Titolo: Alberto ALESINA - Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 11:37:58 am Giovedì 15 Gennaio 2009, 14:32
Interviste di Eleonora Bianchini "La crisi" nel 2009, arriva il buio: intervista ad Alberto Alesina Le banche e i mutui subprime hanno contribuito ad affossare i consumatori, la globalizzazione e lo sviluppo di paesi emergenti come India e Cina hanno risvegliato il panico nei mercati europei. E ora è crisi. Ma le responsabilità sono da addossare solo agli istituti di credito e a un capitalismo sregolato o dovremmo piuttosto passare al setaccio le scelte della politica? Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno pubblicato "La crisi" (Il Saggiatore) per rispondere a queste domande. Noi abbiamo incontrato Alesina, economista italiano, professore all'Università di Harvard a Cambridge, per sapere cosa ci riserva l'economia italiana nei prossimi mesi. Nel crack di fine 2008, gli stati salvano le banche e ammettono le proprie colpe sul mancato controllo del sistema finanziario, che si unisce al silenzio delle agenzie di rating e alla schizofrenia dei mutui subprime. Quali provvedimenti si aspetta dal governo italiano? Non so proprio cosa aspettarmi. Sarebbe una bella domanda, ma da rivolgere al governo. Il Sole 24 Ore ha scritto che la cassa integrazione ordinaria nell'industria italiana a dicembre è cresciuta del 526% rispetto al 2007: crede sia un periodo negativo destinato a perdurare? Si, sicuramente per tutto il 2009 e con tutta probabilità per buona parte del 2010. Il problema della congiuntura economica italiana è che questa grave recessione si somma ad un decennio di crescita molto bassa, quasi pari a zero. Quale sarà il momento più buio? Difficile dirlo, forse ci stiamo entrando ora. Possiamo supporre che il periodo di maggiore crisi si avrà nei primi sei mesi del 2009 e le brutte notizie continueranno per tutto l'anno. L'importante e non farsi prendere dal panico. Dos and don'ts: qualche consiglio ai risparmiatori. Difficile entrare nei dettagli. Ai risparmiatori direi di tenere i nervi saldi e non farsi prendere dal panico. In pratica? Meglio non investire in attività complesse che non si comprendono fino in fondo. Consiglio di diversificare le proprie scelte, che significa non investire troppo del portafoglio nello stesso prodotto e di tenere ben presente che i rendimenti più alti implicano anche maggiori rischi. BOL.IT -Alberto Alesina http://economiaefinanza.blogosfere.it/2009/01/la-crisi-nel-2009-ora-arriva-il-buio-intervista-ad-alberto-alesina.html Titolo: Alberto ALESINA - Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 11:39:09 am Alberto Alesina
Alberto Alesina ha ottenuto il PhD. in Economics alla Harvard University, dove è attualmente Professore di Economia. E’ Senior Associate per il Center for European Studies (CES), Research Associate per il National Bureau of Economic Research (NBER), il Center for Economic Development della Harvard University, e Research Fellow del Center for Economic Policy Research (CEPR). E’ Fellow della Econometric Society. Oltre ad aver pubblicato 4 libri e numerosi articoli presso le maggiori riviste scientifiche internazionali, è Co-editor del Quarterly Journal of Economics e sarà il nuovo direttore del dipartimento di Economia della Universita di Harvard. I suoi interessi scientifici riguardano i la Political Economics (l'economia della politica), la Politica economica, la Politica monetaria e fiscale e la Macroeconomia. da - http://www.lavoce.info/lavocepuntoinfo/autori/pagina70.html Titolo: Alberto ALESINA - Roberto Perotti RICETTE SBAGLIATE: PIÙ SPESA IN GERMANIA Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 11:41:42 am RICETTE SBAGLIATE: PIÙ SPESA IN GERMANIA
di Alberto Alesina e Roberto Perotti 18.06.2010 Sono in molti ad accusare la Germania per la sua politica fiscale prudente, che finirebbe per aggravare la crisi. La cui soluzione sarebbe invece in un'espansione della spesa pubblica tedesca. Ma si tratta di una ricetta sbagliata, frutto di un keynesianismo datato. E' un'illusione credere che un 5 per cento sul Pil di deficit di bilancio in Germania basti per risolvere i problemi di crescita dell'Europa. Che dipendono piuttosto dalle rigidità sul lato dell'offerta, soprattutto nei paesi oggi più in difficoltà. I leader dell'Unione europea. Da internet In Europa trova molti consensi la seguente spiegazione dei mali europei. Dopo lo shock della riunificazione, la Germania ha cercato di rafforzare la sua competitività in vari modi. La ricetta si è rivelata di grande successo, trasformando il “malato d’Europa” in una economia fortemente competitiva. Ma da questa politica sarebbe conseguito uno squilibrio con il resto d’Europa perché il surplus di parte corrente della Germania trova il suo rovescio, tra l’altro, nei deficit di parte corrente dei paesi dell’Europa meridionale e in particolare di Spagna, Portogallo e Grecia. La situazione non ha suscitato particolari preoccupazioni (o almeno non erano in molti a lamentarsene) fino alla crisi finanziaria. Ora però la recessione e i pacchetti di stimolo hanno fatto crescere disavanzi e debiti pubblici in tutta Europa, e in particolare nella parte più vulnerabile dell’Eurozona, l’Europa del Sud. Di conseguenza praticamente tutti concordano sul fatto che i paesi del Sud Europa (e l’Irlanda) non abbiano altra alternativa che l’adozione di una forte austerità fiscale, qualunque ne sia il costo. Ma ciò significa che nella situazione attuale questi stessi paesi sono colpiti da due shock negativi sulla domanda - la politica deflazionistica della Germania - e la loro stessa austerità fiscale. Secondo l’opinione in voga, questo impone alla Germania una doppia responsabilità: dovrebbe ridurre il suo vantaggio competitivo e stimolare i consumi in quanto è l’unica possibile fonte di domanda in Europa. Nel brevissimo periodo, entrambi gli obiettivi possono (e debbono) essere raggiunti, secondo l’opinione comune, attraverso l’unico strumento che i politici tedeschi hanno a disposizione: una politica fiscale espansiva, forse accompagnata da una dose di inflazione. UN PUNTO DI VISTA SBAGLIATO Si tratta di un punto di vista sostenuto da molti economisti e commentatori in Europa. È anche il punto di vista ufficioso dell’amministrazione americana espresso nella lettera privata inviata dal segretario al Tesoro ai colleghi del G20 nell’ultimo vertice. Noi invece riteniamo che diagnosi e cura proposta siano sbagliate. Ovviamente, la bilancia dei pagamenti correnti a livello mondiale è sempre in pareggio, quindi il surplus tedesco deve apparire altrove come deficit. Ma è colpa della Germania se è diventata più competitiva? Ed è ragionevole chiedere alla Germania di sopportare il peso di un paese come la Spagna che ha fondato la sua crescita economica degli ultimi quindici anni sull’edilizia, il settore per definizione non-competitivo? Oppure quello di un paese come la Grecia, che fissa l’età della pensione a 53 anni, falsifica i bilanci e così via? Inoltre, la politica fiscale tedesca non è stata particolarmente restrittiva, i suoi miglioramenti di competitività derivano da altri fattori, come le riforme del mercato del lavoro, certo limitate e timide, ma pur sempre riforme. ANCHE LA CURA È SBAGLIATA E INATTUABILE A livello normativo, se in questo momento i mercati temono soprattutto il debito pubblico, non si capisce perché quegli stessi mercati dovrebbero accogliere con favore un incremento nell’offerta di debito da parte del paese che vedono come l’ultimo baluardo della disciplina fiscale e monetaria, quando in questo momento quello che più temono è proprio il debito pubblico. Il pericolo maggiore e più immediato oggi sono i timori dei mercati legati all’eccesso di debito in Europa: come un aumento del debito tedesco possa aiutare a mitigare queste paure, non ci è chiaro. Tanto più che l’effetto immediato di un aumento dell’offerta di debito sarebbe solo indirettamente e parzialmente compensato dalla crescita di altri paesi: una espansione fiscale di dimensioni realistiche in Germania non potrebbe comunque risollevare l’Europa dalla sua crisi e stimolare significativamente la crescita. Affermare una simile ipotesi significa credere in moltiplicatori della spesa pubblica di dimensioni irragionevolmente ampie. La teoria, e in parte l’evidenza empirica, confermano invece l’idea che il moltiplicatore sia piccolo se non addirittura negativo, anche se ammettiamo che su questo punto c’è molta incertezza. Ma moltiplicatori fiscali keynesiani di ampie dimensioni, come quelli così popolari negli anni Sessanta, oggi sono difficili da difendere sia sul piano teorico che su quello empirico. E se questo è vero per i moltiplicatori interni, quelli internazionali sono ancora più piccoli. LA CURA È POLITICAMENTE IMPROPONIBIBILE L’idea che la Germania debba farsi carico dell’Europa e internalizzare tutte le esternalità positive che ne possono derivare (assumendo che ne esistano) è una sfida al realismo politico. Chiedere a un governo di far propri gli interessi di un piccolo e lontano paese significa cacciarsi in un vicolo cieco politico, specialmente in tempi di crisi finanziaria. Chi sostiene questa sorta di altruismo ammanta spesso i suoi argomenti nel velo del “così facendo, la Germania rafforzerebbe il suo interesse di lungo periodo”. Forse, ma non è per niente chiaro perché l’interesse di lungo periodo della Germania debba comprendere il salvataggio della Grecia o della Spagna. E anche se così fosse, ciò richiederebbe una lungimiranza che nessun governo eletto in genere ha, che sia tedesco o di un altro paese. Sentire i leader dell’ Europa meridionale che accusano i leader tedeschi di miopia è un po’ paradossale! Il vincolo alla crescita dell’Europa non è la politica fiscale della Germania. Sono le rigidità sul lato dell’offerta che imbrigliano le economie nazionali europee, e in particolare quelle dei paesi dell’Europa del Sud. Fossilizzarsi sul lato della domanda è semplicemente sbagliato – una sorta di keynesianismo datato ed eccessivamente semplificato. Forse, le riforme sul lato dell’offerta sono impossibili, ma non prendiamoci in giro illudendoci che un deficit di bilancio tedesco del 5 per cento invece che del 3 per cento sul Pil sia sufficiente per portare l’Europa fuori da una situazione difficile. da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001782.html Titolo: Alberto ALESINA - In cerca di leader Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 11:46:25 am LA CRISI ECONOMICA E POLITICA
In cerca di leader Dopo la Grande Recessione del 2008-2009 due cose ci si doveva aspettare dai leader dell'Occidente. Primo: il riconoscimento della gravità della situazione e la dimostrazione di voler e saper affrontare i problemi con urgenza e non rimandarli, ovvero un atteggiamento di lungimiranza al di là delle scadenze elettorali. Secondo: la capacità di ricucire contrasti e interessi di parte per favorire il bene comune. La classe politica dell'Occidente, al di qua e al di là dell'Atlantico, ha fallito su entrambi i punti e passerà alla storia come, collettivamente, una delle peggiori del secondo dopoguerra. La lungimiranza è un bene che è mancato alle classi politiche in Italia, Europa e Stati Uniti. Nel nostro Paese si parla da anni della necessità di dare una sferzata all'economia. Si diceva da tempo che l'approccio ragionieristico ai conti pubblici con un aumento di quel balzello o di quel taglio alle spese che entri in vigore non prima delle prossime elezioni non basta e che ci vogliono riforme per la crescita. Si è dovuti arrivare proprio fino sull'orlo del baratro perché il governo desse un segno di vita venerdì scorso con la conferenza stampa del premier e del ministro dell'Economia. La proposta più «rivoluzionaria» è l'introduzione nella Costituzione di un vincolo di bilancio in pareggio, le idee per la crescita vanno nella direzione giusta anche se i dettagli sono da definire. Vedremo oggi se i mercati si calmeranno, ma è chiaro che queste decisioni andavano prese molto prima. In Europa un anno e mezzo fa si sarebbe dovuta risolvere in un modo o nell'altro, ma radicalmente, la crisi greca con un ripudio o con un « bailout » (salvataggio) totale. E invece i leader (si fa per dire) europei si sono dilaniati in discussioni che nulla hanno fatto se non trascinare i mercati nel caos. Il Presidente e il Congresso americano hanno perso gran parte della loro credibilità con un pessimo spettacolo di tira e molla fino all'ultima ora sotto la spada di Damocle di un ripudio del debito. Tutti sapevano che alla fine si sarebbe trovato un mediocre escamotage , come infatti è avvenuto. Il risultato è stato che Wall Street è crollata e Standard & Poor's per la prima volta nella storia ha declassato il debito americano. I cinesi, che ne detengono una montagna, sono nervosi e furiosi. Ma c'è di più. La vera crisi fiscale è lo tsunami causato dall'invecchiamento della popolazione. Ne parla qualche politico? Certo che no: è troppo costoso, gli anziani (attuali e quelli che lo saranno a breve) sono una fonte di voti critica, mentre le generazioni future non votano, quindi non contano per questa mediocre leadership che la storia condannerà come non all'altezza dei problemi, gravi e complessi che abbiamo di fronte. Ma i grandi leader si vedono appunto nei momenti difficili, non quando è tutto facile per cui un'ordinaria amministrazione è sufficiente! Infatti, una delle doti di un grande politico è quella di saper smussare i contrasti e dirigere un Paese in una direzione precisa, mettendo il bene comune al di sopra degli interessi di parte in un momento di crisi. Se qualche leader odierno ci è riuscito, batta un colpo. Io non ne vedo, compreso Silvio Berlusconi. La mancanza di leadership e di idee anche nell'opposizione è scoraggiante. In Europa i leader dei Paesi a rischio non hanno trovato di meglio che accusare i tedeschi per nascondere le loro manchevolezze. I francesi hanno cavalcato questi sentimenti visto che il deficit pubblico francese fa paura e prima o poi i mercati se ne accorgeranno. La Merkel ha dimostrato di capire poco di mercati finanziari e le sue prese di posizione erratiche non hanno aiutato. Negli Stati Uniti l'atteggiamento anti-business e populista del presidente e di Nancy Pelosi e l'estremismo del Tea Party hanno indebolito quell'ala moderata dei «new democrats» di Bill Clinton e dei repubblicani del Nord Est, laici e liberisti. Insomma, ridateci Einaudi, De Gasperi, Thatcher, Reagan, Clinton, Blair e Kohl prima che sia troppo tardi. Alberto Alesina 08 agosto 2011 08:29© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_08/in-cerca-di-leader-alberto-alesina_a462c188-c183-11e0-9d6c-129de315fa51.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Inserito da: Admin - Novembre 24, 2011, 11:29:19 pm LA BCE E IL DEBITO SOVRANO
C'è una sola via d'uscita Ieri i titoli di Stato austriaci a dieci anni rendevano oltre 1,6 punti percentuali più degli analoghi titoli tedeschi. L'Austria ha un debito inferiore di dieci punti a quello della Germania: nessuno quindi pensa che i suoi titoli siano più a rischio di quelli tedeschi. Quel differenziale riflette il timore che l'euro si spacchi e l'incertezza su che cosa accadrebbe all'Austria: adotterebbe il Deutsche Mark o ritornerebbe allo scellino? L'euro è sull'orlo dell'abisso. L'incertezza sul futuro della moneta unica aumenta la volatilità dei mercati europei e induce i grandi investitori americani ad abbandonare investimenti in euro, fuggendo ora anche dai titoli tedeschi. Ieri l'asta dei Bund è stata sottoscritta solo grazie alla Bundesbank che ha acquistato il 40% dei titoli offerti da Berlino. Nel prossimo anno, nei Paesi dell'euro, scadono circa 500 miliardi di obbligazioni bancarie: se le banche non riuscissero a rifinanziarsi l'euro potrebbe non sopravvivere. I mercati temono che si finisca proprio lì. A questo punto c'è un solo modo per salvare l'euro: un intervento forte della Bce. È una soluzione molto problematica, cui si è giunti a causa dell'irresponsabilità di governo dopo governo in parecchi Paesi europei, compreso il nostro. Ma a questo punto non vi è altra soluzione. Intervenire sui flussi, ad esempio cominciando a emettere eurobond, cioè titoli garantiti dall'Ue, anche se fosse possibile agirebbe troppo lentamente. Bisogna intervenire sugli stock: agire sui flussi non basta più. La Bce può acquistare quantità illimitate di titoli riducendo la volatilità e riportando i rendimenti ai livelli pre-crisi. Non di tutti i Paesi, solo di quelli, come Italia e Spagna, che non sono insolventi. In realtà basterebbe che la Bce annunciasse l'intenzione di stabilizzare i rendimenti a un determinato livello: di acquisti veri e propri ne dovrebbe fare pochi. Molti dicono che questo è il peccato originale dell'euro: non avere una banca centrale che si comporta come la Federal Reserve americana. Ma la differenza è che la Fed non compra i titoli emessi dagli Stati (dal Texas, o dalla California), solo quelli del governo federale. Non solo, ma la grande maggioranza degli Stati americani ha un vincolo di bilancio in pareggio. Titoli federali in Europa non esistono perché non esiste un ministro del Tesoro dell'Eurozona e i Paesi europei possono emettere debito a piacimento, senza tener conto dei costi per l'Unione nel suo complesso. L'Ue, attraverso la Commissione, ha poteri esecutivi in due sole aree: la politica della concorrenza e quella monetaria. In ogni altra area le decisioni richiedono l'accordo dei governi. Per salvare l'euro occorre estendere i poteri esecutivi dell'Ue alla politica di bilancio, non alle singole misure o al mix fra spesa e imposte, che deve rimanere prerogativa dei parlamenti nazionali, ma ai conti pubblici aggregati: evoluzione del debito e saldi di bilancio. Certo, è una rivoluzione, e ci rendiamo conto che è necessario cambiare i trattati europei, ma a questo punto è la sola via per salvare l'euro e i 60 anni che abbiamo dedicato a costruire l'Europa. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 24 novembre 2011 | 8:15© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_24/c-e-una-sola-via-d-uscita-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_223e4daa-1663-11e1-a1c0-69f6106d85c1.shtml Titolo: Re: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Ciò che conta è la qualità Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2011, 05:39:45 pm L'EDITORIALE
Ciò che conta è la qualità Interventi efficaci ed esempi utili Gli interventi di politica economica che il governo annuncerà lunedì sono cruciali per l'Italia e per il futuro dell'euro. Non è un'esagerazione dire che il mondo intero ci sta guardando con apprensione. Queste misure, tuttavia, produrranno effetti molto diversi fra loro a seconda di come saranno congegnate. Potrebbero essere deflattive, cioè accelerare la caduta dei consumi e degli investimenti, e spingere l'Italia in recessione. Se così fosse gli spread , anziché ridursi, aumenterebbero, creando un circolo vizioso. Oppure potrebbero segnare una svolta, comunicare agli investitori e al mondo intero che l'Italia ha capito l'origine dei suoi mali, che è disposta a lavorare di più, a pagare le imposte con più equità, a evitare l'assistenzialismo riducendo la spesa pubblica. È vero che le politiche per la crescita hanno bisogno di tempo per produrre effetti concreti, ma gli investitori guardano lontano: l'annuncio credibile di riforme incisive potrebbe avere effetti immediati sugli spread e quindi sul costo del debito pubblico e sulla disponibilità di credito per le aziende. È accaduto in molti Paesi. Ma come fare? Innanzitutto bisogna smetterla di pensare solo alla cifra finale: una manovra di 20 miliardi sì, di 15 o 25 no! La composizione della manovra sarà molto più importante del saldo finale. Misure per 25 miliardi, ma che potrebbero accelerare la recessione, finirebbero per ridurre di molto le entrate facendo saltare il saldo previsto. Una manovra più leggera, ma che aiutasse la crescita, potrebbe invece valere molto di più. Gli interventi più efficaci sono quelli che inducono a lavorare di più, perché più a lungo si lavora, meno lo Stato spende, e più aumenta il reddito e quindi la capacità di spesa delle famiglie. Quindi è giusto innalzare l'età della pensione e riformare con equità le pensioni di anzianità. Ed è meglio prevedere un anno di lavoro in più che cancellare l'adeguamento per l'inflazione di chi già è in pensione, una misura che invece ridurrebbe i consumi. Bene anche una tassazione preferenziale per le donne (annunciata dal presidente del Consiglio nel suo discorso alle Camere) che incentiverebbe sia le donne a partecipare al mercato del lavoro, sia le imprese ad assumerle, sia le coppie a riequilibrare i compiti all'interno della famiglia, liberando risorse femminili oggi sprecate. E meglio tassare di più gli immobili (in modo progressivo) e meno il lavoro. Va nella medesima direzione la modifica dei contratti di lavoro e l'introduzione di un contratto unico che riduca la precarietà dei giovani. L'incertezza in cui essi oggi vivono non consente di «prendere in mano la vita», formare una famiglia, accendere un mutuo: anche questo limita i consumi per non parlare della qualità della loro vita. Ma l'aspetto più importante perché la manovra non ci faccia cadere nella spirale della deflazione è trasmettere il senso che si è voltata pagina. Per questo gli interventi sui costi della politica e sulla trasparenza delle nomine pubbliche (Finmeccanica) è tanto importante. I cittadini devono esser convinti che si è voltata pagina anche per i politici e per chi gode di privilegi ingiusti. E lo si faccia senza esitazione. Gli spread sono influenzati molto da aspetti psicologici, dalle aspettative sul futuro, dalla fiducia nel Paese. La fiducia non la si riconquista con un saldo di 25 invece che 20 miliardi, ma con un pacchetto di riforme che segnali una svolta vera. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 1 dicembre 2011 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_01/cio-che-conta-e-la-qualita-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_8d74d51a-1be2-11e1-8ed7-30f7808a816f.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Caro presidente no, così non va Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 11:24:55 am TROPPE TASSE E POCHI TAGLI
Caro presidente no, così non va Caro presidente, Lei conosce perfettamente l'importanza storica per il nostro Paese e per l'Europa (oseremmo dire per il mondo intero) delle decisioni che il suo governo oggi assumerà. Dobbiamo confessarle, con tutto il rispetto per il compito difficilissimo che Lei sta svolgendo, che le indiscrezioni che leggiamo sui giornali ci preoccupano e speriamo davvero che Lei e il Suo governo le smentiscano con i fatti. Quattro erano i punti che a noi parevano essenziali. Primo, per quanto riguarda i conti, ridurre le spese, più che aumentare le tasse. Secondo, preoccuparsi non tanto del saldo della manovra, ma della sua qualità, soprattutto guardando agli effetti sulla crescita. Terzo, dal punto di vista del metodo e del significato politico (anche questo importante) abbandonare la concertazione, perché comunque a quel tavolo non hanno accesso i giovani e chiunque non ha rappresentanza. Infine attaccare senza esitazioni i costi della politica e chiudere i mille canali che consentono di evadere le tasse. Insomma, dare un segnale netto. Leggiamo invece che dopo i passi iniziali, che sembravano assai incoraggianti, la manovra si sta delineando secondo le solite modalità: aumenti di imposte, pochissimi tagli, incontri con le cosiddette parti sociali (cioè concertazione), nessuna riduzione dei costi della politica. Punto primo. Tutti gli studi (sia accademici che del Fondo monetario internazionale che della Commissione europea) concordano sul fatto che gli aggiustamenti fiscali fatti aumentando le aliquote hanno creato recessioni più forti di quelli che hanno operato riducendo le spese. Non solo: la spirale di aumenti di aliquote, recessione, riduzione di gettito, tende a creare un circolo vizioso in cui l'economia si avvita in una recessione sempre più grave. Quella di cui leggiamo è una manovra fatta per tre quarti di maggiori tasse e solo per un quarto di minori spese. Il peso delle imposte in Italia è sopra la media europea (già elevata). Se poi vogliamo considerare l'equità, gli aumenti delle aliquote Irpef colpirebbero anche le classi medie e si sommerebbero alla reintroduzione dell'Ici sulla prima casa. Non sono solo i super ricchi quelli colpiti dagli aumenti dell'Irpef che, a quanto leggiamo, Lei proporrebbe. 75mila euro lordi l'anno (la soglia oltre la quale inizierebbe l'aumento dell'aliquota) corrispondono a poco più di 3.800 euro netti al mese. Per ridurre il deficit, invece di alzare le aliquote, perché non tagliare un po' di sussidi alle imprese? La Tabella A1 della Relazione trimestrale di cassa al 30.6.2010 riporta 15,5 miliardi di trasferimenti a imprese pubbliche e private, cioè oltre 30 miliardi di euro l'anno. Sono tutti davvero necessari? Quanti premiano imprenditori più abili a muoversi nei corridoi dei ministeri che ad innovare? E perché non agire coraggiosamente contro il peso di un impiego pubblico esorbitante e talvolta inutile? Fino a pochi giorni fa si pensava che l'intervento sulla previdenza avrebbe prodotto risparmi per oltre 10 miliardi. Ora siamo a 6, di cui metà provenienti dall'eliminazione dell'adeguamento all'inflazione, una misura che ridurrà i consumi. Punto secondo: la crescita. Molto più di un saldo di 25 o 15 miliardi, ciò che conta è un segnale di svolta sulle riforme strutturali. Come Lei ben sa, il nostro problema non è il deficit, ma il rapporto fra debito e prodotto interno. Per ridurlo non basta mantenere un saldo positivo al numeratore: occorre che aumenti il denominatore, cioè la crescita. La riforma dei contratti di lavoro sembra scomparsa ed è invece condizione sine qua non per la crescita. E poi riforma della giustizia, cominciando da una riduzione drastica delle sedi giudiziarie, e liberalizzazione delle professioni. È fondamentale che domani Lei offra delle proposte concrete e credibili su questi temi e si impegni ad andare avanti anche a costo di affrontare le proteste virulenti di chi difende solo interessi di parte. Punto terzo: il metodo. Con infinti e tediosi incontri con questa o quella rappresentanza si ritorna al solito problema italiano: viene colpito chi lavora e non evade le tasse, mentre nulla si fa per tagliare la spesa pubblica. Quante volte Lei stesso lo ha scritto su questo giornale? Infine non si dimentichi che i segni sono importanti. Sappiamo che non può eliminare i vitalizi, ma può tagliare in modo drastico i trasferimenti agli organi istituzionali: ad esempio Camera e Senato. Avrà contro mille parlamentari, ma avrà dalla sua parte 50 milioni di cittadini. Le Sue immagini insieme alla signora Merkel e al presidente Sarkozy ci hanno riempito di orgoglio, come italiani, dopo tante umiliazioni. Il mondo ci sta guardando: non è più tempo di passi felpati. Ci vuole una risposta nuova, oseremmo dire «rivoluzionaria». Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 4 dicembre 2011 | 9:46© RIPRODUZIONE RISERVATA Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Le scelte da fare e i pericoli reali Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2011, 11:25:48 am SE LA RECESSIONE VANIFICA LA MANOVRA
Le scelte da fare e i pericoli reali Nel decreto varato domenica scorsa dal governo, e che ora deve essere approvato in Parlamento, vi sono alcuni aspetti positivi, altri meno. Mancano misure la cui assenza ci ha sorpreso. E vi è un errore di metodo che si ritrova anche nelle raccomandazioni della Commissione europea all'Italia. Cominciamo da quest'ultimo. La correzione dei conti pubblici è costruita prendendo, come punto di partenza, le previsioni della Commissione. Per l'Italia queste indicano, nel 2012, una caduta del reddito di mezzo punto percentuale, cioè un inizio di recessione. È proprio questo il motivo per cui il decreto di domenica scorsa si è reso necessario: se le ipotesi fossero rimaste quelle di alcuni mesi fa, prima delle manovre estive del governo Berlusconi, quando ancora si prevedeva una crescita modesta, ma positiva, questo decreto non sarebbe stato necessario. Alla luce delle nuove previsioni, la Commissione ha calcolato l'entità della manovra per non mancare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013. L'errore è proprio qui, nel ritenere che la crescita dell'economia sia indipendente dalle manovre sui conti pubblici e soprattutto dalla loro composizione (aumenti di tasse o tagli alle spese). Se, prima di domenica, la crescita per il 2012 era prevista a -0,5 per cento, ora sarà necessariamente diversa: data la composizione del decreto (quasi solo tasse) temiamo che la caduta del reddito sarà più accentuata. Di quanto? Difficile prevederlo. Venerdì il Governatore della Banca d'Italia, nella sua audizione in Parlamento, l'ha stimata in mezzo punto di crescita in meno. Ciò che accadde negli anni Novanta, quando l'aggiustamento dei conti pubblici fu simile sia per entità, sia per composizione (anche allora quasi solo tasse), suggerisce che nel prossimo anno il prodotto interno (Pil) potrebbe cadere di una cifra superiore all'1 per cento. Se ciò si verificasse, saremmo da capo: si renderebbe necessaria una nuova manovra. Gli effetti recessivi della manovra potrebbero essere più contenuti se essa generasse un «effetto fiducia» tra gli investitori, con conseguente riduzione dei tassi di interesse. Ma affinché questo accada non è solo il saldo della manovra ciò che conta: la sua composizione è forse ancor più importante. Come scrivevamo domenica scorsa, su una cosa concordano tutti gli studi: misure costruite prevalentemente aumentando le tasse sono molto più recessive di quelle costruite riducendo le spese. Queste ultime, soprattutto se accompagnate da riforme strutturali e liberalizzazioni, hanno effetti recessivi molto contenuti, se non addirittura di segno contrario, proprio perché generano un «effetto fiducia». Ridurre le spese significa che in futuro le tasse saranno meno gravose, mentre senza tagli le imposte continueranno a inseguire la spesa, come è accaduto negli ultimi dieci anni. Dal 2001 a oggi, le spese correnti al netto degli interessi sono cresciute di 5,6 punti in percentuale del Pil, dal 37,4 al 43%, trascinandosi appresso un aumento di 2 punti della pressione fiscale. Il presidente del Consiglio queste cose le conosce: ecco perché ci stupisce la composizione della manovra, fatta per lo più di maggiori tasse. Davvero i circa 30 miliardi di sussidi pubblici alle imprese sono intoccabili? Non si poteva agire con maggior determinazione sui costi della politica riducendo i trasferimenti a Camera e Senato, e abolendo davvero le Province? Perché il capitolo privatizzazioni non è stato neppure aperto? Il nostro primo problema non è ridurre il debito? È vero che la Borsa è depressa, ma lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Se l'argomento è che Enel, Eni, Finmeccanica o le mille municipalizzate - Iren, Acea, Hera, A2A - sono aziende strategiche, ci spiace ma sono ambizioni che oggi non possiamo permetterci. Quasi solo tasse quindi, ma almeno tasse migliori e questo è un primo aspetto positivo. L'assenza di un'imposta sulla prima casa era un'anomalia italiana: è stato giusto rimuoverla. Bene anche non aver toccato l'Irpef: ci siamo andati vicini, e comunque aumenterà l'addizionale Irpef imposta dalle Regioni. Ottima la deducibilità dell'Irap nel caso un'azienda assuma un giovane o una donna, un provvedimento simile alle «aliquote rosa» che avevamo proposto. (Ma perché detassare le imprese va sempre bene, mentre detassare le persone no?). Bene anche le regole più severe per le pensioni di anzianità (ora chiamate «pensioni anticipate») e la nuova disciplina delle pensioni di vecchiaia: con il ministro Fornero si è davvero cambiato registro. Necessaria, però, una maggiore attenzione alla perequazione degli assegni più bassi. Sulle pensioni si è avviata una riforma strutturale che va completata e che, oltre a migliorare i conti, aumenterà l'offerta di lavoro. Ora però arriva la parte più difficile. Poiché, come dicevamo all'inizio, questa manovra sarà recessiva, è urgente compensarla subito con riforme strutturali, prima che la recessione si faccia sentire in pieno: dal contratto unico nel mercato del lavoro, alla riforma della giustizia civile e delle professioni, magari applicando il «metodo greco» (abolire per legge tutte le restrizioni, lasciando alle professioni l'onere di mostrare che alcune sono essenziali e devono quindi essere reintrodotte), che il presidente del Consiglio ha spesso additato a esempio. Se non lo si fa in fretta, gli investitori penseranno che ci stiamo avvitando in una spirale recessiva e saremo fritti. Sono riforme di cui si parla da anni: non si parte da zero, studi e proposte abbondano, si tratta solo di cominciare. Bisogna iniziare già nel tradizionale decreto di fine anno: non c'è tempo per concertare questi provvedimenti con le «parti sociali». Se questo governo si ferma, anche solo qualche settimana, anziché passare alla storia come il salvatore dell'Italia - e potrebbe davvero esserlo - sarà travolto dalla corrente dei mercati. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 11 dicembre 2011 | 9:26© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_11/le-scelte-da-fare-e-i-pericoli-reali-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_eaa14188-23d0-11e1-9648-0971f64f00f8.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Le scelte da fare e i pericoli reali Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:17:48 pm SE LA RECESSIONE VANIFICA LA MANOVRA
Le scelte da fare e i pericoli reali Nel decreto varato domenica scorsa dal governo, e che ora deve essere approvato in Parlamento, vi sono alcuni aspetti positivi, altri meno. Mancano misure la cui assenza ci ha sorpreso. E vi è un errore di metodo che si ritrova anche nelle raccomandazioni della Commissione europea all'Italia. Cominciamo da quest'ultimo. La correzione dei conti pubblici è costruita prendendo, come punto di partenza, le previsioni della Commissione. Per l'Italia queste indicano, nel 2012, una caduta del reddito di mezzo punto percentuale, cioè un inizio di recessione. È proprio questo il motivo per cui il decreto di domenica scorsa si è reso necessario: se le ipotesi fossero rimaste quelle di alcuni mesi fa, prima delle manovre estive del governo Berlusconi, quando ancora si prevedeva una crescita modesta, ma positiva, questo decreto non sarebbe stato necessario. Alla luce delle nuove previsioni, la Commissione ha calcolato l'entità della manovra per non mancare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013. L'errore è proprio qui, nel ritenere che la crescita dell'economia sia indipendente dalle manovre sui conti pubblici e soprattutto dalla loro composizione (aumenti di tasse o tagli alle spese). Se, prima di domenica, la crescita per il 2012 era prevista a -0,5 per cento, ora sarà necessariamente diversa: data la composizione del decreto (quasi solo tasse) temiamo che la caduta del reddito sarà più accentuata. Di quanto? Difficile prevederlo. Venerdì il Governatore della Banca d'Italia, nella sua audizione in Parlamento, l'ha stimata in mezzo punto di crescita in meno. Ciò che accadde negli anni Novanta, quando l'aggiustamento dei conti pubblici fu simile sia per entità, sia per composizione (anche allora quasi solo tasse), suggerisce che nel prossimo anno il prodotto interno (Pil) potrebbe cadere di una cifra superiore all'1 per cento. Se ciò si verificasse, saremmo da capo: si renderebbe necessaria una nuova manovra. Gli effetti recessivi della manovra potrebbero essere più contenuti se essa generasse un «effetto fiducia» tra gli investitori, con conseguente riduzione dei tassi di interesse. Ma affinché questo accada non è solo il saldo della manovra ciò che conta: la sua composizione è forse ancor più importante. Come scrivevamo domenica scorsa, su una cosa concordano tutti gli studi: misure costruite prevalentemente aumentando le tasse sono molto più recessive di quelle costruite riducendo le spese. Queste ultime, soprattutto se accompagnate da riforme strutturali e liberalizzazioni, hanno effetti recessivi molto contenuti, se non addirittura di segno contrario, proprio perché generano un «effetto fiducia». Ridurre le spese significa che in futuro le tasse saranno meno gravose, mentre senza tagli le imposte continueranno a inseguire la spesa, come è accaduto negli ultimi dieci anni. Dal 2001 a oggi, le spese correnti al netto degli interessi sono cresciute di 5,6 punti in percentuale del Pil, dal 37,4 al 43%, trascinandosi appresso un aumento di 2 punti della pressione fiscale. Il presidente del Consiglio queste cose le conosce: ecco perché ci stupisce la composizione della manovra, fatta per lo più di maggiori tasse. Davvero i circa 30 miliardi di sussidi pubblici alle imprese sono intoccabili? Non si poteva agire con maggior determinazione sui costi della politica riducendo i trasferimenti a Camera e Senato, e abolendo davvero le Province? Perché il capitolo privatizzazioni non è stato neppure aperto? Il nostro primo problema non è ridurre il debito? È vero che la Borsa è depressa, ma lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Se l'argomento è che Enel, Eni, Finmeccanica o le mille municipalizzate - Iren, Acea, Hera, A2A - sono aziende strategiche, ci spiace ma sono ambizioni che oggi non possiamo permetterci. Quasi solo tasse quindi, ma almeno tasse migliori e questo è un primo aspetto positivo. L'assenza di un'imposta sulla prima casa era un'anomalia italiana: è stato giusto rimuoverla. Bene anche non aver toccato l'Irpef: ci siamo andati vicini, e comunque aumenterà l'addizionale Irpef imposta dalle Regioni. Ottima la deducibilità dell'Irap nel caso un'azienda assuma un giovane o una donna, un provvedimento simile alle «aliquote rosa» che avevamo proposto. (Ma perché detassare le imprese va sempre bene, mentre detassare le persone no?). Bene anche le regole più severe per le pensioni di anzianità (ora chiamate «pensioni anticipate») e la nuova disciplina delle pensioni di vecchiaia: con il ministro Fornero si è davvero cambiato registro. Necessaria, però, una maggiore attenzione alla perequazione degli assegni più bassi. Sulle pensioni si è avviata una riforma strutturale che va completata e che, oltre a migliorare i conti, aumenterà l'offerta di lavoro. Ora però arriva la parte più difficile. Poiché, come dicevamo all'inizio, questa manovra sarà recessiva, è urgente compensarla subito con riforme strutturali, prima che la recessione si faccia sentire in pieno: dal contratto unico nel mercato del lavoro, alla riforma della giustizia civile e delle professioni, magari applicando il «metodo greco» (abolire per legge tutte le restrizioni, lasciando alle professioni l'onere di mostrare che alcune sono essenziali e devono quindi essere reintrodotte), che il presidente del Consiglio ha spesso additato a esempio. Se non lo si fa in fretta, gli investitori penseranno che ci stiamo avvitando in una spirale recessiva e saremo fritti. Sono riforme di cui si parla da anni: non si parte da zero, studi e proposte abbondano, si tratta solo di cominciare. Bisogna iniziare già nel tradizionale decreto di fine anno: non c'è tempo per concertare questi provvedimenti con le «parti sociali». Se questo governo si ferma, anche solo qualche settimana, anziché passare alla storia come il salvatore dell'Italia - e potrebbe davvero esserlo - sarà travolto dalla corrente dei mercati. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 11 dicembre 2011 | 9:26© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_11/le-scelte-da-fare-e-i-pericoli-reali-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_eaa14188-23d0-11e1-9648-0971f64f00f8.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Ricchezza, equità. Troppi gli equivoci Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2012, 03:17:52 pm AGENDA PER UN ANNO DECISIVO
Ricchezza, equità. Troppi gli equivoci Dal governo Monti gli italiani si aspettano - nel 2012 - crescita, un po' di fiducia ed equità. Le prime due sono state merci scarse nel fine anno 2011. Su cosa sia l'equità, c'è molta confusione. La crescita non c'è, anzi siamo entrati in recessione. A inizio dicembre, Confindustria prevedeva per il 2012 una caduta del reddito dell'1,6%. Il decreto «salva Italia» ha portato la pressione fiscale a un massimo storico: il 45%. Non sorprendentemente ne è seguito un calo nella fiducia degli italiani. L'indicatore elaborato dalla Commissione europea per misurare la fiducia delle famiglie (la domanda posta è «Come vedete la condizione economica della vostra famiglia nei prossimi 12 mesi?»), che era migliorato dopo la formazione del nuovo governo, è peggiorato in dicembre del 4,7%, ritornando al livello minimo toccato nell'inverno 2008. Nel resto dell'area euro, nel medesimo periodo, è rimasto pressoché stabile; negli Stati Uniti l'analogo indice è migliorato, sempre in dicembre, del 15%. Dati che si riferiscono a singole aziende italiane indicano che nello stesso mese le loro vendite al dettaglio sono state inferiori a un anno prima di una cifra oscillante fra il 7 e il 10%. La conclusione è che nel 2012 rischiamo una caduta del reddito del 2%. Se si fossero tagliate un po' di spese inutili, anziché limitarsi ad alzare le tasse, l'effetto sarebbe stato molto meno grave. Ma ormai è tardi. Per arginare la recessione ora occorre ridare fiducia a famiglie e imprese: ci vogliono riforme profonde, coraggiose e immediate. Ma non appena si parla di riforme viene sollevata la questione dell'equità, non sempre però in modo corretto. Che cosa significa equità? Nelle discussioni di queste settimane sta prendendo piede una visione pericolosa: che la ricchezza, comunque ottenuta, vada perseguita e «punita». La demonizzazione della ricchezza. Non si deve fare di ogni erba un fascio: c'è chi è relativamente ricco perché ha investito nella propria istruzione, spesso con anni di sacrifici; chi ha corso rischi imprenditoriali, ha creato posti di lavoro, è stato premiato dal mercato e paga metà del proprio reddito in tasse. C'è invece la ricchezza creata con l'evasione fiscale, le connessioni politiche, i favori più o meno leciti ottenuti nei corridoi dei ministeri. La ricchezza ottenuta con i premi concessi a manager pubblici che hanno male amministrato o addirittura corrotto le aziende loro affidate; con distorsioni della governance di istituzioni finanziarie per cui amministratori, anche incapaci, quando smettono di far danni, si ritirano con decine di milioni di euro di buonuscita. La prima cosa che il governo deve fare è segnalare agli italiani di essere conscio di questa distinzione. Altrimenti imprenditori e capitali andranno altrove, e con essi i posti di lavoro, e addio crescita. Si dice che l'Italia con il nuovo governo abbia alzato la testa. Forse, ma il giorno di Natale la lettura di un articolo del New York Times sull'evasione fiscale nel nostro Paese ce l'avrebbe fatta riabbassare. Ecco un'idea quasi banale per combattere l'evasione: consentire ai cittadini di detrarre dal reddito soggetto a tassazione una quota delle loro spese. Poter detrarre il 30% sarebbe sufficiente per indurli a chiedere una ricevuta, anche se ciò comporta un prezzo maggiorato dell'Iva. L'effetto netto sul gettito sarebbe certamente positivo. L'Italia è divisa in due: c'è una parte del Paese che funziona e una no. Bisogna permettere alle risorse di spostarsi verso la parte che funziona. Anche questa è equità: non proteggere chi, non produttivo, pesa su chi lo è. Una ricerca di alcuni economisti (Matteo Brugamelli e Roberta Zizza della Banca d'Italia e Fabiano Schivardi dell'università di Sassari) mostra che, dopo l'introduzione dell'euro, le piccole e medie imprese italiane si sono divise, a grandi linee, in due gruppi. Alcune hanno investito, inventando nuovi prodotti e cercando nuovi mercati: la loro produttività è cresciuta e così i salari dei loro dipendenti. Altre aziende invece non hanno investito: la loro produttività è rimasta invariata e oggi i loro prodotti non sopravvivono alla concorrenza. Queste ultime dovrebbero chiudere, lasciando spazio alle imprese più efficienti per crescere e così aumentare la produttività media del Paese. Ma ciò non accade se lo Stato protegge le imprese improduttive, ad esempio utilizzando la cassa integrazione (che spesso mantiene lavoratori legati a imprese che non hanno futuro), anziché promuovere un moderno sistema di sussidi di disoccupazione che aiutino i lavoratori a spostarsi da un'azienda all'altra. Anche questo frena la crescita: sia perché la presenza di aziende vecchie e protette rende più difficile crearne di nuove, sia perché le protezioni costano, e a pagarle sono le imprese che guadagnano. C'è poi l'equità fra padri e figli, fra anziani e giovani. Il ministro Elsa Fornero è arrivata al governo con due idee chiare, una sulle pensioni: un'altra sul lavoro. Pensava, giustamente, che il nostro sistema previdenziale fosse stato reso sostenibile dalla riforma Dini: bisognava solo accelerarla. In pochi giorni lo ha fatto e oggi le pensioni italiane, pur non perfette, sono più sostenibili che in molti Paesi europei. Anche sul mercato del lavoro Fornero ha (o almeno aveva) idee chiare: è necessario un contratto unico che accolga un giovane al primo impiego e poi lo accompagni nella sua vita lavorativa. Un contratto che si differenzi solo per quanto un'impresa deve pagare se decide di licenziare un dipendente: nulla i primi mesi e un ammontare via via crescente col trascorrere del tempo e del rapporto di lavoro. Vi sono diversi modi per disegnare un simile contratto, alcuni proposti da Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo monetario internazionale, altri dal senatore Pietro Ichino. In entrambe le proposte si tratta di contratti a tempo indeterminato per tutti, ma rescindibili, se necessario, per motivi economici dell'impresa. Si può prevedere un periodo di apprendistato alla tedesca, ma il punto cruciale è eliminare il precariato e far sì che i giovani non si sentano più dei paria, cui viene negato un mutuo per acquistare una casa e così il sogno di formare una famiglia. All'interno di un'azienda i lavoratori possono distinguersi per la loro anzianità, ma non fra chi è fortunato e ha un contratto a tempo indeterminato e chi quella fortuna non ha avuto. Insomma, ai giovani il governo deve offrire un futuro più certo e ridare loro un po' di fiducia. Ma i giovani non si devono aspettare il posto fisso nel senso dell'illicenziabilità, del lavoro a vita nella stessa impresa. La sostituzione della cassa integrazione con un moderno sistema di sussidi temporanei è il complemento necessario del contratto unico e permetterebbe di usare il periodo di disoccupazione per investire nella propria formazione. Il rifiuto da parte dei sindacati di dialogare su questi argomenti dimostra, ancora una volta, che a queste organizzazioni i giovani e l'equità intergenerazionale non interessano. L'ottima Elsa Fornero non deve arrendersi ai sindacati. Il Paese le deve già molto, le chiediamo ancora più coraggio e Mario Monti le deve tutto il suo appoggio. Si parla poi di equità con riferimento al fatto che i salari in Italia sono più bassi che altrove. Secondo dati dell'Eurostat, a parità di caratteristiche individuali, le retribuzioni mensili nette italiane nel settore privato risultano in media inferiori di circa il 10 per cento a quelle tedesche, del 20 a quelle britanniche e del 25 a quelle francesi. Non c'è da sorprendersi: i salari non sono «una variabile indipendente» per citare una frase storica (in seguito per la verità rinnegata) di Luciano Lama, leader della Cgil negli anni 70. I salari dipendono dalla produttività, che in Italia è cresciuta molto meno che negli altri Paesi europei: non solo per colpa dei sindacati, ma anche di quegli imprenditori che si sono illusi che si potesse vivere di rendita. Il primo grafico (guarda) mostra come la produttività del lavoro in Italia sia stagnante almeno dal 2000, mentre nella la media dei Paesi dell'Euro cresceva, specialmente in Germania. Non solo la produttività in Italia cresce poco, ma i salari poi non la seguono correttamente, premiando troppo l'anzianità. Come si vede nel secondo grafico (guarda), i salari medi italiani crescono con l'età mentre, ad esempio, in Gran Bretagna, raggiungono un apice in corrispondenza delle età più produttive e calano negli anni successivi. Insomma, in Italia conta soprattutto (troppo) l'anzianità, in tutti i campi. Per correggere questa situazione ci vuole un accordo costruito su tre punti: le imprese offrono un contratto unico e rinunciano ai sussidi pubblici; lo Stato riduce le tasse sul lavoro, finanziando gli sgravi con i tagli ai sussidi alle imprese; i sindacati accettano una gestione più flessibile del lavoro. Il presidente di Confindustria dice che i sussidi non bastano perché sono solo 2,7 miliardi l'anno. Se ha ragione, a chi vanno i rimanenti 27,3 miliardi di «sussidi alle imprese» che appaiono nel bilancio dello Stato? Probabilmente a imprese che li meritano ancor meno degli associati a Confindustria. Se si avesse il coraggio di tagliarli vi sarebbe lo spazio per finanziare sia una riduzione molto significativa del cuneo fiscale sia il passaggio dalla cassa integrazione a un moderno sistema di sussidi. Equità e crescita si combinerebbero anche privatizzando imprese pubbliche, dove talvolta - come nel caso di Finmeccanica, un tempo additata quale gioiello del sistema pubblico - abbiamo appreso che dilagava la corruzione. Spiegavamo in un precedente articolo che se la Borsa è depressa, lo sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Privatizzare è il modo corretto per ridurre il debito, come fece il governo Ciampi negli anni 90. Ci preoccupa invece leggere che tornano di moda proposte di ridurre il debito in modo più o meno forzoso, inducendo le banche ad acquistare titoli pubblici garantiti dal patrimonio dello Stato. Innanzitutto perché se il patrimonio garantisce solo alcuni titoli, il prezzo degli altri, quelli non garantiti, evidentemente cadrebbe, quindi non si vede che beneficio ne venga allo Stato. Ma soprattutto queste proposte sembrano ignorare che le nostre banche hanno bisogno urgente di capitale fresco. Altrimenti, come è accaduto il mese scorso, la liquidità che ricevono dalla Banca centrale europea, o la impiegano per acquistare Bot semestrali o la ridepositano a Francoforte. Comunque, non prestano denaro alle imprese perché non hanno il capitale necessario per farlo. Le fondazioni, che sono i loro maggiori azionisti, non hanno più risorse per ricapitalizzare le banche: quindi la condizione per far riprendere il credito alle imprese è attirare nuovi azionisti privati. Pensate che ci sarebbero se le banche venissero usate per acquisti forzosi di titoli pubblici? L'ora delle alchimie finanziarie è finita. L'Italia si salva solo se l'economia reale riparte. Infine l'università. Caro presidente del Consiglio, rilegga un libro a lei caro, Prediche Inutili di Luigi Einaudi, e inserisca nella legge sulle liberalizzazioni cui sta lavorando l'abolizione del valore legale della laurea: un provvedimento, come spiegava Einaudi, che aumenterebbe competizione e merito nei nostri atenei. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 2 gennaio 2012 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI Giovani e articolo 18 le verita’ scomode Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2012, 10:03:47 pm CONTRATTO UNICO E ARTICOLO 18
Giovani e articolo 18, le verita’ scomode Con il pacchetto di liberalizzazioni approvato venerdì scorso, il governo Monti ha fatto in due mesi ciò che i precedenti governi non avevano fatto dall’introduzione dell’euro. Al di là dei singoli provvedimenti, che vanno tutti nella giusta direzione, la cosa forse più importante è il messaggio politico che ne esce. Non è vero che «in Italia non si può fare»; non è vero che l’Italia è bloccata dalle corporazioni. In queste ore il governo viene attaccato da ogni parte: nelle strade, nelle telefonate dei capi delle categorie, che in piazza non vanno ma usano canali più occulti, e da domani anche in Parlamento. Non deve cedere, anche se venerdì qualche pezzo per strada si è perduto. Ora però arriva un passo forse ancor più difficile: la riforma del mercato del lavoro. Al centro c’è una questione di equità fra padri e figli. E di equità tra cittadini protetti dai sindacati e cittadini coinvolti nelle liberalizzazioni. Una questione che il ministro Fornero—ricordando una frase di Luciano Lama, il leader della Cgil negli anni 70 — ha colto perfettamente. Riflettendo sul ruolo del sindacato in quel periodo, e quindi sui criteri che ispirarono la legislazione sul lavoro tuttora in vigore, Lama disse: «Noi, purtroppo, in un certo senso, abbiamo vinto contro i nostri figli». E non vale l’argomento che oggi i padri aiutano i figli all’interno della famiglia. Questo è vero, ma la famiglia non deve diventare un’istituzione che, lo voglia o no, è costretta a sostituirsi a ciò che dovrebbero fare lo Stato e il mercato. La riforma dei contratti di lavoro deve liberare i giovani da una dipendenza forzata dai loro padri e dalle loro madri. Nei quindici anni passati il mercato del lavoro italiano è diventato molto più flessibile: il risultato, con buona pace di chi pensa che più flessibilità significhi più disoccupazione, è che (almeno fino all’inizio della crisi, che comunque passerà) molte più persone lavorano. Il guaio è che la maggior flessibilità è stata ottenuta imponendo un costo elevato ai giovani, mentre i lavoratori più anziani continuavano ad essere protetti da contratti a tempo indeterminato. E, se occupati in imprese con più di quindici dipendenti (ecco un altro fattore di iniquità), protetti anche dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che ne sancisce l’illicenziabilità per motivi economici. E se poi la loro azienda è in difficoltà li soccorre la cassa integrazione, un istituto sconosciuto alla gran maggioranza dei giovani. Come mostrano Emiliano Mandrone e Nicola Massarelli sul sito www.lavoce.info, la precarietà involontaria (cioè i lavoratori a termine involontari, i finti collaboratori e gli individui non più occupati perché hanno concluso un contratto temporaneo e ne cercano un altro) coinvolgeva, prima della crisi, poco meno di quattro milioni di lavoratori, quasi tutti giovani. Per loro il precariato non è una breve parentesi nel percorso verso un lavoro stabile, è una «trappola»: nemmeno uno su tre riesce a passare a un contratto a tempo indeterminato. Il motivo è che, per un’impresa, passare un lavoratore dalla precarietà ad un contratto a tempo indeterminato significa renderlo illicenziabile, a causa appunto dell’articolo 18, e questo comporta un rischio troppo elevato per l’impresa stessa. Quindi i giovani rimangono precari troppo a lungo, talvolta a vita. E quando arriveranno alla pensione i pochi contributi saltuariamente versati non saranno sufficienti. Non solo, ma un’impresa non investe nella formazione di un lavoratore che dopo pochi mesi perderà: quindi la produttività dei giovani precari rimane bassa, non imparano nulla e più l’età avanza meno diventano impiegabili. È un dramma non solo per i giovani ma per la produttività del Paese. Per abbattere questo muro c’è una sola via: eliminare l’articolo 18. Sbaglia chi ripete che non è una battaglia che valga la pena di combattere. È una battaglia fondamentale. Il ministro Fornero ha perfettamente chiari i termini e la soluzione del problema: «Penso», ha detto nell’intervista al Corriere del 18 dicembre, «che un ciclo di vita che funzioni è quello che permette ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Un contratto che riconosca che sei all’inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa, ma che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto». Questo significa abolire l’articolo 18. Si obietta che oggi, nel mezzo di una recessione, eliminare l’articolo 18 significherebbe consentire alle imprese licenziamenti indiscriminati. È vero il contrario. In un momento di grande incertezza, come quello che stiamo attraversando, gli imprenditori sono restii ad assumere con l’inflessibilità dell’articolo 18 proprio perché sono insicuri sul futuro della loro azienda. Quindi è proprio in un momento difficile che l’articolo 18 preoccupa gli imprenditori. Quando tutto va bene e si è ottimisti, assumere per la vita è facile per tutti. Ma anche alle imprese dev’essere chiesto un contributo. A fronte dell’abolizione dell’articolo 18 devono essere disposte a pagare una quota dei sussidi di disoccupazione. E questo non tanto per alleggerire l’onere a carico dell’Inps, quanto soprattutto perché in questo modo un’impresa ci penserà bene prima di licenziare un lavoratore, e lo farà solo se davvero è convinta che la domanda per i suoi prodotti rimarrà bassa a lungo. Una possibilità è quanto prevede la proposta di legge presentata dal senatore Pietro Ichino. Il sussidio del primo anno potrebbe rimanere, come già previsto, quasi interamente a carico dell’Inps. Questo sussidio, che oggi raggiunge l’80% della retribuzione di base, potrebbe essere integrato ponendo un ulteriore 10% a carico dell’impresa. Il secondo anno, quando viene meno il sussidio pubblico, potrebbe essere interamente a carico dell’impresa, con una copertura, ad esempio, del 70%. Questa scenderebbe il terzo anno con un onere suddiviso fra Inps e impresa. Ovviamente questo richiederebbe che la cassa integrazione fosse riservata ai soli casi di caduta temporanea degli ordini, cinque o sei mesi, non di più. Oltre questo periodo deve intervenire un moderno sistema di sussidi temporanei, decrescenti nel tempo e accompagnati da attività di riqualificazione dei lavoratori. Non stiamo inventando nulla di originale: piu o meno così funziona il welfare in quasi tutti i Paesi industriali tranne l’Italia e pochi altri. Le imprese non dovrebbero esser obbligate ad aderire al nuovo sistema: quelle che accettano di contribuire al finanziamento dei sussidi avrebbero accesso ai nuovi contratti non protetti dall’articolo 18. Le altre possono rimanere nel vecchio regime. Ma al di là degli aspetti tecnici, un punto è cruciale. Deve esserci un unico contratto per tutti e l’articolo 18 va abolito. Solo così si abbatte il muro che ha trasformato i giovani nei paria del mercato del lavoro. Accettare compromessi su questi due punti significa varare una riforma inutile. Fare una riforma parziale è peggio che non far nulla perché si darebbe l’impressione di aver risolto un problema senza averlo fatto, perdendo così un’occasione forse irripetibile. ALBERTO ALESINA, FRANCESCO GIAVAZZI 22 gennaio 2012 | 12:13© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_22/giavazzi-alesina-giovani-articolo-18_5afec01c-44cf-11e1-b12c-223272f476c4.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Spendere meno non è impossibile Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 04:08:55 pm CONTI PUBBLICI, DEBITO E CRESCITA
Spendere meno non è impossibile Molti investitori (ma anche il Fondo monetario e l'Ocse) temono che l'Europa e l'Italia possano avvitarsi in una spirale pericolosa. Debiti elevati (in rapporto al Pil) richiedono politiche di bilancio restrittive; queste generano recessione e abbassano una crescita che già langue, col risultato che il rapporto debito-Pil, anziché ridursi, cresce. A questo punto si rendono necessari aggiustamenti fiscali ancora più forti, e così via. Da anni ci dibattiamo in questo dilemma. Come uscirne? L'esperienza di grandi correzioni dei conti pubblici attuate in alcuni Paesi industriali insegna due cose fondamentali. Primo: correzioni dei conti ottenute riducendo la spesa pubblica sono state meno recessive di quelle attuate aumentando le tasse, e quindi sono state più efficaci nel comprimere il rapporto debito-Pil. Secondo: le correzioni che hanno avuto successo (perché non hanno causato recessioni) sono state accompagnate da liberalizzazioni. Il motivo è che l'apertura dei mercati ha compensato i potenziali effetti recessivi del taglio del deficit. Come si spiegano questi risultati? Immaginiamo una riduzione del deficit ottenuta alzando le tasse. L'effetto sarà una riduzione del potere d'acquisto dei cittadini. Non solo: i lavoratori (specialmente quando sindacalizzati) chiederanno e otterranno un aumento dei loro salari per compensare (almeno in parte) l'aumento delle tasse. Questo fa salire il costo del lavoro per le imprese. Il risultato: più costi e meno consumi. Inoltre, se lo Stato non riduce la spesa, i cittadini si aspetteranno che prima o poi le tasse aumentino di nuovo: un altro motivo per cui i consumi languono. Immaginiamo invece tagli di spesa che permettano di ridurre almeno di un po' la pressione fiscale. Il meccanismo che s'instaura è opposto. Il costo del lavoro tende a scendere (perché si riduce il cuneo fiscale) e la riduzione di consumi dovuta ai tagli di spesa (che comunque sarebbe modesta se si tagliasse spesa improduttiva) è compensata dalla riduzione del costo del lavoro. Questo consente alle imprese di abbassare i prezzi soprattutto se le liberalizzazioni sono accompagnate da un rafforzamento dell'Antitrust. Inoltre, le liberalizzazioni fanno crescere la produttività: un altro motivo per cui i prezzi potrebbero scendere. Quindi: bene le liberalizzazioni del governo Monti e le riforme (per ora solo annunciate) del mercato del lavoro. Bene la riforma delle pensioni. Male invece la decisione di ridurre il deficit aumentando le tasse, senza tagliare la spesa. Il governo ha davanti ancora un anno: abbastanza per correggere la parte insoddisfacente del suo programma. Anche gli investitori conoscono gli studi che mostrano che solo riduzioni di spesa sono in grado di allentare la morsa del debito. Una correzione di rotta farebbe scendere i tassi di interesse aiutando la crescita. Resta molto lavoro da fare, ma siamo certamente avanti rispetto alla Francia dove François Hollande, candidato socialista che potrebbe vincere le presidenziali di maggio, promette aumenti (non tagli!) di spesa per 20 miliardi di euro, accompagnati da maggiori imposte per 26 miliardi e una riduzione (proprio così) dell'età pensionabile a sessanta anni. Basterebbe il suo programma per far togliere tutte le «A» al debito francese. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 30 gennaio 2012 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_30/spendere-meno-non-e-impossibile-giavazzi-alesina_144a6e9c-4b09-11e1-8fad-efe86d39926f.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Essere prudenti è poco saggio Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 12:15:51 pm LAVORO, LA RIFORMA TRA ITALIA E SPAGNA
Essere prudenti è poco saggio A meno di due mesi dal suo insediamento, il nuovo governo spagnolo ha varato una riforma del mercato del lavoro che affronta alcune delle questioni che sono sul tavolo anche in Italia, a cominciare dalla situazione dei giovani. In Spagna la disoccupazione totale è molto più alta che in Italia (23% rispetto a 9%), ma il rapporto tra la disoccupazione dei giovani (28% in Italia e 48% in Spagna) e quella degli anziani è più grave nel nostro Paese. In Spagna il tasso di disoccupazione dei giovani è il doppio di quello dei lavoratori più anziani. In Italia il triplo. La nuova legge spagnola accorcia la distanza fra contratti a tempo determinato e indeterminato modificando questi ultimi: il costo, per un'impresa, di licenziare un lavoratore a tempo indeterminato scende da un compenso corrispondente a 45 giorni lavorativi per ogni anno di servizio, a 33 giorni. Quindi, chi aveva un contratto a tempo indeterminato e lavorava da solo 6 mesi riceverà un ammontare equivalente a 16,5 giorni di lavoro. Se lavorava da dieci anni, un ammontare equivalente a 330 giorni (il compenso massimo è di due anni). Se poi l'impresa dimostra che il licenziamento non avviene per ragioni disciplinari, ma economiche (ad esempio se l'impresa non riesce più a vendere i suoi prodotti), il compenso si riduce a 20 giorni per anno di servizio con un massimo corrispondente a 12 mesi di retribuzione netta. La strada spagnola è quella giusta: far pagare alle imprese una parte dei sussidi di disoccupazione fa sì che esse ci pensino bene prima di licenziare un dipendente, tanto più quanto più a lungo è durato il rapporto di lavoro. Agevolarle se il licenziamento dipende da motivi economici evita che si tengano artificialmente in vita imprese decotte, come invece avviene in Italia quando si prolunga oltre misura la cassa integrazione. Vincoli simili a quelli imposti dall'articolo 18 del nostro Statuto dei lavoratori erano stati eliminati in Spagna già nel 1997. Nei dieci anni successivi la disoccupazione scese di circa dieci punti: dal 17,8% all'8,3. Ciò che il governo di Mariano Rajoy non ha invece avuto il coraggio di fare è introdurre un contratto unico. Come in Italia, anche a Madrid l'opposizione al contratto unico è venuta dai sindacati e dall'associazione delle imprese. I primi (come mostrano Juan Dolado e Samuel Bentolila, Economic Policy 1994), perché la presenza di lavoratori precari segmenta il mercato del lavoro e consente di mantenere più elevato il salario di chi ha un contratto a tempo indeterminato; le imprese perché i contratti a tempo indeterminato offrono flessibilità a costo zero. Fino ad oggi una riforma del mercato del lavoro che elimini le disparità fra giovani e anziani è stata un tabù in Italia. Ora, fortunatamente, pare non lo sia più. Il presidente del Consiglio Monti e il ministro del Lavoro Fornero sembrano pronti ad affrontare sia il tema dei contratti che quello dei sussidi, due riforme che vanno fatte insieme perché (come abbiamo spiegato in un articolo del 22 gennaio) non si può riformare il mercato del lavoro senza rivedere il sistema di sussidi alla disoccupazione. E non si tratta solo di riformare il sistema di protezione per chi perde il lavoro. I dati dell'Ocse mostrano che l'Italia detiene (insieme a Messico e Turchia) il record nella percentuale di giovani che né lavorano né partecipano ad attività formative, in una scuola, un'università, o all'interno di un'azienda. Una situazione molto diversa da quella tedesca, dove non c'è praticamente alcuna differenza fra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello dei lavoratori più anziani (7% contro l'8% dei giovani). Ciò che fa la differenza in Germania (e modalità analoghe esistono in Austria, Svizzera e Olanda) è un sistema che consente ai giovani di inserirsi molto presto nel mondo del lavoro. Terminata la scuola elementare, le famiglie tedesche devono scegliere, per i loro figli, fra tre strade distinte: una scuola simile al nostro liceo, che non prevede formazione professionale; la Realschule in cui si alternano periodi di formazione generale e periodi di esperienza in azienda; e la Hauptschule che prevede un graduale inserimento in azienda già a partire dai 15-16 anni. Non sono scelte irreversibili: previa verifica del suo rendimento scolastico, uno studente può passare da una scuola all'altra. Un'impresa tedesca su tre offre esperienze di apprendistato e metà dei ragazzi che fanno questa esperienza vengono poi assunti dalla stessa impresa con un contratto a tempo indeterminato. In Italia le imprese usano l'apprendistato come un modo per assumere lavoratori precari e le attività di formazione sono spesso fasulle. Il risultato è che i giovani apprendisti il più delle volte non imparano nulla e alla fine del contratto vengono lasciati a casa (si leggano Pietro Garibaldi e Tito Boeri «Un nuovo apprendistato contro lo spreco di capitale umano» sul sito lavoce.info ). E così ci si continua a illudere che la laurea sia l'unica strada per trovare lavoro: il risultato è che a un anno dalla laurea triennale tre giovani su dieci non hanno ancora trovato un lavoro, e uno su due a un anno dalla laurea specialistica (dati di AlmaLaurea). Anche perché, durante gli anni dell'università, in Italia, diversamente da quanto avviene in altri Paesi, le imprese non fanno alcuno sforzo per avvicinare i giovani al mondo del lavoro, anche solo con stage estivi, e le università sono fabbriche di esami organizzate in modo tale che gli studenti non hanno mai due mesi liberi. Monti e Fornero possono seguire due strade: procedere con cautela, cambiare pochissimo, cercare il consenso della Confindustria e dei sindacati, e così evitare scontri. Oppure attuare una riforma vera, che parta dal contratto unico a tempo indeterminato per tutti, con la possibilità di terminare il rapporto di lavoro (per tutti, anche i dipendenti pubblici) con i dovuti costi per le imprese o per lo Stato. Noi pensiamo che vada abbandonata ogni cautela e che si debba avere il coraggio di chiamare «riforma» solo una modifica sostanziale dei contratti, dei sussidi e delle modalità di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Limitarsi a qualche aggiustamento marginale è peggio che non far nulla: si creerebbe l'illusione che un problema è stato risolto, quando invece non è vero. Lo scoprirà anche la Spagna che si è fermata a metà strada. Oggi la prudenza non è segno né di saggezza né di lungimiranza. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 20 febbraio 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_20/alesina-giavazzi-essere-prudenti-poco-saggio_70ea5d24-5b8a-11e1-9554-12046180c4ab.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Le riforme da blindare Inserito da: Admin - Marzo 03, 2012, 03:38:29 pm Le riforme da blindare
L'esperienza di Mario Monti si concluderà fra poco più di un anno. Dopo le elezioni tornerà un esecutivo normale, composto da politici, che per ora stanno a guardare. Nel frattempo il governo sta attuando alcune riforme sacrosante. Ha dovuto accettare molti compromessi (sulle liberalizzazioni), alcuni rinvii (sulla riforma del mercato del lavoro). Ma comunque procede. Sta anche contenendo il deficit: sarebbe stato meglio se lo avesse fatto tagliando le spese, anziché aumentando le imposte, ma comunque il risultato è stato raggiunto. Che cosa impedirà a un prossimo governo di cancellare queste riforme e tornare al punto di prima? Se lo facesse perché questo è il mandato che ha ricevuto dalla maggioranza degli elettori, nulla da eccepire: è la democrazia. Ma il rischio è che il prossimo governo, come tanti in passato, risponda più alle pressioni di interessi potenti che alla volontà dei cittadini. Se questo è il rischio, c'è qualcosa che Monti può fare per «blindare» le sue riforme? Per alcune non è facile. Un settore deregolato può essere semplicemente ri-regolato. L'età pensionabile può essere di nuovo abbassata: lo fece nel 2007 il governo Prodi quando cancellò la riforma Maroni. Subiremmo gli strali dell'Unione europea, ma potrebbero non bastare a difendere le riforme. Sulla spesa pubblica però qualcosa si può fare per blindare una politica rigorosa ed evitare il ritorno al «mercato dei favori» e alla crescita delle spese. Anche qui i precedenti non sono incoraggianti. Negli anni Novanta, sotto la pressione dei parametri europei, la spesa pubblica al netto degli interessi scese di quattro punti, in percentuale del prodotto interno lordo: dal 44 al 40%. In soli cinque anni, fra il 2001 e il 2006, il governo Berlusconi la riportò al 44%. La strada indicata dai trattati europei per garantire che il rigore non venga abbandonato è l'introduzione di un vincolo di bilancio in pareggio nella Costituzione. Il Parlamento italiano ha iniziato a farlo votando in dicembre una legge costituzionale, prima alla Camera, poi al Senato. Si tratta di un primo passo perché le leggi costituzionali richiedono due votazioni successive in ciascuna Camera. Il pareggio di bilancio è una regola molto rigida che permette poca flessibilità. Per un Paese come il nostro che soffre di un'endemica incapacità di controllare la spesa, la perdita di flessibilità sul deficit sarebbe un costo che converrebbe pagare. Ma il nostro Parlamento ha scelto una strada diversa approvando una legge che pur recando il titolo «Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Costituzione», di fatto non impone alcun vincolo, limitandosi a richiedere che il governo rispetti «l'equilibrio del bilancio», un principio vago e pericoloso. Infatti (come ha osservato il senatore Nicola Rossi) fu proprio sull'equivoco fra «equilibrio» e «pareggio» di bilancio che fece leva una sentenza della Corte costituzionale del 1966 che, interpretando l'articolo 81 della Costituzione, aprì la strada all'approvazione di leggi di spesa prive di copertura (un'eventualità che Luigi Einaudi aveva intravisto già nel 1948 quando aveva messo in guardia contro la vaghezza dell'articolo 81). Così come fece Einaudi, Mario Monti dovrebbe chiedere che il Parlamento, nella seconda lettura della legge sul pareggio di bilancio, ne modifichi il testo, rendendolo più specifico. Considerati i tempi delle leggi costituzionali è però improbabile che il governo possa blindare il rigore fiscale seguendo questa strada. Una via alternativa, suggerita dall'esperienza alcuni Paesi (Olanda, Belgio, Svezia, Cile, Gran Bretagna e altri) è l'istituzione di «Commissioni fiscali indipendenti». L'Olanda offre un esempio interessante. Il Cpb (Netherlands Bureau for Economic Analysis) ha due funzioni. Innanzitutto produce le stime sulla crescita che il governo poi usa per preparare la legge di bilancio. Questo evita ciò che spesso accade: governi che per non tagliare la spesa costruiscono il bilancio sulla base di stime di crescita eccessivamente ottimiste. Se poi la crescita è diversa da quanto stimato dallo stesso Cpb, è sempre questo organismo che stabilisce quale è il peggioramento dei conti pubblici giustificabile con la minor crescita. Ma la caratteristica forse più interessante del Cpb è il compito che gli è stato affidato di valutare e rendere noti ai cittadini prima delle elezioni gli effetti sul debito pubblico dei programmi economici dei diversi partiti (i partiti non sono obbligati a farsi valutare ma raramente usano questa possibilità). Istituzioni come il Cpb sono meglio delle regole numeriche e dello stesso vincolo costituzionale del pareggio di bilancio: infatti possono essere flessibili pur non potendo essere manipolabili. L'autorevolezza del Cpb è garantita dalla sua indipendenza, che deriva da uno statuto molto simile a quello della Banca d'Italia: un'istituzione pubblica, il cui direttore è nominato dal governo, come il Governatore, ma che gode della più completa indipendenza. I conti pubblici sono una questione eminentemente politica e una Commissione fiscale non può, né deve entrare, nel merito strettamente «politico». È con tasse e spese che si costruiscono le alleanze, si vendono favori, si premiano certi gruppi di reddito o altri, insomma si fa politica. Ma vi sono anche aspetti tecnici, di contabilità, stime macroeconomiche degli effetti di politiche alternative, dei loro effetti di lungo periodo sulle generazioni future. Su tutti questi aspetti un comitato tecnico indipendente potrebbe esprimere valutazioni che rendano più difficile per un governo in carica seguire politiche insostenibili. Il 12 febbraio 1981, trentuno anni fa, il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrisse al Governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, la lettera che avviò il cosiddetto «divorzio» tra le due istituzioni. Da quel giorno la politica monetaria in Italia cambiò corso. È improbabile che senza quell'atto lungimirante saremmo stati ammessi nell'unione monetaria. È con un atto analogo che oggi Mario Monti potrebbe blindare la sua eredità. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 3 marzo 2012 | 7:22© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_03/riforme-da-blindare-alesina-giavazzi_d6dd8c94-64f6-11e1-8a59-8bc3a463cee3.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. La trappola delle tasse Inserito da: Admin - Marzo 31, 2012, 10:10:06 pm TAGLIARE LE SPESE SI PUO' (E SI DEVE)
La trappola delle tasse L'Europa e l'Italia si trovano fra Scilla (la recessione) e Cariddi (debito e deficit). Sono acque molto difficili ed errori di navigazione possono essere fatali. I mercati li temono e le loro preoccupazioni si riflettono negli spread che si stanno di nuovo allargando. Quelli italiani sono saliti di 50 punti in meno di due settimane. Lo sbaglio da evitare, e che invece in Europa è sempre più frequente, è dare eccessiva importanza alla dimensione dell'aggiustamento dei conti pubblici, trascurandone la qualità. In Paesi come l'Italia, dove la pressione fiscale è vicina al 50% del reddito nazionale (Pil), ostinarsi a ridurre deficit e debito aumentando le imposte è inutile, o addirittura controproducente perché ogni beneficio rischia di essere annullato dall'effetto recessivo di un ulteriore aumento della pressione fiscale. Negli ultimi otto mesi, in quattro successive manovre volte a correggere i nostri conti pubblici, la pressione fiscale è cresciuta di quasi 2 punti: dal 44,7% del Pil nel 2010 al 46,5% fra due anni. Quelle quattro manovre hanno anche ridotto le spese al netto degli interessi: apparentemente di 3 punti, dal 49,5 al 46,5% del Pil. Ma un'analisi più attenta mostra che una parte significativa di questa riduzione di spesa è avvenuta mediante tagli nei trasferimenti dello Stato a Comuni, Province e Regioni. Questi ultimi non hanno compensato i minori trasferimenti riducendo a loro volta la spesa, ma hanno aumentato alcune imposte locali, come le addizionali Irpef che sono entrate in vigore in questi giorni. Rifacendo i conti si scopre che dei circa 5 punti di correzione dei conti pubblici attuati nei mesi scorsi, quattro si otterranno tramite aumenti di imposte e uno soltanto per effetto di minori spese. Il risultato è che fra due anni la pressione fiscale complessiva (cioè sommando imposte pagate allo Stato e ad enti locali) supererà il 50%. Non è una peculiarità italiana: sta accadendo un po' ovunque in Europa. E, tuttavia, studiando le correzioni dei conti pubblici attuate negli ultimi 40 anni nei maggiori Paesi industriali si apprendono tre lezioni. 1) Gli aggiustamenti fiscali che funzionano sono quelli che riducono le spese, aprendo così la strada a riduzioni del carico fiscale; 2) tanto meglio funzionano quanto più sono accompagnati da riforme che stimolino la crescita; 3) la discesa del debito è un processo che richiede tempi molto lunghi. Per essere credibile, servono quindi istituzioni che garantiscano la continuità delle politiche necessarie per ridurre il debito. Le regole europee, anche le modifiche ai trattati decise tre mesi fa, continuano invece a porre l'accento esclusivamente sul pareggio di bilancio, senza dir nulla sulla composizione delle manovre per raggiungerlo, né sull'assetto istituzionale necessario per garantire continuità, ad esempio creando Commissioni fiscali indipendenti, la cui creazione avevamo proposto in un articolo del 3 marzo scorso. Dovendo scegliere tra un aggiustamento più severo, ma attuato solo elevando la pressione fiscale, e uno più moderato, ma attuato riducendo in via strutturale, e quindi permanente, la spesa, va preferito il secondo. Nelle scorse settimane si è parlato di spostare il peso fiscale dalle imposte dirette (sul reddito) a quelle indirette (sui consumi). Le seconde sono meno distorsive delle prime e scoraggiano meno il lavoro, ma sempre imposte sono e riducono il potere d'acquisto dei salari. Facciamo pure una riforma fiscale di questo tipo, ma in un quadro di riduzione non di aumento del carico fiscale complessivo! Riforma del mercato del lavoro ed equilibrio dei conti pubblici hanno un ovvio collegamento: l'impiego pubblico, che è una delle fonti principali di rigidità della spesa. Tant'è vero che le amministrazioni pubbliche, per acquisire un po' di flessibilità, fanno esse pure ricorso a contratti a tempo determinato, contribuendo a creare anche qui un mercato del lavoro «duale». Per molti aspetti, quindi, i problemi del mercato del lavoro del settore pubblico sono simili a quelli del settore privato. Non solo. Soprattutto nel Sud l'impiego pubblico è una forma di sussidio permanente, un modo molto inefficiente per trasferire reddito alle regioni del Mezzogiorno, che non le aiuta a diventare più produttive, anzi ostacola lo sviluppo dell'occupazione nel settore privato. Per giusti motivi di equità questo governo ha eliminato ogni differenza nel trattamento pensionistico tra dipendenti pubblici e privati. Non applicare le medesime regole al mercato del lavoro significa reintrodurre differenze inique nella natura dei contratti. Sono queste le sfide che attendono il governo Monti, un esecutivo nato per avviare riforme che la politica non ha avuto il coraggio di fare. Entrambi dovrebbero ricordarlo, governo e politica, prima che la luna di miele finisca. Alberto Alesina Francesco Giavazzi 31 marzo 2012 | 8:14© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_31/la-trappola-delle-tasse-alberto-alesina-francesco-giavazzi_aea8a71c-7af0-11e1-b4e4-2936cade5253.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Ora date un taglio alle troppe spese Inserito da: Admin - Aprile 11, 2012, 06:59:07 pm BASSA CRESCITA E ALTA TASSAZIONE
Ora date un taglio alle troppe spese Il quarto trimestre del 2011 è stato molto negativo per l'economia italiana: il reddito si è contratto dello 0,7% rispetto al trimestre precedente. In un anno la spesa delle famiglie è scesa di oltre un punto, gli investimenti delle aziende di oltre 3. È assai probabile che il primo trimestre del 2012 sia andato ancor peggio. Lo sapremo fra circa un mese, ma non è il caso di farsi illusioni. E bisogna agire d'anticipo anche perché, dopo qualche mese di calma, il costo del debito ha ricominciato a salire: dal 4,8 di un mese fa al 5,6 di ieri per i Btp decennali. Se la crescita continuasse a essere in rosso è quasi certo che mancheremo l'obiettivo di ridurre il rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo (Pil), dato che il denominatore, il Pil appunto, scenderà. Come è successo con la Spagna, l'Unione Europea ci chiederà di fare qualcosa per riavvicinarci agli obiettivi di bilancio per il 2012 e 2013. A quel punto, come reagirà il governo Monti? La risposta più semplice è anche quella sbagliata: non far nulla. Dal primo ottobre aumenteranno le due aliquote principali dell'Iva, rispettivamente dal 10 al 12 per cento e dal 21 al 23. Gli aumenti avverranno in modo automatico, per effetto di un provvedimento varato a suo tempo dal ministro Tremonti, che questo governo non ha cancellato. Questa soluzione colpirebbe ulteriormente famiglie e imprese che già soffrono, non solo per il peso fiscale, ma anche per l'incertezza sul futuro delle aliquote. Quanto dovremo pagare per l'Imu? Ancora non si sa, e anche questo non aiuta a pianificare consumi e investimenti, sia italiani sia esteri. Un'alternativa sarebbe stata dare un impulso alla crescita, cosa non facile, ce ne rendiamo conto, ma che purtroppo non è accaduta. La riforma del mercato del lavoro, così come concepita originariamente, andava nella direzione giusta. Ma ha perso efficacia prima ancora di approdare in Parlamento (ad esempio, non si applica ai lavoratori pubblici) e probabilmente ne uscirà (se uscirà) ulteriormente annacquata, come è accaduto ai provvedimenti sulle liberalizzazioni. Immaginatevi cosa sceglierà di fare un imprenditore estero che stesse valutando l'apertura di un'azienda in Italia sapendo che potrebbe essere non lui, ma un giudice a decidere in che modo gestire i suoi dipendenti. L'unica carta che rimane da giocare è quella della « spending review », l'analisi, una per una, delle spese delle amministrazioni pubbliche per decidere dove si può tagliare. È un lavoro che il governo Monti ha giustamente iniziato dal primo giorno, ma del quale non si vede ancora il risultato. Non c'è dubbio che la spending review sia un'idea migliore dei tagli lineari tentati dall'ex ministro Tremonti. Tagli uguali per tutti evitano di dover concertare con questo o quel ministro, con questa o quella categoria, con questa o quella lobby. Ma è un modo inefficiente e ottuso di ridurre la spesa, perché non distingue fra uscite inutili e spese necessarie. Il rischio, però, è che la spending review , addentrandosi nei meandri del bilancio, finisca per concludere che ogni spesa è necessaria perché c'è una lobby che la difende, come ad esempio i circa 30 miliardi di euro che ogni anno lo Stato paga a imprese pubbliche e private per i motivi più svariati. Se l'alternativa è non far nulla, meglio allora tagli lineari. Il tempo stringe. L'essenziale è che nelle prossime (poche) settimane il governo spieghi che cosa e come intende ridurre il peso dello Stato sull'economia. Non ci sono scappatoie. Pensare che sia con la spesa pubblica (come suggeriva ieri il Financial Times ) che si riprende a crescere è un errore grave. Il governo deve fare l'esatto contrario. Dare a consumatori e imprenditori un messaggio chiaro: le tasse non aumenteranno perché le spese scendono. Senza queste certezze, consumi e investimenti continueranno a rallentare. E il mondo a guardarci con rinnovata preoccupazione. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 11 aprile 2012 | 8:08© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_11/ora-date-un-taglio-alle-troppe-spese-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_72cc6014-8395-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Buone intenzioni e acqua fresca Inserito da: Admin - Maggio 03, 2012, 07:24:14 pm LA DIFFICILE RIDUZIONE DELLE SPESE
Buone intenzioni e acqua fresca La spending review , e cioè l'analisi e revisione della spesa pubblica, ha partorito un timido topolino, un risultato quasi imbarazzante per il governo. La spesa (escludendo interessi sul debito, pensioni e sussidi ai meno abbienti) ammontava lo scorso anno al 23,5 per cento del reddito nazionale (Pil). Con sussidi e pensioni la spesa sale al 45,6 per cento; con gli interessi raggiunge la metà dell'intero reddito nazionale. Meno che in Francia e Danimarca, ma solo un punto e mezzo meno che in Svezia, dove i servizi offerti dallo Stato alle famiglie sono di qualità un po' diversa dalla nostra. In poche settimane dopo il suo insediamento, il governo Monti ha alzato la pressione fiscale di tre punti, dal 42,5 al 45,4% del Pil (era il 40% sette anni fa). Sulla spesa invece non ha fatto quasi nulla, tranne gli interventi sulle pensioni, certo importanti, ma i cui effetti si verificheranno in modo graduale nei prossimi anni. I tetti agli stipendi più elevati dei dirigenti pubblici, la cancellazione della maggior parte dei voli di Stato, i limiti all'uso delle auto di servizio, la rinuncia al compenso per alcuni membri del governo, hanno un significato etico assai importante, ma nessun effetto macroeconomico. La spending review parte dall'ipotesi che sia «rivedibile» solo la spesa che non riguarda i trasferimenti sociali: ma se non si rimette mano in qualche modo anche al nostro stato sociale, rendendolo più efficace nel contrastare la povertà, anziché disperdersi in sussidi alle classi medie (si pensi all'università) non si fanno passi avanti. Su questa materia sarebbe utile rileggere il rapporto della Commissione Onofri scritto oltre un decennio fa. In realtà è ancor peggio. Secondo la spending review annunciata lunedì dal governo, non solo la spesa previdenziale non è rivedibile, ma in tempi ravvicinati non lo sono neppure i tre quarti di quella non previdenziale: e all'interno di questa non più di 80 miliardi, ossia il 5% del Pil. A fronte di una spesa che raggiunge il 50% del Pil ed è in gran parte evidentemente inefficiente, l'obiettivo è di «rivederne» (si evita accuratamente di usare il verbo «ridurre») non più di un decimo, e questo in un Paese in cui i contribuenti onesti sono soffocati dalla pressione fiscale. E ciò senza indicare nulla di concreto. In quel 5% ad esempio non pare rientri l'abolizione delle Province: si pensa di «concentrare in alcune Province poche funzioni operative di larga scala»: un modo sicuro per finire con non abolirne nessuna. Nemmeno la loro eliminazione produrrebbe effetti macroeconomici forti, ma è deludente che perfino su questa decisione il governo sembri aver fatto un passo indietro («Il riordino delle competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria..., consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi con l'Europa», aveva detto il presidente del Consiglio presentando il suo programma in Parlamento). Il governo sembra non rendersi conto che l'Italia rischia di avvitarsi in una spirale di tasse, recessione, deficit e ancor più tasse. Purtroppo i dati sulla crescita del primo trimestre potrebbero essere una brutta sorpresa per i mercati. Ma soprattutto il governo non sembra aver riflettuto con sufficiente attenzione all'evidenza storica, dalla quale si possono trarre due lezioni: 1) le correzioni dei conti pubblici che funzionano sono quelle che riducono le spese, aprendo così la strada a riduzioni del carico fiscale; 2) tanto meglio funzionano quanto più sono accompagnate da riforme che stimolino la crescita. Invece il presidente del Consiglio ripete che non può escludere un aumento dell'Iva. Non ci siamo proprio. Ps: ad uno di noi (Giavazzi) il presidente del Consiglio ha chiesto di scrivere un rapporto su un aspetto emblematico della spesa: i trasferimenti dello Stato alle imprese. Poiché non abbiamo risparmiato critiche al suo governo, questo dimostra che Mario Monti è una persona pronta ad ascoltare anche chi lo critica, tratto non comune in Italia. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 3 maggio 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_03/giavazzi-buone-intenzioni-acqua-fresca-alesina_42d9e1ca-94dd-11e1-ad93-f55072257a20.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Il salvagente del risparmio Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 10:41:40 am UNA VIGILANZA BANCARIA EUROPEA
Il salvagente del risparmio La riunione di questa sera dei capi di Stato e di governo europei potrebbe segnare la svolta nella lunga crisi dell’euro. Non siamo mai stati tanto vicini al rischio concreto di una disintegrazione dell’unione monetaria. Il meccanismo che oggi potrebbe farla implodere è una «corsa alle banche», cioè la perdita di fiducia da parte dei cittadini, con il conseguente ritiro dei loro depositi. Sta accadendo in Grecia; potrebbe accadere in Spagna. Se il panico si estendesse sarebbe la fine dell’euro. Per evitarlo sono necessarie due cose. Nell’immediato bisogna evitare il rischio di una corsa agli sportelli. Serve una garanzia europea sui depositi bancari che dia ai depositanti la certezza che i loro risparmi (almeno fino a un certo limite, diciamo 100 mila euro) sono al sicuro. Un’assicurazione di questo tipo già esiste, come in Italia dove la copertura è appunto di 100 mila euro. Ma si tratta, finora, di garanzie nazionali, il cui valore dipende dalla condizione dei conti pubblici di ciascun Paese. Se il debito è elevato, la garanzia potrebbe non valere molto ed essere insufficiente ad evitare una corsa agli sportelli. È quindi necessario aggiungere, alle garanzie nazionali, un’assicurazione europea. «Europea» in questo caso significa tedesca, l’unico grande Paese dell’unione che ha mantenuto intatta la fiducia dei risparmiatori e dei mercati. Ma per convincere la Germania a correre questo rischio è necessario che la vigilanza sulle banche divenga essa pure europea. Il fiasco della Spagna, che troppo a lungo ha negato che molte sue banche fossero sostanzialmente fallite, rende il trasferimento della vigilanza alla Bce non più procrastinabile. Ma l’opposizione alla vigilanza europea è forte perché riduce il controllo che i governi oggi esercitano (nel bene e nel male) sul sistema finanziario. Queste gelosie nazionali non sono più accettabili. Evitare una corsa alle banche allontana il rischio di una disgregazione immediata, ma non è certo sufficiente. L’euro non si salva se l’Europa non riprende a crescere. Per farlo, dobbiamo cominciare con l’ammettere che il nostro modello sociale non è più sostenibile. Non si può crescere con livelli di spesa pubblica (e quindi di tassazione) che superano la metà del reddito nazionale. Non possiamo più permetterci (come invece potevamo negli anni Sessanta, quando questo modello fu disegnato) di fornire sevizi gratuiti o quasi a tutti i cittadini, praticamente senza distinzione di reddito. Non possiamo più permetterci di lavorare in pochi per sostenere i tanti che non partecipano alla forza lavoro (ad esempio c’è un divario di oltre 10 punti fra il tasso di partecipazione negli Usa e in Italia). Di fronte a questa realtà di portata epocale, l’idea che per far crescere l’Europa servano più infrastrutture fisiche è sinceramente risibile. La scarsità di strade, treni e aeroporti non è il primo problema dell’Europa. I nostri politici parlano di infrastrutture perché è un modo per non parlare dei veri problemi: il peso dello Stato sull’economia, le difficili riforme del mercato del lavoro e dei servizi. È venuto il momento che i leader europei si chiedano se davvero vogliono salvare l’euro. Se lo vogliono, è giunta l’ora che facciano qualcosa, ma, per favore, non ferrovie e autostrade. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 23 maggio 2012 | 8:00© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_23/editoriale-salvagente-risparmio-alesina-giavazzi_2f80933e-a49c-11e1-80d8-8b8b2210c662.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. La direzione è sbagliata Inserito da: Admin - Giugno 06, 2012, 04:44:25 pm LE FALSE PRIORITÀ DEL PAESE
La direzione è sbagliata Sono giorni cruciali per l’euro e per l’Europa. Mario Monti è al centro delle discussioni in cui sono impegnati i leader europei e questo ruolo contribuisce a ridare prestigio al nostro Paese. Ma la riguadagnata reputazione internazionale non sopravvivrebbe alla percezione che lo sforzo riformatore del suo governo rischi il fallimento. Già molti osservatori sono rimasti perplessi per i passi indietro compiuti sulle liberalizzazioni e sulla riforma del mercato del lavoro. Ora si chiedono in che direzione si muoverà il governo Monti. A noi pare si vada in quella sbagliata. Il provvedimento più importante che il governo si appresta a varare riguarda le infrastrutture fisiche. Lo abbiamo detto più volte, ma è bene ripeterlo: non è questa la priorità dell’Italia. Che beneficio arreca a un’impresa risparmiare mezz’ora fra Civitavecchia e Grosseto se poi deve attendere dieci anni per la risoluzione di una causa civile, due per sapere da un giudice se dovrà reintegrare sul posto di lavoro un dipendente che aveva licenziato, oltre un anno per essere pagata da un’amministrazione pubblica? A un Paese post industriale come l’Italia non servono più infrastrutture fisiche. Servono infrastrutture di altro tipo: una giustizia veloce, certezza del diritto, regolamenti snelli, un’amministrazione pubblica che faccia il suo dovere e non imponga costi enormi a cittadini e imprese, un’università che produca buon capitale umano e buona ricerca, e una lotta efficace alla criminalità organizzata. Certo, più strade non impediscono di riformare la giustizia, l’amministrazione pubblica o il mercato del lavoro. Ma in realtà quando i politici progettano infrastrutture lo fanno perché non sanno che cosa altro fare, bloccati dai mille vincoli che impediscono le vere riforme. Più facile costruire strade e ferrovie aumentando le tasse, che fare quelle riforme a costo zero che però toccano lobby potenti. Purtroppo non è ubriacandoci di asfalto e traverse ferroviarie che il Paese ricomincerà a crescere. Senza contare che con tassi sul debito pubblico al 6 per cento non è certo un buon momento per indebitarsi. Il governo pare si appresti a varare un provvedimento per favorire il merito. Si concederanno benefici fiscali alle imprese che assumono i «primi della classe». Perché mai? Vogliamo premiare gli imprenditori solo perché fanno il loro interesse, assumendo i migliori? Si dice che questo permetta più informazione sul merito dei laureandi: ma basterebbe obbligare tutte le università a pubblicare sui loro siti i voti degli studenti e la valutazione dei professori che hanno dato loro quei voti. Pare poi che il ministro dell’Università, Francesco Profumo, voglia mettere mano con vari ritocchi alla riforma Gelmini. Si rischia, fra l’altro, di smontare gli incentivi introdotti da quella legge, ponendo un limite a quanti fondi pubblici un ateneo può perdere se risulta fra i peggiori: l’opposto di ciò che si dovrebbe fare. Finché le università non pagheranno di persona per le scelte non meritocratiche che effettuano, ma saranno sempre e comunque salvate dal contribuente, non c’è ritocco che quadri il cerchio. Ciò che il governo oggi sta discutendo ci pare, purtroppo, molto più simile alla vecchia politica che alla ventata innovatrice che respirammo per qualche settimana lo scorso novembre. Alberto Alesina Francesco Giavazzi 6 giugno 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_06/false-priorita-del-paese-alberto-alesina-francesco-giavazzi_329c7306-af98-11e1-8359-3661d1b45fc6.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Scomode verità, residue illusioni Inserito da: Admin - Luglio 08, 2012, 10:37:57 pm I COSTI DELLO STATO SOCIALE
Scomode verità, residue illusioni Alla fine degli anni Novanta, dopo lo sforzo fatto per entrare nell'unione monetaria, la spesa delle nostre amministrazioni pubbliche (senza contare gli interessi sul debito) era scesa sotto il 40 per cento del reddito nazionale: 39,8%. Negli anni successivi, fra il 2001 e il 2006 (secondo governo Berlusconi), risalì al 44%, due punti sopra il livello degli anni Ottanta, durante i governi di coalizione fra democristiani e socialisti, quando il nostro debito pubblico cominciò a crescere rapidamente. Lo scorso anno aveva superato il 45%. In passato i tentativi di ridurre la spesa non duravano nel tempo perché attuati con misure una tantum , oppure con tagli «lineari», cioè uguali per tutti, che tagliando nella stessa misura spese inefficienti ed efficienti si rivelavano nel tempo insostenibili. Il merito del governo Monti è di essere entrato nel dettaglio, aver avuto il coraggio di decidere quali spese tagliare, indicandole «con nome e cognome», ad esempio la chiusura di 37 tribunali e 220 sedi distaccate. La proliferazione delle sedi giudiziarie era stata da tempo indicata come una delle ragioni per la lentezza e i costi, soprattutto della giustizia civile, ma finora nessuno aveva avuto il coraggio di opporsi alle lobby che difendono i loro piccoli monopoli locali. Questo è stato possibile anche perché il governo ha informato, ma non ha «concertato», le sue decisioni. La scelta di Mario Monti di affidare queste proposte a Enrico Bondi, un manager lontano dalla politica ed esperto di ristrutturazioni aziendali, si è rivelata vincente. I tagli alla spesa sono un passo che si è fatto attendere un po' a lungo, ma che ora si aggiunge ai risparmi sulle pensioni decisi a Natale. Vanno però dette alcune verità scomode. Primo: non è pensabile che si possa ridurre in modo significativo la spesa solo riducendo gli sprechi. È ovvio, ad esempio, che il governo deve tagliare i costi della politica in modo drastico, come indicano le misure sulle Province, non solo per un senso di equità e di etica, ma perché altrimenti fra poco vi sarà la rivolta dei cittadini. Ma purtroppo non basta. La dimensione dei tagli necessari affinché si possa poi abbassare la pressione fiscale significherà meno servizi ad alcuni cittadini. Negli anni lo Stato sociale italiano si è disperso in mille direzioni. Fornisce servizi senza distinzione di reddito a classi medie e medio alte, il più delle volte non riuscendo a proteggere i veri deboli. Bisogna riformarlo, rendendolo più snello e più efficiente. Si può fare, e nel lontano 1997 la commissione Onofri (primo governo Prodi) aveva spiegato come. Se solo si fosse incominciato allora! Secondo: bisogna resistere alla tentazione di usare i risparmi ottenuti riducendo una spesa per finanziarne un'altra, anche se qualcuno pensa che così si aiuterebbe la crescita. Ad esempio tagliare i tribunali per costruire nuove infrastrutture. Innanzitutto non è detto che così si aiuterebbe la crescita: e comunque l'unica strada per uscire dalla stagnazione in cui ci siamo avvitati è abbassare la pressione fiscale, incominciando dalle tasse che gravano sul lavoro. Evitare aumenti dell'Iva è meritorio ma non basta. La dimensione dei tagli deve essere sufficiente per consentire di abbassare la pressione fiscale (e bene ha fatto Mario Monti a dire che questo è solo un primo passo). Terzo: il governo deve prepararsi a una dura battaglia parlamentare. Non deve ripetersi ciò che è accaduto con il decreto legge sulle liberalizzazioni, quando un ottimo testo del governo è stato snaturato dal Parlamento. La cartina di tornasole sarà la tenuta dell'elenco delle Province e dei tribunali cancellati. Le dichiarazioni di politici e sindacalisti in queste ore mostrano che non sarà un compito facile. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 8 luglio 2012 | 9:19© RIPRODUZIONE RISERVATA da - Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Serve un’unione politica irreversibile Inserito da: Admin - Luglio 23, 2012, 04:34:14 pm CINQUE ANNI DI FOLLIE FINANZIARIE
A che punto è la notte Il fondo salva-Stati non risolverà i problemi Serve un’unione politica irreversibile Era il luglio di cinque anni fa quando si avvertirono i primi scricchiolii in alcune banche americane, francesi e tedesche. Da allora abbiamo vissuto la più forte recessione dagli anni Trenta, la crescita è rallentata, e trovare un lavoro è diventato difficile dovunque. Questa crisi ci ha insegnato alcune verità. Primo: le crisi finanziarie, soprattutto quelle scatenate da aumenti ingiustificati nei prezzi delle abitazioni producono, quando la bolla poi scoppia, recessioni molto lunghe. Le banche, dopo aver concesso mutui con grande leggerezza, senza chiedersi se il cliente debitore sarebbe stato in grado di sostenere le rate, subiscono perdite ingenti e devono ricapitalizzarsi. Ma a quel punto trovare capitali privati non è facile, e se interviene lo Stato, il debito pubblico esplode, come è accaduto in Stati Uniti, Irlanda e Spagna. Così il credito non riprende e l’economia ristagna a lungo. Lo abbiamo imparato dal libro di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria (Il Saggiatore, 2010) lettura consigliata per l’estate. Il titolo è volutamente ironico: questa volta «non» è diverso, la storia è piena di crisi finanziarie seguite da lunghe recessioni. Il Giappone è solo l’esempio più recente: non si è mai davvero ripreso dagli effetti della bolla immobiliare scoppiata nel 1989, e il debito pubblico ha raggiunto il 200 per cento del reddito nazionale. I due grafici visibiliqui illustrano in modo chiaro la durata di queste crisi e il ciclo del credito prima e dopo la crisi. Secondo: occorre abbandonare l’illusione che per riprendere a crescere basti un po’ di spesa pubblica. Per vent’anni il Giappone le ha provate tutte: porti, metropolitane, alta velocità: il debito pubblico si è triplicato, ma la crescita non è mai arrivata. E anche il programma fiscale di Obama, se forse ha attenuato la recessione americana, certo non è riuscito a ridurre la disoccupazione e a far ripartire velocemente l’economia. E nel frattempo anche gli Stati Uniti hanno accumulato livelli di debito molto onerosi. Sono ancora Reinhart e Rogoff a mostrare che quando il debito pubblico sale oltre certi livelli diventa un macigno che rallenta a lungo la crescita. Terzo: per risanare il sistema finanziario bisogna separare le banche dalla politica. In entrambe le direzioni: riducendo il potere dei politici sul sistema finanziario e l’influenza dei banchieri sui governi. Non è un caso che la prima banca che cinque anni fa entrò in difficoltà, fosse una cassa di risparmio pubblica tedesca: la IKB Deutsche Industriebank di Düsseldorf. Fallì perché concedeva prestiti a condizioni non di mercato alle imprese amiche dei politici suoi azionisti e per far tornare i conti acquistava mutui immobiliari, apparentemente molto redditizi, in Florida e Nevada, i due Stati in cui la bolla immobiliare americana fu più acuta. Una vicenda analoga a quella delle Caixas spagnole: se il governo di Madrid non le avesse protette fino all’ultimo, negando che fossero tutte fallite, forse oggi la Spagna sarebbe in una situazione meno drammatica. Oggi le banche pubbliche tedesche si oppongono con forza al trasferimento dei poteri di vigilanza alla Banca centrale europea: temono occhi indipendenti con cui sarebbe difficile venire a patti. Se l’avessero vinta, l’unione bancaria non vedrebbe la luce e l’euro avrebbe i giorni contati. Ma l’indipendenza deve essere anche nel senso contrario. Nella vicenda del Libor, il tasso interbancario londinese, i rapporti fra la Banca d’Inghilterra e i dirigenti di Barclays sono parsi a volte eccessivamente confidenziali. Esercitare moral suasion è il mestiere più difficile di un banchiere centrale, un’arte che richiede discrezione, ma che non deve mai lasciar dubbi sull’indipendenza dell’autorità preposta a vigilare sulle banche. Negli Stati Uniti le riforme proposte dall’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, che vietano alle banche commerciali di intraprendere attività speculative, rimangono in gran parte inapplicate, per l’influenza che Wall Street continua a esercitare su Washington. La riforma Dodd-Frank è un complicatissimo pasticcio entro i cui meandri certe pratiche oscure potrebbero continuare. Quarto: la crisi ha dimostrato la fragilità del progetto europeo. Finché tutto andava bene le fondamenta tenevano. Da quando è scoppiata la crisi, la costruzione traballa pericolosamente. Ma invece di trovare una soluzione, i politici europei non fanno che accusarsi tra loro ritardando gli interventi necessari. È ormai chiaro che l’euro non si salverà con scorciatoie e tappabuchi come gli eurobonds o i fondi salva-Stato. Affidare il salvataggio dell’euro alla speranza che le «formiche del Nord» salvino «le cicale del Sud» socializzando i loro debiti è ingiusto, politicamente impossibile, ma soprattutto non servirebbe a nulla. Un salvataggio senza una maggiore integrazione politico- economica dell’eurozona avrebbe solo l’effetto di dare alle cicale la possibilità di rimandare riforme già troppo a lungo procrastinate. Dopo di che le tensioni tra Sud e Nord riesploderebbero con più forza. L’euro si salva (se si vuol farlo) con un piano coerente di medio termine di integrazione bancaria, fiscale e politica dell’eurozona. Ciò non significa gli Stati Uniti d’Europa, ma un’architettura coerente che permetta all’unione monetaria di funzionare. Una prima decisione, dopo aver affidato la vigilanza bancaria alla Bce, potrebbe essere un primo passo nel trasferimento della sovranità sui propri conti pubblici. Ad esempio si potrebbe decidere (seguendo una proposta che è stata avanzata in Germania) che se un Paese non rispetta gli obiettivi sui conti pubblici, la nuova legge finanziaria che si renderà necessaria (incluse le riforme indispensabili per renderla credibile) non sarà scritta dal governo di quel Paese, ma dalla Commissione di Bruxelles, e non sarà votata dal suo Parlamento, ma dal Parlamento europeo (una proposta che dovrebbe però essere accompagnata da un rafforzamento della credibilità dell’istituzione di Strasburgo). A fronte di una simile decisione la Germania e gli altri Paesi del Nord potrebbero decidere che si è fatto un passo sufficientemente irreversibile verso l’unione politica da giustificare interventi atti a garantire che il sistema non esploda prima di raggiungere il traguardo finale. Per esempio concedere una licenza bancaria allo European stability mechanism (Esm), cioè consentire che la nuova istituzione europea abbia accesso alla liquidità della Bce, condizione necessaria affinché la quantità di eventuali acquisti di titoli pubblici sia sufficiente a renderli credibili. Oppure creare, sempre attraverso l’Esm, una garanzia europea sui depositi bancari (analogamente a quanto avvenne negli Stati Uniti durante la Grande depressione) cioè l’impegno, qualunque cosa accada, a rimborsarli in euro. È ciò che Angela Merkel ripete da tempo: siamo pronti a correre dei rischi, ma solo a fronte di progressi concreti nel trasferimento di sovranità. Quinto: i compiti a casa dobbiamo continuare a farli, non solo quando lo spread sale. Accusare i tedeschi per le mancanze della nostra storia recente è puerile. Gli italiani non si sono ancora ben resi conto di quanto complessi debbano essere questi compiti. Ci si illude se si pensa che basti «ridurre gli sprechi». Serve ben altro: occorre ripensare a quello che il nostro Stato può e non può fare. Bisogna evitare che di servizi pubblici di fatto gratuiti beneficino anche i ricchi, e non solo le famiglie indigenti. Occorre ridurre le tasse che gravano su chi lavora e produce. È molto difficile crescere con un debito pubblico che supera il 100% del Pil e un peso fiscale che per i contribuenti onesti è tra i più alti al mondo. Serve una «rivoluzione » del nostro Stato sociale, non solo ritocchi. La Germania ha iniziato a farlo dieci anni fa, e ora ne trae i benefici. Sesto: la giustizia sociale va garantita creando il più possibile pari opportunità per tutti. Una delle ragioni dell’incremento della disuguaglianza che ha preceduto la crisi è stata la crescita del premio retributivo per chi ha accumulato capitale umano, cioè ha studiato. L’investimento in formazione ha reso di più e favorito chi poteva permetterselo. Non demonizzare la ricchezza quindi, ma offrire a tutti la possibilità di acquisire gli strumenti necessari. Premiare il merito, punire le rendite di posizione, scardinare i privilegi, rendere il mercato più equo, colpire l’evasione. Seconda lettura per l’estate: Luigi Zingales, A capitalism for the people, New York, Basic Books 2012. Il tempo sta per scadere. Come scrisse Rudi Dornbusch, uno degli economisti più lucidi del Novecento: «Le crisi spesso durano molto più a lungo di quanto si pensi. Ma poi svoltano e si avvitano in un baleno. Ci vogliono dei mesi, ma poi basta una notte». Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 22 luglio 2012 | 9:23© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_22/a%20che-punto-e-la-notte-alesina-giavazzi_1e25e5ea-d3c6-11e1-83bd-0877fdcd1621.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Il paracadute di Francoforte Inserito da: Admin - Agosto 01, 2012, 07:49:13 pm FARCELA DA SOLI SI PUÒ
Il paracadute di Francoforte La crescita sta di nuovo rallentando un po' dovunque. Negli Stati Uniti dal 3,8% del 2010, al 2,3 del 2011, all'1,5 nel secondo trimestre di quest'anno. Anche Cina e Brasile frenano, seppur continuino a crescere a tassi elevati. I dati europei saranno pubblicati la prossima settimana: nonostante le grandi differenze fra il Nord e il Sud dell'Europa, temiamo saranno deludenti. Le ultime previsioni per l'Italia indicano che quest'anno perderemo oltre due punti di reddito. Compito delle banche centrali è attenuare queste fluttuazioni. Lo possono fare riducendo i tassi di interesse ai quali prestano denaro alle banche. Quando i tassi, come accade oggi, sono vicini a zero, possono cercare altri modi per far affluire credito alle imprese: ad esempio finanziandole direttamente senza l'intermediazione del sistema bancario, oppure facendo pagare un costo alle banche se esse decidono di depositare la loro liquidità presso la banca centrale anziché usarla per dare credito a famiglie e imprese. La Federal Reserve annuncerà qualcosa di simile oggi e probabilmente l'istituzione di Francoforte la seguirà. Ma il compito delle banche centrali si ferma qui. Sarebbe un errore se esse si sostituissero ai governi acquistando titoli pubblici per motivi di bilancio. Politica di bilancio e politica monetaria devono restare separate. I nostri spread sono tanto elevati perché gli investitori internazionali che acquistano titoli pubblici italiani sono preoccupati. Pensano che il nostro modello sociale non sia più sostenibile perché richiede una pressione fiscale che è diventata incompatibile con la crescita. Se questo è il dubbio, qualche acquisto da parte della Bce non basta a risolverlo. Una via d'uscita vi sarebbe: riacquistarci tutto il debito. In teoria l'Italia potrebbe farlo perché ha ricchezza privata in abbondanza, la Spagna no. In parte sta già accadendo: in pochi mesi la quota di debito italiano detenuta da investitori internazionali è scesa dal 60 a meno del 37%. Potremmo addirittura obbligare famiglie e banche a vendere titoli esteri e acquistare Btp a tassi regolamentati, come accadeva negli anni Settanta. A quel punto diventeremmo come il Giappone: un Paese con un debito quasi il doppio del nostro, tutto detenuto all'interno e a tassi molto bassi. Ma anche un Paese che da vent'anni ha smesso di crescere. Non certo un esempio da seguire. Il presidente della Bce non ha certo scordato la lezione dell'agosto scorso, quando l'Istituto iniziò ad acquistare Btp: lo spread crollò e i buoni propositi che Berlusconi aveva annunciato l'8 agosto, dopo la lettera di Draghi e Trichet, svanirono al sole. Purtroppo accadde qualcosa di simile anche la scorsa primavera, quando la Bce inondò le banche di liquidità e queste la usarono per acquistare titoli pubblici. Come raccontava in modo efficace Sergio Rizzo domenica su queste colonne, spread e riforme sono come la fatica di Sisifo: non appena lo spread flette, le riforme rallentano. È probabile che ormai l'unico modo per salvare l'euro sia consentire alla Bce di acquistare. Ma la lezione dell'agosto scorso è che questi acquisti non potranno essere senza condizioni, o basati su semplici dichiarazioni di intenti. Per ottenere l'aiuto della Bce si rischia di dover accettare, e sarebbe una sconfitta, una limitazione della propria autonomia di bilancio. L'alternativa è riuscirci da soli: non è impossibile. Possiamo ancora farcela. Ma richiede una determinazione che, anche in questi ultimi mesi di legislatura, il Parlamento e le forze politiche devono dimostrare di possedere. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 1 agosto 2012 | 8:02© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_01/editoriale-crisi-economica-francoforte_f93d7ccc-db98-11e1-83b0-3101995e52cb.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. I compromessi che non servono Inserito da: Admin - Agosto 12, 2012, 04:23:49 pm RIDUZIONE DEL DEBITO E CRESCITA
I compromessi che non servono di ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI Aver cominciato a discutere di come ridurre il debito pubblico è un passo avanti importante. Se questo tema divenisse il fulcro della campagna elettorale, finalmente ci staremmo chiedendo chi meglio difenderà gli interessi dei nostri figli. Ma le discussioni su come ridurre il debito sono anche piene di tranelli insidiosi. Innanzitutto ciò che conta non è il debito in sé, ma il rapporto fra il debito e il reddito nazionale (il Pil). Se l'economia non ricomincia a crescere quel rapporto non scenderà mai abbastanza. Diffidate quindi di chi propone fantasiose ricette finanziarie per ridurre il debito sostenendo che tutto il resto è secondario. E fra costoro diffidate di chi invoca imposte patrimoniali: i contribuenti onesti di imposte ne pagano già troppe. Se non si ricomincia a crescere, una patrimoniale ridurrebbe il rapporto debito-Pil per qualche anno, ma poi saremmo al punto di prima, con le stesse persone a invocare una nuova patrimoniale. Le privatizzazioni attuate nella seconda parte degli anni Novanta ridussero il rapporto debito-Pil di circa dieci punti, ma poi la crescita si fermò e quel beneficio in pochi anni svanì (anche perché all'inizio del decennio scorso la spesa pubblica aumentò di oltre 15 miliardi in euro di oggi). Chi poi parla di consolidare il debito (un eufemismo per ripudiarlo) è un irresponsabile che altro non fa che aumentare il costo del debito stesso e quindi le imposte. Per ridurre il rapporto debito-Pil deve quindi ripartire il denominatore, cioè la crescita. Ma questo non accadrà finché non si riduce la spesa pubblica, altrimenti la pressione fiscale rimarrà elevatissima. Meno spesa e più crescita. Diversamente da quanto vorrebbero farci credere alcuni economisti che interpretano Keynes in modo schematico, si può crescere pur tagliando le spese. Non bisogna dimenticare che ai tempi di Keynes lo Stato spendeva e tassava meno del 20% del Pil: oggi quasi il 50%. In nove mesi il governo Monti ha fatto per la crescita più di quanto aveva fatto il precedente in nove anni. Ma ha appena incominciato, c'è ancora molto da fare per creare un mercato del lavoro che superi la segmentazione fra giovani precari e anziani protetti, per smantellare le rendite che ingessano i mercati dei beni e soprattutto dei servizi e per ridurre la spesa così da poter poi ridurre le tasse, soprattutto quelle che gravano su chi lavora. Diffidate di chi usa le discussioni su come ridurre il debito per dribblare l'esigenza di tagliare la spesa. Non si scappa: per ridurre stabilmente il debito (con una pressione fiscale che non ammazzi la crescita) dovremmo prima ridurre le spese. Di quanto? Consideriamo ad esempio la Germania. Questo Paese, pur spendendo 2 punti di Pil (circa 30 miliardi) meno di noi, ha uno Stato sociale che funziona molto meglio del nostro. Se poi volessimo anche avere la medesima pressione fiscale e il medesimo deficit pubblico della Germania, sarebbe necessario tagliare altri 25 miliardi, quindi un totale di 55 miliardi (per questi confronti, che sono relativi al 2010, si legga Aldo Lanfranconi su noisefromamerika.org ). Ciò non significa che mentre si fa tutto questo (ma non invece di fare tutto questo) lo Stato non debba cominciare a ridurre il debito vendendo. Ma vendere davvero, non offrire agli investitori quote di improbabili polpettoni (qualche azione dell'Eni, un po' di Enel, qualche caserma, qualche azione di Finmeccanica) il tutto costruito in modo che la politica non perda il controllo di queste aziende. Vendere simili quote a investitori veri sarebbe praticamente impossibile; a meno che non si voglia obbligare banche, assicurazioni e risparmiatori italiani a comprarle, che sarebbe una forma nascosta (ma non poi tanto) di imposta patrimoniale. Vendere vuol dire, ad esempio, collocare in Borsa tutta Terna (l'azienda che possiede la rete di trasmissione elettrica), tutta Snam Rete Gas, le Poste. L'argomento che sono aziende strategiche è risibile: davvero temiamo che qualcuno smonti i pali dell'alta tensione, i tubi del gas o gli sportelli postali, e li porti in Cina? Insomma, siamo ad un bivio. I compromessi gradualisti non bastano più. Per farcela da soli ci vuole un po' di coraggio. Ma i partiti tradizionali sono disposti a farlo? Alberto Alesina Francesco Giavazzi 12 agosto 2012 | 9:12© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_12/i-compromessi-che-non-servono-alberto-alesina-francesco-giavazzi_78595748-e444-11e1-aec0-5580338e796b.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. C'era una volta lo Stato sociale Inserito da: Admin - Settembre 23, 2012, 04:59:05 pm LA DEMOGRAFIA E LA CRESCITA
C'era una volta lo Stato sociale In quarant'anni, dall'inizio degli anni Settanta ad oggi, l'aspettativa di vita alla nascita si è fortunatamente allungata, in Italia, di dieci anni: da 69 a 79 per gli uomini, da 75 a 85 per le donne. L'allungamento della vita si è anche riflesso in un aumento dell'aspettativa di vita a 65-67 anni, cioè al limite dell'età pensionabile: nel 1970 un sessantacinquenne maschio viveva in media altri 13 anni, oggi la media è diciotto; per le donne è salita da 16 a 22 anni. Ci sono voluti decenni prima che ci accorgessimo che occorreva adeguare l'età di pensionamento all'allungarsi della vita media: nel frattempo la spesa per pensioni è cresciuta dall'8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nel 1970 a quasi il 17 per cento oggi. L'allungamento della vita ha anche prodotto un aumento delle spese per la salute. Un anziano oltre i 75 anni costa al sistema sanitario ordini di grandezza superiori rispetto a persone di mezza età. Risultato, la nostra spesa sanitaria oggi sfiora il 10 per cento del Pil. Insieme, sanità e pensioni costano il 27 per cento, 10 punti più di quanto costavano quando il nostro Stato sociale italiano fu concepito. A questo aumento straordinario non abbiamo fatto fronte riducendo altre spese (ad esempio quella per dipendenti pubblici, che era il 10 per cento del Pil 30 anni fa ed è rimasta il 10 oggi), bensì solo con un aumento della pressione fiscale: dal 33 per cento quarant'anni fa al 48 oggi. È questo uno dei motivi per cui abbiamo smesso di crescere. Avevamo uno Stato calibrato per una popolazione relativamente giovane; poi la vita si è allungata, le spese sono salite, ma lo Stato è rimasto sostanzialmente lo stesso, richiedendo una pressione fiscale di 15 punti più elevata. Il problema dell'invecchiamento della popolazione non è solo italiano. Anche negli Stati Uniti, ad esempio, il Medicare (l'assistenza sanitaria gratuita per tutti gli anziani, che sta facendo esplodere il deficit americano) è uno dei temi al centro della campagna elettorale. Ma in Italia, con una popolazione che invecchia a tassi più elevati rispetto ad ogni altro Paese occidentale (il tasso di fertilità è inferiore al nostro solo in alcuni Stati del Centro-Est Europa) il tema è di particolare attualità. In più la partecipazione alla forza lavoro in Italia è relativamente bassa in tutte le categorie tranne gli uomini adulti. Donne, giovani e anziani lavorano meno in Italia che in altri Paesi occidentali, quindi relativamente pochi «lavoratori» devono farsi carico di tutti quelli che non lavorano. Le riforme delle pensioni, ultima quella Fornero (in particolare l'indicizzazione dell'età pensionistica alla vita media), hanno fermato la crescita della spesa. In questi mesi la spending review del governo Monti si è occupata di come risparmiare qualche miliardo di euro, ma purtroppo tutto ciò non basta. Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Aliquote alte scoraggiano il lavoro e l'investimento. Invece, se anziché essere tassato con un'aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate. Lo stesso vale per altri servizi offerti dallo Stato. Uno studente universitario costa circa 4.500 euro l'anno. Le famiglie ne pagano solo una parte; il resto lo paga il contribuente. Perché non dare borse di studio ai meritevoli meno abbienti e far pagare chi se lo può permettere il vero costo degli studi? Così facendo si aumenterebbe anche la domanda di qualità da parte degli studenti e delle loro famiglie. E si sarebbe meno disposti ad accettare professori che non fanno il loro dovere. Un passo nella direzione giusta è stato fatto alzando le tasse universitarie dei fuori corso, ma anche qui non basta. Insomma, il nostro Stato sociale si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione. Non solo, ma gli evasori ne traggono vantaggio; infatti beneficiano dei servizi pubblici gratuiti o quasi senza pagare le imposte. Così come la campagna elettorale americana si sta focalizzando proprio sul ruolo dello Stato, così anche i nostri politici dovrebbero spiegarci che cosa pensano del futuro del nostro welfare . Per esempio se ritengono che quello che ci ritroviamo sia compatibile con la crescita. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 23 settembre 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_23/stato-sociale-alesina-giavazzi_0834cb6e-054b-11e2-b23b-e7550ace117d.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. C'era una volta lo Stato sociale Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 02:57:37 pm LA DEMOGRAFIA E LA CRESCITA
C'era una volta lo Stato sociale In quarant'anni, dall'inizio degli anni Settanta ad oggi, l'aspettativa di vita alla nascita si è fortunatamente allungata, in Italia, di dieci anni: da 69 a 79 per gli uomini, da 75 a 85 per le donne. L'allungamento della vita si è anche riflesso in un aumento dell'aspettativa di vita a 65-67 anni, cioè al limite dell'età pensionabile: nel 1970 un sessantacinquenne maschio viveva in media altri 13 anni, oggi la media è diciotto; per le donne è salita da 16 a 22 anni. Ci sono voluti decenni prima che ci accorgessimo che occorreva adeguare l'età di pensionamento all'allungarsi della vita media: nel frattempo la spesa per pensioni è cresciuta dall'8 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nel 1970 a quasi il 17 per cento oggi. L'allungamento della vita ha anche prodotto un aumento delle spese per la salute. Un anziano oltre i 75 anni costa al sistema sanitario ordini di grandezza superiori rispetto a persone di mezza età. Risultato, la nostra spesa sanitaria oggi sfiora il 10 per cento del Pil. Insieme, sanità e pensioni costano il 27 per cento, 10 punti più di quanto costavano quando il nostro Stato sociale italiano fu concepito. A questo aumento straordinario non abbiamo fatto fronte riducendo altre spese (ad esempio quella per dipendenti pubblici, che era il 10 per cento del Pil 30 anni fa ed è rimasta il 10 oggi), bensì solo con un aumento della pressione fiscale: dal 33 per cento quarant'anni fa al 48 oggi. È questo uno dei motivi per cui abbiamo smesso di crescere. Avevamo uno Stato calibrato per una popolazione relativamente giovane; poi la vita si è allungata, le spese sono salite, ma lo Stato è rimasto sostanzialmente lo stesso, richiedendo una pressione fiscale di 15 punti più elevata. Il problema dell'invecchiamento della popolazione non è solo italiano. Anche negli Stati Uniti, ad esempio, il Medicare (l'assistenza sanitaria gratuita per tutti gli anziani, che sta facendo esplodere il deficit americano) è uno dei temi al centro della campagna elettorale. Ma in Italia, con una popolazione che invecchia a tassi più elevati rispetto ad ogni altro Paese occidentale (il tasso di fertilità è inferiore al nostro solo in alcuni Stati del Centro-Est Europa) il tema è di particolare attualità. In più la partecipazione alla forza lavoro in Italia è relativamente bassa in tutte le categorie tranne gli uomini adulti. Donne, giovani e anziani lavorano meno in Italia che in altri Paesi occidentali, quindi relativamente pochi «lavoratori» devono farsi carico di tutti quelli che non lavorano. Le riforme delle pensioni, ultima quella Fornero (in particolare l'indicizzazione dell'età pensionistica alla vita media), hanno fermato la crescita della spesa. In questi mesi la spending review del governo Monti si è occupata di come risparmiare qualche miliardo di euro, ma purtroppo tutto ciò non basta. Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Aliquote alte scoraggiano il lavoro e l'investimento. Invece, se anziché essere tassato con un'aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate. Lo stesso vale per altri servizi offerti dallo Stato. Uno studente universitario costa circa 4.500 euro l'anno. Le famiglie ne pagano solo una parte; il resto lo paga il contribuente. Perché non dare borse di studio ai meritevoli meno abbienti e far pagare chi se lo può permettere il vero costo degli studi? Così facendo si aumenterebbe anche la domanda di qualità da parte degli studenti e delle loro famiglie. E si sarebbe meno disposti ad accettare professori che non fanno il loro dovere. Un passo nella direzione giusta è stato fatto alzando le tasse universitarie dei fuori corso, ma anche qui non basta. Insomma, il nostro Stato sociale si è trasformato in una macchina che tassa le classi medio-alte e fornisce servizi non solo ai meno abbienti (com'è giusto che sia) ma anche alle stesse classi a reddito medio-alto. Questo giro di conto, con aliquote alte, scoraggia il lavoro e la produzione. Non solo, ma gli evasori ne traggono vantaggio; infatti beneficiano dei servizi pubblici gratuiti o quasi senza pagare le imposte. Così come la campagna elettorale americana si sta focalizzando proprio sul ruolo dello Stato, così anche i nostri politici dovrebbero spiegarci che cosa pensano del futuro del nostro welfare . Per esempio se ritengono che quello che ci ritroviamo sia compatibile con la crescita. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 23 settembre 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_23/stato-sociale-alesina-giavazzi_0834cb6e-054b-11e2-b23b-e7550ace117d.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Le mele marce gli occhi chiusi Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:25:26 am FURBI, SPRECHI E VERIFICHE SCARSE
Le mele marce gli occhi chiusi Per favore, piantiamola con le mele marce. Cominciò Craxi con Mario Chiesa e da venti anni è sempre così. Piergianni Prosperini? Una mela marcia. Luigi Lusi? Una mela marcia. Francesco Belsito? Una mela marcia. Franco Fiorito? Una mela marcia. E potremmo andare avanti all'infinito e solo a metterli tutti in fila, questi frutti avariati, danno la nausea. Non sarà colpa anche della cesta? Questo è il tema. Il ripetersi di casi di malcostume se non di malavita non può più essere liquidato come episodico. Sono troppi, come ha detto ieri anche un furente Napolitano, i casi di bullismo politico e affaristico. Vuol dire che è il contenitore di regole e controlli che non funziona e a volte è perfino criminogeno. Va cambiato. Subito. Prima che un'ondata di disprezzo travolga tutti insieme, Dio non voglia, i figuri da operetta, gli uomini indegni e le persone perbene che non meritano di essere messe nel mucchio. Non riguarda solo Fiorito, non solo il centrodestra, non solo il Lazio. Il Gazzettino scrive che da aprile, mentre scoppiava lo scandalo dei diamanti leghisti, una delibera di presidenza del consiglio regionale veneto toglieva soldi dal «Fondo di riserva per le spese impreviste» (sic...) e li dirottava ai «gruppi» che da allora li girano in una specie di fuoribusta mensile di 2.150 euro come «rimborso forfettario» a ciascun consigliere che in cambio non deve presentare una ricevuta, uno scontrino, una bolletta. Ora, noi vogliamo credere che tutti ma proprio tutti quei deputati regionali spendano la somma nel modo più scrupoloso: ma se uno poi ci comprerà un diadema per la morosa saremo condannati a sentire ancora la solfa della mela marcia? Lo spiegava già il presidente americano James Madison un paio di secoli fa: «Se le persone fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario». Un Paese si regge e prospera solo in una cornice di buone leggi fatte rispettare. Aiutando tutti a essere virtuosi. Evviva la fiducia, ma in un Paese di eccessi come il nostro, dove anni fa un barista fu multato per aver dato senza scontrino un bicchier d'acqua a un barbone, che le regioni distribuiscano decine di milioni di euro l'anno ai propri gruppi consiliari o direttamente ai consiglieri senza chieder loro una cedola è inaccettabile. «Comincino a tagliare gli altri», dicono punti sul vivo alcuni deputati veneti. E l'identica risposta potreste averla in Molise e in Val d'Aosta, in Friuli e in Sicilia. Dove da mesi funziona come a Venezia: 2.089 euro al mese sono dati a ogni deputato dell'Ars cui viene chiesto solo di dichiarare genericamente di averli spesi bene. Non è questa, l'autonomia che avevano in mente i padri costituenti. Un conto è dare alle Regioni la possibilità di amministrare il territorio con un'attenzione, una cura, un amore impossibili in uno Stato centralista, un altro è dare a vassalli e valvassori la facoltà di decidere in totale autarchia come spartirsi fette importanti del pubblico denaro. Per questo, a partire da qui, il governo dovrebbe sfidare il permaloso rifiuto di ogni repubblichina di rispondere allo Stato. Non va bene che ognuno fissi la propria indennità, i propri contributi ai partiti, le proprie diarie... Si fissino delle regole e valgano per tutti. E se poi si levassero lamenti sulle sovranità violate, appenderemo il cartello che c'è nei bar: per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella 26 settembre 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_26/mele-marce-sprechi-stella-rizzo_c0dea564-0798-11e2-9bec-802f4a925381.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. L'indigestione delle imposte Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:18:36 pm EFFETTI INDESIDERATI DELLA TASSAZIONE
L'indigestione delle imposte Le manovre varate negli ultimi 12 mesi, prima dal governo Berlusconi e poi dal governo Monti, si possono così riassumere (prendiamo questi numeri dall'Audizione parlamentare del vicedirettore generale della Banca d'Italia, Salvatore Rossi): nell'arco di due anni, 2012 e 2013, le entrate delle amministrazioni pubbliche dovrebbero crescere di 82 miliardi, le spese scendere di 43. Di questi tagli, tuttavia, circa 23 miliardi sono minori trasferimenti a Comuni, Province e Regioni. Se questi enti, come sta accadendo, compenseranno la riduzione dei fondi che ricevono dallo Stato aumentando le tasse locali, il risultato complessivo di queste manovre sarà 105 miliardi di maggiori tasse e 20 di minori spese. L'esperienza delle correzioni dei conti pubblici attuate negli ultimi 30 anni nei Paesi industriali ci insegna che questa composizione è recessiva. L'aumento della pressione fiscale sposterà ancor più in là la ripresa dell'economia e limiterà il miglioramento dei conti pubblici. Invece le manovre che hanno avuto minori effetti recessivi, e che quindi hanno ridotto più rapidamente il debito, sono state quelle con una composizione opposta rispetto alla nostra: tagli di spesa e minori aggravi fiscali. Se ci limitiamo al caso italiano, l'esperienza degli ultimi 30 anni insegna che le manovre per lo più costruite su tagli di spesa (le poche che sono state fatte) hanno inciso sull'economia in misura trascurabile. Invece quelle attuate per lo più aumentando le imposte hanno avuto un «moltiplicatore» pari a circa 1,5: cioè per ogni punto di Pil (Prodotto interno lordo) di correzione dei conti l'economia si è contratta, nel giro di un paio d'anni, di un punto e mezzo. Ci rendiamo conto che sotto la pressione dello spread il governo Monti doveva agire in fretta e che (purtroppo) è sempre più facile e rapido alzare le tasse. Ed è anche vero che le nuove imposte introdotte lo scorso inverno (l'Imu sulle case, la tassazione delle rendite finanziarie, gli aggravi fiscali che hanno colpito società finanziarie ed energetiche) sono fra le meno dannose per l'economia. E che circa 7 di quei 105 miliardi verranno da un'azione più risoluta contro gli evasori, che per la prima volta sembra funzionare. Ma alla fase uno doveva seguire una fase due: tagli di spesa in misura sufficiente a consentire una riduzione delle aliquote. E invece, a un anno di distanza, non si è neppure riusciti ad evitare un aumento dell'Iva che annullerà, soprattutto per le famiglie con reddito più basso, i benefici del timido taglio delle aliquote Irpef (vedi i calcoli riportati in www.paolomanasse.blogspot.it ). Stato e amministrazioni locali spendono ogni anno (dati del 2010 e senza contare gli interessi sul debito) circa 720 miliardi. Togliamo i 310 miliardi che vanno in pensioni e spesa sociale: ne restano 410. Una riduzione del 20 per cento di queste spese, senza alcun taglio alla spesa sociale, consentirebbe di risparmiare 80 miliardi e di ridurre la pressione fiscale di 10 punti. Non si tratta di reperire qualche milione di euro qua e là (sebbene un taglio alle spese delle Regioni, dalle ostriche ai palazzi faraonici, aiuterebbe e non poco), ma di ripensare senza pregiudizi a come lo Stato spende il denaro dei contribuenti. Si è detto tante volte che il nostro Stato sociale, invece di proteggere i più deboli, disperde risorse sulle classi medie e medio-alte. Un modello diverso offrirebbe a queste classi aliquote più basse, ma eliminerebbe anche i sussidi di cui esse ora godono - dai trasporti, all'università, alla sanità - lasciando al mercato la produzione di alcuni servizi. Perché, ad esempio, la raccolta dei rifiuti o la distribuzione del gas devono essere gestiti da aziende di proprietà del sindaco? Insomma, userebbe la progressività del sistema fiscale per ridistribuire i redditi, detassando i meno abbienti anche con tasse negative (cioè sussidi) ma lasciando al mercato la produzione di beni e servizi a prezzi che coprano i costi. In questo modo si favorirebbe la concorrenza e quindi la qualità. Lo Stato eroga ogni anno circa 30 miliardi di sussidi diretti alle imprese e altri 30 nella forma di detrazioni fiscali. Le Ferrovie ad esempio ricevono (senza contare i fondi spesi per l'alta velocità) oltre 4 miliardi l'anno. Una parte di questo denaro è un sussidio alle classi a reddito medio-alto: ad esempio gli sconti agli anziani (per le Ferrovie si diventa anziani a 60 anni, 5 prima dell'età di pensionamento) concessi a tutti, anche a chi guadagna un milione di euro l'anno. Non sarebbe meglio far pagare il costo del servizio e, di nuovo, compensare i poveri con imposte negative sul reddito? Lo stesso vale per i 350 milioni concessi ogni anno a scuole e università private, per lo più frequentate dai figli di famiglie relativamente abbienti. Alle imprese in senso stretto (sia pubbliche che private, ma senza contare servizi come le Ferrovie) vanno circa 10 miliardi l'anno, metà pagati dalle Regioni, metà dallo Stato. Da mesi Confindustria si dice favorevole all'eliminazione di questi sussidi in cambio di un taglio del cuneo fiscale, cioè delle imposte che gravano sul lavoro. Da quattro mesi (dal 23 giugno) il governo ha sul tavolo un progetto per eliminare quei 10 miliardi, di cui una metà potrebbero essere tagliati già dal prossimo anno. Davvero ci vuole tanto tempo per varare un provvedimento che la stessa Confindustria sollecita? Si dice che non c'è più tempo. Intanto si poteva cominciare prima, e comunque quattro-cinque mesi non sono pochi, soprattutto perché non si parte da zero. Non solo: impostare alcuni interventi potrebbe servire a condizionare almeno in parte il governo futuro, qualunque esso sia. Questo vale per la spesa pubblica così come per provvedimenti volti a eliminare le rendite e aprire i mercati alla concorrenza. Il governo Monti può passare alla storia in due modi. Uno, importante certo, ma più modesto, come un esecutivo che ha continuato sulla via del rigore tradizionale evitandoci il baratro finanziario. Ma potrebbe passare alla storia come il governo che ha avviato una rivoluzione liberale, iniziando a riformare il nostro Stato sociale per renderlo al tempo stesso meno costoso e più efficiente nel sostenere i redditi dei meno abbienti. Chissà se Mario Monti sceglierà la strada relativamente più facile (la prima) o quella più difficile, ma rivoluzionaria? Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 15 ottobre 2012 | 10:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_15/alesina-giavazzi-indigestione-imposte_e2b53c72-1687-11e2-be27-71fc27f55c26.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. I distruttori delle riforme Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2012, 10:01:53 pm I distruttori delle riforme
Si dice spesso che le riforme non si fanno perché lo slancio riformatore di molti governi (compreso quello attuale) è bloccato dai partiti, i quali in Parlamento difendono gli interessi di chi, per effetto di quelle riforme, perderebbe i propri privilegi. Vero, ma non è l’unico scoglio. Un altro ostacolo, altrettanto importante, è frapposto dalla burocrazia e dai suoi alti dirigenti. Un esempio: da oltre sei mesi si discute di come eliminare i sussidi e le agevolazioni di cui godono talune imprese (senza vi sia alcuna evidenza che questi aiuti favoriscano la crescita), in cambio di una riduzione del cuneo fiscale, cioè restringendo la forbice che separa il costo del lavoro per l’impresa dal salario percepito dal lavoratore. È una scelta con la quale concordano sia Confindustria sia i sindacati. Ma la proposta, pur auspicata dal presidente del Consiglio, non è neppure arrivata in Parlamento: da mesi la burocrazia la blocca. Perché? Semplice: eliminare questo o quel sussidio significa chiudere l’ufficio ministeriale che lo amministra e assegnare il dirigente che lo guida a un diverso incarico. Ciò per lui significa perdere il potere che deriva dall’amministrare ingenti risorse pubbliche. È così che i dirigenti si oppongono sempre e comunque a riduzioni della spesa che amministrano, indipendentemente dal fatto che serva, o meno, a qualcosa. Ma basta questo per bloccare una riforma che anche i partiti in Parlamento auspicano? Perché la burocrazia ha questo potere? Fino a qualche anno fa i funzionari erano di fatto inamovibili: i ministri andavano e venivano, ma i dirigenti dei ministeri rimanevano. Non è più così. Oggi gli alti funzionari si possono sostituire, e tuttavia nulla è cambiato. Il motivo del loro potere è più sottile e ha a che fare con il monopolio delle informazioni. La gestione di un ministero è una questione complessa, che richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo, e soprattutto buoni rapporti con la burocrazia degli altri ministeri. I dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e hanno tutto l’interesse a mantenerlo. Hanno anche l’interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni (soprattutto se estraneo alla politica e per questo più propenso al cambiamento), a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. E comunque gli ricordano che prima di pensare alle novità ci sono decine di scadenze e adempimenti di cui occuparsi: non farlo produrrebbe effetti gravissimi. Spaventato, il ministro finisce per affidarsi a chi nel ministero c’è da tempo. È l’inizio della fine delle riforme. E se per caso il governo ne vara qualcuna senza ascoltare la burocrazia, questa mette in campo uno strumento potente: solo i dirigenti, infatti, sono in grado di redigere i decreti attuativi, senza i quali la nuova legge è inefficace. Basta ritardarli o scriverli prevedendo norme inapplicabili per vanificare la riforma di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 5 dicembre 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_05/distruttori-riforme_1657a312-3ea6-11e2-b5b1-5f0211149faf.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. - Troppo stato in quell'agenda Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2012, 04:11:31 pm L'INTERVENTO PUBBLICO DA RIDURRE
Troppo stato in quell'agenda Per diminuire in modo significativo la spesa pubblica, e quindi consentire una flessione altrettanto rilevante della pressione fiscale, è necessario ridurre lo spazio che lo Stato occupa nella società, cioè spostare il confine fra attività svolte dallo Stato e dai privati. Limitarsi a razionalizzare la spesa all'interno dei confini oggi tracciati (la cosiddetta spending review) non basta. Nel 2012 il governo ha tagliato 12 miliardi di euro; altri 12 miliardi di risparmi sono previsti dalla legge di Stabilità per il 2013. Troppo poco per ridurre la pressione fiscale. Abbassare la spesa al livello della Germania (di quattro punti inferiore alla nostra) richiederebbe tagli per 65 miliardi. Per riportarla al livello degli anni Settanta (quando la nostra pressione fiscale era al 33 per cento), si dovrebbero eliminare spese per 244 miliardi. Di ridurre lo spazio che occupa lo Stato non si parla abbastanza nel programma che Mario Monti ha proposto agli italiani. Anzi, finora il governo Monti si è mosso nella direzione opposta. Ad esempio ha trasferito Snam rete gas, l'azienda che gestisce la distribuzione del gas, dall'Eni, di cui lo Stato possiede il 30%, alla Cassa depositi e prestiti, di cui possiede il 70%, cioè l'ha in sostanza nazionalizzata. Non c'è bisogno di ripercorrere la storia dell'Iri (l'Istituto per la ricostruzione industriale) per ricordarci quanto sia costato ai contribuenti l'intervento pubblico nell'economia. Basta fare i conti di Alitalia. Cinque anni fa il governo Berlusconi si rifiutò di vendere l'azienda ad Air France. Invece ne scaricò i 3,2 miliardi di debiti lordi sui contribuenti e indusse alcuni imprenditori ad acquistarla, con l'impegno «implicito» a intervenire se le cose fossero andate male. Come era facile prevedere, Alitalia oggi è sostanzialmente fallita. Il governo deve ora fare fronte al suo impegno verso i nuovi azionisti. Peraltro in un'operazione della quale a suo tempo fu regista l'attuale ministro Passera. Circolano persino ipotesi di un ingresso delle Ferrovie dello Stato, cioè una ri-nazionalizzazione. Invece bisognerebbe andare nella direzione opposta: privatizzare la Cassa depositi e prestiti, come i governi degli anni Novanta seppero fare con l'Iri. Spostare il confine fra Stato e privati, restringendo lo spazio occupato dallo Stato, richiede alcune decisioni importanti. Cominciamo dalla sanità. Con l'invecchiamento della popolazione la spesa sanitaria è diventata un bomba a orologeria per le finanze pubbliche, un problema non solo nostro ma di tanti Paesi avanzati. L'offerta di servizi sanitari in Italia è per lo più gestita dallo Stato: l'area occupata dai privati è limitata, spesso di qualità inferiore ai servizi offerti dagli ospedali pubblici, con rapporti poco trasparenti (spesso vera e propria corruzione) con l'amministrazione. Esistono tuttavia centri privati eccellenti, sia per efficienza che per qualità e trasparenza. La prima cosa che il prossimo governo potrebbe fare è convocare gli imprenditori che gestiscono queste strutture e capire come riprodurle in altre regioni. C'è poi un problema di finanziamento della spesa sanitaria. Come abbiamo ripetuto più volte, non possiamo più permetterci di fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino, e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte. Con ciò che risparmiano, i «ricchi» potrebbero acquistare polizze assicurative, decidendo liberamente quanto assicurarsi. È un sistema che incoraggerebbe anche il lavoro: se anziché essere tassato con un'aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate. Lo stesso può accadere per l'università. Oggi l'università è pubblica e funziona male. È finanziata da tutti i contribuenti, ma frequentata soprattutto dai più ricchi. È un sistema che trasferisce (con grandi sprechi) reddito dai poveri ai ricchi. Perché non far pagare le rette universitarie in modo meno regressivo? Ci spiace parlare della nostra università, ma la Bocconi non riceve sussidi pubblici, si finanzia con rette scolastiche che sono modulate in funzione del reddito, ed è uno dei pochi atenei italiani che non fa brutta figura nelle classifiche internazionali. Riprodurre questo modello altrove non è impossibile. Il programma di Monti si occupa esplicitamente di famiglia e di occupazione femminile, ma anche qui proponendo di allargare lo spazio occupato dallo Stato: «Va incoraggiata la più ampia creazione di asili nido». La soluzione non è questa, bensì, come lo stesso programma indica in un altro punto, detassare il lavoro femminile e lasciare che le famiglie decidano come meglio credono la cura dei figli. Insomma, a noi pare che il programma di Monti sia troppo Stato-centrico e non punti abbastanza al ridimensionamento dell'intervento pubblico. Con un debito al 126 per cento del reddito nazionale e una pressione fiscale tra le più alte al mondo non si può sfuggire al problema di ridisegnare i confini fra Stato e privati. Illudersi che sia sufficiente «riqualificare la spesa» con la spending review rischia di nascondere agli italiani la gravità del problema. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 27 dicembre 2012 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_27/troppo-stato-in-quell-agenda-alesina-giavazzi_8161faf2-4fec-11e2-a2f4-57facfb76e8a.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. La patrimoniale nelle urne Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2013, 11:55:30 am MEGLIO PARLARE DI COME RIDURRE LA SPESA
La patrimoniale nelle urne Vi è molta confusione, e preoccupazione, sull’ipotesi che il prossimo governo possa introdurre un’imposta patrimoniale. Sarebbe importante che chi si appresta a chiedere il voto ai cittadini spieghi con precisione se, come, e in quale misura intende tassare la ricchezza delle famiglie. L’agenda Monti fa genericamente riferimento all’opportunità di «trasferire il carico fiscale sui grandi patrimoni ». Il Pd pare invece orientato verso un’imposta ordinaria (cioè che si applichi ogni anno, come accade in Francia) e che colpisca tutto il patrimonio oltre una data soglia. Innanzitutto occorre distinguere fra una patrimoniale una tantum—evocata da chi, come Giuliano Amato, vorrebbe abbattere una volta per tutte il debito — e un’imposta ordinaria. Una patrimoniale una tantum sarebbe nella migliore delle ipotesi inutile, nella peggiore fatale. Per ridurre il rapporto fra debito e prodotto interno (Pil) sono necessari crescita, conti pubblici in attivo e tassi di interesse moderati. Nulla che possa essere influenzato da un’una tantum. Una simile imposta abbasserebbe il livello del debito, ma non ne muterebbe la dinamica. Dopo qualche anno torneremmo da capo. Con l’aggravante che la riduzione del debito potrebbe diffondere l’illusione che i problemi sono stati risolti e che quindi si può ricominciare a spendere. È già successo all’inizio del decennio scorso, quando i benefici delle privatizzazioni svanirono nell’arco di una legislatura. Se invece si pensa a una patrimoniale ordinaria (ricordando che una in Italia c’è già, l’Imu) questa andrebbe valutata all’interno di una revisione generale delle imposte: sui redditi da lavoro, sui consumi, sulla casa, sulle attività finanziarie. È possibile che il peso relativo di alcune di queste imposte sia sproporzionato. Per porvi rimedio il prossimo governo potrebbe nominare una Commissione—come quella che, nel 1972, su impulso di Bruno Visentini, propose il testo unico delle imposte dirette — con il compito di rimodulare le aliquote. Affermazioni generiche su questa o quella patrimoniale, una tantum o perenne, hanno il solo effetto di aumentare l’incertezza di cittadini e investitori. Il sistema impositivo è un meccanismo complesso (che andrebbe tra l’altro semplificato), che non si può correggere modificandone una parte, come se fosse indipendente dal resto. Ma una Commissione tecnica potrebbe solo suggerire la configurazione di imposte più efficiente, cioè quella che consentirebbe allo Stato di raccogliere un determinato gettito con i minori costi per famiglie e imprese, e con la desiderata progressività del sistema nel suo complesso. Ma una Commissione tecnica non potrà dire quale sia il livello di pressione fiscale ottimale. Questa è una scelta politica, che dipende dal livello di spesa che il governo ritiene desiderabile. E qui sta il punto. La campagna elettorale sembra concentrarsi su quale sia il modo migliore per tassare gli italiani. Invece si dovrebbe discutere di come riformare lo Stato, in modo che esso non pesi per la metà del Pil, con effetti fra l’altro molto deludenti sulla redistribuzione del reddito a favore dei meno abbienti. L’onorevole Bersani dovrebbe dire in modo chiaro quale è il livello di spesa pubblica che ritiene compatibile con una ripresa della crescita. Analogamente, l’agenda che Mario Monti propone agli italiani avrebbe dovuto indicare un obiettivo per la riduzione del rapporto fra spesa pubblica e Pil da attuarsi nell’arco della prossima legislatura. di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 31 dicembre 2012 | 9:11© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_31/patrimoniale-nelle-urne_c5ad12cc-531c-11e2-9db6-5f0af8902a56.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. - La questione femminile Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2013, 04:15:45 pm RIFORME E UN CAMBIO DI MENTALITÀ
La questione femminile L'Italia non sta utilizzando al meglio una parte importante del suo capitale umano, le donne. È una perdita colossale per la nostra economia. Quando studiano, le ragazze italiane sono più brave dei ragazzi, in tutte le materie. I dati del programma Pisa ( Programme for international student Assessment , l'indagine promossa dall'Ocse - l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - allo scopo di misurare le competenze degli studenti in matematica, scienze, lettura e abilità nel risolvere problemi) mostrano che a 15 anni le ragazze italiane raggiungono punteggi di gran lunga superiori ai maschi in «abilità di lettura» (510 contro 464, una differenza enorme) ma anche in «abilità scientifica» (490 contro 488). Solo in matematica le ragazze fanno un po' meno bene dei maschi. Non è da escludere che questo sia un effetto indotto da una cultura che assegna a ragazzi e ragazze ruoli diversi: «La matematica è una cosa da uomini». Lo si vede nella scelta dell'università: il 76% delle matricole delle facoltà umanistiche sono donne; nelle scientifiche solo il 37%. Questa scelta probabilmente riflette anch'essa stereotipi culturali. Perché laurearsi in fisica nucleare per poi fare la casalinga? Meglio studiare poesia. Quando però le donne si iscrivono a una facoltà scientifica, spesso sono più brave: alla Federico II di Napoli, ad esempio, il 37% delle ragazze si laurea con 110 e lode, contro il 24% dei maschi. La partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è tra le più basse dei Paesi Ocse e la più bassa in Europa. Nel 2011 solo 52 donne italiane su 100, fra i 15 e i 64 anni, lavoravano o cercavano attivamente un lavoro. In Spagna erano 69, in Francia 66, in Germania 72, in Svezia 77. Solo in Messico e Turchia erano meno che in Italia. È vero che le donne più giovani lavorano di più: ad esempio, nella classe di età 35-44, il tasso di partecipazione è aumentato di 5 punti in un decennio. Ma rimane 15 punti inferiore al corrispondente tasso tedesco. Il motivo di queste differenze straordinarie è che in Italia la divisione dei compiti tra lavoro domestico e lavoro retribuito sul mercato è più sperequata fra uomo e donna. La donna lavora in casa, il marito o il compagno in fabbrica, o in ufficio, sebbene, come abbiamo visto, il capitale umano delle donne giovani sia in media più alto di quello degli uomini. Insomma, troppe donne con grandi potenzialità non le sfruttano. I dati lo dimostrano chiaramente. All'interno delle mura domestiche le donne italiane fanno molto di più dei loro compagni: 6,7 ore di lavoro casalingo al giorno contro meno di 3 ore. Sommando il lavoro nel mercato e a casa, sono gli uomini ad apparire cicale mentre le donne, come formiche operose, lavorano quasi 80 minuti al giorno in più dei loro compagni. E questo accade indipendentemente dal livello di istruzione: è vero sia per le donne con la licenza elementare che per le laureate. Perché le donne italiane lavorano così poco fuori casa? Si dice perché non ci sono abbastanza asili nido gratuiti o sussidiati. Magari fosse così semplice! In primo luogo tutte le donne in Italia lavorano meno che in altri Paesi, non solo le giovani madri. Inoltre, in molti casi, i bambini non verrebbero mandati al nido neanche se questo fosse gratuito perché si pensa che sia la mamma a doversi occupare dei figli piccoli. Ci si aspetterebbe che il nostro fosse un Paese con un alto tasso di natalità. E, invece, tanta attenzione per i figli non si riflette in tassi di fertilità altrettanto elevati: anzi, la fertilità è molto più alta in Svezia, dove quasi tutte le donne lavorano (1,9 figli per donna), che in Italia (1,4). Insomma, le ragioni della scarsa partecipazione al lavoro sono molto più profonde: hanno a che fare con la nostra cultura, che assegna alla donna il ruolo di «angelo del focolare» e all'uomo quello di produttore di reddito. Ma il risultato è che tanti uomini mediocri fanno un mediocre lavoro in ufficio; un lavoro che le loro mogli casalinghe farebbero molto meglio perché hanno più capitale umano. Inoltre, al momento degli scatti di carriera spesso le imprese preferiscono gli uomini; magari non semplicemente per discriminazione di genere, ma perché sanno che in caso di conflitto fra esigenze familiari e aziendali un uomo sarà più disposto di una donna ad anteporre le esigenze dell'azienda a quelle della famiglia. Il risultato è che il capitale umano del nostro Paese è sottoutilizzato perché quello femminile è usato poco e male. La famiglia rimane un'istituzione fondamentale della società, nessuno lo nega. Ma il punto è che in Italia, più di ogni altro Paese europeo, il carico della famiglia è troppo sbilanciato sulla donna. Fino a quando non si aggiusta questa equazione non si fanno passi avanti. Sia chiaro: ci stiamo muovendo su un terreno minato, che sfiora il dirigismo culturale. Forse gli italiani (uomini e donne) sono contenti così. Cioè sono contenti di una distribuzione del lavoro domestico e nel mercato tanto sbilanciata. Se così fosse, non c'è alcun motivo per cui il legislatore debba intervenire. Ma siamo proprio sicuri che le donne italiane siano così felici di assumersi carichi domestici che paiono ben superiori a quelli delle donne di altri Paesi europei? Siamo così sicuri che tutte le donne siano contente di non essere promosse nel lavoro perché devono farsi carico della famiglia (non solo dei figli, anche di genitori e parenti anziani) praticamente da sole? Forse no, e allora il prossimo governo dovrà mettere la questione del lavoro femminile al centro del suo programma. Proposte ce ne sono. Ad esempio uno di noi (Alesina, insieme ad Andrea Ichino) ha da tempo suggerito vari metodi per detassare il lavoro femminile e favorire la partecipazione al lavoro delle donne. Si deve anche pensare a un uso molto più flessibile del part-time per facilitare la gestione familiare, come nei Paesi nordici, dove il part-time è molto più diffuso che da noi. Attenzione però: part-time sia per uomini che per donne, appunto per riequilibrare i ruoli nella famiglia. Mario Monti nella sua Agenda ha ricordato il problema del ruolo della donna nella nostra società. Il prossimo governo dovrà partire proprio da lì. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 15 gennaio 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_15/la-questione-femminile-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_05138154-5ed9-11e2-8d79-cb6cdb3edff8.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Le falsità che circolano sulla cura Monti Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2013, 09:12:12 am RIGORE
Le falsità che circolano sulla cura Monti Dopo l'articolo del «Financial Times» in cui si sostiene che il premier «non è l'uomo giusto per guidare l'Italia» di ALBERTO ALESINA E FRANCESCO GIAVAZZI Si sta diffondendo una sciocchezza, cioè un'opinione che non ha riscontri nell'evidenza empirica. Il rigore nei conti pubblici sarebbe la ragione per cui la recessione si prolunga e la disoccupazione non scende. Lo ripete da alcuni mesi Stefano Fassina, responsabile economico del Pd («I dati sulla disoccupazione sono conseguenza di politiche di austerità autodistruttive. La crescita e, conseguentemente, l'arresto dell'emorragia di lavoro è impossibile nel quadro vigente di finanza pubblica», 1° giugno 2012). Gli fa eco Silvio Berlusconi («Le politiche di austerità del governo tecnico hanno condotto alla recessione», 13 gennaio 2013). Ne fa cenno persino il Fondo monetario internazionale che raccomanda all'Europa cautela nell'aggiustare i conti pubblici. Lo scrive Wolfgang Münchau sul Financial Times (nell'articolo «Why Monti is not the right man to lead Italy», perché Monti non è l'uomo giusto a guidare l'Italia), che lunedì ha paragonato Mario Monti a Heinrich Brüning, l'ultimo cancelliere della Repubblica di Weimar il cui tentativo di riportare in ordine i conti pubblici avrebbe, secondo alcuni, determinato la fine dell'ultimo esperimento democratico prima dell'avvento del nazionalsocialismo. Cerchiamo di mantenere un minimo di prospettiva. Senza austerità, in Italia come in altri Paesi europei, non vi sarebbe stata più crescita ma spread alle stelle, una probabile ristrutturazione del debito, scricchiolii nei bilanci delle banche: insomma, il rischio di un altro 2008. Detto questo, ci sono modi diversi per realizzare una politica di austerità. L'evidenza empirica - ammesso che tale metodo interessi ancora a qualcuno in questo dibattito - dimostra che tagli di spesa, accompagnati da liberalizzazioni e riforme nel mercato dei beni e del lavoro comportano costi di gran lunga inferiori (in alcuni casi addirittura nessun costo) rispetto ad aumenti di imposte. Se il governo Monti avesse perseguito l'austerità in questo modo, cioè tagliando la spesa, la recessione sarebbe stata molto meno grave. Ma tra questo e dire che l'Italia non avrebbe dovuto far nulla, magari spendere un po' di più, quando lo spread sfiorava i 600 punti e il debito era diventato sostenibile, è da irresponsabili. Mario Monti - lo ripetiamo da oltre un anno - avrebbe dovuto correggere i conti pubblici in modo diverso, tagliando la spesa anziché limitarsi ad aumentare le tasse. Ma scrivere che egli non sarebbe adatto a guidare l'Italia perché ha a cuore il rigore fiscale è una stupidaggine tale che stupisce che il Financial Times l'abbia pubblicata. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 22 gennaio 2013 | 11:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_22/le-falsita-che-circolano-sulla-cura-monti-alberto-alesina-e-francesco-giavazzi_b23d2e56-647f-11e2-8ba8-1b7b190862db.shtml# Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Troppe illusioni sull'innovazione Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2013, 05:01:26 pm PERCHÉ RESISTE IL MITO NEOSTATALISTA
Troppe illusioni sull'innovazione Le scorciatoie sono pericolose: non solo in montagna, anche nella politica economica. L'ansia di accorciare i tempi che intercorrono fra il momento in cui una riforma è approvata e quando essa si traduce in maggior crescita può far commettere gravi errori. Un esempio: qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili si decise di sussidiare l'installazione di pannelli solari. Per far presto furono concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l'anno: li pagano tutte le famiglie nella bolletta elettrica e vanno a poche migliaia di fortunati. Non solo si è creata un'enorme rendita che durerà per almeno un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l'energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i nostri pannelli rimarranno lì per vent'anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione. Un altro esempio di scorciatoie pericolose è la politica industriale dirigista. Scrive il Pd: «La liberalizzazione dei mercati non è sufficiente. Il contrasto alle rendite, le privatizzazioni, gli abbattimenti fiscali possono favorire innovazione e competitività ma ci lasceranno con un lavoro fatto a metà. È necessario ripensare le linee strategiche e gli strumenti della politica industriale. L'illusione che sia il mercato a far crescere l'economia ci sta portando a sbattere. La risposta spontanea delle imprese (alla globalizzazione) è insufficiente». (Partito democratico, Per una politica industriale sostenibile , giugno 2012). Neppure il governo Monti ha saputo resistere alle sirene dell'intervento pubblico. Nel breve arco di un anno ha usato il risparmio postale, che è una grande risorsa, per attuare, attraverso la Cassa depositi e prestiti, una politica industriale discutibile. La Cassa oggi possiede - oltre a un Fondo che dovrebbe selezionare e investire in imprese «strategiche» - le reti elettriche e del gas, sta acquistando la rete a banda larga, controlla Fintecna e Sace, ha partecipazioni importanti in Enel, Eni, Poste, Assicurazioni Generali. Un tempo con il risparmio postale la Cassa concedeva mutui ai Comuni per migliorare gli edifici scolastici. Nel Dopoguerra, fra il 1945 e la metà degli anni Settanta, la politica industriale fu un elemento essenziale della nostra rinascita economica. L'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), l'attore centrale di quel periodo, fu preso ad esempio da molti Paesi in via di sviluppo, in particolare dal Giappone. Negli anni Sessanta l'Iri, come il Miti (Ministero del Commercio internazionale e dell'Industria) giapponese, erano parte di un sistema finanziario incentrato sulle banche, su relazioni stabili fra banchieri e imprenditori (si pensi al rapporto fra Enrico Cuccia e Giovanni Agnelli), scarso avvicendamento dei manager (Vittorio Valletta guidò la Fiat per un ventennio) e un ampio intervento dello Stato nell'economia. Ma erano tempi molto diversi. Italia e Giappone erano agli inizi della loro esperienza industriale. Non era necessario inventare cose nuove, bastava importare tecnologia dagli Stati Uniti e riprodurla, possibilmente facendo meglio di chi l'aveva inventata. Fu così in Italia per l'acciaio: l'impianto siderurgico di Taranto fu copiato dalle acciaierie texane di Houston, ma quando fu terminato suscitò l'ammirazione degli americani. Lo stesso accadde alla Toyota e all'elettronica giapponese. Oggi crescere per imitazione non è più possibile perché siamo troppo vicini alla frontiera tecnologica. Oggi si cresce innovando, non imitando. La crescita oggi richiede innovazione e per innovare la politica industriale che tanto successo ebbe nel Dopoguerra non funziona. Ovvero non può funzionare l'illusione che lo Stato e la politica siano in grado di individuare i settori e le imprese che avranno successo. L'innovazione è per definizione imprevedibile. Vi immaginate quattro funzionari dell'Iri in un garage che si inventano Apple? O un giovane impiegato dell'Iri che inventa Facebook? Affidereste allo Stato la scelta del tipo di robotica su cui puntare? Quello di cui abbiamo bisogno sono università eccellenti, la capacità di trattenere e attrarre i cervelli migliori, e una dose massiccia di «distruzione creativa», cioè un ambiente dove le vecchie imprese chiudono rapidamente e possono essere sostituite da aziende nuove, perché è in queste che più facilmente nascono le idee e si creano nuovi prodotti. Per questo è necessaria grande flessibilità. Innanzitutto un mercato finanziario e un mercato flessibile del controllo proprietario delle aziende, in cui non si incrostino gruppi di potere inamovibili. Il contrario di ciò che funzionava 50 anni fa. Oggi le imprese italiane dipendono troppo dal credito bancario: non era un problema 50 anni fa, lo è oggi. Molte imprese familiari beneficerebbero dal quotarsi in Borsa affidando il controllo a manager esterni. E serve un welfare che consenta la riallocazione del lavoro, proteggendo i lavoratori, non i posti di lavoro. Il contrario della cassa integrazione. L'Italia degli anni Cinquanta era un Paese «emergente» lontano dalla frontiera tecnologica. Bastavano grandi imprese pubbliche che copiassero quello che altri facevano. Oggi l'Italia è un Paese alla frontiera della tecnologia. In questo mondo per crescere servono creatività e flessibilità, non una politica industriale che affida le scelte allo Stato. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 3 febbraio 2013 | 8:40© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_03/troppe-illusioni-su-innovazione-alberto-alesina-francesco-giavazzi_0b6216f4-6dd1-11e2-ad59-736471fe2e30.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. I VINCOLI ESTERNI DIMENTICATI Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 11:56:08 pm I VINCOLI ESTERNI DIMENTICATI
A corto di idee e senza capitali I tempi della democrazia e della politica mal sopportano vincoli esterni, sia quelli che derivano dai nostri impegni europei, sia quelli imposti da chi possiede i titoli del nostro debito pubblico. L'apparente tranquillità dei mesi recenti può indurre nell'errore di farci sentire liberi di decidere, di muoverci nella direzione in cui ci porta la navicella del fragile equilibrio politico. Non è così. La soluzione adottata per salvare le banche di Cipro potrebbe cambiare il modo in cui d'ora in avanti verranno affrontate le crisi bancarie nell'area euro. Tre anni fa le banche irlandesi furono salvate facendo pagare un conto salatissimo ai contribuenti e proteggendo tutti i depositanti (grandi e piccoli) e chi ne aveva acquistato le obbligazioni. A Cipro invece lo Stato non interverrà: i 10 miliardi di euro che l'isola riceverà dall'Europa non potranno essere usati per salvare le banche. Le loro perdite verranno assorbite da chi vi aveva investito, acquistandone azioni, obbligazioni o aprendo un conto corrente. Verranno salvati solo i depositi di ammontare inferiore ai 100 mila euro. Questa decisione ha due conseguenze: 1) da oggi rafforzare il patrimonio delle banche (il tallone d'Achille del sistema finanziario europeo) è più difficile, perché chi ne acquista le azioni o le obbligazioni deve affrontare un rischio maggiore; 2) una parte dell'attività bancaria potrebbe emigrare verso i Paesi le cui banche sono più solide. È vero che i piccoli depositanti sono salvi (a meno di imposte speciali sulla ricchezza), ma le imprese e i grandi investitori fanno e ricevono pagamenti che spesso superano il limite di 100 mila euro. Molti di essi d'ora in poi saranno tentati di effettuarli con banche di Paesi dove non si rischia una parziale confisca dei depositi. Questo potrebbe creare un circolo vizioso e indebolire ancor più le banche. Per noi sono tutte cattive notizie. Uno degli ostacoli alla crescita, nel breve termine forse il maggiore, è la scarsità di capitale di cui dispongono le banche. Il motivo principale per cui esse lesinano il credito è che hanno troppo poco capitale. Hanno molta liquidità, grazie ai finanziamenti della Bce, ma per fare un prestito e sostenere l'economia la liquidità non basta, serve anche il capitale, cioè la riserva che la banca deve mettere da parte per far fronte a prestiti non rimborsati. E oggi nella recessione ciò accade sempre più spesso. Le banche italiane tradizionalmente hanno sempre avuto relativamente poco capitale: uno dei motivi è che i loro padroni, le fondazioni bancarie, hanno risorse limitate, ma non vogliono perdere il controllo delle banche, quindi scoraggiano gli aumenti di capitale sul mercato. L'altra conseguenza della crisi di Cipro è che le parole oggi contano di più. Gli investitori saranno ora attentissimi a qualunque proposta di tassare i depositi bancari, o di ristrutturare il debito, come fece Mussolini nel 1926, o di rinegoziare gli impegni presi con l'Europa, o addirittura di considerare un'uscita dall'euro. In questo momento così delicato, non solo le azioni ma anche le parole pesano, e nel mezzo di una crisi politica fra le più difficili del dopoguerra, di parole senza senso se ne ascoltano parecchie. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 3 aprile 2013 | 7:59© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_03/alesina-giavazzi-a-corto-di-idee-senza-capitali_983f84f2-9c1c-11e2-aac9-bc82fb60f3c7.shtml Titolo: Alberto Alesina. Due scelte credibili Inserito da: Admin - Maggio 04, 2013, 03:45:53 pm Due scelte credibili
È finalmente chiaro a tutti che l'imposizione fiscale in Italia deve scendere. Rimangono però due questioni alle quali rispondere. Primo: quali imposte ridurre? Secondo: come finanziare la perdita di gettito? È più facile rispondere alla prima domanda. E da questa iniziamo. Lo scopo degli sgravi deve essere quello di ridare più potere d'acquisto ai cittadini, di incentivare la domanda e l'offerta di lavoro. Quindi le imposte da ridurre sono quelle sui redditi medio bassi e quelle che, a causa del cuneo fiscale, rendono costoso assumere. Non è chiaro perché invece tanto del dibattito verta intorno all'Imu. Eliminando quest'ultima, si dà un po' più di reddito ma non si creano incentivi a creare posti di lavoro. Tanto che la battaglia contro l'Imu sembra aver assunto più toni simbolici e populisti che poco hanno a che vedere con la razionalità economica. La risposta alla seconda domanda è meno facile. Una riduzione delle imposte di dimensioni adeguate a far ripartire un'economia disastrata come la nostra deve essere notevole: attorno al 4 per cento di Prodotto interno lordo (Pil) in un orizzonte di due-tre anni. Tali tagli farebbero però aumentare il deficit. Se non si facesse altro, ci ritroveremmo pressati dai mercati e da Bruxelles. E se, come spesso è accaduto in passato e come ha fatto il governo Monti, fossimo costretti ad alzare di nuovo le imposte saremmo di nuovo al punto di prima. Queste politiche affannose di stop and go non servono a nulla, anzi peggiorano la situazione confondendo cittadini, investitori e mercati. L'alternativa è una sola. Cominciare immediatamente con un piano aggressivo di riduzione delle aliquote e di dismissioni del patrimonio pubblico e annunciare tagli di spesa da far partire tra un anno, dopo che, sperabilmente, la riduzione delle imposte abbia contribuito a far riprendere l'economia. Su cosa tagliare, Francesco Giavazzi ha già avanzato suggerimenti su queste colonne il 29 aprile scorso. È probabile che un piano di questo tipo faccia aumentare il deficit per un anno o due. Di quanto, dipenderà da come l'economia risponderà ai tagli di aliquote e dalle altre misure da avviare comunque per la crescita. L'esperienza recente dimostra che l'effetto espansivo di riduzione delle tasse compensa la diminuzione della domanda dovuta ai tagli alla spesa. Ma ci possiamo permettere i deficit temporanei che si manifestassero nel periodo intercorso tra i tagli di imposte (subito) ed i tagli di spesa (un po' ritardati)? La riposta è sì, a patto che le riduzioni delle spese siano credibili. In questo caso mercati, Banca centrale europea e Bruxelles ci darebbero il respiro necessario; anche loro sono preoccupati della mancanza di crescita in Italia. I ministri del governo sono personalità di valore. Teoricamente la grande coalizione che sostiene l'esecutivo potrebbe dare la credibilità necessaria a un programma pluriennale di questo tipo. Ma se, dietro le quinte, i partiti saranno impegnati solo a trovare il momento piu appropriato per far cadere l'esecutivo e andare a nuove elezioni, allora la credibilità del piano non esiste. E senza di essa muore la speranza di far ripartire l'economia. Alberto Alesina 4 maggio 2013 | 10:09© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_04/due-sceltte-credibili-alesina_bfdf2200-b478-11e2-bb5d-f80cf18001da.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Quel tre per cento non sia un tabù Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 05:22:29 pm CRESCITA, UNA PROPOSTA ALTERNATIVA
Quel tre per cento non sia un tabù La politica di bilancio in Italia è vincolata da puntuali regole europee. Esse prevedono che un Paese mantenga piena flessibilità nei propri conti pubblici solo se il suo deficit è inferiore al 3% del Prodotto interno lordo. Ad esempio la Germania, che quest'anno prevede di chiudere il bilancio in pareggio, potrebbe, se volesse, varare investimenti pubblici per 80 miliardi di euro (tre punti di Pil) perché rimarrebbe entro la soglia massima. Invece la Francia, che prevede un deficit del 4%, deve ridurlo e non le è consentito scorporare gli investimenti pubblici, né tener conto dell'effetto della recessione sui propri conti. Il Documento di economia e finanza (Def) che il ministro Saccomanni presenta al Parlamento la prossima settimana, confermerà per quest'anno l'impegno annunciato due mesi fa dal governo Monti, cioè un deficit non superiore al 3%. E ciò nonostante il perdurare della recessione che renderà più difficile rimanere sotto il 3%. Sulla base di questo impegno il 30 maggio la Commissione europea chiuderà la procedura di infrazione in cui attualmente ci troviamo, dandoci via libera per una maggiore flessibilità. Ma sarà un via libera per noi purtroppo inutile. Nella migliore delle ipotesi saremo di un soffio sotto la soglia del 3% e ciò non consentirà di ridurre le imposte. In questa situazione occorre chiedersi se ci convenga impegnarci al 3% quest'anno, visto che, a parte una questione di orgoglio, non ne guadagneremmo sostanzialmente nulla. Non si riduce la disoccupazione con l'orgoglio. Il governo potrebbe considerare una strategia alternativa che avrebbe anche il vantaggio di farlo dall'angolo in cui pressioni contrapposte lo stanno schiacciando. Proporre all'Ue un piano di riduzione immediata delle imposte: l'Imu, ma soprattutto le imposte sul lavoro. Diciamo per un ammontare dell'ordine di 50 miliardi che abbasserebbe la pressione fiscale di circa tre punti, contribuendo alla ripresa dell'economia. Contemporaneamente adottare un piano di riduzione graduale ma permanente delle spese: un punto di Pil di tagli all'anno per tre anni. Qualunque recupero di evasione dovrebbe essere usato per ridurre le aliquote dei contribuenti onesti. Il deficit rimarrebbe superiore al 3% ancora per due anni e rientrerebbe solo fra tre. Come la Francia. La Commissione non chiuderebbe la procedura di sorveglianza: dovrebbe approvare il piano e verificarne l'effettiva attuazione. Insomma, saremmo noi a scegliere il piano e Bruxelles a fare da «guardiano». È una strada praticabile? Dipende dalla credibilità dei tagli. Ma di questo Saccomanni dovrebbe discutere a Bruxelles, non della seconda cifra decimale del rapporto deficit/Pil. Il secondo pilastro di questa strategia è il credito. La riduzione delle tasse non basta per uscire dalla recessione. È necessario che le banche ricomincino a prestare denaro a famiglie e imprese. Per far questo, come abbiamo già scritto, bisogna ricapitalizzarle. La premessa è risanarle, togliendo dai loro bilanci i prestiti insolventi (che in un anno sono saliti da 50 a 60 miliardi di euro). Per farlo si può utilizzare il Meccanismo europeo di stabilità (Ems), il cosiddetto «Fondo salva-banche», come ha fatto la Spagna. Il vantaggio è che anche questo prestito ci sarebbe concesso con «condizionalità», cioè sottoporrebbe le nostre banche - e la Banca d'Italia che vigila su di esse - al controllo delle istituzioni europee. I mercati sono per ora calmi e ci danno respiro. Non sprechiamo questa occasione. Saccomanni deve puntare alto, non perdersi con i decimali. Se lo farà, Bruxelles deve ascoltarlo. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 17 maggio 2013 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_17/quel-tre-per-cento-non-sia-tabu-alesina-giavazzi_7e3514c2-beaf-11e2-be2c-cd1fc1fbfe0c.shtml Titolo: Alberto ALESINA - Una staffetta senza virtù Inserito da: Admin - Maggio 22, 2013, 05:12:36 pm LAVORO, LO SCAMBIO ANZIANI-GIOVANI
Una staffetta senza virtù Un anno e mezzo fa l'ex ministro Elsa Fornero diceva agli italiani che avrebbero dovuto lavorare più a lungo: anche fino a 67 anni. Oggi il ministro Enrico Giovannini spiega loro che debbono lasciare l'impiego prima, per fare spazio ai giovani attraverso quella che viene chiamata «staffetta generazionale». Vale a dire, un dipendente accetta di lavorare meno ore, con meno stipendio o di andare in pensione con una qualche penalizzazione, purché la sua azienda assuma un giovane. Giustamente credo che gli italiani siano un po' confusi. In un Paese che cresce, i posti di lavoro non sono fissi ma aumentano, quindi ci sarebbe posto per tutti, giovani e anziani. In un Paese come il nostro, poi, nel quale la vita media si sta allungando, sarebbe assolutamente necessario che gli anziani lavorassero più a lungo, altrimenti il carico fiscale per chi ha un impiego si alza molto proprio per sostenere chi un lavoro non ce l'ha più. Ma se il Paese non cresce? Ovvero non crea posti di lavoro? I giovani troveranno ancora meno occupazione. Per di più, alte tasse e rigidità contrattuali all'ingresso sul mercato del lavoro scoraggiano assunzioni da parte delle imprese. Il carico fiscale inoltre riduce la crescita creando un circolo vizioso: sempre meno lavoro e sempre più persone che non essendo impiegate necessitano del sostegno di chi invece un'occupazione ce l'ha. Il mancato sviluppo fa sì che le ore lavorate non aumentino, restino fisse. Redistribuirle fra giovani e anziani, come prevederebbe la «staffetta generazionale», non aiuta certo nell'aumentare il reddito degli italiani. Semplicemente lo redistribuisce tra padri e madri, figli e figlie. Posto poi che la «staffetta» funzioni, la disoccupazione giovanile si ridurrebbe sì, ma in modo fittizio: non creando più lavoro quanto redistribuendo quello già esistente tra una generazione e l'altra. Una stessa torta, il Prodotto interno lordo, diviso in parti diverse senza però che questo dia alcun contributo alla crescita. Ma allora a che serve questa redistribuzione tra generazioni? Qualche effetto indiretto potrebbe averlo. Primo: più a lungo un giovane rimane escluso dalla forza lavoro meno diventa «impiegabile» dalle imprese e quindi scoraggiato. La «staffetta» potrebbe per questo aiutare a ridurre il tempo di attesa per l'impiego. Secondo: si potrebbe rendere figli e figlie meno legati al reddito di padri, madri e alla famiglia, quindi più mobili, facilitando il loro inserimento nel mondo del lavoro anche quando questo richiede un cambio di città o luogo di vita. Non sono chiarissime le conseguenze sulle imprese e i loro costi. Da un lato un giovane all'inizio della carriera ha un salario più basso, ma ci sarebbero costi legati all'inserimento del giovane al lavoro. Il saldo, positivo o negativo, dipenderebbe comunque da quanto meno si pagano gli anziani che passano al part time. Insomma: la staffetta in sé e per sé non aiuterà la crescita. Anzi, sembra quasi un triste riconoscimento che l'unico modo per impiegare i giovani è chiedere ai genitori di scansarsi dal loro lavoro, cosa che suona come un'ammissione di incapacità a far crescere le ore di lavoro totali. Quindi la si venda per quello che è: una misura un po' disperata per cercare di aiutare una generazione in grave difficoltà in un modo che però non aiuta ad attaccare alla radice i problemi di un Paese fermo da due decenni. Alberto Alesina 22 maggio 2013 | 12:31© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_22/una-staffetta-senza-virtu-alberto-alesina_205e7846-c299-11e2-b767-d844a9f1da92.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Crescita, occupazione, deficit pubblico: Inserito da: Admin - Giugno 08, 2013, 06:10:07 pm Imparare la lezione americana
Crescita, occupazione, deficit pubblico: quante differenze con l'Europa Gli Stati Uniti stanno crescendo al ritmo di circa il 2 per cento l'anno e in un triennio il tasso di disoccupazione è sceso dal 10 al 7,5 per cento. Il deficit pubblico al netto degli interessi è sceso di 7 punti in percentuale del Prodotto interno lordo (Pil): dall'11,5 per cento circa al culmine della crisi nel 2009, al 4,5 per cento previsto per quest'anno. In tre anni, fra il 2011 e il 2013, hanno ridotto le spese di circa 2 punti di Pil e aumentato le imposte di un punto e mezzo. Anche in Europa i deficit sono scesi, ma la crescita non riparte. In Italia stiamo attraversando la recessione più grave dal dopoguerra. Che cosa spiega queste differenze? Alcune di queste sono difficili da eliminare nel breve periodo: la maggiore flessibilità dei mercati americani, in particolare quello del lavoro, la mancanza in Europa di una politica fiscale comune, le divergenze fra i Paesi dell'euro che impediscono una maggiore integrazione dell'eurozona e legano le mani alla Bce. Ma una cosa importante la potevamo fare, imparando dagli Stati Uniti: attaccare alla radice e senza indugi il problema delle banche. Le prime misure del governo americano, all'inizio della crisi, quando era ancora presidente George W. Bush, furono rivolte alle banche, le quali furono obbligate a rafforzare il loro patrimonio anche con l'aiuto pubblico. Fatto questo, gli interventi volti a ridurre il deficit (si può poi discutere se siano stati più o meno sufficienti e di buona qualità) sono stati molto meno costosi che in Europa proprio perché non si sono sommati a una contrazione del credito. Nell'eurozona abbiamo seguito la sequenza sbagliata. Occorreva prima rafforzare le banche affinché la loro debolezza non desse luogo a una contrazione dei prestiti, e dopo, solo dopo, ridurre i deficit tagliando le spese. Invece abbiamo fatto esattamente il contrario. Non abbiamo ricapitalizzato le banche e anziché tagliare le spese abbiamo aumentato le imposte. Alcuni Paesi, fra cui l'Italia, hanno rifiutato i fondi messi a disposizione, sia pure tardivamente, dall'Europa per ricapitalizzare le banche. Non li abbiamo voluti per due motivi. Per lo stupido orgoglio di non accettare che qualcun altro metta il becco nelle nostre banche: «Le nostre autorità sono più che sufficienti» (lo si è visto alla Banca Popolare di Milano!). E perché le Fondazioni bancarie, ovvero i padroni delle banche, non hanno i fondi per ricapitalizzarle, e non vogliono diluire la loro proprietà. Due giorni fa Standard & Poor's ha pubblicato uno studio che evidenzia (se ancora ve ne fosse bisogno) la gravità della contrazione del credito in Italia, soprattutto per le imprese piccole e medie. Si è creato un circolo vizioso. Private del credito le aziende falliscono; più imprese falliscono, più crescono le sofferenze bancarie, cioè i crediti inesigibili; più aumentano le sofferenze, più diminuisce il capitale delle banche e con esso i prestiti alle imprese e più crescono i fallimenti. Stiamo ripetendo l'errore che fece il Giappone vent'anni fa quando, dopo un crac immobiliare, lasciò le banche a languire per un ventennio. Il risultato è purtroppo ben noto: vent'anni di crescita zero e un debito pubblico che ha raggiunto il 200 per cento del Pil. Per favore: impariamo dagli Usa, non dal Giappone. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 7 giugno 2013 | 8:45© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_07/imparare-la-lezione-americana-alesina-giavazzi_74fbfcae-cf30-11e2-b6a8-ee7758ca2279.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. L'insuperabile tabù italiano Inserito da: Admin - Luglio 12, 2013, 07:37:02 pm PERCHÉ È DIFFICILE TAGLIARE LA SPESA
L'insuperabile tabù italiano La scorsa settimana Enrico Letta, al termine del vertice europeo, ha comunicato di aver ottenuto un grande successo: maggior flessibilità per i nostri conti pubblici. Poiché il governo Monti - ipotizzando di continuare a far pagare l'Imu a tutti e di aumentare l'Iva a luglio - prevedeva per il 2013 un deficit del 2,9%, maggior flessibilità dovrebbe significare poter oltrepassare, almeno temporaneamente, il limite del 3% imposto dalle regole europee. Altrimenti dove sarebbe la maggior flessibilità? Poche ore dopo il ministro Saccomanni ha spiegato che sarà assai difficile trovare lo spazio per evitare un aumento dell'Iva o per eliminare definitivamente l'Imu sulla prima casa. Non sorprende che tanti cittadini siano confusi e non capiscano che cosa intenda fare il governo. Proviamo a capire. Se veramente, come sostiene Letta, l'Unione Europea ci avesse concesso più spazio sul deficit, allora potremmo non solo evitare l'aumento dell'Iva e cancellare l'Imu sulla prima casa, ma anche cominciare a ridurre le tasse sul lavoro. Se non lo si può fare significa che quella flessibilità non c'è (come dice Saccomanni), o che il governo pensa di usarla non per ridurre la pressione fiscale, ma per aumentare le spese. Infatti si è subito cominciato a parlare di «investimenti pubblici produttivi». Di tutto l'Italia ha bisogno tranne che di più spesa pubblica. I consumi delle famiglie sono scesi del 6% in due anni (2012-13). Nel medesimo periodo la spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi è salita dal 45% del Prodotto interno lordo al 45,8 (era il 41,4% dieci anni fa). L'Italia ha bisogno di meno tasse sul lavoro per far crescere l'occupazione, e meno tasse sui consumi per far ripartire la domanda. Aumentare la spesa pubblica significa che prima o poi le tasse dovranno crescere ancora di più. Dall'esperienza dei Paesi europei che negli ultimi tre anni hanno cercato di uscire dalla crisi tagliando il debito e ricominciando a crescere, si impara una lezione molto chiara. L'Irlanda, che ha corretto i conti soprattutto riducendo le spese, ha ricominciato a crescere: la stima per quest'anno è un aumento del prodotto pari all'1,3%. L'Italia invece si è limitata ad aumentare la pressione fiscale senza far nulla per ridurre le spese delle amministrazioni pubbliche, che anzi continuano a crescere. Risultato, non riusciamo ad uscire da una recessione profonda: la stima per quest'anno è un'ulteriore contrazione del reddito pari all'1,9%. Non bisogna quindi sorprendersi se Standard & Poor's giudichi l'Irlanda, che pure ha un debito elevato quasi quanto il nostro (ma in discesa), più affidabile dell'Italia. Continuiamo a commettere il medesimo errore: lo fece il governo Monti due anni fa e, se non si tagliano le spese, lo ripeterà Letta oggi. Non siamo capaci di varare un piano credibile di radicale riduzione delle uscite, quindi ci affidiamo all'aumento della pressione fiscale. Le agenzie di rating, e soprattutto i mercati, capiscono che limitandosi ad aumentare le tasse la crisi non si risolve e ci obbligano a fare di più. E la sola cosa che finora i governi hanno saputo fare è stato incrementare ancor più la pressione fiscale, peggiorando la situazione. È un circolo vizioso che sta distruggendo l'economia. 12 luglio 2013 | 7:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Alesina e Francesco Giavazzi da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_12/insuperabile-tabu-italiano-alesina-giavazzi_9dd4fa3a-eab1-11e2-aab6-99ce3905fffc.shtml Titolo: I FRUTTI DEL BERLUSCONISMO: DUE DECENNI DI SVILUPPO PERDUTO Inserito da: Admin - Agosto 08, 2013, 04:39:35 pm DUE DECENNI DI SVILUPPO PERDUTO
Agenti occulti della povertà L'Italia è ferma da due decenni. In questo periodo il reddito medio degli italiani (dati Eurostat) si è ridotto del 14 per cento, mentre rimaneva sostanzialmente invariato nel resto dell'area euro e cresceva del 12 per cento negli Stati Uniti. Da che cosa dipende questo risultato drammatico? Il Fondo monetario internazionale ha confrontato i progressi compiuti da alcuni Paesi nel riformare le proprie economie ( Fostering Growth in Europe , aprile 2012). Ha suddiviso le riforme in due gruppi: quelle che possono tradursi più rapidamente in maggior crescita (riforme del mercato del lavoro; privatizzazioni; liberalizzazioni nel campo dei trasporti, della distribuzione dell'energia, delle professioni, della distribuzione commerciale) e quelle che invece richiedono tempi più lunghi per produrre effetti positivi (formazione del capitale umano, cioè scuola e università; pubblica amministrazione; giustizia civile). Per ogni tipo di riforma (i dati si riferiscono al 2011-12), il Fondo ha assegnato a ciascun Paese un voto: A se le riforme in quel campo sono state completate, B se il Paese è a metà strada, C se il più rimane da fare. Alcuni Paesi nordici (Svezia e Danimarca, ma anche la Gran Bretagna) sono in cima alla classifica, con quasi tutte A. Vanno abbastanza bene anche gli Stati Uniti (tre B e sei A) e non male neppure il Giappone. Fra i Paesi dell'euro l'Olanda ha otto A e una sola B; la Germania quattro B e cinque A. L'Italia ha cinque C e quattro B. Solo la Grecia (nove C) è piu o meno al nostro livello. C'è una sola area dove l'Italia appare ai primi posti: le pensioni. Per questo possiamo ringraziare il governo Dini la cui riforma, nel 1995, fu votata dal Parlamento solo perché sarebbe entrata in vigore 15 anni più tardi. Ma quella legge aprì la strada a provvedimenti successivi, come la riforma Fornero che ne ha accelerato i tempi di attuazione. L'Italia è dunque uno dei Paesi in cui una spinta sulle riforme produrrebbe maggior crescita. Sempre il Fondo stima che se raggiungessimo un voto A in tutte le voci, nell'arco dei prossimi 50 anni il nostro reddito potrebbe aumentare del 30 per cento circa: se avessimo cominciato due decenni fa.... La Germania cominciò 10 anni fa, quando il cancelliere Schröder varò l'Agenda 2010, un piano di riforme ambiziose che partì dal mercato del lavoro e si estese con Angela Merkel al campo costituzionale, con interventi utili ad accelerare l'iter legislativo. Fra il 2005 e oggi la disoccupazione in Germania è scesa di sei punti e il reddito medio delle famiglie tedesche è salito di dieci. Se invece di un fortissimo aumento della pressione fiscale, il governo Monti avesse tagliato un po' la spesa, se i governi che lo hanno preceduto avessero fatto solo alcune delle riforme indicate dal Fondo monetario, la recessione che stiamo vivendo non sarebbe tanto grave. Infatti la caduta del reddito, dal 2010 ad oggi, è stata meno accentuata nei Paesi che la crisi ha colto più avanti sulla via delle riforme. La lezione per la politica è semplice. All'Italia serve con urgenza uno slancio riformatore che trasformi tutti questi voti C in B e A. Il governo Letta ha già sprecato cento giorni. Tranne un passo avanti sull'abolizione delle province e una tardiva e parziale accelerazione dei pagamenti dei debiti alle imprese, ha sostanzialmente fatto melina. Quanti altri giorni devono passare prima che si cominci a fare qualcosa? 8 agosto 2013 | 8:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Alesina e Francesco Giavazzi da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_08/agenti-occulti-della-poverta-alberto-alesina-francesco-giavazzi_d7a978ca-ffe3-11e2-b484-e2fa3432c794.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. - Prigionieri di un'illusione Inserito da: Admin - Settembre 07, 2013, 07:31:38 pm QUELLO CHE NON SERVE ALLA CRESCITA
Prigionieri di un'illusione Il presidente del Consiglio ha usato l'analogia del cacciavite: «Dobbiamo rendere più efficienti le istituzioni. Ci proponiamo di farlo con interventi normativi, non riforme epocali. Useremo il cacciavite, facendo prevalere l'esigenza dell'efficacia sulla bandiera della politica». Vanno in questo senso provvedimenti come una nuova legge Sabatini per finanziare gli investimenti, l'ampliamento dei criteri per l'accesso al Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, aiuti agli investimenti per ricerca e innovazione, norme sblocca-cantieri. In un'Italia dove ci si è troppo attardati ad aspettare il Godot delle Grandi Riforme, un governo che vuole usare un cacciavite è benvenuto. Purché questo non riveli l'impotenza della politica. La piccola manutenzione è decisiva quando la macchina dello Stato funziona e ha solo bisogno di essere messa a punto. Non è il nostro caso. Soffriamo di una combinazione di deficit ben più gravi di quello dei conti pubblici: un apparato burocratico che ostacola, anziché agevolare, le riforme, e una mancanza di prospettiva. Il governo rischia di rimanere stritolato. La politica è impegnata in un regolamento di conti fra centrosinistra e centrodestra: elaborare un progetto per il Paese che verrà pare l'ultima delle preoccupazioni. L'apparato statale, con la scusa di supplire alle carenze della politica, ha l'unico obiettivo, sin qui pienamente raggiunto, di perpetuare se stesso. Non basta il cacciavite. L'esempio più evidente sono le storture del mercato del lavoro, ancora l'altro ieri sottolineate da Dario Di Vico, che impediscono di creare occupazione persino là dove sarebbe possibile. Taluni guardano all'Europa come al salvagente al quale aggrapparsi; altri come a un macigno che ci affonda. Entrambi sbagliano: siamo noi la fonte dei nostri problemi e noi soli possiamo risolverli. L'Europa è utile quando sappiamo sfruttarne gli esempi e gli stimoli, dannosa se ci limitiamo a subirla. Sinora il governo ha dato l'impressione di accettare passivamente i vincoli che Bruxelles impone ai conti pubblici, senza chiedersi se davvero essi ci aiutino davvero a uscire dalla crisi. Anziché vincolarci a un deficit inferiore al 3 per cento del Prodotto interno lordo già da quest'anno (senza alcun impegno sulle riforme), avremmo dovuto concordare con l'Europa un programma pluriennale che avesse come obiettivo la crescita. Cominciando dalla riforma del mercato del lavoro, rimettendo mano alla legge Fornero, alla scuola, alla concorrenza, a una burocrazia soffocante. E soprattutto avviando una riduzione graduale ma certa della spesa, che liberi, entro un triennio, 50 miliardi da destinare al taglio delle tasse sul lavoro: quanto serve per condurre il nostro cuneo fiscale (la differenza fra la busta paga del lavoratore e il costo per l'impresa) al livello tedesco. In questo triennio violeremmo il vincolo del 3%, come la Francia: ritorneremmo a essere sorvegliati da Bruxelles, ma questo può solo aiutare l'attuazione delle riforme e garantire i tagli di spesa. Altrimenti, prima della fine dell'anno sfonderemo il limite del 3%, e a quel punto l'unica strada sarà la solita: aumentare l'Iva accompagnandola con qualche altro balzello fiscale, come già prevede la clausola di salvaguardia che innalzerà l'anticipo delle imposte dovute il prossimo anno. Ps: un mese fa il Senato ha votato un ordine del giorno che impegna il governo a modificare entro giovedì prossimo, ultimo giorno utile, la norma della legge Severino che prevede la chiusura di 31 tribunali e 31 Procure. Se il governo lo farà ogni impegno a tagliare la spesa apparirà per ciò che probabilmente è: parole al vento. 7 settembre 2013 | 15:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_07/prigionieri-illusione_071c8322-1777-11e3-8a00-11cf802b0067.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. - La prigionia dei numeri Inserito da: Admin - Settembre 24, 2013, 11:34:14 am DEFICIT, TAGLIO DELLE TASSE E CRESCITA
La prigionia dei numeri L'economia cresce meno di quanto il governo prevedesse solo pochi mesi fa, e i conti pubblici peggiorano. In aprile Monti stimava, per quest'anno, una caduta del reddito dell'1,3%: ora la stima è -1,7%. E così, come era facile intuire, per mantenere il deficit 2013 al di sotto del 3% si dovrà ricorrere a una manovra correttiva. Il presidente del Consiglio dà la colpa all'instabilità politica. Come se, senza di essa, miracolosamente l'economia si sarebbe ripresa. Magari fosse così semplice! Le ragioni per cui non riusciamo a superare la recessione sono ben più profonde. Non troviamo il coraggio di attuare le riforme di cui discutiamo invano da almeno un paio di decenni: lavoro, burocrazia, concorrenza e soprattutto una minore pressione fiscale. In tre anni essa è salita dal 46,1 al 48,9 per cento, mentre le spese delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi continuano a crescere: un punto in più del Prodotto interno lordo (Pil), in un triennio. Solo nel 2013 il Documento di economia e finanza (Def), pubblicato la scorsa settimana, stima che la spesa al netto degli interessi aumenterà di circa 10 miliardi, da 714 a 724 miliardi. Enrico Letta reagisce a questi dati proponendo la solita ricetta. Altre tasse e qualche artificio contabile come l'anticipo a novembre di alcune imposte dovute l'anno prossimo. E niente riforme. Quando si convincerà che è una ricetta che non funziona? Monti non riuscì a fare le riforme, ma almeno ci provò: l'attuale governo pare non provarci neppure. Spendiamo, al netto di interessi, pensioni, sanità e interventi sociali circa 250 miliardi l'anno: possibile che non se ne possano risparmiare 3 per evitare l'aumento dell'Iva? Che fine ha fatto il progetto, fortemente sostenuto da Confindustria, di tagliare i sussidi alle imprese in cambio di minori tasse sul lavoro? Sono quasi 10 miliardi l'anno, come conferma un'analisi della Ragioneria generale dello Stato. Il governo dice che la ripresa dell'occupazione richiede una forte riduzione delle tasse sul lavoro. Giusto, ma bisogna capire l'ordine di grandezza. Il ministro del Lavoro Giovannini punta a una riduzione del cuneo fiscale (la differenza tra ciò che paga l'impresa e quanto va in tasca ai dipendenti) di 5 miliardi: ne servono 50 per portarlo al livello tedesco. Un governo che avesse il coraggio delle proprie convinzioni, anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse, proporrebbe a Bruxelles una riduzione immediata della pressione fiscale di 50 miliardi, accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali della spesa, e riforme coraggiose da attuare nell'arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d'anni il 3%, come in Francia. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, una ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano davvero attuati. E soprattutto, riducendo i sussidi improduttivi, liberalizzazioni, mercato del lavoro e riduzioni della spesa, si darebbe il segnale che la priorità è la crescita. Ma se la politica e il governo non hanno questo coraggio, allora ha ragione il ministro Saccomanni a mantenersi ancorato al principio del 3%. Instaurare un circolo virtuoso richiede tagli, riforme e alleggerimenti del carico fiscale che farebbero crescere Pil e occupazione, e scendere il deficit. Ma di tagli e riforme non si vede traccia. 24 settembre 2013 | 7:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Alesina e Francesco Giavazzi DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_24/numeri-deficit-taglio-tasse_bef857c4-24d7-11e3-bae9-00d7f9d1dc68.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Rilassarsi è proibito Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2013, 05:22:22 pm CONTI PUBBLICI
E ora Enrico Letta abbia coraggio e non sia democristiano Rilassarsi è proibito, anche perché il rischio di un nuovo declassamento del nostro debito è tutt’altro che scongiurato La fiducia al governo Letta ha allontanato dall’Italia alcune nubi di mercato. Lo spread è sceso sotto quota 250. E altre circostanze non sono a noi sfavorevoli. La sfida tra repubblicani e democratici americani su bilancio e debito pubblico (che ha prodotto il cosiddetto shutdown ) ha avuto l’effetto di far affluire capitali verso l’euro (1,36 ai massimi sul dollaro degli ultimi otto mesi). Ne hanno beneficiato anche i nostri Btp, i cui rendimenti sul decennale sono scesi al 4,29 per cento. Persino il tempo che Angela Merkel impiega in Germania nel costruire una grande coalizione ci appare non così diverso dalle nostre stanche ritualità. Ma rilassarsi è proibito, anche perché il rischio di un nuovo declassamento del nostro debito è tutt’altro che scongiurato. Basterebbe scendere di due gradini (tecnicamente n otc hes) perché gli investitori istituzionali, internazionali e anche italiani, si trovino nell’impossibilità di detenere o di acquistare i nostri titoli pubblici. Con le conseguenze sul costo del debito e sulla spirale fra elevata tassazione e recessione facilmente immaginabili. Il sollievo è comprensibile dopo una settimana così convulsa, la distrazione colpevole. Nei prossimi giorni il governo dovrà presentare all’Unione Europea prima e al Parlamento poi una legge di Stabilità, la vecchia finanziaria, assai difficile nell’equilibrio precario fra le attese dei partiti e la rigidità dei vincoli di bilancio. Nella discussione preparatoria che ne scaturirà, al di là degli slogan (tanti) e delle buone intenzioni (poche), sarà utile tenere conto di un’economia italiana a due facce. Il quadro complessivo è problematico ma non mancano i segni di fiducia e le aree di forza. L’Italia ha una bilancia commerciale in attivo: importiamo materie prime e tutta l’energia (gas e petrolio) che consumiamo, ma esportiamo più che a sufficienza per pagare quelle importazioni. Certo, la recessione ha ridotto le importazioni, ma non è solo questo il motivo per cui il saldo commerciale con l’estero è attivo. Le nostre esportazioni crescono (195 miliardi nel primo semestre di quest’anno, dieci in più dell’anno scorso), e non stiamo perdendo quote di mercato, nonostante le difficoltà in cui si muovono le imprese italiane e l’alto costo del lavoro dovuto alle imposte. Nel primo semestre di quest’anno le esportazioni di articoli farmaceutici sono cresciute del 13,6%, la metallurgia +9,1, gli articoli di pelletteria +7,4, prodotti alimentari e articoli di abbigliamento +5,3, gioielleria e strumenti musicali +4,5. In generale, i prodotti delle attività manifatturiere hanno mostrato un incremento dei valori esportati del 4,3%. Le aziende che esportano sono un po’ dappertutto. Rispetto al primo semestre dello scorso anno le esportazioni sono cresciute, ad esempio, del 11,3% in Puglia e del 10,7 in Toscana. Emilia-Romagna e Lombardia sono nella media, ma il Nord-Est è fermo, mentre scendono le esportazioni di Liguria, Friuli e Basilicata. Quindi ci sono due Italie. Una fatta di imprese produttive, che esportano, e che si sono ben adattate all’euro. Altre che non riescono a farlo, si sono rinchiuse nel mercato domestico, non si rinnovano a sufficienza e sopravvivono solo grazie a mille protezioni. Questa, con luci e ombre, tanti problemi ma anche tanto entusiasmo, è l’Italia fuori dal Parlamento. Possiamo chiedere a deputati e senatori di ricordarsi che questo è il Paese che sono stati eletti a rappresentare? La nostra economia si contrae, anche quest’anno di quasi il 2%. Ma questa contrazione media è il risultato di due situazioni opposte: un’Italia che cresce e un’altra che si restringe, e di molto. Per ricominciare a crescere basterebbe spostare e riorganizzare le risorse in modo da allargare un po’ lo spazio occupato dalla prima. Ma bisogna poterlo fare, e per ciò è essenziale riformare un mercato del lavoro ingessato. La Cassa integrazione, ad esempio, è un ostacolo alla riorganizzazione delle risorse: mantiene i lavoratori legati a un’impresa, anche se questa non riaprirà più, e nel frattempo non li incentiva a cercare lavoro in un’azienda più dinamica. Occorre sostituirla con sussidi alla disoccupazione basati su incentivi a cercare attivamente lavoro. Bisogna ridurre le tasse sul lavoro oggi così alte da rendere difficile per molte imprese fare quel salto di qualità che le renderebbe competitive sul mercato internazionale. Parliamo con chiarezza e credibilità all’Unione Europea chiedendo di permetterci qualche anno di flessibilità sui vincoli fiscali per facilitare queste riforme e le riduzioni graduali di spesa che le devono accompagnare. Le virtù democristiane di Letta e Alfano hanno evitato al Paese non solo un’incerta campagna elettorale ma anche un’ulteriore deriva delle sue condizioni finanziarie. Nel predisporre la legge di stabilità, l’auspicio è quello che i vecchi vizi della Prima Repubblica non si riproducano nella timidezza a tagliare le spese e nell’arrendevolezza verso lobby e corporazioni. Si è detto che in questi giorni si assiste anche a un’ideale passaggio di testimone fra una generazione e l’altra della politica. Se è vero, ciò dovrebbe avvenire con un deciso cambio di mentalità, una svolta culturale in politica economica che favorisca la competitività e il lavoro dei giovani, la lotta a sprechi e inefficienze, la riduzione sensibile di una tassazione insopportabile. Ci illudiamo? Forse. Il costo di un nuovo fallimento sarebbe molto alto e dimostrerebbe che l’età purtroppo non conta. 06 ottobre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Da – http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_06/letta-conti-non-democristiano-3345d0ec-2e57-11e3-9d21-b46496cc2a61.shtmlcorriere.it Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. - Forza, vendete (e giù le tasse) Inserito da: Admin - Novembre 05, 2013, 06:14:04 pm L’insostenibile resistenza dello stato
Forza, vendete (e giù le tasse) Ciò che ci impedisce di ridurre le tasse - aumenteranno di 1,2 miliardi di euro nel 2014 - non è il deficit, ma il debito che continua a crescere. Alla fine dell’anno raggiungerà il 133% del Prodotto interno lordo (Pil), trenta punti in più in un decennio. Nonostante i tassi siano molto bassi, oggi spendiamo 85 miliardi l’anno per gli interessi, il 5,4 per cento del Pil. Ma prima o poi i tassi aumenteranno: sia perché saliranno i tassi americani, sia perché il nostro spread si allargherebbe di nuovo se gli investitori si preoccupassero di un debito troppo elevato. È indispensabile quindi farlo scendere, allontanandoci da una soglia di guardia che preoccupa gli investitori e ci espone al rischio che un giorno i mercati possano rifiutarsi di sottoscrivere i titoli emessi dallo Stato. Ci sono due modi per ridurre il debito: tassare la ricchezza privata mediante un’imposta patrimoniale (che dovrebbe essere assai elevata per ridurre significativamente il debito), oppure ridurre lo spazio che lo Stato occupa nell’economia privatizzando imprese e vendendo immobili. A noi pare che la seconda sia la strada da seguire dato il vasto spazio che Stato e amministrazioni pubbliche occupano nella nostra economia. Si era cominciato a farlo negli anni Novanta. Poi, governo dopo governo, sia di centrodestra che di centrosinistra, si è ricaduti in un vecchio errore: illudersi che la «politica industriale», cioè dirigismo e imprese pubbliche, possano produrre crescita. Invece, come si è visto anche recentemente con i casi di Finmeccanica e Alitalia (e come accade ogni giorno in modo meno visibile in migliaia di imprese controllate da Comuni e Regioni) finiscono per generare corruzione e costare miliardi ai contribuenti. Ha ragione quindi il ministro Saccomanni a insistere con le privatizzazioni. Ma non appena si parla di privatizzare, si levano cori indignati sul «valore strategico» di questa o quell’impresa, su quanto sia essenziale che essa rimanga «italiana». E subito si ricordano i «disastri» delle privatizzazioni del passato. Spesso questi cori servono solo a proteggere una cordata di imprenditori italiani, come quelli che acquistarono Alitalia dopo che lo Stato si era accollato 3 miliardi di debiti e che, trascorsi solo cinque anni, sono falliti una seconda volta. Oppure a non disturbare il connubio tra qualche politico e qualche impresa pubblica. Guardate invece al Nuovo Pignone: venduto dallo Stato alla General Electric negli anni Novanta, il Pignone è cresciuto diventando un’eccellenza mondiale nel settore delle turbine. Merito di un’azionista intelligente, ma soprattutto di lavoratori e dirigenti di grande valore. Alla General Electric non verrebbe mai in mente di spostare altrove quell’azienda. Sarebbe stato meglio vendere Ansaldo energia alla Doosan, una grande azienda industriale sudcoreana, anziché alla Cassa depositi e prestiti, un ente pubblico che non ha alcuna esperienza nel settore dell’energia. Fra l’altro, questa non è una vera privatizzazione dato che il maggiore azionista della Cassa è lo Stato. La cessione delle quote che il ministero dell’Economia ancora possiede in Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Fincantieri, Poste Italiane, Sace, ST Microelectronics e Cassa depositi e prestiti produrrebbe circa 60 miliardi di euro. Le Ferrovie da sole, secondo alcune stime, altri 36. A questi si aggiungono le aziende pubbliche locali: Roberto Perotti e Luigi Zingales stimano il loro valore in circa 30 miliardi. Infine vi sono gli immobili, che è però molto difficile valutare e spesso ancor più difficile (ma non impossibile) vendere: secondo alcune stime il loro valore è di circa 300 miliardi. In totale il 6% del Pil dalla cessione di quote azionarie, e fino al 15% dalle cessioni immobiliari. Si cita spesso Telecom Italia come esempio di una privatizzazione fallita. Ma di chi è stata la colpa? Certamente dei privati, in primis di Roberto Colaninno, che hanno acquistato Telecom a debito e trasferito quei debiti sull’azienda, affossandola. Ma come è potuto accadere? Chi lo consentì? Il governo di allora, presieduto da Massimo D’Alema, non si chiese quali sarebbero state le conseguenze industriali dell’Opa (Offerta pubblica di acquisto). Avrebbe potuto intervenire, usando il pacchetto di azioni - piccolo ma determinante - ancora possedute dal ministero dell’Economia (perplesso sull’Opa), decise però di non farlo. Fu una scelta non priva di conseguenze (e, a posteriori, di colpe). E comunque per una Telecom finita male c’è un marchio come Pavesi risorto, una Autogrill che, acquistata dalla famiglia Benetton, è diventata il leader mondiale nella ristorazione aeroportuale. La stessa famiglia non ha avuto altrettanto successo con gli Aeroporti di Roma, una società soggetta a forte regolazione pubblica e quindi a influssi politici diretti. Un’esperienza che dimostra come in Italia il rapporto tra privati e una politica regolatrice incapace di svolgere il suo ruolo non funziona. Se davvero privatizzare è tanto difficile, rimane solo una strada per ridurre il debito: tassare i contribuenti onesti. Intanto i ricchi, preoccupati dalla possibilità che la loro ricchezza venga colpita da una patrimoniale una tantum , l’avranno già nascosta all’estero. 05 novembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_05/forza-vendete-giu-tasse-bbc34dc2-45e1-11e3-9b53-d1d90833aa3d.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. - Gli impegni vaghi sono colpe reali Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2013, 10:59:58 pm DOMANDE A LETTA, UN presidente timido
Gli impegni vaghi sono colpe reali Mercoledì Enrico Letta presenterà al Parlamento il programma per la fase 2 del suo governo. Una fase che, con sempre maggior probabilità, durerà almeno un altro anno. A sette mesi dal suo primo discorso alle Camere, impegni vaghi non bastano più. L’intervento del presidente del Consiglio in Parlamento del 29 aprile - con l’importante eccezione della promessa (poi mantenuta) di accelerare il rimborso dei debiti dello Stato verso le imprese private - era di una inaccettabile vaghezza. Sulle donne Enrico Letta disse: «La maggiore presenza delle donne nella vita economica, sociale e politica dà già straordinari contributi alla crescita del Paese, ma non siamo ancora un Paese delle pari opportunità. Occorre fare molto di più». Cioè? Il governo Monti aveva introdotto una prima differenziazione di genere nell’imposizione fiscale, consentendo alle imprese di dedurre 10.600 euro per ogni donna assunta a tempo indeterminato. Si vuole continuare su questa strada? Se sì come, con quali aliquote, sul reddito delle donne o su quello delle imprese che le assumono? Come verranno tassati i redditi familiari in modo da non scoraggiare il lavoro femminile? E sulla scuola disse: «Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza e dobbiamo ridurre il ritardo rispetto all’Europa nelle percentuali di laureati e nella dispersione scolastica» . D’accordo, ma come? Andrea Ichino e Guido Tabellini nell’ebook del Corriere «Liberiamo la scuola» propongono di dare più autonomia ai singoli istituti. Il governo dice di essere d’accordo, ma il ministro Carrozza si muove nella direzione opposta. Ad esempio, pare aver deciso di cambiare strada riguardo alla valutazione delle scuole. Lo ha fatto sfruttando l’opportunità di nominare i cinque esperti del comitato che dovrà selezionare la rosa dei candidati alla presidenza dell’Invalsi, l’Istituto che organizza la valutazione delle scuole. Le persone scelte ritengono che questi test, sebbene normalmente utilizzati in molti altri Paesi, non siano di alcun aiuto nell’individuare eventuali situazioni patologiche nel nostro sistema scolastico, anzi siano dannosi perché figli di una deriva economicistica, quantitativa e irrispettosa delle non misurabili ricchezze spirituali degli individui e della complessità del lavoro di un docente! Sarà un caso, come ha scritto Andrea Ichino sul Corriere del 6 dicembre, ma le idee dei membri che il governo ha scelto per questo comitato sono molto vicine a quelle di quei sindacati che, da un lato, vogliono una scuola pubblica gestita direttamente dallo Stato e, dall’altro, rifiutano il diritto dello stesso Stato di misurare e valutare i risultati della sua gestione. E, a proposito di scuola, vogliamo riconoscere che, se non si inizia a insegnare ai bambini che copiare è immorale, che farsi fare i compiti da genitori troppo protettivi è altrettanto sbagliato, che seguire le regole deve essere una cosa naturale e automatica, non un optional , non faremo che produrre evasori fiscali? «La società della conoscenza si costruisce sui banchi delle università» . Immaginiamo che il presidente del Consiglio volesse dire «delle buone università». Nel 2013 il Fondo unico per il funzionamento delle università è stato ridotto di 300 milioni, un taglio che verrà probabilmente confermato per il prossimo anno. Da tempo ripetiamo che il problema dei nostri atenei non è la mancanza di fondi pubblici, ma la loro cattiva distribuzione, che differenzia troppo poco fra i dipartimenti eccellenti e quelli mediocri e non meritocratici. Lo strumento per differenziare esiste: è la valutazione effettuata dal ministero lo scorso anno. Ma invece di utilizzarla, il governo si appresta a distribuire il taglio di 300 milioni su tutti, indipendentemente dai risultati. Questo perché si ritiene che anche le università peggiori debbano essere salvate. Pensa il presidente del Consiglio che ce lo possiamo permettere? Che possiamo sacrificare l’università di Padova (la migliore, secondo queste valutazioni) per salvare la peggiore, Messina? Non è forse giunto il momento di dare più autonomia alle università premiando le migliori e costringendo le peggiori a impegnarsi di più, oppure chiudere? Altrimenti, dove sta la meritocrazia tanto sbandierata da Enrico Letta? Se ci vuole più autonomia nelle scuole, a fortiori ci vuole più autonomia nelle università. Finché un professore sessantenne che da vent’anni non fa più ricerca e poco si vede nelle aule è pagato per legge più di un trentenne che potrebbe andarsene nelle migliori università americane, non diventeremo mai una «società della conoscenza». Semmai contribuiremo a costruirla altrove, come sempre più spesso i nostri bravissimi scienziati già fanno. Expo 2015, la società che dovrà gestire l’Esposizione universale di Milano, grazie a un accordo con i sindacati potrà stipulare 800 contratti di lavoro improntati a una maggiore flessibilità, in deroga alle attuali norme sul lavoro. In un tweet il presidente del Consiglio ha scritto: «Ottima intesa sul lavoro. Expo laboratorio per l’economia» . Si impegna a trasferire quel modello ai contratti nazionali? Che cosa ha in mente di preciso per il mercato del lavoro? Economisti e giuslavoristi come Olivier Blanchard del Fondo monetario internazionale o il nostro Pietro Ichino hanno proposto varie alternative su come coniugare flessibilità e protezione. Quale strada intende adottare? «Dobbiamo evitare di continuare a mettere la testa sotto la sabbia come struzzi e riconoscere che il divario tra Nord e Sud del Paese è non un accidente storico o una condanna, ma il prodotto di decenni di inadempienze da parte delle classi dirigenti nazionali e locali» . Quali proposte? Vogliamo riconoscere che il problema del Mezzogiorno deriva da decenni di assistenzialismo che ha sostituito l’impiego pubblico all’iniziativa privata? Abbia il coraggio di dire che quello del Sud non è un problema di risorse (anche quelle già stanziate spesso non vengono spese). Per ricostruire il Mezzogiorno, perché di questo si tratta, si deve ripartire dal rispetto delle regole, cominciando dalla classe dirigente. Il controllo del territorio è una delle prime e decisive condizioni per far ripartire investimenti e sviluppo. Lo spiegano con grande coraggio Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella in «Se muore il Sud». Il governo ha nominato un commissario alla Revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli, con una pluriennale esperienza al Fondo monetario internazionale, proprio nel campo dei conti pubblici. Ottima scelta. Ma nessuna impresa assumerebbe un dirigente senza assegnargli traguardi precisi. Il documento di indirizzo del governo pone un obiettivo di risparmio pari ad almeno due punti di Pil (circa 32 miliardi) entro il 2016, con tagli significativi anche nel 2014 e 2015. Che significa? Qual è l’ammontare dei tagli che il commissario deve realizzare nel 2014 e nel 2015? E il governo si impegna a sostenere le proposte del commissario? E a impiegare ogni euro risparmiato per ridurre la pressione fiscale? Di che strumenti dispone il commissario per realizzare questi tagli? Altrimenti, il suo sarà un esercizio accademico destinato, come i precedenti, a rimanere lettera morta. Le revisioni della spesa erano iniziate nel 2006 con il ministro Padoa-Schioppa, sono continuate nel governo Monti, ora ne abbiamo un’altra. Ma, appena si parla di tagliare qualcosa, ecco un’alzata di scudi che spesso parte dalla burocrazia, se non da membri dello stesso governo. Ci permettiamo un suggerimento al presidente del Consiglio: cominci a tagliare i costi della politica per dare un segnale di serietà. Il professor Roberto Perotti su www.lavoce.info stima i possibili risparmi in 2 miliardi e mezzo di euro. Se anche fossero meno, si dia un segnale forte. Perché altrimenti qualunque lobby toccata dai tagli alla spesa potrà dire in sua difesa: «Perché non si comincia dalla lobby dei politici»? E a proposito di dirigenti e manager pubblici o comunque designati dal governo, vogliamo identificarli sulla base delle loro capacità tecniche e della loro imparzialità? Si impegna il presidente del Consiglio a rivolgersi, per ogni nomina, a società internazionali di «cacciatori di teste», rendendo pubbliche le procedure? Il premier Letta parla spesso di crescita ed equità. Come intende riformare il sistema fiscale per raggiungere questo obiettivo? Ad esempio, confermerà la Tobin tax, un’imposta su alcune transazioni finanziarie e che produce poco reddito con l’unico effetto di dirottare attività finanziarie a Londra, riducendo opportunità di impiego e crescita, come sta accadendo in Francia? Vogliamo chiarire una volta per tutte come verranno tassati gli immobili? Riguardo all’equità, come vogliamo riformare il nostro sistema di sicurezza sociale in modo che promuova al tempo stesso flessibilità nel mercato del lavoro e protezione per chi lo ha perso? È pronto, il presidente del Consiglio, a sostituire la cassa integrazione - che difende i posti di lavoro, anche se in imprese improduttive - con sussidi di disoccupazione che proteggono i lavoratori, come accade quasi ovunque nel mondo? Che cosa pensa di fare il governo per la giustizia? Come intende ridurre i suoi tempi? Esistono vari studi, ad esempio di Daniela Marchesi e Andrea Ichino, che illustrano riforme a costo zero che riorganizzando il lavoro dei giudici accelererebbero significativamente i tempi di giudizio. L’Italia è in prima linea sull’immigrazione. Quest’ultima fa bene se non è clandestina e se si accolgono persone con elevato capitale umano. Molti Paesi, ad esempio Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia, hanno beneficiato enormemente di un’immigrazione ad alto capitale umano. Noi, invece di importarlo, lo esportiamo. Mercoledì Enrico Letta ci deve dare numeri, proposte precise, indicazioni concrete su quali norme varerà e come eviterà che esse si arenino nella palude istituzionale di Parlamento e burocrazia. E a proposito di concretezza gli suggeriamo dieci argomenti di riflessione. - Come intende ridurre i costi della politica, dal primo gennaio, non fra tre anni? (In giugno promise che lo avrebbe fatto entro sei mesi: scadono fra tre settimane). - Con quali mezzi combatterà l’evasione fiscale? Si impegna a tradurre ogni euro recuperato dall’evasione in riduzioni di aliquote dei contribuenti onesti? - Continuerà ad usare il fisco per favorire il lavoro femminile? - Si impegna a riconoscere che quello dell’Invalsi è stato un passo falso e conferma la strada della valutazione, utilizzandola per introdurre premi e penalità per scuole, università e insegnanti? - Quali sono gli obiettivi numerici per i tagli di spesa da attuare nel 2014 e 2015? - In che modo intende tassare gli immobili? - Confermerà la Tobin tax ? A quanto stima il gettito di questa imposta? - Quali aziende pubbliche, nazionali o locali, intende privatizzare? Con quali procedure? - Come pensa di riformare il mercato del lavoro? - Quali politiche intende seguire per l’immigrazione? Enrico Letta deve assumere impegni precisi, che consentano agli elettori, fra uno o due anni, di poter valutare il suo governo. Nessuno pretende infallibilità. Ma nel momento in cui il presidente del Consiglio chiede agli italiani più meritocrazia, anche lui deve poter essere valutato. Meglio un governo che raggiunge la metà degli obiettivi che si è posto di uno che obiettivi non ne ha e quindi può dichiararsi comunque vincitore. 08 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI da corriere.it Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. LIMITI EUROPEI, IMPEGNI ITALIANI Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2014, 05:16:21 pm LIMITI EUROPEI, IMPEGNI ITALIANI
La soluzione 3 per cento Regno Unito 13 Nel triennio 2011-2013 il Regno Unito ha ridotto la spesa pubblica di 13,8 miliardi di sterline (16,6 miliardi di euro) e aumentato le imposte di solo un miliardo (1,2 in euro). Con quali risultati? La disoccupazione ha cominciato a scendere: 7,6% nel novembre 2013, il valore più basso da tre anni in qua. E non perché lavoratori scoraggiati abbiano smesso di cercare lavoro, come succede in parte anche negli Stati Uniti: è cresciuto sia il numero di coloro che partecipano al mercato del lavoro (dal 70 al 72% nel periodo) sia il numero degli occupati: un milione in più. E ciò nonostante il numero dei dipendenti pubblici sia sceso, sempre in un triennio, di circa 400.000 unità, dimostrazione che se il mercato del lavoro funziona non necessariamente una riduzione del numero di dipendenti pubblici fa crescere la disoccupazione. E la spiegazione non può essere che il Regno Unito è fuori dall’euro e quindi ha potuto svalutare (del 15% circa): l’Irlanda è parte dell’euro e non ha potuto farlo, e ciò nonostante - grazie ad un aggiustamento attuato per lo più (76%) tagliando le spese - oggi cresce a una velocità doppia della media dell’Unione monetaria. Negli stessi anni i governi di Parigi, in particolare quello di Hollande, hanno cercato di correggere i conti pubblici operando per lo più tramite aumenti della pressione fiscale: il 70% dell’aggiustamento francese nel triennio 2011-13 è stato dovuto ad aumenti di imposte. Il risultato? La disoccupazione continua a salire: dal 9,6% nel 2011 all’11% oggi. E mentre nel resto dell’area euro (persino in Grecia) l’industria manifatturiera dà segni di riprendersi, in dicembre l’indice Pmi francese (che riflette le attese dei responsabili acquisti delle imprese nel settore manifatturiero) ha raggiunto il livello più basso da sette anni a questa parte. È con una comprensibile soddisfazione che il primo ministro inglese, David Cameron, ha scritto il 2 gennaio sul Times: «Abbiamo ripreso a crescere grazie ad una politica economica che ha voltato le spalle a chi voleva più spesa pubblica e più debito. Per convincersi di quanto avessero torto basta confrontare ciò che sta succedendo nel Regno Unito con quanto accade nei Paesi i cui governi hanno ceduto all’illusione della spesa e del debito». E in quelli, aggiungeremmo noi, che hanno aggiustato i conti solo aumentando le imposte, come Italia e Francia. Lo stesso giorno, il 2 gennaio, Matteo Renzi diceva, in un’intervista al Fatto Quotidiano: «Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme costituzionali, con un risparmio sui costi della politica da un miliardo di euro che non è solo simbolico, un Jobs Act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora in Europa ti applaudono anche se sfori il 3 per cento». Bisogna essere molto più precisi, altrimenti anche questa rischia di rivelarsi una pericolosa illusione a cui nessuno a Bruxelles crederà. Siamo stati (crediamo) i primi a proporre, il 17 maggio su questo giornale, una strategia di politica economica che contempli un nuovo negoziato con Bruxelles e un temporaneo superamento del vincolo del 3% sul deficit dei conti pubblici. Scrivevamo che anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse (come avviene da un ventennio, e continua tuttora con la legge di Stabilità di due settimane fa) il governo avrebbe dovuto proporre a Bruxelles una riduzione immediata delle imposte sul lavoro di almeno 23 miliardi (quanto necessario per portare i contributi a carico delle imprese al livello tedesco), accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali, della spesa, e riforme coraggiose, soprattutto del mercato del lavoro, da attuare nell’arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d’anni il 3%. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, una ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano davvero attuati. Riducendo i sussidi improduttivi (che valgono, fra incentivi diretti e agevolazioni fiscali qualche decina di miliardi) e avviando un piano di liberalizzazioni, si darebbe il segnale che la priorità è la crescita. E, parallelamente, le dismissioni di immobili e le privatizzazioni di cui tanto si parla, ma solo se ne parla. Per farci approvare dall’Europa un piano simile dobbiamo però presentarci a Bruxelles dopo aver approvato i tagli di spesa e con obiettivi numerici, scadenze temporali e meccanismi istituzionali che ci obblighino a farle davvero queste riforme di cui tutti parlano ma sempre attenti a non scontentare nessuno. Il problema è che finora questo non lo abbiamo saputo fare. L’irritante vaghezza e i continui rinvii di Letta e Saccomanni lo confermano. La discesa dello spread al di sotto dei 200 punti è magra soddisfazione per un Paese che dal 2007 ha perso quasi il 10 per cento di reddito. Forse la stangata fiscale del governo Monti e, soprattutto, le rassicurazioni della Bce, sono servite a calmare temporaneamente i mercati riguardo a un eventuale ripudio del debito. Ma il 133 per cento di rapporto debito su Pil, anche con tassi relativamente bassi (per ora), rimane un fardello che uccide la crescita. Dichiarare vittoria perché lo spread e sceso è un altro pessimo esempio della nostra tendenza ad adagiarci non appena ci si allontana di qualche passo dal baratro. La cattiva abitudine a rinviare sempre tutto, a parte le maggiori imposte, è la ragione della nostra scarsa credibilità in Europa. Ad esempio, dopo l’ingresso nell’euro i tassi di interesse sul nostro debito sono crollati: il debito ci costava l’11,5% del prodotto interno lordo nel 1996, questo costo è sceso sotto il 6% dopo l’ingresso nella moneta unica. Avremmo dovuto approfittarne per ridurre il peso del debito, tagliando la spesa. Non lo abbiamo fatto e abbiamo sprecato un’occasione d’oro. Invece di ridursi, la spesa pubblica al netto degli interessi è salita di più di tre punti di Pil (dal 39,6% nel 2000 al 43% nel 2003). Questi erano anni in cui l’economia (cioè il denominatore del rapporto spesa/Pil) cresceva: ma il numeratore saliva ancor più rapidamente. Quando la crescita si è fermata, il rapporto spesa su Pil è continuato ad aumentare raggiungendo il 46 per cento di oggi. Abbiamo così dimostrato che non appena ci ritorna un po’ di respiro e di tempo subito ci adagiamo: è questo che l’Europa teme. L’unico successo, e non da poco, va detto, è stata la riforma pensionistica. 05 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Alesina Francesco Giavazzi Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_gennaio_05/soluzione-3-cento-00fc8ed2-75d8-11e3-b130-d13220de9ace.shtml Titolo: ALESINA e GIAVAZZI. L’agenda economica del governo purché DICA TUTTA LA VERITA' Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 05:55:16 pm L’agenda economica del governo
Purché si dica tutta la verità Il nuovo governo dovrà dimostrare (e in tempi brevissimi) di aver chiare quali sono le priorità e di essere determinato nell’affrontarle. Se saprà farlo tranquillizzerà i mercati e potrà rinegoziare i vincoli europei. Perché una rinegoziazione è inevitabile se si vuol far ripartire la crescita. Quali siano i problemi dell’Italia lo sappiamo da tempo: un debito pubblico enorme, una recessione che sembra non finire mai, banche che prestano col contagocce, una disoccupazione soprattutto giovanile elevatissima, una tassazione asfissiante, una burocrazia che impone oneri immensi alle imprese, e infine i costi della politica. La difficoltà non è dunque individuare le cose da fare, ma metterle in fila e poi affrontarle con determinazione. La prima è annunciare stime di crescita credibili. Le previsioni del governo uscente sono più ottimiste di quelle delle organizzazioni internazionali, inclusa la Commissione europea. Il governo prevede un aumento del prodotto interno lordo (Pil) dell’1% nel 2014 e dell’1,7% nel 2015. Il consenso internazionale è 0,5% nel 2014 e poco sopra l’1% nel 2015. Da che numeri parte il nuovo governo? Le previsioni di crescita sono cruciali perché costituiscono il punto di partenza per un piano credibile di riduzione del rapporto debito-Pil. Per avviare tale riduzione è necessario compiere tre passi: ridurre la spesa pubblica e le imposte, far ripartire la crescita e vendere aziende e immobili oggi posseduti da Stato, Comuni e Regioni. Per rilanciare la crescita, servono due interventi immediati. Primo: provvedimenti per allentare la stretta creditizia. È difficile tornare a crescere se non riparte l’offerta di credito all’economia. Lo si può fare anche con l’aiuto della Bce, come spiegavamo il 9 febbraio (nell’editoriale E ora le banche non hanno scuse ). A ciò deve aggiungersi un’accelerazione del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Il governo uscente ne ha saldati 22 miliardi su circa 100: troppo pochi. Seconda cosa da fare: provvedimenti per ridare competitività alle imprese. La leva principale è una riduzione immediata e consistente del cuneo fiscale, finanziata con una combinazione di tagli di spese (immediate e future) e, se necessario, con imposte meno dannose delle tasse sul lavoro. Per portare gli oneri sociali a carico delle imprese al livello tedesco bisogna ridurli di 23 miliardi. 9-10 miliardi si possono reperire tagliando i sussidi alle imprese: 4 miliardi il primo anno, altri 5-6 nei due successivi. Un altro miliardo, o due, tagliando i costi della politica, come suggerito in uno studio di Roberto Perotti pubblicato su www.lavoce.info. I rimanenti 8 miliardi vanno reperiti dalla spending review : il commissario Cottarelli ritiene che sia un obiettivo raggiungibile già quest’anno. Altre risorse possono arrivare dalla revisione del costo di alcuni servizi (come l’università) che lo Stato offre quasi gratuitamente a tutti, indipendentemente dal reddito. Ridurre le imposte sul lavoro non basta. Bisogna anche riformare i contratti abolendo il muro invalicabile che separa chi ha un lavoro a tempo determinato da chi ne ha uno a tempo indeterminato. Qui il diavolo sta nei dettagli. La proposta giusta è quella di Pietro Ichino, che riprende un’idea degli economisti Olivier Blanchard (capo-economista del Fondo monetario internazionale) e Jean Tirole. Un contratto uguale per tutti, senza muri e con protezioni che crescono in funzione dell’anzianità sul posto di lavoro. Ad esempio: entro tre anni dall’assunzione un’impresa può licenziare liberamente, dal quarto anno in poi il licenziamento costa all’impresa una indennità (crescente con l’anzianità del contratto) e che finanzia (in parte) i contributi di disoccupazione. Va abolito il principio del reintegro obbligatorio, tranne nei casi di discriminazione. In questo modo verrebbe di fatto cancellato, per i neoassunti, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Occorre anche ridurre il peso dei contratti collettivi, e legare maggiormente il salario alla contrattazione a livello aziendale. Il segreto del successo della Germania sta principalmente nell’avere fatto questo. La riforma del mercato del lavoro è impossibile senza una revisione degli ammortizzatori sociali. Una maggiore libertà alle imprese nella gestione della forza lavoro si deve accompagnare a tutele per chi rimane temporaneamente disoccupato. La Cassa integrazione (Cig) va abolita. Per tutti coloro che perdono il posto - e con le risorse ora destinate alla Cig e ai corsi di formazione gestiti dal sindacato - va introdotto un sussidio di disoccupazione decrescente nel tempo che li costringa a cercare lavoro (con la possibilità, al massimo, di due rifiuti). Il sussidio deve essere esteso anche alle categorie oggi non coperte dalla Cassa. Infine bisogna cedere aziende pubbliche e semipubbliche. Qui le priorità sono: riscrivere da zero il progetto di apertura del capitale delle Poste e impedire che la Cassa depositi e prestiti continui ad essere usata come un salvadanaio dello Stato per false privatizzazioni (vedi Ansaldo Energia) e sprechi risorse pubbliche facendo, senza saperlo fare, il mestiere del finanziatore di startup , e cioè di nuove aziende. Ma il nuovo governo non farà nessuna di queste cose se non sostituirà radicalmente i burocrati che gestiscono i ministeri (riformando i contratti della dirigenza pubblica e allineandoli a quelli del settore privato) cominciando dalla casta dei capi di gabinetto. Per farlo ci vuole coraggio perché questi signori sono depositari di «dossier» che tengono segreti per proteggere il loro potere. Bisogna aver il coraggio di mandarli tutti in pensione. All’inizio i nuovi ministri faranno molta fatica, ma l’alternativa è non riuscire a fare nulla. 21 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_21/purche-si-dica-tutta-verita-2fdac98a-9ac2-11e3-8ea8-da6384aa5c66.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Patrimoniale? Lasciate stare Inserito da: Admin - Marzo 12, 2014, 12:00:10 pm Svantaggi e rischi di una tentazione
Patrimoniale? Lasciate stare di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Matteo Renzi, parlando di imposte sul patrimonio, due settimane fa ha detto: «C’è spazio per aumentare la tassazione delle rendite finanziarie, non sui Bot ma sulle rendite pure. Abbiamo una tassazione sulle rendite finanziarie fra le più basse in Europa, ma io dico di attendere la riforma complessiva del sistema fiscale». Il primo dubbio riguarda le «rendite pure», espressione poco chiara e vagamente populista. Il nostro sistema impositivo è un meccanismo eccessivamente complesso, ma che non si può correggere modificandone una parte come se fosse indipendente dal resto. Come d’altronde pensa anche Renzi. Una riforma complessiva della tassazione sui patrimoni andrebbe affidata ad un comitato di esperti, al quale chiedere di scrivere i decreti che due settimane fa la commissione Finanze della Camera ha delegato il governo a varare entro un anno. In tema di tassazione delle rendite finanziarie si dovrebbe adottare un sistema simile a quello in vigore in Gran Bretagna e negli Stati Uniti dove questi redditi (cedole, interessi bancari, ecc.) si sommano a quelli da lavoro formando così il totale imponibile. Questo verrà poi tassato con una progressività che riflette le scelte politiche del governo. Invece, con aliquote (ad esempio sui depositi bancari) uguali per tutti, indipendentemente dal reddito, la progressività è violata. Ma una commissione tecnica può solo suggerire la configurazione di imposte più efficiente, non quale sia il livello di pressione fiscale desiderabile, né quale sia il livello di progressività, due decisioni che spettano ovviamente alla politica. Quanto tassare dipende dal livello di spesa che il governo ritiene preferibile. E qui sta il punto. Renzi sbaglierebbe se chiedesse a ministri di spesa e funzionari dei ministeri a quanto ammontino i tagli di spesa realizzabili e poi, sulla base di questa informazione, decidesse la misura del taglio alla pressione fiscale. Così non va da nessuna parte. Funzionari e ministri gli diranno che ormai non rimane quasi più nulla da tagliare, nonostante la spesa al netto di interessi e prestazioni sociali sia pari (dati 2012, gli ultimi disponibili a consuntivo) a 351 miliardi di euro: 165 per stipendi dei dipendenti pubblici, 89 per l’acquisto di beni e servizi, 33 di trasferimenti a vario titolo alle imprese, 35 per altre attività, in cui rientra il costo delle assemblee elettive e solo 29 per investimenti pubblici. Renzi deve capovolgere il problema. Decidere di quanto vuole ridurre la pressione fiscale (ad esempio di 20 miliardi) e poi ordinare che fra quei 351 se ne trovino 20 da tagliare. Si ricomincia invece a parlare di patrimoniale. Ma se non riparte la crescita su un percorso che preveda meno e non più tasse, e se prima non si taglia la spesa, una patrimoniale straordinaria (che dovrebbe essere peraltro di notevole entità) ridurrebbe solo momentaneamente il rapporto debito-Pil (Prodotto interno lordo) per qualche anno, per ritrovarsi poi al punto di prima. Bisogna distinguere quindi tra la giusta revisione (e semplificazione) complessiva della tassazione che comporti anche una diversa imposizione sulle rendite finanziarie, e una patrimoniale una tantum . La revisione va fatta evitando per di più errori tecnici che si rischia di pagare cari. La patrimoniale invece avrebbe l’effetto di un’aspirina che fa dimenticare la vera malattia: il livello del debito e la mancanza di crescita. Nascondendone i sintomi, se va bene, per qualche anno. Purtroppo spesso le due cose (patrimoniale una tantum e revisione della tassazione sulle rendite finanziarie) più o meno intenzionalmente si confondono. Un equivoco e un errore che il governo non deve alimentare. 12 marzo 2014 | 08:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_12/patrimoniale-lasciate-stare-a7ac5620-a9b0-11e3-9476-764b3ca84ea2.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. LAVORO E TASSE da tagliare Scorciatoie... Inserito da: Admin - Marzo 18, 2014, 12:05:31 pm LAVORO E TASSE da tagliare
Scorciatoie ingannevoli di ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI Se Matteo Renzi fosse un ciclista giudicheremmo il suo inizio in questo modo. È partito, si impegna, pedala con entusiasmo, ma per ora è in pianura. Le salite devono ancora arrivare. Non è chiaro che cosa riuscirà a fare, perché con le montagne il ciclista Renzi non si è ancora cimentato. E in questa corsa ci saranno tante salite e avversari difficili. La prima è la riforma del mercato del lavoro. Renzi ha proposto varie semplificazioni dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato: bene, ma era relativamente facile. La salita arriverà quando si dovrà decidere se abolire l’articolo 18 per i nuovi assunti. Ovvero, se si vorrà adottare il modello proposto da Pietro Ichino: un contratto uguale per tutti, senza differenziazione fra lavoratori a tempo determinato e indeterminato, e che consenta alle aziende di licenziare con costi crescenti, ad esempio facendo pagare loro una quota del sussidio di disoccupazione tanto più elevata quanto maggiore era l’anzianità del lavoratore licenziato. Come osservava Maurizio Ferrera (Corriere, 14 marzo), il sussidio dovrà essere esteso a tutti, sostituire la cassa integrazione e prevedere regole chiare che costringano i disoccupati a cercare ed accettare nuovi lavori. Con più del 40 per cento di disoccupazione giovanile, e imprese che non assumono perché attanagliate dall’incertezza, questa maggior flessibilità non può che far bene all’occupazione. Limitarsi a spostare l’applicazione dell’articolo 18 al terzo anno successivo all’assunzione significa solo rinviare il problema, come notava Franco Debenedetti (Corriere, 15 marzo). La Cgil si opporrà a una vera riforma del mercato del lavoro, che pure consentirebbe a tanti giovani di uscire dall’incubo dei contratti a tempo determinato. Evidentemente i giovani interessano poco alla Cgil, i cui iscritti sono per circa una metà pensionati. Ma riuscirà Renzi a superare in questa salita la Cgil, o rimarrà indietro? Seconda salita: come finanziare la riduzione delle imposte sul lavoro e sui redditi più bassi e il sussidio di disoccupazione universale. Riuscirà Renzi a imporre tagli di spesa adeguati? Per ora non è chiaro. Il suo silenzio può voler dire due cose. Che ha ben chiaro che fare, ma non lo vuole rivelare troppo presto per non dare un vantaggio a chi si opporrebbe a qualunque taglio, in primis gli alti funzionari pubblici e i membri del suo stesso partito. Lo farà, ma senza dirlo prima, e quindi senza compromessi. L’altra ipotesi e che non sappia da che parte cominciare. Insomma, o il ciclista Renzi ha una strategia per la salita della montagna «spesa pubblica», ma strategicamente la tiene nascosta ai suoi avversari, oppure sta arrancando ed è già senza fiato. Terza salita: la tassazione delle rendite finanziarie. Renzi ha preso una scorciatoia: l’aumento dell’imposta su alcuni titoli, continuando a privilegiare i debiti dello Stato rispetto a quelli di famiglie e imprese. Ma le scorciatoie sono spesso poco lungimiranti. Come suggerivamo in un editoriale del 21 febbraio, la delega fiscale che il Parlamento ha appena approvato offre un’occasione unica per rivedere in modo complessivo il nostro sistema impositivo. Prendendo spunto dai migliori esempi esteri come Gran Bretagna e Stati Uniti. Tassare il reddito da lavoro in modo progressivo e quello da capitale in modo proporzionale (indipendentemente dall’aliquota) è ingiusto. Le montagne si scalano con metodo e determinazione. Scorciatoie e accelerate improvvise mettono solo a rischio il risultato finale. 18 marzo 2014 | 08:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_18/scorciatoie-ingannevoli-0526ee3a-ae63-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. SFORARE IL 3% SI Può. MA A PATTI CHIARI Inserito da: Admin - Aprile 06, 2014, 05:43:45 pm SFORARE IL 3% SI Può. MA A PATTI CHIARI
Tre scelte dure, avete coraggio? di ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI È evidente che la regola europea che impedisce di superare il 3% nel rapporto fra disavanzo dei conti pubblici e prodotto interno lordo (Pil) ha scarsa giustificazione economica. Come disse una volta Romano Prodi, è indubbiamente «una regola stupida». Ma questo non è un motivo sufficiente per chiedere di esserne esentati, come ha fatto nei giorni scorsi il nuovo governo francese. Nel 1998, quando l’Italia chiese di partecipare all’Unione monetaria, il nostro debito pubblico era il 113% del Pil. Fummo ammessi solo a fronte dell’impegno a dimezzarlo in tempi sufficientemente rapidi. Nel 2007, dieci anni dopo, il nostro debito era ancora superiore al 100%. Le privatizzazioni degli anni Novanta e soprattutto tassi di interesse più bassi, il maggior beneficio dell’euro, aiutarono, e non poco. Tuttavia, la spesa pubblica al netto degli interessi - il cui calo è condizione imprescindibile per ridurre stabilmente il debito - si mosse nella direzione opposta. Fra il 1999 e il 2007 aumentò di una quantità pari a due punti di Pil: dal 40,6% al 42,7%. (Ci fermiamo al 2007, l’anno precedente l’inizio della crisi, per sottolineare che quell’aumento delle spese non può essere attribuito alla crisi). Il 3% sarà anche una regola stupida, ma è l’unica forza che si oppone all’aumento delle spese, vista la nostra incapacità a contenerle. Fra il 2001 e il 2005 la Germania superò per alcuni anni la soglia del 3%. Furono gli anni delle riforme Hartz che trasformando il mercato del lavoro tedesco interruppero il lungo declino dell’economia e posero le basi per la crescita della Germania nel decennio successivo. E furono anche gli anni in cui Berlino pose le basi per una riduzione strutturale della spesa pubblica, che poi infatti scese, al netto degli interessi, di quattro punti, dal 44,5 al 40,7% del Pil. Come abbiamo più volte scritto, solo l’adozione di provvedimenti molto aggressivi per far ripartire l’economia giustificherebbe la richiesta di un’esenzione da quella regola. Quali? Tre, secondo noi. Un taglio immediato delle imposte che avvicinasse la pressione fiscale italiana al livello della Germania. Subito 50 miliardi di tasse in meno e non i 10 miliardi che il governo a fatica sta cercando di recuperare. Secondo, la contemporanea adozione di norme che, nell’arco di un triennio, riducano strutturalmente la spesa di un simile ammontare. Sappiamo bene che non è facile, ma l’Italia non si riprende senza uno choc. Infine, una riforma coraggiosa del mercato del lavoro. Supereremmo temporaneamente la soglia del 3%, ma ne varrebbe la pena e i nostri partner europei lo capirebbero. Chiedere un’esenzione dalla regola del 3% senza contropartite (come sta facendo Parigi) non solo è inutile: è controproducente, perché aumenterebbe la percezione, a Berlino e nei mercati, che ancora una volta non sappiamo mantenere gli impegni assunti. Anche una politica di piccoli passi per non sforare il 3% sarebbe miope perché così la crescita non riparte. I provvedimenti che abbiamo citato sono tutte cose che Matteo Renzi condivide. Si tratta di adottarli e dopo, solo dopo, chiedere una temporanea eccezione alle regole. 6 aprile 2014 | 09:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_06/tre-scelte-dure-avete-coraggio-af81c7aa-bd50-11e3-b2d0-9e36fa632dc6.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Una lezione allo sportello Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 06:05:09 pm Una lezione allo sportello
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi La ragione, forse la più importante, che spiega perché i Paesi dell’euro stanno impiegando tanto più tempo degli Stati Uniti ad uscire dalla crisi riguarda le banche e, in particolare, la mancanza di credito. Questo è accaduto perché, negli interventi di politica economica successivi alla crisi, abbiamo fatto le cose nell’ordine sbagliato. Abbiamo cercato di ridurre i debiti e i deficit dei conti pubblici, dimenticandoci o quasi delle banche. Ma senza credito un’economia non funziona e quindi non cresce, e senza crescita rimettere in ordine i conti è molto difficile. Una banca può fare nuovi prestiti se ha sufficiente capitale. Se lo ha perso, come è accaduto durante la crisi finanziaria e la lunga recessione che l’ha seguita, e non lo ricostituisce, non solo non farà nuovi prestiti, ridurrà anche le linee di credito concesse in passato. Il governo federale degli Stati Uniti ha prima obbligato gli istituti di credito a ricostituire il capitale perduto durante la crisi, solo dopo si è occupato della finanza pubblica. In Europa le banche sono ancora piu importanti. Negli Stati Uniti solo metà del credito alle imprese viene dalle banche (il resto direttamente dai mercati tramite azioni e obbligazioni) mentre in Europa è oltre l’80%. L’Europa quindi si sarebbe dovuta preoccupare ancor di più e ancor prima delle proprie banche. Ma non l’ha fatto e ora ne paga le conseguenze. Ricapitalizzare le banche è difficile perché il nuovo capitale riduce il valore delle azioni possedute dai vecchi azionisti, e questi, comprensibilmente, si oppongono. Il governo di Washington già nel 2009 intervenne in modo deciso: o le banche trovavano nuovo capitale oppure il governo federale sarebbe intervenuto acquistando esso stesso le loro azioni. La paura di trovarsi un funzionario del Tesoro americano nel consiglio di amministrazione (alla Goldman Sachs è successo per qualche mese) ha messo a tacere le resistenze dei vecchi azionisti. In Europa invece non è accaduto: per due motivi. Innanzitutto i vecchi azionisti delle banche, ciascuno nel proprio Paese, erano molto potenti: per esempio le fondazioni bancarie in Spagna e in Italia, i governi dei Länder in Germania. Quando hanno sottoscritto aumenti di capitale lo hanno fatto con il contagocce. Nelle scorse settimane la Federal Reserve di Washington ha imposto agli otto maggiori istituti americani un capitale pari ad almeno il 5% del totale dei loro investimenti, senza entrare nel dettaglio di quanto essi fossero rischiosi. In Europa siamo intorno al 3%. Il secondo motivo è che l’Europa non ha un governo federale come quello di Washington, capace di prevalere sugli interessi «locali». In Italia qualche segnale di cambiamento si intravede con il ritorno di interesse da parte degli investitori internazionali, americani in particolare. E qualcosa, soprattutto dopo gli interventi della Bce, si è mosso anche sul fronte della maggiore disponibilità di credito per le imprese. In qualche modo anche i recenti aumenti di capitale vanno nella giusta direzione. Ma ancora non basta. Per ricapitalizzare le banche è necessario spostare le decisioni lontano dalle capitali europee, e quindi dagli interessi che ne frenano i governi. Per questo la legge sull’Unione bancaria europea è la decisione più importante che l’Ue ha preso da quando fu introdotto l’euro. L’aspetto centrale della nuova legge - approvata una settimana fa dal Parlamento europeo, forse la prima volta che l’assemblea di Strasburgo discute e vara una legge davvero rilevante - è lo spostamento delle decisioni dai governi e dalle banche centrali dei singoli Paesi alla Bce - che diviene responsabile della vigilanza sulle 130 maggiori banche europee - e ad una nuova istituzione, il Fondo per la risoluzione delle crisi bancarie, che verrà progressivamente alimentato da contributi delle banche. La nuova legge sposta le decisioni al livello sovranazionale stabilendo che spetti alla Banca centrale europea decidere se un istituto si trovi nelle condizioni critiche previste per l’avvio delle procedure di risoluzione. La possibilità che interessi nazionali blocchino, attraverso il Consiglio europeo, le decisioni della Bce è limitata in quanto il Consiglio può intervenire solo se richiesto dalla Commissione europea - che per farlo dovrebbe opporsi a una decisione della Bce, evento assai improbabile. È quindi Francoforte che deciderà di quanto nuovo capitale una banca ha bisogno, e in che misura vecchi azionisti e creditori (esclusi i clienti i cui depositi sono garantiti fino a 100 mila euro) debbano partecipare accettando delle perdite. Non era mai accaduto che gli azionisti e i creditori di una banca potessero essere chiamati a subire le conseguenze di una cattiva gestione. Finora grazie ai loro appoggi politici si erano sempre salvati. La crisi finanziaria del 2008-2009 aveva reso palesi le tante manchevolezze insite in un’imperfetta costruzione della moneta unica, e più in generale dell’Unione Europea. Finalmente si sta riparando a uno dei guasti iniziali, anche se con notevole ritardo. Un’unione monetaria è fragile senza un’unione bancaria cosi come un mercato unico è impossibile senza un controllo europeo sulla concorrenza, una funzione che l’Europa assolve bene. Anche per quanto riguarda la finanza pubblica l’Europa e il suo Parlamento diventeranno sempre piu centrali. Ecco perché le prossime elezioni europee sono importanti e gli elettori dovranno scegliere persone oneste e preparate. Fino ad ora il Parlamento europeo ha fatto ben poco. Ora le cose potrebbero cambiare. 23 aprile 2014 | 07:31 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_23/lezione-sportello-9dc6620a-caa7-11e3-9708-d10118a39c2a.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. RENZI E LA DELUSIONE DEI FATTI Inserito da: Admin - Maggio 22, 2014, 05:18:05 pm RENZI E LA DELUSIONE DEI FATTI
Non si cresce di sole promesse Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi È bastato un piccolo numero negativo sull’andamento del Prodotto interno lordo nel primo trimestre dell’anno (meno 0,1%) per riportare indietro di due mesi le lancette dello spread. Dimostrazione di quanto sia ancora fragile la nostra economia. I problemi in realtà vengono da lontano. Gli spread, le differenze di rendimento fra i titoli di Stato della periferia europea e quelli tedeschi sono scesi, negli ultimi cinque mesi, in buona parte per effetto dello spostamento dei flussi finanziari internazionali dai Paesi emergenti verso l’Europa. Abbiamo cioè tratto beneficio dalle preoccupazioni sulla stabilità macroeconomica, in particolare di Cina, Brasile e Turchia. Ma l’esperienza insegna che gli investimenti verso quei Paesi sono spesso volatili, fatti di «stop and go », con flussi massicci, seguiti da uscite improvvise. La fuga degli investitori dai Paesi emergenti, che è stata impetuosa all’inizio dell’anno, si è ora arrestata. Anzi, vi sono segni di un ritorno di fiducia, almeno verso alcuni Paesi, come il Brasile. Non solo, ma si mormora che la fiducia concessa ai Paesi europei ad alto debito fosse eccessiva. Il ministro dell’Economia Padoan ha quindi ragione quando si dice preoccupato che la finestra di spread contenuti si possa chiudere. I segnali non mancano. Giovedì scorso eravamo a quota 178, trenta punti in più della settimana prima. Per evitare una nuova caduta nella fiducia dei mercati è quindi essenziale che dal giorno dopo le elezioni europee il governo acceleri sulle riforme promesse per cercare di aiutare l’Italia a uscire da una recessione che sembra non finire mai e che in sette anni ci ha fatto perdere il 10 per cento del reddito e un milione e centomila posti di lavoro. Finora il rapporto fra promesse e realizzazioni non è stato soddisfacente. L’Italia ha molte imprese assai produttive che esportano con successo, altre che sopravvivono boccheggiando. Abbiamo bisogno di un mercato del lavoro flessibile che permetta di riallocare la mano d’opera da un tipo di impresa all’altro. Ciò significa sostituire la cassa integrazione, che oggi lega il lavoratore all’impresa mantenendo in vita anche quelle inefficienti, con un sussidio universale che protegga i lavoratori, non i posti di lavoro, e consenta al mercato di aggiustarsi. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, arrivata in Senato a inizio aprile, apre alla possibilità di un contratto unico con tutele crescenti - e questa è una svolta importante -, ma non elimina la cassa integrazione e non spiega come verrà finanziato il sussidio universale per i disoccupati, un intervento che Tito Boeri e Pietro Garibaldi su www.lavoce.info stimano costerebbe oggi fra i 10 e 15 miliardi netti l’anno. Inoltre, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, varata la scorsa settimana, aiuterà nel breve periodo, ma potrebbe rendere più difficile il passaggio al contratto unico. Vi è ancora troppa incertezza su che cosa il governo intenda fare dal lato della spesa per permettere una riduzione significativa del cuneo fiscale. Il commissario alla spending review Carlo Cottarelli sta lavorando bene: è disposto il governo ad ascoltarlo? E, soprattutto, sono disposti il governo e la sua burocrazia non solo ad approvare una lista di tagli, ma poi a farli davvero, senza compensare con la mano destra quello che taglia la sinistra? Se l’obiettivo è ridurre le imposte sul lavoro di 20-25 miliardi nei prossimi 5 anni, certo non basta tagliare qualche auto blu e le Province (la cui abolizione è benvenuta, ma nell’immediato produrrà scarsi risparmi). Non vi è nemmeno chiarezza su che cosa il governo intenda chiedere all’Europa. Più flessibilità sul deficit per permettere una riduzione aggressiva delle imposte sul lavoro? E con quali assicurazioni su tagli di spesa graduali, ma incisivi? Senza questi ultimi l’Europa ci dirà giustamente di no. Matteo Renzi ha parlato con grande entusiasmo di riforme della Pubblica amministrazione per far risparmiare tempo e denaro a cittadini e imprese. Parole sante, ma i fatti si fanno attendere. Quali provvedimenti per ridurre i costi di «fare impresa»? E a proposito di imprese e concorrenza, anche in questo caso qualche atto simbolico, ma finora scarsi risultati. Intendiamoci, anche i simboli sono importanti. Renzi è stato coerente nel suo impegno ad abbandonare la concertazione in modo che la politica economica non sia più condizionata da sindacati e Confindustria. Pur essendo il segretario del Pd, non ha partecipato al congresso della Cgil. Poi, però, venerdì scorso il Consiglio dei ministri ha varato una privatizzazione delle Poste che pare essere fatta a pennello per i sindacati, e infatti riscuote l’applauso di Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, l’organizzazione più importante fra i lavoratori delle Poste. Una privatizzazione che sembra un regalo ai dipendenti dell’azienda, a scapito della concorrenza nel settore bancario e assicurativo. Quindi a scapito dei cittadini. Matteo Renzi sta perdendo di vista gli obiettivi più importanti. Nelle prime settimane, decine di slides e raffiche di promesse servivano per dare al governo il necessario slancio iniziale. Ma ora quella strategia rischia di dare l’impressione che il governo non sappia identificare le priorità. Occorre concentrarsi, scegliendo pochi provvedimenti chiave e portandoli in porto con una determinazione che invece si sta affievolendo. 19 maggio 2014 | 07:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_19/non-si-cresce-sole-promesse-dc7be4c2-df13-11e3-b0f4-619ff8c67c6b.shtml Titolo: ALESINA e GIAVAZZI. - Favorire la domanda privata Sgravi fiscali più coraggio Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 09:20:02 am Favorire la domanda privata
Sgravi fiscali più coraggio Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi È opinione comune, fra imprenditori, politici e alcuni economisti, che per far uscire l’Europa, e in particolare l’Italia, dalla recessione debbano ripartire gli investimenti pubblici escludendoli dal calcolo dei parametri europei sui deficit eccessivi. Riforme dal lato dell’offerta invece, come le liberalizzazioni dei mercati del lavoro e dei servizi, pur necessarie, sarebbero meno urgenti in quanto non avrebbero effetti immediati sulla crescita. È indubbio che per ricominciare a crescere debbano aumentare consumi e investimenti. Ma perché quelli pubblici? A noi pare che il modo più efficace - e anche il meno pericoloso perché non soggetto ai rischi dell’intermediazione politica e quindi della corruzione - sia cominciare dalla domanda privata tramite aggressivi sgravi fiscali per le famiglie con redditi medi e bassi. I consumi delle famiglie italiane sono ancora inferiori di circa l’8 per cento ai livelli pre crisi, mentre la spesa delle pubbliche amministrazioni, al netto degli interessi sul debito e degli investimenti, è salita rispetto al 2007 di oltre 4 punti, dal 44,1 al 48,5% del Prodotto interno lordo (Pil). Come ha evidenziato la settimana scorsa il governatore Visco, nel 2013 i consumi delle famiglie sono scesi ancor più del loro reddito al netto delle imposte, segno evidente di una crescente preoccupazione per il futuro. Più soldi permanentemente in tasca alle famiglie farebbero aumentare da subito i loro consumi. La parola «permanentemente» è però cruciale: sgravi fiscali temporanei non bastano perché verrebbero in parte risparmiati in previsione di una futura riduzione del reddito netto. Gli 80 euro di maggio sono un piccolo passo nella giusta direzione, ma il governo deve garantire che non saranno gli ultimi, e che questa riduzione di imposte sarà permanente, il che richiede che la spesa pubblica venga ridotta in modo graduale ma altrettanto continuo. Sgravi fiscali immediati, accompagnati da riduzioni progressive di spesa aiuterebbero i consumi, ma aumenterebbero temporaneamente il deficit. Poco male: questi deficit, andrebbero tollerati; non quelli generati per finanziare opere pubbliche, molte delle quali di dubbia utilità e con scarsi controlli anti corruzione, come si è visto nei casi di Expo 2015 e del Mose di Venezia. Matteo Renzi auspica invece una ripresa delle opere pubbliche per far ripartire la domanda. Bisogna distinguere. Vi sono opere già finanziate e bloccate da lentezze burocratiche. Queste devono essere accelerate, ma non sono molte. In realtà tante opere che non si realizzano sono ferme perché i finanziamenti o non ci sono o comunque non bastano. In Veneto, ad esempio, per completare le 78 opere rimaste incompiute servirebbe oltre mezzo miliardo di euro. Certo, vi sono infrastrutture che potrebbero essere finanziate dalla Banca europea per gli investimenti, alcune certamente utili, come il potenziamento della banda larga, o la creazione di una rete energetica europea. Opere davvero produttive ben vengano, soprattutto se i finanziamenti dell’Unione le mettono al riparo dall’intermediazione politica nazionale. Ma non illudiamoci che questi investimenti da soli bastino a far recuperare all’Italia altro che una piccola frazione dei milioni di posti di lavoro persi dal 2008 ad oggi. È inutile che Renzi venda le infrastrutture della sua «nuova Europa» come la risposta indolore ad una crisi così grave. Promettere soluzioni a costo zero è politicamente pericoloso perché crea brevi illusioni, seguite poi da delusioni profonde che si ritorcono contro chi ha promesso troppo e fatto poco. Certamente più domanda quindi, aiutata anche da una politica della Banca centrale europea che eviti un euro eccessivamente forte, come pure un’unione bancaria che riduca le distorsioni nel mercato del credito. Ma senza dimenticare le riforme dal lato dell’offerta. Più domanda non basta se le imprese sono preoccupate da un mercato del lavoro che non funziona, se vessate da costi burocratici elevati, se le imprese più efficienti soffrono per la protezione concessa a quelle che dovrebbero chiudere, se sono incerte sul quadro legislativo e fiscale. La produzione risponde alla domanda se c’è sufficiente flessibilità dei mercati, se le risorse si possono muovere da un settore all’altro seguendo la direzione della domanda interna ed internazionale. 5 giugno 2014 | 07:49 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_05/sgravi-fiscali-piu-coraggio-d8bc10a8-ec71-11e3-9d13-7cdece27bf31.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. I moltiplicatori della spesa Inserito da: Admin - Luglio 07, 2014, 12:25:35 am I moltiplicatori della spesa
Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Nei giorni scorsi i senatori hanno modificato la legge costituzionale che definisce i poteri del «nuovo Senato», ampliando le sue competenze sul bilancio dello Stato. Il nuovo testo rischia di aprire un perenne contenzioso fra Camera e Senato rendendo molto più difficile il controllo dei conti pubblici. L'emendamento alla legge, proposto dai due relatori, Finocchiaro (Pd) e Calderoli (Lega Nord), modifica l’articolo 81 della Costituzione là ove esso attribuisce il potere di approvare «le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni», in altre parole le leggi di bilancio. L'emendamento prevede che tali leggi «siano esaminate dal Senato della Repubblica che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione (dalla Camera). Per tali disegni di legge il Senato della Repubblica delibera a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Se il Senato propone modifiche, «la Camera, entro i successivi venti giorni, si pronuncia in via definitiva». Apparentemente vi sono quindi due protezioni: il Senato può modificare le leggi di bilancio solo votando a maggioranza assoluta, e la Camera può vararle anche se il Senato le ha bocciate. Ma si tratta di protezioni molto deboli. Il nuovo Senato dovrebbe essere composto in maggioranza da rappresentanti designati dalle Regioni. È facile prevedere che i nuovi senatori faranno gli interessi delle assemblee che li hanno designati, in modo largamente indipendente dal partito in cui militano. Nel nuovo Senato, così, ogniqualvolta vi sarà da proteggere le spese delle Regioni la maggioranza assoluta sarà pressoché automatica. Non appena il governo propone una legge di bilancio, le Regioni subito protestano sostenendo che non ricevono fondi sufficienti, in particolare per la sanità. Ciò che accadrà è che il Senato boccerà le leggi di bilancio sostenendo che esse non assegnano fondi sufficienti alle Regioni. E la Camera finirà per modificarle. Il nuovo testo della legge è quindi un significativo peggioramento della situazione attuale, in cui i senatori rappresentano i cittadini che li hanno eletti e non sono solo dei portavoce delle Regioni. Il problema è questo. La spesa delle Regioni è per lo più finanziata da tasse nazionali, pagate allo Stato. Le Regioni quindi non internalizzano i costi delle loro spese (talvolta faraoniche) appunto perché non sono responsabili delle tasse che le finanziano. È un federalismo costruito male e creatore di deficit. Il nuovo Senato formalizza e rafforza questo modello sbagliato. Certo, rimane la salvaguardia della Camera la quale, essa pure a maggioranza assoluta, può varare una legge di bilancio anche se bocciata dal Senato. Ma comunque l’emendamento Calderoli-Finocchiaro aumenterà il potere contrattuale delle Regioni e quindi la capacità di spesa di enti che sono diventati la maggior fonte di squilibrio dei conti pubblici. È infatti impensabile che anno dopo anno la Camera approvi leggi di bilancio regolarmente bocciate dal Senato. L'emendamento ha quindi creato una legge distorta, che favorisce chi deriva benefici dalla spesa senza sopportarne i costi. 6 luglio 2014 | 09:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_06/i-moltiplicatori-spesa-5f0dc59a-04d5-11e4-915b-77c91b2dfa50.shtml Titolo: Alberto ALESINA - I tempi delle riforme, l’esempio di Madrid Se parlassimo un... Inserito da: Admin - Agosto 04, 2014, 08:50:28 am I tempi delle riforme, l’esempio di Madrid
Se parlassimo un po’ spagnolo Di Alberto Alesina Nei primi mesi del suo governo, Matteo Renzi si è impegnato su due fronti. Il primo, le riforme istituzionali; l’altro, una discussione con l’Europa sulle regole di bilancio. Evidentemente queste erano, nella sua strategia, le condizioni necessarie per iniziare l’annunciata «mini rivoluzione» economica basata su meno tasse, più flessibilità, più concorrenza, meno spesa pubblica. Le due fondamenta della sua strategia stanno però franando. Nonostante i primi risultati sul Senato, in tema di riforme l’atmosfera resta tesa e la strada ancora lunga. E sull’Europa? Da queste colonne si è ripetuto spesso che quel che l’Italia avrebbe dovuto fare da tempo era presentarsi a Bruxelles con un piano preciso di riforme economiche che includessero tagli di imposte sul lavoro con una riforma strutturale del mercato sempre del lavoro, accompagnato da riduzioni di spesa. L’Europa avrebbe potuto concedere un po’ più di flessibilità sui vincoli. Invece di far questo, Renzi ha cercato con la sua simpatia di «ingraziarsi» i partner del Nord Europa promettendo di rispettare i vincoli. Ma ancora non ha ottenuto quanto voleva. Purtroppo l’economia non aspetta. Il Prodotto interno lordo (Pil) crescerà di qualche decimale dopo aver perso quasi il 10 per cento negli ultimi anni e la disoccupazione giovanile sale. Renzi ha sbagliato la sequenza delle sue mosse. Doveva partire approfittando della luna di miele della vittoria elettorale alle Europee per presentare un coraggioso piano economico, farlo approvare a colpi di voti di fiducia e poi approdare a Bruxelles forte di questo e, dati alla mano, discutere di vincoli. Con qualche concessione dall’Europa e qualche risultato sull’economia, avrebbe poi potuto affrontare le riforme istituzionali da una posizione di forza. In ottobre dovremo presentare i conti all’Unione europea. Sarà difficile rimanere sotto il 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, con la crescita che è di poco sopra lo zero. Si mormora quindi di un’ulteriore manovra in autunno. Dato che chi doveva occuparsi di tagli alla spesa (Carlo Cottarelli) pare stia per dimettersi perché nessuno lo ascolta, questa manovra, se sarà necessaria, dovrà basarsi su nuove imposte, con effetti negativi per la crescita. Renzi può quindi presentarsi a Bruxelles in queste condizioni e discutere di cifre decimali del rapporto deficit/Pil (si salveranno i famosi 80 euro?); oppure sfondare il tetto aprendo le procedure del caso e ottenere uno «sconto» dall’Europa. Ma per riuscirci senza spaventare i mercati e i partner Ue, il premier deve far partire qualche riforma. Per esempio quella del lavoro, dando a tutti il segnale che la politica economica italiana sta cambiando marcia. Certo, tutto ciò è facile a dirsi ma difficile a farsi; anche se, per esempio, la Spagna si è comportata meglio di noi sulla strada e sui tempi delle riforme. Insomma, l’economia procede a ritmi molto più veloci delle riforme costituzionali e quando un Paese naviga sull’orlo di una crisi da debito, con mercati nervosi, la velocità degli eventi si impone all’economia. Bisogna accelerare. Il tempo non è scaduto ma Renzi deve rivedere l’ordine delle sue priorità. 2 agosto 2014 | 08:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_02/se-parlassimo-po-spagnolo-ea40316a-1a07-11e4-8091-75f99d804c44.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Una terapia coraggiosa Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 06:32:10 pm TASSE SUBITO più BASSE E RIFORME CREDIBILI
Una terapia coraggiosa di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Il rallentamento della crescita in molti Paesi dell’euro (con importanti eccezioni come Spagna e Portogallo) è stato accolto con sollievo dal presidente del Consiglio, la prova che non esiste un caso Italia. Purtroppo non è così. Fatto 100 il livello del Pil (prodotto interno lordo) nel secondo trimestre del 2008, quando iniziò la crisi, il livello in Italia oggi è 91, cioè in sei anni abbiamo perso il 9 per cento del reddito nazionale, un fatto straordinario; 93 in Spagna, nonostante l’esplosione di una grande bolla immobiliare e comunque dopo anni, prima del 2008, in cui la Spagna era cresciuta a tassi del 3-4% l’anno; 101 in Francia e 104 in Germania, cioè l’economia tedesca non solo ha annullato gli effetti della crisi ma si è espansa del 4% rispetto agli anni pre-crisi. L’economia italiana invece da tre anni si contrae. Il lievissimo miglioramento registrato alla fine dell’anno scorso (+0,1 nell’ultimo trimestre) è stato subito annullato da due trimestri negativi quest’anno. Il tasso di disoccupazione è fermo sopra il 12% (e sopra il 40% quello giovanile). In Germania è il 5,1%. Che fare? Per contrastare un rallentamento generalizzato dell’economia dell’euro la soluzione migliore (come spiegato da Guido Tabellini sul Sole-24Ore del 25 luglio e come propone un numero crescente di voci) sarebbe un taglio simultaneo delle tasse in tutti i Paesi, finanziato dalla Bce, e accompagnato da corrispondenti, graduali, riduzioni di spesa. Senza l’aiuto della politica fiscale, infatti, la Banca centrale europea da sola non riuscirebbe a invertire la rotta. È possibile che Matteo Renzi, sfruttando la sua abilità politica e l’occasione della presidenza italiana dell’Ue, riesca a convincere gli altri Paesi e in primis la Germania. Ma non sarà facile. Occorre quindi predisporre una strategia alternativa. Cioè chiedersi che cosa potrebbe fare l’Italia se dovesse agire da sola. Vi sono due strategie alternative. La prima è coraggiosa: tagliare subito, e in modo permanente, le tasse sul lavoro di almeno due punti di Pil (cioè circa 33 miliardi l’anno, l’ipotesi in questo momento più ragionevole anche se si potrebbe pretendere di più) e al tempo stesso approvare tagli di spesa della medesima entità. Questo dovrebbe essere accompagnato da una liberalizzazione del mercato del lavoro (attuando il progetto del senatore Pietro Ichino) affinché la maggior domanda che si creerebbe possa produrre posti di lavoro «veri» e non solo precari perché l’articolo 18 spaventa gli imprenditori. Le idee su dove reperire risparmi di questa entità ormai abbondano. Dal lavoro del commissario Carlo Cottarelli, alle proposte di Roberto Perotti su www.lavoce.info , al rapporto consegnato due anni fa da uno di noi (F. G.) al governo Monti. Questi tagli, tuttavia, anche se venissero approvati oggi, impiegherebbero un po’ di tempo per andare a regime, un paio d’anni almeno. Ad esempio, molti sussidi alle imprese possono essere eliminati, ma non si possono cancellare contratti in atto. (Certo, se avessimo varato questi tagli due anni fa...). Con questa strategia quindi il deficit per qualche anno aumenterebbe, con la conseguenza che violeremmo le regole europee. Come farlo senza apparire i soliti italiani che non rispettano mai gli impegni? Soprattutto dopo avere annunciato con grande enfasi, solo un anno fa, quando uscimmo dalla «procedura di infrazione», che eravamo ritornati virtuosi. Dobbiamo convincere che qualcosa di importante è cambiato. C’è un solo modo: varare finalmente quelle riforme di cui da anni si parla senza mai attuarle. La prima, cui abbiamo già accennato, è la sostituzione dello Statuto dei lavoratori (norme scritte 40 anni fa per il mondo di 40 anni fa) con regole adatte ad un mercato del lavoro moderno. E poi una riforma dalla giustizia civile che dia fiducia agli investitori esteri atterriti dal fatto che in Italia ci vogliono almeno 10 anni per chiudere una causa. Certo, violare le regole significa che l’Italia tornerebbe ad essere «sorvegliata» dalla Commissione europea, come d’altronde lo è la Francia. Poco male se questo aiuterà ad accelerare le riforme. E comunque più riforme variamo prima di violare le regole, più tenue, o addirittura irrilevante, sarà la sorveglianza. Si tratta di riforme che fanno tutte parte del programma di questo governo. Renzi deve solo spendere un po’ della sua credibilità e del suo capitale politico per vararle rapidamente, così come ha fatto, sinora con successo, per la riforma della Costituzione. La strategia alternativa è cercare di rimanere all’interno del 3% nel rapporto deficit-Pil, con tagli marginali e qualche aumento nascosto della pressione fiscale, ad esempio facendo crescere le accise, e sperare che l’economia si riprenda da sola. È molto probabile che questa strategia ci regalerebbe un altro anno di crescita negativa - sarebbe il quarto consecutivo - ed è forse questo il motivo per cui le previsioni di molti osservatori peggiorano di settimana in settimana. La scelta tra queste due strategie dipende molto da come reagirebbero i mercati e dall’effetto che esse produrrebbero sullo spread e quindi sulle nostre tasse e sul costo del denaro per le imprese. Una violazione delle regole europee, senza alcun piano credibile di rientro e di riforme, spaventerebbe i mercati e farebbe alzare lo spread. D’altro canto, un altro anno di crescita negativa porterebbe il rapporto debito pubblico-Pil verso il 150%, sollevando dubbi sulla sostenibilità del nostro debito (del quale un terzo, circa 700 miliardi di euro, è posseduto da investitori internazionali). Quale strada quindi? A noi pare che la situazione sia ormai così seria che i rischi della seconda strategia, cioè non contrastare con efficacia la recessione, siano maggiori della prima. Far ripartire la crescita abbassando con coraggio le tasse è oggi la nostra priorità. Ma Renzi deve usare tutta la sua abilità politica e la sua credibilità internazionale per far sì che nessuno possa mettere in dubbio la determinazione del suo governo a riformare l’economia. 17 agosto 2014 | 09:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_17/terapia-coraggiosa-b52dfb04-25d5-11e4-9b50-a2d822bcfb19.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Italia e Ue: un incrocio favorevole Inserito da: Admin - Agosto 30, 2014, 09:19:34 am Editoriale
Italia e Ue: un incrocio favorevole Due giorni importanti: venerdì il Consiglio dei ministri italiano, sabato il vertice dell’Unione Europea. Il governo di Renzi potrebbe avere un ruolo fondamentale Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile. Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona. Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra». A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18. Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicché quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali. Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi. Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse. 29 agosto 2014 | 07:26 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_29/italia-ue-incrocio-favorevole-78b0efec-2f3a-11e4-ba33-320a35bea038.shtml Titolo: ALESINA e GIAVAZZI Renzi alla prova della verità: promesse finite il tempo ... Inserito da: Admin - Settembre 13, 2014, 06:30:15 pm Il premier
Renzi alla prova della verità: promesse finite il tempo scade Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Renzi non ha né mille, né cento giorni: servono interventi concreti di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Matteo Renzi ha avuto una buona intuizione convocando un Consiglio europeo dedicato alla crescita nella prima settimana di ottobre, alla vigilia della presentazione delle leggi di Stabilità da parte dei Paesi della Ue. In questo modo quelle leggi verranno valutate dalla Commissione europea - che deve esprimere un giudizio su ciascuna di esse - alla luce delle indicazioni che emergeranno in quella riunione. Il bollettino mensile della Banca centrale europea (Bce), diffuso ieri, sottolinea che in Italia la mancata crescita potrebbe essere, quest’anno, peggiore del previsto. Abbiamo più volte suggerito - non solo noi in realtà, ad esempio anche Guido Tabellini su Il Sole 24Ore - che per far riprendere lo sviluppo nei Paesi dell’euro sarebbe necessario un taglio delle imposte coordinato fra tutte le nazioni e finanziato tramite acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Programmi di investimenti pubblici - come i 300 miliardi di spese in infrastrutture proposti dal nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker - possono aiutare nel medio periodo ma, dati i tempi necessari per avviare questi progetti, servono a poco nell’immediato. Per far ripartire in tempi brevi la domanda c’è un solo modo: ridurre permanentemente la pressione fiscale. È però difficile che nel Consiglio di ottobre si trovi un accordo per una politica coordinata di riduzione delle imposte. La Bce, dal canto suo, nelle scorse settimane ha fatto tutto ciò che poteva senza violare il suo statuto e senza perdere la fiducia dei Paesi del Nord. Il risultato di quelle misure è stato un significativo deprezzamento dell’euro sul dollaro (da oltre 1,39 in primavera a meno di 1,29 oggi) che aiuterà le esportazioni. È difficile aspettarsi di più dalla politica monetaria. Ora tocca ai governi agire. Con il medesimo senso di urgenza che ha guidato le decisioni della Bce. Ma se non si troverà un accordo per un’azione coordinata, ciascun Paese dovrà agire da solo. Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Il presidente del Consiglio ha spiegato che le riforme vanno fatte bene, senza fretta. Ha detto che saranno necessari mille giorni per rilanciare l’Italia. Ha ragione, ma solo in parte. È vero che alcune riforme, come quella del sistema fiscale, della giustizia e della pubblica amministrazione, richiedono tempo. Ma su altre scelte che il governo è chiamato a fare, Renzi non ha né mille, né cento giorni: ha tre settimane, da oggi al Consiglio di ottobre. Non ci si può illudere che senza interventi concreti miracolosamente si riavvii la crescita. Al Consiglio europeo - a maggior ragione avendolo convocato lui - Renzi deve arrivare avendo fatto tre cose. Primo, una riduzione aggressiva delle imposte: da un lato aumentando e rendendo permanenti gli 80 euro di maggio, ed estendendo la platea di cittadini che ne beneficiano; dall’altro, riducendo le tasse sul lavoro. Un complessivo taglio della pressione fiscale pari a circa 30 miliardi. Secondo, tagli di spesa per la medesima cifra, alcuni da attuare contestualmente alla riduzione delle tasse (10 miliardi), il resto nei 2-3 anni a seguire. Nell’arco di un triennio la riduzione del carico fiscale sarà così interamente finanziata. Ridurre da subito le spese di 10 miliardi non è impossibile: si può iniziare dalle proposte del commissario Carlo Cottarelli. È un piano che porterebbe il nostro deficit oltre la soglia del 3% per un triennio. Non saremmo soli. Francia e Spagna sono già oltre quel limite: sopra il 4 la Francia, 5 la Spagna. Ma se facessimo solo questo, sfondando il limite del 3% senza fare altro, non solo saremmo soggetti alle sanzioni di Bruxelles, rischieremmo di allarmare i mercati e far ripartire lo spread. È necessario un terzo passo che dimostri come la flessibilità che chiediamo non è un modo, l’ennesimo, per evitare di fare riforme da troppo tempo già rinviate. Il capitolo da affrontare è il mercato del lavoro, perché è una delle riforme più importanti, ma anche perché è sostanzialmente pronta e serve solo la volontà politica di andare avanti. Il via libera del Parlamento alla legge-delega sul lavoro (verrà votata in commissione al Senato la settimana prossima) deve però accompagnarsi, entro l’inizio di ottobre, al varo di alcuni decreti che, disegnando le nuove norme, in primis quelle che introdurranno il «contratto unico a tutele crescenti», spieghino in che modo il governo intenda attuare la delega. Una simile strategia - riforme accompagnate da un temporaneo periodo di maggior flessibilità - ha un precedente illustre. Nel 2003, quando era la Germania «il malato d’Europa», il cancelliere tedesco Gerhard Schröder introdusse importanti riforme nel mercato del lavoro (le celebri norme Hartz) e allo stesso tempo chiese di poter superare per qualche anno il limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. Fu l’inizio della riscossa tedesca. Il presidente del Consiglio e il governo devono avere ben chiaro che a preoccupare cittadini, imprese e investitori è oggi soprattutto la mancata crescita, che è il motivo per cui il nostro rapporto debito-Pil continua a salire. Gli operatori internazionali detengono circa un terzo del nostro debito pubblico. Per continuare a farlo si aspettano un segnale forte sullo sviluppo. E loro, come il Paese, se lo aspettano subito. 12 settembre 2014 | 08:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_12/renzi-prova-verita-promesse-finite-tempo-scade-1247da4c-3a3c-11e4-8035-a6258e36319b.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Piccole misure senza ambizioni Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:26:42 pm La maledizione dei decimali
Piccole misure senza ambizioni Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi I l governo sta compiendo un errore che potrebbe costarci un altro anno (sarebbe il quarto consecutivo) di crescita negativa con conseguente, ulteriore aumento della disoccupazione. Nessun Paese industriale, almeno negli ultimi 70 anni, ha avuto una recessione tanto lunga. Se non cresciamo, il debito ( giàal 131,6% del Pil ) rischia di diventare insostenibile, almeno nella percezione degli investitori internazionali, che ne detengono oltre 600 miliardi. Se non ricominciamo rapidamente a crescere rischiamo una crisi finanziaria. La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata dal governo la scorsa settimana assume che la crescita miracolosamente aumenti di quasi un punto: dal -0,3 previsto per il 2014 a +0,6 nel 2015. L’Ocse invece prevede un misero +0,1. Da dove verrà quel mezzo punto di crescita in più? Previsioni ottimistiche sono un vecchio trucco per fare apparire più roseo il bilancio. Se la crescita non dovesse raggiungere il livello previsto dal governo anche l’obiettivo di un deficit inferiore al 3% verrebbe mancato, salvo una correzione dei conti in corso d’anno che in parole semplici vuol dire un aumento di imposte. E comunque il ministro Padoan ha detto che già nella legge di Stabilità gli ammortizzatori sociali «saranno coperti dalla spending review e da alcune misure di efficientamento delle entrate». Ecco come si sta sotto il 3%: con un aumento della pressione fiscale! Deve essere chiaro che c’è un solo modo per sperare di poter riprendere a crescere: ridurre la pressione fiscale. Abbassare le tasse sul lavoro pagate dalle imprese italiane al livello di quelle tedesche significa tagliarle di 40 miliardi. Tagliare immediatamente le spese di una cifra corrispondente non è possibile perché per ridurre la spesa serve tempo. Se solo si fosse cominciato prima! Nei prossimi due, tre anni quindi supereremmo la soglia del 3%. Se sforiamo, entreremmo nella procedura prevista per chi viola le regole europee, ma senza effetti significativi se già avessimo approvato un programma vincolante di tagli alla spesa e varato per decreto una riforma seria del mercato del lavoro. È ciò che fece la Germania nel 2003 quando Schröder varò la sua riforma del lavoro. La Francia ha annunciato per il 2015 un deficit del 4,3%, ma finora Hollande non ha fatto alcuna riforma significativa. Certo, è più facile per il ministro dell’Economia fare poco o nulla cercando di resistere sotto il 3%, magari con un aumento mascherato della pressione fiscale, e farsi applaudire nei consigli europei. Un piano complesso e innovativo di tagli di tasse, riduzioni di spesa e riforme richiederebbe un massiccio investimento di credibilità politica. Ma è l’unica via per salvare il governo di Matteo Renzi e, ciò che è più importante, l’Italia. 5 ottobre 2014 | 08:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_05/piccole-misure-senza-ambizioni-2fd87aae-4c56-11e4-8c5c-557ef01adf3d.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Legge di Stabilità non incisiva Inserito da: Admin - Novembre 16, 2014, 05:42:11 pm Legge di Stabilità non incisiva
Tante misure per così poco Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Quando presentò la legge di Stabilità, Matteo Renzi disse: «È una grande, grande, grande novità: una manovra anticiclica in un momento di difficoltà». A un mese di distanza facciamo fatica a vedere in che modo questa legge possa aiutare la crescita. Il deficit dei conti pubblici (stime della Commissione europea) sarà quest’anno il 3% del prodotto interno lordo, e scenderebbe al 2,7% l’anno prossimo. Il deficit «strutturale» (cioè depurato dal ciclo economico) rimarrebbe sostanzialmente invariato: 0,9% quest’anno, 0,8 il prossimo. La manovra quindi è a deficit costante. Ma una manovra può essere espansiva anche se, a parità di deficit, riduce le tasse sul lavoro, compensandole con tagli di spesa, soprattutto in un Paese in cui la tassazione sul lavoro è una delle cause della scarsa competitività. Nemmeno questo pare essere il caso. Nell’audizione del 4 novembre alla Camera, il ministro Padoan ha detto: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2%, nel 2015». Cioè rimane invariata. E temiamo che questo calcolo parta dall’ipotesi ottimista che le Regioni non traducano i 4 miliardi di tagli loro imposti dallo Stato in maggiori tasse locali, come alcune già stanno facendo. Che cosa c’è di «grande» e di «anticiclico» in questa manovra? Ben poco. La legge di Stabilità elimina dalla base imponibile dell’Irap il costo del lavoro per dipendenti con contratti a tempo indeterminato. Ma cancella anche la riduzione delle aliquote Irap che era stata decisa a maggio. Dal prossimo anno l’effetto netto sarà comunque una riduzione della tassa. Ma il taglio delle aliquote oggi cancellato era stato finanziato aumentando dal 20 al 26% l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale diversi dai titoli di Stato. Conclusione: l’aumento di imposte è confermato, il taglio cancellato, almeno per il 2014, quando varrà ancora la vecchia base imponibile Irap. Insomma, una legge partita con buone intenzioni si è trasformata in una manovra irrilevante per la crescita. Perché? Il problema è che l’impegno di Renzi è durato lo spazio di un mattino. Approvata la legge, e difesala a Bruxelles, il premier, anziché seguirla passo passo, se ne è disinteressato e si è occupato d’altro: di legge elettorale e di riforme istituzionali. Riformare lo Stato non è tempo perso: serve a governare meglio, anche l’economia. Ma nell’emergenza in cui ci troviamo non possiamo permettercelo: il tempo stringe, tutte le forze vanno destinate a far riprendere la crescita, altrimenti avremo un Paese magari con istituzioni migliori, ma dissanguato. 15 novembre 2014 | 07:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_15/tante-misure-cosi-poco-fb909348-6c8b-11e4-b935-2ae4967d333c.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI.C’erano una volta i tagli ... Inserito da: Admin - Novembre 24, 2014, 02:53:02 pm C’erano una volta i tagli
Spesa pubblica tentazione irresistibile Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi I primi dati sull’economia dell’eurozona nell’ultimo trimestre dell’anno non sono positivi: il 2015 potrebbe iniziare con un ulteriore rallentamento. I risultati definitivi per l’anno che si chiude saranno disponibili solo a metà febbraio, e queste previsioni vanno prese con cautela. Tuttavia le intenzioni di acquisto delle aziende dell’eurozona hanno raggiunto in novembre il livello più basso da 16 mesi in qua. Anche l’indicatore degli ordini è sceso, per la prima volta in un anno. L’indice Markit - che traduce questi dati in una previsione del Prodotto interno lordo (Pil) - vede un’eurozona che nel 2014 è rimasta sostanzialmente ferma (+ 0,1/0,2%) dopo due anni consecutivi di recessione: - 0,7% nel 2012 e -0,4% nel 2013. Per l’Italia questo significa che la straordinaria serie di 13 trimestri consecutivi di caduta del Pil potrebbe non interrompersi. Tredici trimestri! Non è mai accaduto in un Paese avanzato dalla crisi degli anni Trenta. I risvolti sociali si vedono. Nelle periferie delle grandi città si è accesa una guerra fra deboli, tra italiani impoveriti dalla recessione e immigrati. C’e poi un’altra guerra, quella fra generazioni: padri e madri protetti dai sindacati, e figli precari ignorati. La famiglia italiana compensa questa «guerra» con trasferimenti infra-familiari, con i figli disoccupati mantenuti da genitori pensionati. Ma la prossima generazione, quella dei nostri nipoti, non godrà di un tale lusso. Solo una cura drastica può interrompere questa spirale di depressione. La strada per uscire da questa recessione che pare non finire mai non sono investimenti pubblici che, se va bene, impiegherebbero un paio d’anni a produrre domanda e nel frattempo rischiano di produrre solo corruzione. Occorre abbassare in modo radicale la pressione fiscale su famiglie e imprese per aiutare i consumi e dare una boccata d’aria a chi produce. Non tranquillizza che il ministro dell’Economia, illustrando la legge di Stabilità alla Camera, abbia detto che «la pressione fiscale passerà dal 43,3% del 2014 al 43,2 nel 2015». Cioè rimarrà invariata. Contemporaneamente, per evitare che la riduzione delle tasse si traduca in un aumento permanente del debito, essa va accompagnata da un impegno formale a ridurre di altrettanto la spesa. Se questo impegno richiedesse un controllo da parte della Commissione europea, esso sia benvenuto: potrebbe solo aiutarci a resistere alle mille lobby che si oppongono ai tagli di spesa. Occorrono fantasia e determinazione nel tagliare spese non essenziali, salvando quelle che veramente garantiscono la protezione dei più deboli. Ma di tagli veri nella legge di Stabilità non c’è più che qualche miliardo. Quando critica i «burocrati di Bruxelles» Renzi ha ragione: se non fosse stato per il grido di allarme di Mario Draghi e per il suo richiamo al dramma della disoccupazione, sarebbero rimasti arroccati ai decimali del rapporto deficit-Pil. Ma la partita che Renzi ha aperto con Bruxelles è piena di insidie. Se, come ha fatto nell’ultimo vertice europeo, egli si avvicinasse troppo a Cameron e lasciasse intendere di essere anche lui pronto a rovesciare il tavolo, i mercati e gli altri Paesi europei comincerebbero a chiedersi quanto sia solido l’impegno dell’Italia a rimanere nell’unione monetaria. A quel punto sarebbe difficile criticare chi sostiene che la Banca centrale europea, qualora decidesse di acquistare titoli pubblici dei Paesi dell’eurozona, dovrebbe escludere da tali acquisti i titoli di Stato italiani. 24 novembre 2014 | 08:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_24/spesa-pubblica-tentazione-irresistibile-58d85be4-73a3-11e4-a443-fc65482eed13.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Buone notizie (dall’estero) Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2015, 05:30:04 pm Buone notizie (dall’estero)
Ripresa? Siamo ad un punto di svolta, possiamo sprecarla solo noi Intanto Bruxelles modifica le regole sui conti pubblici e riconosce che le regole devono tener conto della situazione dell’economia e aiutare i governi a fare le riforme Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Arrivano notizie dall’Europa. Alcune buone, altre meno. Cominciamo dalle seconde. La Commissione europea ha leggermente modificato le regole sui conti pubblici: rimangono sempre astruse, anzi sono più complicate di prima e i cambiamenti riguardano decimali di cui si fa fatica a capire la rilevanza macroeconomica. Ma è comunque un segnale. Bruxelles comincia a riconoscere che le regole devono tener conto della situazione dell’economia e aiutare i governi a fare le riforme. Bene anche che la maggior flessibilità non si applichi agli investimenti: i politici non si devono illudere che costruendo autostrade si faccia ripartire la crescita. La buona notizia è che la Banca centrale europea si appresta ad acquistare titoli pubblici, l’ultimo strumento che le è rimasto per evitare la deflazione. È una novità importante e positiva: fino a poche settimane fa questa ipotesi era considerata anatema da molti europei. Nel frattempo, ed è la notizia più importante, la nostra economia potrebbe aver raggiunto il punto di svolta: in novembre la produzione industriale ha ricominciato a crescere, con un rialzo dello 0,3% su ottobre, quando ancora si era fermi. Il livello rimane del 10% più basso rispetto al 2008, quindi abbiamo un mare da recuperare, ma non siamo più alla deriva. Gli interventi e gli annunci della Bce hanno già fatto svalutare l’euro rispetto al dollaro del 17% circa, da 1,4 a 1,16. Quando la Banca comincerà i suoi acquisti ci potrebbe essere un ulteriore indebolimento dell’euro. Questo favorirà le imprese esportatrici che grazie al Jobs act cominceranno ad assumere a tempo indeterminato. Ecco la risposta a chi dice che il Jobs act è controproducente. Più domanda con un’offerta bloccata da un mercato del lavoro rigido servirebbe a poco, così come una riforma del lavoro senza domanda non produrrebbe nuovi posti di lavoro. Ma la domanda estera non basta, serve anche quella interna, cioè consumi e investimenti. Ecco perché sarebbe un errore imperdonabile concludere che le nuove regole europee e i prossimi interventi della Bce ci consentano di ricominciare a dormire sonni tranquilli. Le nuove regole probabilmente ci eviteranno una manovra di correzione dei conti a metà anno, cioè un ulteriore aumento delle tasse. È già qualcosa, ma certo non ci permettono di ridurre (a parità di spesa) il peso del fisco, che non è stato scalfito dalla legge di Stabilità e che continua ad essere incompatibile con una ripresa dell’economia. Il fisco influisce sia sulla domanda, riducendo le buste paga nette, sia sull’offerta, aumentando il costo del lavoro per le imprese. Nel 2015 le tasse, seppur redistribuite per favorire le famiglie, continueranno a pesare sul Prodotto interno lordo per il 48,3%, il medesimo livello dei due anni passati. Il governo prevede che cresceranno di un altro mezzo punto nel 2016. Per ridurre la pressione fiscale vi è un solo modo: avviare seriamente, non a parole, i tagli alla spesa. Ormai non bastano più le dita di una mano per contare le spending review annunciate da vari governi. Ne sta facendo una anche il governo Renzi, ripartendo da zero. Possiamo sapere a che punto siamo? Tagliare le spese per poter ridurre le tasse sul lavoro è cruciale per due motivi. Per competere con la Germania ad armi pari dobbiamo portare le nostre imposte sul lavoro almeno al livello tedesco, e questo richiede molti miliardi di tasse in meno. Inoltre, i Paesi dell’Europa del Nord sono sempre stati restii ad allentare i vincoli fiscali e a consentire che la Bce intervenga perché temono che in questo modo i Paesi del Sud rilassino i loro programmi di risanamento fiscale e strutturale. Non dobbiamo farlo: innanzitutto perché non conviene a noi, e poi perché, se lo facessimo, potremmo dire addio a qualunque ulteriore aiuto da parte dell’Europa. Insomma, le buone notizie devono essere un trampolino per le riforme, non un poltrona su cui rilassarsi. 22 gennaio 2015 | 09:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_22/ripresa-siamo-ad-punto-svolta-possiamo-sprecarla-solo-noi-dcb2d7e4-a1fe-11e4-8580-33f724099eb6.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Che errore continuare a essere timidi Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:52:30 pm La ripresa possibile Lo spiraglio c’è
Che errore continuare a essere timidi Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi La lunga caduta della produzione industriale si è arrestata in autunno, grazie alle esportazioni, che a fine 2014 erano aumentate del 5,4 per cento rispetto a un anno prima. La crescita dell’export continuerà visto che negli ultimi tre mesi l’euro si è deprezzato rispetto al dollaro di un altro 10 per cento. Ma la domanda interna? È qui che si gioca la partita. La domanda interna privata è fatta di consumi e investimenti. Negli ultimi tre anni gli investimenti privati in macchine e attrezzature sono scesi del 18 per cento. Senza un rinnovo degli impianti le aziende non saranno in grado di far fronte ai nuovi ordini, interni o esteri che siano. Questi investimenti oggi vanno fatti e contribuiranno a sostenere la domanda interna. Tanto più con il petrolio a prezzi di saldo e il credito bancario che diventa più generoso con il «quantitative easing» della Banca centrale europea. Oggi, per la prima volta da molti anni, sembrano esserci le condizioni per ripartire. Il rischio è che non appena i dati migliorano, la spinta per le riforme venga meno. Negli ultimi tempi, per la verità, il governo ha accelerato il passo sulle riforme economiche. Da ieri il Jobs act è legge. Renzi ha giustamente tenuto duro sulla richiesta delle commissioni parlamentari che il reintegro non venisse abolito nel caso di licenziamenti collettivi, ma sarebbe stato meglio se le nuove norme si fossero applicate a tutti, non solo ai nuovi assunti. Sul decreto legge di trasformazione delle banche popolari il governo deve mettere la fiducia, altrimenti quel decreto non passerà mai perché la lobby delle popolari è fortissima in Parlamento. Questa legge renderà possibile il rafforzamento patrimoniale di banche spesso sottocapitalizzate con notevoli benefici per il credito alle imprese, soprattutto le più piccole. Il disegno di legge sulla concorrenza, presentato venerdì, ha aspetti positivi, ma il presidente del Consiglio è stato troppo timido nei confronti della politica. Per esempio, la liberalizzazione non riguarda le aziende pubbliche locali, un grande feudo dei partiti. Anche l’aver stralciato le norme sui porti, difesi da forti lobby, è un brutto segnale. Lo stesso dicasi dell’aver mantenuto il monopolio delle farmacie nella vendita dei medicinali di fascia C (quelli utilizzati per patologie di «lieve entità»), una ingiustificata concessione ad un’altra lobby, questa protetta con entusiasmo dal ministro Beatrice Lorenzin. Ma il vero tema assente nell’agenda del governo sono i tagli alla spesa. Quando allontanò l’ennesimo commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, Renzi disse che se ne sarebbe occupato in prima persona. Giusto, perché i tagli alla spesa sono una scelta politica che non può essere delegata ai tecnici. Ma finora tagli non se ne sono visti. Ridurre le spese consente di abbassare le imposte. I dati parlano chiaro: abbassare le imposte, soprattutto quelle che gravano sulle famiglie con reddito medio e medio basso e sul lavoro fa crescere i consumi molto più rapidamente che non aumenti di spesa che sono lenti a materializzarsi e nel nostro Paese spesso sono fonte di corruzione. E la velocità conta. C’è uno spiraglio di luce per il 2015. Non lo si deve perdere. Occorre dare fiducia ad un Paese che la sta perdendo. RIPRODUZIONE RISERVATA 22 febbraio 2015 | 10:39 Da - http://www.corriere.it/economia/15_febbraio_22/spiraglio-c-che-errore-continuare-essere-timidi-e7aa413c-ba6d-11e4-9133-ae48336c4c83.shtml Titolo: ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Liberalizzazioni Lo scarso coraggio di Renzi. Inserito da: Admin - Marzo 03, 2015, 07:56:40 am Liberalizzazioni
Lo scarso coraggio di Renzi Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Le norme sulla concorrenza sono fondamentali per far crescere un’economia. Senza mercati concorrenziali le imprese obsolete sopravvivono a scapito di imprese più efficienti. Uno dei motivi per cui la nostra economia è ferma da anni. Molte aziende pubbliche inefficienti, controllate dalla politica (ad esempio nella gestione dei rifiuti urbani) sopravvivono in mercati protetti. Non è consentito mettere all’asta quei servizi, affidandoli a privati con tariffe più basse. In molte regioni i treni locali sono fatiscenti, ma non si permette che siano imprenditori privati, spinti e motivati dalla concorrenza, a gestirli. Le barriere alla concorrenza danneggiano soprattutto i giovani, che non riescono a entrare in mercati protetti a favore di chi vi è già dentro. Ma diversamente dal Jobs act, che Matteo Renzi ha portato in porto magistralmente, sulla concorrenza il presidente del Consiglio si sta scontrando con la politica. O forse, speriamo di no, è lui stesso a dubitare dei benefici del mercato, cedendo ai vizi dello statalismo, come sembra voler fare nelle vicende di Rai Way e di Telecom. Un esempio è il disegno di legge (ddl) sulla concorrenza approvato il 21 febbraio dal Consiglio dei ministri. Il ddl introduce più concorrenza in molti settori, ma «dimentica» i servizi pubblici. Un caso emblematico è quello delle Autorità portuali, enti saldamente nelle mani dei politici locali (ne abbiamo 23, un po’ troppe anche per una penisola). Il ministero per lo Sviluppo economico (Mise) aveva chiesto che venisse vietato a questi enti di essere al tempo stesso regolatori dei servizi offerti al porto e fornitori degli stessi servizi: infatti nessun privato farà concorrenza a un’azienda che è posseduta da chi fissa le regole (a Venezia ad esempio l’Autorità partecipa a una società che gestisce le banchine e altri servizi portuali). Ma questa norma è stata cancellata dal Consiglio dei ministri. Non è il solo caso in cui Renzi ha ceduto. Nel campo della sanità il testo originario del Mise prevedeva l’obbligo di effettuare round periodici di accreditamento delle strutture sanitarie private (spesso vicine alla politica, come si è visto in Lombardia) in modo tale da evitare il consolidarsi di monopoli di fatto. Anche questa norma è stata stralciata. Lo stesso è accaduto per i medicinali di fascia C la cui vendita veniva liberalizzata dal testo del Mise, e che il ministro Beatrice Lorenzin (Ncd) ha bloccato. Stessa sorte è accaduta alle proposte che rimuovevano la «territorialità» delle licenze Ncc (noleggio con conducente), una regola che contrasta con la normativa europea e impedisce l’entrata di nuovi soggetti nel settore. Bocciata (dal ministro Maurizio Lupi, Ncd, un partito di centrodestra che in questa occasione per due volte ha bloccato norme favorevoli al mercato) anche la rimozione dell’obbligo per gli autisti Ncc di ritornare in rimessa tra una chiamata e l’altra, una norma, anche questa proposta dal Mise, che avrebbe aperto il mercato a servizi quali Uber. Ora il ddl concorrenza inizierà il suo percorso parlamentare. Sarebbe l’occasione per recuperare i provvedimenti cancellati all’ultimo momento e inserirne altri che erano stati «dimenticati». In realtà il rischio è che il Parlamento cancelli anche ciò che c’è di buono (e ce ne è molto) nel ddl, come accadde all’analogo provvedimento del governo Monti che partì anche meglio di questo, ma alla fine portò a casa solo l’obbligo per l’Eni di separarsi dalle attività legate al gas. Un avvertimento è venuto in questi giorni dai notai. Il disegno di legge interviene su di loro con mano leggera, consentendo anche agli avvocati di redigere atti di compravendite di immobili non abitativi di valore inferiore ai 100.000 euro. Prevede anche che sia possibile costituire una srl semplificata attraverso una semplice scrittura privata - e non necessariamente con atto notarile. I notai sono insorti, accusando il governo di spalancare le porte a mafia, camorra, corruzione, e chissà che altro... mancano solo le cavallette. 1 marzo 2015 | 09:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_01/editoriale-scarso-coraggio-renzi-alesina-giavazzi-9392d95e-bfe2-11e4-9f09-63afc7c38977.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. I rincari in agguato Fate prima la legge.. Inserito da: Admin - Marzo 23, 2015, 11:22:32 am I rincari in agguato
Fate prima la legge di Stabilità Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Nonostante tagli per circa 10 miliardi di euro nell’anno in corso, la legge di Stabilità non è riuscita a fermare la crescita della spesa pubblica. La spesa delle amministrazioni pubbliche scenderà leggermente nel 2015, da 835 a 829 miliardi di euro, per poi risalire a 850 miliardi nel 2017, una cifra sostanzialmente identica al livello di spesa (854 miliardi) che si sarebbe raggiunto se non fosse stata approvata alcuna legge di Stabilità (dati del ministero dell’Economia rielaborati da Francesco Daveri su lavoce.info). L’incapacità del governo di aggredire la spesa, che continua ad assorbire oltre la metà del reddito nazionale, è particolarmente preoccupante perché la stessa legge di Stabilità include una «clausola di salvaguardia» che si attiverebbe automaticamente qualora venissero mancati gli obiettivi di finanza pubblica. Se nelle prossime due leggi di Stabilità (per il 2016 e 2017) il governo non riuscisse a ridurre il deficit di 17-18 miliardi circa in ciascun anno, scatterebbe automaticamente un aumento dell’Iva. L’aliquota oggi al 10% salirebbe al 12 nel 2016 e al 13 l’anno successivo; l’aliquota del 22% salirebbe in due anni al 25%. Per evitarlo - escludendo il ricorso a un aumento della pressione fiscale - sono necessari tagli di spesa pari a circa 35 miliardi in due anni. Gli effetti macroeconomici di un aumento dell’Iva potrebbero essere devastanti, uccidendo sul nascere la nostra mini-ripresa. Studi sugli effetti di un aumento delle tasse (ma anche la recente esperienza del Giappone) mostrano che un rialzo delle imposte indirette, cioè dell’Iva, produce i maggiori effetti recessivi, significativamente maggiori di un corrispondente aumento delle imposte dirette, ad esempio sulla ricchezza o sul reddito, che pure sono recessivi. Al contrario, tagli di spesa, soprattutto se aggrediscono voci come i sussidi alle imprese, gli acquisti delle amministrazioni, il monte salari dei dipendenti pubblici, ma anche la spesa per infrastrutture, influiscono solo marginalmente sulla crescita, talvolta persino la accelerano perché convincono famiglie e imprese che il governo ha imboccato l’unica strada che può condurre a una riduzione permanente della pressione fiscale. Insomma, è solo tagliando la spesa che le tasse potranno scendere stimolando la ripresa. La ricetta è chiara: tagliare le spese, innanzitutto per evitare un aumento dell’Iva e poi per poter ridurre stabilmente le aliquote fiscali. Ma i tempi sono cruciali. È in atto una timida ripresa dell’attività economica, per ora sostenuta soprattutto dalla domanda di esportazioni grazie alla svalutazione dell’euro. Il momento per agire è oggi. Bisogna far sì che la ripresa si consolidi e per farlo non bastano le esportazioni. Dopo il cambiamento epocale intervenuto nel mercato del lavoro grazie al Jobs act occorre convincere famiglie e imprese che la pressione fiscale sul lavoro scenderà, non solo sui nuovi assunti, ma su tutti i lavoratori. E il solo modo per farlo credibilmente è tagliando la spesa (come si illustra ampiamente in queste pagine). Purtroppo il presidente del Consiglio, che pure ha capito subito l’importanza del Jobs act, pare far fatica a convincersi che tagliare la spesa pubblica è altrettanto importante. Dopo non aver fatto praticamente nulla nella sua prima legge di Stabilità, Matteo Renzi ha recentemente riaperto il capitolo della spending review annunciando la nomina di due nuovi responsabili, il professor Roberto Perotti e l’onorevole Yoram Gutgeld. Ma senza fretta: a due settimane dall’annuncio, la nomina formale non è ancora arrivata. Ma soprattutto i tagli che i due nuovi commissari proporranno saranno inseriti nella prossima legge di Stabilità, cioè entreranno in vigore, se tutto va bene, fra un anno. Perché bisogna aspettare tanto? Perché non si può intervenire subito e cominciare a risparmiare già nella seconda metà di quest’anno? In alcune aree, come i sussidi alle imprese, i capitoli da aggredire e le norme da cancellare sono noti da anni. Basta farlo, 35 miliardi di tagli non sono pochi: più tardi si inizia, meno probabile è ottenerli. Ridurre gli sprechi ed evitare la corruzione negli appalti pubblici è importante ma non basta se l’obiettivo è una riduzione della pressione fiscale di cui famiglie e imprese si accorgano. Occorre riflettere a fondo sul nostro sistema di welfare, che pur essendo costoso protegge poco e male i più deboli e regala invece servizi gratuiti, ad esempio nella sanità, a chi potrebbe pagarli. Anche qui non si tratta di partire da zero: basterebbe rileggere l’eccellente Rapporto della commissione presieduta da Paolo Onofri durante il primo governo Prodi, rimasta in un cassetto per quasi vent’anni. 22 marzo 2015 | 08:41 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cultura/15_marzo_22/fate-prima-legge-stabilita-96379086-d064-11e4-a378-5a688298cb88.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Ottimismo e realtà Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 04:30:33 pm Ottimismo e realtà
Lo slancio perduto del premier Di Alberto Alesina Francesco Giavazzi Matteo Renzi, dopo il varo dell’ottimo Jobs act, sembra aver perso slancio sulle riforme. Non lo si ripeterà mai abbastanza: il prossimo passo per far ripartire una crescita che non sia di pochi decimali di punto, richiede sgravi fiscali consistenti, in particolare sul lavoro. Il peso del nostro debito pubblico impone che questi tagli alle tasse possano realizzarsi soltanto se accompagnati da corrispondenti e congrue riduzioni della spesa. Su questo tema il presidente del Consiglio sta inciampando in una delle trappole cui purtroppo è spesso soggetto: l’uso di parole che indulgono al populismo, condite con un ottimismo perenne, ma combinate con pochi fatti concreti. Abbiamo ascoltato frasi come «taglierò la spesa senza ridurre i servizi offerti dallo Stato ai cittadini». Parliamoci chiaro: è impossibile. Per non dire del presunto «tesoretto» che, ancora una volta, significherebbe spesa in deficit. Ridurre la corruzione e i costi della politica è assolutamente necessario. Ma è inutile illudersi, è solo il primo passo. Certamente essenziale, purtroppo però non basta. I servizi e l’assistenza ai poveri e anche al ceto medio vanno garantiti e, in alcuni casi, ove possibile, migliorati. Ma non possiamo continuare ad offrire servizi gratuiti a chi sarebbe in grado di pagarli. Continuiamo ad offrire istruzione universitaria pressoché gratuita anche per nuclei familiari dal reddito molto elevato. O gni studente costa allo Stato circa 7 mila euro l’anno, a fronte di rette universitarie che, anche nella fascia di reddito più elevata, si aggirano, nella media nazionale, intorno ai 2 mila euro. Nelle facoltà scientifiche dell’università di Pavia, le più costose d’Italia, le famiglie con reddito più elevato pagano circa 3.500 euro, la metà del costo. La sanità è chiaramente un diritto di tutti. Ma siamo sicuri che chi dispone di guadagni consistenti debba usufruirne allo stesso costo di chi invece ha redditi bassi? È chiaro che un approccio di questo tipo - i servizi, in casi specifici, devono essere pagati almeno quanto costano - richiederebbe un ripensamento delle aliquote fiscali. Ma questo produrrebbe solo vantaggi, in quanto innescherebbe un percorso virtuoso: i cittadini avrebbero un forte incentivo ad esigere servizi di qualità. Non possiamo, inoltre, continuare a sussidiare imprenditori improduttivi. Non possiamo nemmeno più permetterci di continuare a usare l’impiego pubblico (permanente e intoccabile) per assorbire lavoratori in regioni in cui l’occupazione privata stenta a decollare. E che talvolta non decolla proprio a causa della concorrenza di impieghi pubblici a vita, pagati molto più della loro produttività. Quanto ci costa coltivare l’illusione che lo Stato azionista, in questo o quel settore, possa dimostrare «la lungimiranza della politica nell’individuare le imprese di successo» ingenerando per di più l’aspettativa che ci sarà sempre lo Stato a risolvere fallimenti privati? L’ottimismo sull’economia di Matteo Renzi è certamente utile per contrastare un diffuso disfattismo, e si basa su alcuni fatti concreti: la svalutazione dell’euro, la caduta del prezzo del petrolio, gli stimoli economici della Banca centrale europea, tassi di interesse che non sono mai stati tanto bassi. Ma un conto è l’ottimismo, un conto sono leggerezza, faciloneria e populismo. Un leader politico deve saper trasmettere l’idea di un futuro che sarà migliore, ma deve saper dire la verità ai cittadini anche quando le notizie non sono buone. Promettere che le tasse verranno ridotte, ma che i servizi si continueranno a non pagare, neppure se si è ricchi, è solo demagogia. Matteo Renzi deve fare un salto di qualità nel modo in cui si rivolge ai cittadini che meritano di essere trattati come cittadini appunto e non come perenni elettori da dover convincere. 12 aprile 2015 | 08:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_12/slancio-perduto-premier-56953d30-e0da-11e4-87d6-ad7918e16413.shtml Titolo: A. ALESINA e F. GIAVAZZI. Tagli alle imposte. Le scelte timide di Berlino Inserito da: Admin - Maggio 10, 2015, 04:25:25 pm Tagli alle imposte
Le scelte timide di Berlino Di Alberto Alesina - Francesco Giavazzi C he fare per metterci la crisi alle spalle e ricominciare a creare lavoro? Dobbiamo liberarci dal peso (e dai rischi) del debito pubblico o dobbiamo innanzitutto creare più domanda? La risposta non può essere che una: si devono fare entrambe le cose. Non è facile, ma è l’unica via di uscita. E significa incoraggiare consumi e investimenti privati a scapito di quelli pubblici, in modo da far ripartire l’economia senza aumentare il debito. È un problema europeo, non solo italiano. Nei 12 Paesi storici dell’euro il rapporto debito pubblico-Prodotto interno lordo (Pil) era, in media, il 67% nel 2007, l’anno prima della crisi. Oggi è vicino al 100%, con punte di 120 in Irlanda, 127 in Portogallo, 175 in Grecia e 135 in Italia. In realtà, dal punto di vista fiscale ci sono due gruppi di Paesi in Europa. A parte il caso specifico della Grecia, che già una volta, nel 2011, non ha rimborsato i suoi titoli, ci sono Paesi come Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda che solo quattro anni fa hanno rischiato una crisi del debito e devono tagliare urgentemente la spesa pubblica. Innanzitutto per poter ridurre le imposte, e poi perché i bassi tassi di interesse che ci sta regalando la Banca centrale europea non dureranno per sempre. In pochi giorni i tassi sui titoli decennali tedeschi sono saliti di circa mezzo punto e con essi, se pur marginalmente, lo spread sui titoli pubblici italiani, dai 90 punti di metà marzo ai 115 di venerdì scorso. L’ evidenza empirica dimostra che, soprattutto nei Paesi in cui la pressione fiscale è molto elevata, ridurre le tasse sul lavoro più che compensa i tagli di spesa, con conseguenze positive sulla crescita. Infatti, oltre agli effetti diretti sui consumi di un aumento dei salari al netto delle imposte, vanno calcolati anche gli aumenti di competitività grazie alla riduzione del costo del lavoro, e i maggiori profitti delle imprese che significano più investimenti privati. Vi sono invece Paesi, in particolare la Germania, che data la situazione dei loro conti pubblici possono permettersi politiche espansive. Il debito pubblico tedesco, dopo essere salito dal 65 all’80% del Pil durante la crisi, è oggi ritornato vicino al 70% e dall’anno scorso i conti pubblici sono in attivo. La Germania può quindi permettersi una politica di bilancio più aggressiva, per esempio riducendo le imposte senza tagliare la spesa, se non addirittura aumentando un po’ gli investimenti pubblici. È ciò che ha detto nei giorni scorsi il ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble. Ma la dimensione della manovra annunciata da Berlino è minuscola: un miliardo e mezzo di tasse in meno, lo 0,05% del Pil, appena quanto basta per mantenere la pressione fiscale invariata compensando il «drenaggio fiscale», prodotto dalla combinazione fra aumento dei prezzi e progressività delle imposte. Pur avendo il merito di rompere il tabù tedesco che le tasse non si abbassano, questa manovra non avrà alcun effetto sulla domanda aggregata né tedesca né tanto meno europea. Quando si fa loro notare che la Germania potrebbe permettersi di essere più ambiziosa, i tedeschi rispondono che la disoccupazione è scesa sotto il 5% e non c’è alcun bisogno di ulteriori politiche espansive. Vero. Ma un’espansione della domanda interna tedesca, creando un po’ di pressione sui prezzi (oggi l’inflazione è pressoché zero) ridurrebbe il surplus della bilancia commerciale - che ha raggiunto in maggio 23 miliardi di euro, un attivo pari a circa il 6% del Pil - aiutando le esportazioni degli altri Paesi dell’Unione monetaria. I tedeschi obiettano che questi squilibri non sono un problema loro: derivano dall’andamento insoddisfacente della produttività nei Paesi del Sud Europa e vanno risolti lì, non in Germania. Vero anche questo, ma se una riduzione del carico fiscale che pesa sui lavoratori tedeschi e consenta loro di spendere un po’ di più aiuta anche gli altri Paesi, a noi non pare un grosso sacrificio per la Germania. Tuttavia non dobbiamo illuderci che i nostri problemi possano essere risolti da qualcun altro, nemmeno dalla potente Germania. L’effetto sul resto dell’area euro di una politica tedesca più espansiva e quindi di una riduzione del loro surplus commerciale andrebbe nella direzione giusta, ma non è il «deus ex machina». Alla fine i problemi di competitività dei Paesi del Sud Europa si risolveranno solo con riforme nazionali. 10 maggio 2015 | 08:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_10/scelte-timide-berlino-6e87325a-f6dc-11e4-bdc6-f010dce69e19.shtml Titolo: Alberto ALESINA - Grecia, il danno non visto La crisi dell’Europa e il venir ... Inserito da: Admin - Luglio 05, 2015, 10:33:38 am L’analisi
Grecia, il danno non visto La crisi dell’Europa e il venir meno della fiducia reciproca Di Alberto Alesina La fiducia reciproca (concessa e meritata) è un fattore di straordinaria importanza per il successo di un’economia e di una nazione. Se non possiamo fidarci gli uni degli altri, contratti che beneficiano entrambe le parti non si scrivono; le istituzioni politiche funzionano male; la giustizia è travolta dai litigi, e s’inceppa; se non ci si fida gli uni degli altri e lo Stato non si fida dei cittadini (e viceversa) si devono scrivere regole complicatissime per prevenire attività deleterie sulla collettività. Spesso queste regole finiscono per creare costi senza migliorare la legalità, anzi ostacolando l’attività economica legittima e produttiva. La fiducia è la colla che tiene insieme una nazione e l’olio che fa funzionare i suoi ingranaggi. Vi è di che preoccuparsi quando in Italia uno dei motti più famosi recita: «Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio». Sono sicuro che in Svezia un detto simile non esista. Non a caso la fiducia reciproca tra connazionali è molto alta nei Paesi scandinavi, alta nei Paesi anglosassoni e molto più bassa in quelli mediterranei. Non solo, ma la fiducia tra cittadini di Paesi diversi è generalmente più bassa che tra connazionali. Non è particolarmente alta nemmeno fra i Paesi dell’area euro. Infatti, la mancanza di fiducia è, a ben vedere, il motivo fondamentale per cui la costruzione dell’euro è stata imperfetta. Due esempi tra i tanti. Una moneta unica avrebbe funzionato meglio con una politica fiscale europea più integrata. Negli Usa vari meccanismi fiscali redistribuiscono fondi tra Stati. In Europa questi meccanismi non si sono istituiti proprio perché i Paesi membri dell’euro temevano che ci sarebbero state nazioni che avrebbero approfittato di un budget europeo spendendo fondi comuni a man bassa. Secondo esempio: un’idea che circola da qualche tempo in Europa (e recentemente riproposta dalla Francia) è di istituire un sistema di sussidi alla disoccupazione a livello comunitario, finanziato da fondi europei. L’idea è economicamente irreprensibile: il secondo esempio di mutua assicurazione, cioè quando un Paese è in recessione riceve aiuti dall’Europa e viceversa, quando va meglio, aiuta gli altri. Ciò renderebbe il ciclo economico meno marcato e meno dannoso in un’area euro in cui la politica monetaria non può distinguere tra Paesi in punti diversi del ciclo. Non sarebbe un flusso di fondi che va sempre in una direzione. La Germania era il malato d’Europa negli Anni 90, quindi non è per niente detto che sempre un gruppo di Paesi vada bene e un altro male. Negli Stati Uniti i sussidi alla disoccupazione sono finanziati dal governo federale e durante l’ ultima crisi i tassi di disoccupazione erano molto diversi fra Stati. Quest’assicurazione reciproca è improponibile oggi in Europa. Nessun Paese si fiderebbe degli altri e del fatto che non ne approfittino. Immaginate poi un tedesco o un finlandese disposto a pagare con le sue tasse per la disoccupazione in Spagna, molta della quale probabilmente nasconde lavoro nero? Ecco il vero dramma della crisi greca, che, al di là del costo economico, ha dato un altro duro colpo alla fiducia reciproca in Europa. Il contagio greco più grave non è quello economico diretto sugli spread ma sulla caduta di fiducia tra il Nord («mediterranei pigri e inaffidabili») e il Sud («tedeschi rigidi e cattivi»). L’effetto più dannoso della crisi greca, comunque vada a finire, è che ha dato un altro duro colpo alla costruzione d’istituzioni europee basate su un minimo di fiducia che facciano poi funzionare la moneta unica meglio. Di questo dovremo «ringraziare» i greci, sia se rimarranno nell’euro sia se ne usciranno pagando le dure conseguenze che meritano. 3 luglio 2015 | 09:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_03/grecia-danno-non-visto-af7ca044-2141-11e5-be97-5cd583b309bb.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Crisi della Grecia, ideologie e numeri Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:35:48 pm Crisi della Grecia, ideologie e numeri
Di Albero Alesina e Francesco Giavazzi Le discussioni sul caso greco sempre più riflettono ideologia e stereotipi, un approccio che certo non aiuta a capire che cosa sia davvero accaduto. Alcuni numeri forse possono servire. Nel 1995 il reddito pro capite greco era il 66 per cento di quello tedesco. Nel 2007, l’anno prima dell’inizio della crisi finanziaria mondiale, era l’80,5 per cento (Commissione europea, Statistical Annex, primavera 2015). Un risultato straordinario - pochi Paesi riescono ad arricchirsi tanto rapidamente - e che dovrebbe imbarazzarci: nello stesso periodo l’Italia anziché guadagnare posizioni rispetto alla Germania ne ha perse, arretrando (sempre in termini di reddito pro capite) dal 95 al 90 per cento. Nei primi anni, fino al 2005, l’aumento del reddito pro capite greco è stato sostenuto da una crescita della produttività dell’economia, che aumentava di circa il 2 per cento l’anno, oltre il doppio della crescita della produttività tedesca. Tutto cambia dopo il 2005 quando la produttività inizia a scendere, perdendo mezzo punto l’anno fra il 2005 e il 2010. Maggior reddito senza un corrispondente aumento della produttività si può ottenere solo indebitandosi. E infatti fra il 2000 e il 2010, l’anno del primo salvataggio, la Grecia ha speso ogni anno (a debito) oltre il 10 per cento in più di ciò che produceva. Il risultato è che in quel periodo il debito salì dal 100 al 146 per cento del Pil. Insomma quegli anni sono stati per molti greci una grandiosa festa di consumi e di vacanze (pensionamenti a cinquantenni). Se quei prestiti fossero invece stati impiegati in investimenti produttivi, e ci fosse stata qualche liberalizzazione, oggi la Grecia sarebbe in grado di ripagarli e il reddito pro capite sarebbe ben piu alto di quello che è. Invece sono stati spesi in consumi, privati (grazie ad un’evasione fiscale endemica dei ricchi) e soprattutto pubblici. Anche le Olimpiadi del 2004 hanno contribuito, ma per una quota minore: 11 miliardi di euro, un quinto del debito contratto negli anni precedenti le Olimpiadi. E chiusi i Giochi, che nessuno obbligò la Grecia ad organizzare, il Paese ha continuato imperterrito a indebitarsi. È vero che la Grecia ha una spesa militare elevata (più dell’Italia e della Germania, ma meno di Francia e Regno Unito in rapporto al Pil), che in parte va in acquisti di materiale militare all’estero. Ma nel 2009, ad esempio, a fronte di un indebitamento complessivo di 36 miliardi di euro le importazioni di materiale militare furono (solo) 2 miliardi: un quarto dalla Germania, un quarto dalla Francia, il resto dagli Stati Uniti. Dal 2010, il costo della crisi è stato molto elevato. Il reddito pro capite, che come detto aveva raggiunto oltre l’80 per cento di quello tedesco, è oggi arretrato al 60, inferiore persino al livello del 1980, l’anno prima che la Grecia entrasse nell’Unione Europea. Sarebbe stato meglio fare default totale (non parziale come accadde) e uscire dall’euro allora? Forse, ma non lo sapremo mai con certezza. La Grecia è un’economia molto chiusa: esporta non più del 25 per cento di quanto produce contro il 30 per cento dell’Italia e il 45 per cento della Germania. La svalutazione, anche se non si fosse tradotta tutta in maggiore inflazione, avrebbe aiutato meno che altrove. Le ripercussioni finanziarie sulle banche, sul credito e quindi sull’economia di un default e di un’uscita dall’euro erano imprevedibili. Il pericolo di contagio nel 2010 era altissimo, ricordiamoci i tassi al 6-7 per cento sul debito italiano che pagavamo nel 2011. Quei tassi costrinsero il governo Monti a politiche di austerità urgenti che si tradussero (purtroppo) in un aumento di imposte. Un contagio generalizzato poteva innescare una seconda crisi finanziaria. Certo dal 2010 ad oggi la Grecia ha pagato caro i suoi errori. Ma un luogo comune (sbagliato) è che la Grecia in questi ultimi anni sia stata soffocata dal peso degli interessi sul debito. Dal 2010 al 2014 la Grecia ha continuato a ricevere dai Paesi europei, dalla Bce e dal Fondo monetario un flusso netto positivo di aiuti, cioè più denaro di quanto dovesse pagarne in interessi sul suo debito estero (Ken Rogoff e Jeremy Bulow, www.vox.eu). Solo quest’anno, dopo che Tsipras ha arrestato il processo di riforme, il flusso netto è diventato negativo. E con esso la crescita. Dopo anni di recessione la Grecia nel 2014 aveva ricominciato a crescere: quest’anno il segno è di nuovo negativo. Questi sono i numeri. Il resto è ideologia e politica. Se la Grecia geograficamente si trovasse al posto del Portogallo, anziché nel mezzo del Mediterraneo fra Siria e Turchia, sarebbe già fuori dall’euro. Conoscendo bene la geografia politica Tsipras l’ha usata per cercare di ricattare l’Europa. Gli è andata male. Se farà quanto domenica notte si è impegnato a fare è improbabile che il suo governo sopravviva. La Grecia forse sì, se un altro governo ci riuscirà. In quel piano ci sono quasi tutte le riforme che da anni il Paese avrebbe dovuto fare e non ha mai fatto, dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni (il cui ricavato verrà destinato ad un fondo speciale sotto il controllo dei creditori, in modo che i greci non possano spenderlo) alla riforma del sistema fiscale e della giustizia civile. C’è anche la promessa implicita, dei creditori, ad allungare la scadenza del debito e ridurne gli interessi, cioè a tagliarlo significativamente. Funzionerà tutto questo o tra sei mesi saremo al punto di oggi? Il risultato del referendum del 5 luglio non lascia ben sperare, ma stiamo a vedere. 14 luglio 2015 (modifica il 14 luglio 2015 | 07:21) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_14/crisi-grecia-ideologie-numeri-alesina-giavazzi-72a08a60-29e7-11e5-b455-a2526e9b2de2.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Ascoltare i cittadini non le lobby Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:37:35 am Ascoltare i cittadini non le lobby
La competitività, il disegno di legge e le resistenze alla svolta Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi La Legge sulla concorrenza prevede che ogni anno il governo, sulla base delle segnalazioni ricevute dall’Autorità Antitrust, predisponga un disegno di legge per il mercato e la concorrenza. Ad esso il governo deve allegare l’elenco dei provvedimenti segnalati dall’Antitrust, indicando quelli che non ha ritenuto opportuno far suoi. Dal 2009, anno in cui fu introdotta la Legge sulla concorrenza, il governo Renzi è il primo ad adempiervi. Il 20 febbraio scorso ha infatti varato un disegno di legge che da allora è in discussione in Parlamento, nelle commissioni Finanze e Attività produttive della Camera. Come c’era da aspettarsi, cinque mesi di discussione parlamentare hanno consentito a tutti coloro cui il disegno di legge toglieva un po’ di rendita di organizzarsi per evitarlo. In molti ci sono riusciti. Un’audizione dopo l’altra, una pressione di questa o quella lobby dopo l’altra, ben poco è rimasto. Ad una legge già timida è stato tolto quasi tutto. Si era partiti male. Dal Consiglio dei ministri di febbraio era uscito un testo incompleto, dal quale erano state stralciate alcune liberalizzazioni che invece il ministero per lo sviluppo economico (Mise) aveva incluso nella prima stesura del provvedimento. Per esempio, dalle liberalizzazioni erano state escluse le aziende pubbliche locali, noto feudo dei partiti. Un caso emblematico (come già notavamo in un articolo del 1° marzo) è quello delle Autorità portuali. Il Mise aveva chiesto che venisse loro vietato di essere al tempo stesso regolatori dei servizi offerti al porto e fornitori dei servizi stessi: infatti nessun privato farà concorrenza a un’azienda che è posseduta da chi ne fissa le regole. La norma fu cancellata. Idem per l’obbligo di effettuare accreditamenti periodici delle strutture sanitarie private in modo tale da evitare il consolidarsi di monopoli di fatto. Stralciata anche la liberalizzazione dei medicinali di fascia C (quelli utilizzati per patologie di «lieve entità»): i farmacisti manterranno quindi mantenere il monopolio sulle vendite di medicinali che potrebbero tranquillamente essere acquistati nei supermercati a prezzi inferiori. Stralciata anche la rimozione dell’obbligo per gli autisti Ncc (noleggio con conducente) di ritornare in rimessa tra una chiamata e l’altra, una norma che avrebbe aperto il mercato a servizi quali Uber - un’azienda che rappresenta il futuro del trasporto urbano, migliorando i servizi e riducendone i costi, e che sta crescendo a valanga nel mondo. È sintomatico che in India (non negli Stati Uniti!) sia in atto una battaglia non sulla regolamentazione di questi servizi ma fra due società private che si contendono il nuovo mercato. Di fronte a questa innovazione noi cosa facciamo? Le impediamo di nascere. Il Parlamento non solo non ha reintrodotto queste norme, ne ha cancellate altre. Su pressione dei carrozzieri ha eliminato alcuni articoli sui risarcimenti dell’Rc auto, scritte per rendere più difficili le frodi. Su pressione dei sindacati ha eliminato la liberalizzazione dei fondi pensione, che prevedeva la piena portabilità non solo dei contributi a carico dei lavoratori ma anche di quelli a carico del datore di lavoro (una norma che elimina Uil monopolio dei sindacati osteggiata nella gestione dei fondi pensione, una delle loto attività più importanti). La norma che consentiva di non ricorrere ad un notaio per trasferimenti di immobili di valore inferiore ai 100mila euro è stata barattata con un aumento da 7mila a 10mila del numero dei notai. Un compromesso realistico - che probabilmente salva l’affidabilità dei registri catastali, ma che è accettabile solo se il numero dei notai aumenterà davvero. Già il governo Monti aveva deliberato, nel 2012, un aumento di 1.500 unità, ma i concorsi per quei nuovi notai non si sono ancora svolti. Colpa del ministro dell’Interno che non fa i concorsi, di quei notai, che però sono ben contenti se quei concorsi non si fanno. La concorrenza non è un concetto astratto, che affascina gli economisti per deformazione professionale. Più concorrenza significa prezzi più bassi, meno rendite per i monopolisti e quindi benefici per i consumatori. Ricordate quando c’era il monopolio delle linee aeree nazionali? I voli all’interno dell’Europa (per non parlare di quelli extraeuropei) erano di fatto riservati ai ricchi. Oggi, dopo la liberalizzazione, i nostri figli visitano l’Europa (e il mondo) a prezzi con cui noi da Milano visitavamo al massimo la Lombardia. O i tempi del monopolio sulla telefonia, quando ci volevano sei mesi per installare una linea e le telefonate all’estero andavano centellinate perché costavano moltissimo? Anche con il grande progresso tecnologico avvenuto nel campo della telefonia le cose non sarebbero cambiate di molto se fosse sopravvissuto il monopolio. Oggi invece, grazie alla privatizzazione di Telecom e ai molti operatori nati per effetto della concorrenza, possiamo telefonare a prezzi stracciati ai nostri figli che girano il mondo con le tariffe aeree low cost e usano Uber (all’estero). Il governo non sembra capire l’importanza della concorrenza. O meglio, forse la capisce ma non sa dire di no alle lobby che di concorrenza non vogliono sentir parlare. Infatti, prima stralcia provvedimenti importanti che un suo ministro aveva proposto, poi lascia che il Parlamento faccia il resto. Matteo Renzi dovrebbe chiudere la discussione con un emendamento che reintroduca le norme stralciate e blocchi ulteriori interventi in Parlamento che altro non fanno se non assecondare i diktat delle lobby. Inoltre, dato che una legge sulla concorrenza va fatta ogni anno, sarebbe opportuno che il governo si impegnasse fin da oggi a presentare la Legge sulla concorrenza del 2016 e, in quell’occasione, a rivedere tutte le manchevolezze di quella oggi in discussione. Nuove tecnologie, nuove idee, nuovi mercati nascono con sempre maggiore frequenza: è importante che vari monopolisti non se ne approprino in modo indebito. La prossima legge sulla concorrenza dovrebbe introdurre un «diritto a innovare»: imprese che aprono nuovi mercati non possono nascere se debbono soggiacere a norme scritte prima che quei mercati esistessero. Il governo potrebbe prendere esempio dalla California, il luogo in cui c’è più innovazione al mondo. Quando si apre un nuovo mercato, o viene introdotta una nuova tecnologia, le autorità della California ridisegnano la regolamentazione insieme alle nuove imprese, bilanciando i vantaggi dell’innovazione con la tutela dei cittadini. 4 agosto 2015 (modifica il 4 agosto 2015 | 07:30) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_04/ascoltare-cittadini-non-lobby-b5e3d40a-3a66-11e5-8bd9-fe8cdeda281d.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Immigrati, la lezione americana Inserito da: Admin - Settembre 15, 2015, 05:29:58 pm Immigrati, la lezione americana
Con un’economia che cresce è molto più facile sostenere la coesione sociale, che invece si perde quando le risorse non crescono e debbono essere spartite fra più persone Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Fra vent’anni, guardando le foto dell’arrivo dei profughi siriani a Monaco, accolti dall’Inno alla Gioia, della colonna di automobili austriache che trasportano altri profughi verso la Germania, della nostra Marina che ha salvato migliaia di persone nel Mediterraneo, penseremo che quello fu il momento in cui nacque l’Europa multietnica. Come gli Stati Uniti sono una società di immigrati (più o meno recenti), così, piaccia o no, diventerà l’Europa. Al di là del problema dei profughi di guerra, l’Europa attira centinaia di milioni di potenziali immigrati che vivono vicinissimi ai suoi confini, per lo più con livelli di reddito infinitamente più bassi del nostro. Costruire, intorno all’Europa una muraglia, figurativa se non reale, è impossibile: non fermerebbe il flusso, avrebbe solo l’effetto di selezionare i più disperati. Controlli e selezione sì, non muri. Che cosa ci insegnano gli Stati Uniti? Prima lezione: dal punto di vista economico una società multietnica può funzionare assai bene. Diversità di formazione, cultura, punti di vista, abilità, stimolano l’innovazione e la produttività. Questo vale soprattutto per immigrati con un livello di istruzione relativamente alto, ma non solo. In Italia, per esempio, le «badanti» straniere hanno risolto l’assistenza agli anziani, un problema sempre più centrale nelle nostre vite. Inoltre il livello di istruzione di una popolazione può aumentare, anche rapidamente, con adeguati investimenti in capitale umano, cioè nella scuola e nell’università. Investimenti che sono certamente più utili di quelli in ponti o autostrade, come dimostra lo straordinario successo della Corea del Sud. Questo non significa, o non solo, più soldi pubblici: è soprattutto una questione di organizzazione e di merito, come scrivono da tempo Roger Abravanel e Roberto Perotti. La seconda lezione è che la generosità (quella privata, ma anche il welfare pubblico) funziona molto meglio fra persone della stessa nazionalità e cultura. Cioè, siamo più disposti a pagare tasse anche elevate per un welfare generoso (e talvolta sprecone) verso i nostri concittadini nati qui; molto meno se percepiamo che del welfare beneficiano anche gli immigrati (che peraltro pagano anch’essi le tasse). Ci sono due modi per affrontare questo problema: uno è ridimensionare lo stato sociale, limitandolo alle funzioni di base, cancellando i benefici per chi non ne ha bisogno, eliminando privilegi e sprechi, cose che dovremo fare comunque - fra l’altro in Paesi come Italia e Germania che stanno invecchiando rapidamente, un flusso di immigrati giovani renderebbe il nostro welfare più sostenibile. L’altra risposta, odiosa, è discriminare fra nativi ed immigrati, una strada non percorribile, né moralmente, né praticamente. Infine, i conflitti etnici diventano possibili, per quanto si faccia per evitarli. In Europa potremmo assistere alla crescita di partiti xenofobi, cui potrebbero opporsi partiti etnici, cioè gruppi politici interessati solo a promuovere gli interessi degli immigrati, di questa o quella nazionalità. Ciò renderebbe ingestibile non solo la politica dell’immigrazione ma anche la politica tout court. Un rischio tanto maggiore quanto più marcate sono le differenze culturali e religiose tra nativi e immigrati. Come affrontare l’immigrazione, non solo quella con cui ci confrontiamo oggi, prodotta dalla crisi profughi, sarà il problema di gran lunga più difficile che l’Europa e l’Italia dovranno affrontare nei prossimi anni. Non illudiamoci: come insegna l’esperienza americana sarà una strada piena di ostacoli, con passi avanti e fallimenti. Dobbiamo riuscire ad attrarre non solo individui con basso livello di capitale umano, ma anche persone più istruite e produttive. Ma non arriveranno solo immigrati con molti anni di istruzione alle spalle. Dovremo quindi fare uno sforzo per inserire loro e i loro figli nella scuola e nelle università in modo da aumentarne rapidamente il capitale umano. Dagli immigrati dobbiamo esigere il rispetto assoluto delle leggi: Germania, Gran Bretagna e Svezia, i Paesi europei che hanno le più ampie popolazioni immigrate (8% della popolazione in Germania e Gran Bretagna, 10 per cento in Svezia, a fronte del nostro 6 per cento) ci riescono. Tutto ciò è molto più facile in un Paese che cresce e che ha un bilancio pubblico in attivo, come la Germania. Ecco un altro motivo per cui far ripartire l’economia è fondamentale. Con un’economia che cresce è molto più facile sostenere la coesione sociale, che invece si perde quando le risorse non crescono e debbono essere spartite fra più persone. 13 settembre 2015 (modifica il 13 settembre 2015 | 07:20) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_13/immigrati-lezione-americana-editoriale-dabcf5ac-59d5-11e5-b420-c9ba68e5c126.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Il segnale che manca sui conti Inserito da: Arlecchino - Settembre 28, 2015, 07:53:17 pm Un piano pluriennale
Il segnale che manca sui conti Legge di Stabilità, serve un piano pluriennale di riduzione della pressione fiscale accompagnato da un programma di tagli alla spesa che riporti al pareggio di bilancio Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Abbiamo studiato (in alcuni lavori scritti con il nostro collega Carlo Favero) le leggi di bilancio dei maggiori Paesi industriali negli ultimi trent’anni. L’Italia salta all’occhio per la scarsa persistenza delle correzioni attuate ai nostri conti pubblici. Ovvero, le misure avviate con una legge di Stabilità vengono spesso abbandonate, se non addirittura capovolte da quelle successive. Non è così in altri Paesi. All’estremo opposto troviamo il Canada, un Paese in cui le correzioni ai conti pubblici si protraggono a lungo nel tempo. All’inizio degli anni 90, ad esempio, il Canada avviò un percorso di riduzione della spesa pubblica durato ininterrottamente per sette anni, sotto due diversi governi: i conservatori prima - che dopo aver annunciato il programma di tagli, facendone il perno della loro piattaforma elettorale, vinsero le elezioni - e in seguito i liberali che continuarono con le medesime politiche. In quegli anni, nonostante i tagli alla spesa, l’economia continuò a crescere e il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo (Pil) scese dal 70 a meno del 50 per cento. Lo «stile» delle leggi di Stabilità italiane è molto diverso. E ciò non solo per effetto dei numerosi condoni, che sono per loro natura correzioni temporanee dei conti pubblici. Lo stesso è accaduto nella prima parte del decennio scorso, dopo lo sforzo per soddisfare i parametri di Maastricht ed entrare nell’Unione monetaria. Nel 2000 avevamo, al netto degli interessi, un avanzo (entrate meno uscite senza tenere conto degli interessi sul debito) pari al 5,5% del Pil. Nel 2006 quell’avanzo primario era sostanzialmente scomparso (si era ridotto allo 0,3%) soprattutto per effetto dell’aumento della spesa pubblica. Queste politiche di stop and go creano confusione e incertezza, il contrario di ciò che serve per indurre le imprese a investire e le famiglie a consumare (si pensi all’effetto dei successivi cambiamenti di direzione nella tassazione delle case). Non solo. Senza un piano articolato su un orizzonte pluriennale, credibile e poi realizzato puntualmente, si finisce per decidere all’ultimo momento, spesso incalzati da un’elezione alle porte o dall’emergenza economica. Così si prendono le decisioni più facili: si aumentano le tasse invece che tagliare la spesa. Accadde al governo Monti nell’affanno dell’emergenza. Poi, non appena la crisi finisce, si ritorna subito alla normalità, fatta di spesa rilassata e misure populiste, come l’abolizione della tassa sulla prima casa, dettate più da giochi di strategia politica che da sane regole di finanza pubblica. La legge di Stabilità che il governo si appresta a varare deve dare un segno profondamente diverso. Serve un piano pluriennale di riduzione della pressione fiscale accompagnato da un programma pluriennale e dettagliato di tagli alla spesa che riporti al pareggio di bilancio. Nulla di male se nel frattempo il deficit un po’ cresce, purché la maggior flessibilità venga usata per ridurre le tasse sul lavoro, e quindi aiutare crescita e occupazione, non per abolire le tasse sulla casa i cui effetti su crescita e occupazione sono tutti da dimostrare. Vi sono due modi per ridurre le imposte alla maggioranza dei cittadini. Il primo, consiste nel tagliare le spese. L’alternativa è l’eliminazione delle agevolazioni fiscali e la loro sostituzione con aliquote più basse per tutti. Le agevolazioni fiscali sono sgravi di imposte per questo o quel settore, questa o quell’azienda, questa o quella comunità. Si tratta di misure, quasi sempre dovute più a favori politici che a necessità economiche e che favoriscono alcuni a scapito di altri. Ad esempio: il regime privilegiato delle cooperative ci costa, in termini di mancato gettito, 300 milioni l’anno (dati della Ragioneria generale dello Stato); l’accisa ridotta sul gasolio impiegato per l’autotrasporto di merci e passeggeri (inclusi i taxi) un miliardo e mezzo; altrettanto la speciale accisa sul carburante degli aerei; 640 milioni quella sulla navigazione nelle acque interne, e così via. Ma affinché l’eliminazione di queste e tante altre agevolazioni (quattro anni fa il gruppo di lavoro presieduto da Vieri Ceriani ne individuò 720) non si traduca in un aumento della pressione fiscale, un simile provvedimento deve essere accompagnato da un’equivalente taglio alle aliquote per tutti i cittadini. Il governo sembrava avviato su questa strada, ma ancora una volta pare prevalga il rinvio. 26 settembre 2015 (modifica il 26 settembre 2015 | 07:05) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_26/governo-legge-stabilita-segnale-manca-conti-piano-pluriennale-3df74480-640b-11e5-a4ea-e1b331475bf0.shtml Titolo: Alberto ALESINA Francesco GIAVAZZI. I numeri e i nodi Manovra con poca crescita Inserito da: Arlecchino - Ottobre 24, 2015, 12:19:11 pm I numeri e i nodi
Manovra con poca crescita Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi La legge di Stabilità per il 2016 è espansiva, restrittiva o neutrale? Cioè, quale è il segno del contributo che i conti pubblici daranno alla crescita il prossimo anno? Essendo l’aspetto più importante della legge, ci si aspetterebbe di capirlo già dalle prime righe. Invece è una domanda cui non è facile rispondere. Se si guarda alle cifre del deficit la risposta sembrerebbe chiara: la legge è espansiva. Così d’altronde ha detto più volte il presidente del Consiglio. In assenza di interventi («a legislazione vigente» come si dice nel gergo dei conti pubblici) il deficit sarebbe sceso dal 3% circa del Prodotto interno lordo (Pil) di quest’anno all’1,8% nel 2016 (nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata il 19 settembre): un contributo negativo alla domanda pari a oltre 1,5 punti di Pil. La legge invece alza l’obiettivo per il deficit 2016 dall’1,8 al 2,2%, mantenendolo sostanzialmente al livello del 2015 (2,6%). La legge sembrerebbe quindi neutrale. Se poi si correggono questi numeri per tener conto dello stato dell’economia - che è ancora lontana dalla piena occupazione - la legge risulta leggermente espansiva: il deficit corretto per il ciclo sale dallo 0,4% del Pil quest’anno allo 0,7 nel 2016: una spinta alla domanda pari allo 0,3%. Renzi e Padoan quindi hanno ragione: i numeri sono modesti, ma il segno è quello giusto e probabilmente, dati i vincoli europei, è il massimo che si potesse fare (i numeri si basano su quanto scritto nel Draft budgetary plan che il governo ha inviato a Bruxelles) . Ma da dove viene questa spinta alla domanda? Apparentemente da una forte riduzione del carico fiscale, che scende di circa 20 miliardi, quasi un punto e mezzo di Pil (questo è il numero inviato a Bruxelles. Non tiene conto di quanto detto dal governo, per ora solo a parole, in merito a una possibile riduzione delle aliquote dell’imposta sulle società). Quali tasse scendono? L’eliminazione della Tasi vale 3,7 miliardi e tutti gli altri sgravi, dal lavoro all’abolizione dell’Imu agricola, 1,7 miliardi (vedi tabella a lato). Ci sono poi 3 miliardi di tasse in più (sui giochi e sui capitali rimpatriati). Siamo lontani da quei 20 miliardi di minori tasse. La realtà è che la parte maggiore, 16,8 miliardi, proviene dalla cancellazione degli aumenti Iva che precedenti governi avevano previsto, rimandandoli agli anni futuri. Qui sta il punto. Se i cittadini si ricordavano di quei vecchi impegni e si aspettavano un aumento dell’Iva nella prossima primavera, il governo ha ragione. Le tasse sono state ridotte rispetto a quanto ci si aspettava di dover pagare. In realtà è più probabile che pochi cittadini ricordassero (molti non lo sapevano neppure) che a legislazione invariata l’Iva sarebbe aumentata. Pochi hanno anticipato gli acquisti prevedendo un aumento dell’Iva in primavera. Proviamo allora a riscrivere la legge di Stabilità dal punto di vista di questi cittadini poco lungimiranti. Ciò che rimane sono tagli netti di tasse per 2,4 miliardi e tagli netti di spesa per 4,6 miliardi: un contributo negativo alla domanda (senza tener conto delle correzioni cicliche) pari a 2,2 miliardi, lo 0,1% del Pil. Cioè una Finanziaria leggermente restrittiva. Insomma, la domanda se la Stabilità aiuterà l’economia dovete quindi porla ai cittadini. Se vi rispondono che del rischio che l’Iva aumentasse proprio non sapevano, questa Stabilità alla crescita contribuisce poco. 22 ottobre 2015 (modifica il 22 ottobre 2015 | 11:41) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_22/manovra-poca-crescita-0ea4487e-787c-11e5-95d8-a1e2a86e0e17.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. La lezione inglese sulla SPESA... Inserito da: Arlecchino - Dicembre 02, 2015, 07:36:44 pm Tagli e ripresa
La lezione inglese sulla spesa Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Negli ultimi anni abbiamo avuto quattro commissari per la spending review: o si sono ritirati in silenzio, come Enrico Bondi e Piero Giarda, oppure si sono dimessi, come Carlo Cottarelli e Roberto Perotti. Tutto questo lavoro ha prodotto pressoché nulla, non per colpa dei commissari ma per la scarsa collaborazione che essi hanno ottenuto dagli stessi politici che li avevano nominati. Il caso più recente sono i tagli che il ministero per lo Sviluppo economico aveva proposto, superando mille resistenze interne, e che il ministero dell’Economia ha ignorato, escludendoli dalla legge di Stabilità. In Gran Bretagna il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha presentato una settimana fa la sua spending review, la seconda dopo quella annunciata nel 2010, con i conservatori di nuovo al governo. La lettura del discorso di Osborne in Parlamento consente un confronto illuminante con l’Italia. Prima di tutto, che si sia d’accordo o meno con Osborne, la sua spending review è chiarissima, piena di numeri, sintetica, comprensibile e disegna un piano pluriennale che si estende fino al 2020 cosicché gli inglesi sappiano che cosa aspettarsi nei prossimi anni. Secondo: Osborne non si siede sugli allori di una economia che ha ricominciato a crescere (+2,5% quest’anno, secondo le previsioni dell’Economist Intelligence Unit, più degli stessi Usa), ma propone di «riparare il tetto» della finanza pubblica finché c’è il sole non aspettando quando potrebbe ricominciare a piovere. Noi invece, non appena la crescita sale di mezzo punto sopra lo zero, cantiamo vittoria e di tagli nessuno più parla (tranne lamentarsi poi per qualche decimale di crescita in meno). Terzo: Osborne riduce il peso dello Stato sull’economia britannica. Il suo piano arresta, anzi inverte la crescita della spesa: nel 2020 quella complessiva, valutata a prezzi costanti, sarà dell’1% più bassa di dieci anni prima. E poiché, grazie ai tagli e alla minore pressione fiscale, nel frattempo l’economia è cresciuta, il peso della spesa pubblica sul Pil scende in un decennio di nove punti (dal 45 al 36 per cento), e anche il rapporto debito/Pil comincia a scendere. Osborne i suoi «commissari», diversamente da noi, li ha usati bene. Per esempio, per ridurre gli sprechi negli acquisti del ministero della Difesa, Osborne nel 2010 assunse un manager dal settore privato, Bernard Gray. In cinque anni Gray ha rivoluzionato gli approvvigionamenti della Difesa, partendo dalla trasparenza negli appalti. La sua nomina ha fatto infuriare generali e ammiragli perché Gray ha l’abitudine di fare domande che i militari non vogliono sentirsi porre. Ma l’appoggio incondizionato di Osborne li ha zittiti. Il risultato sono stati risparmi di quasi 4 miliardi di sterline in cinque anni. Alcune misure di Osborne sono state fortemente criticate. Certo che viste dall’Italia risolverebbero molti problemi. Ad esempio i tagli ai tribunali compensati con il trasferimento di una parte del costo del «servizio» sugli imputati. Chissà che questo non sia un modo per ridurre la litigiosità degli italiani e far funzionare meglio la giustizia? La cura Osborne, meno spesa e meno tasse, funziona aiutata solo in parte dalla svalutazione della sterlina nei due anni precedenti all’arrivo al governo dei conservatori. L’economia cresce e così aumentano anche le entrate dello Stato, a pari aliquote e in qualche caso con aliquote ridotte . Ciò ha consentito di aumentare dal prossimo anno le pensioni (del 3%) e di prevedere un aumento di 10 miliardi di sterline (da qui al 2020) nel bilancio della sanità pubblica. Non della scuola, e questo è il punto più debole di un programma che fa di più per gli anziani (sanità e pensioni appunto) che per i giovani. La chiarezza e la trasparenza del progetto di Osborne consentirà agli inglesi, fra cinque anni, quando torneranno a votare, di decidere se ha mantenuto le sue promesse. Un altro mondo rispetto all’Italia dove spending review parziali vanno e vengono e sono subito dimenticate, dove tagli minimi alla spesa paiono manovre erculee e sono bollati dalla gran parte dei politici come un attacco allo Stato sociale; dove la burocrazia è spesso un ostacolo insormontabile ai tagli per la semplice ragione che il potere dei burocrati deriva dall’amministrare la spesa pubblica, anche quella inutile; dove i cittadini fanno fatica a capire se fra un anno le aliquote dell’Iva aumenteranno (e quindi converrebbe anticipare alcuni acquisti), o se quell’aumento, oggi previsto dalla legge di Stabilità come clausola di garanzia, verrà rimandato. L’incertezza non facilita i consumi e tantomeno gli investimenti. 2 dicembre 2015 (modifica il 2 dicembre 2015 | 07:12) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_02/lezione-inglese-spesa-349a8106-98bb-11e5-85fc-901829b3a7ed.shtml Titolo: Alberto ALESINA e Francesco GIAVAZZI. Banche, scorciatoie e illusioni Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:36:20 pm Editoriale
Banche, scorciatoie e illusioni Il caso delle quattro banche salvate dal governo e l’efficacia dei controlli Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi L a leggerezza (o forse peggio) con cui alcune banche, seppure poche e piccole, hanno venduto titoli rischiosi a clienti ignari, naturalmente suscita dubbi sull’efficacia delle Autorità preposte ai controlli: la Consob per quanto riguarda il controllo sull’informazione agli investitori, la Banca d’Italia per ciò che concerne il controllo sulla governance degli istituti di credito. La Consob, per esempio, si limita a richiedere che le banche inviino ai loro clienti informazioni dettagliate, non importa se illeggibili, soprattutto dai piccoli investitori. Diceva il grande economista Rudiger Dornbusch: «Scrivere non basta: bisogna entrare nelle banche ad “annusarle”». Quanti ispettori della Consob si sono presentati come innocui e sprovveduti investitori per vedere quali titoli venivano loro proposti? La Banca d’Italia ha commissariato Banca Marche il 30 agosto del 2013 perché il patrimonio era sceso sotto il limite legale e nessun socio era disposto a sottoscrivere il capitale necessario per rimettere in piedi la banca (circa 400 milioni di euro). Fra quel giorno e il decreto di scioglimento, lo scorso 22 novembre, sono trascorsi 27 mesi, durante i quali il commissariamento è stato via via prorogato e la Banca d’Italia non ha né trovato un acquirente, né ha chiuso la banca. Nel novembre del 2008 la Federal Reserve e il governo di Washington salvarono Citibank impiegando 45 miliardi di dollari. Solo dodici mesi dopo Citibank era tornata in attivo e restituì allo Stato 20 miliardi. Nei due anni successivi tutto il credito fu ripagato con un utile, per i contribuenti americani, pari a 12,3 miliardi. Salvare Citi si rivelò ex post un ottimo investimento: un rendimento del 27 per cento in tre anni. Insomma la Fed e l’amministrazione Usa in due anni hanno risolto il problema Citibank. Noi in due anni non siamo stati capaci di risolvere il problema Banca Marche. Se il governo non si fida della Banca d’Italia e della Consob la cosa è assai grave. Ma se così stanno le cose, il problema va affrontato direttamente, non aggirato incaricando qualcun altro di occuparsene. Raffaele Cantone è uno straordinario presidente dell’Autorità anticorruzione, come ha dimostrato quando si è occupato degli scandali di Expo, Mose e Roma Capitale. L’Italia gli deve essere riconoscente. Ma è arduo sostenere che uffici dedicati a sorvegliare gli appalti pubblici siano i più adatti a valutare la correttezza di operazioni finanziarie. Questo compito andava e va affidato alla Banca d’Italia e alla Consob. Il controllo della finanza e la vigilanza sulle banche sono problemi complessi e delicati, che non vanno affrontati con soluzioni ad hoc. Ci vuole molta prudenza. Mettere «una pezza» (una nuova regola, una nuova procedura) per risolvere un problema contingente può creare domani più problemi di quanti ne sembri risolvere oggi. Nel caso di operazioni finanziarie, ad esempio, distinguere fra il reato, cioè la violazione della legge, e l’inadeguatezza delle leggi stesse è spesso più facile a dirsi che a farsi. Non dobbiamo poi scordare che la Banca d’Italia è parte del Sistema europeo delle Banche centrali: una legge che ne modificasse i compiti può essere adottata solo previa autorizzazione del Consiglio della Bce. Il primo atto di Tony Blair, quando vinse le elezioni nel 1997, fu la riforma della Banca d’Inghilterra. La vigilanza sulle banche fu trasferita a un’altra agenzia. Dieci anni più tardi la Gran Bretagna fu costretta a fare marcia indietro, dopo che lo scarso coordinamento fra Banca centrale a agenzia preposta alla vigilanza fu uno dei motivi della corsa agli sportelli di Northern Rock, un’importante banca scozzese. Se il governo pensa che la vigilanza su banche e finanza sia inadeguata, si avvii una discussione istituzionale, pacata, e un eventuale processo di riforma, studiando con cura successi e fallimenti di altri Paesi. Per citare ancora Dornbusch: «Tutti i problemi difficili hanno una soluzione facile: peccato sia quasi sempre sbagliata». 20 dicembre 2015 (modifica il 20 dicembre 2015 | 08:07) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_dicembre_20/banche-scorciatoie-illusioni-59993ea4-a6e7-11e5-9876-dad24a906df5.shtml Titolo: Alberto ALESINA - Educazione e finanza La patente che tutela il risparmio Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:38:05 pm Educazione e finanza
La patente che tutela il risparmio Di Alberto Alesina La tutela del risparmio di cui tanto si parla ha bisogno di due cose. Da un lato sono necessari controlli e regole sul comportamento delle banche e dei gestori di fondi, comprese severe punizioni per chi viola quelle norme. Dall’altro serve una maggiore educazione finanziaria del risparmiatore e del cittadino. Gli importanti lavori di ricerca in merito di una economista italiana, Annamaria Lusardi, come ricordava Federico Fubini su questo giornale il 20 dicembre scorso, dimostrano che, non solo in Italia ma anche in molti altri Paesi europei, oltre che negli Stati Uniti, il livello di diseducazione finanziaria è strabiliante. Molti risparmiatori italiani, anche con livelli di istruzione elevati, non sanno rispondere correttamente a domande semplicissime. Arrivano a sbagliare l’ordine di grandezza di quanto un investimento di 100 euro renderebbe in 20 anni a un tasso del due per cento. Spesso non capiscono l’importanza della diversificazione del rischio; non si rendono conto cioè che investire in una singola azione è molto più pericoloso che investire in un fondo comune. Non comprendono bene lo scambio tra rischio e rendimento. Vale a dire che se qualcuno promette loro rendimenti elevati senza rischi, ebbene sta mentendo. Infine pochi realizzano che investire in un prodotto del quale fanno fatica a comprendere la natura e la reale composizione non è mai una buona idea. Non solo, molti cittadini (soprattutto gli uomini, meno le donne) pensano di avere una sufficiente conoscenza di economia e finanza, ovvero non si rendono conto di cosa non capiscono. Il sapere di non sapere è invece il primo passo verso l’apprendimento. La diseducazione finanziaria può avere effetti disastrosi per i risparmiatori e, se generalizzata, può avere conseguenze macroeconomiche gravi. Che fare? Ecco un’idea. Chiunque apra un conto in banca (o ne abbia già uno) dovrebbe disporre anche di una «patente finanziaria». Dovrebbe cioè superare un esame tipo quello di teoria che si sostiene nel caso della patente auto. Un esame con una cinquantina di domande alle quali rispondere con esattezza. La licenza garantirebbe che chi è «idoneo» è a conoscenza di poche ma importanti cose: che un rendimento alto senza rischio non esiste, che il tasso di interesse reale è molto diverso da quello nominale, che mettere tutte le uova in un paniere è pericolosissimo, come pure decidere se indebitarsi a un tasso fisso o variabile quando si compra una casa richiede un’attenta valutazione della situazione economica propria e generale. Questa sorta di «patente finanziaria» dovrebbe prevedere anche un rinnovo a distanza di una decina d’anni. In ogni caso si dovrebbe insegnare un minimo di economia e finanza di base nelle scuole superiori. Nei licei, che ambiscono a rappresentare il meglio dell’istruzione, accade invece che economia e finanza siano ignorate, quasi fossero materie «indegne» rispetto al latino o alla filosofia. Ma nell’attesa che i programmi scolastici cambino e con questi l’istruzione delle generazioni future, la «patente finanziaria» è un primo passo, relativamente facile, verso la consapevolezza finanziaria. In fondo, per guidare un’auto e garantire la sicurezza di chi guida e degli altri cittadini, viene richiesta una patente. Ottenerla non significa diventare un pilota di Formula 1, bastano le basi. Lo stesso valga per l’educazione finanziaria: basterebbe sapere poche cose necessarie. Non aspettiamoci che tutti i risparmiatori siano dei Warren Buffett così come tutti gli automobilisti non sono Sebastian Vettel. 7 gennaio 2016 (modifica il 7 gennaio 2016 | 07:34) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_07/patente-finanziaria-risparmiatori-editoriale-alesina-1bcc1708-b507-11e5-8efc-b58ffc8363b9.shtml Titolo: Alberto ALESINA - Riforme e parole I compiti di Bruxelles e i nostri Inserito da: Arlecchino - Gennaio 22, 2016, 08:50:44 pm Riforme e parole
I compiti di Bruxelles e i nostri Di Alberto Alesina Matteo Renzi ha un modo diretto e schietto di affrontare le questioni, eva bene. Ma un conto è la schiettezza, altro parole che si tramutano in inutili e intempestivi attacchi all’Unione Europea. Le istituzioni di Bruxelles sicuramente hanno bisogno di un serio ripensamento: sono atrofizzate da regole fatte spesso rispettare in modi discutibili; sono lente nel rispondere alle crisi; hanno una divisione di ruoli e di poteri tra Paesi da rivedere; la burocrazia europea va snellita (cosa facciano i parlamentari europei non è chiarissimo ai cittadini);i problemi dei flussi migratori sono stati gestiti male e in modo iniquo. E questi sono solo alcuni esempi. C’è molto da fare e anche a Bruxelles lo sanno. È vero che il premier si fa portavoce di sentimenti diffusi: i sondaggi dicono che in Italia vi è crescente antipatia nei confronti dell’Unione Europea, l’euro e la Bce. Nel 1973 l’80% degli italiani erano favorevoli alla Ue (la percentuale più alta tra i Paesi membri), oggi si è dimezzata: siamo al 40 per cento. Il 35 per cento degli italiani vuole uscire dall’euro e tutto questo ha trascinato persino la fiducia nella Bce, arrivata al 30per cento (dati tratti da Guiso, Sapienza e Zingales, 2015, Monnet’s Error? ) È importante interrogarsi su «quale Europa» vogliamo, se ne deve parlare ma dopo la tempesta sui mercati. La costruzione dell’Unione va rivista a bocce ferme, e, come i mercati dimostrano in queste settimane, le bocce sono tutt’altro che ferme. Anzi, sembrano impazzite. Le bocce italiane, in particolare, è da tempo che sono in movimento. Nel novembre 2011 con uno spread sui Bund tedeschi che tendeva ai 600 punti stavamo per entrare in una crisi da debito sovrano che avrebbe potuto farci precipitare in un baratro e far saltare l’euro. Il governo Monti fu chiamato a evitare una possibile catastrofe. Queste colonne lo hanno criticato per come lo ha fatto, alzando tasse senza tagliare la spesa, ma in qualche modo lo ha fatto. L’intervento della Bce ha permesso la discesa degli spread e la riduzione del costo del debito. Da allora le cose sono migliorate in Italia, ma non abbastanza. La spesa non è scesa. La privatizzazione delle imprese municipalizzate non sembra più una priorità. Il debito pubblico era al 116% nel 2011 e per il 2016 è previsto al 130%. Certo, ci vuole del tempo perché il debito cali soprattutto in un’economia che cresce poco: ma non siamo fuori dal guado. E le banche italiane, fra l’altro piene di debito pubblico nei loro attivi, hanno problemi seri, ovviamente non tutte. Ma perché lo si scopre solo ora? Si è stati troppo lenti. Mentre altri Paesi agivano sui loro istituti, grazie proprio a una maggiore salute dei loro conti pubblici e con interventi di risanamento nell’arco di tempo concesso dalle regole dell’Unione, noi abbiamo aspettato come se sperassimo che il problema dei crediti bancari in difficoltà si risolvesse da solo. Cosa non facile, vista la gravità della recessione che abbiamo attraversato. Ora la crescita è positiva ma al di sotto della media europea. Va dato atto che il Jobs act funziona. In questa situazione, migliorata ma ancora fragile, Matteo Renzi dovrebbe parlare e muoversi con cautela. Non dovrebbe scagliarsi contro l’Unione Europea di cui volenti o nolenti siamo parte e dalle cui decisioni dipendiamo. Con questa retorica il risultato è che i mercati si preoccupano ancora di più della situazione italiana, come se alzassimo la voce per nascondere indecisione e debolezza. E i mercati reagiscono di conseguenza come in Borsa nei giorni scorsi o sullo spread sul nostro debito che dà segni non tranquillizzanti. Per contrastare questi eventi potenzialmente pericolosi servono meno parole e più decisioni. Il consenso è decisivo per potere continuare a governare ma a volte il bene di un Paese richiede scelte, anche se nel breve periodo possono apparire impopolari. 22 gennaio 2016 (modifica il 22 gennaio 2016 | 07:13) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_22/i-compiti-bruxelles-nostri-66578e56-c0ce-11e5-a43f-521a1c10f2a7.shtml |