Titolo: Sbrani letterari. - Meglio essere irritati o soltanto pacamente delusi? Inserito da: Admin - Settembre 04, 2007, 04:17:26 pm Sbrani letterari
Roberto Cotroneo Meglio essere irritati o soltanto pacamente delusi? Meglio tutte e due le cose. Perché prima o poi, e credo che ora sia arrivato il momento, bisogna dirlo a chiare lettere. In questo Paese dove la scuola è un disastro, dove si legge troppo poco, la cultura letteraria ha perso in autorevolezza e importanza, e soprattutto negli ultimi anni, il mondo letterario è diventato un circo incomprensibile stanco e ripetitivo, vecchio e francamente sconsolante. Ma cosa è accaduto? Partiamo dal premio Campiello. L’altra sera, con Bruno Vespa a presentare, è stato attribuito il premio Campiello. I soliti cinque finalisti, selezionati da una giuria di critici (e nemmeno tutti sono dei lettori competenenti, ma pazienza) ha dato il premio a un’autrice dell’Einaudi, Mariolina Venezia. E ha piazzato al quinto posto, con una ventina di voti su 300, lo scrittore Carlo Fruttero. Già il risultato fa effetto. Come è possibile che uno come Fruttero, che è entrato di diritto nella storia della letteratura italiana, possa essere votato da poco più di venti giurati popolari su trecento? C’è solo una risposta: è una giuria popolare di gente che ha una grezzissima dimestichezza con la letteratura. Scelta con criteri perlomeno discutibili. Ma che succede il giorno dopo? Succede che Fruttero, torinese asciutto, ironico, intelligente, rilascia un'intervista al Corriere della sera ironizzando sull'esito del voto del Campiello. Una gaffe che gli perdoniamo, ma pur sempre una gaffe. Era successo anche a luglio. Con un altro autore: Mario Fortunato. Fortunato, finalista allo Strega con il suo ultimo romanzo aveva polemizzato sulla vittoria di Niccolò Ammaniti. Anche Mario Fortunato, autori di molti romanzi pubblicati da Einaudi, per anni critico e giornalista dell'Espresso, e poi attivo e competente direttore dell'Istituto italiano di cultura di Londra ha fatto una gaffe vera. E anche Fortunato è uomo che conosce assai bene i meccanismi e i percorsi contorti del mondo letterario italiano. Cosa accade? Accade che gli autori, di qualsiasi livello siano, sono emotivi come i bimbi, e non sopportano la frustrazione della sconfitta? Troppo facile, e se fosse solo questo non varrebbe certo la pensa di dedicarci un articolo. In realtà accade qualcosa di molto più grave. Il caso di Fruttero è emblematico. Intanto: a chi è saltato in mente di mandare allo sbaraglio uno come Fruttero in un premio dove vota gente più a suo agio con le fiction televisive che con Tolstoj o con Calvino? Come si poteva pretendere che ne uscisse vincitore? Infatti è arrivato ultimo. E si poteva proprio evitare. Il problema è davvero ideologico, e sotto sotto c'è qualcosa di volgare in questo atteggiamento. La volgarità di un populismo letterario che ormai ha stancato, come a suo tempo aveva stancato un certo modo fintamente élitario di fare critica letteraria. Ora è tutto mercato, tutto «scrivo per la gente», tutto un «il pubblico mi capisce». La vincitrice del Campiello ha dichiarato che lei scrive per i soldi. Con fierezza. E che la sua grande scuola letteraria le viene dal fatto che è abituata a scrivere fiction per la televisione. Buon per lei. Ma non si chiama letteratura, questa. Si chiama in un altro modo. Per libri scritti con questi intenti ci sono premi più adatti, come il Bancarella, che vanno benissimo, premiano autori che hanno un feeling con i lettori medi (che ormai potremmo definire lettori «bassi»), e va bene così. In Europa queste cose non accadono. I premi vivono di una tradizione culturale che non solo va conservata, ma anche protetta. I premi indicano ai lettori titoli e autori meritevoli. Non seguono la scia del qualunquismo del lettore molto comune. I premi, in Germania, in Spagna, in Francia, servono a sancire un valore letterario. Mettono in evidenza, non sono qualcosa che fa carne da macello di gente seria, che scrive da una vita, e che sa quello che scrive. Infatti non esistono, in altri campi, premi dove i giurati vengono scelti tra gente che non sa quasi nulla di letteratura. Vi immaginate la Mostra del cinema di Venezia o il Festival di Cannes, che mette in giuria trecento spettatori qualunque? Cosa ne uscirebbe? La banalità. Ma tutti guardano a Cannes e a Venezia proprio perché i giurati sanno capire quello che vedono. E se quest'anno Le vite degli altri, film di un quasi sconosciuto regista tedesco, è diventato il caso che è diventato, è proprio merito dei premi e dei festival che lo hanno segnalato, e se li contate sono almeno 27. Dall'Oscar come miglior film straniero, in giù. E allora? Allora il mondo del cinema sa tutelarsi. Perché quello dei cinefili è ancora un gruppo compatto con una forte identità. Con la letteratura questo non accade. E sembra veramente uno sbranarsi tra poveri. Ai margini dei giornali, ai margini della popolarità, senza nessun fascino e nessun glamour, gli scrittori contemporanei, e mi riferisco solo a quelli italiani, annaspano un po' per rassegnazione, un po' per disperazione, tra dirette televisive e Ninfei, cercando di trovare un modo per farsi notare. Ma non gliene importa nulla a nessuno. I lettori continueranno a leggere Il Cacciatore di Aquiloni, o Mille splendidi soli, e gli autori finiscono per perdersi in un vuoto dove non ci sono più gerarchie, valori, certezze, e finiscono per polemizzare a vuoto sui giornali, con dichiarazioni che non rendono giustizia a nessuno. Per intenderci, Fortunato sapeva già prima che non avrebbe mai, ma proprio mai, vinto lo Strega, che era destinato ad Ammaniti sin dall'inizio. E Fruttero doveva saperlo che un autore come lui prende i premi alla carriera, e non va allo sbaraglio con il Campiello. E la vincitrice del Campiello avrebbe dovuto essere contenta della fortuna che ha avuto. E si poteva risparmiare provocazioni che non impressionano nessuno, e mostrano solo uno scarso senso della realtà. Se non sei Dan Brown scrivere per soldi non è proprio un affare per nessuno. E neppure per lei. A meno che non ti accontenti di poco. Dall'altro lato, dal lato dei premi storici, con giurati su-per esperti, come il premio Viareggio, abbiamo assistito per tutta l'estate a uno stillicidio patetico. Giurati che si aggiungevano, giurati che minacciavano di dimettersi, e un presidente, la filologa continiana Rosanna Bettarini, che impera sul premio come una zarina d'altri tempi. Alla fine non si è capito cosa faranno del Viareggio, ma per dirla tutta, non gliene importa nulla quasi a nessuno. E forse è giusto così. Rimangono solo libri di autori di cui non ricordi i titoli, non ricordi nemmeno bene il nome degli autori, non ricordi i premi che hanno vinto. Ermanno Olmi, dalle colonne di Repubblica, qualche giorno fa lamentava della crisi di idee del cinema italiano. Forse ha ragione. Ma la letteratura sta peggio. Molto peggio. E la colpa è di tutti. Dei giornali, dei critici che non fanno più il loro mestiere, e quando lo fanno, lo fanno malissimo, degli autori che vedono troppe fiction e sono sciatti, dei premi letterari che sono più banali di un festival di Sanremo, degli editori che arrancano su autori e titoli senza sapere bene dove andare a parare. E se persino uno come Fruttero, che con Lucentini ha scritto almeno tre romanzi che sono già dei classici, finisce per arrivare quinto al Campiello e dare un'intervista dove accusa i giurati di avere «un gusto televisivo», significa che siamo alla frutta. Chiudiamo tutto, e mettiamoci a scrivere elise di rivombrose e distretti di polizia. Perché quelle sono le storie che la ggente (con due g, s'intende) vuole e capisce. E poi se capita, ma di nascosto, tutti a leggere Ian McEwan, Javier Marias, Paul Auster, Salman Rushdie, Don De Lillo, o Vargas Llosa, che purtroppo non scrivono fiction, ma sono scrittori veri. Non lo fanno per soldi. Non partecipano ai Campielli dei loro paesi, parlano poco, e raccontano il mondo. E riguardo ai soldi, anche se magari ci pensano, hanno l’eleganza di non dirlo. roberto@robertocotroneo.it Pubblicato il: 04.09.07 Modificato il: 04.09.07 alle ore 12.11 © l'Unità. |