puntualizza Davide Pasquali, presidente di Pharus Sicav, «chi investe generalmente punta sul lungo periodo e deve evitare di andare in ansia ogni qualvolta ci sia un po' volatilità sul mercato».
Mai lasciarsi distogliere quindi da eventi di mercato di breve periodo, insomma. «E' necessario riuscire a costruire portafogli che consentano di rimanere protagonisti delle proprie decisioni d'investimento al fine di raggiungere obiettivi di lungo periodo», sottolinea dal canto suo Bottillo. Investire è infatti un processo continuativo che dura tutta la vita attraverso varie tappe: acquistare una casa, provvedere all'educazione dei propri figli, garantirsi adeguate risorse finanziarie per il proprio pensionamento. I risparmiatori dovrebbero partire nel loro orizzonte temporale proprio da questi obiettivi.

3. Regole d'oro per investire / Non diversificare è un errore grave
Massimizzare la diversificazione è indispensabile, non solo a livello geografico e settoriale, ma anche tra diverse asset class e tipologie di investimento, spiega l'ad per l'Italia di Natixis Global AM.
«La diversificazione geografica è quella forse a cui prestare maggiore attenzione al momento – continua Roghi - . È strategica per suddividere il rischio di mercato, di politica monetaria, fiscale, valutario e geopolitico che sembra essere tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni e che è probabilmente destinato a rivestire una crescente importanza per le politiche di investimento».

4. Regole d'oro per investire / Tieni sempre sotto controllo il rischio
«Non permettere mai che un investimento possa diventare una perdita: usa quindi delle tecniche di stop loss, di "taglio" delle perdite – spiega Davide Pasquali, presidente di Pharus Sicav - . Ed evita di fare medie al ribasso: il più delle volte sono controproducenti e portano alla rovina se non si è in grado di valutare bene l'investimento». Cogliere i primi sintomi di debolezza di un titolo o di un mercato è fondamentale, fa eco Roghi di Invest Banca, ma va associato a una serie di regole ferree di gestione della posizione che debbono essere superiori alle idee e alle propensioni del risparmiatore. «Anche se credo in un titolo in modo forte (perché i dati sono buoni, il business è sano ed il titolo deve salire) ma, al contrario, questo scende, allora deve esserci una procedura di uscita che sopravanzi questi sentimenti-idee. Lo stop loss è un modo semplice e oggettivo per fare un opportuno controllo del rischio».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-15/regole-d-oro-investire-1-individua-tuo-profilo-rischio-180655.shtml?uuid=ABblRGBB&nmll=2707#navigation


Titolo: Enrico MARRO - L'Europa prepara le banche all'Apocalisse: ...
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2014, 07:36:04 pm
L'Europa prepara le banche all'Apocalisse: in Italia dovranno poter reggere un crollo di Borsa del 58%, con il Pil a -6% e la disoccupazione alle stelle
Negli stress test che l'Autorità bancaria europea effettuerà sugli istituti di credito (dopo la verifica degli attivi da parte della Bce) c'è anche uno scenario avverso che prevede una nuova crisi finanziaria mondiale. Con pesanti ripercussioni anche per il nostro Paese. Vediamo quali

Di Enrico Marro

1. Scenario apocalittico per gli stress test / Spread alle stelle, i BTp tornano al 6%

Alla base dello scenario peggiore ipotizzato dall'Eba c'è un incremento di 100 punti base dei T-Bond americani, con una graduale accelerazione sino a 250 punti base entro la fine di quest'anno. La conseguenza è una vampata di avversione del rischio, che porta a un'impennata dei rendimenti dei bond e a un deterioramento della qualità del credito. Nell'ipotesi di un incremento del rendimento dei T-Bond americani di 150 punti base, i tassi dei BTp salirebbero quest'anno al 5,9% (contro il 3,9% dello scenario base), al 5,6% nel 2015 (da 4,1%) e al 5,8% nel 2016 (da 4,3%). Lo spread con i Bund tornerebbe a circa 300 punti base. Livelli comunque inferiori a quelli toccati il 9 novembre 2011, il "mercoledì nero" dello spread a quota 575, quando i BoT a 12 mesi avevano toccato il 7%, i biennali il 7,5% e i decennali oltre il 7,48% (con l'inversione della curva dei rendimenti tra titoli a 2 e a 10 anni).


2. Scenario apocalittico per gli stress test / Il crollo di Piazza Affari

Nello scenario peggiore, quello appunto che porta a un'ondata generalizzata di panico e di "flight to quality", per Piazza Affari l'Eba prevede un crollo del 20,3% nel 2014, del 17,7% nel 2015 e del 20,4% nel 2016, non lontano dai cali medi ipotizzati nell'intera Eurozona (rispettivamente -18,3%, -15,9% e -18,1%). L'Italia farebbe peggio della media di Eurolandia anche per le conseguenze dello stallo generalizzato del processo di riforme, che metterebbe a repentaglio la sostenibilità delle finanze pubbliche.

3. Scenario apocalittico per gli stress test / L'Italia torna in pesante recessione
Lo scenario peggiore ipotizzato dagli stress test vede per l'Italia un triennio di Pil in calo con una deviazione del 6,1% rispetto allo scenario di base. Il Pil (che nella realtà è appena tornato positivo) tornerebbe a calare dello 0,9% quest'anno, dell'1,6% il prossimo e dello 0,7% nel 2016 anziché mettere a segno una crescita stimata rispettivamente nello 0,6%, nell'1,2% e nell'1,3%. Lo shock finanziario – spiega infatti la simulazione dell'Eba – avrebbe una pesante ricaduta anche sull'economia reale, con fuga di capitali dai Paesi emergenti e calo degli scambi commerciali con l'Europa.

4. Scenario apocalittico per gli stress test / Disoccupazione alle stelle, deflazione strisciante
La pesante recessione porterebbe a un nuovo aumento della disoccupazione italiana, che crescerebbe rapidamente fino a toccare il 14,4% nel 2016 (contro stime di un calo al 12%). Male anche l'occupazione nel resto dell'Eurozona, che nello scenario apocalittico arriverebbe al 13% nel 2016. Giù anche l'inflazione, con l'Italia che nel 2016 registrerebbe un costo della vita medio dello 0,6% (anziché l'1,8% stimato) e alcuni Paesi della Ue in pesante deflazione, in particolare Svezia, Repubblica Ceca e Slovacchia.

5. Scenario apocalittico per gli stress test / Per il mattone caduta meno rovinosa
Naturalmente lo scenario peggiore ipotizzato dall'Autorità bancaria europea prevede anche un ulteriore crollo del mattone. Anche se secondo l'Eba l'Italia registrerebbe una maggiore tenuta rispetto alla media di Eurolandia, almeno sui prezzi degli immobili residenziali. Il calo sarebbe infatti del 3,3% nel 2014 e del 5,2% nel biennio successivo contro una discesa nella zona euro del 6,9% nel 2014 e dell'11% in entrambi gli anni successivi.

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DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-29/scenario-apocalittico-gli-stress-test-spread-stelle-btp-tornano-6percento-185848.shtml?uuid=ABcooeEB&nmll=2707


Titolo: Enrico MARRO - FRETTA NECESSARIA, CAUTELA LEGISLATIVA Come muoversi in una ...
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2014, 10:43:11 pm
FRETTA NECESSARIA, CAUTELA LEGISLATIVA
Come muoversi in una giungla

Di ENRICO MARRO

Il 30 aprile, Matteo Renzi, annunciando la riforma della pubblica amministrazione, aveva detto: «Preferirei fare un disegno di legge ed evitare il decreto». Invece ieri in Consiglio dei ministri è entrata una bozza di un decreto monstre di circa 120 articoli. Un centinaio di pagine di testo. Un provvedimento omnibus : dalle misure sulla staffetta generazionale nel pubblico impiego alle incompatibilità per i magistrati; dalle semplificazioni fiscali alle norme anticorruzione; dall’informatizzazione del processo civile alla detassazione degli investimenti in azienda; dalle norme in materia di tutela ambientale alle «disposizioni per il rilancio del settore vitivinicolo». Alla fine, opportunamente, questa montagna di articoli è stata distribuita su due decreti legge. Il grosso delle 44 proposte per la riforma della pubblica amministrazione annunciate a suo tempo è finito invece in un disegno di legge delega. Pare che a far cambiare idea al premier sia stata la consapevolezza che il Consiglio dei ministri di ieri fosse l’ultimo utile per impacchettare dei decreti che abbiano la possibilità di essere convertiti da Camera e Senato in legge prima che le due Camere chiudano per le ferie estive. Gli osservatori e gli investitori internazionali, ha detto ieri Renzi, vogliono vedere se le riforme vanno avanti, e quindi la decretazione d’urgenza è necessaria.

A far pendere invece la bilancia della riforma della pubblica amministrazione verso il disegno di legge delega è stata la presa d’atto delle difficoltà di riorganizzare dalla sera alla mattina la macchina dello Stato e forse anche il calcolo che una delega lascia più ampi margini di azione al governo rispetto a un decreto o a un disegno di legge puntuale sul quale le resistenze trasversali in Parlamento si sarebbero organizzate più facilmente. Certo, a questo punto, i tempi della riforma della pubblica amministrazione, come già quelli del mercato del lavoro, si allungano: per i primi decreti di attuazione bisognerà aspettare il 2015, compreso per gli stipendi dei dirigenti legati al merito e per il taglio dell’1% della spesa di ciascuna amministrazione. Meno male che in uno dei decreti è finita l’abolizione del «trattenimento in servizio», l’istituto che permette agli statali di restare al lavoro anche dopo aver raggiunto l’età di pensione. Una decisione indebolita però dalla deroga strappata dai magistrati, che ancora per un po’ potranno post-pensionarsi. Con la fine del trattenimento in servizio si libereranno nei prossimi 3 anni 15 mila posti che saranno in parte coperti da giovani, assicura il governo. Forse si tratta di una stima ottimistica, come anche la previsione di riuscire a spostare i dipendenti pubblici entro un raggio di 50 km senza che ciò scateni un mare di contenziosi. C’è invece da sperare che risulti azzeccata la previsione di un risparmio di due miliardi per le imprese grazie al decreto che taglia le bollette elettriche e il costo d’iscrizione alle camere di commercio.

Si avverte, in quanto è successo ieri, tutta la difficoltà del governo Renzi di tradurre rapidamente in leggi, in un sistema come il nostro, i provvedimenti messi a punto. Il bicameralismo perfetto, in questo senso, mal si concilia con il ritmo dell’esecutivo, con la necessità di convincere i mercati e i partner europei che le riforme si stanno facendo, anche per dare forza al semestre italiano di presidenza dell’Ue che partirà il primo luglio. A complicare tutto c’è poi un problema innegabile tra il premier e una parte dei parlamentari del Pd, soprattutto al Senato, che continueranno, non solo sulle riforme istituzionali, a mettersi di traverso. Renzi lo sa e per questo ha fretta. Una fretta necessaria per riforme che attendono da troppo tempo.

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14 giugno 2014 | 08:13

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_14/come-muoversi-una-giungla-d5707be0-f384-11e3-9746-4bf51e9b4d98.shtml


Titolo: Enrico MARRO - I costi della politica Parlamento senza tetto agli stipendi
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2014, 11:58:54 am
I costi della politica

Parlamento senza tetto agli stipendi Bisogna trattare con 25 sindacati
Il percorso a ostacoli per applicare il limite di 240 mila euro


Di Enrico Marro

ROMA - L’altro ieri l’ufficio di presidenza della Camera ha approvato il bilancio pluriennale 2014-16 che verrà portato all’esame dell’aula il 21 luglio. Le spese di Montecitorio, assicura un comunicato, diminuiranno di 138 milioni in due anni. Un piccolo segnale rispetto al totale delle spese di funzionamento della Camera che ammonta a circa un miliardo l’anno. Segnale al quale tra l’altro non contribuisce, almeno per ora, il tetto di 240 mila euro lordi alle retribuzioni, già in vigore da maggio per tutti i dirigenti pubblici in virtù del decreto legge 66 del governo, ma che alla Camera, come al Senato, non può essere applicato. Affinché il tetto sia valido anche per i dirigenti del Parlamento, che nelle posizioni di vertice guadagnano il doppio, c’è infatti bisogno di una autonoma decisione delle camere, che arriverà però solo dopo una trattativa con i sindacati. I quali, incredibile ma vero, sono 25: 11 alla Camera per circa 1.400 dipendenti (una sigla ogni 127 lavoratori) e 14 al Senato per 820 dipendenti (una organizzazione ogni 58 addetti).

Il nodo degli oneri previdenziali
Questa mission impossibile è affidata alla Camera al «Cap», il Comitato per gli affari del personale guidato dalla vicepresidente Marina Sereni (Pd), e al Senato alla «Rappresentanza permanente» diretta dalla vicepresidente Valeria Fedeli, anche lei del Pd. Entrambe vorrebbero procedere insieme e chiudere la partita prima delle ferie d’agosto, ma al momento non esiste neppure la proposta da presentare ai sindacati. I due uffici, nei quali sono presenti parlamentari della maggioranza e dell’opposizione, si sono riuniti due volte, l’ultima l’altro ieri, ma senza trovare un accordo. Si fronteggiano infatti due posizioni: una, maggioritaria, che vorrebbe sì il tetto di 240mila euro, ma al netto degli oneri previdenziali e di indennità varie; l’altra, del Movimento 5 stelle, per il quale «il tetto deve essere onnicomprensivo, altrimenti si realizza un aggiramento dello stesso», dice Riccardo Fraccaro membro del Cap. Basti pensare che gli oneri previdenziali valgono da soli più di 71 mila euro l’anno per il segretario generale della Camera e più di 40mila euro per la metà dei consiglieri.

Clima di rivolta tra i dipendenti
Ma, al di là della difficoltà di arrivare a una proposta da presentare ai sindacati, il problema è che l’applicazione del tetto comporterebbe un taglio forte, in alcuni casi fortissimo, della retribuzione di almeno il 40% del personale. Non si può infatti applicare semplicemente il limite dei 240mila euro (che pure colpirebbe 88 consiglieri solo alla Camera) senza riparametrare tutte le fasce stipendiali. Altrimenti si avrebbe il paradosso che il vertice, cioè il segretario generale, prenderebbe quanto un documentarista o un tecnico ragioniere. Quindi, per mantenere le giuste proporzioni, se il segretario generale, che oggi prende circa 480 mila euro lordi, dovesse scendere a 240 mila, dovrebbero essere messi dei tetti a scalare per le qualifiche inferiori. Il clima tra i dipendenti rasenta la rivolta. Chi può, nel caso passassero i tagli, avrebbe convenienza ad andare in pensione: prenderebbe di più, visto che sulle pensioni almeno per ora non si parla di tetti e considerando che i lavoratori più anziani godono ancora di età di accesso al pensionamento anticipato e di regole di calcolo dell’assegno estremamente favorevoli.

I privilegi <dell’autodichia>
Ma perché quello che il governo ha stabilito con l’articolo 13 del decreto 66, cioè il tetto di 240mila euro lordi non può essere applicato a Camera e Senato? Perché il Parlamento gode della «autodichia», conseguenza dell’articolo 64 della Costituzione. L’autodichia significa che le Camere hanno una giurisdizione riservata sullo status giuridico ed economico dei propri dipendenti, che viene quindi definito attraverso atti interni, non modificabili dalla legge. L’istituto, nato per garantire l’indipendenza del Parlamento, ha tuttavia dato luogo a un insieme di trattamenti retributivi e pensionistici privilegiati. Di recente sull’autodichia si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 120 (pubblicata lo scorso 14 maggio sulla Gazzetta ufficiale) redatta da Giuliano Amato. Il caso riguardava un dipendente del Senato che in una controversia di lavoro voleva essere giudicato dalla magistratura ordinaria anziché dagli organi interni di Palazzo Madama e chiedeva quindi fosse dichiarata l’incostituzionalità dell’autodichia. Amato ha respinto la richiesta, ma solo per un fatto formale, cioè perché la Corte non è competente ad esprimersi sui regolamenti parlamentari in quanto non sono leggi. Il «dottor Sottile», tra le righe, ha però suggerito una via d’uscita al governo. Che se davvero volesse mettere in discussione il raggio d’azione dell’autodichia potrebbe sollevare «un conflitto di attribuzione» contestando che i regolamenti parlamentari possano disciplinare anche i rapporti di lavoro (in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna infatti non è così, osserva Amato). In quel caso, conclude la sentenza, la Corte potrebbe «ristabilire il confine tra i poteri». Chissà che non debba finire così.

28 giugno 2014 | 07:02
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_28/parlamento-senza-tetto-stipendi-bisogna-trattare-25-sindacati-9ae72d78-fe80-11e3-8a2a-88aba4066e9e.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Articolo 18: via il tabù, ma nella realtà per i giovani già ...
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 06:53:35 pm
L’analisi

Articolo 18: via il tabù, ma nella realtà per i giovani già non vale
I difensori dell’articolo 18 ritengono che togliendolo verrebbe meno una tutela fondamentale.
I contrari osservano che esso non può essere un diritto


Di Enrico Marro

Articolo 18, ci risiamo. Si può anche pensare che dietro la richiesta del Nuovo centrodestra di eliminarlo per i «nuovi assunti» ci sia la necessità di Angelino Alfano di dare più visibilità al suo partito. Sbaglierebbe però il governo a non affrontare una seria discussione sul tema. Non solo perché Ncd fa parte della maggioranza. Ma soprattutto perché la Regolamentazione dei licenziamenti non è stata risolta al meglio dalla riforma Fornero del 2012, che pure ha avuto il merito di affrontare per prima il tabù. Ma è sfociata in un groviglio di norme di difficile interpretazione e ad alto rischio di contenzioso, fonte di incertezza sia per le imprese sia per i lavoratori.

La materia è controversa, lo sappiamo. I difensori dell’articolo 18 ritengono che togliendolo verrebbe meno una tutela fondamentale per i lavoratori contro eventuali soprusi del datore di lavoro, aprendo scenari di precarizzazione di massa, con effetti negativi sull’economia. E sostengono che le aziende non assumono perché possono licenziare, ma solo se la domanda tira. I contrari all’articolo 18, invece, osservano che esso non può essere un diritto fondamentale se protegge meno di 10 milioni di lavoratori e ne lascia fuori altri 7 milioni (quelli delle aziende fino a 15 dipendenti e quelli con contratto a termine). E sono convinti che l’eliminazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro (tranne che nei licenziamenti discriminatori) spingerebbe le aziende ad assumere di più e migliorerebbe la produttività attraverso un effetto deterrenza su lavativi, assenteisti e imboscati. A quest’ultimo argomento i difensori dello Statuto oppongono la tesi che la produttività aumenta formando e fidelizzando i lavoratori. I contrari ribattono che le aziende comunque non si priverebbero dei lavoratori bravi sui quali hanno investito.

Sarebbe bene però che il dibattito circoscrivesse con esattezza l’oggetto del contendere. Oggi, oltre che per i lavoratori delle piccole imprese, l’articolo 18 non esiste più di fatto neppure per i giovani, i «nuovi assunti» di cui parla Alfano. I quali, dopo il decreto Poletti, possono essere assunti dalle aziende liberamente (cioè senza indicare la causale) con contratti a termine fino a tre anni ed eventualmente essere rinnovati. Già prima del decreto, solo il 16% dei rapporti di lavoro attivati avveniva con contratto a tempo indeterminato (di questi quelli coperti con l’articolo 18 sono solo quelli nelle aziende con più di 15 dipendenti).

Eliminare solo per «i nuovi assunti» l’articolo 18 può dunque significare solo che essi sarebbero licenziabili anche a regime, cioè pure quando conquistassero un contratto a tempo indeterminato in una media o grande azienda.

Non si farebbe in questo caso che approfondire il solco tra insiders e outsiders, garantiti (i vecchi lavoratori) e non garantiti (i nuovi). Anche nel lavoro, dopo che è già successo nella previdenza. Se invece si vuole togliere l’articolo 18 per tutti, è bene dirlo. Ci sono molti argomenti per farlo. Senza ipocrisie. E senza farsi scudo, ancora una volta, dei giovani.

12 agosto 2014 | 09:58
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_agosto_12/via-tabu-ma-realta-giovani-gia-non-vale-18c90218-21e8-11e4-81f2-200d3848d166.shtml


Titolo: Enrico MARRO - La lettera della Bce che cambiò l’Italia
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 06:58:53 pm
LE RICHIESTE

La lettera della Bce che cambiò l’Italia
Il 5 agosto 2011 il presidente dell’Eurotower Trichet e il governatore di Bankitalia Mario Draghi inviano una missiva al governo di Silvio Berlusconi.
Il bilancio tre anni dopo

di Enrico Marro

Una stangata dietro l’altra. Ma non bastava mai. Lo spread continuava a salire e le agenzie di rating ci declassavano, a segnalare che i mercati perdevano fiducia sulla capacità dell’Italia di onorare il suo debito pubblico. Il commissariamento da parte della troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Commissione europea) sembrava imminente. Un’estate da dimenticare, quella del 2011. Per l’Italia, ma anche per l’Europa che non poteva sopportare un eventuale default del nostro Paese: too big to fail, troppo grande per fallire. Si mossero in molti per evitarlo.

Ma ciò che risultò decisivo per la politica economica, e non solo, dell’Italia fu la lettera «strettamente confidenziale» al governo di Roma firmata il 5 agosto, esattamente tre anni fa, dall’allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet e dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che nemmeno tre mesi dopo sarebbe succeduto allo stesso Trichet. La missiva si apriva con un «Caro Primo Ministro», allora Silvio Berlusconi. Il contenuto rimase segreto fino al 29 settembre quando, con uno scoop di Mario Sensini, il Corriere della Sera rese la lettera integralmente nota. Si capì allora che il decreto legge approvato dal consiglio dei ministri il 13 agosto, una manovra bis da 65 miliardi che si sommava a quella da 80 miliardi decisa appena un mese prima, era stata scritta sotto dettatura della Bce. Nella forma, una decreto appunto, come chiedevano esplicitamente Trichet e Draghi, e nei contenuti: l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013, anziché il 2014. Ma le misure contenute nelle due manovre dell’estate 2011 non esaurivano le richieste della banca centrale. Tanto è vero che anche la legge di Stabilità e il decreto legge 201, che il nuovo presidente del Consiglio Mario Monti ribattezzò «Salva Italia», non facevano che attuare altre parti di quel dettagliato elenco di richieste contenuto nella lettera. Elenco mai esaurito. E che ancora oggi divide. Da una parte i fautori della sua piena applicazione. Dall’altra chi si oppone con l’argomento che si tratta di una ricetta che produce solo recessione. Vediamo meglio. Le due cartelle firmate da Trichet e Draghi si suddividono in tre capitoli. Il primo sulle misure per «accrescere il potenziale di crescita», il secondo su quelle per «assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche» e il terzo su come migliorare l’amministrazione pubblica.

Nel primo capitolo si chiedono tre interventi urgenti: la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali», in particolare nella «fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala»; la riforma dei contratti di lavoro per rendere i contratti aziendali «più rilevanti» rispetto a quelli nazionali; la riforma dei licenziamenti accompagnata da un sistema di assicurazione sulla disoccupazione e di ricollocamento al lavoro. Nessuna di queste richieste è stata esaudita. Disboscare la giungla delle oltre 7 mila società partecipate da Regioni, province e comuni che insieme perdono 2,2 miliardi all’anno si è rivelata un’impresa. Che da ultimo sta impegnando, ma solo a livello di proposte, il commissario per la revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli. Il sistema contrattuale è ancora centrato sui contratti nazionali. Il nodo dei licenziamenti non è stato sciolto. La riforma del mercato del lavoro Fornero ha modificato l’articolo 18 con una normativa complicata mentre un’indennità di disoccupazione universale e nuove politiche attive sono affidate a un ennesimo disegno di legge delega presentato dall’attuale ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, lontano dall’essere approvato in Parlamento.

Anche nel secondo capitolo si sollecitano tre misure: una manovra bis per anticipare il pareggio di bilancio al 2013, «principalmente attraverso tagli di spesa», in particolare sulle pensioni e sul pubblico impiego, «se necessario riducendo gli stipendi»; l’introduzione di una «clausola di riduzione automatica del deficit»; la messa «sotto stretto controllo» dell’indebitamento delle Regioni e degli enti locali anche con «una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio». Questo pacchetto di richieste è stato in parte rispettato. La riforma delle pensioni Fornero è andata forse oltre le richieste della stessa lettera (stretta sulle anzianità, sull’età pensionabile delle donne) al punto che oggi si discute di come ammorbidirla. Le retribuzioni pubbliche sono state bloccate e quelle alte tagliate. Di clausole di salvaguardia sono disseminate tutte le manovre di aggiustamento dei conti dal 2011 in poi. Il pareggio di bilancio è stato messo nella Costituzione. Eppure nonostante ciò lo stesso pareggio, di governo in governo, è slittato al 2016. Forse aver attuato soprattutto le misure di rigore trascurando quelle per la crescita ha accentuato la recessione.

Il terzo capitolo, sinteticamente, invoca una «revisione dell’amministrazione pubblica», superando tra l’altro le province. Quest’ultima cosa è diventata legge lo scorso aprile mentre la riforma della Pa sta muovendo ora i primi passi, con il decreto e la delega Madia. Un’ulteriore dimostrazione che si rispose alla lettera innanzitutto con i tagli (pensioni e pubblico impiego) mentre il resto finì in secondo piano.

5 agosto 2014 | 11:33
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Da -http://www.corriere.it/economia/14_agosto_05/lettera-bce-che-cambio-l-italia-90b428ae-1c82-11e4-af0c-e165f39759ba.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Il realismo dei conti e il primo taglio lineare
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:40:33 pm
L’analisi
Il realismo dei conti e il primo taglio lineare

Di ENRICO MARRO

La notizia che i contratti pubblici, già bloccati per legge dal 2010, rischiavano di restare fermi ancora qualche anno fu data dai giornali per la prima volta il 10 aprile scorso. Bastava leggere il Def, il Documento di economia e finanza appena approvato dal governo Renzi, per leggere, a pagina 34 della sezione II, che la spesa per i dipendenti pubblici (164 miliardi di euro nel 2013) aumenterà dello 0,3% ma solo «nel 2018 in ragione della nuova indennità di vacanza contrattuale relativa al triennio 2018-2020». Ma se si prevede di pagare tale indennità (che recupera il 50% dell’inflazione) è perché, fino a quella data, non si ha in programma di rinnovare i contratti di lavoro. Il ministero dell’Economia reagì stizzito a questa interpretazione con un comunicato dove assicurava che «le notizie apparse sulla stampa non hanno alcun fondamento» e spiegava che le previsioni del Def «sono elaborate sulla base della legislazione vigente» che al momento non autorizzava il rinnovo dei contratti bloccati dal 2010. L’ipotesi di una proroga del blocco è circolata sui giornali una seconda volta il mese scorso, ma è stata liquidata, insieme con altre, da Renzi in persona con un tweet: «I giornali di agosto sono pieni di progetti segreti del governo. Talmente segreti che non li conosce nemmeno il governo».

Poi, l’altro ieri, improvvisamente, il sottosegretario alla Pubblica amministrazione, Angelo Rughetti, ha ammesso: «Non si può dare tutto a tutti. Se il Def non cambia con la nota di aggiornamento, lo stop ai contratti resta». Appunto. E ieri il ministro Marianna Madia, che pure aveva fatto spallucce alle indiscrezioni giornalistiche di agosto, ha confermato: «In questo momento le risorse per sbloccare i contratti non ci sono». Lo Stato risparmierà così almeno 2,1 miliardi solo nel 2015.

Raccontare come si è svolta la vicenda è utile. Perché essa è paradigmatica di come alla fine anche il governo Renzi debba fare i conti con la dura realtà. È evidente che, nonostante l’ottimismo per tanti versi meritorio del presidente del Consiglio, la coperta è sempre più corta. E non è questione di essere gufi.

Ieri Renzi ha promesso che taglierà di 20 miliardi la spesa pubblica nel 2015. Se 2,1 miliardi verranno solo dal blocco dei contratti pubblici, dovrebbe ammettere che aveva ragione chi faceva osservare che non si possono fare tagli così importanti senza toccare le tre voci principali di spesa: pensioni, sanità e pubblico impiego appunto. Infatti, tanto per fare un esempio, dalla riduzione o «aggregazione» (come preferisce Renzi) delle municipalizzate si potrebbero al più risparmiare 500 milioni nel 2015, secondo stime dello stesso governo. Infine, che cos’è la proroga del blocco dei contratti pubblici se non un taglio lineare? Proprio quelli che il governo aveva promesso di non fare. Quanti altri ce ne saranno nella “nuova” Spending review?

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4 settembre 2014 | 09:46

Da - http://www.corriere.it/economia/14_settembre_04/realismo-conti-primo-taglio-lineare-3f5c425e-33f5-11e4-a3ec-50d128513f28.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Compreso il rischio Italia.
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:34:30 pm
Dopo il crollo di Borsa: ecco perché Draghi non riesce più a incantare i mercati (e cosa ci aspetta)
All'indomani del giovedì nero di Piazza Affari, il “tocco magico” del banchiere centrale sembra svanito.
Mentre sui mercati sta tornando un clima di avversione al rischio. Compreso il rischio Italia.
Ecco che cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi

di Enrico Marro

1. Draghi e le Borse / Perché il crollo di ieri
    Garanzia dello Stato sui titoli Abs
Il giovedì nero di Piazza Affari e degli altri indici nasce dalla delusione dei mercati. Di fronte ai brutti dati delle ultime settimane su crescita e inflazione europea, le Borse (viziate dalle recenti magie di Draghi) avevano fantasticato su una Bce più proattiva, in grado di stupirli ancora una volta con qualche coniglio spuntato dal cappello. Non ancora l'acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale, ma un segnale concreto di una Bce vagamente più all'americana che alla tedesca. Ma superMario stavolta è rimasto alla finestra. Prima di fare nuove mosse deve – giustamente - valutare gli effetti di quelle (e non sono poche, in termini Bce) compiute negli ultimi mesi. Questa volta non ha fatto magie. Ma negli ultimi mesi aveva stupito più volte i mercati. Vediamo come.

2. Draghi e le Borse / La zampata di settembre
Il mese scorso superMario era riuscito ancora una volta a sbalordire i mercati, tagliando a sorpresa i tassi di 10 punti base. E' stata l'ultima cartuccia sparata (almeno per ora) dall'Eurotower, preoccupata dai pessimi dati sulla crescita economica dell'eurozona e dallo spettro sempre più inquietante di una “sindrome giapponese” nel Vecchio continente. In un'Italia in recessione e deflazione, Piazza Affari aveva festeggiato l'ultima inaspettata zampata di Draghi con un rotondo +2,82%. Ma la vera magia era arrivata tre mesi prima.

3 Draghi e le Borse / Il bazooka di giugno
E' stato nel famoso consiglio direttivo del 5 giugno scorso che SuperMario è riuscito davvero a incantare le Borse. Draghi nell'occasione aveva sfoderato un arsenale fatto di tassi negativi sui depositi (per la prima volta nella storia della Bce) e di acquisto degli Abs, i titoli obbligazionari che “impacchettano” prestiti a private e imprese, oltre a mettere in campo le operazioni mirate di rifinanziamento alle banche (le Tltro). Piazza Affari aveva festeggiato per qualche giorno, ma l'effetto Draghi si è visto soprattutto sull'euro, che ha iniziato a precipitare contro il dollaro perdendo in tre mesi circa il 10%. E aiutando in questo modo l'export europeo. Una delle magie più efficaci del numero uno di Francoforte, seconda solo all’ormai mitico “whatever it takes”.

4. Draghi e le Borse / Il «whatever it takes» olimpico
Lo zenith dell'abilità manovriera di superMario risale però all'ormai storico 26 luglio 2012. Alla vigilia delle olimpiadi di Londra, con un mercato che da mesi scommetteva sulla disgregazione dell'euro (il cambio col dollaro era vicino a 1,20, molto più in basso di adesso) l'ex numero uno di Bankitalia ha sguainato per la prima volta la scimitarra: la Bce è pronta a salvare l'euro, disse, a qualsiasi costo («whatever it takes»). Per poi aggiungere, sorridendo con le giuste pause e la studiata teatralità, «e credetemi, sarà abbastanza». Da lì parte la grande corsa di Piazza Affari, che in due anni guadagna oltre l'80%. Risultato ottenuto, come ha più volte spiegato Draghi ai tedeschi, senza spendere un centesimo. Perché i mercati da quel giorno capiscono che c'è davvero la volontà politica di salvare l’euro, dal quale la Germania peraltro trae enormi vantaggi. Il Financial Times proclama Draghi uomo dell'anno.

5. Draghi e le Borse / E ora cosa succede?
E adesso cosa accadrà? Draghi riuscirà ancora a incantare i mercati, comprando tempo perché la traballante costruzione europea consolidi le fondamenta all'insegna di politiche economiche e fiscali uniche? Lo spazio a disposizione dell'Houdini italiano di Francoforte è sempre più stretto. La Germania e i suoi alleati europei hanno messo i piedi nella porta, bloccando lo sgancio della bomba nucleare di Draghi: l'acquisto diretto di titoli di Stato, che equivale alla temuta (dai tedeschi) mutualizzazione dei debiti. Niente bomba “fine di mondo”, almeno per ora. Del resto, come dare torto ai falchi nordici? I due anni dal “whatever it takes”, che comprava tempo per portare a compimento le riforme strutturali dei singoli Stati, sono stati sperperati nel nulla. Mentre gli attriti tra Berlino e Parigi sono sempre più palesi. La morale? I tormenti dell'euro sono tutt'altro che finiti. Anche per l'Italia.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-02/draghi-e-borse-perche-crollo-ieri-211048.shtml?uuid=ABX4yUzB&nmll=2707#navigation


Titolo: Enrico MARRO - La manovra del governo Ciò che i numeri non dicono
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2014, 11:14:10 pm
La manovra del governo
Ciò che i numeri non dicono

Di Enrico Marro

L asciamo in secondo piano il braccio di ferro con Bruxelles. Per certi versi ridicolo, ruotando sull’ipotesi di un aggiustamento dei conti pubblici italiani dello zero virgola, che costerebbe un paio di miliardi, su un bilancio che conta 835 miliardi di spese e 786 miliardi di entrate. Concentriamoci invece sulle due misure chiave della prima manovra del governo Renzi: 1) 5 miliardi di taglio dell’Irap, con un risparmio medio per le aziende di circa 700 euro all’anno su ogni dipendente; 2) 1,9 miliardi per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato.

Due misure che si sommano alla conferma degli 80 euro per dieci milioni di dipendenti, con positivi aggiustamenti a favore delle famiglie numerose e delle partite Iva a basso reddito. Complessivamente, la riduzione del cuneo fiscale è apprezzabile, a vantaggio delle imprese e delle retribuzioni nette. Inoltre, il contratto a tutele crescenti, previsto nel Jobs act, non solo costerà meno delle altre forme contrattuali, ma non avrà il vincolo del vecchio articolo 18 sui licenziamenti.

Questo insieme di misure va nella direzione giusta. Ma non basterà a rilanciare la crescita, se non saranno soddisfatte due condizioni: 1) il rilancio degli investimenti, a partire da un completo e miglior uso dei fondi strutturali europei (44 miliardi nel 2014-20); 2) la credibilità dell’Italia sulla capacità di onorare l’enorme debito pubblico e, gradualmente, di ridurlo. Su questi due punti la politica del governo non ha fatto un salto di qualità.

Il taglio della spesa scaricato per 7 miliardi su Regioni, Comuni e Province rischia di tramutarsi nell’ennesimo aumento delle imposte locali. Privatizzazioni e dismissioni immobiliari restano al palo. Quanto agli investimenti pubblici, sono previsti dallo stesso governo in calo. Il debito pubblico salirà anche nel 2015: al 133,4% del Prodotto interno lordo, dal 131,6% del 2014. Oppure dal 127,8% di quest’anno al 129,7% del prossimo, togliendo i 60,3 miliardi che finora l’Italia ha tirato fuori per finanziare i fondi europei salva Stati, di cui hanno beneficiato Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro.

16 ottobre 2014 | 07:16
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_16/cio-che-numeri-non-dicono-40333fac-54f2-11e4-af0d-1d33fddfa710.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Gli incentivi per le assunzioni? Finiranno in pochi mesi
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 04:46:57 pm
Gli incentivi per le assunzioni? Finiranno in pochi mesi
Contratti a tempo indeterminato, incentivi per 300 mila lavoratori. Professionisti penalizzati dal regime forfettario. Ridotto il taglio Irap

Di Enrico Marro

ROMA Il testo del disegno di legge di Stabilità approvato mercoledì dal Consiglio dei ministri arriverà in Parlamento la prossima settimana, spiegano fonti governative. Per ora bisogna accontentarsi della bozza, che non ha subito modifiche di rilievo, aggiungono. Aggiustamenti più importanti potrebbero invece arrivare alla Camera, dove comincerà l’iter del ddl. Sono infatti numerose le sorprese tra le righe dei 47 articoli della bozza e tanti i nodi da sciogliere. Alcuni noti da tempo, come l’allargamento della platea dei beneficiari del bonus di 80 euro alle famiglie numerose (nel testo non c’è ma molti parlamentari lo vogliono). Altri sorti dalla lettura della bozza. E non si tratta solo dei tagli a carico di Regioni ed enti locali.

Quante assunzioni?
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in conferenza stampa aveva annunciato la decontribuzione totale per tre anni sui nuovi assunti. Una misura molto importante, finalizzata a favorire l’occupazione giovanile che, come certifica l’Istat, dal 2008 ad oggi, è diminuita di oltre due milioni, da 7,2 a 5,1, nella fascia tra 25 e 34 anni. Lo sgravio contributivo c’è, ma l’articolo 12 fissa un tetto di 6.200 euro l’anno, che corrisponde a una retribuzione lorda annua di circa 19 mila euro, 1.200 euro netti al mese. Un livello che copre la grandissima parte delle retribuzioni d’ingresso. Ma il limite maggiore è costituito dallo stanziamento per lo sgravio. Lo stesso articolo 12 parla di «un miliardo per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017». Sommando le risorse che verranno dalla soppressione degli sconti sulla stabilizzazione degli apprendisti e sull’assunzione di disoccupati da più di 24 mesi, si arriva a 1,9 miliardi l’anno, dice il governo. Con questa somma, però, le aziende potrebbero assumere poco più di 300 mila persone (1,9 miliardi diviso 6.200 euro fa 306.451) mentre, secondo i dati del ministero del Lavoro, in un anno vengono attivati circa un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato (nel 2013 sono stati 1.584.516).
Anche considerando i paletti fissati dal ddl (la decontribuzione vale sulle assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel solo 2015, con l’esclusione del settore agricolo, dei contratti di apprendistato e del lavoro domestico e di coloro che nei sei mesi precedenti hanno avuto già un contratto a tempo indeterminato) i fondi stanziati potrebbero andare esauriti già nella prima metà del 2015. Se quindi davvero Renzi vuole rendere strutturalmente il contratto a tempo indeterminato meno costoso, deve stanziare molti più soldi.

Sconto Irap a metà
Oggetto di discussione è anche l’alleggerimento dell’Irap. La deducibilità totale del costo del lavoro dalla base imponibile riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato. Ed è controbilanciata dalla cancellazione del taglio del 10% dell’aliquota Irap decisa ad aprile. L’Irap torna quindi al 3,9% (dal 3,5%) sulla componente lavoro a tempo determinato e sulle altre due voci della base imponibile (profitti e interessi passivi). Significa che il taglio complessivo dell’Irap si riduce a 2,9 miliardi rispetto ai 5 annunciati da Renzi.

Stangata su Tfr e fondi
È forse il capitolo più criticato della manovra. Perfino Stefano Patriarca, (ex Cgil, ex Inps), esperto di previdenza che ha proposto il Tfr in busta paga già una decina di anni fa, boccia la decisione del governo di sottoporre a tassazione ordinaria il flusso di accantonamento del Tfr che il lavoratore, dal 2015 (e fino al 2018) potrà chiedere gli venga messo nello stipendio anziché andare al fondo pensione o restare in azienda ai fini della liquidazione (che gode di una tassazione agevolata). «Si rischia di compromettere tutta l’operazione - dice Patriarca -. Basti pensare che con una tassazione pari a quella del Tfr, con le somme messe in busta paga il reddito netto di un lavoratore che guadagna 15 mila euro all’anno aumenterebbe del 7,8% mentre con la tassazione ordinaria solo del 5,2%». Ed è pioggia di critiche anche sull’aumento del prelievo sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5 al 20% e del Tfr (dall’11,5 al 17%).

Partite Iva, chi ci perde
La manovra prevede una riforma del regime di minimi per favorire le partite Iva a basso reddito. Oggi sono ammesse al regime di tassazione forfettaria le partite Iva con fatturato fino a 30 mila euro. Con la riforma i fatturati ammissibili varieranno per tipo di attività, da un tetto di 15 mila euro per i professionisti fino ai 40 mila euro per i commercianti. Questi ultimi quindi sarebbero avvantaggiati mentre i professionisti, osserva lo stesso sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, si vedrebbero dimezzata la soglia di fatturato e triplicata l’aliquota di prelievo che, secondo la stessa bozza, passa per tutti dal 5 al 15% del reddito imponibile. Anche qui, dunque sono possibili correzioni in Parlamento.

Statali esasperati
La proroga a tutto il 2015 del blocco dei contratti dei dipendenti pubblici non fa più notizia. Le retribuzioni sono ferme dal 2010. L’articolo 21 dispone anche il rinvio dell’indennità di vacanza contrattuale (non un gran danno, vista l’inflazione quasi a zero) e il blocco degli automatismi per il personale non contrattualizzato. Il tetto alle retribuzioni è stato tolto per militari e forze di polizia ma subiscono tagli l’indennità ausiliaria i fondi per il riordino delle carriere e le una tantum. E le spese per il funzionamento dei Cocer, gli organi di rappresentanza, sono dimezzate.

19 ottobre 2014 | 08:36
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_ottobre_19/gli-incentivi-le-assunzioni-finiranno-pochi-mesi-768c1fba-5759-11e4-8fc9-9c971311664f.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Tanti rinvii non fanno una legge
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2014, 04:58:15 pm
Conti pubblici
Tanti rinvii non fanno una legge

L’editoriale di sabato 20 dicembre 2014
Di Enrico Marro

Con qualche affanno che non aveva messo in conto, il governo sta conducendo in porto la legge di Stabilità. Al Senato è stato corretto il minimo indispensabile. Altre questioni sono state rinviate a successivi provvedimenti, perché alla Camera non ci sarà tempo per ulteriori modifiche. È stato bloccato, per il 2015, il livello massimo della Tasi, ma la cosiddetta local tax, annunciata da Matteo Renzi per semplificare la tassazione sulla casa, resta una promessa. Da mantenere senza inganni, please (cioè che prima ci dicono che è a parità di gettito e poi si scopre che si versa di più). Aspettiamo la riforma, quindi.

Sempre per rimanere sul Fisco, doverosa la correzione dell’Irap per consentire anche a un milione e mezzo di autonomi senza dipendenti di recuperare lo sconto perso con l’abolizione del taglio dell’aliquota dal 3,9% al 3,5% di cui hanno goduto quest’anno. Niente marcia indietro, invece, sull’aumento delle tasse sui fondi pensione, una misura oggettivamente in contrasto con l’obiettivo di favorire la previdenza integrativa.

La contraddizione resta, mentre è da verificare se lo sgravio sugli investimenti dei fondi sulle opere pubbliche riuscirà a tenere in Italia almeno parte dei contributi di lavoratori e imprese che oggi finiscono quasi interamente nei mercati esteri. Per il resto, l’impianto della manovra non è cambiato. Si punta a rilanciare la crescita con la riduzione delle imposte sulle imprese e sui lavoratori di circa 14 miliardi. Per confermare e rafforzare (Irap e decontribuzione sulle assunzioni) questo sgravio che dimezza il cuneo fiscale per un lavoratore dipendente con retribuzione media, il governo non ha esitato ad aumentare l’indebitamento di quasi 11 miliardi, poi ridotti a 6 per evitare la bocciatura a Bruxelles. Una scelta obbligata, il finanziamento in deficit, viste le difficoltà di tagliare la spesa pubblica, come dimostra da ultimo la vicenda delle Province. La spending review è rimasta al di sotto delle attese, stretta com’è tra l’incapacità, a tutti i livelli di governo, di combattere gli sprechi e l’attenzione che pure va prestata agli effetti recessivi dei tagli. Anche questa, dunque, è una riforma rinviata.

20 dicembre 2014 | 08:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_20/tanti-rinvii-non-fanno-legge-4615157e-8811-11e4-b064-a02e4007228e.shtml


Titolo: Enrico MARRO - «Non ha i requisiti»: gli ostacoli per Tito Boeri in Parlamento
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:11:15 am
Il presidente designato dell’INPS
«Non ha i requisiti»: gli ostacoli per Tito Boeri in Parlamento
Alla Camera la maggioranza chiede chiarimenti sull’esperto voluto da Renzi

Di Enrico Marro

ROMA - Si sta rivelando un percorso ad ostacoli quello che il professor Tito Boeri deve compiere per entrare all’Inps da presidente. Non quella passeggiata sul tappeto rosso che forse Matteo Renzi aveva immaginato quando, il 24 dicembre, senza che nessuno se l’aspettasse, scelse una star della Bocconi per la guida dell’istituto che gestisce le pensioni. In commissione Lavoro alla Camera, che deve dare un parere non vincolante entro il 3 febbraio, il relatore di maggioranza, Sergio Pizzolante (Area popolare), ha proposto un documento dove, pur esprimendo «un giudizio complessivamente positivo sul profilo accademico della nomina proposta», si osserva che da esso non risulta «una specifica capacità manageriale e una qualificata esperienza nell’esercizio di funzioni attinenti al settore operativo dell’ente», requisiti entrambi richiesti dal decreto legislativo 479 del 1994 che disciplina la nomina del presidente dell’Inps. Per questo Pizzolante, d’intesa con il presidente della commissione, Cesare Damiano (Pd), ha chiesto che il governo fornisca chiarimenti.

La richiesta di audizione
Nel frattempo, il vicepresidente della stessa commissione, Renata Polverini (Forza Italia), ha proposto un’audizione di Boeri proprio sui punti sollevati da Pizzolante. «Ho riscontrato che anche gli altri gruppi sono d’accordo sulla richiesta di audizione - annuncia Damiano - e quindi, dopo aver informato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e lo stesso Boeri, la fisseremo, probabilmente per la prossima settimana».
Che la nomina di Boeri sarebbe stata accolta con un moto di resistenza nel palazzone dell’Eur sede dell’Inps e nei palazzi della politica non era difficile prevederlo. Innanzitutto per le modalità con le quali avvenne. Così a sorpresa che lo stesso Poletti, non seppe nulla fino all’ultimo della decisione del presidente del Consiglio di cambiare in corsa il vertice dell’istituto di previdenza. Un fulmine a ciel sereno per Poletti che credeva archiviata la pratica con la nomina, appena due mesi prima, di un commissario straordinario del peso di Tiziano Treu, grande giuslavorista, più volte ministro ed ex parlamentare del Pd. Commissario che non solo Poletti ma un po’ tutti davano per scontato sarebbe poi diventato presidente dell’Inps con l’attesa riforma della governance. E invece Renzi, con una mossa delle sue, sparigliò, puntando sul 56enne economista milanese, estraneo a quel giro romano di potere sindacal-governativo che ha sempre gestito l’istituto. Poletti non solo ci rimase di stucco, ma ci fece una brutta figura. E adesso gli tocca pure sbrogliare la matassa.

L’allerta nei palazzi
La scelta di Boeri, tra l’altro, ha messo in forse anche il rinnovo del mandato del direttore generale, Mauro Nori, in prorogatio fino al 15 febbraio, che era dato per scontato sotto Treu, con il quale Nori ha un ottimo rapporto personale. Ora invece non si escludono anche qui sorprese. E tutta la tecnostruttura è in fibrillazione, temendo l’arrivo di un esterno. I palazzi della politica si interrogano invece su quale sia il reale mandato dell’economista della Bocconi che sul suo sito lavoce.info, dal quale si è autosospeso dopo la nomina, più volte ha proposto interventi sia per flessibilizzare la riforma Fornero, tema guarda caso rilanciato ieri da Poletti, sia per introdurre meccanismi di ricalcolo e prelievo sulle pensioni più elevate che non hanno alle spalle una adeguata storia contributiva. Ipotesi queste che allarmano trasversalmente lo schieramento politico e sindacale.
Treu, infine, che anche lui seppe solo a cose fatte, e non da Renzi, del ribaltone che lo riguardava, aspetta il perfezionarsi della nomina di Boeri. Che forse il premier avrebbe potuto preparare meglio.

23 gennaio 2015 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_gennaio_23/non-ha-requisiti-ostacoli-tito-boeri-parlamento-644dec6c-a2cb-11e4-9709-8a33da129a5e.shtml


Titolo: Enrico MARRO - L'Europa prepara le banche all'Apocalisse
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:29:52 am
L'Europa prepara le banche all'Apocalisse: in Italia dovranno poter reggere un crollo di Borsa del 58%, con il Pil a -6% e la disoccupazione alle stelle
Negli stress test che l'Autorità bancaria europea effettuerà sugli istituti di credito (dopo la verifica degli attivi da parte della Bce) c'è anche uno scenario avverso che prevede una nuova crisi finanziaria mondiale. Con pesanti ripercussioni anche per il nostro Paese. Vediamo quali

Di Enrico Marro

1. Scenario apocalittico per gli stress test / Spread alle stelle, i BTp tornano al 6%

Alla base dello scenario peggiore ipotizzato dall'Eba c'è un incremento di 100 punti base dei T-Bond americani, con una graduale accelerazione sino a 250 punti base entro la fine di quest'anno. La conseguenza è una vampata di avversione del rischio, che porta a un'impennata dei rendimenti dei bond e a un deterioramento della qualità del credito. Nell'ipotesi di un incremento del rendimento dei T-Bond americani di 150 punti base, i tassi dei BTp salirebbero quest'anno al 5,9% (contro il 3,9% dello scenario base), al 5,6% nel 2015 (da 4,1%) e al 5,8% nel 2016 (da 4,3%). Lo spread con i Bund tornerebbe a circa 300 punti base. Livelli comunque inferiori a quelli toccati il 9 novembre 2011, il "mercoledì nero" dello spread a quota 575, quando i BoT a 12 mesi avevano toccato il 7%, i biennali il 7,5% e i decennali oltre il 7,48% (con l'inversione della curva dei rendimenti tra titoli a 2 e a 10 anni).


2. Scenario apocalittico per gli stress test / Il crollo di Piazza Affari

Nello scenario peggiore, quello appunto che porta a un'ondata generalizzata di panico e di "flight to quality", per Piazza Affari l'Eba prevede un crollo del 20,3% nel 2014, del 17,7% nel 2015 e del 20,4% nel 2016, non lontano dai cali medi ipotizzati nell'intera Eurozona (rispettivamente -18,3%, -15,9% e -18,1%). L'Italia farebbe peggio della media di Eurolandia anche per le conseguenze dello stallo generalizzato del processo di riforme, che metterebbe a repentaglio la sostenibilità delle finanze pubbliche.

3. Scenario apocalittico per gli stress test / L'Italia torna in pesante recessione
Lo scenario peggiore ipotizzato dagli stress test vede per l'Italia un triennio di Pil in calo con una deviazione del 6,1% rispetto allo scenario di base. Il Pil (che nella realtà è appena tornato positivo) tornerebbe a calare dello 0,9% quest'anno, dell'1,6% il prossimo e dello 0,7% nel 2016 anziché mettere a segno una crescita stimata rispettivamente nello 0,6%, nell'1,2% e nell'1,3%. Lo shock finanziario – spiega infatti la simulazione dell'Eba – avrebbe una pesante ricaduta anche sull'economia reale, con fuga di capitali dai Paesi emergenti e calo degli scambi commerciali con l'Europa.

4. Scenario apocalittico per gli stress test / Disoccupazione alle stelle, deflazione strisciante
La pesante recessione porterebbe a un nuovo aumento della disoccupazione italiana, che crescerebbe rapidamente fino a toccare il 14,4% nel 2016 (contro stime di un calo al 12%). Male anche l'occupazione nel resto dell'Eurozona, che nello scenario apocalittico arriverebbe al 13% nel 2016. Giù anche l'inflazione, con l'Italia che nel 2016 registrerebbe un costo della vita medio dello 0,6% (anziché l'1,8% stimato) e alcuni Paesi della Ue in pesante deflazione, in particolare Svezia, Repubblica Ceca e Slovacchia.

5. Scenario apocalittico per gli stress test / Per il mattone caduta meno rovinosa
Naturalmente lo scenario peggiore ipotizzato dall'Autorità bancaria europea prevede anche un ulteriore crollo del mattone. Anche se secondo l'Eba l'Italia registrerebbe una maggiore tenuta rispetto alla media di Eurolandia, almeno sui prezzi degli immobili residenziali. Il calo sarebbe infatti del 3,3% nel 2014 e del 5,2% nel biennio successivo contro una discesa nella zona euro del 6,9% nel 2014 e dell'11% in entrambi gli anni successivi.

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DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-29/scenario-apocalittico-gli-stress-test-spread-stelle-btp-tornano-6percento-185848.shtml?uuid=ABcooeEB&nmll=2707


Titolo: Enrico MARRO - Le quattro regole d'oro per investire i propri risparmi senza...
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:30:54 am
Le quattro regole d'oro per investire i propri risparmi senza ansie né rimorsi
Sia che ci si affidi a professionisti che si ricorra al fai-da-te, investire i propri risparmi comporta scelte molto importanti.
Dietro alle quali ci vogliono poche ma ferree regole. Vediamo quali sono secondo alcuni gestori i rischi da non sottovalutare

di Enrico Marro

1. Regole d'oro per investire / Individua il tuo profilo di rischio
Primo punto fondamentale, necessario prima di iniziare a investire, è quello legato alle tue caratteristiche. Quali sono i tuoi obiettivi di investimento? Qual è la tua propensione al rischio, quale il tuo livello di conoscenza degli strumenti, quale il tuo reddito presente e futuro? E soprattutto, quali sono le tue esigenze future? «Tutte queste informazioni consentono di capire il cliente e soprattutto di delineare un identikit di investitore/risparmiatore necessario a costruire un portafoglio in linea con le sue caratteristiche oggettive», spiega Gabriele Roghi, responsabile della consulenza agli investimenti di Invest Banca.
«Il rischio va considerato come fattore centrale della propria asset allocation – fa eco Antonio Bottillo, ad per l'Italia di Natixis Global AM - : è importante utilizzare parametri di misurazione del rischio come input primari per definire un obiettivo in termini di rischiosità anziché in termini di rendimento, in modo da conferire maggior stabilità al portafoglio».

2. Regole d'oro per investire / Scegli obiettivi e orizzonte temporale
Più è lungo l'orizzonte temporale, più elevato è il grado di rischio che si è in grado di sopportare. «Questo deriva dalla considerazione che asset class con maggiore rendimento atteso hanno anche una volatilità più elevata – spiega ancora Roghi - . Se sono disposto a "restare investito" per molto tempo, ho una buona probabilità di tornare a guadagnare anche se ho la sventura di iniziare a investire ai massimi di mercato (ad esempio lo S&P500 dal massimo del 2007 è tornato su nuovi massimi nel 2013)».
In ogni caso, come puntualizza Davide Pasquali, presidente di Pharus Sicav, «chi investe generalmente punta sul lungo periodo e deve evitare di andare in ansia ogni qualvolta ci sia un po' volatilità sul mercato».
Mai lasciarsi distogliere quindi da eventi di mercato di breve periodo, insomma. «E' necessario riuscire a costruire portafogli che consentano di rimanere protagonisti delle proprie decisioni d'investimento al fine di raggiungere obiettivi di lungo periodo», sottolinea dal canto suo Bottillo. Investire è infatti un processo continuativo che dura tutta la vita attraverso varie tappe: acquistare una casa, provvedere all'educazione dei propri figli, garantirsi adeguate risorse finanziarie per il proprio pensionamento. I risparmiatori dovrebbero partire nel loro orizzonte temporale proprio da questi obiettivi.

3. Regole d'oro per investire / Non diversificare è un errore grave
Massimizzare la diversificazione è indispensabile, non solo a livello geografico e settoriale, ma anche tra diverse asset class e tipologie di investimento, spiega l'ad per l'Italia di Natixis Global AM.
«La diversificazione geografica è quella forse a cui prestare maggiore attenzione al momento – continua Roghi - . È strategica per suddividere il rischio di mercato, di politica monetaria, fiscale, valutario e geopolitico che sembra essere tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni e che è probabilmente destinato a rivestire una crescente importanza per le politiche di investimento».

4. Regole d'oro per investire / Tieni sempre sotto controllo il rischio
«Non permettere mai che un investimento possa diventare una perdita: usa quindi delle tecniche di stop loss, di "taglio" delle perdite – spiega Davide Pasquali, presidente di Pharus Sicav - . Ed evita di fare medie al ribasso: il più delle volte sono controproducenti e portano alla rovina se non si è in grado di valutare bene l'investimento». Cogliere i primi sintomi di debolezza di un titolo o di un mercato è fondamentale, fa eco Roghi di Invest Banca, ma va associato a una serie di regole ferree di gestione della posizione che debbono essere superiori alle idee e alle propensioni del risparmiatore. «Anche se credo in un titolo in modo forte (perché i dati sono buoni, il business è sano ed il titolo deve salire) ma, al contrario, questo scende, allora deve esserci una procedura di uscita che sopravanzi questi sentimenti-idee. Lo stop loss è un modo semplice e oggettivo per fare un opportuno controllo del rischio».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-15/regole-d-oro-investire-1-individua-tuo-profilo-rischio-180655.shtml?uuid=ABblRGBB&nmll=2707#navigation


Titolo: Enrico MARRO - Le nuove regole Che il lavoro non sia più una parentesi
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:34:35 pm
Le nuove regole
Che il lavoro non sia più una parentesi

Di Enrico Marro

A un anno dal suo insediamento alla guida del governo, Matteo Renzi porta a casa la prima parte del Jobs act, la riforma del lavoro che annunciò l’8 gennaio 2014, ancor prima di diventare presidente del Consiglio.

Alla base del progetto ci sono sempre state due idee. Che da un lato bisognasse accogliere la richiesta delle aziende di rendere meno costose le assunzioni e più semplici i licenziamenti. Ma che allo stesso tempo si dovessero superare tutte quelle forme di lavoro precario che anziché essere l’eccezione sono diventate la regola, cioè il canale normale di accesso al lavoro proprio perché il contratto a tempo indeterminato costa troppo ed è eccessivamente rigido. Insomma, il modello di riferimento è la flexicurity di stampo scandinavo. Che però sta in piedi solo se accanto alla semplificazione dei licenziamenti c’è il potenziamento dei sussidi e delle politiche di ricollocamento per chi perde il lavoro. Per ora i licenziamenti sono stati facilitati, ma l’ampliamento degli ammortizzatori sociali è insufficiente e non interamente finanziato (come lo stesso governo ha dovuto ammettere) e l’Agenzia unica per il collocamento è di là da venire.

Ma, restando alle decisioni prese ieri, si tratta di valutare l’impatto che esse potranno avere rispetto a due obiettivi indicati dallo stesso governo: più posti di lavoro e più stabili. Si tratta di una «scommessa» come ha ammesso il ministro del Lavoro. Che presto tutti potremo verificare. Oggi, ogni 100 nuovi assunti, solo 15 lo sono a tempo indeterminato mentre i restanti 85 entrano con le più diverse forme di precarietà, col contratto a termine a fare la parte del leone. Nel 2015, invece, col nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act, che permette di licenziare quasi sempre dietro indennizzo, e soprattutto gode degli sgravi fino a 8.060 euro (per tre anni), si dovrebbe assistere a un boom di questi nuovi rapporti di lavoro. Per le aziende, di regola, non ci sarà infatti un contratto più conveniente di quello a tutele crescenti.

Non solo. La riforma Renzi-Poletti, a differenza di quella Monti-Fornero che per prima intaccò il tabù dell’articolo 18 (diritto al reintegro), arriva alle soglie di una probabile ripresa dell’economia anziché nel pieno della crisi più grave del Dopoguerra. Insomma, è ragionevole pensare che pian piano gli occupati aumentino e che il contratto a tutele crescenti, già nel 2015, si affermi come il canale di assunzione preferito dalle imprese. Tra l’altro, con il non trascurabile effetto di un miglioramento della produttività. Tutto ciò dovrebbe incentivare il governo a proseguire sulla strada del Jobs act, probabilmente prorogando gli sgravi ora previsti solo per le assunzioni fatte nel 2015.

Ma la scommessa non riguarda solo l’innesco di un circolo virtuoso per l’economia. Riguarda anche il miglioramento delle condizioni delle persone. Renzi ha voluto questa riforma non solo per spingere le aziende a investire, ma anche, come ha spiegato lui stesso, per dare ai giovani una condizione di stabilità lavorativa (che non significa un posto per sempre), dalla quale dipende la stessa prospettiva di vita. Il punto allora è come verrà considerato dalla società il nuovo contratto, che nominalmente è «a tempo indeterminato a tutele crescenti». Si affermerà nei fatti come una forma sostanzialmente stabile e quindi utilizzabile, per esempio, per ottenere un mutuo oppure verrà sfruttato come una parentesi dalla durata incerta di cui approfittare per fare il pieno degli sgravi senza credere in una nuova prospettiva di qualità del lavoro? In quest’ultimo caso, sarebbe una grande occasione sprecata.

21 febbraio 2015 | 08:11
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_21/che-lavoro-non-sia-piu-parentesi-a93f1518-b990-11e4-ab78-eaaa5a462975.shtml


Titolo: Enrico Marro Il federalismo fiscale, le vere tasse dietro i numeri
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:53:03 am
Stato ed enti locali
Il federalismo fiscale, le vere tasse dietro i numeri
La riforma che doveva responsabilizzare le amministrazioni locali non ha assicurato la riduzione e nemmeno la stabilizzazione del prelievo subito dai cittadini

Di Enrico Marro

Negli ultimi cinque anni Regioni, Province e Comuni hanno subito un taglio dei trasferimenti dallo Stato centrale di circa 25 miliardi di euro. E hanno continuato a rifarsi aumentando le imposte locali. Per non tagliare i servizi, si giustificano. Un anno fa, in un’audizione presso la commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, il presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri, ha raccontato bene il fallimento della riforma varata con la legge 42 del 2009. L’idea era quella di responsabilizzare le amministrazioni decentrate trasferendo loro funzioni e corrispondenti entrate proprie per farvi fronte. Il tutto però rispettando il principio dell’invarianza della pressione fiscale. Quindi, se aumentavano le addizionali Irpef locali doveva diminuire l’Irpef nazionale. Ma le cose sono andate diversamente.

«Non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e fisco locale — spiegava Squitieri — ma anzi, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate di competenza degli enti territoriali sia di quelle dell’amministrazione centrale». E così la pressione fiscale che dal 38% del prodotto interno lordo nel 1990 è arrivata al 43,5% «appare imputabile per oltre l’80% alla dinamica delle entrate locali», che già nel 2012 pesavano per il 15,9% su tutte le entrate, cioè il triplo rispetto al 1990.

Insomma, il federalismo fiscale non ha assicurato la riduzione e nemmeno la stabilizzazione del prelievo subito dai cittadini. Basti pensare che nel 1998, quando l’addizionale Irpef regionale debuttò, l’aliquota era dello 0,5% e ora può arrivare al 3,33%, per un prelievo medio di circa 380 euro a testa, con punte di 550 euro nel Lazio. Alle quali si aggiungono le addizionali Irpef comunali (fino allo 0,8%) per un importo medio di altri 170 euro, con punte di 220. Per non parlare delle imposte sulla casa.

Ci avevano detto che la Tasi, la tassa che il governo Letta, sostenuto dal Pd e dall’allora Pdl, si inventò per dire che non si sarebbe più pagata l’Imu sulla prima casa, avrebbe ridotto il prelievo sugli immobili. Ma anche qui i fatti hanno smentito le promesse. Il carico fiscale sulla prima casa si è alleggerito di appena 500 milioni che però, paradossalmente, sono stati pagati in meno da proprietari di case con rendite catastali alte mentre quelli con abitazioni di minor pregio hanno mediamente pagato di più di prima, perché sono state tolte le detrazioni fisse. Sulle seconde case l’imposta è aumentata molto. E complessivamente la Tasi nel 2014 è costata ai cittadini 25,2 miliardi, il 15% in più dell’Imu 2013 (quando non si pagò sulla prima casa) il 7% in più del 2012 (quando l’imposta colpiva anche l’abitazione principale) e il 157% in più dell’Ici 2011 (che fruttò 9,8 miliardi). Adesso il governo Renzi promette che nel 2016 semplificherà tutto con un’unica tassa, la local tax. Speriamo bene.

Intanto si profila un nuovo scontro con le Regioni e i Comuni, che già faticano ad attuare i tagli previsti dall’ultima legge di Stabilità. Che, su 16,6 miliardi di riduzione complessiva della spesa pubblica per il 2015, ne caricava 8,1 sulle spalle di Regioni, Comuni e Province. Le prime hanno dovuto tagliare 2,3 miliardi nella sanità. E il ministro, Beatrice Lorenzin, la settimana scorsa in tv a 2Next alla domanda «il federalismo ha fatto bene o male alla sanità?», ha risposto: «Di sicuro chi stava male sta peggio. Questo federalismo va cambiato». Il governo vuole farlo con la riforma costituzionale, che tocca anche il Titolo V. Infine, pochi giorni fa, dopo la definizione del riparto dei tagli a carico dei Comuni, i sindaci dei piccoli municipi hanno lanciato l’allarme sul rischio che centinaia di enti locali vadano in default. Per dirla con Gino Bartali, questo federalismo «l’è tutto da rifare».

8 aprile 2015 | 12:25
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_aprile_08/federalismo-fiscale-vere-tasse-dietro-numeri-enti-locali-imposte-pressione-fiscale-741fe3c8-ddd8-11e4-9dd8-fa9f7811b549.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Conti e previdenza Ingiustizie e fragilità di un Paese
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2015, 04:35:11 pm
Conti e previdenza
Ingiustizie e fragilità di un Paese

Di Enrico Marro

I l blocco delle pensioni, deciso dal governo Monti nel 2011, in piena emergenza finanziaria, non c’è più. Con la pubblicazione di ieri sulla Gazzetta Ufficiale acquista efficacia la sentenza 70 della Corte costituzionale che ha bocciato la misura che sterilizzava per il 2012-13 l’adeguamento all’inflazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo (1.217 euro netti). Significa, ha spiegato il presidente della Consulta, che la norma decisa dal governo Monti è cancellata. I circa 5 milioni e mezzo di pensionati colpiti hanno così il diritto di avere restituiti i soldi corrispondenti al mancato adeguamento, con gli interessi e la rivalutazione. Ma il governo, ha aggiunto Alessandro Criscuolo, può intervenire disciplinando per legge come si darà seguito alla sentenza.

È quello che l’esecutivo Renzi farà, per «minimizzare», come ha annunciato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, gli effetti della sentenza sul bilancio pubblico. Se il governo restituisse tutto a tutti, dovrebbe sborsare, secondo le ultime stime, 14 miliardi di euro per i rimborsi, che peseranno tutti sui conti del 2015, e prevedere una maggior spesa di 3,5 miliardi all’anno per le pensioni colpite (comprese le successive eventuali reversibilità).

Ma l’esecutivo non farà questo. Troverà, invece, un meccanismo per sborsare meno, probabilmente a danno dei pensionati con l’assegno più alto, confidando che, in caso di nuovo ricorso alla Corte, la norma non venga bocciata ancora. Gli effetti della sentenza, se onorati fino in fondo, riporterebbero i conti pubblici in zona emergenza. I l Documento di economia e finanza, licenziato dal governo prima della pronuncia della Consulta, contiene una previsione di deficit per il 2015 pari al 2,5% del Prodotto interno lordo. Basta dunque mezzo punto di Pil, cioè otto miliardi di euro, per sfondare il tetto del 3% e incorrere nella procedura europea d’infrazione. E questo sempre che, nei prossimi mesi, i tassi di interesse non aumentino, il dollaro non si rivaluti e il prezzo del petrolio non salga. Altrimenti, sarebbe sufficiente una manciata di miliardi per superare il 3%.

Le conseguenze della sentenza, quindi, ci ricordano che, nonostante si veda l’uscita dal tunnel della recessione, i conti pubblici dell’Italia restano fragili. È chiaro che i pensionati che prendono poco più di 1.200 euro al mese hanno subito un torto che va riparato, ma non dimentichiamoci che non siamo completamente fuori dall’emergenza che dettò questi tagli.

Questa vicenda è anche figlia di un meccanismo tortuoso da correggere, per evitare in futuro simili pasticci. Certo, la prima cosa che viene da dire è che i governi dovrebbero smetterla di far cassa con grossolani tagli sulle pensioni. Ma non c’è solo questo. La decisione del governo Monti risale al dicembre 2011 (decreto salva Italia). La prima questione di costituzionalità è stata promossa dal tribunale di Palermo il 6 novembre 2013. La sentenza della Corte è dunque arrivata un anno e mezzo dopo la prima istanza. E addirittura tre anni e mezzo dopo la legge. Sarebbe invece ragionevole disporre di una corsia d’urgenza per questo tipo di contenziosi.

La stessa Corte, poi, secondo indiscrezioni non smentite, si sarebbe divisa esattamente a metà sulla sentenza 70, sei giudici favorevoli alla incostituzionalità della norma e sei contrari, e la bocciatura sarebbe passata solo grazie al voto del presidente che vale doppio. Trasparenza vorrebbe che con una riforma si stabilisse la pubblicità dei verbali di discussione. Inoltre, ammesso che abbia senso che il governo possa riscrivere una norma di cui la Consulta ha deciso la cancellazione, non sarebbe il caso di sottoporre - solo per questa fattispecie - la norma riscritta al giudizio preventivo di costituzionalità della stessa Corte? Evitando così che il governo, qualsiasi governo, possa cadere nella tentazione di «provarci», di insistere, contando sul fatto che un’eventuale nuova sentenza arriverebbe dopo anni, magari inguaiando un governo diverso (un po’ quello che sta succedendo ora a Renzi che deve sanare la decisione di Monti)? Insomma, in un Paese che modernizza le sue istituzioni, si dovrà riflettere anche sulle procedure della stessa Corte.
emarro@corriere.it

8 maggio 2015 | 08:16
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_08/ingiustizie-fragilita-un-paese-11824eb4-f542-11e4-9c1c-931a52508e78.shtml


Titolo: E. MARRO - Pensioni, la restituzione avverrà su quelle medie e non sulle alte
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:09:33 am

IL COMMENTO
Pensioni, la restituzione avverrà su quelle medie e non sulle alte
Il rimborso verrà erogato a rate
Dopo la sentenza della Consulta sulla rivalutazione degli assegni

Di Enrico Marro

Quello che ha detto il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, cioè che il governo, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale, non restituirà a tutti gli interessati la rivalutazione delle pensioni, è abbastanza scontato. Giusto o meno che sia. Lo aveva già fatto capire il ministro dell’Economia, Gian Carlo Padoan, quando aveva spiegato che il governo darà seguito alla sentenza senza far saltare i conti pubblici. Restituire tutto a tutti, cioè una cifra che solo di arretrati vale in media, secondo i calcoli della Cgia di Mestre, da 1.640 euro netti per chi ha una pensione tra 1.405 e 1.500 euro lordi a 5.171 euro per chi prende più di 3mila euro lordi, avrebbe un costo per le casse dello Stato di ben 16,6 miliardi. Decisamente troppi per un Paese che deve stare attento allo zero virgola per non finire nelle procedure europee di infrazione.

Le ipotesi
Del resto, anche la lunga sentenza della Consulta sembra offrire margini all’esecutivo, quando ricorda che precedenti interventi di blocco della rivalutazione delle pensioni non sono stati censurati dalla Corte se colpivano assegni di importo elevato, per esempio per le fasce superiori a 8 volte il minimo, circa 4 mila euro al mese. Probabilmente, quindi, la restituzione avverrà sulle pensioni medie e non su quelle alte e il rimborso verrà erogato a rate. Queste le ipotesi che circolano. E rispetto alle quali è bene che il governo Renzi faccia chiarezza quanto prima. Anche se non ha la responsabilità di quanto accaduto, perché il blocco per il 2012 e 2013 dell’adeguamento all’inflazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo fu deciso dal governo Monti, è l’esecutivo Renzi che ha la responsabilità di dare una risposta tempestiva e soddisfacente ai pensionati che, dopo essere stati colpiti nel potere d’acquisto, non è giusto che ora rimangano troppo a lungo nell’incertezza.

6 maggio 2015 | 17:03
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_06/pensioni-restituzione-avverra-quelle-medie-non-alte-rimborso-verra-erogato-rate-c73507b8-f3ff-11e4-8aa5-4ce77690d798.shtml


Titolo: Enrico MARRO e Lorenzo Salvia Il Tesoro: restituire subito 2,5 miliardi.
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2015, 12:27:58 pm
Soldi e politica
Il decreto della sentenza pensioni Mini-rimborsi oltre i 2.000 euro
Il Tesoro: restituire subito 2,5 miliardi. Ma c’è l’ipotesi del rinvio a dopo il voto.
La restituzione potrebbe essere completa solo fino a tre volte il minimo

Di Enrico Marro Lorenzo Salvia

ROMA La bozza del decreto legge sulle pensioni è pronta. L’idea sulla quale il governo, in prima linea i tecnici del ministero dell’Economia, sta lavorando è quella di rimborsare tutto o quasi fino a 4/5 volte il minimo. Sopra questa soglia gli arretrati si ridurrebbero molto velocemente. Un’ipotesi potrebbe prevedere il rimborso pieno per quella parte di assegno fino a 1.500 euro lordi al mese (tre volte il minimo), per poi scendere all’80% del dovuto tra i 1.500 e 2 mila euro, al 60% tra i 2 mila e i 2.500 (cinque volte il minimo), per poi essere rapidamente azzerato per gli assegni più alti.

Sul piatto le risorse non sono tante: il Tesoro, come ha annunciato fin dall’inizio il ministro Pier Carlo Padoan, vorrebbe «minimizzare» la spesa. Al punto che le ultime indiscrezioni parlano di un esborso non superiore a 2,5 miliardi di euro nel 2015. Un miliardo e 600 milioni arriverebbe dal cosiddetto tesoretto, le risorse aggiuntive stimate nel Def, mentre il resto, confidano i tecnici di via XX settembre, si potrebbe trovare tra le pieghe del bilancio e accelerando sulla spending review, la revisione della spesa pubblica.

Ma non è facile la strada che il governo si trova davanti dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il blocco della rivalutazione delle pensioni nel 2012-13 deciso dal governo Monti. Gli ultimi calcoli, depositati ieri in Senato dal vice ministro dell’Economia Enrico Morando, dicono che restituire tutto a tutti per il passato e l’anno in corso costerebbe, al netto della tasse, 11 miliardi di euro. Qualcosa in meno rispetto alle stime circolate nei giorni scorsi, ma comunque più di quattro volte la spesa ipotizzata dai tecnici. Ecco perché ieri, quando lo stesso Morando ha sottolineato che la Consulta ha censurato la durata di due anni del blocco della rivalutazione delle pensioni, è spuntata anche l’ipotesi di correggere il meccanismo per uno solo dei due anni coinvolti, dimezzando di fatto il costo dell’operazione. Le cose, però, potrebbero cambiare ancora.

Il consiglio dei ministri, come previsto, è convocato per lunedì prossimo. Al momento l’ordine del giorno non c’è. E forse non è un caso. Nel governo, e anche nel Pd, c’è chi preferirebbe rinviare la soluzione a dopo le elezioni regionali di fine maggio. Per questo non è ancora escluso che lunedì, sul tavolo del consiglio dei ministri, arrivi un testo che parli sì di pensioni. Ma che stabilisca solo i principi generali dell’operazione, senza fissare fin da ora soglie e percentuali, senza dire esattamente quanto sarà rimborsato e a chi. Insomma un decreto ponte per un percorso a tappe. I dettagli arriverebbero dopo, il governo potrebbe fissare un periodo di tempo entro il quale completare tutte le simulazioni del caso. Con la motivazione di fare le cose per bene, evitando nuovi rilievi della Corte costituzionale. E magari mettendo mano a una riforma complessiva della previdenza che riequilibri anche i sacrifici tra le generazioni, come ha ripetuto ieri in Parlamento il presidente dell’Inps Tito Boeri. Un’operazione sul medio-lungo periodo che intanto avrebbe il vantaggio di far slittare il nodo rimborsi a dopo le elezioni di fine mese, evitando di scontentare a pochi giorni dal voto qualche milione di pensionati che ancora sperano di avere indietro tutto il dovuto.

14 maggio 2015 | 08:34
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_14/decreto-sentenza-pensioni-mini-rimborsi-oltre-2000-euro-d0289412-fa02-11e4-8080-f59274262d65.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Pensioni, la guida a scaglioni e mini risarcimenti
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 09:31:40 am
Pensioni, la guida a scaglioni e mini risarcimenti
«Una tantum» al netto delle tasse ma esclude 1,2 milioni di persone.
Per restituire tutto a tutti servirebbero almeno 11 miliardi

Di Enrico Marro

ROMA - Spiccioli. Il premier ha scelto di rispondere alla sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni spendendo il meno possibile: appena 2 miliardi sugli 11 necessari per rimborsare tutto a tutti.

Nel 2012, secondo i dati del Casellario centrale delle pensioni, il blocco biennale della rivalutazione ha colpito 5,2 milioni di pensionati che prendevano più di 3 volte il minimo, cioè 1.443 euro lordi. Se oggi il consiglio dei ministri approverà la proposta di Matteo Renzi, un parziale, parzialissimo rimborso verrà dato, con la pensione di agosto, a coloro che hanno un trattamento complessivo (l’indicizzazione si applica sull’insieme delle pensioni percepite) superiore a 3 volte il minimo e fino a 3mila euro lordi (6 volte il minimo). Si tratta di circa 4 milioni di pensionati, mentre 1,2 milioni non riceverà nulla.

La platea interessata comprenderà certamente i 3,8 milioni di pensionati che nel 2012 prendevano fra 3 volte e 5 volte il minimo, cioè fra 1.443 euro e 2.405 euro lordi. Ai quali, secondo quanto ha detto il premier, dovrebbero sommarsi i circa 600mila pensionati tra 5 e 6 volte il minimo (2.886 euro lordi nel 2012, circa 3mila euro nel 2015). I 500 euro di una tantum a titolo di rimborso degli arretrati sono da intendersi, spiega Palazzo Chigi, come una cifra al netto delle tasse e media. Nel senso che chi ha una pensione più bassa, vicina cioè alla soglia di 3 volte il minimo prenderà meno mentre chi ha un trattamento più alto riceverà di più. Potrebbero esserci tre fasce di rimborso: fra 3 e 4 volte il minimo, Fra 4 e 5, fra 5 e 6.

I 2 miliardi (500 euro in media per 4 milioni di pensionati) rappresentano circa un quinto rispetto agli 11 miliardi di spesa netta (15 miliardi al lordo delle tasse, che diventano 18 proiettando la spesa sul 2016), secondo le tabelle consegnate dal viceministro dell’Economia, Enrico Morando, in Parlamento per illustrare il costo dell’applicazione della sentenza della Consulta se si fosse deciso di dare tutta la mancata indicizzazione a tutti gli aventi diritto. Cinquecento euro in media sono davvero pochi rispetto a rimborsi pieni che avrebbero dovuto oscillare fra 1.500 e 3.000 euro netti. I ricorsi alla magistratura sono certi.

Ma il governo, come aveva detto fin dall’inizio il ministro Pier Carlo Padoan, ha scelto di «minimizzare» l’impatto sui conti pubblici, per evitare di violare le regole europee su deficit (non deve superare il 3% del Pil). Per questo i saldi di finanza pubblica dovrebbero restare invariati. A cominciare dal deficit previsto per quest’anno al 2,6%. La spesa di due miliardi annunciata da Renzi sarà infatti coperta, come ha spiegato lo stesso presidente del Consiglio, ricorrendo al cosiddetto «tesoretto», cioè quel miliardo e 600 milioni che il governo aveva intenzione di spendere facendo salire di 0,1 punti il deficit tendenziale che quest’anno è previsto al 2,5%. Risorse alle quali si sommerà qualche centinaio di milioni che verranno trovati nelle pieghe del bilancio. Saltano così, almeno per il momento, i progetti ai quali stava lavorando l’esecutivo per spendere il tesoretto potenziando gli strumenti di contrasto della povertà.

18 maggio 2015 | 06:53
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_18/pensioni-guida-scaglioni-mini-risarcimenti-065f5d7c-fd19-11e4-b490-15c8b7164398.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Un impegno concreto contro la povertà
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2015, 10:46:45 am
Un impegno concreto contro la povertà
In Italia sono 4,1 milioni i cittadini in gravi difficoltà. Non possono permettersi i beni essenziali.
Oltre alla Grecia, siamo l’unico Paese in Europa a non aiutare gli «incapienti».
Se è una priorità per il governo, si deve passare ai fatti

Di Enrico Marro

In Italia, secondo la recente indagine Istat, ci sono 7,8 milioni di persone in condizioni di «povertà relativa», cioè con una capacità di spesa che non raggiunge la metà di quella media (per esempio, una famiglia di due componenti che spende meno di 1.041 euro al mese). Di queste, 4,1 milioni sono in «povertà assoluta», non in grado cioè di acquistare neppure un paniere di beni e servizi «essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile», spiega l’istituto di statistica. Quasi cinque milioni di poveri relativi vivono nel Mezzogiorno, con un’incidenza sulla popolazione più che tripla rispetto al Nord: 23,6% contro il 6,8%.

Crescita o non crescita dell’economia, la lotta alla povertà dovrebbe essere una priorità, soprattutto per un governo di centrosinistra. Stando alle dichiarazioni ufficiali, lo è. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, lo ha più volte ribadito. Nei fatti no, almeno finora. Prendiamo gli 80 euro al mese: sono andati a 10 milioni di lavoratori dipendenti, ma non agli «incapienti», 4 milioni di persone che hanno redditi così bassi da non dover presentare il 730. Forse perché i poveri non votano? Con la legge di Stabilità 2015, la prima del governo Renzi, niente è arrivato loro. Ciò nonostante, il presidente del Consiglio non ha mai escluso la possibilità di estendere in futuro la platea dei beneficiari degli 80 euro. Che, per inciso, sono andati anche a famiglie che non ne avevano urgente bisogno, tipo due coniugi con redditi ciascuno di 24 mila euro, totale 48 mila euro l’anno, che hanno preso e prendono 160 euro al mese. Ma l’estensione agli incapienti avverrà solo «se ci saranno le risorse», ha sempre precisato il governo. Da qualche mese Poletti sta approfondendo la materia, in vista della prossima legge di Stabilità. Con impegno, va detto. Ha incontrato l’Alleanza contro la povertà, che riunisce 32 associazioni che si occupano del problema, le Regioni e gli enti locali, i quali, nel deserto di interventi statali, provvedono, tra mille difficoltà, a fronteggiare una piaga che altrimenti solo la Chiesa e qualche volontario allevierebbe.

Bene, che cosa viene fuori da questi incontri? Che mentre Renzi annuncia un piano da 35-45 miliardi per tagliare le tasse, Poletti dice che sarebbe già un miracolo trovare un miliardo e mezzo in tre anni per i poveri. E questo dopo che lo stesso ministro aveva giudicato ragionevole la proposta dell’Alleanza che propone l’introduzione in Italia — unico Paese in Europa oltre la Grecia a non avere uno strumento universale di lotta alla povertà — del Reis, un Reddito di inclusione sociale per quei 4,1 milioni di italiani che si trovano in povertà assoluta. Secondo l’Alleanza, per assicurare il reddito sufficiente a uscire da questa condizione, il governo dovrebbe stanziare a regime 7 miliardi l’anno. Ma intanto, suggerisce la proposta consegnata al governo, si potrebbe cominciare con 1,8 miliardi nel 2016 per soccorrere i più disperati e poi coprire l’intera platea nel giro di 4 anni. Ovviamente, secondo un approccio non meramente assistenziale, il sostegno non dovrebbe trasferire solo denaro, ma anche servizi, ed essere sottoposto, come si dice, alla «prova dei mezzi», per evitare cioè che vada agli evasori (si può ricorrere all’Isee e a tutti gli incroci di banche dati oggi possibili), e subordinato a un comportamento attivo dei beneficiari (accettazione di percorsi di reinserimento sociale per sé e i figli).

Allo stesso tempo, il presidente dell’Inps insiste nel proporre un «sostegno per l’inclusione attiva» per le persone che hanno più di 55 anni perché sono quelle, spiega Tito Boeri dal suo osservatorio, più penalizzate dalla crisi, nel senso che quando perdono il lavoro difficilmente ne trovano un altro, ma neppure hanno l’età per andare in pensione. L’economista, ha spiegato ieri in un’intervista al Mattino, che le risorse si potrebbero trovare nell’ambito delle politiche gestite dallo stesso Inps, dato che «ci sono molte prestazioni assistenziali oggi appannaggio del 30% più ricco della popolazione» e che «su 100 euro di spesa sociale solo 3 euro vanno ai più poveri». Se è così — e il presidente dell’Inps non avrà difficoltà a fornire tutti gli elementi per una valutazione approfondita — non dovrebbe essere difficile trovare quel miliardo e 800 milioni per partire con il Reis e cominciare a coprire l’intera platea della povertà assoluta. Basta che Lavoro, Inps e Tesoro si siedano attorno allo stesso tavolo e collaborino. Se davvero questa è una priorità del governo.

5 agosto 2015 (modifica il 5 agosto 2015 | 09:15)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_05/impegno-concreto-contro-poverta-3fd3e92e-3b3a-11e5-b627-a24a3fa96566.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Il welfare al contrario, così lo Stato aiuta più i ricchi che ...
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2015, 10:48:23 am
SPESA ASSISTENZIALE
Il welfare al contrario, così lo Stato aiuta più i ricchi che i poveri
Il paradosso della spesa per assistenza: al 40% più povero delle famiglie italiane va meno di un quarto del totale


Di Enrico Marro

Tra i tanti paradossi della spesa pubblica italiana ce n’è uno particolarmente fastidioso, quello che vede la spesa assistenziale andare a favore più dei ricchi che dei poveri. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, lo sospettava già da economista, ma ora che ha una visione diretta dei dati ne ha avuto la conferma.

Prendendo la spesa per prestazioni assistenziali gestita dall’Inps e legata anche a requisiti di reddito e suddividendo le famiglie che ne beneficiano in dieci decili secondo l’Isee (misura reddito e patrimonio) si osserva che essa va per meno di un quarto (il 23%, per la precisione) agli ultimi 4 decili, cioè al 40% delle famiglie più povere. In particolare, solo il 4% della spesa va all’ultimo decile, mentre il 10% delle famiglie più ricche beneficia del 14% della spesa e al secondo decile dei più ricchi va, in proporzione, la fetta maggiore dell’assistenza, il 19%. Insomma, un terzo della spesa si rivolge al 20% più ricco.

La spesa
Il totale delle uscite considerate vale circa 20 miliardi l’anno, di cui la metà per le integrazioni delle pensioni al minimo, quasi 5 miliardi per pensioni e assegni sociali e il resto per maggiorazioni varie delle pensioni, sempre legate al reddito. Ma allora come è possibile che la spesa si addensi verso i decili di famiglie più ricche? Per due ragioni. La prima è che una parte delle prestazioni in pagamento sono ancora quelle liquidate quando i requisiti di reddito non erano previsti dalle norme o erano meno severi. Per esempio, l’integrazione al minimo, che lo Stato dà a 3,5 milioni di pensionati che hanno meno di 15 anni di contributi versati e non raggiungono l’importo minimo fissato per legge ogni anno (502,38 euro al mese nel 2015), fino al 1983 era concessa indipendentemente dal reddito e dall’83 al 1992 sulla base dei redditi del solo pensionato, mentre solo dal 1992 si considera anche quello del coniuge. La seconda ragione che spiega il paradosso è che un conto è considerare come requisito per la prestazione il solo reddito Irpef, come si fa ora, un altro l’Isee, che include anche la ricchezza patrimoniale immobiliare e mobiliare (conti correnti, depositi, titoli, azioni e altri investimenti finanziari) e il possesso di veicoli e che lo fa non solo per il beneficiario, ma anche per il coniuge e i figli, cioè per tutti i tutti i componenti del nucleo familiare.

Il metodo
È evidente che se si applicasse l’Isee, soprattutto quello riformato nel 2013 che è abbastanza sofisticato e può contare sull’incrocio delle banche dati, non solo si scoverebbero più facilmente prestazioni erogate a evasori fiscali, ma si potrebbe anche risparmiare qualche miliardo di euro all’anno che oggi va a famiglie che non hanno bisogno di assistenza. Un’operazione che potrebbe servire alla spending review, la revisione della spesa pubblica, oppure a finanziare l’introduzione del Reis, il reddito di inclusione sociale, contro la povertà, ma che si scontra col tema dei cosiddetti diritti acquisiti. Altri risparmi sarebbero possibili se l’Isee si applicasse anche ad altre voci importanti di spesa, come per esempio l’indennità di accompagnamento per gli invalidi totali non autosufficienti (13,6 miliardi nel 2014 per circa 2 milioni di persone) e che sono state sempre slegate dal reddito. Ma quest’ultimo, come è facilmente intuibile, è un capitolo ancora più difficile da toccare.

7 agosto 2015 (modifica il 7 agosto 2015 | 11:12)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_07/welfare-contrario-cosi-stato-aiuta-piu-ricchi-che-poveri-584623f4-3cdf-11e5-a2f1-a2464143b143.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Nel mondo sindacale serve più trasparenza
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 04:34:49 pm
Nel mondo sindacale serve più trasparenza
Quella delle retribuzioni d’oro è solo l’ultima puntata di una vicenda che affonda le sue radici nella natura non regolamentata delle organizzazioni sindacali in Italia.
Nessuno sa, per esempio, quanti sono gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil

Di Enrico Marro

Fausto Scandola, è proprio il caso di dirlo, ha fatto scandalo. L’ex dirigente della Cisl del Veneto, che in una email ai piani alti del sindacato ha denunciato le retribuzioni di alcuni personaggi di primo piano dell’organizzazione che sfiorano i 300 mila euro lordi l’anno, ha suscitato le reazioni indignate di migliaia di iscritti, non solo della Cisl, e ha obbligato i leader sindacali a correre ai ripari, promettendo tetti ai compensi e divieti di cumulo. Tardi, purtroppo. Sono anni, infatti, che il sindacato è alle prese con una questione trasparenza grande come una casa. Quella delle retribuzioni d’oro è solo l’ultima puntata di una vicenda che affonda le sue radici nella natura non regolamentata delle organizzazioni sindacali in Italia.

Quanti sono gli iscritti a Cgil, Cisl, Uil e alle altre centinaia di sigle? Nessuno lo sa. Poiché i sindacati sono associazioni di fatto, bisogna fidarsi di ciò che dichiarano. E un discorso analogo potrebbe farsi per le associazioni imprenditoriali, dalla Confindustria in giù. Solo nel settore pubblico, grazie alla legge, esiste una certificazione degli iscritti, affidata a un ente terzo, l’Aran. Nel privato, per ora, c’è un accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, firmato il 10 gennaio 2014, ma non ancora attuato. Prevede che debba essere l’Inps a conteggiare il numero di iscritti a ogni sigla. Ma la maggior parte delle aziende, non essendo obbligate per legge, non hanno comunicato i dati. Quanto ai pensionati, anche in questo caso, i dati sono presso l’Inps, che quattro mesi fa ha rivelato che gli iscritti al sindacato sono 7,1 milioni su un totale di 15,8 milioni di pensionati. I dati ottenuti dal Corriere fecero scoprire una differenza tra iscritti reali e dichiarati di circa il 20% in meno per le tre maggiori confederazioni e del 1000%, cioè dieci volte tanto, per sigle minori come l’Ugl e la Cisal. Qualche anno fa, del resto, era stato un altro sindacato autonomo, la Confsal, a produrre uno studio in cui denunciava che in Italia c’erano complessivamente «oltre 3 milioni di iscritti fantasma».

Quanti soldi prendono e quanti ne spendono i sindacati? Anche qui nessuno lo sa, non essendo obbligati a presentare i bilanci. Le sigle che stanno più avanti sono Cgil, Cisl e Uil, che però non redigono il bilancio consolidato di tutta l’organizzazione, ma budget separati per ogni struttura. Viviamo di tessere, dichiarano: fruttano circa 1,2 miliardi all’anno per Cgil, Cisl e Uil assieme. Ma sappiamo anche che al sistema dei Caf e dei patronati (dove i sindacati fanno la parte del leone) vanno rispettivamente circa 170 milioni e 4o0 milioni l’anno dal bilancio dello Stato.

Quanto guadagnano i dirigenti sindacali? La risposta è come le precedenti. Ogni sigla ha le sue regole e le tiene segrete. Solo dopo i recenti scandali — in particolare la retribuzione dell’ex segretario della Cisl Raffaele Bonanni salita fino a oltre 300 mila euro lordi per consentirgli di andare in pensione con più di 5 mila euro netti al mese — alcuni sindacati hanno iniziato a mettere i dati online. Ha cominciato il segretario della Fiom-Cgil, Maurizio Landini (2.262 euro netti la sua busta paga), seguito dalla Fim-Cisl. Ora, dopo la denuncia, riportata qualche giorno fa da Repubblica, di Fausto Scandola, che ha chiesto conto dei 256 mila euro lordi di Antonino Sorgi, presidente del patronato Inas-Cisl, dei 289 mila di Valeriano Canepari, ex presidente del Caf, dei 225 mila di Gigi Bonfanti, segretario dei pensionati e dei 237 mila di Pierangelo Raineri, leader della Fisascat, il segretario della Cisl Annamaria Furlan (circa 100 mila euro lordi la sua retribuzione), promette che metterà tutto online. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, lo aveva consigliato loro non appena arrivato a Palazzo Chigi. Adesso potrebbe affondare il colpo e attuare con una legge l’articolo 39 della Costituzione, che prevede la registrazione dei sindacati e di conseguenza il conferimento loro di personalità giuridica in modo da dare efficacia generale ai contratti firmati dalle organizzazioni maggioritarie (ma potrebbe servire anche per la proclamazione degli scioperi). La Cisl è stata sempre contraria all’intrusione della legge. Ma dopo gli ultimi scandali è molto indebolita. E i suoi stessi iscritti si chiedono se i loro interessi siano garantiti meglio dalla legge o dalle regole interne gelosamente custodite.

13 agosto 2015 (modifica il 13 agosto 2015 | 11:14)
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_13/mondo-sindacale-serve-piu-trasparenza-1ba76aa4-4192-11e5-b414-c15278464aa4.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Quattro modifiche strutturali e ben dieci decreti legge per l'Imu
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2015, 11:49:50 am
Quattro modifiche strutturali e ben dieci decreti legge per l'Imu in soli due anni

Di Enrico Marro

ROMA Quando le cose si mettono male, il governo fa cassa più del solito sulle voci che, per definizione, non possono sfuggire al Fisco: dagli stipendi e le pensioni con il prelievo alla fonte fino alla casa, bene immobile difficile da nascondere. Per la verità, nel 1992, il governo Amato, con l’Italia sull’orlo del baratro, si inventò anche il prelievo del 6 per mille, nottetempo, sui depositi bancari. Che è rimasta, in assoluto, la tassa più odiata dagli italiani. Ma, per fortuna, una tantum, almeno in quella forma. La casa, invece, è una sorta di bancomat al quale ricorrono tutti i governi, ciascuno a modo suo.

E poiché il 76% delle famiglie italiane vive in una casa di proprietà, è chiaro che togliere o mettere una tassa sugli immobili, aumentarla o ridurla, è una potente leva per guadagnare voti alle elezioni. Eppure si parla, per esempio con la Tasi sulla prima casa, di un prelievo che in media è stato di 175 euro nel 2014, cioè meno di 15 euro al mese, secondo i dati del ministero dell’Economia, per un gettito totale di 3,4 miliardi al quale ora il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha annunciato di voler rinunciare dal 2016. Perché, ha spiegato il suo consigliere economico, Yoram Gutgeld, la tassazione sulla casa, in particolare sulla prima, ha avuto un effetto recessivo, non tanto per l’entità del prelievo ma soprattutto perché ha aumentato la sfiducia e il senso di insicurezza delle famiglie. Comprensibile, davanti a un continuo cambiamento delle regole. In due anni, l’Imu, cioè la principale imposta sugli immobili, «è stata oggetto di 4 modifiche strutturali e di ben 10 decreti legge su aspetti secondari (come l’Imu agricola o sui macchinari imbullonati)», ha osservato Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale del ministero dell’Economia. «Ne è nato un inferno fiscale, dove nessuno ha capito più niente».

Ma cominciamo dall’inizio. In principio c’era l’Isi, imposta straordinaria sugli immobili, istituita anche questa dal governo Amato nel 1992, con un’aliquota del 3 per mille sul valore catastale degli immobili, e subito trasformata, nel 1993, in Ici (imposta comunale sugli immobili). Il prelievo da straordinario diventava strutturale e l’aliquota saliva (tra il 4 e il 7 per mille a discrezione dei comuni). Dieci anni dopo, nel 2003, il gettito già superava 11 miliardi, per salire fino a 12,7 nel 2007. Poi, nel 2008, l’allora premier Silvio Berlusconi, che già nella campagna elettorale del 2006 aveva promesso l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, la tolse per decreto. Il gettito calò di tre miliardi e rimase intorno ai nove miliardi e mezzo all’anno fino alla drammatica estate del 2011, con l’Italia di nuovo a un passo dalla bancarotta. Arrivò il governo Monti e furono davvero lacrime e sangue. L’Imu, la nuova tassa messa a punto da Berlusconi, che avrebbe dovuto prendere il posto dell’Ici dal 2014 (sempre escludendo la prima casa), fu anticipata al 2012, imposta anche sulle abitazioni principali e inasprita con specifici moltiplicatori delle rendite catastali.

Una stangata che fece balzare il gettito dai 9,8 miliardi del 2011 ai 23,6 del 2012. Subito dopo Monti, toccò a Enrico Letta, premier del Pd, ma sostenuto anche da Berlusconi al quale dovette pagare il prezzo di togliere l’Imu sulla prima casa. Che però rispuntò, dal 2014, sotto un nome diverso, la Tasi, tassa sui servizi indivisibili. I fatti smentirono le promesse. Il carico fiscale sulla prima casa risultò alleggerito di appena 500 milioni che però, paradossalmente, sono stati pagati in meno da proprietari di case con rendite catastali alte mentre quelli con abitazioni di minor pregio hanno mediamente pagato di più di prima, perché sono state tolte le detrazioni fisse. Sulle seconde case l’imposta è aumentata molto.

Complessivamente, l’Imu-Tasi nel 2014 è costata ai cittadini 25,2 miliardi, il 15% in più dell’Imu 2013 (quando non si pagò sulla prima casa) il 7% in più del 2012 (quando l’imposta colpiva anche l’abitazione principale) e il 157% in più dell’Ici 2011. Adesso Renzi promette che semplificherà tutto con un un’unica tassa, la Local tax, che non graverà sulla prima casa. Si tratta di uno sconto di circa 3 miliardi e mezzo (che diventano 5 cancellando anche l’Imu sui macchinari imbullonati e quella agricola) su un prelievo patrimoniale sugli immobili che complessivamente vale circa 45 miliardi l’anno tra Imu, Tasi, Irpef, Ires, Iva, imposte di registro e catastali. E senza contare la Tari-Tares-Tarsu-Tia, cioè le varie tasse sui rifiuti: un rompicapo gestito dai comuni, che costa ai cittadini almeno altri 8 miliardi all’anno.

Ma come siamo messi nei confronti internazionali? A livello Eurostat e Ocse si possono paragonare solo le tasse sulla proprietà. Per l’Italia l’Imu, che è appunto passata da circa lo 0,6% del Pil nel 2011 all’1,2% nel 2013. Siamo ancora sotto la Francia (2,5% del Pil nel 2013), il Regno Unito (3,2%), gli Stati Uniti (2,7%). Ma sopra la Spagna (1,1%) e la Germania (0,4%).

21 luglio 2015 (modifica il 21 luglio 2015 | 11:24)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_21/casa-bancomat-fisco-2014-tasi-imu-piu-25-miliardi-euro-e15f7e70-2f78-11e5-882b-b3496f35c4c0.shtml


Titolo: Enrico MARRO - ... le tre regole d'oro di Buffett per guadagnare in Borsa
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2015, 12:16:11 pm
Così ho trasformato 6mila dollari in 67 miliardi: le tre regole d'oro di Buffett per guadagnare in Borsa
Il più grande investitore di tutti i tempi domenica ha soffiato su 85 candeline. I segreti del suo incredibile successo? Sono gli stessi da sempre. Ma funzionano sempre alla grande. Eccoli

Di Enrico Marro

1. Guadagnare in Borsa come Buffett / Il mago che batte regolarmente gli indici di Wall Street
La leggenda vivente dei mercati finanziari ha compiuto 85 anni. Warren Buffett era appena un bambino quando iniziò a guadagnare vendendo porta a porta chewing-gum, bottiglie di Coca-Cola e riviste. Dopo aver fatto lo strillone, ha avviato (sempre da piccolo) un business legato alle macchine da flipper. A 11 anni ha comprato le prime azioni della sua vita, guadagnando in quattro anni 6mila dollari. A 14 anni ha acquistato dei terreni agricoli che sono saliti di prezzo fino a “regalare” a Warren, alla fine dell'università, qualcosa come 90mila dollari attualizzati. Buffett, insomma, è davvero un mago. La sua Berkshire Hathaway ha battuto l'indice S&P di Wall Street per 43 anni negli ultimi 44.
Ma qual è il segreto dell'85enne “grande vecchio” dei mercati? Il bello è che non ci sono segreti: Buffett ha spiegato molte volte come sceglie le azioni che gli danno soddisfazione. Il mago analizza i fondamentali delle società con alcune semplici ma ferree regole, proprio come faceva il suo maestro Benjamin Graham (il guru del “value investing”, una leggenda di Borsa del passato). L'obiettivo? Cercare valore in quello che compra. Ecco le tre regole d'oro di Buffett per guadagnare.

2. Guadagnare in Borsa come Buffett / Primo: lente d'ingrandimento sui dati finanziari delle aziende (nel lungo periodo)
Nella sua accurata selezione di azioni da acquistare, Warren Buffet passa al setaccio innanzitutto i fondamentali finanziari delle aziende. Guarda al lungo periodo, come il suo maestro Graham, non al trading di breve respiro. «Le azioni non sono pezzi di carta, ma pezzi di business», ama ripetere. Buffett si focalizza in particolare sul ROE, ossia la redditività del capitale proprio (return on equity): per entrare nei suoi radar questo magico numeretto dev'essere robusto, almeno pari al 15% nell'ultimo decennio. Ovviamente le aziende devono avere una bassa leva finanziaria e magari una politica di dividendi degna di questo nome.
Un esempio? Coca-Cola, che l'oracolo di Omaha ha in portafoglio dal lontano 1988, e che vanta un ROE regolarmente superiore a quello della media dello S&P500.
Prima di scegliere, comunque, Buffett analizza un'enorme mole di dati finanziari storici sulle singole aziende. E guarda attentamente a management, debito e investimenti. Vediamo.


3. Guadagnare in Borsa come Buffett /Secondo: scegliere aziende poco indebitate e che investono (con un occhio attento al management)
L'oracolo di Omaha non ama le imprese indebitate: strangolate dal fardello degli interessi da pagare, risultano meno solide sul fronte degli utili, e in ogni caso sono più fragili. Meglio aziende sane, in grado di generare buoni margini e soprattutto focalizzate sul reinvestimento dei profitti.
Buffett ovviamente è molto attento anche alla qualità e alla stabilità del management. In particolare si concentra sul Ceo (l'amministratore delegato): guarda con attenzione al suo curriculum, alle sue scelte passate (che danno un'idea della propensione personale a rischi inutili) e perfino al suo stipendio (bonus stellari in aziende pesantemente indebitate accendono lampadine d'allarme).
Ma quello che più interessa al mago della finanza è trovare “valore”, perché è questo l'ingrediente magico che farà crescere un'azienda nel lungo termine, al di là degli scossoni temporanei. Ecco come fa.

4. Guadagnare in Borsa come Buffett / Puntare su aziende con prospettive di lungo termine (e con un solido “vantaggio di mercato”)
Come trovare il mitico “valore” delle aziende, quello che garantisce solidi ritorni su ampi orizzonti temporali? Intanto Buffett consiglia di puntare su compagnie con prospettive di lungo termine: «Questa impresa sarà in grado di vendere i suoi prodotti tra 30 anni?» è una delle domande preferite del mago, assieme a «Internet cambierà il modo di usare questo prodotto?». Se la rivoluzione digitale sta mutando un prodotto o servizio e rischia di farlo diventare irrilevante, meglio starne alla larga.
Buffett ama anche i modelli di business semplici e consolidati. Ma quello che adora è il cosiddetto “market edge”, il vantaggio di mercato: quindi predilige le aziende che fanno un prodotto unico o vendono qualcosa che non ha alternative.
Regole semplici, insomma, anche se qui ne abbiamo dato solo qualche breve flash. Ma collaudate, solide e soprattutto redditizie. Nel lungo periodo, che Warren da buon 85enne ama, hanno regalato al mago della finanza e ai suoi azionisti grandi soddisfazioni. Buon compleanno Warren, altri 85 di questi giorni. E altri 67 di questi miliardi.


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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-09-01/guadagnare-borsa-come-buffett-mago-che-batte-regolarmente-indici-wall-street-184124.shtml?uuid=ACvAhEq&nmll=2707#navigation



Titolo: Enrico MARRO - Come tagliare le tasse La dura realtà del deficit
Inserito da: Arlecchino - Settembre 22, 2015, 06:33:16 pm
Come tagliare le tasse
La dura realtà del deficit

Di Enrico Marro

Con l’aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza che verrà approvato domani dal Consiglio dei ministri, va dato atto al governo di essere stato, una volta tanto, prudente nelle sue stime dello scorso aprile, tanto da doverle rivedere in meglio anziché in peggio. La crescita del Prodotto interno lordo sarà superiore al previsto, sia quest’anno (0,9% invece di 0,7%) che nei prossimi. E ciò è dovuto non solo a fattori esterni, forse irripetibili nella loro coincidenza, ma anche alle decisioni di politica economica che, alla fine, cominciano a produrre qualche effetto positivo sui consumi e sull’occupazione, sia pure ancora inferiori alle attese. Visti questi primi risultati, fa bene il governo ad insistere sulla linea intrapresa: taglio delle tasse e manovra espansiva. Ma est modus in rebus.

Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, annuncia che con la prossima legge di Stabilità, una manovra da 27 miliardi nel 2016 per evitare che aumentino le tasse (le cosiddette clausole di salvaguardia su Iva e accise che valgono 16 miliardi) e per tagliarne altre (da quelle sulla prima casa agli sgravi sul lavoro e per il Mezzogiorno), l’Italia sfrutterà i margini di flessibilità previsti delle regole europee fino a un punto di Pil, ovvero fino a 17 miliardi di euro, per finanziare gli interventi previsti. Ora, è bene chiarire che la formula «margini di flessibilità» ha un impatto diretto sul deficit. Ovvero: quando un governo chiede alla commissione di utilizzare i margini significa che sta chiedendo il via libera per aumentare il proprio deficit in rapporto al Pil. Per il 2016 l’Italia ha già ottenuto il permesso di far salire il deficit dall’1,4% tendenziale all’1,8%, grazie alle riforme per la crescita messe in campo. Si tratta di 6,4 miliardi di euro, che insieme con 10 miliardi di tagli della spesa pubblica (spending review) andranno a disinnescare le clausole di salvaguardia. In teoria rimarrebbe un altro 0,6% di margine di flessibilità, cioè una decina di miliardi di ulteriore espansione del deficit, che potrebbe essere concesso a fronte non solo delle riforme ma delle altre due condizioni previste dalle regole europee: il cofinanziamento di investimenti infrastrutturali; il dover far fronte a crisi, emergenze e calamità (gli immigrati?).

Renzi ha già detto che non intende utilizzare tutti i margini potenziali, anche perché sa benissimo che la Commissione europea non glielo concederebbe. E il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha precisato ieri alla Camera che il deficit nel 2016 non veleggerà verso il 3% e sarà inferiore al 2,6% previsto per quest’anno. Ma al di là di questo c’è una considerazione che dovrebbe consigliare prudenza al governo. Può un Paese con un debito pubblico di oltre il 130% del Prodotto interno lordo, che ogni anno si presenta sui mercati per chiedere circa 400 miliardi di euro di prestiti collocando titoli di Stato, finanziare quasi due terzi della manovra in deficit? Che fine farebbe la promessa di basare la credibilità della stessa sui tagli strutturali della spesa pubblica?

Il governo sa bene che la lunga stagione dei bassi tassi d’interesse potrebbe finire e che per l’Italia resta una priorità non prestare il fianco alla speculazione. Una maggior credibilità è stata conquistata al prezzo di anni di sacrifici senza precedenti. Ora dobbiamo consolidarla e non esporla al rischio di manovre con il passo più lungo della gamba.

17 settembre 2015 (modifica il 17 settembre 2015 | 07:29)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_settembre_17/dura-realta-deficit-f86c07c6-5cf7-11e5-aee5-7e436a53f873.shtml


Titolo: Enrico MARRO - La norma che regola gli scioperi e i disagi per i cittadini
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 02:56:55 pm
I diritti dei cittadini
Le proteste e una legge da cambiare
La norma che regola gli scioperi e i disagi per i cittadini

Di Enrico Marro

Ancora una volta uno sciopero proclamato da un sindacato minoritario riesce a fermare la metropolitana nella capitale. Ancora una volta di venerdì. Ancora una volta lasciando un profondo senso di rabbia e impotenza nei cittadini vittime di questi disagi. Cittadini che non hanno alcuna colpa del conflitto tra aziende e sindacati, ma ne pagano il prezzo, subendo danni concreti: giornate e appuntamenti di lavoro che saltano; visite mediche cui si deve rinunciare o che si raggiungono prendendo taxi costosi; anziani che devono chiamare figli o nipoti per farsi accompagnare in macchina. A Roma, ha ricordato il garante per gli scioperi nei servizi pubblici, Roberto Alesse, quello di ieri è stato il sedicesimo sciopero del trasporto locale dall’inizio dell’anno: quasi due al mese. Su tutto il territorio nazionale, nello stesso settore, ne sono stati proclamati 255, di cui 193 effettuati. Alla base delle proteste il mancato rinnovo del contratto di lavoro, scaduto da ben otto anni. Nella capitale, con l’aggravante che a circa un migliaio di lavoratori di Roma Tpl, consorzio di aziende private che gestisce parte del trasporto, non veniva più pagato lo stipendio da luglio. Motivi seri, dunque. E responsabilità pesanti dei datori di lavoro e dell’amministrazione capitolina.

L’Italia, fin dal 1990, si è dotata di una legge, la 146 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, per molti versi avanzata e severa, se confrontata a livello internazionale. N el nostro Paese non sono possibili scioperi ad oltranza, improvvisi, totali. Serve un preavviso, devono essere garantiti dei servizi minimi, vanno rispettati intervalli di tempo tra un’astensione del lavoro e la successiva, non sono possibili sovrapposizioni che paralizzino funzioni fondamentali della vita collettiva (nei trasporti, per esempio, non possono scioperare insieme treni e aerei). La legge ha cioè cercato di «contemperare», come dissero allora gli autori della normativa tra i quali Gino Giugni, il diritto allo sciopero tutelato dalla Costituzione e i diritti dei cittadini e degli utenti di vedersi assicurati servizi fondamentali (dai trasporti alla salute all’istruzione) anch’essi tutelati dalla Carta fondamentale. Del resto, lo stesso articolo 40 della Costituzione dice che «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».

La 146, però, ha disciplinato le modalità di svolgimento dello sciopero, ma non quelle di proclamazione. Così, ancora oggi, nulla impedisce anche a un sindacato microscopico di indire un’astensione dal lavoro, alterando proprio quell’equilibrio tra interessi diversi che la legge del 1990 voleva tutelare. Succede così, come è accaduto di nuovo ieri, che un sindacato minoritario possa paralizzare un servizio pubblico essenziale, grazie al fatto che per bloccare la metro basta che incroci le braccia una piccola parte degli addetti. È evidente a tutti che in questo caso c’è una sproporzione tra chi innesca la protesta e le conseguenze della stessa, spesso poi amplificate dall’effetto annuncio.

Ecco perché, senza nulla togliere alle ragioni di chi ieri ha scioperato a Roma (ma anche a Firenze e in altre città), è necessario un nuovo intervento per ristabilire un equilibrio non solo nel modo in cui lo sciopero nei servizi pubblici essenziali può svolgersi, ma anche nel modo in cui esso si proclama. Nella commissione Lavoro del Senato sono da tempo in discussione varie proposte di legge. Due in particolare, quella dell’ex ministro Maurizio Sacconi (Area popolare) e quella del giuslavorista Pietro Ichino (Pd), affrontano il problema, prevedendo, limitatamente al settore dei trasporti pubblici, che lo sciopero possa essere proclamato da sindacati che rappresentino la maggioranza dei lavoratori (o comunque una soglia minima), altrimenti sarebbe necessario sottoporre la proposta al referendum tra tutti i lavoratori interessati; una regola presente, sottolinea lo stesso Ichino, in Germania, nel Regno Unito, in Spagna. Il 26 luglio scorso, sul Corriere della Sera, nell’intervista a Lorenzo Salvia, il ministro dei Trasporti Graziano Delrio ha promesso che il governo avrebbe sostenuto l’approvazione in Parlamento di queste proposte. Ora bisogna accelerare.

3 ottobre 2015 (modifica il 3 ottobre 2015 | 07:33)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_ottobre_03/proteste-legge-cambiare-032261b6-698b-11e5-b67f-8dc132718e33.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Allarme di Hollande: «La Francia è in emergenza economica».
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 20, 2016, 04:08:17 pm
Allarme di Hollande: «La Francia è in emergenza economica».
Piano da 2 miliardi contro la disoccupazione

Con un articolo di Enrico Marro
18 gennaio 2016Commenti (14)

Una emergenza economica, con due priorità: la sicurezza e la disoccupazione. Il presidente della Francia, François Hollande, ha lanciato stamane l’allarme sulla situazione del Paese, che non riesce a risolvere i suoi problemi strutturali. Il capo dell’Eliseo ha presentato, a meno di 18 mesi dalle presidenziali, un piano d'emergenza sul lavoro. Sette misure chiave finanziate «con oltre 2 miliardi di euro di sforzi di bilancio». Hollande ha sottolineato che le misure saranno realizzate «senza prelievi supplementari di alcuna sorta», e che un miliardo di euro verrà impiegato per la formazione di 500mila disoccupati.

«Ritengo che di fronte al disordine mondiale, di fronte ad una congiuntura economica incerta e una disoccupazione persistente, vada anche proclamato uno stato d'emergenza economico e sociale», ha detto Hollande. Per i media francesi questa «è l'ultima chance» del presidente. «È la sua ultima battaglia - scrive Le Monde - sarà quella che segnerà il bilancio del suo quinquennato e che determinerà la sua capacità di correre per un secondo mandato nel 2017».

Attualmente il tasso di disoccupazione in Francia è del 10,4%, pari a 3,57 milioni di persone. Hollande ha vincolato la sua ricandidatura alle presidenziali del 2017 - ritenuta difficile visti i sondaggi che lo vedono arrancare in campo socialista dietro il primo ministro Manuel Valls - alla riduzione di questa percentuale assai elevata. Il piano contro la disoccupazione è costituito da 7 punti. Hollande si è impegnato a non ricandidarsi all'Eliseo nel 2017 se non riuscirà ad invertire la cosiddetta “curva della disoccupazione” .

Il piano di Hollande prevede il versamento di un premio di 2mila euro alle imprese con meno di 250 dipendenti per ogni assunzione con contratto indeterminato oppure con un contratto a tempo determinato di oltre sei mesi con un salario pari ad almeno 1,3 volte il salario minimo. Inoltre, grazie ad un sostegno finanziario dello Stato, si punta a far crescere i contratti di apprendistato dagli attuali 8mila fino a 50mila. Infine si pensa ad un tetto massimo per le indennità di licenziamento, mentre la futura riforma del codice del lavoro permetterà degli accordi in seno alle imprese che potranno derogare al contratto nazionale in tema di organizzazione del lavoro «nell'interesse dell'occupazione».

È stato anche stanziato un miliardo di euro per la formazione di 500mila disoccupati meno qualificati in settori come il digitale e l'ambiente. Esprimendosi davanti al consiglio economico e sociale, il presidente ha spiegato che per i francesi l'occupazione è «l'unica cosa che valga oltre alla sicurezza».

I due miliardi di euro, spiegano al ministero dell'economia, «verranno interamente finanziati» da risparmi e tagli alla spesa. Il credito d’imposta per le aziende che assumono (Cice) da temporaneo diventerà definitivo con un abbassamento strutturale dei contributi sociali a carico delle imprese.

L’economia francese fatica a uscire dalla crisi degli scorsi anni. Nel 2015 il Pil è aumentato dell’1,2% secondo le stime preliminari della Banca di Francia e quest’anno dovrebbe crescere dell’1,4 per cento.
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-01-18/allarme-hollande-la-francia-e-emergenza-economica-piano-2-miliardi-contro-disoccupazione-132705.shtml?uuid=AC82VGCC


Titolo: Enrico MARRO - Le nuove tutele per i lavoratori autonomi: dalla maternità ai ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 11:28:51 am
Le nuove tutele per i lavoratori autonomi: dalla maternità ai compensi, ecco come si cambia
Il nuovo statuto dei lavori prevede la possibilità di continuare a lavorare per chi aspetta un bimbo.
Misure contro la povertà, la figura del tutor per ridurre il tasso di abbandono scolastico

Di Enrico Marro

Piano contro la povertà e Statuto dei lavoratori autonomi. A Palazzo Chigi si lavora per approvare giovedì in consiglio dei ministri due disegni di legge collegati alla legge di Stabilità, che quindi godranno di una corsia preferenziale in Parlamento. Il primo sarà un ddl delega al governo per potenziare e riordinare gli strumenti a sostegno dei più bisognosi: secondo l’Istat gli italiani in condizioni di «povertà assoluta», cioè non in grado di acquistare un paniere di beni e servizi essenziali, sono 4,1 milioni. A questo fine la legge di Stabilità ha stanziato 600 milioni per la messa a regime del Sia, il Sostegno per l’inclusione attiva, e 220 milioni per l’Asdi, l’assegno che scatta dopo la Naspi (Nuova indennità di disoccupazione) per le persone in condizioni di bisogno.

Il secondo disegno di legge introduce o rafforza una serie di tutele (maternità, malattia) e di sostegni per i lavoratori autonomi. Qui la manovra di bilancio prevede 10 milioni per il 2016 e 50 per il 2017 (bisogna considerare che quest’anno serve meno perché le misure entreranno in vigore solo dopo l’approvazione di Camera e Senato).

Intesa con le fondazioni
A completamento degli interventi sulla povertà, nelle prossime settimane, verrà firmato un protocollo d’intesa con le fondazioni bancarie e con il Terzo settore (non profit) per il finanziamento di progetti di contrasto dell’abbandono scolastico e di miglioramento della qualità dell’istruzione nelle situazioni più disagiate. Si va dall’erogazione di sostegni monetari alla messa a disposizione di tutor per gli studenti. Le fondazioni forniranno una dotazione di 150 milioni di euro in tre anni che verranno distribuiti sui progetti selezionati fra quelli presentati da istituzioni scolastiche e locali. Per incentivare il progetto il governo concede un credito d’imposta col quale le fondazioni recupereranno fino a 100 milioni di euro.

800 milioni per i poveri
Va subito detto che il pacchetto povertà rappresenta un primissimo passo, quasi un atto dovuto, visto che tutti gli organismi internazionali rimproverano all’Italia la mancanza di strumenti universali di intervento (su questo piano, in Europa, siamo in compagnia della Grecia). Le risorse stanziate sono chiaramente insufficienti. Basti pensare che gli 800 milioni previsti per quest’anno (che saliranno a un miliardo nel 2017) equivalgono ad appena 200 euro in media a testa per i 4 milioni di poveri assoluti. Per questo la delega assegnerà al governo anche il riordino dell’assistenza. Arriverà un stretta sui requisiti per determinate prestazioni. La delega resterà sul vago. Per non creare allarme, verrà precisato che la riforma interverrà sulle prestazioni future e non su quelle in essere e non colpirà i disabili. Nel mirino, in particolare, le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali delle pensioni degli italiani residenti all’estero. «Paghiamo integrazioni e maggiorazioni a persone che vivono e pagano le tasse altrove, riducendo il costo dell’assistenza in questi Paesi», ha denunciato in Parlamento il presidente dell’Inps, Tito Boeri.
La delega sulla povertà prevede l’estensione a tutto il territorio nazionale del Sia (sostegno all’inclusione attiva), assegno introdotto in forma sperimentale nel 2014 in 12 cità con più di 250 mila abitanti e che può arrivare fino a 400 euro al mese, a integrazione del reddito delle famiglie con Isee inferiore a 3 mila euro. L’intervento privilegerà quelle con figli minori.

Tutele per le partite Iva
«Lo Statuto del lavoro autonomo e l’intervento sulla povertà — dice il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei — estendono tutele e diritti in un disegno di continuità con il Jobs act». Ma vediamo le principali novità previste dal collegato che riguarderà le partite Iva individuali e gli iscritti alla gestione separata dell’Inps (collaboratori). Questi lavoratori potranno dedurre tutte le spese di formazione dall’imponibile fino a 10 mila euro l’anno. Che scendono a 5 mila per le spese per certificazioni professionali.

L’assegno di maternità per 5 mesi non sarà più vincolato alla sospensione dell’attività lavorativa, ma verrà erogato anche se la lavoratrice autonoma, come spesso accade, deve continuare a far fronte agli impegni presi. Inoltre, in caso di malattia grave, comprese quelle oncologiche, si potrà sospendere il pagamento dei contributi sociali fino a un massimo di due anni (recuperando poi con pagamenti rateizzati). Infine, ci saranno norme di tutela contrattuale per impedire clausole vessatorie (per esempio, modifiche unilaterali di quanto pattuito) e ritardi nei pagamenti da parte dei committenti. Dovrebbe esserci anche un capitolo sullo smartworking, quello svolto senza postazione fissa. Il lavoratore dovrà ricevere un trattamento economico non inferiore a quello dei lavoratori dipendenti della stessa azienda, «a parità di mansioni svolte», e avrà diritto all’assicurazione sugli infortuni.

25 gennaio 2016 (modifica il 25 gennaio 2016 | 07:04)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_25/nuove-tutele-lavoratori-autonomi-maternita-compensi-ecco-come-si-cambia-partite-iva-b715604a-c2ed-11e5-9b69-aff8e7a41687.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Banche, il piano del governo per garantire i risparmiatori
Inserito da: Arlecchino - Luglio 12, 2016, 11:34:02 am
Banche, il piano del governo per garantire i risparmiatori
Decisivi gli «stress test»
Secondo il governo non c’è un caso banche italiane. Ma soluzioni riguardo al piano per gestire la crisi ancora non sono state raggiunte. A sentire le opposizioni sembra che la situazione stia per precipitare. Beppe Grillo scrive sul suo blog: «Se salta Mps, nuova crisi globale». Intanto, il 29 luglio si attende il risultato degli stress test su 53 istituti europei, cinque italiani

Di Enrico Marro

La situazione delle banche italiane, in particolare del Monte dei Paschi di Siena, è drammatica oppure no? A sentire il governo c’è “solo” un problema di «sofferenze», cioè di crediti inesigibili da smaltire, che può essere affrontato con «soluzioni di mercato» mentre per il resto non c’è un caso banche italiane perché, per esempio, la montagna di derivati in pancia agli istituti di credito tedeschi è un bubbone altrettanto preoccupante. A sentire le opposizioni sembra invece che la situazione stia per precipitare. Il leader del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, scrive sul suo blog che «Monte dei Paschi di Siena potrebbe scatenare una nuova crisi finanziaria globale trascinandosi dietro anche colossi esteri come Deutsche Bank». E Renato Brunetta di Forza Italia sfida il presidente del Consiglio, Matteo Renzi: «Venga in Parlamento a dire la verità».Di sicuro il governo, al di là delle dichiarazioni, è preoccupato. Anche perché sui due fronti del piano per gestire la crisi non si sono ancora raggiunte soluzioni. Non è stata infatti lanciata l’operazione di cartolarizzazione dei crediti deteriorati di Mps, che secondo la Banca centrale europea dovrebbero essere ceduti per almeno 10 miliardi (su un totale di 47 miliardi lordi) entro tre anni. Mancano purtroppo investitori privati (banche innanzitutto) disposti a mettere altri soldi nel fondo Atlante che dovrebbe occuparsi appunto di rilevare i crediti deteriorati. Sul secondo fronte del piano, quello della ricapitalizzazione del Monte, non c’è ancora l’accordo con l’Ue.

Appuntamento il 29 luglio
Oggi il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, volerà a Bruxelles per la riunione con i colleghi dell’Eurogruppo e domani dell’Ecofin. Sui tavoli e ancora di più nei corridoi si parlerà delle banche, anche se il tema non figura all’ordine del giorno. La trattativa con la Commissione europea è complicata. Oggetto del contendere sono le conseguenze a carico dei risparmiatori nel caso di intervento dello Stato nel capitale del Monte dei Paschi. Intervento per qualche miliardo (la misura dipende anche dal prezzo cui verranno ceduti i crediti deteriorati) che potrebbe rendersi necessario quando il 29 luglio l’Eba, autorità europea, renderà noti i risultati degli stress test su 53 banche europee, di cui 5 italiane (oltre a Mps, Unicredit, Intesa , Banco popolare e Ubi). Le nuove regole Ue prevedono che in caso di salvataggio pubblico di una banca vengano salvaguardati solo i depositi fino a 100 mila euro. Nessuna protezione invece per le quote eccedenti e per chi ha investito in titoli azionari e obbligazionari della banca. Questo perché si vuole che il prezzo del fallimento sia a carico di chi si è assunto il rischio dell’investimento e non dei contribuenti. Queste regole (bail in) possono però essere sospese e quindi la protezione accordata a tutti nel caso in cui sia a rischio la stabilità finanziaria, dicono le stesse regole Ue. Ci sono due fattori che potrebbero configurare questo rischio. 1) Mps è la terza banca italiana. 2) Obbligazioni subordinate per complessivi 5 miliardi sono in mano a 60 mila piccoli risparmiatori (2,1 miliardi rappresentati dal bond con taglio minimo da mille euro rifilato alla clientela per finanziare l’acquisto di Antonveneta) e a vari investitori istituzionali (circa 2 miliardi). Un mix che potrebbe scatenare il panico in caso di bail in. Ecco perché, dice il governo, andrebbe sospeso. Tanto più se gli stress test evidenzieranno che ci sono problemi anche per grandi banche straniere.

10 luglio 2016 (modifica il 11 luglio 2016 | 07:35)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_luglio_10/banche-piano-governoper-garantire-risparmiatoridecisivi-stress-test-5c1d7048-46cc-11e6-991c-561dff04b946.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Sempre più i miliardari nel mondo (+6,4%).
Inserito da: Arlecchino - Agosto 13, 2016, 10:57:10 pm
Sempre più i miliardari nel mondo (+6,4%). Sei cose da sapere su di loro
In Europa circa un terzo dei Paperoni mondiali, mentre il “gender gap” tra uomini e donne si allarga. Tutte le curiosità sui super-ricchi

   Di Enrico Marro 11 agosto 2016

1/6 Ci sono più miliardari in Europa che nel Nord America o in Asia

Nel 2015 il numero di miliardari mondiali (in dollari) è cresciuto del 6,4% a quota 2473, annuncia il rapporto annuale di Wealth-X. La prima sorpresa è che l'Europa ha più Paperoni dell'intero Nord America o dell'Asia: nel Vecchio Continente i miliardari sono 806, in aumento del 4% rispetto all'anno precedente, con una ricchezza complessiva di 2330 miliardi di dollari. Il Nord America ha meno miliardari (628, comunque in aumento del 3,1%) ma una maggior patrimonio complessivo (2561 miliardi). In grande spolvero sia il numero di Paperoni asiatici (645, +15,2%) che la loro ricchezza (1686 miliardi, +19,6%).

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Titolo: Enrico MARRO - «Contratti, non mi accontento di un caffè. ...
Inserito da: Arlecchino - Agosto 13, 2016, 11:00:49 pm
INTERVISTA
«Contratti, non mi accontento di un caffè.
Pensione anticipata? L’Ape è come fare un mutuo, sarà un flop»
Il segretario della Cgil, Susanna Camusso, boccia l’idea del prestito per lasciare il lavoro prima.
Chiede più risorse sulle pensioni basse e avverte: nessuno scambio tra un accordo sulla previdenza e un atteggiamento morbido sul referendum costituzionale

  Di Enrico Marro

Dopo l’incontro del luglio governo e sindacati sembravano ottimisti su un accordo su pensioni e mercato del lavoro. Ora ottimista è solo il governo mentre lei ha detto che «la vertenza continua». Che è successo?
«È successo — risponde Susanna Camusso, segretario generale della Cgil — che il governo ci ha detto che con la legge di Bilancio avrebbe messo a disposizione risorse “rilevanti”, ma le anticipazioni parlano di appena 1,5 miliardi di euro, una cifra chiaramente insufficiente. Inoltre, non va avanti l’ottava salvaguardia per gli esodati, non ci sono soluzioni per i lavori usuranti e per i precoci mentre l’unica cosa che sembra interessare al governo è l’Ape, questa specie di mutuo pensionistico sul quale abbiamo molte obiezioni».
Per la Cgil servono almeno 2,5 miliardi di euro, giusto?
«Su questa cifra si potrebbe cominciare a ragionare»
Ma col governo non si sta discutendo solo di Ape, ma anche di ricongiunzioni, usuranti, precoci, quattordicesima, no tax area. Certo, non si potrà fare tutto. Quali le priorità per la Cgil?
«È urgente aumentare la no tax area e allargare la platea dei beneficiari della quattordicesima. Bisogna inoltre intervenire a sostegno di coloro che svolgono lavori usuranti o hanno cominciato da ragazzi. Infine, vanno corrette le leggi sbagliate che impediscono le ricongiunzioni gratuite».
Non ha citato l’Ape.
«L’Ape è nei fatti un prestito, un marchingegno che non può funzionare come soluzione generale al tema della flessibilità in uscita».
Continua a pensare che l’Ape sia “un regalo a banche e assicurazioni”?
«Rischia di esserlo. E di alimentare grandi aspettative in queste istituzioni ma non nei lavoratori che vedono questa come una cosa profondamente ingiusta. Del resto è facile capire che l’idea che ci si debba indebitare alla fine dell’età lavorativa, con un prestito da restituire in 20 anni sulla stessa pensione, è un’idea contraria alla naturale propensione delle persone».
Pensa che sarà un flop, come il Tfr in busta paga?
«Con queste caratteristiche non c’è dubbio. Non solo. C’è anche il rischio di dare alle aziende uno strumento che può rivelarsi un capestro per i lavoratori nei processi di ristrutturazione. Lavoratori ai quali verrebbe imposta l’Ape».
C’è nel governo l’idea di coinvolgere Confindustria: visto che dal 2017 le aziende non verseranno più lo 0,3% per l’indennità di mobilità, potrebbero dirottare 600 milioni a sostegno dell’Ape.
«Un’idea due volte sbagliata. Primo, è sbagliato che non ci sia più la mobilità mentre siamo ancora in crisi. Secondo, considerando anche le indennità di mobilità corrisposte ai lavoratori, parliamo di 3-4 miliardi di euro l’anno. In mancanza, come governeremo le ristrutturazioni?».
L’Ape non può servire?
«No, perché non tutti i lavoratori coinvolti nelle ristrutturazione sono a ridosso della pensione. E poi, si pensa di rilanciare la crescita obbligando un po’ di gente ad andare in pensione indebitandosi?»
Qual è la flessibilità che proponete voi?
«Partiamo dal fatto che non tutti i lavori sono uguali. Bisogna ragionare sulle diseguaglianze nelle aspettative di vita e arrivare a età di pensionamento differenziate in base al lavoro svolto. Questo nella fase di transizione. Per i giovani che hanno il contributivo puro, invece, ci deve essere libertà di scelta su quando andare in pensione senza gli aumenti dell’aspettativa di vita. Per i precoci devono bastare 41 anni di contributi e va costruita una solidarietà interna al sistema per i lavoratori discontinui».
Proposte con costi spropositati, secondo il governo. Come le finanziereste?
«Contestiamo il modo in cui il governo calcolano i costi, perché considera che una misura venga utilizzata da tutti i potenziali aventi diritto, mentre non è così. Trovare i finanziamenti è un problema di scelte politiche. Mi limito a suggerire una progressività fiscale migliore e la patrimoniale sulle grandi ricchezze».
Il premier Matteo Renzi dice che bisogna trovare i soldi per aumentare le pensioni minime.
«Mi pare un segnale positivo, ma ci sono delle cose che non tornano. Non torna questo stop and go sulle risorse. E non torna che ad ora, nonostante numerosi incontri col governo, non ci sia nulla di scritto. Vorremmo meno annunci e più concretezza».
Sempre Renzi dice che se vince il referendum costituzionale destinerà i 500 milioni di risparmi sui costi della politica ai poveri. Che dice?
«Sembra un modo per condizionare il voto. Se vuole tagliare i costi della politica può farlo senza far dipendere la lotta alla povertà dal referendum».
Con la legge di Bilancio bisognerà finanziare anche il rinnovo dei contratti pubblici. Quanto serve?
«Con i 300 milioni stanziati non si comincia neanche. Ci vorranno alcuni miliardi, che non graveranno tutti sul primo anno. Noi puntiamo a un rinnovo dei contratti che assicuri risorse al livello nazionale e a quello decentrato ma anche a un modello innovativo e premiale. Non ci accontenteremo però di un caffè».
Se si arriverà a un accordo sulle pensioni e sui contratti pubblici, la Cgil ammorbidirà la sua posizione sul referendum costituzionale che oggi vi vede orientati sul no?
«Non c’è alcuno scambio. Sul referendum le valutazioni riguardano solo la riforma costituzionale. Il direttivo Cgil ha approvato un documento molto critico nel merito ma, anche se molti di noi voteranno no, ha deciso di non impegnare l’organizzazione nei comitati perché pensiamo che su un questo tema è bene che ogni iscritto decida in libertà dopo essersi informato».
Per questo non avete aiutato i comitati per il no a raccogliere le firme?
«La Cgil non era impegnata come organizzazione. Quando lo facciamo, lo facciamo su temi sindacali, come sul Jobs act, e non abbiamo avuto difficoltà a raccogliere le firme».

10 agosto 2016 (modifica il 11 agosto 2016 | 07:19)
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Titolo: Enrico MARRO - Guadagnare con i dividendi: come individuare le cedole «sane»
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 10, 2016, 10:53:30 pm
Guadagnare con i dividendi: come individuare le cedole «sane»

    –di Enrico Marro 10 ottobre 2016

Guadagnare da autentici “cassettisti”, piazzando in una parte del proprio portafoglio azioni dai ricchi dividendi e incassando le cedole, senza preoccuparsi troppo dell’andamento dei mercati. E' una strategia da non disprezzare, specialmente nell’epoca dei tassi a zero. Anche perché il “dividend yield” degli indici azionari resta sostenuto: il paniere Msci World Index per esempio offre un 2,61%, che sale al 3,67% se consideriamo il Msci Europe, al 4,05% per il Msci Uk Index e addirittura al 4,54% per il Msci Italy Index o il Msci Australia Index.

Ma quali sono i parametri da guardare per capire se i dividendi di queste aziende sono sostenibili nel tempo o verranno presto cancellati dai rispettivi board? Nick Clay, portfolio manager della Global Income Strategy a Newton, società del gruppo Bank of New York-Mellon, ha un suo metodo personale.

In primo luogo, bisogna individuare il “dividend payout ratio” della società. Si calcola in modo semplicissimo: basta dividere i dividendi distribuiti per gli utili netti, prendendo in considerazione la singola azione. Il dividend payout ratio è quindi un indicatore di quanti soldi l’azienda gira agli azionisti, in rapporto a quanti vengono tenuti in cassa per essere reinvestiti, per pagare debiti o per aggiungere liquidità.

Qual è la nazione più interessante il termini di crescita del dividend payout ratio? E' l’Australia, seguita a distanza dal terzetto costituito da Gran Bretagna, Francia e Canada. Poi ci sono Stati Uniti e Germania e infine, fanalino di coda, il Giappone.

Questo però non vuol dire che dobbiamo correre a investire in azioni australiane. Anzi. Come spiega Clay, «un payout ratio crescente è positivo solo se l’azienda sta pagando dividendi legati a utili robusti, senza “cannibalizzarsi” finanziando le cedole attraverso il debito».

Bisogna in altre parole capire se “payout ratio” crescenti non si traducano in utili calanti. Se un’azienda mantiene le cedole stabili nonostante un calo dei profitti, infatti, il suo payout ratio sale automaticamente, ma questo non indica che è sana. E' quello che è accaduto a molte imprese energetiche: dividendi stabili ma profitti in calo, quindi un payout ratio in crescita. Non certo un buon investimento. Anzi.

Un buon metodo per capire se un'azienda è sana, e sarà in grado di mantenere il livello della sua cedola senza brutte sorprese, è l’analisi del flusso di cassa. Bisogna focalizzarsi sulle aziende che da una parte generano un robusto flusso di cassa, ma dall’altra non hanno bisogno di investimenti “capital-intensive” e quindi non hanno ragione di tenersi tutti gli utili senza distribuirli. Questi, secondo Clay, sono i titoli da acquistare, perché anche se presentano un elevato payout ratio, sono in grado di mantenerlo nel tempo. Magari aumentando anche gli utili.

Vanno invece evitati i titoli di chi si indebita per distribuire dividendi allo scopo di rendere l’azienda appetibile: questo tipo di politica porta prima o poi a un collasso degli utili, spiega ancora Clay, che ha ovviamente pesanti ripercussioni anche sulle cedole. Attenzione quindi a chi presenta un payout ratio del 100% o superiore. «Significa che l’intera massa dei profitti, o anche una somma superiore, viene usata per remunerare gli azionisti: può essere piacevole nel breve termine - conclude Clay - ma a lungo andare diventa insostenibile».

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Titolo: Enrico MARRO - Cartelle Equitalia, le regole per rottamarle e non pagare gli ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 08, 2016, 11:20:28 pm
Cartelle Equitalia, le regole per rottamarle e non pagare gli interessi
Disponibile on line sul sito di Equitalia il modulo per aderire alla procedura agevolata.
C'è tempo fino al 23 gennaio 2017

Di Enrico Marro

Al via la rottamazione delle cartelle esattoriali. Equitalia ha rilasciato il modulo col quale i contribuenti potranno aderire alla procedura di «definizione agevolata» delle cartelle prevista dal decreto legge che accompagna la manovra. Procedura che consentirà di non pagare più le sanzioni e gli interessi, con un risparmio che può arrivare fino al 50% del dovuto. Il modulo (4 cartelle di cui vanno riempite solo le prime due e mezzo) è scaricabile dal oggi sul portale www.gruppoequitalia.it. Il modulo (la cui sigla è DA1) sarà, da lunedì, disponibile anche presso tutti gli sportelli del gruppo Equitalia e i contribuenti avranno tempo fino al 23 gennaio 2017 per aderire alla rottamazione. Il documento dovrà essere consegnato presso gli sportelli Equitalia oppure inviato, insieme alla copia di un documento di identità, all’indirizzo di posta elettronica (email o pec) riportato sul modulo (ce n’è uno per ogni Regione). Come prevede il decreto legge 193/2016, con la definizione agevolata, si può scegliere di pagare in un’unica soluzione o a rate (fino a un massimo di quattro), l’ultima delle quali dovrà essere saldata entro il 15 marzo 2018. Equitalia invierà, come previsto dallo stesso decreto, entro il 24 aprile del 2017, una comunicazione ai contribuenti che hanno aderito alla definizione agevolata in cui sarà indicata la somma dovuta insieme ai relativi bollettini con le date di scadenza dei pagamenti. Nel modulo il contribuente può scegliere di pagare tramite domiciliazione bancaria. Anche chi ha un piano di rateizzazione già in corso può aderire, ma deve pagare integralmente le rate in scadenza fino al 31 dicembre 2016.

Equitalia, 100 miliardi di cartelle rottamabili Ecco chi potrà pagare le tasse senza interessi

La mappa delle cartelle «rottamabili»
Rinunciare al contenzioso
Gli interessati alla rottamazione dovranno compilare le caselle con le proprie generalità, il codice fiscale e l’elenco dei carichi pendenti di cui chiede la rottamazione. Possono rientrare nella «definizione agevolata» le cartelle, gli avvisi di accertamento esecutivo dell’Agenzia delle Entrate, delle Dogane e dei Monopoli e gli avvisi di addebito dell’Inps affidati al gruppo Equitalia dal primo gennaio 2000 al 31 dicembre 2015. Nello stesso modulo il contribuente indicherà se intende pagare in un’unica soluzione oppure in due, tre o quattro rate. In caso di pagamento rateizzato sono dovuti gli interessi di legge, pari al 4,5% annuo. Se anche una sola delle rate non verrà pagata o sarà pagata in ritardo, si decadrà dalla procedura agevolata. La rottamazione, infine, sarà possibile solo se le cartelle non sono oggetto di giudizi pendenti o, in caso contrario, se si rinuncia al contenzioso. Nonostante il modulo sia disponibile, visto che c’è tempo fino al 23 gennaio per aderire, forse conviene aspettare, perché nel corso dell’esame parlamentare del provvedimento potrebbero esserci importanti modifiche. In commissione, alla Camera, sono stati infatti presentati ben 1.043 emendamenti da parte di tutti i gruppi. Le richieste più frequenti riguardano l’ampliamento della possibilità di rateizzare il pagamento, la cancellazione dell’aggio dovuto a Equitalia, l’estensione della rottamazione anche alle cartelle del 2016 e ai 2.500 comuni che si avvalgono di società diverse da Equitalia per la riscossione. Il governo è disponibile a valutare correzioni, purché non pregiudichino il gettito previsto (2 miliardi nel 2017).

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4 novembre 2016 (modifica il 5 novembre 2016 | 08:47)

Da - http://www.corriere.it/economia/16_novembre_04/cartelle-regole-rottamarle-53f556d8-a2c0-11e6-9bbc-76e0a0d7325e.shtml


Titolo: Enrico MARRO - Quanto rischi di diventare povero?
Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2016, 09:14:44 pm
Quanto rischi di diventare povero?

Di Enrico Marro 24 novembre 2016

Quali sono i “fattori di rischio” che possono portare alla povertà? È una delle domande che si pone il nuovo Global Wealth Report di Credit Suisse, settima edizione dello studio che ogni anno analizza la ricchezza di 4,8 miliardi di persone adulte in più di 200 Paesi del mondo. La novità del 2016 è che la corposa analisi della banca svizzera si sofferma anche sui poveri, l’ampia e sfortunata base della “piramide della ricchezza”, ossia gli adulti che possiedono meno di 10mila dollari. Si tratta di oltre tre miliardi e mezzo di persone, pari quasi a tre quarti della popolazione mondiale. Non pochi.

In Italia un minore su tre a rischio povertà
Ci sono tratti comuni a tutti i poveri del globo, spiega la ricerca di Credit Suisse, “fattori di rischio” che accomunano i diseredati di Europa, America e Asia. I più comuni sono tre: essere giovani, single e poco istruiti. «Nella maggior parte dei Paesi il più grande “rischio” è avere meno di 35 anni - si legge nello studio - fattore che aumenta la probabilità di povertà in media del 15%». Non sorprende, poiché gli under 35 si ritrovano all’inizio del loro ciclo di risparmio e accumulazione della ricchezza. «Ma di recente i giovani hanno anche dovuto far fronte a particolari difficoltà - continua l'analisi - per esempio una crescita sproporzionata della disoccupazione, sulla scia della crisi finanziaria globale». Una buon livello di istruzione aiuta i giovani a evitare il rischio povertà, ma non offre la garanzia completa di sfuggire dalla “base della piramide”.

Scendiamo in dettaglio nelle macroaree geografiche. Nell’Europa continentale a correre il maggior “rischio povertà” sono i giovani single di sesso maschile, disoccupati e con basso livello di istruzione, mentre nel Regno Unito la fascia più debole è costituita dalle giovani madri separate e con scarsa scolarizzazione. Vediamo invece i ricchi: nell’Europa meridionale il segmento più facoltoso è quello delle coppie over 65, in pensione e con livelli di istruzione superiore.

Un’altra caratteristica della “base della piramide” è quella di essere pesantemente indebitata. In Europa, in particolare, a pesare sui budget dei meno abbienti sono i mutui immobiliari, mentre negli Stati Uniti a questi si aggiunge il peso non indifferente dei prestiti contratti per coprire i costi dell’istruzione superiore.

I super ricchi hanno sempre di più
Se consideriamo la sola Italia, poi, scopriamo che nel 2016 la ricchezza media netta per italiano adulto è scesa rispetto all’anno precedente dell’1,1%, a quota 202.288 dollari a persona. A cambi costanti la diminuzione è stata di circa lo 0,8%. Il calo della ricchezza in Italia è stato guidato prevalentemente dalla diminuzione della ricchezza mobiliare, scesa del 6,1% per adulto nel periodo 2015/2016 a cambi correnti e del 5,8% a cambi costanti. La capitalizzazione dei mercati infatti, secondo l’analisi del Credit Suisse, si è tendenzialmente ridotta di circa il 10% in Francia e Germania, mentre Italia e Regno Unito hanno avuto una performance ancora peggiore.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-11-23/quanto-rischi-diventare-povero-181720.shtml?uuid=ADb7bc0B


Titolo: Enrico MARRO - Cinque passaggi per cancellare ogni traccia di te su internet
Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2016, 08:57:28 pm
Identità digitali
Cinque passaggi per cancellare ogni traccia di te su internet

Di Enrico Marro 30 novembre 2016

A fronte dei miliardi di esseri umani che vogliono essere presenti su internet, e dei milioni che vorrebbero “correggere” la loro immagine digitale, non è raro trovare qualcuno che dal world wide web vuole semplicemente scomparire. Per varie ragioni, più o meno nobili. Non è un caso che si stiano affermando piattaforme digitali, studi legali e agenzie di comunicazione che sono specializzate proprio in questo: la cancellazione di ogni traccia del cliente in Rete. Senza più profili social, immagini, video, pubblicazioni, citazioni, caselle e-mail. Nulla.

Qualche mese fa furono i Radiohead a provare l’ebbrezza di scomparire dal web. Proprio alla vigilia del lancio dell’atteso nono album della band britannica, all’improvviso l’account ufficiale Twitter diventò muto, seguito a ruota da quello Facebook (con i suoi 12 milioni di “like” caduti nel nulla), e dal sito radiohead.com, diventato a sua volta una pagina vuota. Per la prima volta nella storia del web, una grande rock band aveva provato a “suicidarsi” su internet.

Ma è davvero possibile scomparire dal web? «In teoria sì - spiega uno studio legale specializzato di Londra - ma non è qualcosa che si riesce a fare in fretta, soprattutto nel caso dei personaggi pubblici». Possono essere necessari mesi di duro lavoro e tenaci negoziazioni per cancellare migliaia di immagini, facendo leva ora sul copyright, ora sulla privacy, ora sul diritto all’oblio. «In alcuni casi abbiamo lavorato anche un anno per cancellare singoli clienti dal web».

È facile sparire dal web per chi non è stato un personaggio pubblico? Diciamo che è meno difficile, ma comunque arduo, in particolare se si desidera una cancellazione il più possibile completa. I passaggi principali sono cinque. Vediamoli uno alla volta.

Facebook sospende la condivisione di dati con WhatsApp. Ecco che cosa cambia per gli utenti

1. Cancellarsi dai social network. Il primo passo è abbastanza semplice: basta seguire le istruzioni dei diversi social per cancellarsi (Facebook, Twitter, Linkedin, G+ e così via). Attenzione alla differenza che c’è - per esempio su Facebook - tra “disattivare” ed “eliminare” un account, poiché nel primo caso il diario scompare ma solo perché “congelato”, ed è riattivabile in ogni momento. Quando viene eliminato l’account, l’azzeramento di tutti i contenuti pubblicati - come foto, aggiornamenti di stato o altri dati memorizzati sui sistemi di backup - richiede fino a 90 giorni di tempo. Nell’eliminazione dell’account G+, attenzione a non cancellare l’eventuale casella Gmail (la posta elettronica è infatti l’ultima da eliminare nel processo di addio al web).

2. Cancellarsi da tutto il resto. Dopo i social, bisogna procedere all’eliminazione del proprio profilo da tutti gli altri “contenitori” dov’è finito: forum, Paypal, Amazon, eBay, Skype, YouTube, eventuali siti di dating, gambling, e-commerce e così via. Può non essere così semplice, perché i dati personali sono un asset che vale denaro per le società che operano su internet.

3. Individuare foto, video e citazioni. Qui il lavoro diventa più difficile. Bisogna infatti fare una ricerca approfondita su tutti i motori di ricerca conosciuti (non solo Google) di ogni informazione su di voi, provando diverse stringhe: non solo nome e cognome, ma anche luoghi di nascita e di residenza, aziende in cui avete lavorato e così via. Bisogna poi prendere nota di tutto in vista del quarto, difficilissimo passo.

Caccia ai pirati digitali che hanno attaccato Twitter, eBay e Netflix. L'ombra di Wikileaks

4. Chiedere l’eliminazione dei dati. Ora viene il difficile: bisogna contattare ogni singola società, webmaster, ente o blogger chiedendo la rimozione di tutti i dati su di voi. Molti di loro ignoreranno la vostra richiesta, rendendo necessaria l’adozione di vie legali, particolarmente complesse perché spesso ricadono sotto giurisdizioni di altri Paesi. In casi estremi, si può chiedere di intervenire direttamente sui server. Poi bisogna farsi cancellare dalle banche dati che raccolgono informazioni personali per rivenderle a scopo di marketing, in questo caso magari con l’aiuto - a pagamento - di società specializzate (per esempio DeleteMe). Per i più pignoli, c’è anche la complicata richiesta di cancellazione da Wayback Machine, il colossale archivio di internet, che raccoglie trilioni di pagine web.

5. Il tocco finale è l’addio alla mail. Se siete arrivati fino a questo punto, siete stati molto bravi e soprattutto tenaci. Manca solo un passo per scomparire dal mondo digitale: la cancellazione della casella e-mail. Praticamente una passeggiata, rispetto al lavoro fatto. Il premio finale è il perfetto anonimato in Rete, e la cancellazione della propria identità digitale (almeno quella vecchia). A questo punto potete fare due cose: o costruirvi un’identità internet nuova di zecca, oppure spegnere il computer. E andare a fare una lunga passeggiata fuori.

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Titolo: Enrico MARRO - Voucher e appalti, due referendum ad alto contenuto politico
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 12, 2017, 12:31:28 pm
Voucher e appalti, due referendum ad alto contenuto politico
La Cgil punta a rimettere in discussione la linea della flessibilità seguita finora

Di Enrico Marro

Dopo la sentenza della Corte Costituzionale si dovrebbe votare su due dei tre referendum abrogativi proposti dalla Cgil (l’articolo 18 non è stato ammesso): quello sui voucher e quello sugli appalti. Il voto dovrebbe tenersi, secondo la data che sceglierà il governo, tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Il voto sui voucher
Col primo quesito ritenuto ammissibile dai giudici della Consulta il sindacato guidato da Susanna Camusso propone di cancellare del tutto i buoni lavoro istituiti dalla legge Biagi nel 2003. I cosiddetti voucher che, nati per retribuire i lavoretti occasionali (ripetizioni scolastiche, giardinaggio, pulizie, faccende di casa, eccetera) svolti da casalinghe, studenti e pensionati (fino a un massimo di 5mila euro di compensi all’anno) sono stati via via liberalizzati (è stata tolta dalla legge la legge dicitura «di natura meramente occasionale») e oggi possono essere usati per remunerare qualsiasi attività entro un tetto di 7mila euro l’anno per lavoratore. All’inizio i voucher impiegavano qualche decina di migliaia di persone l’anno, nel 2006 si era saliti a 617 mila e nel 2015 si è arrivati a quasi 1,4 milioni di lavoratori coinvolti.

La tracciabilità dei buoni
Il governo Renzi, per limitare gli abusi e gli usi illegittimi dei buoni (tirati fuori, per esempio, solo dopo un infortunio mortale per evitare all’azienda responsabilità penali) ha stabilito la tracciabilità telematica degli stessi: il datore di lavoro deve indicare, nelle 24 ore precedenti l’uso del voucher, il destinatario e la durata della prestazione di lavoro che verrà retribuita con il buono (ognuno dei quali del valore di 10 euro lordi, 7,5 netti, che dovrebbe in teoria remunerare un’ora di lavoro). Ora il referendum propone l’abolizione dell’istituto. Il governo Gentiloni ha già annunciato la volontà di intervenire con legge restringendo il campo di applicazione dei voucher (alcuni settori a rischio come l’edilizia potrebbero essere esclusi) e abbassando tetto di retribuzione annua. Obiettivo: evitare il referendum. Alla Camera la commissione Lavoro guidata da Cesare Damiano (Pd) sta esaminando proposte di legge che mirano a riportare i voucher alla loro versione iniziale. In ogni caso, se ci sarà una nuova legge, sarà la corte di Cassazione a decidere se essa è sufficiente a evitare il referendum.

La responsabilità nei subappalti
Col secondo referendum ammesso dalla Corte Costituzionale la Cgil propone di escludere che un contratto nazionale di lavoro possa derogare al regime di responsabilità solidale negli appalti tra la società che ha ricevuto la commessa e quella cui l’opera viene eventualmente subappaltata. Più in generale, il quesito propone di abrogare la legge nella parte in cui attenua la responsabilità oggettiva in capo all’azienda madre, per esempio nel rispetto dei diritti retributivi e contributivi dei lavoratori dell’azienda in subappalto.

I risvolti politici
Al di là della portata dei due quesiti sul mondo del lavoro (forse maggiore quella sugli appalti che sui voucher) è evidente il significato politico di questi referendum. Una vittoria dei sì indicherebbe la volontà dell’elettorato di dare discontinuità rispetto alla linea della flessibilità seguita finora dal legislatore. Per questo si annuncia una battaglia politica aspra. Va ricordato, infine, che, in caso di voto, il risultato sarà valido solo se sarà stato raggiunto il quorum, dovrà cioè aver votato il 50% +1 degli aventi diritto.

11 gennaio 2017 (modifica il 11 gennaio 2017 | 16:42)
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Titolo: Enrico MARRO - Quattro motivi per non temere troppo le euroelezioni
Inserito da: Arlecchino - Marzo 20, 2017, 10:51:26 am
Quattro motivi per non temere troppo le euroelezioni

    –di Enrico Marro 16 marzo 2017

Alcuni hedge funds statunitensi particolarmente acuti l’hanno capito da tempo, investendo di conseguenza. Il rischio politico europeo è probabilmente sovrastimato dai prudenti euromercati almeno quanto i futuri miracoli di Trump lo sono dalla spumeggiante Wall Street. Proviamo allora a lasciare per un attimo da parte Marine Le Pen, la destra xenofoba olandese e le banche venete. Guardiamo per una volta solo i fondamentali, come suggerisce una recente analisi di Credit Suisse dal titolo inequivocabile (Don’t forget the fundamentals!). Vediamo.

Fatturati in crescita. Da sempre esiste una stretta correlazione fra l’indice Pmi composite (relativo all’attività manifatturiera e tratto dal consensus dei direttori acquisti) e il valore aggiunto, misura che ci dà un’idea dei ricavi. E' un fatto che dal 2016 il Pmi composite dell’eurozona stia di nuovo puntando verso l’alto, in direzione dei livelli raggiunti nel 2004-2006.

Mercato del lavoro in ripresa. Secondo l’analisi del Credit Suisse non solo l’occupazione dell’eurozona è in crescita (non stiamo parlando in specifico dell’Italia), ma gli stipendi resteranno al palo. Questo perché nell’area euro esiste un curioso fenomeno: il costo per unità di lavoro tende a scendere quando l’economia recupera o accelera, spiegano gli analisti della banca svizzera. Tutto ciò si traduce in maggiori profitti aziendali.

    L’analisi 15 marzo 2017
Elezioni, banche e congiuntura: possibile la svolta per le Borse Ue
Bassi tassi d’interesse. A partire dal 2012, i vari bazooka di Mario Draghi (Omt, tassi negativi, Tltro e il Quantitative easing tuttora in corso) hanno fatto letteralmente crollare i costi di finanziamento aziendali. Difficile vederli scendere ancora, ma non sono nemmeno destinati a salire così in fretta: intanto la Bce ha confermato il mantenimento del suo Qe sino a fine anno, ma soprattutto - come nota ancora Credit Suisse - il ritmo di un eventuale rialzo dei costi del credito è destinato a essere “digerito” senza troppi problemi da aziende con profitti robusti.

Flussi di cassa da record. Robusti profitti si tradurranno in flussi di cassa ancor più generosi di quelli attuali, che già sfoggiano numeri da primato: se escludiamo il settore creditizio, l’anno scorso il surplus finanziario aziendale dell’euroarea ha toccato il 2% del Pil (livello mai visto almeno dal 1980). Finora solo una piccola parte di questa montagna di denaro è finita in investimenti o dividendi distribuiti agli azionisti, probabilmente perché molte aziende sono state impegnate nel leccarsi le ferite della crisi, riducendo la leva finanziaria e sistemando i bilanci. Ma secondo Credit Suisse anche questa è un’anomalia destinata a scomparire: investimenti e dividendi torneranno presto a far parlare di sé. Dimostrando che la notizia della morte dell’Eurozona è fortemente esagerata.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-03-15/quattro-motivi-non-temere-troppo-euroelezioni-164743.shtml?uuid=AE8IzIn


Titolo: Re: Enrico MARRO - Borse: qualcuno sta manipolando «l’indice della paura»?
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2017, 08:50:15 pm
STUDIO SHOCK

Borse: qualcuno sta manipolando «l’indice della paura»?

Di Enrico Marro 27 maggio 2017

E' freschissimo di stampa (porta la data del 23 maggio 2017), ma sta già facendo molto discutere. E' il documentato studio di due docenti di finanza dell’università del Texas, John Griffin e Amin Shams, il cui titolo è tutto un programma: Manipulation in the Vix?

Il Vix in questione, più celebre come “indice della paura”, è quello che misura la volatilità implicita di Wall Street attraverso le opzioni sul paniere S&P500. Se il Vix ha un valore alto, i mercati sono nervosi e probabilmente in fase correttiva; al contrario, quando il Vix è stabile su livelli bassi (come nelle scorse settimane) non si intravedono tensioni e le Borse salgono placide e tranquille.

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L’indice Vix è quindi considerato un termometro molto importante degli umori di mercato dagli investitori di tutto il mondo, sia umani che algoritmici. Ora però i due studiosi statunitensi avanzano il dubbio che sia manipolato. Come è possibile?

La fase cruciale su cui si concentra l’attenzione di Griffin e Shams è quella di chiusura, nella quale viene calcolato il valore finale del Vix giornaliero, che è legato all’asta di chiusura delle opzioni sull’indice S&P500 (la cui volatilità implicita determina appunto le oscillazioni dell’“indice della paura”).

In quel momento i volumi delle opzioni scambiate schizzano in alto, ma stranamente solo per quelle del tipo out-of-the-money che vengono utilizzate nel calcolo del Vix. Questo trambusto sulle opzioni magicamente scompare dopo pochi minuti, quando il valore finale dell’“indice della paura” è stato ufficialmente calcolato.

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Il boom di volatilità sulle opzioni porta a uno scostamento medio del Vix di 0,31 punti, a volte in alto e talvolta in basso. Cercando spiegazioni logiche al fenomeno, Griffin e Shams hanno pensato alle classiche frenetiche ricoperture di fine seduta, quando si chiudono le posizioni. Peccato che, secondo l’analisi dei due studiosi, la turbolenta compravendita finale di opzioni non serva a chiudere posizioni esistenti ma ad aggiungerne di nuove.

Ma se davvero c’è qualcuno che sta manipolando l’“indice della paura”, perché non agisce direttamente sui derivati? Per quale motivo non cerca di “muovere” il future sul Vix, anziché andare a manovrare in un giro contorto le opzioni sull’S&P500? Semplice: sarebbe estremamente costoso perché quelli dei future sono mercati molto liquidi.

Manipolare le opzioni sull’indice S&P500, in particolare quelle out-of-the-money che sono particolarmente illiquide, rappresenta al contrario un giro tortuoso ma molto economico. Grandi speculatori posizionati sui future sul Vix, suggeriscono Griffin e Shams, possono guadagnare un sacco di soldi manipolando il sottostante (l’indice Vix) attraverso gli strumenti che servono a calcolarlo: appunto le opzioni sullo S&P500, scegliendo quelle meno liquide e quindi più facilmente manovrabili.

In altre parole, secondo lo studio non è escluso che qualcuno investa un po’ di soldi per “muovere” le opzioni, in modo da muovere il Vix e lucrare denaro dai successivi spostamenti dei future sull’“indice della paura”, sensibili a ogni minima oscillazione del sottostante. E la memoria corre allo scandalo del tasso Libor, manipolato dalle grandi banche tra il 2005 e il 2009: se esistesse davvero, lo scandalo del Vix non sarebbe da meno.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-05-26/borse-qualcuno-sta-manipolando-l-indice-paura-161054.shtml?rlabs=1


Titolo: Enrico MARRO. Corte costituzionale tedesca potrebbe cancellare il Qe di Draghi?
Inserito da: Arlecchino - Agosto 16, 2017, 04:13:48 pm
La Corte costituzionale tedesca potrebbe cancellare il Qe di Draghi?

Di Enrico Marro
 16 agosto 2017

La Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe ha chiesto alla Corte di giustizia europea di pronunciarsi sulla legittimità del programma di quantitative easing, lanciato nel 2015 dalla Bce per sostenere l'inflazione nella zona euro. Che cosa significa tutto questo per il futuro del programma di Qe, avviato il 9 marzo 2015 e ridotto da 80 a 60 miliardi di volume mensile lo scorso aprile?

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Per cercare di capire cosa accadrà è illuminante un precedente: quello con cui nel 2013 la Corte di Karlsruhe chiese ai giudici del Lussemburgo di pronunciarsi sugli Omt, il cosiddetto “scudo antispread” annunciato nel 2012 da Draghi e mai utilizzato. Gli Omt (outright monetary transactions) dovevano permettere alla Bce di comprare in misura illimitata titoli dei Paesi in crisi che si impegnassero su un programma economico concordato con i partner europei. All’epoca, trentacinquemila tedeschi euroscettici contestarono la legittimità del programma Omt: tra loro c’era il cristiano-democratico bavarese Peter Gauweiler, dell’ala conservatrice del partito di Angela Merkel, ma anche la sinistra di Die Linke.

Anche nel 2013 i giudici di Karlsruhe rinviarono la questione alla Corte di giustizia europea, che doveva stabilire se gli acquisti di titoli ipotizzati dall’Omt andassero oltre il mandato istituzionale della Bce. I giudici del Lussemburgo nel giugno 2015 stabilirono che il programma varato nel settembre 2012 dalla Bce presentava sufficienti garanzie al fine di prevenire un uso «sproporzionato» dell’acquisto di bond che si sarebbe tradotto in una violazione delle regole Ue sull'istituto centrale.

La Corte di Karlsruhe - che si era riservata l’ultima parola sul programma, facendo temere un freno tedesco all’uso di strumenti non convenzionali dal parte della Bce - nel giugno 2016 dichiarò legittimo l’Omt respingendo il ricorso presentato dagli euroscettici tedeschi. Nella sentenza, arrivata pochi giorni prima del referendum inglese su Brexit, i giudici di Karlsruhe richiamarono i limiti posti dai colleghi dell’Unione europea, sottolineando che l’Omt non viola la legge fondamentale tedesca e che la Bundesbank potrà partecipare a un eventuale programma di Omt se saranno osservate le condizioni stabilite dalla Corte Ue.

Al netto di improbabili sorprese, la strada sembra dunque in teoria spianata verso un via libera (magari condizionato) sia della Corte Ue che di quella tedesca al Quantitative easing, poiché esiste un precedente eccellente nel quale venne autorizzato uno strumento non convenzionale di politica monetaria simile nella sostanza al Quantitative easing: l’Omt.

Peraltro la decisione potrebbe arrivare a Qe concluso: la pronuncia dei giudici del Lussemburgo è attesa tra più di un anno, quando probabilmente il buon andamento dell’economia dell’eurozona e la ripresa dell’inflazione avranno messo la parola fine alle misure straordinarie di politica monetaria decise dalla Bce.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-08-16/la-corte-costituzionale-tedesca-potrebbe-cancellare-qe-draghi-075955.shtml?uuid=AErEmUDC


Titolo: Enrico MARRO - Perché è scattata la corsa mondiale a tagliare le tasse alle...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2017, 11:21:43 am
PRONTA ANCHE LA RIFORMA TRUMP
Perché è scattata la corsa mondiale a tagliare le tasse alle imprese

Di Enrico Marro
  28 settembre 2017

Dal 1° gennaio 2017 l’Italia ha tagliato dal 27,5% al 24% l’Ires, l’imposta sul reddito delle società. Mentre in Gran Bretagna dal 1° aprile l’aliquota ordinaria sui redditi d’impresa è scesa dal 20% al 19%, con la prospettiva di scivolare al 17% nell’aprile del 2020. E ieri negli Stati Uniti l’amministrazione Trump ha annunciato una riforma fiscale il cui piatto forte è un drastico taglio della corporate tax, dal 35% al 20%. Non sono tre casi isolati: come attesta uno studio dell’Ocse, “Tax Policy Reforms in Oecd”, in tutto il mondo sviluppato è scattata una competizione a chi abbassa di più le tasse. L’obiettivo è chiaro: diventare attrattivi per le grandi multinazionali straniere, con una ricaduta positiva sulla crescita economica.

VERSO UN DIFFICILE ITER CONGRESSUALE  27 settembre 2017
Pronta la riforma fiscale di Trump, per le aziende aliquota al 20%
Secondo lo studio, l’aliquota media per le imprese nei Paesi Ocse, che superava quota 32% nel 2000, è progressivamente calata al 26% nel 2008 e al 25% nel 2015. I Paesi che hanno tagliato di più la corporate tax nel periodo 2000-2015 risultano essere Germania (21,9%), Canada (16,1%), Grecia (14%) e Turchia (13%), con soltanto Ungheria e Cile che hanno ritoccato verso l’alto le aliquote. Il gettito fiscale perduto è stato compensato dall’aumento di altre imposte, sottolinea lo studio, in particolare l’Iva, che nei Paesi Ocse è passata da un’aliquota media del 17,6% nel 2008 al 19,2% nel 2015.

Considerando il solo 2015, scopriamo che hanno ridotto il peso fiscale sulle società l’iperindebitato Giappone assieme a Spagna, Israele, Norvegia ed Estonia. Ma in Francia durante la campagna elettorale il presidente Emmanuel Macron ha promesso di ridurre la corporate tax dal 33,33% al 25% entro cinque anni, mentre anche in Germania si sta meditando un nuovo taglio dell’imposizione sulle imprese per non perdere competitività.

OLTRE IL CASO APPLE  31 agosto 2016
Italia al top nella giungla europea della corporate tax
Un caso di scuola resta quello dell’Irlanda. La famosa corporate tax al 12,5% che fin dall’inizio degli anni Duemila ha fatto la fortuna della Tigre Celtica si ritrovava, negli anni Ottanta, all’astronomico livello del 50%. Con un Pil cresciuto nel 2015 del 26,3% proprio grazie alle multinazionali che hanno spostato la loro sede nell’isola “fondendosi” con controparti irlandesi, Dublino è un ottimo esempio di come un’aggressiva detassazione possa far correre il prodotto interno lordo.

Invece gli Stati Uniti, con la loro corporate tax ferma al 35% dal lontano 1993, sembrano per ora i grandi sconfitti della gara a chi diventa fiscalmente più attrattivo. Attenzione però, perché in realtà i colossi americani versano in tasse molto meno di quanto si creda. Un recente studio dell’Institute on Taxation and Economic Policy, think thank indipendente con sede a Washington, ha preso in esame 258 aziende dell'indice Fortune 500 scoprendo che tra il 2008 e il 2015 hanno pagato il 21,2% di corporate tax anziché il 35%. Il tutto grazie ad agevolazioni fiscali che nel complesso hanno toccato i 513 miliardi di dollari, oltre la metà dei quali (277 miliardi) finiti alle 25 società più profittevoli tra quelle prese in esame.

Sempre tra il 2008 e il 2015 ben 18 di queste compagnie non risultano aver pagato un centesimo di tasse: tra loro secondo lo studio ci sono colossi del calibro di General Electric, International Paper, Priceline.com e PG&E. Alcune di queste società hanno addirittura ottenuto dei rimborsi dal fisco federale. E tutto questo senza considerare le tecniche di elusione offshore della grande famiglia “double Irish”, grazie alle quali la corporate America si stima abbia accumulato 2500 miliardi di dollari all’estero (patrimonio che Trump vorrebbe rimpatriare con un forfait fiscale “una tantum”).

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