Titolo: JACOPO IACOBONI. - Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 05:56:29 pm 28/11/2008 (8:0) - L'INCHIESTA
Un miliardo di mani sulla Sardegna Il governatore dimissionario della Sardegna Renato Soru Giro d'affari enorme da La Maddalena a Cagliari. Ma Soru vuole bloccarlo JACOPO IACOBONI INVIATO A CAGLIARI E’ una partita a poker che vale due miliardi di euro, in cui ognuno gioca per conto suo, quasi tutti indossano gli occhiali scuri per non far vedere lo sguardo, e tutti hanno un interesse, non sempre coniugabile col bene comune. Dietro le dimissioni di Renato Soru c’è la sfida di una lobby del cemento, le mire, a volte indecenti a volte no, di imprenditori e palazzinari, le faide dentro il Pd, persino la villetta del piccolo consigliere locale, che magari vota contro il piano paesaggistico del governatore. Se ci fosse Rosi potrebbe girare «Le mani sull’isola». La città è troppo poco. Certo, siamo a Cagliari, da dove tutto è cominciato, e nelle cui vicinanze si combattono due delle contese che più hanno lavorato ai fianchi il governatore. Ma non è solo Cagliari. Passeggiando per le rovine archeologiche di Tuvixeddu, per esempio, la scritta che blocca i lavori dell’ingegner Gualtiero Cualbu è ancora affissa, «sito sottoposto a blocco cautelativo dall’autorità giudiziaria». Cualbu, il più noto costruttore edile della città, oggi anche albergatore di lusso col Thotel, voto (esplicito) a destra, aveva presentato un progetto di utilizzo di un’area degradata di 50 ettari dove fino agli Anni Sessanta la gente viveva incastrata come nei Sassi di Matera, 38 dei quali da destinare a parco urbano, e dieci a residenze. Un business da 260 mila metri quadri di nuovi volumi, investimento tra i 150 e i 200 milioni di euro. La Regione ha stoppato tutto, Soru spiega che «quella è un’area archeologica tra le più belle della nostra terra, e non sopporta volumi di queste dimensioni». Cualbu ha fatto ricorso, e adesso racconta: «Sono la vittima predestinata, il costruttore che gli serve per fare bella figura sui media, ma avevo tutte le autorizzazioni. Una cosa è certa, noi il 5 dicembre riprendiamo i lavori». Bisogna dunque, come sempre, seguire dove va il fiume di danari che scorre - o potrebbe scorrere - nell’isola, per cominciare a capire cosa c’è alla radice delle (tante) ansie di rivincita che si coalizzano contro Soru. E risalire un po’ la costa orientale da Cagliari a Cala di Giunco, Villasimius - dove anche in questa mattinata variabile è possibile vedere i fenicotteri. Un sindaco di sinistra, Salvatore Sanna detto Tore, che ostenta familiarità con Walter Veltroni (il segretario democratico ha semplicemente fatto vacanza da quelle parti), aveva inizialmente benedetto il progetto di Sergio Zuncheddu, altro grande costruttore, editore dell’Unione Sarda, nemicissima di Soru: villaggi per 140 mila metri cubi di nuovi volumi, investimento di 90 milioni di euro, stop a tutto, e il Tar che ha appena dato ragione a Soru. Come andrà a finire? Zuncheddu è tenace, «noi andiamo avanti, ricorreremo ancora». Tra parentesi: lui ha l’Unione, e ora anche La Sardegna si è spostata a destra. Prima l’editore era Nicki Grauso, ora una compagine di imprenditori legati a Marcello Dell’Utri. La mappa del potere muta, a urne ancora chiuse. A Cagliari il sindaco forzista Emilio Floris è sul piede di guerra perché sono fermi lavori sul lungomare Poetto, sul porticciolo di Marina Piccola, sul campus universitario. Vuole candidarsi? Alla Maddalena, che Soldati chiamava «la piccola Parigi», dopo il G8 del 2009 si farà un bando per il polo turistico, è assodato che concorreranno il riabilitato Aga Khan (pronto a spendere 150 milioni), una società monegasca (la Giee, collegata col gruppo Rodriguez, che fa yacht d’altura, ne sborserebbe 70), e anche Tom Barrack, se al quartier generale confermano: siamo interessati anche noi. Ma è una partita da giocare. Altre si stanno giocando. Negli ultimi due anni, per dire, i fratelli Toti e Benetton sono arrivati sull’isola più volte per proporre un progetto nella zona di Capo Teulada, all’inizio si sono fatti precedere da una telefonata di Francesco Rutelli. La regione ha controproposto: impegnatevi invece nel tratto di miniere dismesse di Sant’Antioco, dove urge una riqualificazione. Risposta: fossimo matti. Stessa sorte è toccata a Domenico Bonifaci, che voleva operare su un’area intorno a Porto San Paolo, edificando tra l’altro nuove residenze nell’agro, cosa vietatissima dalla filosofia-Soru (i tre chilometri dalle coste sono inespugnabili, e oggetto, appunto, della legge contestata). Lì i lavori non sono neanche mai partiti. Alcune porte però si aprono, Soru le cita per dire «è falso che io sia contro l’impresa tout court». Colaninno sta riqualificando un vecchio albergo a Is Molas (progetto di Massimiliano Fuksas), i Marcegaglia hanno acquisito il Forte Village (Tronchetti aveva visitato le miniere dismesse di Ingurtosu, poi ha scelto di non investire), Barrack sta facendo semplici lavori di ristrutturazione dei suoi alberghi della Costa Smeralda, Ligresti ha visto approvare il suo Tankka Village (sempre a Villasimius). Perché loro sì? La regione ritiene che non sfondano il territorio con nuovi volumi, anzi razionalizzano strutture obsolete. Paolo Fresu, jazzista veltroniano, ha lanciato per mail una petizione pro Soru coi suoi amici intellettuali, Salvatore Niffoi, l’attrice Caterina Murino. Ma magari pesa di più l’ira dei sindacati, che strepitano perché l’ex mago del bilancio di Soru, Franceso Pigliaru, il Giavazzi sardo, ha rimesso in sesto il bilancio anche tagliando 98 milioni di euro per la formazione: prima se li pappava la triplice. La circostanza che i seguaci di Cabras, il senatore amico di Fassino capo degli anti-Soru, votino contro il piano paesaggistico è, in questo mare, la semplice goccia. Peserà questa, o il fatto che la somma di tutti gli investimenti bloccati è vicina al miliardo, e - accusa Silvio Berlusconi - «Soru penalizza l’economia»? No, replicano in regione, gli occupati nel settore edile crescono del 18 per cento. E secondo l’assessore all’Urbanistica Gian Valerio Sanna, il miliardo bloccato è compensato da un altro miliardo virtuoso: 500 milioni investiti in tre anni dalla regione per centri storici, campagne, agricoltura, e altri 500 dai progetti approvati ai privati. Ci sono mani e mani, sull’isola della lotta al potere del cemento. da lastampa.it Titolo: JACOPO IACOBONI. - Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2010, 10:11:08 am 8/2/2010 (7:25) - RETROSCENA
E spunta la Base "di lotta e di governo" Il popolo viola chiarisce: in piazza il 27 si va comunque JACOPO IACOBONI Chissà che l’ultimo trait d’union tra il dipietrismo (versione Grillo) e il mondo del Pd non s’incarni nell’immagine-icona di Renzo Piano. Undici di sera di sabato, teatro La Cigale, Parigi. Il grande architetto - non certo un esaltato giustizialista - sta uscendo sorridente dallo spettacolo che Beppe Grillo porta in giro in Europa in questo periodo, «Incredible Italy». «L’Italia è un virus», ha appena finito di gridare il comico sul palco, «guardate che dopo Mussolini e la mafia possiamo anche esportare il berlusconismo, vedo che anche Sarkozy ora piazza suo figlio...»; e la sala praticamente è caduta giù, tantissimi italiani, ma anche molti parigini. La stessa scena s’era vista pochi giorni prima a Londra, dove nel dopo spettacolo un fan grillista ragionava così: «Di Pietro è l’unico che può dare un po’ di cuore all’opposizione». Insomma, il matrimonio di convenienza col Pd non avrebbe smosciato Tonino, semmai (forse) rinvigorito Bersani. Poi nel weekend è arrivata quella che Il Fatto ha titolato sarcastico «La svolta di Salerno», Tonino che s’acconcia a più miti consigli per fare fronte comune con Bersani. E le cose si sono un po’ complicate. Una svolta realista di Di Pietro, la fine dei sogni di opposizione dura e pura? Grillo a Parigi ha ostentato di sentirsi sulla stessa barca dell’ex pm, «ho anche messo sul mio blog, a scanso di ricatti, una mia vecchia foto dell’89 con Dell’Utri, Berlusconi e Provenzano, sapete com’è, mi avevano detto che erano un bibliofilo, un promettente imprenditore e un siciliano riservato...». E sul blog difende il capo dell’Italia dei Valori, «chi me l’ha fatto fare? A quest’ultima domanda posso rispondere: me l’hanno ordinato la Cia e Antonio Di Pietro, che già allora agiva nell’ombra». Tra i post, nessuno critica Di Pietro. Anche i più ostili al Pd. All’uscita dallo spettacolo parigino, mischiato tra la folla, sorrideva anche Marco Travaglio, che sul blog «voglioscendere» poche ore prima aveva postato una riflessione in difesa dell’ex pm, citando Giorgio Bocca. «La guerra infinita a Di Pietro, iniziata nell’estate ’92 col “poker d’assi” di Craxi, proseguita con decine di inchieste-farsa, distillata ancora un anno fa con le bufale intorno al figlio Cristiano che aveva addirittura raccomandato un elettricista di Termoli, e ora giunta alla comica finale con la cena delle beffe, non è dovuta ai suoi errori. Che pure sono evidenti e numerosi», ma ai suoi meriti, al suo ruolo di «unica opposizione anti-inciucio». Certo meglio sarebbe stato non «imbarcare tutti», dentro l’Idv. Ma insomma, anche il Tonino della svolta resta molto meglio della media di ciò che passa il convento politico italiano. Eppure qualche scricchiolio nel mondo dipietrista s’avverte. Sempre sul blog «voglioscendere» un lungo post (l’ha scritto Peter Gomez) bastona l’idea dell’Idv di sostenere il sindaco democratico De Luca per la Regione Campania: «Il voto per acclamazione da parte dell’Idv è un errore politico che costerà molto caro al movimento di Antonio Di Pietro. Se De Luca corre per la poltrona di governatore con due processi in corso, qual è la differenza tra lui, Berlusconi o Fitto?». E nella leggendaria Base - ricetto o paradiso, a seconda dei punti di vista, di ogni antiberlusconismo duro e puro - c’è chi è d’accordo con lui. Sui social network di chiarelettere, per esempio. Nella redazione del Fatto. Tra i seguaci di De Magistris (che irride, «volevano fare il processo a De Luca, ma è stato un processo breve»). O nella rivista MicroMega, che però ha visto ignorato un appello a De Magistris affinché si candidasse lui, in Campania. Di Pietro resta convinto che è finita la stagione dell’opposizione «solo di pancia o di piazza», e mena vanto della nuova posizione, «come dice il mio amico Bersani, di opposizione si muore. È il momento dell’alternativa». Solo che la Base ci sta, sì, ma a una condizione: la «pancia» e la «piazza» continua a volerle. Il 27 febbraio, conferma uno degli organizzatori della manifestazione del popolo viola, il romano Emanuele Toscano, «abbiamo indetto una manifestazione nazionale in cui chiamiamo a raccolta tutta la società civile a Roma contro il legittimo impedimento». Dopo quella del 5 dicembre un’altra mega-giornata all’insegna dell’antiberlusconismo, a celebrare l’arcano paradosso di una Base di lotta e di governo. da lastampa.it Titolo: JACOPO IACOBONI. - Inserito da: Admin - Marzo 04, 2013, 06:11:30 pm POLITICA
04/03/2013 - RETROSCENA La mossa di Beppe “Tenere Monti a Palazzo Chigi” Prima assemblea a Roma: si decide su portavoce e logistica JACOPO IACOBONI ROMA Sotto, la riunione ha un po’ l’aria dell’assemblea universitaria, anche come facce e storie. Sopra, nella hall, c’è l’aria da festa di laurea dove la gente innanzitutto vuole conoscersi, intrecciare storie che spesso finora erano solo voci, o chat. Alle 16.56, finita una pausa caffè lunga abbastanza per farsi domande, scambiarsi numeri di telefono e mail, gli eletti del Movimento cinque stelle cominciano a richiamarsi l’un l’altro, «ragazzi, scendiamo sotto, riprendiamo? Dopo aver pagato, eh». Il caffè se lo sono pagati da soli. Quanto all’albergo, non dormono qui. Nonostante ci siano ottime e economiche offerte, «quasi tutti i non romani si sono organizzati con soluzioni low cost», racconta uno di loro. Compreso l’aereo. In fondo, chi non ha un amico a Roma? Per trovare casa ci sarà tempo. E’ così, la riunione dei parlamentari del Movimento, segreta si fa per dire. Fuori il mondo invoca trasparenza, e coerenza con la sbandierata, totale apertura. Dentro, loro rispondono «ma perché, il Pd non ha mai fatto un incontro a porte chiuse?». E c’è come un senso situazionistico della beffa ai media che andrebbe colto. Alle 16,30 - quando hanno fatto time out e sono saliti su, dal piano interrato dove si tiene la sessione, alla hall dove c’è il bar con bancone in legno aperto - fuori dalla porta a vetri dell’hotel Saint John s’è creata una tale ressa di cameramen, fotografi e giornalisti che, da dentro, gli eletti li filmavano a loro volta con gli smart phone e i minitablet, per poi sorridere e darsi un po’ di gomito. L’assediato che assedia a sua volta l’assediante. Ribaltati i ruoli vittima-carnefice, ecco alcune conversazioni, di cui teniamo anonimi gli autori: «Il governo? La fiducia per noi è impossibile, bisognerebbe capire che è fuori luogo anche chiedercela». Come se ne esce lo suggerisce una eletta quarantenne, assai disponibile: «Non c’è niente che impedisca di tenere ancora lì Monti per qualche mese, mentre il Parlamento fa delle leggi. Se sono buone leggi, noi le votiamo. Naturalmente presto si torna a votare». E’ lo stesso ragionamento ascoltato in mattinata da qualcuno assai vicino al team di Grillo e Casaleggio che ha organizzato in concreto lo Tsunami: «Perché non si può immaginare di lasciare Monti in carica, per quattro cinque mesi? Esiste un precedente, non è vero che non si possa fare: il governo Dini durò 127 giorni dopo la fine della maggioranza». «Rigor Montis» non piace per nulla, sia chiaro. Ma a questo punto tanto vale, per molti cinque stelle, tenerlo lì lo stretto necessario. La minaccia di Bersani (tornare a casa) li spaventa poco. Naturalmente i nuovi parlamentari si occupano qui soprattutto di questioni organizzative. Devono scegliere un portavoce, sarà a rotazione. Decidere chi parla all’esterno (per ora, nei momenti caldi, i meno in ansia paiono Vito Crimi e Roberto Fico). Un gruppo seguirà la logistica. Un altro, i motori di ricerca e le chat. C’è l’idea di «trovare un palazzo dove andare a stare, per risparmiare e stare anche vicini fisicamente», considerando che non guadagneranno più di 2500 euro netti (cinquemila lordi), e viverci a Roma non è facile. «È un po’ stressante, questo assedio», ammette Laura Bottici. «È anni che lavoriamo sul territorio, e non c’era questo interesse». Altri ricordano disperate telefonate ai giornali, spesso ignorate. Alcuni sono già un riferimento evidente. Roberto Fico, napoletano, camicia fuori dai pantaloni, e una faccia aperta da ragazzo del sud. Offre caffè al bar. Vito Crimi, che si assume l’incarico di annunciare «Grillo e Casaleggio non verranno, questa non è una riunione di linea» (ma è vero che non verranno?). I ricci neri e timidi di Andrea Cioffi. Molto defilata Marta Grande, la più giovane, maglioncino grigio, appoggiata alla colonna, armeggia col telefonino; che il Pd la lodi così tanto non ha entusiasmato lo staff. Due ragazze, filmaker esterne, girano un documentario per immortalare una riunione che comunque sarà ricordata. Ai muri, riproduzioni di Tamara de Lempicka fatte dallo Studioessedipinti. L’età media è palesemente sotto i quarantacinque. Estetiche assurde e cappellai non ce ne sono. Non ci sono grisaglie, nessuno ha la cravatta, qualcuno ha così caldo da girare a maniche corte e felpa legata in vita. Ma non c’è neanche un abbigliamento prevalente. Le ragazze, ce ne sono di carine. Sembrano molto diversi all’aspetto dai parlamentari cui siamo abituati. Votano per alzata di mano, non col televoto. Al momento di andare via, alcuni hanno organizzato un furgoncino-scolaresca. Sentono di avere una missione, ma te la spiegano come se si fosse a una festa, anche se non eri stato invitato. da - http://www.lastampa.it/2013/03/04/italia/politica/la-mossa-di-beppe-tenere-monti-a-palazzo-chigi-4dhGBQsLbn2RKWemYYm5YJ/pagina.html Titolo: Jacopo IACOBONI. - Inserito da: Admin - Maggio 16, 2013, 11:11:19 am Politica
16/05/2013 - intervista Grillo: “Vogliono zittirci L’ultimo argine siamo noi” Beppe Grillo, impegnato in questi giorni nella campagna per le amministrative, vorrebbe tornare a fare un tour mondiale comico “Noi torneremmo al sistema elettorale precedente, ma Berlusconi vuole questo” Jacopo Iacoboni INVIATO A BARLETTA «Alla fine ne resterà uno solo. Come in Highlander. O noi o il nano. La scelta sarà questa. E sarà una scelta che arriverà molto presto». Sono le undici di mattina e Beppe Grillo è al bancone dell’Hotel dei Cavalieri di Barletta, la città della disfida. Da Ettore Fieramosca al film con Cristopher Lambert il passo è abbastanza lungo, ma lui ci ha abituato a ciò che all’apparenza sembra impensabile. Grillo ordina un caffè macchiato con un po’ di latte (la sera precedente ha cenato con un’insalata di cicoria). Per la prima volta da tanto tempo conversa con un quotidiano italiano, senza essere inseguito, risponde alle domande, alle critiche che gli fanno, illustra la sua tesi su ciò che succederà, fa ovviamente moltissime battute varie. Ma in privato appare molto meno istrionico, più propenso a una citazione che a una battuta. La prima notizia, ha visto, è un altro arresto, del presidente della Provincia, Pd, di Taranto, per la storia dell’Ilva. Che ne pensa? «Mah, siamo cauti. Non è che i magistrati adesso stanno esagerando un po’? C’è uno strano clima, intorno. Sono preoccupato». La polizia è venuta nei vostri uffici a Milano, chiedendo di vedere i server per i ventidue ragazzi indagati a Nocera per vilipendio contro il capo dello Stato. Davvero crede che vogliano chiudere il blog? «Secondo me ci provano, a bloccare i server. È significativo che sia venuta la polizia, non la polizia postale. In questo io vedo una stretta. Naturalmente la rete non la puoi chiudere, ciò che chiudi da una parte rispunta dall’altra, me lo disse anche l’ambasciatore cinese quando ci siamo incontrati, e se lo dice lui... Però è un segnale di quanto il sistema ci odia. Mi vogliono demolire persino sui soldi, io che non ho mai toccato diecimila lire in vita mia». C’è questa interpellanza che sostiene che gestite tutto lei e Casaleggio, con vostre società. Che risponde? «È tutto lì, pubblico, chiedete di andare a vedere. È tutto sul conto parlamentare. Lo gestiscono in due persone, Vito Crimi e un tesoriere. Chi dice altro calunnia». Altri vi criticano perché sostengono che ci guadagnate, coi libri, la pubblicità, il blog. «È presto detto: col blog siamo in pari, ci costa sui duecentomila euro l’anno, li copriamo con la pubblicità, ci sono tre persone che ci lavorano a tempo pieno. Poi i libri: sa che il libro che guadagna di più non è neanche pubblicato da noi, è quello con Fo e Casaleggio, per Chiarelettere, e il ricavato andrà tutto in beneficenza. Tutto. Io non lavoro da tre anni. È il motivo per cui vorrei tornare a fare un tour mondiale, poter fare il mio lavoro di comico. Ma ci accusano di tutto, anche di aver registrato un’associazione a nome di mio nipote». Ecco, lì com’è la storia? «Semplice, per pararci il c... dalla legge, e evitare che fossimo esclusi per essere solo un movimento, costituimmo in una notte questa associazione, intestata a mio nipote, avvocato. L’associazione è lì, non tocca una lira, andate a controllare. Per farla ci siamo affidati a due studi legali e ci è costato quanto? (domanda a una delle menti più sveglie del suo staff), sì, 140 mila euro». Come se la spiega tutta questa ostilità, c’è qualcosa anche di personale che risale a odi per la sua vita precedente di artista? O sbagli vostri? Ultimamente Michele Serra ha scritto cose più aperte su di voi, ma a parte lui, pochi. «Sì, me l’hanno detto di Serra che ha elogiato qualcosa del M5s. Gli altri pazienza: gli snob, specialmente la sinistra, non sopportano che certe cose le dica un comico. E devono demolirlo. Dire che millanto amicizie di Fitoussi, di Stieglitz, di Lester Brown, o Wackernagel... Io non ho millantato nulla, sono solo un divulgatore, un semplificatore, di idee che sono di tutti. La decrescita, la critica all’austerity, un’economia in cui girano le idee, non le merci inutilmente. Poi Stieglitz ha scritto la prefazione a un mio libro, Brown è stato con me a Bologna a una lezione all’Università, ma non ho mai detto che mi abbiano scritto il programma». Il fatto che Berlusconi sia risorto non vi spaventa? La critica più frequente che vi fanno è potevate fare qualcosa col Pd? «Sono loro che non hanno voluto. Bersani voleva solo dieci senatori per fare un governicchio, e naturalmente senza ascoltare nulla delle nostre richieste, senza fare quello che abbiamo fatto noi, cancellarci da un giorno all’altro 42 milioni di rimborsi, senza darci una commissione di controllo, niente». Possibile che nessun leader del centrosinistra l’abbia mai chiamata, neanche dopo le elezioni? «Nessuno. Mai. Nessuno. Anzi, uno sì. Con Romano Prodi ci siamo sentiti, ma lo conosco da prima, da quand’era professore. È una cosa vergognosa il modo in cui l’hanno trattato (usa un’altra espressione, ndr), mi ha fatto anche pena. Questo la dice lunga su che gente ci sia in quel partito. Ma è una situazione che non regge più, non ci sono più soldi nelle regioni per pagare il personale, a settembre crolla tutto. Mi danno del catastrofista, ma è così». È D’Alema che tiene le fila in quel partito, secondo lei? «Ma sono residui, ormai. Di D’Alema capii tutto quando si presentò, da premier, dicendo “siamo la sinistra progressista”, e andò a rassicurare le banche e i mercati finanziari. Capii che quella non era più la sinistra, era la sinistra delle Borse». Se dipendesse da voi, oggi, come cambiereste almeno la legge elettorale? «Noi un ritorno alla legge precedente lo sosterremmo, rifare i collegi sarebbe semplicissimo. Ma Berlusconi non vuole, il nano è convinto che se si rivota con questa legge elettorale lui vince e va al Quirinale. A quel punto gli unici a poter impedire questo saremo noi, una Protezione civile. Il Pd sarà sotto il venti. Io sento l’aria, il cerchio si sta stringendo. Lo vedo anche da questa stretta con cui cercano di farci fuori». Ci sono molti timori in giro sul vostro atteggiamento sull’euro, se potesse fare un referendum propositivo quale farebbe per primo? «Prima di fare un referendum bisogna informare, far sapere le cose. Pensi che anche Cameron, che non è nell’Ue, vuole allontanarsi ancora di più dall’Europa... Solo da noi una critica all’austerity diventa qualunquismo. Non si informa, non si raccontano altri punti di vista. A mio figlio hanno dato un tema di prematurità sul M5s, e sa che articoli c’erano da far discutere ai ragazzi? Uno di Ferrara (nel frattempo guarda sull’Ipad il video di Ferrara travestito dalla Boccassini, coi capelli rossi; e sorride, abbastanza divertito), di Battista, di Severgnini. Belìn, mi ha detto, ma che c....». I vostri parlamentari cresceranno? «Stanno imparando. Guardi Crimi. Loro le cose che non sanno le studiano, i commessi si meravigliano di vedere dei parlamentari che stanno a studiare fino a notte. I professionisti spesso non ne sanno più di loro, ma sanno fingere. Forse poi abbiamo sbagliato a fare in quel modo gli streaming. Abbiamo concesso a Letta di fare la lezioncina, non glielo dovevamo consentire, li dovevamo formare. Forse dovevo andare io, essere più presente. Ma poi avrebbero detto che dirigo tutto». Ecco, la accusano di comandare, di decidere chi è dentro e chi fuori, il Movimento potrebbe esistere, esisterà senza di lei? «È vero, è faticoso, anche mia moglie, la seguono, fanno i dossier su di me, i miei figli, pubblicano l’indirizzo di casa mia... Ma non durerà molto, secondo me. Entro quest’anno vado avanti così. Si voterà prima; se vinciamo, ricostruiremo noi le macerie, ce la prenderemo noi, con le elezioni, l’Italia. E io mi dedicherò solo a questo. Altrimenti se la prenderà qualcun altro, e senza elezioni». da - http://lastampa.it/2013/05/16/italia/politica/grillo-vogliono-zittirci-l-ultimo-argine-siamo-noi-x4MWoS8dqIfxizYaOMzuFL/pagina.html Titolo: Jacopo IACOBONI - L'Italia dell'insulto e le bufale su "è colpa di" Inserito da: Admin - Maggio 21, 2013, 07:15:02 pm 12/05/2013
L'Italia dell'insulto e le bufale su "è colpa di" Oh gli insulti, oh l'odio on line su twitter, oh i troll, oh i grillini che non sanno far altro che berciare... All'improvviso la discussione pubblica italiana - già provata dall'impoverimento medio della società, da una profonda crisi culturale e dalla pochezza delle chances soprattutto per i giovani - s'è avvitata a parlare di twitter, della deriva di cui sarebbe preda (poiché alcuni vip come Mentana hanno deciso di abbandonare il social network stanchi delle offese ricevute), della preoccupante tendenza, ovviamente attribuita solo a una nuova forza politica, all'invettiva e all'aggresisone verbale, senza alcun costrutto. Ci impoveriamo, siamo messi male culturalmente, i settori vitali della nostra società stentano, la sinistra non c'è più, di qualcuno deve pur essere la colpa. Un giorno è colpa del degrado di twitter - che addirittura, ci viene ammannito, boccia presidenti della Repubblica, secondo quanto ritiene un dottor non più tanto sottile, Giuliano Amato - un altro giorno è colpa di Grillo (il quale con le invettive roche ci mette del suo, naturalmente). Poi uno spegne questa litania e apre gli archivi, attiva la memoria, o la semplice osservazione del presente; a volte basta che accenda la tv. Sabato sera a In onda Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, un quotidiano culturalmente vicino a un'area politica oggi al governo assieme al Pd, ha invitato due volte la presidente della Camera Laura Boldrini (mi scuso, riporto soltanto), "non rompa i coglioni, non rompa i coglioni" sulla "storia" della violenza sulle donne. Domenica - dopo la forte contestazione subita da Berlusconi a Brescia - Libero, un altro giornale che è vicino all'operazione politica Pdl-Pd, anche detta di "pacificazione nazionale", ha titolato così: "Assassini neri, squadristi rossi", mettendo insieme i fischi all'indirizzo del Cavaliere con il triste episodio di violenza che ha visto protagonista uno squilibrato a Milano (purtroppo aveva la pelle nera, dettaglio per noi irrilevante ma per questi illuminati è importante). Due evenienze così squallide fanno tornare alla mente, in modi quasi random, che forse l'odio, l'insulto, il livore, lo svilimento dell'interlocutore e la rinuncia al minimo rispetto della conversazione vengono in Italia da lontano, altro che internet, e riguardano la società, la realtà, in particolare quel micromondo, un tempo comico, oggi in fondo per lo più patetico, che è la politica. Veniamo da lunghi anni in cui l'allora premier Silvio Berlusconi chiamava "coglioni" gli elettori di sinistra, e ha detto dei giudici - cito quasi a caso - che sono «matti», «disturbati mentali», «assassini», fino al «sono un cancro». Ministri come Brunetta bollavano come "elites di merda" i gruppi economici e finanziari. Colleghi come Sacconi, dal dicastrero del Lavoro, gridavano in piazza "vaffanculo" ai delegati sindacali (della Cisl). Persino Prodi, assai più civile, s'è fatto scappare un "delinquente politico" a Tremonti, che non vedeva l'ora di rispondergli chiamandolo "demente"; ma poi il Professore ha anche dato dell'"ubriaco che si attacca ai lampioni" a Berlusconi, il quale gli riconosceva invece lo status di "utile idiota" della sinistra... Di Pietro ha sempre parlato del Cavaliere come di un "magnaccia", è successo che parlamentari in aula si siano gridati cose come "checcha, squallida troia" (Nino Strano a Cusumano, che svenne, poveretto), sull'uso degli epiteti "frocio" e "culattone" si potrebbe scrivere un capitolo a sé, protagonisti i destri Storace, Tremaglia, Gasparri, Mussolini. Su Previti, oltre a tutto il resto, si può forse ricordare che era solito rispondere alle critiche di colleghi parlamentari urlando loro, rosso in viso, "pezzo di merda, sei un pezzo di merda". E' tutto lì; ricordatevene. Da questo veniamo. Senza scomodare teorie sugli scadimenti antropologici causati da vent'anni di programmi tv lobotomici. Noi poi possiamo credere che tutto questo nasca con Grillo, o al limite spopoli per via "der web" o di twitter (oltretutto, risibilmente sopravvalutato anche da un punto di vista numerico); ma allora perché non del Game Boy Nintendo, delle correnti d'aria, del declino delle mezze stagioni, o di un certo uso, effettivamente spoporzionato nelle culture giovanili, dei fumetti manga? Pensiamoci. Magari la colpa è lì. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2013/05/12/blogs/arcitaliana/l-italia-dell-insulto-e-le-bufale-su-e-colpa-di-qyvQOGW5lD2CqYNvZo2MmM/pagina.html Titolo: Jacopo Iacoboni Berlusconi e Manning, la coincidenza di due processi-simbolo Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:06:27 am Arcitaliana Jacopo Iacoboni 31/07/2013 Berlusconi e Manning, la coincidenza di due processi-simbolo Il passato che non ci scrolliamo, e il futuro coi suoi dilemmi Sono due storie che non c'entrano niente, due mondi lontanissimi e forse agli antipodi, due processi che nulla hanno in comune. Eppure le fotografie di Silvio Berlusconi e Bradley Manning, tra ieri e oggi, si sono improvvisamente come sovrapposte, e ci stanno davanti insieme, ci parlano. La coincidenza temporale dei due verdetti avvicina l'inavvicinabile. L'Italia, condannata a occuparsi del passato come in una palude, il mondo, che bene o male - nel caso del processo Manning molto male - ha comunque davanti a sé dilemmi futuri, problemi veri, non la superfetazione dell'impotenza di un piccolo Paese. Quando Silvio Berlusconi, da pochi mesi premier, ricevette il primo avviso di garanzia mentre era a Napoli, svelato da un grande giornalista, Goffredo Buccini per il Corriere della Sera, era il 22 novembre 1994, avevo 22 anni e frequentavo la facoltà di Filosofia della Sapienza, a Roma. Eravamo assuefatti al crollo della vecchia classe politica democristiana e socialista per le inchieste di Tangentopoli, nessuno di noi aveva creduto né votato l'amico di Craxi, e in fondo considerammo abbastanza ovvio che il (finto) campione della seconda repubblica venisse mostrato fin da subito collegato mani e piedi al sistema che diceva di voler sorpassare, i legami opachi tra politica e affari, la degenerazione dell'etica pubblica, lo scadimento della politica. Vent'anni dopo siamo ancora a parlare dei processi di Berlusconi, arrivati in alcuni casi in Cassazione, per una sfilza di accuse che forse gli italiani neanche ricordano, tanto sono lunghe, ripetute, e tanto insistente è stato il martellamento della contro-propaganda che le dipinge come il frutto di un puro accanimento delle "toghe rosse". Vent'anni dopo siamo inchiodati ad aspettare la sentenza su un uomo che appartiene innegabilmente, anagraficamente, mentalmente, a un passato che non se ne va, a un'Italia pietrificata e zombizzata, un uomo che tiene il sistema politico - con forti complicità, bisogna dire - legato inestricabilmente alla sorte della sua persona. Fosse condannato lui, cosa resterebbe del partito democratico attuale, un partito centrato in moltissima parte sulla (finta) dialettica col berlusconismo? Domanda senza risposta; come sempre, non succederà nulla. Tomasi di Lampedusa docet. E poi c'è Bradley Manning. Le foto di un militare americano molto molto giovane, con un sorriso timido mentre viene condotto davanti alla Corte Marziale di Fort Meade, reo confesso di essere l'informatore di Wikileaks, e dunque accusato (e condannato) per aver violato più volte l'Espionage Act, ma non condannato per l'altra accusa, il reato di "intelligenza con il nemico", la cui pena prevista era l'ergastolo. Manning viene ritenuto colpevole per 19 capi d'imputazione di cui cinque per spionaggio (in teoria rischia una pena di 136 anni). E' già in carcere da tre anni, nove mesi dei quali sono stati, secondo l'Onu, carcere "inumano", con episodi qualificabili come "tortura". E' per il suo "spionaggio" che, ricorda Fabio Chiusi, conosciamo l'uccisione di 195 civili in Afghanistan, o cose come l'episodio di un elicottero Apache americano che spara su dei semplici cittadini, e su dei giornalisti Reuters. I suoi critici dicono: ha violato la sicurezza nazionale, fargliela passare significherebbe creare un pericoloso precedente (dov'è finito il liberal Obama? Ragionevole pensare che non sia mai esistito, se non nei media). Chi pensa invece che Manning subisca una pagina nera della giustizia, non solo americana, ritiene che abbia affermato un principio semplice, e sancito dalla Costituzione americana: il diritto alla libertà dell'informazione, e l'assenza di vincoli per un giornalismo che non voglia essere prono ai poteri o ridotto al ruolo di fiancheggiatore embedded dei servizi. Un processo che dunque ci parla di futuro, diritti, giornalismo, rapporto con Internet e la diffusione di un'informazione che prova a essere libera, coi mille rischi e cautele che quest'aggettivo si porta dietro, e senza miracolismi, dentro e fuori la rete. La foto sono lì, ci guardano. Da una parte la sorte di un vecchio e di un paese avvizzito. Dall'altra un giovane con le spalle troppo strette nella sua divisa che - scrive il Guardian - subisce "il processo più vergognoso della storia americana", ma è un processo che parla di noi, delle questioni che ci troveremo inesorabilmente davanti, noi persi tra evasioni fiscali, inciuci e cene eleganti; un processo che parla di ciò che vedremo - o che non sapremo - nei prossimi anni. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2013/07/31/blogs/arcitaliana/berlusconi-e-manning-la-coincidenza-di-due-processisimbolo-oZjq4Il1gbLwUoMR5IgsLP/pagina.html Titolo: Jacopo IACOBONI. - Il baracconata-show (alla fine non si ride) Inserito da: Admin - Agosto 05, 2013, 08:26:10 am 04/08/2013
Il baracconata-show (alla fine non si ride) Jacopo IACOBONI Siamo ormai, a tre giorni dalla sentenza definitiva su Berlusconi, in piena modalità-caciara. Diverse cose colpiscono nella manifestazione di Palazzo Grazioli, che si potrebbe raccontare come una baracconata spassosa. I toni da talk show dell'imbattibile re della televisione, che serve un bello spettacolo di mezza estate in mezzo a palinsesti un po' mosciarelli. La presenza di numerosi pensionati in gita, vecchini che tuttavia parrebbero assai incazzosi, a giudicare dalle interviste che rilasciano. Le bandiere di Samorì tra la folla, uno che tempo fa si proponeva come aspirante erede del Cavaliere. Quelle di Forza Italia che, dice un tizio, "conservavo da vent'anni" (pare più probabile una alacre ristampa notturna in queste ore). I consueti pullman di passeggeri col panino e il sacchetto pic nic pagato (avviene però anche in altre manifestazioni, e non c'è nulla di male nel farsi una passeggiata gratis a Roma). Le pasionarie in prima fila, una Francesca Pascale che per stare col quasi ottantenne si è sessantennizzata, una bella ragazza napoletana coperta di cipria come una maschera giapponese. Gli occhi a palla della segretaria del Cavaliere Maria Rosaria Rossi. La messa in piega appena sistemata della Santanchè, in piena tenuta a dispetto dei quaranta gradi. La consueta, sobria maglietta della Mussolini, "c'hann scassat o'cazz". Ovviamente la parole del leader condannato, che fornisce lui il titolo scontato, "io non mollo" (manca il barcollo, quello si vede a occhio nudo). L'Inno di Mameli, insolitamente usato per sostenere le ragioni di un uomo che ha frodato sette milioni allo Stato (in realtà il processo riguarda una cifra molto più alta di soldi, 368 milioni, ma prescritta). I commenti televisivi che ancora discutono pensosamente su una "strategia di Berlusconi" (il Financial Times quando scrive "cala il sipario sul buffone di Roma" è troppo ottimista e troppo poco italiano). I pensieri nascosti di Enrico Letta, che chissà cosa deve aver pensato guardando in tv l'evento. "Siamo responsabili"; baracconata sì, ma responsabile. Forse un quadro così rischia un po' di far dimenticare che ci sono ancora diversi milioni di persone (una decina) assolutamente convinte della bontà delle tesi berlusconiane, e disposte a votarlo. O che c'è un leader condannato che parla sulla tv pubblica con notevole grancassa (il discorso a caldo dopo la condanna), confondendo un po' tutto (magnifico quando dice che lui non telefona a Mediaset perché non c'è traccia di sue chiamate al centralino), e in mezzo alla caciara riscrive la Costituzione dicendo che "la magistratura non è un potere dello Stato perché non è elettivo". Insomma, ci ho ripensato. C'è tanto da ridere. Ma forse più da piangere. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2013/08/04/blogs/arcitaliana/una-baracconata-ma-alla-fine-non-si-ride-MfksuCK9hQyyl5g78mzJUP/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - E qual è il grosso rischio per il Cavaliere Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 05:16:47 pm 26/09/2013
La vera storia delle dimissioni-farsa E qual è il grosso rischio per il Cavaliere Può forse essere utile, nelle giornate tragiche e sciagurate che l'Italia si appresta a vivere, raccontare e spiegare un po' meglio cosa sono queste dimissioni-farsa minacciate dai parlamentari del Pdl, perché le chiamiamo qui con l'epiteto della farsa, della finta minaccia, e ciononostante rischino lo stesso di produrre conseguenze eversive. - Le dimissioni minacciate con grande strepito sono state "consegnate nelle mani di" Renato Brunetta e Renato Schifani, i due capigruppo del partito. Procedura burla, perché naturalmente le dimissioni si danno o non si danno, e quando si danno si presentano con una lettera scritta alla presidenza della camera di appartenenza. - Se anche accadesse davvero questo, il 4 ottobre, cosa succederebbe? Dal punto di vista dei regolamenti delle camere non esiste ovviamente in nessun modo l'istituto delle dimissioni di massa. Le dimissioni sono sempre e comunque individuali. - Se la motivazione delle dimissioni è la volontà di optare per una carica incompatibile con il suo mandato, l’aula ne prende atto senza procedere a votazioni. Il caso delle minacciate dimissioni del Pdl è diverso. Se infatti le motivazioni sono differenti, le dimissioni devono essere accolte dall’aula con una deliberazione. L’articolo 49, comma 1, del Regolamento della Camera, e l’articolo 113, comma 3, del Regolamento del Senato, stabiliscono che la votazione ha luogo a scrutinio segreto. Si voterebbe, naturalmente, caso per caso. In caso di dimissioni accettate, subentrerebbe il primo dei non eletti. Poi il secondo, e così via. Questo per l'ovvia ragione di impedire, a ogni elezioni, alle minoranze di disertare in massa l'aula e crashare ogni volta il sistema. Tra l'altro, per prassi parlamentare, di solito dimissioni di un parlamentare vengano sempre respinte una prima volta come gesto di cortesia. Questo anche solo per dare l'idea di cosa succederebbe in concreto (è da chiedersi se poi un Berlusconi elettorale sarebbe penalizzato da questa palude da lui creata; in Italia è persino possibile che se ne avvantaggi, agitando la vecchia storia della persecuzione delle toghe rosse). - Ma naturalmente le dimissioni sarebbero un fatto di natura politica enorme, se davvero acccadesse. Come potrebbe il parlamento restare operativo se un terzo dei suoi componenti decide di non partecipare più alle sedute? Qui però la questione si fa controversa, e viene in mente un grande presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che si faceva un vezzo in circostanze difficili del vecchio detto "a brigante, brigante e mezzo". Se Berlusconi impalla il parlamento e crea il caos istituzionale, pretendendo nello stesso tempo di non far cadere tecnicamente il governo, è già chiara l'arma (non solo retorica) che gli è stata subito prospettata: le dimissioni immediate del presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano ha già comunicato, attraverso vari canali, di avere la lettera pronta nel cassetto. - In quel caso la situazione sarebbe questa: parlamento politicamente paralizzato, ma non sciolto, e costretto dalle norme a votare caso per caso le singole dimissioni. Nulla vieterebbe però a quel punto - anzi, sarebbe obbligatorio, con un presidente della repubblica davvero dimissionario - di fissare subito la riunione in seduta comune per eleggere il nuovo presidente. - Attenzione, si tratta di scenari non favolistici, ma realmente configurati - come racconta ampiamente La Stampa - dal Quirinale nei suoi colloqui con gli "ambasciatori" politici. Con una postilla assai esplicita: un nuovo presidente non sarebbe a quel punto un presidente eletto con larghe intese, ma un presidente coi voti di una maggioranza semplice. - Chi potrebbe essere? Inutile spingersi a tanto. Diciamo che non sarebbe un'eventualità del tutto conveniente per il Cavaliere dell'eversione-farsa. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2013/09/26/blogs/arcitaliana/la-vera-storia-delle-dimissionifarsa-q6Tz02kgxQ4saa4YCbZTqK/pagina.html Titolo: J. IACOBONI. - M5S, un elettorato nato a sinistra ma ora in espansione a destra Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2013, 05:25:11 pm POLITICA
11/10/2013 M5S, un elettorato nato a sinistra ma ora in espansione a destra Ghisleri: l’80% di italiani vuole più controlli sui clandestini JACOPO IACOBONI Cosa induce Grillo e Casaleggio a scrivere una sconfessione così plateale di un’iniziativa politica dei loro eletti - i quali, oltre a aver fatto la cosa giusta, per la prima volta avevano vinto dal punto di vista parlamentare? Siamo dinanzi alla pura umoralità, all’espressione infine incontrollata di una vocazione destrorsa, o a un calcolo? E dal punto di vista dell’elettorato che li ha votati - o che potrebbe potenzialmente - è un’uscita kamikaze che tradisce totale inaffidabilità, o anche, sia pure a caro prezzo, una presa di posizione che può portare ulteriori voti, e da chi? Grillo ormai non vede le cose secondo la frattura destra-sinistra, il che però si traduce nella sensazione che sia più infastidito dalla sinistra che dalla destra, anche mentalmente (non si fa problemi a discutere con quelli di Casa Pound, per esempio). Eppure è innegabile, lo dicono gli studi seri (pochi) sull’argomento, che elettoralmente il Movimento cinque stelle nasce, diciamo così, più a sinistra che a destra. Fino alle amministrative, ricorda Elisabetta Gualmini nella sua ricerca sul Mulino, le cose sono chiare: il 46 per cento dei loro elettori viene da centrosinistra, il 38 da centrodestra. Nel lombardo veneto - cosa singolare - più da sinistra, nel centro e nel sud con uno zoccolo duro anche dal centrodestra. Il che, tra l’altro, torna abbastanza con gli orientamenti prevalenti del gruppo parlamentare, che - per cultura, e si direbbe quasi per antropologia - proviene molto più dal centrosinistra, a volte nella versione radical, altre volte in quella ambientalista. Una ricerca di Demopolis (sul voto, non su improbabili sondaggi) mostrava che dei loro otto milioni e mezzo di elettori del febbraio 2013, solo il 15 per cento proveniva dall’astensione, due su dieci avevano votato per il Pd nel 2008, altrettanti erano ex dipietristi, mentre quasi tre su dieci per il Pdl. In sostanza, una prevalenza di elettorato che arriva dal centrosinistra. Ma Grillo non vuole essere una «costola della sinistra». Anzi. A maggio le cose stavano quindi mutando: mentre gli elettori sottratti al Pd sono calati (dal 24 al 20 per cento), starebbero salendo quelli di provenienza Pdl (dal 22 al 29; del resto è ovvio, ora è il Pdl, ferito, quello da finire). È come farsi la chirurgia plastica: ti cambiano un po’ i connotati, e non è detto come riesca. Certo il mutamento di tratti è messo nel conto, fa parte della volatilità di un voto molto d’opinione (tra parentesi va considerato che i sondaggi di giornata hanno campioni troppo piccoli, e soprattutto omettono che la quota di astenuti oscilla tra il 30 e il 35 per cento: troppo per avere risultati credibili). Ma questo mutamento avviene tutto pescando elettorato da destra? E è voluto, ossia Grillo e Casaleggio - il più infastidito dei due dell’iniziativa dei parlamentari - deliberatamente «torcono a destra» il loro Movimento? Renato Mannheimer ha un dato interessante: «Se si chiede all’elettorato del Movimento se è di destra o di sinistra, il 67 risponde né né (come sostiene Grillo, nda). Solo un terzo si dichiara: di questi sono più quelli di centrodestra, il 33 per cento, che di centrosinistra, il 27». Alessandra Ghisleri fa un’osservazione illuminante: «Secondo i dati dell’osservatorio di Eurobarometro, una cifra intorno all’80 per cento di italiani chiede che i controlli sui clandestini siano fortificati, non allentati. Dinanzi a un dato plebiscitario è chiaro che Grillo ha capito perfettamente l’elettorato, e punta a un sentimento che nell’opinione pubblica è trasversale». In sostanza: anche molto elettorato di sinistra, esposto alla crisi economica, insicuro socialmente e culturalmente, è diventato securitaire (lo sgombero dei rom di Cofferati, o Zanonato duro in via Anelli a Padova, ne furono conseguenze, non premesse). Grillo sceglie cinicamente di fare il passo oltre; favorendo, o forse solo assecondando, il cambiamento di volto del suo Movimento. http://www.lastampa.it/2013/10/11/italia/politica/ms-un-elettorato-nato-a-sinistra-ma-ora-in-espansione-a-destra-U4yUW4cLHhuFZjKLYYibhI/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Grillo, terzo V-day: si lavora per Genova il 30 novembre Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2013, 11:29:50 am Politica
17/10/2013 - retroscena Grillo, terzo V-day: si lavora per Genova il 30 novembre Il primo V-day a Bologna nel 2007 Slitta invece la visita con Casaleggio ai senatori Jacopo Iacoboni Era stato proprio Grillo a annunciarlo sul blog il 3 settembre: stiamo lavorando al terzo Vday. «O ci sarà una svolta o una lenta stagnazione con facce nuove a proteggere i vecchi interessi di sempre. Presto faremo il terzo VDay. Tenetevi pronti». Niente alleanze, radicalità «rivoluzionaria ma non violenta», e tenetevi comunque pronti a elezioni, anche se ora sembrano improbabili: «Il M5S - scriveva Grillo - è condannato dalla sua stessa natura a vincere la partita o a perderla irrimediabilmente. I pezzi bianchi non possono allearsi con quelli neri. A differenza degli scacchi in questa partita non è previsto il pari, ma solo lo scacco matto». Citava anche Kasparov; pazienza se negli scacchi, in realtà, esiste anche lo stallo. Ecco: paradossalmente, pur trovandosi in uno stallo politico di fatto - e dopo la clamorosa sconfessione fatta da Grillo e Casaleggio dei loro senatori che avevano fatto passare un emendamento che aboliva il reato di immigrazione clandestina - il Movimento viene dato in risalita. E poiché i suoi fondatori non danno la situazione politica per stabilizzata, e giudicano le elezioni sempre dietro l’angolo, Grillo e i suoi stanno lavorando per tornare sul terreno su cui da sempre si sono mossi meglio: la piazza. La notizia circola tra alcuni parlamentari fedelissimi: il terzo Vday si dovrebbe tenere a Genova, la città di Grillo. La data: sabato 30 novembre, a una settimana dal voto del Pd su chi sarà il nuovo segretario. Insomma, se il partito democratico prova in qualche modo un recupero di voti dal M5S, gli altri non se ne stanno fermi con le mani in mano. Anzi: cercano di rilanciare con un happening la vera vocazione originaria, che unisce la rete a una partecipazione anche fisica dal basso. Ieri s’è saputo che per ora Grillo e Casaleggio rimandano la visita a Roma di domani. Molti parlamentari hanno messo avanti i loro impegni già presi, altri non volevano l’effetto-scolaresca dell’altra volta. Pesa soprattutto il fatto che le posizioni sull’immigrazione, rispetto ai due fondatori, restino distanti. La piazza, in questo quadro, è sempre stata per Grillo un toccasana. È forse utile ricordare che l’ultimo Vday si era tenuto cinque anni e mezzo fa, il 25 aprile 2008 a Torino (data non casuale, fu scelto il giorno della Liberazione), e ebbe a tema l’informazione e lo stato dei media italiani, mentre il primo, quello di Bologna, ci fu l’8 settembre del 2007 e puntò il fuoco sulla moralità della classe politica, i requisiti per l’eleggibilità, e quindi sul no al finanziamento pubblico ai partiti. I primi due Vday avvengono quando il Movimento cinque stelle non è ancora ufficialmente nato (è stato fondato il 4 ottobre del 2009, sulla scia di una serie di esperienze che dai meet up arrivano alle liste civiche del 2008). Di fatto si può dire che i Vday sono sempre stati dei momenti di svolta e di passaggio, una fase in cui l’organizzazione di Grillo ha fatto un passaggio in avanti. Sarà così anche stavolta? Fu proprio Grillo, quando l’anno scorso cominciò a parlare della possibilità di «una nuova grande manifestazione», a dire: «Le piazze sono cambiate, da allora. Il Vday non ero io in piazza, abbiamo parlato in ventidue persone, ingegneri, mamme, ex poliziotti, sindacalisti, scienziati, dottori... ma sui giornali non è stato menzionato nessuno. L’idea era quella, far parlare i cittadini». Il risultato fu di quasi totale silenzio sui media. Ora il M5S rilancia. Non si conoscono ancora gli ospiti, e il tema (anche se è certo che l’informazione, e soprattutto la situazione della Rai, saranno al centro). Se zoppica nel rapporto tra parlamentari e blog, il Movimento sa che nella protesta contro l’establishment e le larghe intese ha la sua assicurazione sulla vita. E in piazza può osservarsi allo specchio per capire cos’è diventata la sua militanza, e il suo elettorato. http://lastampa.it/2013/10/17/italia/politica/grillo-terzo-vday-si-lavora-per-genova-il-novembre-sO8jsSNEKPzUIxJ82TEbAK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - La carica degli “anti-renziani devoti” Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:33:35 pm Cronache
15/11/2013 Tutti (nemici) sul carro di Matteo La carica degli “anti-renziani devoti” D’Alema lo avvisa: “Il partito ti osteggia”. Il sindaco: ride bene chi ride ultimo Jacopo Iacoboni Dice: tutti salgono sul carro di Renzi; e in apparenza è vero. Lui non li ha chiamati, anzi («sul carro non si sale, il carro si spinge»), è spettatore di questa comédie humaine. Nel miglior discorso della Leopolda Alessandro Baricco lo avvisò: «Matteo stia attento, sono tutti abbastanza renziani perché hanno capito che questo un po’ li terrà vivi, ma nella testa la distanza dal cambiamento è sempre quella. Le pile sono scariche». Davanti allo scrittore torinese passeggiavano Dario Franceschini assediato (ancora?) dalle telecamere, si scorgeva l’antico teorico del proporzionale Stefano Passigli, il dalemiano Latorre dava suggerimenti in sala (curiosamente, s’era collocato davanti a una porta con su la scritta: «Apparati»). Il giorno prima avevano fatto capolino Piero Fassino e anche - cosa mai vista alla Leopolda - il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, che aveva voluto dare un cenno di ascolto. I fenomeni minori ma rivelatori sono tanti, da Milano, dove l’ex capo bersaniano del Pd milanese, Francesco Laforgia, si era presentato in prima fila a sentire Renzi a Sesto, al caso Bonaccini, ex bersaniano passato alla macchina del sindaco. Per citarne solo due. Si potrebbe insomma credere che Renzi, prima ancora dell’esito delle primarie, abbia già vinto culturalmente. La verità è che non è affatto così. Nella pancia, nel cuore, in tanta macchina del partito resta, se non l’alieno, un oggetto da guardare con estrema diffidenza. È come se lo stessero già lavorando ai fianchi in vari modi: mandandogli sul carro gente con la tecnica del cavallo di Troia, contaminandone la vittoria (se il congresso si offusca in storiacce di tessere, peggio per chi vincerà), preparandogli Letta come candidato-premier alternativo, oppure direttamente denigrandolo. Mettete insieme i pezzi. Domenica, intervistato da Maria Latella, il segretario Epifani, che pure potrebbe imbracciare una linea di pura garanzia da traghettatore, dice invece: «Letta candidato premier anche lui? È una cosa che può essere. Vorrei che assumessimo questo come un percorso fisiologico». Pierluigi Bersani, così esposto appena nel recente passato, non si comporta come in Inghilterra farebbero un Kinnock o un Brown, non osserva da lontano: va dalla Annunziata e fa sapere «Renzi non mi ha ancora convinto, dà l’idea che il partito sia solo le salmerie del leader». E ieri D’Alema, mega-intervistato come ai bei tempi, risultava il più rivelatore di tutti: «Se Renzi dovesse diventare segretario si troverà a gestire un partito che in buona parte dovrà convincere. Non potrà pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia». «In certa misura», che eufemismo (D’Alema, commentando il voto di De Benedetti per Renzi, accenna anche «al potere economico» che starebbe col sindaco; salvo non aver detto nulla quando analogo endorsement arrivò a Bersani nel 2012). Renzi li avvisa, «ride bene chi ride ultimo, anche nei congressi siamo avanti». Denuncia il rischio degli «accordicchi». Ma gli anti-renziani sono in attività elettrica. Come se non fosse successo nulla da febbraio. Stefano Di Traglia, ex portavoce di Bersani, questa battaglia la fa apertamente: «Renzi rischia di vincere le primarie ma non i congressi, e così sarà un’anatra zoppa. Doveva stracciare tutti con l’80%, ma al momento la notizia è che non ha la maggioranza nei congressi. Dunque, se vincerà, dovrà garantire legittimità, agibilità politica (usa proprio questa parola, nda) a tutti gli altri che sommati hanno più voti di lui». E Letta? L’altra sera, proprio presentando il libro di Di Traglia-Geloni, il premier ha formulato una frase che ha fatto sobbalzare: cercare il M5S, come fece Bersani, servì oggettivamente (al di là delle volontà dell’interessato) a «far mandare giù» ai nostri elettori le larghe intese (Bersani «si immolò»). Di Traglia sa che le parole di Letta lasciano basiti; ma minimizza, «lui e Bersani hanno un ottimo rapporto, non si può pensare che ci fosse un disegno, semmai la conferma che il tentativo di Bersani con Grillo è stato onesto». Nell’ottica di questi anti-renziani devoti, per la corsa a premier «c’è sempre il presidente del Consiglio, e proprio il regolamento del Pd dà ad altri dirigenti del partito la possibilità di concorrere alle primarie di coalizione per il futuro posto di candidato premier». Dicono: tutti sul carro di Renzi. Sì, per sfondarglielo. Da - http://lastampa.it/2013/11/15/italia/cronache/tutti-nemici-sul-carro-di-matteo-la-carica-degli-antirenziani-devoti-039e7cHbC2Z6zePUERE90N/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Un voto contro l'apparato E una sfida di fatto a Letta Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 11:28:59 am 08/12/2013
Un voto contro l'apparato E una sfida di fatto a Letta Con un'affluenza intorno ai tre milioni nelle primarie (ancor più che con la sua percentuale molto alta, intorno al 70 per cento) Matteo Renzi ha ottenuto un successo innegabile anche per i suoi nemici; ha mostrato che esiste eccome un effetto-Renzi in un voto popolare; ha dato la prova che gli elettori democratici non ne possono più dell'apparato D'Alema-Finocchiaro (ma, occhio, anche dei Franceschini e dei Boccia, che si sono cammellati - non per volontà del sindaco - sul suo carro). Civati è andato piuttosto bene, senza fare sfracelli ma dando segno di vitalità. Cuperlo molto male e, a nostro giudizio, non perché non fosse un uomo di valore: semplicemente perché è apparso totalmente schiacciato e legato all'abbraccio mortale della burocrazia del partito (e della Cgil): un tandem micidiale che farebbe perdere una partita anche a Maradona, se esistesse, nell'Italia 2013. Non è sconfitta la sinistra: è sconfitto l'apparato; non è infondata (andrà verificata) l'ipotesi che esista molta più potenziale sinistra con Renzi, che con gli asseriti campioni del dalemismo. D'Alema magari potrebbe riflettere sull'invito di Prodi: "E' tempo di fare spazio alle nuove generazioni". Non lo farà, naturalmente. Il difficile per Renzi comincia ora. Si delineano già stasera due scene stridenti, e totalmente incompatibili: oggi c'è un uomo non ancora quarantenne che conquista la guida del partito con una campagna aperta, popolare, e chiedendo un voto agli italiani. Una foto in mezzo alla gente (tutta la gente, non "la nostra gente", come dice con supponenza il vecchio birignao democratico). Mercoledì c'è un altro voto: in stanze divenute grigie, purtroppo, il Parlamento delle larve intese (neanche più larghe). Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E' molto difficle pensare che queste scene possano stare insieme. Così come è lecito chiedersi: Letta è davvero contento, tra sé, di questo exploit renziano? twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2013/12/08/blogs/arcitaliana/un-voto-contro-lapparato-e-una-sfida-di-fatto-a-letta-xecCkdsMnkO4Vb4KvF5wfM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Quei politici segnati a vita dalla foto-icona... Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:16:37 pm 21/12/2013 - FOTOGALLERY
Quei politici segnati a vita dalla foto-icona di JACOPO IACOBONI Un’icona, scriveva il mistico russo Pavel Florenskij in Porte regali, è appunto una porta, «confine fra il mondo visibile e il mondo invisibile». È al tempo stesso un’immagine e non lo è (più), nel senso che apre significati che sarebbero impensabili per una semplice immagine, figuriamoci per una fotografia giornalistica. Per bizzarro che possa sembrare nel più prosaico dei mondi che c’è - la politica italiana dell’anno di grazia 2013, che sta ormai per chiudersi - le foto sono ormai diventate icone sanguinanti di un potere che stenta sempre più a essere accettato, a legittimarsi agli occhi degli elettori. Nel totale discredito delle élités e delle classi dirigenti, basta che una foto, magari rubata sul settimanale Chi, paparazzata con un teleobiettivo, o scattata nella concitazione di una manifestazione di piazza, appaia e si fissi nell’immaginario diffuso, e il soggetto che ritrae ne risulterà bollato per sempre. Azzerata la sua storia, condannato inesorabilmente. L’icona ha anche, implacabile, un che di sacrificale. Accade sempre più spesso, giusto o sbagliato che sia. L’ultimo è stato il leader della protesta dei forconi, Danilo Calvani, fotografato e dunque totalmente screditato su una Jaguar. Da allora chi gli può credere più? (e pazienza che la Jaguar usata si compri a 4mila euro). Ma prima è toccato in questi anni a tanti altri personaggi pubblici, politici, soprattutto, di cui non ricordiamo altro che quell’immagine, Finocchiaro che fa la spesa all’Ikea facendosela portare dagli uomini della scorta, il «militante di sinistra» D’Alema sulla barca a vela Ikarus o a braccetto col ministro di Hezbollah, l’ex premier Monti col cagnolino Empy in braccio in tv da Daria Bignardi, ovviamente Berlusconi a Villa Certosa mano nella mano con le ragazze, Formigoni che si tuffa dalla barca di Daccò, il sindaco di Bari Emiliano che cena con «cozze pelose», la Polverini che per santificare la pace con Bossi si fa immortalare a imboccarlo di spaghetti all’amatriciana a Roma... Non sono neanche più politici: coincidono con quelle fotografie, SONO quelle fotografie. Sono scatti ferini, e nello stesso tempo tristi; condanne definitive. Da quel momento in poi il fotografato non è neanche più un umano: è ricacciato indietro, nel mondo soprasensibile dei nuovi mostri, bersaglio di un’opinione pubblica divenuta famelica e implacabile. Da - http://www.lastampa.it/2013/12/21/multimedia/italia/quei-politici-segnati-a-vita-dalla-fotoicona-T5iBYRSmSIqanH9S7h8yyL/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - L'Italia dell'ultimo giapponese Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2014, 05:14:55 pm 17/01/2014
L'Italia dell'ultimo giapponese E' morto ieri pomeriggio. L'ultimo giapponese. L'ex ufficiale Hiroo Onoda continuò a combattere per decenni sull'isola filippina di Lubang, credette fino al 1974 che il Giappone imperiale non poteva esser stato sconfitto. La guerra la vinciamo noi, pensò fino a quasi trent'anni dopo la fine. Come in un film di Kusturica, ma era la sua realtà, non il sotterraneo immaginato da un grande regista. I suoi compagni li ha lasciati a combattere in Italia. Siamo un paese pieno di "ultimi giapponesi"; personaggi pubblici, a volte ragguardevoli, in qualche caso antiche eccellenze, più prosaicamente vecchie glorie - della politica, dei media, dello spettacolo, dell'avanspettacolo - che continuano a combattere battaglie di un mondo che non esiste più. Ne incontriamo tantissimi, ogni giorno. Occupano ancora stabilmente la vita pubblica. Si fanno sentire nel dibattito, scrivono o si fanno intervistare sui giornali, peraltro disponibili. Spesso, dotati come sono di autentica simpatia, coloriscono cronache lievemente in affanno, complice la crisi mondiale dell'editoria; del resto loro, gli ultimi giapponesi, nulla ne sanno, convinti come sono di vivere all'indomani della caduta del muro di Berlino; in qualche caso anche più indietro - altro che seconda guerra mondiale - nel mondo del pennino e dell'inchiostro della signorina Felicita e delle zie coi biscottini del tè avariati da regalare ai poveri nipotini. Gozzano è vivo e lotta insieme a noi. Fogazzaro ci fa un baffo. I nostri ultimi giapponesi, in definitiva, non se ne stanno nello scantinato di Underground. "Ormai siamo alle comiche", dice Massimo D'Alema uscendo dalla direzione del Pd nella quale Renzi ha invitato il partito a cambiare altrimenti "saremo spazzati via", ha avvisato il segretario. No, il giapponese D'Alema è convinto che le riforme se non le ha fatte lui, non le deve fare nessuno; e anzi magari tornerà il suo momento, la guerra è ancora in corso, chissà, il fronte sudorientale, la bomba atomica, l'aiuto dei sottomarini... Combattere combattere combattere; anche se là fuori non c'è più nessuno. Uscito dalla direzione, per non sbagliarsi corre a telefonare a Andropov. Eugenio Scalfari scrive sull'Espresso che Internet ha a che fare con non poche nequizie della vita contemporanea, "la conoscenza artificiale esonera i frequentatori della Rete da ogni responsabilità", "il pensiero si è anchilosato come il linguaggio". Titolo dell'articolo, "E' Internet la causa dell'ignoranza". Daniela Santanchè afferma che "il leader il centrodestra ce l'ha, è Silvio Berlusconi". Chi le è intorno le tace qualunque informazione sensibile dal 1996 a oggi. Anna Finocchiaro, al voto sulla mozione Giachetti, dichiara "del tutto intempestivo" quel testo per tornare al Mattarellum. D'altra parte non siamo nel maggio 2013 quando questo avviene, ma in un mondo senza tempo dove si sa, le riforme devono ancora essere ben riflettute maturate e ponderate. Hai visto mai che facessimo qualcosa di affrettato. E dunque si combatta ancora. Mastella dice "non c'entro niente con le nomine alle Asl". Anzi no, era Nunzia De Girolamo. Combattono ancora, entrambi. L'elenco sarebbe lunghissimo, colorito, impossibile non dico esaurirlo, anche solo tratteggiarlo; ci si scusi quindi l'arbitrarietà di questi accenni che pur meriterebbero enciclopedica trattazione. Ogni giorno un ultimo giapponese, maggiore o minore che sia, spara il suo colpo o colpetto di fucile nella foresta, dà un'oliatina alle armi, si assicura di essere ancora in battaglia. Sulle scogliere di marmo. Silvio Berlusconi, vent'anni dopo aver fregato D'Alema sulle riforme (1998), ci riprova con Renzi. Occhio che forse il Cavaliere non è un ultimo giapponese e la sua è una battaglia del 2014. Anche con l'ultimo giapponese bisogna distinguere chi lo è davvero, da chi si mimetizza per colpire meglio. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/01/17/blogs/arcitaliana/litalia-dellultimo-giapponese-9GflHycCRL59YeuoyKhqeP/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - "Si rianima Berlusconi"? Sarà il tempo a dirlo. Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 12:15:15 am 18/01/2014
La scelta di Renzi, l'errore del M5S "Si rianima Berlusconi"? Sarà il tempo a dirlo. Mentre è possibile ricostruire come si è arrivati allo schema attuale Jacopo Iacoboni E' vero, Berlusconi è il padre del Porcellum. Berlusconi è, anche un pregiudicato, fatto decadere dal Senato perché condannato in via definitiva per frode fiscale. In questa rubrica raramente si è parlato bene di lui. Che senso ha allora andare da lui a discutere la legge elettorale da fare? E' questa l'obiezione principale che si sente fare in queste ore alla scelta di Matteo Renzi di tentare un dialogo - massimamente rischioso - col baro di Arcore. Un'obiezione che viene non solo dal mondo del Movimento cinque stelle - l'unica forza politica che ha dei titoli per farla, essendo stati loro, più di tutti, ad aver spinto per ottenere la rapida calendarizzazione della decadenza del Cavaliere - ma anche (e questo è assai più discutibile) da una minoranza Pd che per vent'anni (in tutte le sue versioni, dalemian-veltroniane-bersaniane) non solo col Cavaliere ha dialogato, ha fatto di più: ha tentato accordi mediocri, molte volte non alla luce del sole, per di più sempre fallimentari. Mentre la critica dei secondi (gli ultimi giapponesi del Pd) a Renzi è palesemente strumentale e ipocrita, quella dei primi (i cinque stelle) va almeno ascoltata, e ricostruita, cercando una spiegazione. La legge elettorale chiamata Porcellum fu approvata dalla maggioranza di centrodestra nel dicembre 2005, con l'obiettivo, poi parso palese, di sporcare alle elezioni del 2006 la vittoria prevedibile del candidato del centrosinistra Romano Prodi. La responsabilità maggiore ricade, storicamente, su quella parte politica (che è quella di Berlusconi). Questo è un fatto. Non date retta a chi darà le colpe dell'universo mondo "ai grillini". E' propaganda, anche male argomentata. In seguito il centrosinistra non è riuscito a cambiare la legge (non ha voluto?) neanche nei due anni in cui ha goduto di una sia pur fragile maggioranza parlamentare: perché? Quella legge stava forse bene a entrambi gli schieramenti, poiché consentiva ai leader di partito di nominare, in modi poi sentenziati incostituzionali, i parlamentari? Certo se sono vere alcune ricostruzioni - guardate per esempio le non rare denunce del democratico Roberto Giachetti - per lungo tempo Anna Finocchiaro e Gaetano Quagliariello, vecchio Pd e Pdl (ora Ncd), i due "ambasciatori" della riforma della legge, hanno "brigato" per incardinare la riforma al Senato (dove si sapeva che non c'era alcuna maggioranza) o per tenere sostanzialmente celati - in arcane stanze - lavori totalmente incomprensibili ai più. Quando, il 28 maggio del 2013, Giachetti propose una "mozione di salvaguardia", cioè un testo che - in assenza di riforma elettorale - impegnasse l'aula a tornare al Mattarellum (un sistema un po' meno peggiore del Porcellum, a giudizio convidiso) i renziani inizialmente appoggiarono la mozione; Letta salì però al Colle e segnalò che - se questo testo fosse stato votato da Pd e M5S insieme - il governo delle larghe intese Pd-Caimano sarebbe caduto nella culla. Morale: il Pd non votò il ritorno al Mattarellum (escluso Giachetti), Finocchiaro definì in tv tutta l'operazione "intempestiva", e fu solo il M5S a impegnarsi in tal senso e votare. Questo solo per ricordare le principali nequizie dei due schieramenti principali. Nel frattempo Beppe Grillo, che inizialmente era favorevole a un ripristino del Mattarellum - lo disse anche in un'intervista, l'unica concessa, alla Stampa - sei mesi dopo spiegò di non creder più che questa classe politica l'avrebbe mai approvato, e dunque si espresse a favore di un ritorno alle urne anche con la legge vigente (il Porcellum). Dopo l'8 dicembre, il neosegretario del Pd Matteo Renzi ha molto accelerato sulla riforma, proponendo le sue celebri tre idee di fondo (spagnolo, Mattarellum rivisto, doppio turno). Le ha avanzate in maniera irrituale, più sui media che nelle aule; ma le ha proposte con molta forza, e non si può dire che non siano arrivate ai destinatari. La risposta del M5S è stata questa: prima Grillo, poi Casaleggio, hanno spiegato che la proposta ufficiale del M5S arriverà a fine febbraio, e sarà formulata attraverso il voto on line. In ogni caso - postilla decisiva - Grillo stabilisce che questa proposta sarà comunque valutata dal futuro Parlamento, perché questo è illegittimo. Può sembrare curioso o paradossale, il M5S sarebbe peraltro l'unica forza che ha prodotto in aula un testo concreto per la riforma elettorale - basato oltretutto su un sistema spagnolo, con circoscrizioni piccole, dunque non così dissimile da quello che in queste ore starebbe uscendo dall'incontro tra Renzi e Berlusconi. Ma questo non fa che aggiungere un altro elemento di beffarda e amara ironia della storia. E' questo il cul de sac in cui legittimamente - ma sbagliando, a mio giudizio - si è infilato il M5S. I suoi fondatori non hanno colto una differenza politica di scenario notevole: Bersani cercava un'alleanza (già impossibile per statuto del M5S, chi scrive lo disse e scrisse in ogni sede, allora) con l'acquisto politico di una decina di parlamentari M5S, mentre Renzi non chiedeva un'alleanza, solo un dialogo su una riforma condivisa. Il no di Grillo ha lasciato di fatto solo un paio di interlocutori reali al neo segretario Pd: il pregiudicato Berlusconi e Alfano, che pregiudicato non è ma è il più classico rappresentante del partito delle piccole intese, dello status quo permanente, dei partitini pronti a voltar gabbana sempre e comunque, assicurando a se stessi poltrone, e all'Italia inutili e inefficienti governi non eletti; vita natural durante. Un doppio turno (come vuole Alfano) magari di coalizione, assicura l'esistenza di partitini poi sempre decisivi nelle frittate delle larghe intese. La scelta di Renzi è caduta su chi sapete, almeno in prima battuta (il leader del Pd sta vedendo tutte le forze politiche, naturalmente, ma è decisivo lo schema con il Cavaliere). Una scelta difficile e assai rischiosa, che sarà il tempo a valutare, e certo contiene in sé l'enorme pericolo di rianimare il Cavaliere; una scelta che poteva anche non essere sigillata con l'espressione "profonda sintonia", pronunciata nella conferenza stampa dopo l'incontro con Berlusconi, ma la cui alternativa - questo è bene saperlo - era lo status quo, i non governi permanenti, o almeno, i governi permanentemente decisi in alto colle. Non si può pensare che sia questo il desiderio dei cinque stelle; e se è comprensibile l'amaro in bocca di veder protagonista il Caimano, ci si è arrivati nel modo che si è qui descritto. Ovviamente, si deve sperare che il finale non sia il solito, Berlusconi che in qualche modo frega tutti. twitter@jacopo@iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/01/18/blogs/arcitaliana/la-scelta-di-renzi-lerrore-del-ms-VXA7nHwt9G6Wiwkv9FwkQK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - L'Italia che (non) sa votare le preferenze Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2014, 05:51:53 pm 20/01/2014
L'Italia che (non) sa votare le preferenze Per salvare le preferenze Bettino Craxi - perdonate la citazione ovvia - invitò gli italiani ad "andare al mare" nel referendum del 1991 che chiedeva l'abolizione della preferenza plurima. Tra i tanti paradossi nella vicenda della riforma elettorale italiana del 2014 c'è persino che la forza più limpidamente anticraxiana e antiberlusconiana dello scenario italiano, il Movimento cinque stelle, lamenti soprattutto che nel sistema di voto su cui si lavora al momento non siano consentite le preferenze. Discorso a parte meriterebbe l'ira raggelata dei bersaniani, riassunta nella direzione del Pd nelle parole di Gianni Cuperlo (che ha chiesto una "consultazione" della base sulla proposta elettorale di Renzi); ma anche questa - sia pure nei modi obliqui propri della minoranza del Pd - si deve al fatto che la mediazione di Renzi non ha introdotto le preferenze che loro chiedevano (pazienza che abbiano cambiato idea rispetto a quando - era solo il 2012 - la sempre assertiva Anna Finocchiaro giurava solenne: "Se qualcuno vuole una legge elettorale con le preferenze sappia che non siamo disponibili". Non era un millennio fa, ma fa niente; in politica si cambia idea). Naturalmente il vecchio partito socialista, come la Dc (che in questo gli era anche superiore), aveva prosperato su un'industria delle preferenze che prevedeva appunto la degenerazione, delle preferenze: la scelta dei candidati declinata come campagne elettorali costose, mercanteggianti, personalizzate, e sempre molto ben finanziate, da varie fonti, non solo pubbliche. I sostenitori M5S delle preferenze fanno un discorso del tutto diverso, questo è palese, volevano restituire agli italiani un potere di scelta che il Porcellum, dal 2005, ha di fatto negato al popolo: decidersi i rappresentanti. E in astratto le preferenze sono davvero il sistema più giusto, quello preferibile, e anche - giuridicamente parlando - quello più "equilibrato". Poter scegliere direttamente qualunque candidato vogliamo, sottrarre questo potere alle arcane stanze delle segreterie dei partiti avrebbe significato riavvicinare i cittadini alla politica. Dobbiamo però pur ricordare cos'è accaduto in Italia, perché è qui che viviamo. Non sto dicendo che ci piaccia, l'Italia; semplicemente che è fatta così. La storia è leggendaria, ci sono capitoli che paiono appartenere al degrado amaro narrato da Longanesi. Achille Lauro, approfittando delle preferenze anni cinquanta, regalava pacchi di pasta e scarpe spaiate, la seconda scarpa la dava dopo il voto se uno forniva prova di aver apposto la preferenza indicata; Leonardo Sciascia raccontava il voto di scambio a Regalpetra - ne vennero, questo è il lato buono della storia, capolavori sull'antropologia italiana: lo stesso elettore che si prometteva (fisicamente) sia alla Dc che ai monarchici; Calvino narrava di suorine che facevano votare (indovinate chi) i malati del Cottolengo, e Rossana Rossanda ha scritto che a un comizio a Cascina Luraghi, da funzionaria del Pci di Milano nel ‘53, le capitò di trovare che il candidato della Dc locale aveva fatto cambiare lo slogan "La posta in gioco" in "La posta e la democrazia cristiana": e in prima fila eccoti l’ufficiale postale! Così pian piano, in un inarrestabile declino, siamo arrivati ai "mister centomila preferenze" (Elio Vito, detto Elio Vitreo), alle sbardellate dello "Squalo" Sbardella a Roma, ai socialisti napoletani che facevano ricca campagna elettorale guidati da Giulio de Donato nei quartieri spagnoli, con grande pompa di santini, a tantissimi fenomeni che sono il retroterra pratico, prima che culturale, di Mani Pulite. Inutile elencarli tutti. E' un'enciclopedia. La Dc irpina nel 1972 diede ordine di votare i candidati 1, 9, 7, 2. Questo sono state le preferenze. Genialità truffaldina e malcostume politico. Ha ragione Arianna Ciccone, che ha twittato "come criterio di scelta, è abbastanza umiliante"; la storia politica italiana non ci piace, ma da questo viene. E anche questo spiega perché siamo arrivati alla richiesta corale (approvata dal 62,5 per cento degli aventi diritto, nel referendum di Segni nel '91, non un secolo fa) di abolirle, le preferenze. Naturalmente, non darsi la possibilità di scegliere uno per uno tutti i candidati è anche la presa d'atto di una piccola rinuncia collettiva. Sulla quale bisognerà meditare, anche in un'ottica prepolitica. twitter @jacopo_iacoboni da - http://lastampa.it/2014/01/20/blogs/arcitaliana/litalia-che-non-sa-votare-le-preferenze-MRdUB4DJ6ycg3GqvCdbfWN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Cuperlo, D’Alema, Fassina. Tutte le stoccate degli anti-Renzi Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2014, 06:48:06 pm Politica
21/01/2014 Cuperlo, D’Alema, Fassina Tutte le stoccate degli anti-Renzi Tra frasi maliziose e critiche, anche la minoranza ha usato parole forti Jacopo Iacoboni Matteo Renzi nella sua risposta a Gianni Cuperlo gli ha domandato assai polemicamente: come fa a parlare di preferenze chi è stato nominato nel listino bloccato? E certo Cuperlo, a parte aver accettato con entusiasmo la candidatura alle primarie, non si ricorda come appassionato frequentatore di campagne elettorali. «Lo avesse detto Fassina, che ha preso dodicimila voti, avrei capito...», gli ha sibilato Renzi. Eppure anche gli avversari del sindaco-segretario hanno brillato in questi ultimi giorni per frasi maliziose nei suoi confronti. Non sempre politiche. Il Corriere arrivò a scrivere, mai smentito, che i bersaniani mandavano «anche sms a giornalisti amici e ai fedelissimi per invitarli a scavare nella vita del superfavorito alle primarie dell’otto dicembre». Ma in tanti la loro non-simpatia umana per Renzi l’hanno manifestata schiettamente. Ecco allora un ritratto, per verba, degli uomini che rimproverano al nuovo leader (anche) di aver introdotto la tecnica della demonizzazione. Un classico, peraltro, nella tradizione comunista (e post-comunista); nella storia recentissima, solo a Renzi hanno dato del «plagiatore di programmi» (Fassina), o del «fascistoide» (L’Unità), o del Fonzie e Giamburrasca fiorentino (giornali moderati come giornali di sinistra). L’unica differenza è che nel Partito, una volta, anche gli odi più feroci venivano ricomposti nel rito del finto unanimismo. Gianni Cuperlo. Il presidente del partito, prima di ricevere la risposta molto polemica di Renzi, gli aveva detto, testualmente: «Il segretario si era dichiarato persino disponibile a presiederlo, il governo con Berlusconi». Quindi non critichi tanto le larghe intese, gentile avvertimento. Una critica politica che arriva a ipotizzare però la sostanziale slealtà personale del capo. Massimo D’Alema. Assai cordiale, molto taciturno perché «com’è noto passo la maggior parte del mio tempo all’estero», a fine estate diceva “Renzi è come quelli che vogliono prendere la Bastiglia con l’accordo di baroni e baronesse” (i media, insomma); l’altro giorno è stato però intercettato dalla Stampa all’uscita della direzione del Pd e ha commentato il discorso di Renzi con «siamo alle comiche». L’ultimo che l’ha detto è finito male. Stefano Fassina. Forte di un lungo contenzioso con Renzi, nel quale gliene ha dette di tutti i colori, ricambiato, ha commentato così il giorno dopo l’incontro con Berlusconi: «Mi sono vergognato, come militante». La stessa cosa che gli gridavano i militanti democratici nei giorni in cui il Pd silurava Prodi, o si apprestava alle larghe intese. Alfredo D’Attorre. Fin qui non notissimo, ha conquistato un ruolo di portavoce di fatto della minoranza: «Il governo con Berlusconi lo abbiamo fatto perché siamo stati costretti. E Renzi aveva persino dato la disponibilità a guidarlo, mentre Bersani tentava di fare il governo di cambiamento». Il governo del cambiamento consisteva in Bersani premier, nonostante avesse perso - anzi, non vinto - le elezioni. Miguel Gotor, bravissimo storico, autore di una bella, filologica ricostruzione del memoriale di Aldo Moro, ha lavorato per Bersani all’epoca del voto 2013. L’altro giorno ha previsto via twitter: «Renzi resuscita Berlusconi, spacca il Pd, spacca il governo. Cambiaverso che sei contromano». Danilo Leva. Ex responsabile della giustizia, legato a Bersani, ha detto a Renzi «non si può gestire un partito secondo una logica padronale». In sostanza, secondo i codici linguistici in vigore in quel mondo, gli ha dato del piccolo Berlusconi. Andrea Orlando. Ministro dell’ambiente del governo Letta, giudica Renzi «un continuista delle vecchie idee». Stefano Di Traglia. Portavoce di Bersani, l’anno scorso a maggio arrivò a suggerire a Renzi un “impari l’umiltà”. Matteo Orfini. Ex pupillo di D’Alema, forse il più intelligente dei critici di Renzi, gli ha rimproverato «io ero in disaccordo nel merito della proposta, ma la direzione ha votato e la discussione è chiusa. Non lo è invece su un altro piano, ovvero quello del rispetto che dovrebbe esserci tra noi e sul modo in cui si svolge il nostro dibattito». Rispetto, la parola chiave che in tanti hanno un po’ dimenticato, e sorprende di più per gente che in fondo milita nello stesso partito. twitter @jacopo_iacoboni da - http://lastampa.it/2014/01/21/italia/politica/ecco-le-stoccate-del-pd-al-segretario-adytYx1Nqxo3YmAjUpZ3rM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Preferenze, oggi sì domani no. Le opinioni cambiano Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2014, 04:40:39 pm 26/01/2014
Preferenze, oggi sì domani no Le opinioni cambiano Annoierà, ma bisogna tornare a dire qualcosa sulle preferenze. Già s'era scritto qui che - nonostante sia teoricamente a favore delle preferenze - occorreva almeno ricordarne gli effetti nella storia politica italiana. Non per bocciarle definitivamente: così, almeno per sapere chi siamo, e da cosa veniamo. E' forse necessario, però, aggiungere qualcosa su un dibattito tipicamente all'italiana che si sta generando. Probabilmente, per tornare a dare una vera e piena scelta elettorale agli italiani i due sistemi migliori erano (sono? sarebbero?) preferenze oppure collegi uninominali; anche se è possibile ancora, sull'impianto delle legge elettorale che si sta provando a scrivere oggi, una mediazione che porti alla possibilità di indicare almeno un nome sulla scheda elettorale. Vedremo come finirà. Si può però già constatare che il fronte dei sostenitori delle preferenze è composto da un inedito mix, non del tutto credibile (eufemismo); una serie di argomenti sostenuti quasi sempre (salvo eccezioni) per pura convenienza, con svolte e controsvolte, cambiando opinione a seconda di cosa fa comodo in quel momento. Anche a distanza di pochi mesi. Questo bisogna pur saperlo, perché abbiamo memorie troppo corte, sempre. Se si esclude il M5S e anche la sinistra-sinistra (quel che ne resta), che - almeno in teoria - hanno quasi sempre prediletto la massima rappresentatività della legge elettorale (dunque, proporzionale e preferenze), il fronte politico e mediatico che oggi parla di preferenze non pare avere tutte le carte in regola, almeno quanto a coerenza. Lo capeggia il nuovo lodo Alfano, "è assurdo dire di no alle preferenze", ci spiega il vicepremier. Bene. Quando, nel settempre2011, Alfano era ancora a bottega da Berlusconi, gli si sentivano invece dire cose come "il sistema delle preferenze è troppo costoso. Alla fine chi paga?". Una bocciatura sostanziale che ripeteva in varie sedi, e è da sempre la posizione ufficiale del berlusconismo (per evidenti ragioni: Berlusconi i parlamentari li vuole nominare, non far eleggere, per poter avere una compagina azzerbinata; anche se poi paga il paradosso che proprio il re dei nominati, l'attuale vicepremier, fondi un partito alternativo, il Ncd, e lo tradisca. Ma questa sarebbe un'altra storia). Adesso invece Alfano vuole le preferenze perché sa che impantanerebbero la legge elettorale, lasciando il pallino ad libitum nelle mani dell'inconcludente governo di finte-intese di cui lui è autorevole parte. Della sinistra del Pd, nelle sue versioni bersaniana o dalemiana, si è già scritto. Valga solo ricordare che sia Bersani, sia la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, parlavano autorevolmente contro le preferenze - con ragionevoli considerazioni, soprattutto il timore di corruzione elettorale assai diffusa non solo al sud, come si è visto -, giudicando migliore un sistema con collegi uninomimali. Finocchiaro, solo nel 2012, non nel pleistocene, prometteva senza esitazioni: "Se qualcuno vuole una legge elettorale con le preferenze sappia che non siamo disponibili". Ora le vogliono, e anche molto. Il motivo pare chiaro: se hanno fallito le nostre duemilacinquecentosettanta inutili riunioni con Quagliariello e i molteplici incontro al buio con Berlusconi, deve fallire anche questo fiorentino provinciale che viene a farci lezioni. Eugenio Scalfari scrive preoccupato fin dal titolo del "bavaglio ai partitini"; nel luglio 2012 inseriva, tra i requisiti essenziali di una nuova legge, "soglie per evitare l'eccessivo frazionamento". Sartori scambia un sistema per un altro (descrive il Mattarellum come un sistema proporzionale), poi fa ammenda, ma la settimana dopo è lì a spiegarci che la legge cui si lavora oggi è un "Bastardellum". E' insomma un luna park in cui le critiche più coerenti, come quella di Arianna Ciccone (vi invito a leggerla), si mescolano a osservazioni variabili. Come la nuvolosità del cielo. Sarebbe onesto poter chiedere al Parlamento di provare a modificare la legge trovando un modo per far esprimere di più la volontà degli elettori, senza affossarla però. E la ragione la capiscono anche i bimbi: il fallimento di questa legge significa o non rivotare sostanzialmente mai (cosa che molti vorrebbero, in fondo in un sistema dominato dagli establishment istituzionali perché mai lasciar spazio a questa fastidiosa intromissione della "volontà popolare"?), o rivotare con la legge uscita dalla Consulta, un proporzionale puro con le preferenze. Questa legge fotograferebbe sì le tre grandi forze, non produrrebbe nessun "disequilibrio" (per usare il termine tecnico della Corte) tra voti ricevuti e seggi. Ma gli effetti politici sono palesi: poiché per statuto (e per ideologia fondativa) il M5S esclude ogni "alleanza" di governo con altri partiti, il risultato inesorabile sarebbe - senza un partito con la maggioranza dei seggi - ridare il pallino al Quirinale, che lo spingerebbe verso una nuova, brillante stagione di larghe intese perenni (molto ben accettate dal centrodestra, che ha un Berlusconi non più smagliante, ma anche da quel Pd che non vuole provare a vincere perché si accontenta alla grande di conservare le laute postazioni trasversali che detiene nel sistema istituzionale - e mediatico). Con o senza Renzi, a quel punto, non farebbe differenza. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/01/26/blogs/arcitaliana/preferenze-oggi-s-domani-no-uLcfMVWcNKXRLZs8czmn8N/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Il rischio di un'Italia del ghetto Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2014, 12:02:07 am 02/02/2014
Il rischio di un'Italia del ghetto Jacopo Iacoboni Una democrazia è un sistema politico in cui forma e sostanza si integrano, e non possono essere mai del tutto separate l'una dell'altra. E' formale e sostanziale il comportamento nelle aule parlamentari, perché riguarda il modo che abbiamo di stare dentro una democrazia, appunto. E' formale e sostanziale il modo in cui ci rivolgiamo alle altre persone, uomini o donne: determina l'immagine che abbiamo del nostro stesso modo di stare in una comunità. Se, volendo criticare una donna (anche al netto dell'ira, che in certi momenti può annebbiarci, capita a tutti), la prima cosa che ci viene in automatico è gridarle "pompinara", non è un fatto marginale o neutrale, concorre a definire agli occhi altrui la nostra visione del mondo e anche, più prosaicamente, dello stare al mondo. Altri, è vero, magari troverebbero il modo di pronunciare lo stesso insulto con espressioni più sofisticate, ma la sostanza non cambia, anzi la aggrava, se si dispone di strumenti linguisticamente poveri: se un uomo fa qualcosa che non ci piace è "stronzo", se lo fa una donna è una "puttana". Un modo di ragionare vecchissimo e imbevuto di ottusi pregiudizi (prima che di violenza), che non si vorrebbe vedere mai più. Non certo da chi si propone come forza di cambiamento. Se la propria idea di confronto è mettersi faccia a faccia con l'avversario a un centimetro dal suo viso, imponendogli magari la stazza fisica (magari ridicolmente auto-filmato da una telecamerina), questo non è un confronto, è un atteggiamento aggressivo che non può essere accettato neanche fuori dal Parlamento, neanche al semaforo nella lite in auto. Se si è un deputato, oltretutto ex magistrato (e moderato, questo fa sorridere, poi), non si scambia il proprio ruolo di questore con quello di un cattivo poliziotto d'aula, che di fronte foss'anche ai comportamenti più sbracati si lancia su una collega e la strattona e smanaccia in faccia (le immagini di un ottimo Mentana hanno sgomberato il campo da ulteriori "eh, ma non sappiamo, non si capisce bene cos'è successo..."). E' evidente, non si fa, non si può fare; e l'episodio va molto al di là dello schiaffo di Dambruoso a Loredana Lupo, o della bugia da lui pronunciata in seguito: riguarda anche qui che idea, totalmente malintesa, abbiamo di ordine e rispetto delle regole. Se si critica con legittimità l'operato politico della presidente della Camera, scatenarle contro una canea di insulti sessisti e addirittura di descrizioni di violenze sessuali è becero e violento e, vorrei aggiungere qui, anche stupido: adesso chiunque volesse fare una civile e intelligente critica a Laura Boldrini avrà nelle orecchie il retrogusto di quelle vigliaccate, e sarà più difficile, foss'anche dal punto di vista psicologico. Se si scrive su un giornale un lungo articolo sulle violenze verbali che in aula sono diventate "fisiche", e se ne costruisce grandissima parte sull'episodio decisivo e rivelatore di un deputato che "scalciava e spintonava", e il giorno dopo si scopre che questo deputato non era a Montecitorio ma a Strasburgo, si sta dando un contributo non piccolo non alla chiarificazione degli istinti, ma allo sguazzarci dentro: una degenerazione che infine colpisce tutti, e rende non condivisibile niente di ciò che vediamo. Ma proprio niente. Naturalmente, se a questo punto il lettore è un sostenitore del Movimento cinque stelle (conosco l'obiezione, mi è stata fatta tante volte), interromperebbe: sì, voi vi fissate sulla forma, ma non dite niente sulla sostanza: cose come il decreto Bankitalia accorpato all'Imu, la tagliola usata per la prima volta alla Camera, il senso di deprivazione del funzionamento democratico che deriva dagli insulti, sì, ma anche dall'ignorare sistematicamente le richieste - persino quelle ragionevoli - delle forze che si oppongono al governo... (ps. oltretutto un governo nato sull'asse vecchioPd-Berlusconi, finito sul miniasse Pd-Alfano, e insomma: un governo di arroccamento che certo non risponde ai problemi e alle richieste che, anche molto scompostamente, provengono dalle parti basse del Paese). Ecco, innanzittuto, non è vero, o non è del tutto vero; esistono numerose voci che - anche nel declino dei media italiani e del senso di dignità del discorso pubblico - parlano di queste distorsioni, analizzano e denunciano provvedimenti sbagliati, esercitano il lavoro della critica verso il malcostume del potere (quando, con tutti i limiti, ne sono capaci). In secondo luogo: tradire la "forma" significa rendere più deboli, se non del tutto vane, le battaglie "di sostanza". Ce ne sono molte meritorie condotte anche in questo parlamento dal Movimento cinque stelle. La decadenza di Berlusconi non sarebbe stata messa ai voti così presto, senza il pungolo del M5S. Il decreto "SalvaRoma" non sarebbe stato stoppato, con le sue mancette vecchio stile dc. E così la norma sulle slot machine (in quei casi, loro dovrebbero esser felici del fatto che la spinta di battaglie del M5S ha trovato la forza di Renzi in grado di fermare alcuni dei provvedimenti sbagliati del governo). Senza la battaglia del M5S il caso De Girolamo non sarebbe forse esploso in Parlamento con una mozione di sfiducia. L'opposizione al decreto Imu-Bankitalia non ha avuto successo, ma sono in tantissimi - anche fuori dal M5S - a considerare quel decreto sbagliato (per procedura e contenuto). Questo piccolo e sommario elenco (ognuno magari aggiungerebbe o toglierebbe fatti, anche sottolineando le tante cose che il M5S NON è stato capace di fare, e sono tante davvero, e in snodi politici cruciali) conduce gradualmente alla domanda chiave: com'è possibile che l'Italia sia messa al punto in cui alcune battaglie sensate e democratiche siano finite in mano a una forza che contiene, e a volte vezzeggia, dentro di sé anche quelli dell'orrenda gogna a Laura Boldrini, del "boia chi molla", una forza che spesso mostra atteggiamenti che sono un mix di infantilismo dilettantismo e aggressività? Per rispondere a questa domanda occorre sfiorare, almeno velocemente, una delle grandi auto-illusioni (non è la prima) che i media stanno coltivando e alimentando in questo momento. Continuando a sostenere il governo dello status quo, e la dinamica che porta inesorabilmente il Pd a stare con Forza Italia - e alimentando, ha ragione Arianna Ciccone, una certa "narrazione" puramente giudicante (ma un giudizio semplice semplice, che resta ai fenomeni e non cerca mai cause e concause) - i media concorrono con la politica a determinare un risultato oggettivo, e pericoloso, nella società italiana: rendere comunque fortissimo il fronte di chi - anche davanti alle più bieche manifestazioni di violenza verbale, di sessismo, o di inadeguatezza politica e culturale, anche dinanzi alle sguaiatezze più incontrollate - ragiona così: "E' vero, non mi piacciono tutte queste cose, magari mi fanno orrore, ma sono gli unici che...". Limitandosi al dito alzato e al "dalli al grillino stupido e fascista" (oggi si è udito anche "nazista"), tv e giornali confinano le espressioni più volgari del malcontento ma anche tante sane richieste di cambiamento dentro un calderone-ghetto, operazione a sua volta ghetizzante e violenta, anche se una gogna più sottile; ma che rischia di essere altrettanto pericolosa. E' questo oltretutto, rifletteteci, il calcolo vero di Grillo-Casaleggio, questa l'unica spiegazione della strategia della provocazione di questa ultima sciagurata settimana: sapere che esiste un'Italia "marginale" - fatta di ceti marginali ma anche di valanghe di giovani scontenti e esclusi - per cui appunto il sessismo, le urla, anche gli orrori, sono "un problema formale", mentre il "non avere accesso a niente" e l'arroccamento del sistema è un dramma sostanziale, umanamente vissuto, da anni, tutti i giorni. Noi-contro-tutti all'ennesima potenza. In tante forme: frustrazione, assenza di opportunità, declino delle speranze. Non è un discorso che ha a che fare con il M5S: ha a che fare con l'Italia che c'è, esiste, basta fare qualche viaggio. E' un'ipotesi di lettura che giro sommessamente alle forze più responsabili, a chi osserva, e a chi ha una visione del Paese che tiene insieme forma e sostanza della democrazia: confinare queste espressioni in un ghetto è un rischio enorme per l'Italia, è il rischio di un ghetto che riguarda quasi un quarto del Paese (un altro quarto si astiene, quindi non è che sia propriamente coinvolto). Includerne la spinta positiva, le battaglie condivise, ammesso che ci siano, dovrebbe essere il compito di chi - a differenza degli autori dei commenti contro la Boldrini - ha superato la "fase anale". Tra parentesi: si scommette da tante parti che il clima violento e le follie stiano facendo perdere voti dal M5S. Non ne ho la più pallida idea, anche se avanzo il dubbio che possa non essere così (il che renderebbe ancora più difficili i ragionamenti; vedremo alle europee). Naturalmente, per essere coinvolti bisogna essere in due. Senza sterili vittimismi, che sono giustificabili in quinta elementare; e sapendo che chi assolve le violenze ad altri oggi, molto probabilmente sarà il bersaglio predestinato (direbbe René Girard "la vittima sacrificale") di una violenza permanente esercitata su di lui domani. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/02/02/blogs/arcitaliana/il-rischio-di-unitalia-del-ghetto-Tx8GFpfkxiwJegTaucwRAN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Sinistra e M5S, speranze e disillusioni ...l Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2014, 06:19:29 pm Politica
04/02/2014 - colloquio Sinistra e M5S, speranze e disillusioni Ma Spinelli: l’appello a Grillo? Lo rifarei “Bieche le offese a Boldrini. Vado oltre ed esploro ciò che loro propongono” Jacopo Iacoboni Il «dialogo» non c’è più. Molta di quella sinistra intellettuale (non tutta) che tentava appelli a Grillo ora lo critica, con aggettivi che tra l’altro slittano, non misurando la persistenza del fenomeno nella società italiana. Si va dal «fascista» al «padronale». Michele Serra aveva lanciato attraverso l’Ansa un appello «per un governo» (assieme a nomi come Roberto Saviano, Jovanotti, Fazio), non chiamando direttamente in causa Grillo ma sostanzialmente rivolto a lui; a dicembre, commentando gli attacchi a Maria Novella Oppo, parlò di «insulti e minacce dalla canea di linciatori che usa il web come i fascisti usavano il manganello». Paolo Flores D’Arcais dopo il voto del 2013 scrisse al M5S una lettera in cui ragionava così, «non si tratta di scegliere tra un isolamento che diventa facilmente autismo politico e una opportunistica alleanza di schieramento con Sel e pezzi di Pd. Si tratta invece di scegliere tra autismo e azione». Oggi scrive su Micromega che molti italiani sono senza rappresentanza democratica «ma avranno crescenti difficoltà a provare a darsela con il M5S, troppo spesso in balìa degli umori “padronali” di Grillo e Casaleggio, logica incompatibile con quella della rappresentanza democratica». Stefano Rodotà, commentando la richiesta di impeachment, ha detto che «le critiche politiche sono legittime, il resto è populismo degradante». Barbara Spinelli no. All’indomani delle elezioni «non vinte» dal Pd cult de «lo smacchiamo lo smacchiamo», rivolse al fondatore del Movimento un appello con altri sei intellettuali (Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Tomaso Montanari, Antonio Padoa-Schioppa, Salvatore Settis). Ora, nei giorni delle scenate in aula e degli insulti sessisti, non deflette: «La difficoltà odierna è enorme. Richieste di democrazia giuste sono avanzate dai parlamentari del M5S, ma loro in questi giorni sono totalmente inguardabili, e purtroppo tutto si giudica alla luce di questa condensazione di eventi recenti. Da questo punto di vista mi sento totalmente castrata, ma vado oltre e ricomincio a analizzare ed esplorare quel che i 5 Stelle propongono». In che direzione? «E’ ovvio che gli insulti alla Boldrini sono biechi. Non li accetto. Ma non bisogna neanche cadere nella trappola dell’autocensura. Se io e altri riteniamo che la presidente della Camera nel suo lavoro difenda la maggioranza a danno dell’opposizione, devo poterlo continuare a dire, il fatto che lo dica anche Grillo non dev’essere un problema, per me o per altri». Atteggiamenti violenti dei parlamentari dei cinque stelle non finiscono per danneggiare proprio quella parte di opinione pubblica che non li demonizzava per principio? «Certo, è così, ma naturalmente io non mi farò mettere a tacere, continuerò a fare le mie critiche. Alla Boldrini, o alla presidenza della Repubblica. Napolitano non è un “boia”, questa frase prima che ingiuriosa non corrisponde alla realtà. Ma rivendico lo spazio per poterlo criticare». Il giudizio sul M5S «non si riduce certo a questi giorni di caos, anche se il Movimento ha fatto parecchio per consentire questa reductio ad unum. Penso ancora che se si fosse continuato a votare a oltranza per l’elezione del capo dello stato non saremmo a questo. Su Rodotà, ma io credo alla lunga anche su Prodi, un accordo si sarebbe potuto trovare». Il M5S, ragiona adesso Spinelli, «è un po’ come Syriza. Al suo interno ci sono componenti settarie e antidemocratiche, è certo. Anche se Grillo non ha la vocazione politica di Tsipras». Ma creando ghetti di otto milioni e mezzo di elettori non si favorisce l’unico processo davvero necessario: ridare effettività alla nostra democrazia. L’appello lo rifarebbe, Spinelli? «Certo che sì. L’appello va rifatto ogni giorno. Non era un appello in nome del Pd. Anche recentemente, quando Renzi ha proposto di discutere una legge elettorale insieme, il M5S doveva andare a vedere se era un bluff o no. Il loro vero problema è che non rischiano; ma non rischiando, nel mezzo di una crisi così devastante e non finita, rischiano molto lo stesso: conquistano forse voti, ma cosa ne faranno?». Da - http://www.lastampa.it/2014/02/04/italia/politica/sinistra-e-ms-speranze-e-disillusioni-ma-spinelli-lappello-a-grillo-lo-rifarei-Ne8et6d0ZeF7xZSv1KuMTI/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - La sinistra conservatrice e la pazza idea ventilata a Renzi Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2014, 04:41:34 pm 05/02/2014
La sinistra conservatrice e la pazza idea ventilata a Renzi Dopo una settimana tutta assurda, mentre accennano a placarsi le follie - ma non l'ansia dei media di stigmatizzare, un'ansia che fa il pendant e il gioco di quelle follie - conviene fermarsi un istante a chiedersi a che punto sia la battaglia politica di Matteo Renzi. A neanche due mesi dall'insediamento, e di fatto in un solo mese di lavoro, il nuovo segretario del Pd sta probabilmente per incassare (salvo sorprese sempre possibili) una legge elettorale che si voleva da anni, e un pacchetto di riforme che altri leader del centrosinistra hanno cercato (ma le cercavano davvero?) invano per quasi due decenni. Sulla legge si può discutere: brutta l'assenza delle preferenze, ed è un problema che peserà; discutibili, assai, anche le liste corte, evidente soluzione di compromesso; ma non è un Porcellum per un ragione di fatto: il Porcellum assicurava ingovernabilità certa, questa legge un governo dovrebbe riuscire a darlo. Le soglie sono state decorosamente riallineate per evitare uno squilibrio eccessivo nella rappresentanza. L'obiezione di aver dialogato con Berlusconi appare del tutto sballata (specie se proviene da chi con Berlusconi ha fatto un governo). Nel frattempo non è in partenza affatto negativo - anche se, come tutto, discutibile - il pacchetto che rinuncia al bicameralismo perfetto, e inizia a tagliare gli apparati pubblici in eccesso. Vedremo se andrà in porto, si sa che c'è sempre Berlusconi baro di mezzo, e un Pd persistentemente infido. Nella stessa fase il M5S ha riacquistato centralità mediatica, ma come, e a quale prezzo? Conducendo da una parte battaglie anche molto condivise da una fetta assai ampia di opinione pubblica (contro il decreto Imu-Bankitalia, malamente accorpato - il mio giudizio resta negativo anche sui contenuti - oppure contro l'uso da parte della presidenza della Camera della tagliola che discrimina le opposizioni), ma attraverso una strategia della provocazione (e della character assassination , o dall'infamare il nemico, sistematica) che li ha portati a rivolgere biechi attacchi sessisti (contro Boldrini e diverse deputate del Pd), a blaterare in aula "boia chi molla", a scrivere tweet deliranti e sgrammaticati. I media si sono affrettati a denunciare, ma con zelo non limpido, per giorni abbiamo avuto titoli con "vergogna", "bagarre", "violenza" e "caos dei grillini", con i problemi reali che sfumavano sullo sfondo. E' forse il momento adesso di porsi alcune domande, alla fine di tutto questo: a che punto è il consenso reale nel paese, i cinque stelle pagano o no? Renzi decolla o compatta solo l'elettorato di centrosinistra? Berlusconi cosa fa, oltre ad aver riacquistato il comico (ma attenzione: importante, se non decisivo) due per cento del povero figliol prodigo Pier (FerdinandoCasini)? I sondaggi le hanno toppate tutte, nel 2013. Non s'erano neanche accorti del treno cinque stelle, per dire. E' bene ripeterlo e ricordarlo sempre, quando li vedete scriverearticolesse o parlare nei talk show. Ma tutti danno in questo momento blocchi consolidati, e statici. Secondo Ipr - che ha condotto una ricerca nelle cinque circoscrizioni italiane per le elezioni europee - il primo partito sarebbe il Pd, col 27,6, il secondo il M5S, col 25,4 (a dispetto dei suoi errori e della repubblica della stigmatizzazione che gli è simmetrica), terza Forza Italia col 24,3. Al di là dei numeri, tre forze abbastanza vicine. Le coalizioni vedrebbero - al netto delle differenti rilevazioni - centrodestra e centrosinistra quasi alla pari; anzi, forse quella guidata da Berlusconi potrebbe essere lievemente in vantaggio, se davvero mettesse insieme tutta l'armata Brancaleone. Al momento e, ripetiamolo, in un esercizio senza elezioni politiche, senza candidati, dunque per definizione ultra-virtuale. E qui veniamo a Renzi. In questo quadro il governo appare definitivamente logorato e inane. Il viaggio del premier Enrico Letta nei paesi arabi, oltre a prestarsi a divertenti gag (tipo lamentare che il paese va "verso la barbaria", non la barbarie, oppure farsi fotografare con un emiro che lo riceve in ciabatte), non ha ottenuto granché, 500 milioni da un fondo sovrano kuweitiano, e un paio di impegni del Kuweit a costruire un ospedale a Olbia e un museo sul Canal Grande (per loro, poco più di una mancia). Così da molti ambienti trapela in queste ore una pazza idea: chiedere a Renzi di sostituire direttamente Letta senza passare dal voto. Si tratta, diciamolo, dell'ultima follia alimentata dentro un mondo-bolla, distante ormai anni luce dalla realtà, e è presumibile che il segretario del pd sia sincero quando ripete, a ogni occasione, "non succederà, non esiste". L'invito gli viene da Angelino Alfano, suo nemico giurato, sempre lesto nell'avanzare proposte inaccoglibili, e nel manovrare con una spregiudicatezza sprezzante anche del ridicolo; ma trova una qualche amplificazione anche nell'enfatizzazione che viene concessa a questo scenario sul giornale simbolo del centrosinistra, Repubblica, che riflette quello che cominciano a ipotizzare anche ambienti istituzionali. E' una proposta indecente, a mio avviso, anche se naturalmente ha un suo retroterra. Renzi, formidabile nell'accelerazione politica, a motori spenti e senza elezioni non può davvero misurare il suo potenziale di attrazione verso altri elettorati ("mi rivolgo agli elettori, del M5S e del centrodestra, non ai loro capi"); il risultato che si otterrebbe, chiamandolo alla premiership così, sarebbe di fermarne la spinta. Congelarlo a Palazzo Chigi con una sostituzione "di Palazzo" in corsa assicurerebbe magari non uno, ma due anni a questa legislatura, e alla gestione del potere da parte del sindaco di Firenze, ma probabilmente (anche se non con certezza assoluta) renderebbe molto molto più diffiicile a Renzi la realizzazione ciò che serve all'Italia: una rupture vera, che per essere anche solo sinceramente tentata ha bisogno di nuovi eserciti e truppe non compromese (quali quelle dell'attuale parlamento, e del grosso delle posizioni di comando degli attuali media). Tra l'altro, anche in quel caso la rupture sarebbe davvero difficile da realizzare: ma è in questo "sogno" la sfida vera del renzismo. In questa che possiamo chiamare "falsa posizione" (grande consenso popolare, grande forza attrattiva, ma per ora soltanto potenziale, senza elezioni, e anzi, con l'ingombro di elezioni europee nelle quali sarà zavorrato dal governo inconcludente), non è inverosimile che attorno a Renzi circoli ancora l'idea (non così dissennata) di votare appena varata la legge elettorale. Ma anche che nei suoi dintorni risuoni il canto delle sirene (anche da parte di una sinistra mediatica di ultimi giapponesi) che lo vorrebbe imbalsamare a Palazzo Chigi con questa maggioranza. Un disegno che allo stato è difficile lui possa volere, tanto meno accelerare; ma potrebbe però essergli prospettato, e da voci a cui sarebbe anche difficile dire di no: e qui si ritiene - voglio dirlo chiaro - che non gli verrebbe fatto un favore, anzi. Il potere tentatore. Ma in una sinfonia che suona così: non abbiamo potuto fermare il pugile mandandolo al tappeto, lo blocchiamo legandolo all'angolo all'infinito. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/02/05/blogs/arcitaliana/la-sinistra-conservatrice-e-la-pazza-idea-ventilata-a-renzi-RWzdavsQg0CL1QWqGb1EvM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Dieci cose da sapere sul caso-Renzi Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2014, 10:32:33 am 14/02/2014
Dieci cose da sapere sul caso-Renzi Come si è arrivati a questo esito. Chi lo ha voluto. Quali sono stati gli errori, ma anche la possibilità e la sfida che resta Non c'è bisogno di premesse per dire che Matteo Renzi si trova adesso in una condizione difficilissima, peraltro speculare a quella in cui si trova una buona parte del suo elettorato, reale o potenziale. Ma alla fine della tre giorni che lo sta portando a ricevere l'incarico di presidente del Consiglio da Giorgio Napolitano, è forse arrivato il momento di tracciare un bilancio di ciò che è successo, di come vada valutato, nell'ottica sua, e soprattutto dell'Italia. Dieci cose da sapere, sine ira ac studio. I. E' chiaro che l'essenza originaria del renzismo consisteva in un richiamo molto forte al rinnovamento, della classe politica e soprattutto degli establishment, in primo luogo istituzionali e burocratici, in secondo luogo economici (e, perché no, mediatici), per il quale era essenziale (direi quasi connaturata) la ricerca schietta di una forte investitura popolare. Non tanto per ragioni di stile, di antidalemismo retorico, o di forma della democrazia: qui non avviene nulla di strano per quanto riguarda la forma della democrazia, in Italia fino a prova contraria i governi nascono e muoiono in Parlamento, non per forza dopo elezioni; ma perché se davvero si vuole tentare una rupture in Italia, è già difficile farlo avendo dietro un popolo, diventa miracoloso non avendolo, o almeno, non avendolo ancora, avrebbe detto Giovanni Gentile, "attualizzato", atto in atto. L'osservazione da fare a Renzi è dunque non tanto: non sei passato dal voto, come avevi promesso, ma: non passando dal voto riuscirai a fare le cose imponenti che promettevi? II. Il paragone più citato, l'avvicendamento del governo Prodi-D'Alema con quello Letta-Renzi, è storicamente affascinante, ma sballato. Non tanto perché Renzi ha avuto un'investitura alle primarie (se non si deve per forza andare a Palazzo Chigi dopo elezioni, è a maggior ragione vero che non ci si va perché si sono vinte delle primarie, con due milioni di voti: e gli altri italiani?), ma perché il governo Prodi era - quello sì - un elected government, cioè aveva una maggioranza uscita dal voto, quello Letta no, anzi, ne era l'esatto contrario. Se restiamo al tema della "legittimazione", se è carente quella attuale di Renzi, era nulla quella di Letta o di Monti. III. Il primo grande problema, su cui tutti si sono fissati, è enorme: se in direzione del Pd Renzi ottiene solo 16 no contro 137 sì (ed è abbastanza paradossale che molti dei suoi critici - da Cuperlo a Fassina- diventino, adesso, i sostenitori del "dobbiamo spiegare questa cosa alla società civile", proprio loro, i campioni del Pd d'apparato e dalemiano), nel mondo di elettori e militanti, che La Stampa ha cercato di ricostruire con un viaggio condotto in ambienti certo non ostili a Renzi, su circa 40 persone ascoltate, più o meno tutte condividevano un senso di "sconcerto", "incredulità" o a volte di aperta "contrarietà" all'ipotesi di andare al potere in questo modo. Naturalmente c'era chi declinava questo sconcerto come un rifiuto secco, e chi aggiungeva (non pochi, anzi): comunque ho fiducia che Renzi possa lo stesso tentare una svolta, dipenderà da ciò che saprà fare nei primi tre mesi (e, elemento non secondario, dalla qualità della sua squadra). Resta il fatto che lo iato tra grupppi dirigenti del partito di centrosinistra e suo elettorato, reale e potenziale, si conferma fortissimo. E' un problema non secondario di democrazia in Italia, che riguarderà tutti, attenzione: Renzi, voi, me, o chiunque non sia elettore del Pd. Insomma, non lo dico come "problema del Pd"che sarebbe relativo. IV. Per fare a questo punto un passo in avanti occorre però capire come si sia arrivati a questa, che io definii "pazza idea", non avendo simpatia per lo scenario, del quale fummo tra i primi a parlare (il 5 febbraio, qui, se non ricordo male). L'Italia aveva un governo (Letta) totalmente immobile e quasi inane, direi. Che non riusciva a schiodarsi dalla sua paralisi. E tuttavia ha un presidente della Repubblica che non giudica (come in altri posti del mondo) possibile fare ricorso alle urne troppo spesso (posizione che mi riservo di valutare criticamente, se è ancora possibile in Italia). E tuttavia, Renzi battezzava quel governo, magari ne correggeva errori e (alcune) storture, ma spessissimo sentivate domandare in giro, a me capitava, "ma questo Renzi che fa?! continuano le solite boiate del Pd...". Renzi ha deciso, perso per perso - non potendo ottenere le elezioni - di rischiare in proprio, se doveva perderci la faccia, che almeno fosse la sua. Prima lo criticavano per "comodo fiancheggiamento al calduccio", facile atttaccare Letta e non sfiduciarlo. Ora, e spesso le stesse persone, lo criticano perché l'ha sfiduciato. V. Le elezioni europee hanno avuto un peso. Con Renzi zavorrato da Letta, rischiava di andare a fondo comunque lui, ma anche il Pd. Il M5S - se le mie antenne non sono sballate - sta andando benissimo. Attenti: be-nis-si-mo. VI. Si poteva fare altrimenti? Secondo me sì, e qui la mia analisi diverge praticamente da quella di quasi tutti gli altri. Penso che un sentiero, strettissimo, difficile, forse ad alto rischio-insuccesso anche quello, fosse: cercare di approvare la legge elettorale velocemente, magari rinunciando al pacchetto delle riforme, e andare al voto nella prima finestra possibile (nel giro di sei mesi? Utopistico provarci?). Arduo, durissimo, non tanto per i tempi ma per la sensazione che la leggge elettorale - senza la spinta di un governo, della legislatura di durata, dunque anche della poltrona, per tanti mediocri del ceto politico - fosse già assai impantanata in parlamento. Ma, tra i due rischi, si poteva scegliere quello più "lineare", diciamo così. Per me non sarebbe convenuto solo a Renzi, come riconosce lui, ma all'Italia: avrebbe dato il senso di uno che finalmente fa "le cose per bene", lotta, e torna a far votare. Un bene non disprezzabile, la fiducia, anzi, una vittoria epocale già questa; al punto in cui siamo messi quanto a sfiducia nelle istituzioni e nella politica. VII. A questo punto dell'analisi la domanda che mi sono fatto (tralascio l'evoluzione dei sentimenti, dei quali cerco di spogliarmi, quando scrivo) è stata questa: Renzi sta a Letta come Sacchi a Trapattoni. Non voglio essere sbrigativo col premier uscente, che come sapete molto ho criticato. Anzi; mi è piaciuta la dignità con cui ha affrontato la sua uscita, di fronte al comportamento penoso di tanti suoi ex amici del Pd. Dico Trapattoni perché Lettta, pur giovane, sembra però appartenere a un'altra era, per passo, velocità, e anche per visione. In tempi calmi sarebbe ok, ora no, dà la sensazione di un burosauro, oltre i suoi stessi demeriti. Da questo punto di vista non mi preoccupa che Renzi sia un esordiente, se l'esordiente è Sacchi. Mi preoccupa che non eredita il Milan (di allora), ma più o meno l'Albinoleffe. Dovrà giocare con Alfano, Schifani, Finocchiaro, Giovanardi. Una congrega che io - in varie forme, con vari gradi e per ragioni differenti - considero responsabile (non meno di Berlusconi) del disastro in cui siamo. Ce la farà Sacchi a far vincere l'Albinoleffe? O dovrà accontentarsi di giocare per la non retrocessione? Segnalo che la non retrocessione, al momento e per come siamo messi, non basterebbe all'Italia e comunque, se posso dire, è estranea al pensiero renziano delle origini. Quello dell'ambizione smisurata. VIII. Credo però, come scriveva Odo Marquard, che si sia giunti a questa scelta - qui la mia ricostruzione diverge totalmente da quelle offerte da tutti gli osservatori, che immaginano lucidi disegni, cinici cacoli, e a volte evocano la categoria janeaustiniana e moralistica della "ambizione sfrenata" - per una concatenazione di eventi, alcuni determinati e freddamente voluti a tavolino, altri no, e per certi versi anche casuali (che non significa perà "alla cavolo di cane"). Il che peraltro non è del tutto rassicurante. IX. Ci stiamo avvicinando, ne scrissi qui: le pressioni su Renzi sono state fortissime, non alludo a quelle evidenti (Squinzi non è in grado di incidere poi tanto in dinamiche come queste, e di per sé Confindustria è indebolita come la Cgil, anzi di più), ma quelle oblique. Esiste un concorso di spinte arrivate da vecchie volpi del mondo imprenditoria-media, e che si sono palesate per signa, attraverso alcune spie, in superficie, ma sono evidentemente carsiche, sotterranee, ritornanti. Una è stata il caso Monti-Napolitano, con all'opera alacre dichiarazioni di De Benedetti, Prodi, Monti, sul Corriere, sul Financial Times, in un libro Rizzoli, una vicenda che ha indebolito Napolitano ancora più di quanto non fosse già debole. Il Napolitano del 2012 non avrebbe certo abbandonato così Letta al suo destino. Oggi, sotto l'attacco di diverse ma convergenti campagne, non ha potuto farlo. Altro segno è stata la grande spinta data da Repubblica, stavolta, all'opzione Renzi. E' stata Repubblica la prima a raccontare (e insistere su) lo scenario della staffetta (anche se poi, ovvio, non è stata una staffetta ma uno scontro). Sono, almeno in parte, soggetti che nel 2012, quando Renzi rappresentava una rupture totale, e sfidò Bersani, di tutto fecero tranne che qualcosa per aiutarlo, anzi. Furono spesso, come le regole delle primarie del 2012, ben favorevoli al cheto status quo bersaniano. Se dunque vogliamo individuare anche una catena di ragioni per cui si arriva a questo, queste vanno almeno di passaggio ricordate. L'Italia che iocritamente lo avvversava, oggi ipocritamente lo ha spinto. Ora questi sogggetti hanno mutato avviso; e con loro, andrà verificato, chissà quanti boiardi o aspiranti tali, che cercano, abbracciando la rupture, di depotenziarla al massimo. Di condizionarla, se non di gestirla. X. E' questa, seguite, la domanda vera (e grave) da porre al più giovane premier incaricato della storia d'Italia; non tanto (non solo) il fatto che si sia acconciato a non passare dalle elezioni. C'è da cambiare profondamente l'Italia. Renzi ci tenterà comunque. Con i limiti e le condizioni che ho raccontato, con le qualità, i difetti, il carattere che ha, e tutti ormai ritengono di conoscere benissimo (specialmente quelli che si augurano, certo per il bene della collettività, che andando lì vada a schiantarsi). Ma il cambiamento dell'Italia, ancora prima che dalle riforme o dalle legge elettorale (indispensabile portarla in porto, e convengo che, forse, senza stare a Palazzo Chigi sarebbe stato ancora più arduo), dipende non solo dalla smossa che si saprà produrre (non solo con i decreti) nell'economia e nel lavoro, ma dalla capacità di scardinare i gangli del sistema e dell'establishment, ossia direttori generali dei ministeri, capi di gabinetto, capi delle grandi aziende. Esempio, ad aprile scade Scaroni all'Eni, c'è da dirimere il nodo Finmeccanica, si deve decidere che fare dell'Enel, c'è una Rai in cui (usiamo un lieve eufemismo) bisognerebbbe spalancare le porte e le finestre al merito (esterno e interno)... Renzi queste cose ha detto di volerle fare. Sono fermamente convinto che alcuni degli abbracci (mortali) di questa fase non solo non le vogliano, ma vengono da coloro che quelle cose non le hanno fatte, e sarebbero i primi ad appostarsi per raccogliere i benefici di un'inazione, o di un finto cambiamento. C'è gente assai pessimista su questo. Vedremo. Ho finito. Ora valuteremo i fatti. In questi giorni ho pensato molto a cosa stava accadendo, l'unico atteggiamento possibile nell'Italia sfinita del 2014 è non avere nessuna certezza, ma neanche pregiudizi; e immaginare che alcuni elementi delle decisioni restino (almeno per me) all'oscuro. Diffidate dei sapientoni, spesso non solo non sanno nulla, ma non detengono le informazioni elementari e non hanno accesso ai colloqui di base, per non dire a quelli che vanno da un certo livello in su. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/02/14/blogs/arcitaliana/dieci-cose-da-sapere-sul-casorenzi-9noadzVSePJ5ysvSFVUbvK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Lo streaming "streamizzato" Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2014, 06:25:04 pm 19/02/2014
Lo streaming "streamizzato" Jacopo Iacoboni INVIATO A SANREMO Di ritorno da Sanremo, con ancora negli occhi le scene delle follie fuori dall'Ariston - e subito dopo lo streaming delle "consultazioni" (lo scrivo tra molte virgolette) tra Matteo Renzi e Beppe Grillo - provo a mettere in fila alcune delle tante note appuntate nel mio taccuino nero, alla luce di un assunto di fondo che mi pare sempre più verificato e universalmente compromettente: siamo totalmente dentro un circolo vizioso e un circo, sbracato e dilagante. - Martedì sera, dopo un po' di ore nelle quali c'era stata quella suspense che spesso fa precedere ai suoi eventi, Beppe Grillo era atteso a Sanremo. Nel grande piazzale alla destra dall'Ariston c'erano quasi soltanto giornalisti, non è possibile quantificare, credo fossero centinaia, e molti con troupe al seguito. L'attesa era irrazionale. Al solo apparire di un finto Grillo la massa ha sussultato come un bisonte e si è messa all'inseguimento, salvo poi accorgersi solo alla fine che NON era Grillo. La stessa scena s'è ripetuta con un inviato delle Iene in bicicletta. Grillo è infine arrivato, è salito in alto - non su una balaustra, su dei gradini - e ha tenuto un comizio. L'atmosfera era totalmente surreale, perché non era uno show come quelli dello Tsunami tour, davanti a folle di cittadini e potenziali elettori, e con quel mix difficile da ricreare di aspettative, invettive e levità comiche; no, era un comizio, e per assurdo gli arringati erano tutti o quasi operatori dei media. - Mentre attaccava la Rai (ma parlando sempre di una Rai di vacche grasse com'era quella in cui lavorò lui, negli anni ottanta; oggi le cose sono un po' diverse, chiedere ai tanti precari e appalti esterni che ci lavorano, e senza certo diventare ricchi), e vedevo la ressa e il mare di microfoni che gli si protendevano davanti travolgendo tutto, pensavo che anche questa uscita sanremese era direttamente mirata a questo, con la certezza che poi Grillo l'avrebbe dennunciato (com'è accaduto nella conferenza stampa a Palazzo Chigi). La ressa mediatica è totalmente funzionale al suo disegno, e su questo sarebbe utile interrogarsi. - L'idea di "scendere a Roma" circolava un po' a mezza bocca già ieri sera, nei giri dei fondatori, prima della chiusura della votazione on line sul quesito se andare o meno alle consultazioni. La mia impressione è che Grillo, a dispetto della sua dichiarazione pubblica, si fosse tenuto pronto lo show, se non proprio l'avesse pianificato, morendo dalla voglia di metterlo in scena. Cosa poteva esserci di meglio che un uno-due Sanremo-Renzi, andare faccia a faccia con l'unico che gli contende la ribalta, cioè il premier incaricato? - Lo streaming è apparso, come capita spesso, troppo spesso per non destare qualche interrogativo - non voglio dire che sia intrinsecamente così - un meccanismo di nascondimento almeno quanto lo è di disvelamento. Nello streaming si recita, si agisce, prevale sempre l'aspetto performativo dei nostri caratteri, figurarci nelle personalità istrioniche. Va in scena, avrebbe detto Carmelo Bene, la "macchina attoriale". Ma questo non fa fare passi avanti alla discussione. Anzi. Se la base del M5S aveva chiesto di andare alle consultazioni (sia pure con uno scarto minimo, ma è significativo che negli ultimi due referendum on line del movimento, su immigrati e consultazioni col premier incaricato, gli iscritti abbiano votato all'opposto di Grillo e Casaleggio), non si può dire che sia stata esattamente ascoltata. Alle consultazioni - foss'anche solo per dire no - ci si "consulta". Si ascolta, e poi magari si dice no. - Il non ascolto è un elemento preoccupante, non tanto per ragioni di astratti pistolotti moralistici, ma perché tradisce una fissità della dinamica di quel leader: è come se vivesse in uno tsunami tour permanente. Del tutto speculare a questo non ascolto e non risposta sono spesso le non-domande della non-osservazione che gli viene opposta. Esemplare, da questo punto di vista, è un'altra fotografia, pendant della ressa di telefonini e telecamere a Sanremo: una folla di osservatori che riprende e filma i televisori a circuito chiuso di Palazzo Chigi che trasmettono lo streaming. Col sospetto che nello streaming streamizzato si insceni la parodia di una democrazia realizzata, in un circolo impazzito che toccherà svelare e magari, pazientemente e giorno dopo giorno, dipanare. twitter @jacopo_iacoboni da - http://lastampa.it/2014/02/19/blogs/arcitaliana/lo-streaming-streamizzato-T9ph6IR6LnRNWoFTDsdzQM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Da Krugman al nodo dell’austerity Ecco chi è il ministro... Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 06:00:12 pm Politica
21/02/2014 - personaggio Padoan, il rigorista che piace all’Ue Da Krugman al nodo dell’austerity Ecco chi è il ministro dell’Economia Da consigliere di D’Alema a Palazzo Chigi, a cultore del rigore all’Ocse. Ma il nuovo titolare del Tesoro in passato non era ostile alla patrimoniale Jacopo Iacoboni Pier Carlo Padoan, su questo esistono pochi dubbi, è sicuramente una delle figure di punta di grand commis italiani. Tutti in queste ore sottolineano che fu già consigliere economico di Massimo D’ Alema a Palazzo Chigi, e poi direttore di Italiani Europei (oltre che docente di economia internazionale alla Sapienza). Chiamarlo però “dalemiano” è una di quelle brutali semplificazioni che non fanno fare grandi passi avanti all’analisi. Anzi, la schiacciano e la confondono. Le cose sono - come sempre - più complesse e sfumate. Innanzitutto perché Padoan fu anche assai voluto da Romano Prodi (allora premier) come vicesegretario generale dell’Ocse. E è noto quanto - anche simbolicamente - D’Alema e Prodi rappresentino opzioni lievemente diverse, nella storia recente del centrosinistra. Soprattutto, la domanda vera è: quale politica economica significherà Padoan all’Economia? Significherà per esempio il tentativo di ridiscutere in maniera sostanziale il vincolo del 3 per cento, magari scorporando dal calcolo investimenti di tipo neokeynesiano? O si collocherà in una linea più graduale, comunque nel segno del rispetto del rigore e delle politiche primum-no inflazione? A giudicare dalla storia recentissima, forse si può propendere per la seconda tesi (ma senza certezza definitiva, come vedrete alla fine di questo articolo). A dispetto dell’etichetta di “dalemiano” (la sinistra nel Pd chiede di tornare a puntare su un’idea di Europa più “sociale” e meno blairiana), Padoan negli incarichi internazionali - ma anche nelle sue lezioni alla Sapienza - è sempre stato considerato un cultore rispettoso delle politiche di rigore e dei vincoli europei. E’ questo che l’ha portato, ancora nell’aprile di quest’anni, nel mirino di Paul Krugman, forse il più conosciuto dei critici dell’euro, dell’austerity e del vincolo del 3 per cento, che Krugman ormai non esita a definire “assurdo dal punto di vista economico”. Ad aprile Krugman scriveva sul New York Times che quattro anni fa l’Ocse diede due suggerimenti alle autorità economiche degli Stati Uniti: abbracciare la politica di austerità europea e - dice Krugman, “addirittura” - alzare i tassi di interesse per fronteggiare il rischio di inflazione. “Bene - osservava - tre anni dopo ecco dove siamo: non c’è nessuna inflazione in America (e anzi, la Fed tenta di ravvivare la domanda interna con tassi zero); e è palese il fallimento e l’implosione delle politiche europee di austerità” (su questo si può discutere, naturalmente, ma è innegabile che critiche severe ormai provengano da settori vastissimi delle opinioni pubbliche europee e americane). In quel momento i numeri dell’economia europea erano più o meno di questa portata: disoccupazione dell’area euro al 12,1, nonostante un’inflazione all’1,2. In un’intervista al Wall Street Journal Padoan spiegò che “i tanti sacrifici” (usò l’espressione “the pain is producing results”) erano a un passo dal produrre il “consolidamento fiscale” cercato per l’economia europea, e sarebbe stato un peccato “sprecarli” abbandonando le politiche di rigore, di tagli del deficit e di controllo severo dei bilanci pubblici. La conclusione - che faceva inorridire Krugman - era “the beatings must continue”. La battaglia per il rigore deve continuare. Questo accadeva soltanto nove mesi fa. E’ mutato qualcosa nel frattempo? Certo. Per restare all’Italia, persino Napolitano, in un importante discorso a Strasburgo, ha chiesto di non avanzare solo con politiche di bilancio, ma di pensare a come far crescere le economie. Dall’altra parte c’è chi invece ricorda un Padoan di qualche anno fa che, al Corriere, non escludeva ipotesi vicine a una forma di patrimoniale (traduzione: non proprio allentare il rigore, semmai farlo pesare di più sulla finanza e meno su impresa e lavoro). Diceva Padoan nel 2004, da capoeconomista Ocse, quali erano gli scenari su cui ragionavano molti economisti di un celebre incontro parigino: “Abbiamo cercato di dimostrare, con una analisi empirica, il rapporto tra la struttura della tassazione e la crescita, nel senso che ci sono tasse più dannose allo sviluppo (sulle imprese e sul lavoro) e altre meno dannose, come quelle sui consumi e sui patrimoni”. Ecco forse il punto (o un altro dei due punti). Il ministro dell’Economia sarà il noto dalemiano? O il teorico del rigore attaccato da Krugman? O ancora l’economista che non disdegnava - in tempi non sospetti - di tassare di più rendite e finanza e meno l’economia reale, in pieno spirito-Jobs Act di Matteo Renzi? Lo scopriremo solo vivendo. Da - http://lastampa.it/2014/02/21/italia/politica/padoan-il-rigorista-che-piace-allue-da-krugman-al-nodo-dellausterity-ecco-chi-il-ministro-delleconomia-u4wqfCaZ2LFKBOHyhJ3F5I/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Italia Futura diventa partito Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 11:24:40 am POLITICA
01/03/2014 - nuovo presidente Pontecorvo Montezemolo dice addio Italia Futura diventa partito Jacopo Iacoboni Torino Le speranze nel 2009 erano diverse. Italia Futura, la creatura di Luca Cordero di Montezemolo, puntava a essere un incubatore, non solo un think tank di una forza politica terza capace di creare di fatto un centro moderno, laico, innovativo, aperto alle professioni. C’erano ottimi quarantenni o trentenni, Andrea Romano, Irene Tinagli, c’erano molti professionisti del nord, c’era l’ipotesi - per la verità sempre rimasta a mezz’aria - di un impegno politico diretto di Montezemolo. Come sia andata lo sapete. Ora si cambia. Luca di Montezemolo lascia la presidenza onoraria e si distacca completamente dalla sua creatura. Carlo Pontecorvo, presidente di Ferrarelle, assume da oggi la presidenza e ha intenzione di cambiare da subito Italia Futura, su alcune linee di fondo: non più fondazione ma partito vero. Critica forte non solo alla scelta di andare coi vecchi partitini centristi, ma anche alla stagione Monti, considerata inadeguata. Pontecorvo, la metamorfosi di IF, la spiega chiaramente: «È finito il tempo dei pensatoi, la politica attiva è l’unica via per avere riforme. Gli eventi di questo ultimo anno ci raccontano un Paese immobile, inchiodato, piegato anche dalla crisi ma soprattutto dall’assenza di scelte forti e di cambiamenti radicali di prospettiva. Abbiamo votato esattamente un anno fa e siamo al punto di prima». Lui vorrebbe innanzitutto un’Italia Futura più «sociale», e non sembri strano: «Cambiamo rotta, ma cambia anche il pubblico di riferimento, pensando a un possibile futuro elettorato. Rivediamo la lista delle priorità e guardiamo al sociale, all’associazionismo, ai territori ignorati». È notevole che Pontecorvo non critichi soltanto (com’è ovvio) la scelta di legarsi all’Udc, ma anche la decisione di andare con Monti: «La nostra associazione sposò la proposta di Mario Monti contribuendo alla nascita di Scelta Civica. Avevamo visto nell’operato dell’allora presidente del Consiglio un buon esempio per uscire dalla crisi e rilanciare il Pa Da - http://lastampa.it/2014/03/01/italia/politica/montezemolo-dice-addio-italia-futura-diventa-partito-C5031IsYbnq9NKHLbsixfK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - I tanti nemici di Renzi a un passo da un'importante vittoria Inserito da: Admin - Marzo 04, 2014, 07:13:24 pm 04/03/2014
Il codicillo bersaniano E i tanti nemici di Renzi a un passo da un'importante vittoria Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Il celebre commento di Tito Livio che segna convenzionalmente l'inizio della seconda Guerra punica potrebbe benissimo adattarsi (sia pure geograficamente rovesciato, per paradosso) a spiegare cosa stia succedendo attorno alla legge elettorale in queste ultime due giornate. Mentre Matteo Renzi è in nord Africa, a Tunisi, nella sua prima visita ufficiale da premier, a Roma si discute si discute si discute e, immancabilmente, si trova il modo di impapocchiare tutto; forse in maniera definitiva. L'escogitazione geniale, stavolta, proviene da un emendamento proposto da Alfredo D'Attorre - deputato bersaniano che fino a questa fase si era tenuto sempre prudentemente defilato dalla ribalta, e adesso quasi repentinamente viene usato, di fatto, come una clava dalla minoranza del Pd (e dai suoi tanti amci esterni). Attorno all'emendamento D'Attorre, sia pure con "disappunto", anche Silvio Berlusconi ha appena spiegato che potrebbe trovare una mediazione, stavolta sostenendo che lo fa per puro spirito nazionale, cioè soffrendo (ovviamente non è vero). Ma di cosa diavolo stiamo parlando? potrebbe chiederci qualcuno che non fosse del tutto alieno, o alienato. D'Attorre, se non lo sapeste, ha proposto di cancellare in blocco l'articolo 2 della legge elettorale su cui i partiti si stanno confrontando; in sostanza di cancellare la parte delle norme riguardante il Senato. Il bersaniano - dando voce in questo modo alle proeccupazioni di Alfano, Formigoni, Schifani - costruisce almeno nelle dichiarazioni ufficiali un meccanismo che punta a scongiurare un sospetto: che Forza Italia voglia approvare solo la legge elettorale, senza riforma del Senato, e andare al voto rapidamente. Il problema però è che, con questo codicillo, si pongono le premesse per una situazione limite assurda, molto pericolosa, e certo non sgradita né ad Alfano né all suo ex capo, il Cavaliere. Ascoltate perché. Può succedere infatti - non dico che sia probabile, certo non è per nulla impossibile con questi chiari di luna, anzi - che passi questa riforma elettorale della sola Camera, e nel frattempo (i mesi son tanti, le complicazioni numerose, la palude sempre rigogliosa) si areni la riforma del Senato. Cosa accadrebbe in quel caso è chiaro: avremmo un sistema elettorale per Montecitorio che - al di là dei numerosi difetti - assicura comunque la governabilità e un vincitore, mentre avremmo un proporzionale puro, con preferenze (la legge uscita dalla sentenza della Consulta), e per di più, come previsto dalla Costituzione per il Senato, su base regionale. Insomma: se, dopo l'emendamento D'Attorre, si ottenesse un accordo per fare (mezza) legge elettorale (quella della Camera) e si dovesse invece bloccare l'abolizione (a quel punto necessaria come non mai) del Senato, avremmo l'ingovernabilità assicurata, o peggio: le larghe intese a vita, almeno a Palazzo Madama, dov'è chiaro che con un proporzionale puro non ci sarebbe nessuna maggioranza. Ma Palazzo Madama verrà abolito, o meglio, trasformato in una camera delle regioni, sento già l'obiezione dei più fiduciosi, "la riforma si farà, a quel punto". Vedremo. Credo però che bastino questi pochi giorni di iter parlamentare della sola legge elettorale per far capire quante imboscate possa subire, addirittura in dodici mesi, l'altra parte del pacchetto riforme, quella rigurdante l'abolizione del bicameralisamo. Insomma, se non siamo in un cul de sac poco ci manca, e a Renzi è stato tracciato (per lo meno) un sentiero che definire stretto è eufemistico. Servirà a questo punto che il premier - tornato dalle Afriche - prenda in mano la situazione con forza capace di tagliare i nodi, più che di adattarcisi. Altro che le finte polemiche dei suoi numerosi oppositori (specie interni al Pd), sulla balla del suo presunto decisionismo "estraneo alla sinistra". Ps. Credo che questo modo di procedere per codicilli obliqui, con una loro logica ma sempre ammiccanti all'avversario di turno, e rigorosamente incomprensibili per il pubblico dei non professionisti, sia quello che ha ridotto il centrosinistra italiana a una palude. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/03/04/blogs/arcitaliana/il-codicillo-bersaniano-s1ODIuoqxYNR4Qu7Y19zIJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Le tre partite di questa stagione per Renzi Inserito da: Admin - Marzo 12, 2014, 11:57:51 am 10/03/2014
Le tre partite di questa stagione per Renzi Al di là degli scialli bianchi delle deputate e delle battute sulle ministre In una situazione in cui lo sguardo frontale - accecato dagli scialli bianchi delle deputate, dalle battute sciocche sulla Boschi, da un grande contorcersi su problemi relativi o strumentalmente agitati - rischia di precluderci ogni comprensione, foss'anche limitata, della realtà, proviamo a suggerire alcune annotazioni, fondamentalmente tre, che sono il frutto di uno sguardo più laterale ma che messe in fila, semplicemente una dietro l'altra, compongono un quadro dell'Italia che abbiamo davanti in questi ultimi giorni, e delle più interessanti vicende aperte in questa stagione. Tre partite: una scenografica, altre due meno ma molto più toste e - se si può dire - cruciali. I. Il dibattito sulla legge elettorale in queste ore, letteralmente, ci acceca. Un agitarsi abbastanza inutile sulle "quote rose" e il feticcio della "parità di genere", che non poteva che finire com'è finito: in ordine sparso, senza che gli autori della legge-base ne facessero nessuna battaglia di vita o di morte. Per varie ragioni, ma la più semplice è questa: poiché anche il M5S aveva fatto filtrare, in forme più o meno esplicite, che avrebbe votato l'emendamento per le donne, Berlusconi - se davvero voleva che restasse in piedi quel "patto" che in questa fase è l'unica arma che gli conserva una qualche centralità politica - non poteva tirarsi fuori con un no secco, perché un sì col voto del M5S avrebbe snaturato (e sostanzialmente fatto saltare) l'accordo con Renzi (cosa che, qui si sostiene, in questo momento è del tutto suicida per il Cavaliere). Di qui la scelta pilatesca di lasciare "libertà di coscienza" ai parlamentari di Forza Italia. Non un sì, ma certo non un no. A quel punto la scelta del M5S è diventata influente (forse, ma non si hanno certezze), nella bocciatura a scrutinio segreto dell'emendamento, arrivata nella serata a uso dei tg (alle 20 in punto). Un complicato gioco incrociato di (finte) aperture e (false) libertà di (in)coscienza che lascia tutto così com'era. I.I. Restano due problemi di fondo, che segnalo sommessamente: è stata comunque sia una rivolta ricca di ipocrisie - soprattutto una: che a portarla avanti sono state anche parlamentari democratiche, come la Finocchiaro, che non hanno fatto granché nel recente passato per accelerare sulla "parità di genere" quando avevano in mano il cahier per conto del Pd, e hanno invece agitato la cosa adesso in chiave palesemente strumentale e antiRenzi. Soprattutto rimane l'amaro in bocca per la circostanza che in Italia si perdano giorni e fiumi di retorica per una rivolta ricca di ipocrisie sulla rappresentanza (di genere), ma non ce n'è stata alcuna (almeno, non così massicciamente sostenuta) sulla rappresentanza in sé, la scarsa rappresentatività che era uno dei difetti - IL vero difetto da correggere, se si fosse stati tutti in buona fede per migliorare, e non per affossare la legge elettorale. Perché analogo zelo politico-mediatico, domanderei insomma, non si è visto sul tema della rappresentanza in sé? II. In economia è promettente assai che Renzi dichiari (vedremo se seguiranno fatti altrettanto spregiudicati) una rupture con le minacce della Cgil, uno degli assi della più sostanziale conservazione di assetti che abbiamo in Italia. Sarà lui a decidere - senza estenuanti mediazioni che si concludono sempre al ribasso - chi beneficiare dal taglio del cuneo, quanto tagliare di Irpef (agire sulle detrazioni avrebbe lo stesso effetto: un taglio di 80 euro in buste paga sotto i 1500 non sarebbe affatto poca cosa, anzi, avrebbe sapore semi-rivoluzionario), e soprattutto, come reperire quei dieci miliardi promessi per ridurre il cuneo fiscale. Sono cose di per sé molto buone; specie se le si riuscirà a fare (si vedrà mercoledì) con un forte contributo (5 miliardi, ma sarebbe meglio anche qualcosa in più) da un taglio secco alla spesa pubblica. Assai intelligente (se si farà) anche il taglio dell'aliquota di 5 punti (dal 15 al 10 per cento) sulla cedolare secca degli affitti di appartamenti a canoni concordati. Si aiutano i proprietari ma, se la matematica non è un'opinione, anche chi affitta (soprattutto giovani coppie). Sono promesse classiche del renzismo. III. Storditi dalla luce che illumina solo le boiate e gli aspetti più superficiali della politica (mai gli elementi di fondo, mai le intuizioni sui processi in atto nella società italiana), o al massimo la politica economica, potremmo lasciare negli angoli specialistici questa notizia, decisiva per gli assetti a breve dell'establishment italiano, contro i quali assai spesso ha parlato anche il Renzi recente, soprattutto quando disse "fuori le banche dall'editoria", o quando si pronunciò contro il finanziamento - in varie forme erogato - ai media. La notizia è semplice ma fondamentale: Rcs, illustrando i dati del bilancio di quest'anno, ha comunicato di aver chiuso il 2013 con perdite per 218,5 milioni (rispetto al -507,1 del 2012 con una decisa riduzione). Ma alcuni rumors parlavano di una riduzione delle perdite a soli 150. Cosa che non è avvenuta in questi termini, e aggiungerà altri elementi al dibattito futuro assai acceso dentro quell'azienda. Il cda si è aggiornato al 24 marzo, lì convocherà un'assemblea molto importante per l'otto maggio. Impensabile che il nuovo governo non osservi con un qualche interesse - sia pure nelle vesti proprie di osservatore esterno - questa partita, oltre a quella - che dovrà gestire direttamente - delle nomine cruciali in Eni, Finmeccanica, Enel, Terna, Rai. Naturalmente potremmo invece decidere di parlare dei colori dei vestiti delle deputate, della cintura di perle sado della Ravetto, o del completo rosso della Santanché. Per ora, passiamo la mano. twitter @jacopo_iacoboni da - http://lastampa.it/2014/03/10/blogs/arcitaliana/le-tre-partite-di-questa-stagione-per-renzi-sLEjd7UpDKMJsiF0MECAtJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Il Pd è spaccato. Che sorpresa Inserito da: Admin - Marzo 12, 2014, 12:07:50 pm 11/03/2014
Il Pd è spaccato. Che sorpresa Piccola antologia di frasi pubbliche di "una comunità che si vuole bene" (chi la disse, questa?) "Il Pd è spaccato", si legge nei titoli. Non me lo sarei mai aspettato. Questa è una piccolissima antologia di frasi dette da deputati o deputate democratiche in questi due giorni, a proposito del loro partito: sulla legge elettorale, la parità di genere, le preferenze, il Jobs Act. Giudicate voi se sia la "minoranza del Pd", o qualcosa di lievemente più esteso. Bersani: "Se Berlusconi lo avessi visto io nella sede del Pd sarebbero venute giù le cataratte". Sandra Zampa: "Non so neanche più se starci, qui dentro. Ogni volta che c'è un voto segreto spuntano cento traditori". Alessandra Moretti: ''Nel segreto i vigliacchi fanno il lavoro sporco. Non saranno un centinaio, ma una sessantina sì". Rosi Bindi: "Questo risultato è colpa dei democratici. La responsabilità è tutta del Pd, che ha sacrificato la fedeltà alla Costituzione e ai propri valori all'accordo con Berlusconi". Francesco Boccia: "Ero renziano, ora non più. Nel giro di due mesi è stata completamente stravolta la cultura del Pd . Anna Finocchiaro: "Le quote rosa? Al Senato c'è il voto palese". Gianni Cuperlo: "Non volevamo mettere i bastoni tra le ruote, si poteva migliorare la legge". Roberta Agostini: "Nel mio partito c'è chi ha tradito. Ma non finisce qui" Stefano Fassina: "Il Jobs Act? La provenienza delle risorse è ancora ignota. Temo anche che per reperirli il governo sia costretto a incidere sulle prestazioni sociali" Alessia Mosca: "Non finisce qui". Noi invece la finiamo qui, per non annoiarvi oltre (e queste sono le frasi pubbliche; immaginate cosa si potrebbe scrivere raccontando frasi riferite, o dette in privato a terzi). twitter @jacopo_iacoboni da - http://lastampa.it/2014/03/11/blogs/arcitaliana/il-pd-spaccato-che-sorpresa-9rscNkDEMKRvV6m1uvJg0J/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Essere "di sinistra" Inserito da: Admin - Marzo 13, 2014, 11:37:18 pm 12/03/2014
Essere "di sinistra" Il primo messaggio simbolico forte è sulla rendita. Al di là delle gigionerie da show, alle quali Renzi verrà inchiodato Premessa: i toni di show, a volte anche riusciti, rischiano di essere ridondanti e offrire una pura arma di occultamento, apprestare un velo di Maia, alle cose che Renzi sta per fare, o dice di voler fare. Paradosso, proprio il grande comunicatore potrebbe occultare, con osservatori sempre assai pigri e gonfi delle loro idee, alcune cose profondamente interessanti che ha annunciato nel suo ormai attesissimo mercoledì. Dirò invece il punto che mi piace: è un Renzi di sinistra, se si intende per sinistra quello che avevo pensato fosse da ragazzo, apertura, innovazione, sfida alle incrostazioni. Non quello che si è visto nel Pd ventennale (e tragico, con l'eccezione del primo Ulivo e di Veltroni, entrambe auto-assassinate) del dalemismo-bersanismo-sindacalismo: chiusura, conservazioni, rendite di posizioni, vendette politiche, cecità tattica e strategica. Provo qui a elencare per punti le cose che mi sono segnato come dei must sul taccuino, e sulle quali misurerò, almeno personalmente, la riuscita o il fallimento (o il pareggio) dell'attuale governo. - La misura simbolicamente più importante - non è quella di impatto economico più forte, d'accordo; a meno che non si includano anche i titoli pubblici, esentando magari solo i piccoli investitori - è sicuramente l'innalzamento dell'aliquota sulla rendita dal 20 al 26 per cento, per assicurare un primo (si spera iniziale) taglio dell'Irap del 10 per cento, a tutto vantaggio delle imprese. Il premier preleva alla finanza per cominciare a dare alle imprese (e quindi sperabilmente al lavoro). E' una misura che si autofinanzia, come in passato ha spiegato Padoan, e non è corretto dire si tratti di una mera partita di giro (come sostiene chi accusa che a pagare l'innalzamento delle aliquote saranno imprese che beneficeranno poi del taglio dell'Irap), per la semplice ragione che i detentori di grandi investimenti finanziari italiani non sono solo aziende impegnate nella produzione industriale, anzi. In questo caso si è visto il Padoan di qualche anno fa, non quello della pura austerity per l'austerity dell'Ocse. E', a mio giudizio, un messaggio - simbolico ma non solo - importantissimo che Renzi dà sulla direzione del suo governo. - E' naturalmente di sinistra - anche se tutto da verificare, nell'entità e nelle coperture - il sussidio universale di disoccupazione (tra l'altro segnalo che il tema, anche se con uno strumento diverso, il reddito di cittadinanza, è stato a lungo posto dal Movimento cinque stelle; questo per riconoscere il dovuto anche a chi ha condotto delle battaglie politico-culturali, ammesso che vadano in porto a breve). Che lo si affidi con un disegno di legge delega al Parlamento mi pare strada politicamente rispettosa. - Non torno (ne ho già scritto) su quanto sia "di sinistra" dare 80 euro al mese in buste paga di 1400 euro. Era una misura classicissima del blairismo delle origini (assieme peraltro al piano di interventi pubblici nell'edilizia - o magari anche nelle ferrovie). Si può discutere se 1400 euro di stipendio siano un pezzo di ceto medio, o se l'economia e i consumi siano più aiutati da soldi alle famiglie o dai tagli secchi a favore delle imprese. Discussione che divide gli accademici, consente entrambe le posizioni, ma insomma: non mi pare che 1000 euro all'anno per chi è sotto i 24mila siano pochi. Chi lo dice è abituato alle vacanze a Sankt Moritz o alle scarpe da un milione di vecchie lire (ricordate qualcuno?). - Le coperture certe sono i dieci miliardi (sostanzialmente da tagli di spesa e spending review). Il resto è di là da venire, e questo va detto. Ma è significativo che Renzi metta delle date, su cui si gioca la faccia. Lo ha fatto anche con la legge elettorale, aveva detto febbraio, è arrivata il 12 marzo, ma dimidiata (perché manca il pezzo del Senato); non ci torno qui, ma è innegabile che mettendo dei termini lui si esponga al giudizio e si prenda le responsabilità di uno che governa. Sul format scelto, lo ripeto, forse converrà ricordare al presidente del Consiglio che eccessi di gigioneria - il "venghino siori venghino", le gag sul pesce rosso, il telecomandino per le slides, le troppe battute alla sala - danneggiano il percorso di un rinnovamento che lui cerca di sostanziare con delle cose reali, e forniscono l'assist per rappresentazioni legate al puro, fallimentare passato recente italiano. Già li vediamo, gli articoli sul "pesce rosso evoluzione di Dudù". Forse è meglio stare al primo principio rivoluzionario, per l'Italietta, su cui il Renzi premier si è impegnato: la rendita si tassa; come nella superliberale Inghilterra, non nell'Urss di Suslov e Ponomariov. twitter @jacopo_iacoboni da - http://lastampa.it/2014/03/12/blogs/arcitaliana/essere-di-sinistra-YaxOAyjVYyNTCvJ5pX99KO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - D’Alema si fa presentare il libro da Matteo ... Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 08:38:29 am Politica
11/03/2014 - La nemesi D’Alema si fa presentare il libro da Matteo I “cari nemici” Renzi e D’Alema Jacopo Iacoboni D’Alema c’è, e questo è un dato di fatto. Nei momenti più duri dell’ondata renziana il líder Maximo s’era acquattato come gli ultimi giapponesi nella giungla, dicendo «io ormai non ho nessun incarico», oppure «ho pagato per la grave colpa di esser un militante di sinistra», o ancora «ormai passo la maggior parte del mio tempo all’estero», frase che pare di aver sentito giusto quella decina di volte per renderla già epica. E proprio dall’estero, scrivendo un libro che parla di Europa e di euro, D’Alema sta costruendo una delle sue specialità, la vendetta politica. Stavolta in chiave anti-Renzi; naturalmente sul piano dei simboli. La notizia è che l’ex premier - che ha scritto un nuovo libro, Non solo euro - lo presenterà martedì al Tempio di Adriano, a Roma. E’ facile indovinare con chi: con Matteo Renzi. Gli ha fatto pervenire un invito al quale era difficile dire no, non fosse altro che per gentilezza. Ma bisogna allora prepararsi ad alcuni ribaltamenti. I due nemici (D’Alema ancora poco prima delle primarie diceva «Renzi mi pare un rivoluzionario che vuole prendere la Bastiglia con l’appoggio di re, baroni e baronesse») si troveranno esposti a decine di foto, sorrisi e pacche sulle spalle immortalate, per di più in uno scenario - il Tempo di Adriano - assai connotato veltronianamente (almeno a sinistra). Doppia nemesi, ma certifica che comincia a essere difficile chiamare ex D’Alema: appare a raffica intervistato in tv, agisce dentro il partito, spinge per Renzi a Palazzo Chigi e ora riceve anche la più gradita photo opportunity. E non è una foto postuma. Da - http://www.lastampa.it/2014/03/11/italia/politica/dalema-si-fa-presentare-il-libro-da-matteo-IHv5rRKM3E66IkHahlUTBK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Di Battista: il M5S sopra il 26% e possiamo sfondare il 30 Inserito da: Admin - Marzo 23, 2014, 05:15:51 pm Politica
20/03/2014 - intervista Di Battista: il M5S sopra il 26% e possiamo sfondare il 30 Tour con i deputati sospesi: “Alle europee supereremo il risultato del 2013. Ma quale leader, nel 2018 non mi ricandiderò” Jacopo Iacoboni Inviato in VENETO A che punto è il feeling della società italiana con il Movimento cinque stelle? Esiste a Milano un loro dato riservato (non un sondaggio) che li vorrebbe di nuovo molto alti, risulta anche ad Alessandro Di Battista? Romano di Prati, 35 anni, esuberante ma molto parco di interviste coi giornali, accetta di parlare mentre il treno lo porta a Modena, nuova tappa del tour dei deputati sospesi: «Io non conosco questo dato; ma le dico: ho elementi per credere che supereremo il risultato di febbraio 2013». Non è un po’ troppo? Di solito i politici abbassano l’asticella della previsione, così comunque vada dicono che hanno vinto. «Noi non abbiamo il problema del consenso, non vogliamo fare politica a vita. La mia speranza anzi è sfondare quota 30 per cento; ma credo che saremo comunque più alti del 25,5. A quel punto chiederemo al governo di dimettersi, e ai cittadini di circondare il Parlamento». In base a cosa crede a questa soglia? È un atto di fede o una descrizione? «Da un anno facciamo delle agorà con i meet up. Prima venivano 30-40 persone, ora a Verona eravamo in 800 un lunedì sera, a Noale, un paesino veneto, ieri, 450. Non sono i numeri dello tsunami tour, è ovvio; ma stiamo seminando tanti piccoli tsunami. Da Roma ovviamente non si capisce». L’altra sera lei diceva che tanti anni fa, parlando con suo padre, constatavate che la Lega era «nata rivoluzionaria, ma aveva fatto l’errore di entrare nelle spartizioni del sistema». Partite da nord est perché puntate a prendere molti voti in quell’elettorato deluso? «Il tour non ha questo significato, andremo anche a sud, o nelle isole. E poi parliamo a quell’elettorato, sì, ma siamo anche contro gli F35, una battaglia che piace molto a sinistra. Però - essendo sempre stato un antiLega - posso dire nelle piazze che la Lega delle origini era rivoluzionaria; quella prima della secessione, che era solo un modo per chiedere tanto per ottenere qualcosa». Quello che fate voi sull’euro? «Noi no, non chiediamo tanto per ottenere poco. Semmai vogliamo alzare il livello dello scontro - sempre in maniera rigorosamente non violenta - perché è l’unico modo per ottenere risultati. Il salva Roma l’abbiamo stoppato perché li minacciammo di farli restare a votare nel weekend, e avevamo i voti per farlo. In Parlamento io ho provato a convincere tutti i deputati del Pd a votare con noi alcune cose, Civati, Moretti, Madia... tutti. Da Rodotà in poi. Dicevano “è il migliore, ma non possiamo votarlo perché lo proponete voi”. Ricordo che la Moretti, la sera di Prodi, piangendo, mi disse “ok, avete vinto voi, cosa dobbiamo fare?”. Poi votarono Napolitano. Votano contro le loro convinzioni perché vogliono fare politica a vita, e allora fanno autocastrazione. Noi non abbiamo questo problema. Dopo due mandati faremo altro, il che ci rende più liberi». In Europa ora siete passati a una più mite richiesta: gli euro bond. «L’uscita dall’euro, come la mette la Lega, è uno slogan. Gli euro bond mi sembrano una via praticabile, ricordo che ne parlò Tremonti, non dispiacevano anche a sinistra, è davvero impossibile farli?». Quindi niente uscita dall’euro? «Se la Germania non accetta gli euro bond, che esca la Germania. Né al Consiglio né alla commissione c’è il veto previsto, per esempio, all’Onu. Il voto tedesco vale quanto quello della Grecia. Sfidiamo Renzi, faccia una grande iniziativa europea su questo. Lui definisce “anacronistico” il 3 per cento, ma va da Merkel e non dice niente». Lamentate che Renzi vi ruba dei temi, questo però dovrebbe porvi un problema politico, o no? «Per noi il problema non è chi si prende la paternità, è che Renzi poi quelle cose non le fa». Qualche carta non la potevate andare a vedere? Magari le province, parzialmente tagliate? «In realtà non erano neanche tagliate a metà. Ed è così su tutto; i renziani erano contro gli F35, che però sono ancora lì; erano per la mozione elettorale Giachetti, che però non votarono; erano per l’amnistia, e poi sono diventati contro. Non sono credibili». E i vostri errori? Lei è stato sospeso per quella scena con Speranza, se n’è pentito? «Riguardandomi ho capito che ero fuori giri, avevo perso il controllo, e non ne sono affatto contento. Ma la battaglia era giusta, quella la rifarei: ci hanno negato il riconteggio dei voti, violano le procedure della democrazia, e attaccano noi sulle forme. Diventa tutto un gioco comunicativo, spesso falsato. E lo dice uno che ha un sogno: fare il reporter. E lo farò, perché se la legislatura dura fino al 2018, io non mi ricandiderò». E la tv? Dalla Bignardi, al di là delle polemiche, non è andata male. L’ha più sentita? «No. Ma non ce l’avevo con lei, ha fatto le domande che doveva, anche su mio padre. Quello che mi è dispiaciuto è aver visto poi il trattamento di totale gentilezza - eufemismo - riservato a Renzi». @jacopo_iacoboni Da - http://lastampa.it/2014/03/20/italia/politica/di-battista-il-ms-sopra-il-e-possiamo-sfondare-il-cI4tgII5qfZehynwgcbTVN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 04:59:53 pm Politica
20/03/2014 - intervista Di Battista: il M5S sopra il 26% e possiamo sfondare il 30 Tour con i deputati sospesi: “Alle europee supereremo il risultato del 2013. Ma quale leader, nel 2018 non mi ricandiderò” Jacopo Iacoboni Inviato in VENETO A che punto è il feeling della società italiana con il Movimento cinque stelle? Esiste a Milano un loro dato riservato (non un sondaggio) che li vorrebbe di nuovo molto alti, risulta anche ad Alessandro Di Battista? Romano di Prati, 35 anni, esuberante ma molto parco di interviste coi giornali, accetta di parlare mentre il treno lo porta a Modena, nuova tappa del tour dei deputati sospesi: «Io non conosco questo dato; ma le dico: ho elementi per credere che supereremo il risultato di febbraio 2013». Non è un po’ troppo? Di solito i politici abbassano l’asticella della previsione, così comunque vada dicono che hanno vinto. «Noi non abbiamo il problema del consenso, non vogliamo fare politica a vita. La mia speranza anzi è sfondare quota 30 per cento; ma credo che saremo comunque più alti del 25,5. A quel punto chiederemo al governo di dimettersi, e ai cittadini di circondare il Parlamento». In base a cosa crede a questa soglia? È un atto di fede o una descrizione? «Da un anno facciamo delle agorà con i meet up. Prima venivano 30-40 persone, ora a Verona eravamo in 800 un lunedì sera, a Noale, un paesino veneto, ieri, 450. Non sono i numeri dello tsunami tour, è ovvio; ma stiamo seminando tanti piccoli tsunami. Da Roma ovviamente non si capisce». L’altra sera lei diceva che tanti anni fa, parlando con suo padre, constatavate che la Lega era «nata rivoluzionaria, ma aveva fatto l’errore di entrare nelle spartizioni del sistema». Partite da nord est perché puntate a prendere molti voti in quell’elettorato deluso? «Il tour non ha questo significato, andremo anche a sud, o nelle isole. E poi parliamo a quell’elettorato, sì, ma siamo anche contro gli F35, una battaglia che piace molto a sinistra. Però - essendo sempre stato un antiLega - posso dire nelle piazze che la Lega delle origini era rivoluzionaria; quella prima della secessione, che era solo un modo per chiedere tanto per ottenere qualcosa». Quello che fate voi sull’euro? «Noi no, non chiediamo tanto per ottenere poco. Semmai vogliamo alzare il livello dello scontro - sempre in maniera rigorosamente non violenta - perché è l’unico modo per ottenere risultati. Il salva Roma l’abbiamo stoppato perché li minacciammo di farli restare a votare nel weekend, e avevamo i voti per farlo. In Parlamento io ho provato a convincere tutti i deputati del Pd a votare con noi alcune cose, Civati, Moretti, Madia... tutti. Da Rodotà in poi. Dicevano “è il migliore, ma non possiamo votarlo perché lo proponete voi”. Ricordo che la Moretti, la sera di Prodi, piangendo, mi disse “ok, avete vinto voi, cosa dobbiamo fare?”. Poi votarono Napolitano. Votano contro le loro convinzioni perché vogliono fare politica a vita, e allora fanno autocastrazione. Noi non abbiamo questo problema. Dopo due mandati faremo altro, il che ci rende più liberi». In Europa ora siete passati a una più mite richiesta: gli euro bond. «L’uscita dall’euro, come la mette la Lega, è uno slogan. Gli euro bond mi sembrano una via praticabile, ricordo che ne parlò Tremonti, non dispiacevano anche a sinistra, è davvero impossibile farli?». Quindi niente uscita dall’euro? «Se la Germania non accetta gli euro bond, che esca la Germania. Né al Consiglio né alla commissione c’è il veto previsto, per esempio, all’Onu. Il voto tedesco vale quanto quello della Grecia. Sfidiamo Renzi, faccia una grande iniziativa europea su questo. Lui definisce “anacronistico” il 3 per cento, ma va da Merkel e non dice niente». Lamentate che Renzi vi ruba dei temi, questo però dovrebbe porvi un problema politico, o no? «Per noi il problema non è chi si prende la paternità, è che Renzi poi quelle cose non le fa». Qualche carta non la potevate andare a vedere? Magari le province, parzialmente tagliate? «In realtà non erano neanche tagliate a metà. Ed è così su tutto; i renziani erano contro gli F35, che però sono ancora lì; erano per la mozione elettorale Giachetti, che però non votarono; erano per l’amnistia, e poi sono diventati contro. Non sono credibili». E i vostri errori? Lei è stato sospeso per quella scena con Speranza, se n’è pentito? «Riguardandomi ho capito che ero fuori giri, avevo perso il controllo, e non ne sono affatto contento. Ma la battaglia era giusta, quella la rifarei: ci hanno negato il riconteggio dei voti, violano le procedure della democrazia, e attaccano noi sulle forme. Diventa tutto un gioco comunicativo, spesso falsato. E lo dice uno che ha un sogno: fare il reporter. E lo farò, perché se la legislatura dura fino al 2018, io non mi ricandiderò». E la tv? Dalla Bignardi, al di là delle polemiche, non è andata male. L’ha più sentita? «No. Ma non ce l’avevo con lei, ha fatto le domande che doveva, anche su mio padre. Quello che mi è dispiaciuto è aver visto poi il trattamento di totale gentilezza - eufemismo - riservato a Renzi». @jacopo_iacoboni Da - http://lastampa.it/2014/03/20/italia/politica/di-battista-il-ms-sopra-il-e-possiamo-sfondare-il-cI4tgII5qfZehynwgcbTVN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Renzi, il M5S e l'accusa (pericolosa) di populismo a ... Inserito da: Admin - Marzo 27, 2014, 06:29:36 pm 26/03/2014
"Noi, il popolo" Renzi, il M5S e l'accusa (pericolosa) di populismo a chiunque "non è come noi" In Gran Bretagna c'è un modo di dire che descrive meglio di ogni altro la situazione dell'Italia 2014 - non solo politica: "Alcolista è il mio nemico che beve; io sono un amante del vino". Populisti sono sempre gli altri, in Italia. Ma è un'etichetta che, specie quando viene brandita alla cieca in politica, dice poco o nulla. D'accordo, non c'è osservatore della domenica, peone del Parlamento o passante di twitter che in questi giorni (mesi, e forse negli ultimi anni) non abbia dato del populista a qualcuno. Certo a Berlusconi e alla Lega, tuttavia pare di ricordare che L'Unità, quotidiano del Pd, apostrofò Renzi stesso - il loro futuro leader, e non ci voleva molto a capirlo - come "fascistoide" e "populista"; eravamo non più di due anni fa (anzi meno). Il Movimento cinque stelle è populista per definizione. Si sprecano le analisi all'ingrosso che chiamano "populista" il voto al Front National in Francia; l'espressione "ondata populista" è diventata così corriva che non si capisce neanche più bene cosa voglia dire. E' chiaro, già solo per via negativa, che affibbiare questa etichetta a cose tanto diverse - e spesso francamente opposte - la squalifica totalmente come categoria ermeneutica (il che è autoevidente), ma persino come ascia di battaglia politica. Eppure. "Populista". Renzi fa due tweet nei quali annuncia che occorre tagliare gli stipendi dei top manager - sacrificio sacrosanto persino oltre il rendimento economico delle aziende che dirigono - e gli danno del populista. Scrive che con il ddl sulle province si risparmieranno 3000 indennità ai politici - non un granché, ma già qualcosa - e la cosa viene spesso commentata come populista, molte volte all'interno del suo gruppo parlamentare. Sostiene di non voler più perdersi in mediazioni infinite con Confindustria e sindacati - i "corpi intermedi" al servizio degli interessi parziali che rappresentano- ma di voler parlare "direttamente" alle famiglie, e quell'avverbio fa quasi scandalo, “direttamente" non vorrà mica dire saltando le mediazioni della democrazia rappresentativa? Non sia mai. Sacrilegio. "Popolo" è effettivamente categoria sfuggente, se ce n'è una. C'è il tetro Volk della Germania anni trenta, che davvero echeggia ancora in Europa col suo carico di violenza, razzismo, xenofobia, antisemitismo, visione di devastanti "società integrali". Ma c'è anche il "Noi, il popolo" della Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti, che Judith Butler in un bellissimo saggio considera "il fondamento" delle democrazie, non la sua antitesi o negazione. Ogni elaborazione teorica di una sinistra-sinistra contemporanea (da Badiou a Zizek) si colloca esattamente in questa costellazione, a meno di non voler seguire invece le teorizzazioni anti-populiste della sinistra dei raffinati filosofi D'Alema e Camusso. Il meglio del pensiero anarco-libertario (David Graeber, uno dei testi sempre citati dal mondo Occupy americano) ha fatto a pezzi questa accezione negativa di "popolo", portandola semmai a coincidere con la nozione - più elastica e fluttuante, ma mai demonizzata, di "cittadinanza attiva", o di "democrazia radicale", o "democrazia" tout court. Eppure di fronte a ogni tentativo di ascolto del "popolo" nelle prassi politiche, scatta inesorabile l'accusa di populismo. E' vero, l'ascolto può avvenire in forme a volte anche molto sbracate, o palesemente pericolose; e non tutte le élite paiono da mandare al macero, semmai a volte il problema italiano è che le élite in Italia non sono abbastanza élite, per cultura, merito, capacità di servizio al di là di interessi corporativi o di casta. Nondimeno l'equivalenza popolo = populismo è uno dei pessimi arnesi dei senza argomenti, che oltretutto si mostrano incapaci di cogliere i veri elementi pericolosi quando ci sono (e in alcuni casi ci sono), dei "popoli". Quell'equazione - verrebbe da dire - è lei sì, davvero, populista nel senso peggiore. Com'è ovvio, in qualsiasi passaggio della teoria politica moderna non è così. In Machiavelli - tanto per citare alcune radici di fondo - il "bene comune" è ostacolato - in linea fondativa - dagli appetiti delle oligarchie, più che dalla fame o dall'impreparazione del popolo. John McCormick - uno dei più acuti studiosi del tema - mostra benissimo, prendendo spunti dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, come la nozione di "anti-populismo" sia anzi diventata lo strumento usato classicamente (cioè senza tempo) dalle élite per conservare i propri interessi di (piccolo) gruppo a scapito di quelli delle "moltitudini" (termine per lo più posteriore, ma qui rende l'idea). Per Machiavelli esistono casi in cui, legittimamente, le élite possono essere contestate - a volte anche per via istituzionale, il che è assai interessante, pensando all'esperienza del renzismo oggi - e il caso che cita più volentieri è la repubblica romana. Machiavelli, semmai, critica tutta una filiera opposta che vede nel popolo - e nel concetto stesso di "democrazia", dall'Etica Nicomachea a Guicciardini - un elemento deteriore che avvicina le organizzazioni degli stati alle tirannie, non alla libertà. Piccolo particolare: questa equivalenza popolo-populismo è il topos di un pensiero politico quello sì conservatore. Naturalmente la discussione sarebbe lunga, né può essere esaurita certo qui; ma almeno un dubbio che l'accusa di "populismo" sia citata a sproposito ce lo possiamo far venire, sia nella polemichetta politica spiccia, sia nel dibattito teorico. Per l'incoerenza e la radicale diversità dei soggetti ai quali la si applica; ma anche - appunto - perché si tratta di un'accusa partorita in un contesto teorico "ideologico", potremmo dire con una forzatura linguistica successiva, cioè è un'accusa che serve all'interno di un discorso politico preciso: di conservazione e mantenimento degli status quo. Guarda caso, proprio come oggi. Dai del populista a ogni richiesta di cambiamento che arriva dal basso della società, e avrai cristallizzato tutto. O almeno crederai di. Neanche una settimana prima delle elezioni politiche del 2013, il Pd di Bersani chiuse la sua trionfale campagna elettorale con un grande evento tipico della sua "filosofia politica" di questi anni: il congresso dei socialisti europei a Torino. Coi buoni uffici di D'Alema ("ormai passo la maggior parte del mio tempo") all'estero, con Bersani incoronato in prima fila come sicuro premier per assenza di alternative, col videomessaggio sontuoso e compunto (ma anche parecchio obliante dei desiderata della società francese) di le president Hollande, col discorso fieramente antipopulista di Martin Schultz, con l'effervescente simpatia di Elio Di Rupo, insomma, con tutti questi sapidi ingredienti fu preparata la zuppa della lettura tipo del centrosinistra italiano recente, ossia: noi come unico argine europeista "contro il dilagare del populismo". Inutile osare osservare - allora - che forse molto di quel "populismo" era già in quel momento (e chissà da quanto) ingrossato in realtà da ex elettori delle sinistre europee; inutile anche solo lasciarsi attraversare dal sospetto che questa lettura della realtà fosse foriera di disastri elettorali. La differenza adesso (non è una differenza da poco) è che il capo del centrosinistra italiano ha fiutato- e anzi, lo evoca lui stesso da Palazzo Chigi - il rischio di un "devastante tsunami" in Europa, se si batte questa pista di cieca demonizzazione. Sarà vero, falso, ci crede per convinzione, per mera convenienza? E questo rischio lo si fronteggerà dando del populista a chiunque sia fuori dal perimetro delle nostre, magari forbite, convinzioni storico-politiche? O al limite pensando che tagliare lo stipendio di Moretti forse non meriti la stessa definizione di certi atti xenofobi alla periferia di Parigi, legittimati dal Front National? Noi naturalmente non lo crediamo, sicuramente non andrà così, il centrosinistra farà tesoro dei suoi errori - per quanto linguisticamente ripetuti e politicamente ciclici. Sarà impossibile che si finisca come nella barzelletta: il popolo non ci vota? Che problema c'è, cambiamo il popolo. twitter @jacopo_iacoboni da - http://lastampa.it/2014/03/26/blogs/arcitaliana/noi-il-popolo-9J1dfDgulHGuL7NSLmIL3J/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Brunetta, l’alfiere stizzito dei forzisti anti-Renzi Inserito da: Admin - Aprile 06, 2014, 06:12:18 pm Politica
02/04/2014 Brunetta, l’alfiere stizzito dei forzisti anti-Renzi L’ex ministro dà voce a quella parte del partito che vuole tirare un po’ sul prezzo delle riforme per acquistarle in seguito a condizioni più vantaggiose. O se fosse invece solo il sogno del renzismo, che non riesce ad afferrare, a incollerirlo? Jacopo Iacoboni Da qualche giorno chi segue anche le piccole cose della politica italiana avrà notato un singolare imbizzarrimento dell’ex candidato del Pdl a sindaco di Venezia, ex socialista ed ex ministro berlusconiano, contro l’attuale premier. Uno che ancora nel luglio 2011, del Renzi sindaco, diceva «avercene, di gente come lui», e che anche nei giorni successivi al patto Renzi-Berlusconi sulle riforme, aveva aperto più di uno spiraglio al neopremier. L’ultima scena invece, abbastanza divertente, bisogna ammetterlo, è accaduta in mattinata in tv ad Agorà, e è sintomatica, Brunetta che prima ha svolto un severissimo ragionamento contro Renzi, «è il terzo presidente che non viene fuori da elezioni politiche, dopo Monti e Letta, è figlio di una stagione anomala che ha poco a che fare con le regole democratiche, dopo Renzi ci può essere un altro Renzi, se stiamo alle congiure di palazzo... Renzi ha vinto solo delle finte primarie di partito». A quel punto il dibattito è proseguito, ma l’ex ministro, sentendosi trascurato («posso intervenire, ehiii...non parlo come gli altri, signor conduttoreeee?») ha preso e se n’è andato stizzito. E tuttavia la sua stizza - sempre assai godibile televisivamente - non è una novità di oggi. E’ da qualche tempo che Brunetta ha assunto un po’ il ruolo - conferito ad hoc nel centrodestra? autoassegnato? - di alfiere degli anti-Renzi del Cavaliere. Se Verdini tratta con la Boschi, Brunetta chiama Renzi demagogo, “sembra voler contrastare demagogia e populismo con altrettanta demagogia e altrettanto populismo. Veramente siamo sconcertati”. Il premier vanta il ddl costituzionale approvato dal consiglio dei ministri? Brunetta si inalbera subito perché «noi vogliamo la riforma del Senato, del bicameralismo, del titolo V, vogliamo il premierato, l’elezione diretta del capo dello Stato, ma di questo vediamo ben poco nelle bozze presentate». Renzi spiega che l’obiettivo è portare la disoccupazione sotto il dieci per cento? Ecco Brunetta, che bolla il suo dire come «ridicolo e patetico». E se fosse davvero come la vede Brunetta - un Renzi che “risponde al populismo col populismo”, uno Stranamore che “bluffa”, che «le spara grosse», che “farebbe meglio a farsi scrivere «esternazioni migliori dai suoi ghost writer» («ne aveva di bravi ai tempi delle sue numerose campagne elettorali») - certo non potrebbe trovarsi di fronte antagonista più speculare: un proteiforme, divertentissimo e poliedrico professionista della battuta, dai “fannulloni” della pubblica amministrazione ai “poliziotti panzoni” al “culturame” che devasta l’Italia. Insomma: Brunetta che ribalta se stesso. Esistono due opzioni, allora, e sarà il futuro immediato a chiarircele: Brunetta ha l’incarico di dar voce a quella parte di Forza Italia che tira un po’ sul prezzo delle riforme per acquistarle poi a condizioni più vantaggiose. O magari, semplicemente, il Professore - sulla cui “statura” professorale ironizzò persino Monti, per non dire di Tremonti - ha qualcosa di psicologico contro il renzismo, lo specchio di quella rupture che lui da sempre sogna, senza riuscire - sicuramente per colpa degli altri - ad acciuffarla mai. Da - http://lastampa.it/2014/04/02/italia/politica/brunetta-lalfiere-stizzito-dei-forzisti-antirenzi-712fOxD9MZqcPIhUp0mTtN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Riforme, Bersani sposa la protesta dei professori Inserito da: Admin - Aprile 13, 2014, 05:31:58 pm Politica
12/04/2014 Riforme, Bersani sposa la protesta dei professori L’ex segretario: “Scelte non comparabili con le democrazie” Jacopo Iacoboni «Di Matteo Renzi mi piace molto l’energia, la voglia; un po’ meno una certa sbrigatività. Uno nello stesso tempo, con la stessa rapidità, può fare una cosa giusta o una cosa sbagliata». Anche profondamente sbagliata. E di cose sbagliate Renzi ne sta facendo, secondo Bersani. Pierluigi è tornato. Ieri ha registrato un lunga conversazione con Enrico Mentana per Bersaglio mobile. La tesi di fondo è forte, una bocciatura solenne, il «combinato» delle riforme di Renzi va cambiato tanto, «se vogliamo essere comparabili con le democrazie occidentali». Non è che i professori della «svolta autoritaria» dicano cose diversissime. Da quando è tornato in pista dopo l’operazione, l’ex segretario del Pd è così, con Renzi. Non c’è nulla da fare. In questa fase ha pronunciato valutazioni del tipo «altro che complotto, Renzi ringrazi il gruppo parlamentare»; oppure, «visto che ho salvato il cervello per un pelo, non è che lo consegno ad altri»; o in tv da Fazio venti giorni fa: «Renzi è bravo, crea movida. Ma avrà bisogno di tutti». Movida, sì: più o meno come un tipo da discoteca. E ora rieccolo in tv, a dire sostanzialmente tre cose al premier. La prima, citando Veltroni (e Crozza, che lo ispira sin dai tempi dello smacchiamo): «Lo dico serenamente, pacatamente: la legge elettorale così com’è non va. Il combinato di riforma elettorale e del Senato rischia di consegnare a qualcuno col 24, 25 per cento governo, presidente della Repubblica, giudici costituzionali. Va molto cambiata, se vogliamo essere comparabili con le democrazie occidentali». Non siamo molto lontani dall’appello dei «professoroni». Tra l’altro il M5S («una totale inutilità», a suo dire) «se è la seconda forza, o di qua o di là rischia di vincere al ballottaggio. Ragioniamoci». Poi però, non del tutto conseguente, Bersani auspica che il ddl Chiti sul Senato «venga ritirato, meglio fare emendamenti»; per Renzi, è buona notizia. Resta però tra i due una fortissima distanza antropologica (eufemismo). Ogni cosa di questa performance lo svela, anche le frasi colorite stile-tacchino sul tetto, «uno non può essere ubriaco del proprio io, se fai politica ti metti in un noi. Se c’è una cosa per cui questo governo non brilla è l’umiltà». La terza tesi è «se qualcuno beve l’acqua oggi, il merito è anche di chi ha scavato il pozzo». Insomma, e questa è forse la più paradossale: se Renzi è lì è (anche) per merito mio. Bersani usa ripetere «ora torno a dire la mia, ma non chiedo posti»; una posa che D’Alema assume in un altro modo («passo ormai la maggior parte del mio tempo all’estero»), ma la sostanza quella è. Si sentono padri del partito. Solo che D’Alema al momento ha un (provvisorio) appeasement col segretario. Bersani no. Coscienza critica. Sana voce del dibattito interno. Non provate a chiamarlo «rosicone». Da - http://lastampa.it/2014/04/12/italia/politica/riforme-bersani-sposa-la-protesta-dei-professori-IgdxjoY1EJAKF1MGksBSyN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Lo strano caso del "martire" Mineo Inserito da: Admin - Giugno 14, 2014, 10:23:15 pm 12/06/2014
Lo strano caso del "martire" Mineo Sono - chi legge quello che scrivo e dico in giro lo sa - un totale cultore del dissenso, cresciuto col mito del vecchissimo “manifesto”, che si schierava contro il Pci (” Praga è sola”) quando il Pci era una cosa seria, nutrito di un’idea libertaria e totalmente orizzontale della politica (e del giornalismo), amante di tante storiche battaglie radicali, disposto per questo a sostenere le giovani promesse della politica, e semmai a romper le scatole quando si realizzano. Detto questo, pensando all’ultimo caso-Mineo scoppiato nel Pd, non credo che un partito (e neanche un Movimento, lo scrissi a proposito dei dissidenti del M5S che tanto entusiasmavano, strumentalmente, i media) possa lasciare una scelta decisiva per la sorte, sua e del suo leader, nelle mani di un dissenziente. Tanto più in una Commissione parlamentare, giacché chi è eletto è lì per conto di un partito, e di questo deve tenere conto. Persino più che in aula. E’ chiaro che in una Commissione non solo si rappresenta se stessi, ma un pacchetto di propri colleghi. Naturalmente penso che sia stato uno sbaglio sostituire così Mineo. Matteo Renzi poteva e doveva convincerlo, persuaderlo, telefonargli, chiedergli anche - con sensibilità politica che lui e il ministro Boschi non hanno avuto - di votare secondo la linea del partito sulle riforme, posto che poi sarebbe potuto tornare alla sua posizione critica un secondo dopo, forse anche nel voto in aula. Non mi pare che Renzi sia sprovvisto di doti seduttive, no? Le doveva esercitare, faticosamente, anche con Mineo, magari pensando - tra sé e sé; senza dirlo - “che noia dovermi sorbire questa conversazione”. Questo Renzi non l’ha fatto, dando l’impressione brutale di una cacciata. Ma un Paese non è come il consiglio comunale di Firenze; dovrebbero vigere logiche lievemente più sofisticate, e in definitiva democratiche. Adesso l'affare s’ingrossa (diceva quello), per l’autosospensione dei 14 senatori critici del Pd. Io non credo che l’autosospensione sia una cosa particolarmente seria, mi pare anzi una protesta abbastanza infantile; segnala però che c’è un potenziale problema; vedremo (anche se io non lo penso) se i 14 sono disposti a portarlo alle estreme conseguenze. Bisogna infine far notare una cosa: Renzi era da tre giorni in Oriente, nell'esotica Saigon della rue Catinat di Graham Greene, e nella pulsante Pechino dell'Art district Dashenzi; e il gruppo parlamentare ha puntualmente ripreso a ballare. L’uomo del 41 per cento dal popolo è poi piuttosto infilabile e scoperto nella gestione del gruppo e del partito. Mineo - giova oltretutto ricordarlo - non è Rosa Luxemburg, ma un eccellente giornalista e direttore Rai eletto per volontà di Pierluigi Bersani nella gestione precedente del Pd. twitter @jacopo_iacoboni da - http://lastampa.it/2014/06/12/blogs/arcitaliana/lo-strano-caso-del-martire-mineo-TT41CegRRi92qTb0rFMAhJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Le doppie aperture incrociate nel primo streaming in cui... Inserito da: Admin - Giugno 25, 2014, 05:33:18 pm 25/06/2014
Le doppie aperture incrociate nel primo streaming in cui si parla Per quanto sempre un po' ingessato, questa volta lo streaming è stato - per la prima volta - politicamente interessante. E il motivo è semplice. Nessuno dei due interlocutori si è limitato a ripetere il principio d'identità (come Gertrude Stein di "una rosa è una rosa è una rosa"), nessuno ha ripetuto la sua proposta e basta, a scatola chiusa, ma tutti e due hanno provato a fare un passetto ulteriore. Dopodiché, com'è ovvio, non è affatto detto che si approdi a qualcosa. Ma ci sarà un nuovo incontro. Un minimo filo c'è. Sta a entrambi - se vogliono, se possono, se ne sono capaci, e se ci sarà un incastro di condizioni - tesserlo e giocarlo. Insomma, lontani i tempi dei tragici Roberta Lombardi e Vito Crimi davanti a un titubante e altrettanto imbarazzante Bersani; archiviata l'incolore esibizione di Letta - democristianamente magistrale, a suo modo, ma politicamente sterile perché inerte; molto distante anche la performance aggressiva di Grillo contro Renzi, col fondatore del M5S che neanche faceva parlare il rivale, e l'altro che esordiva anche lui assai teso dicendogli "non voglio chiedervi nulla", ecco: stavolta i due interlocutori si sono parlati. Al di là di alcune punzecchiature reciproche (tutte piuttosto nella norma, niente di che) Renzi si è attestato su questa proposta, se qui non si sbaglia: un correttivo alla legge elettorale è indispensabile per garantire la governabilità. Il correttivo migliore - di effetto molto più sicuro del Toninellum - è il doppio turno. E su questo il Pd non tratta. Detto questo, spiega Renzi nel punto politicamente fondamentale, "noi non abbiamo paura delle preferenze". E Di Maio, che non se la cava malaccio davanti a un politico con più esperienza di lui, non solo chiude l'incontro domandando "allora possiamo discutere sul tema delle preferenze?", ma dice anche "noi non siamo contro i doppi turni"; frase che onestamente va persino oltre i dibattiti e le polemiche recenti - anche dentro il gruppo dirigente del Movimento - sul fatto (poi confermato dalla linea tenuta oggi da Di Maio) che il punto dell'incontro era questo: le preferenze. Di Maio poi ha fatto bene a illustrare che il M5S non si arrocca sul sistema delle preferenze negative, ma il punto per loro è trovare un sistema che eviti ai partiti di imbarcare politici e amministratori corrotti, come troppo spesso accaduto al Pd. Ed è comprensibile l'orgoglio con cui ha ricordato i diecimila candidati incensurati del M5S. Condizioni prepolitiche, si dirà; che però hanno un valore che sarebbe sbagliato sottovalutare. E che proprio Renzi è parso non sottovalutare. Interessante tra l'altro, e da sottolineare, che Renzi sia andato personalmente al colloquio: non era affatto scontato né dovuto. Al di là di due o tre momenti di inutile esuberanza (per esempio quando ha chiamato i due interlocutori "Ric e Gian"), la sua presenza e il suo atteggiamento vanno letti come un atto di rispetto verso il mondo M5S, un atto che ha cercato di creare il terreno per un colloquio, non per gli insulti. Paradossalmente, è come se in questo momento nel Pd i renziani (e non solo, penso alla Moretti) siano assai più sprezzanti, nella vittoria, verso gli sconfitti cinque stelle, di quanto non lo sia il vero vincitore, e cioè il segretario Pd. Dunque il matrimonio si farà? Alt. Troppo presto per dirlo. Le preferenze sono assai ostacolate da Berlusconi, l'altro soggetto tuttora in campo. E sono ostacolate da tutta la pubblicistica di destra, che riconoscerete nei resoconti in modo semplice: sono quelli che scriveranno che non è successo niente, che l'incontro è stato inutile, che aveva e avrà solo un fine propagandistico, e che titoleranno "Renzi chiude al Democratellum". Sono quelli che sognano la democrazia del "punto e basta", la democrazie dell'"è così, e stop". Può darsi che abbiano ragione, e Renzi sia come loro. Qui si parte da un'altra ipotesi: che Renzi cerchi una strada, tutta sua, discutibile quanto volete, ma di democrazia; se è vera questa ipotesi, questo incontro non è parso inutile: anzi, segna una svolta notevole anche per il M5S. Ovvio che poi nessuno può giurare - con questi chiari di di luna - che qualcosa vada in porto. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/06/25/blogs/arcitaliana/le-doppie-aperture-incrociate-nel-primo-streaming-politico-GJrC8dTJG5trI67JU6zPxM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Riforme, si allunga sempre più la lista dei mal di pancia Inserito da: Admin - Luglio 11, 2014, 11:54:19 pm Politica
10/07/2014 Riforme, si allunga sempre più la lista dei mal di pancia Chi sono, e cosa vogliono, tutti i potenziali no trasversali a Renzi-Berlusconi Jacopo Iacoboni Se si prova a fare una piccola fotografia, partito per partito, di quale sia la compattezza e la tenuta del “patto sulle riforme” - legge elettorale e Senato, principalmente - l’immagine che viene fuori è uno scenario quasi libanizzato. Non solo ci sono improvvisi distinguo - o, come minimo, precisazioni sostanziali, come quella della Lega - ma anche dentro i partiti principali i dissidenti sono tanti. Sia in Forza Italia, sia nel Pd. Facciamone una mappa ragionata. Il partito del Cavaliere In Forza Italia restano 22 (0 secondo diversi calcoli 23) dissidenti che chiedono tuttora a Berlusconi di rinviare l’incardinamento della riforma in aula, e hanno scritto una lettera su questo. Li guida l’ex direttore del tg1, Augusto Minzolini, gli altri firmatari della protesta interna sono Aracri, Alicata, Bonfrisco, Bruni, Compagnone, D’Ambrosio Lettieri, D’Anna, Falanga, Fazzone, Liuzzi, Longo, Iurlaro, Milo, Pagnoncelli, Perrone, Ruvolo, Scavone, Sibilia, Tarquinio, Zizza, Zuffada. (D’Anna e Milo, sono i due parlamentari di Gal scesi in campo con i dissidenti forzisti). Ma, al di là dei documenti espliciti, potrebbero essere anche di più, i senatori. C’è chi, chiedendo l’anonimato, racconta: «Di fatto gli unici due veri sostenitori del pacchetto Italicum-Senato sono rimasti Gasparri e ovviamente Romani». Tutti gli altri senatori sarebbero, chi con più forza, chi moderatamente, contrari. Non significa che Berlusconi non possa alla fine convincerli, ma questo dà l’idea dell’ampiezza delle difficoltà. Il ragionamento comune di diversi senatori forzisti è: «Questa legge elettorale sicuramente avvantaggia Renzi e penalizza Forza Italia. Per i suoi interessi, Berlusconi sacrifica i nostri». Il Pd Nel partito democratico un’area di 15-20 parlamentari potrebbe essere in vario modo contraria a votare sì alle riforme di Renzi. E lo va dicendo da tempo in ogni sede, sostanzialmente guidata da Vannino Chiti, ma nutrita anche delle forti perplessità di uomini come l’ex segretario Pierluigi Bersani. Questo gruppo di perplessi si è palesato in diverse occasioni, dal caso Mineo al ddl Chiti, e viene fuori quasi a ogni tornate della vicenda recente del patto Renzi-Berlusconi. L’ultima è la volontà renziana di accelerare a tutti i costi. «Sulla modifica del calendario abbiamo scelto di non partecipare al voto. Da due mesi quelli del Pd accusati di frenare non toccano palla in commissione Affari Costituzionali. Eppure il testo di riforma del Senato non è ancora pronto. Del Titolo V si è discusso solo in modo sommario, il nodo dell’elezione del Presidente della Repubblica non è stato risolto. C’é da chiedersi chi freni, in realtà, e perché Renzi non lo dica chiaramente». Lo scrivono i senatori del Pd Vannino Chiti, Erica D’Adda, Nerina Dirindin, Maria Grazia Gatti, Felice Casson, Paolo Corsini, Francesco Giacobbe, Sergio Lo Giudice, Claudio Micheloni, Corradino Mineo, Walter Tocci, Renato Turano. Ai perplessi si può aggiungere il nome di Massimo Mucchetti. «Ora però la Conferenza dei Capigruppo non concede neppure 24 ore di tempo per leggere un testo di riforma ampiamente modificato da quello base - proseguono i senatori - e che ancora non c’è nella sua versione definitiva, prima di portarlo in aula. Scelta discutibile e assai poco comprensibile. Tuttavia non siamo stati noi, neppure oggi, a frenare. Per questo non ci siamo uniti alle opposizioni che, con buone ragioni, hanno votato contro la proposta di calendario». A questi si aggiungono le perplessità extra Senato: deputati dell’area di Pippo Civati, che parla di riforme sbagliare e “renzicentriche”. Oppure altre figure, come quella di Miguel Gotor, bersaniano della primissima ora, di professione storico, assai apprezzato da Giorgio Napolitano, che ha svolto soprattutto due critiche. Una è il rapporto che c’è tra il nuovo senato e l’Italicum per come è uscito dalla camera: «Quando abbiamo votato quel testo ancora non sapevamo come sarebbe stato il nuovo Senato. Oggi stiamo lavorando a un Senato di secondo grado e non è possibile che la sola camera politica, l’unica a cui sarà demandato l’indirizzo di governo e la sola depositaria della fiducia, sia composta da nominati. In questo modo si rischia una deriva oligarchica della democrazia italiana che va contrastata perché il disegno di Verdini e Berlusconi non può essere il nostro». Il secondo problema sollevato da Gotor riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica. «Bisogna evitare - dice il democratico assai legato a Bersani - che il detentore del premio di maggioranza possa con soltanto 26 senatori eleggere da solo il capo della Stato» La Lega Dubbi e critiche stanno spuntando anche nell’area dei senatori leghisti, che pure - con Roberto Calderoli - hanno partecipato attivamente all’accordo, e anzi, cercando di conquistare un canale preferenziale con Renzi, rispetto a Forza Italia. Calderoli - che fino a oggi aveva semmai sempre manifestato una grande perplessità sul fatto che Forza Italia avrebbe davvero, alla fine, rispettato il patto - adesso è lui a esporre una serissima riserva, che ha contribuito a far slittare all’inizio della prossima settimana almeno l’incardinamento del testo in aula. Alla Lega non piaceva che il meccanismo di elezione di secondo grado dei senatori, affidato a un criterio proporzionale rispetto ai consigli regionali, diventi di fatto una non-elezione tout court, che riduce al massimo i partiti medio piccoli, rafforzando le segreterie medio grandi. «La mia perplessità - spiega Calderoli - nasce non per l’elezione ma per la non elezione dei senatori. Si può scegliere l’elezione diretta o l’elezione indiretta, ma il punto è che non c’è più l’elezione indiretta. E ciò in democrazia è inaccettabile». È lui tra l’altro, ricordiamolo, l’inventore del Porcellum, la più discussa legge (elettorale) della storia politica recente. Risultato, l’emendamento verrà prontamente riformulato. Il Ncd Della maggioranza di governo, anche il partito di Alfano esprime da giorni un forte malessere. Se Gaetano Quagliariello va avvisando dall’inizio della settimana che «l’Italicum così com’è non lo votiamo», ora anche Andrea Augello, che segue la materia per conto del partito, mostra che «tutto il gruppo» condivide quella preoccupazione della Lega. Dice Augello che «si rischia di creare un vincolo ai consiglieri regionali che saranno predeterminati nella scelta dei futuri senatori in base alle percentuali di proporzionalità». Un’ulteriore spoliazione della capacità elettiva dei cittadini. I numeri ballerini È assai difficile farne, naturalmente, perché variano sensibilmente in base ai diversi gradi di dissenso. Chi sarà disposto a spingersi fino alle estreme conseguenze? Fino alle critiche arrivate da Lega (e Ncd, nonostante Romani giuri che con Alfano sia tutto rientrato), l’accordo di Renzi con Forza Italia e Lega avrebbe consentito di superare la maggioranza assoluta di 160 voti abbastanza facilmente. Più difficile raggiungere quella dei due terzi (230 voti). Tra i dissidenti, quelli disposti ad andare fino in fondo nel no sarebbero 16 senatori del Pd, due di Per l’Italia (Mario Mauro e Tito Di Maggio), uno del Ncd (Antonio Azzolini), più il socialista Enrico Buemi. Difficile quantificare l’area-Minzolini: il malumore è diffuso e riguarda 23 senatori, come si diceva su; ma i duri, gente disposta a osare davvero il no a Berlusconi, potrebbero essere la metà. A questi, tuttavia, potrebbero aggiungersi defezioni - dopo la battaglia di Calderoli e, almeno parziale, del Ncd - da settori della Lega (che ha 15 senatori in tutto), e del partito di Alfano (33 senatori). Insomma, la maggioranza per le riforme potrebbe assottigliarsi, nella peggiore (ma realistica) ipotesi, a una maggioranza semplice, ottenuta peraltro sul filo. DA - http://www.lastampa.it/2014/07/10/italia/politica/riforme-si-allunga-sempre-pi-la-lista-dei-mal-di-pancia-Vr3mvxrzXw0t8woeYxRxXK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - LA "sfiga" DI CIVATI ... Inserito da: Admin - Luglio 16, 2014, 05:49:28 pm Politica
13/07/2014 La sfida di Civati “Una sinistra aperta Matteo guida da solo” Anche Landini e Barca al convegno del “dissidente” Jacopo Iacoboni INVIATO A LIVORNO Non sono mai stati amici. Hanno sempre avuto idee lontane, ma per un po’ hanno fatto un tratto di strada parallelo; poi erano troppo diversi. Adesso però la distanza è tragica, a volte più umana che politica: cos’è successo tra Giuseppe Civati e Matteo Renzi? D’Alema e Veltroni non avrebbero mai rotto così. «C’è un fortissimo disagio, da parte mia. Ma niente, assolutamente niente di personale, lo giuro. Lo so, sono stato duro, paragonandolo al primo Craxi, ma volevo dargli un segnale. Che lui non ascolterà. Il Pd non può essere il partito di un uomo solo al comando, qui - se passeggi tra questi ragazzi - al Partito della Nazione di Renzi non crede nessuno, è solo un elastico, che Renzi usa come vuole. A un dialogo con me ha preferito uno con Franceschini e la Finocchiaro». Diranno che «rosica». Ok, è una lettura; ma è banale, non coglie le ragioni altrui: Giuseppe Civati è a Livorno, dove ha messo su una sua «Leopolda» - chiamarla così è ingeneroso, e troppo riferito a Renzi. Il «Politicamp» è in realtà un’esperienza di campeggi politici che va avanti da anni, tra Reggio Emilia, Albinea, ora Livorno, ma quest’anno ha un sapore quasi rifondativo: Civati sostiene che Renzi per il metodo somiglia al primo Craxi, ha parlato di «clima fascisteggiante», cose tremende, insomma. La realtà è che vorrebbe innanzitutto essere ascoltato un po’, spostare il partito su una politica più «di sinistra», «o anche solo più democratica», perciò ora sta iniziando un percorso politico che punta a una «nuova sinistra, perché Renzi non lo è». Non lo è mai stato, sostiene Civati, ma ora di più. Una battaglia che oggi è dentro il Pd; domani chissà. «Mi do sei mesi di tempo». Perciò, cosa che va notata, sono passati qui a Livorno Fabrizio Barca, «sono qui per ascoltare tante idee, anche per litigare», insomma, per fare politica; e soprattutto Maurizio Landini, che nonostante la simpatia personale con Renzi, al Politicamp ha detto «secondo me bisognerebbe pensare a rimettere in campo un’iniziativa che metta insieme il mondo del lavoro e il tema della Costituzione; a me personalmente avere un Senato non elettivo non convince». Potrebbe essere un perno di questa area (molto più lui che un Vendola un po’ perso). E’ venuto anche Filippo Taddei che - scherza Civati - «adesso è un po’ preso in mezzo tra me e Renzi, poverino...». Di certo questa sfida sarà «politico-culturale, perché so benissimo che nei numeri parlamentari pesiamo poco, sette deputati e sette senatori, di cosa ha paura Renzi? Eppure mi tiene fuori da tutto, non so neanche cosa succede nell’ufficio di presidenza...». Non si parlano da tempo. Quand’è stato l’ultimo contatto? «All’indomani della formazione del governo mi scrisse un messaggino dicendo “però potevi stare al gioco”, seguito da un emoticon con la faccina della delusione». La democrazia del whatsapp ci seppellirà, assieme alla solitudine del leader? «Mi dicono che non è solo un problema mio, non parla con suoi strettissimi collaboratori, è in totale isolamento». Qui vorrebbero un «partito inclusivo» o, come dice Barca, «uno sperimentalismo democratico». «Invece Renzi - lamenta Civati - risponde ormai a ogni critica con una violenza inaudita. Prima era un outsider, oggi ogni sua cosa ha un peso enorme, e i renziani poi la enfatizzano ulteriormente, spesso maldestramente... per non dire del merito, sbagliatissimo, di queste riforme: passi per l’Italicum, ma il Senato è tremendo...». Vero? Falso? Questa è la sua verità; anche se Civati conosce i rapporti di forza. «Dentro non peso nulla, finché non ci saranno nuove elezioni. Potevamo costruire un percorso insieme, anche un patto generazionale. Non è stato così perché lui non l’ha voluto». Eppure, passeggiando qui al Cage Theatre di Livorno, tra i pini di questo campo politico, si ha come la sensazione che sinistra dovrebbe essere anche una forma di apertura reciproca, queste chiacchierate di militanti, magari a vuoto, questi slogan per ragazzi («Meno spread più felicità», «meno bugie più laicità», «meno destra più sinistra», o in definitiva: «E’ possibile»), al limite pure i libri impietosamente accostati (nei banchetti c’è quello di Civati, di Fassina, di Berlinguer... e pure dello psicanalista Fagioli), o meglio le ragazze coi vestiti a righe. «Se si blinda tutto, siamo finiti», sostiene Civati. Gufo, rosicone; oppure no. Da - http://lastampa.it/2014/07/13/italia/politica/la-sfida-di-civati-una-sinistra-aperta-matteo-guida-da-solo-q1hxu5FMAjkCe52gz8uLoO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Ma Bersani fu massacrato per le foto con la mano sulle ... Inserito da: Admin - Agosto 09, 2014, 05:32:04 pm Da Romani alla segretaria di Silvio Baci e abbracci in aula della Boschi
Ma Bersani fu massacrato per le foto con la mano sulle spalle di Alfano L’abbraccio di Bersani. 18 aprile 2013: Bersani cinge il segretario del Pdl Alfano; si sta votando il capo dello stato 09/08/2014 Jacopo Iacoboni Quando Bersani fu fotografato con la mano sulla spalla di Angelino Alfano - una sequenza ingenua, il giorno del voto su Franco Marini candidato al Quirinale, il 18 aprile 2013 - fu massacrato da tanti, se non proprio tutti. Si scrisse, come minimo, che era una cosa inopportuna, un grave errore politico e comunicativo, un suicidio, forse. Marini tra l’altro non passò, era un accordo che non piaceva a tantissimi elettori e militanti del Pd. Era chiamato «l’inciucio», e quella foto ne rimase - al di là degli stessi errori del segretario di allora - il simbolo. In questi ultimi due giorni, è vero, a Palazzo Madama si abbracciano tutti, e s’ingrigiscono le differenze. È come se si fosse a una festa di laurea, ma non è una festa di laurea, è l’approvazione - in prima lettura - di una riforma del Senato discussa, piaccia o meno. Protagonista è Maria Elena Boschi, non solo perché è lei il ministro per le riforme ma perché - intelligente, giovane, per di più bella - è stata fin dalla sua nomina il bersaglio di odiosissimi attacchi, personali, a volte a sfondo orrendamente sessista. Dunque non ha l’attenuante di «non saperlo»: Boschi sa che quand’è in aula è continuamente osservata, spiata, fotografata. Su alcune cose si muove con estrema cautela, le parole, per esempio: quando parla in aula ci sono centinaia di immagini che la ritraggono con la mano davanti alla bocca. Lo fa al telefono, non esiste un suo fuorionda, nulla. Ma le immagini... Le immagini di queste ore sono un patatrac, per l’idea originaria del renzismo, quella della prima Leopolda. Boschi la sera di giovedì era già ritratta in numerose fotografie - le peggiori - abbracciata sorridente con Maria Rosaria Rossi, la segretaria di Silvio Berlusconi, una che non ha nessun ruolo particolare nel percorso parlamentare del disegno di legge costituzionale. E invece quelle foto immortalano le due che si cingono la schiena, si sussurrano qualcosa all’orecchio, sorridono. La Rossi è spesso a favor di telecamera sul banco del ministro, questo va detto, è chiaro che a Berlusconi questa foto fa comodo; a Renzi un po’ meno. Eppure ieri si è continuato. È vero, andavano tutti da lei, non lei da loro; abbracci con Scalfarotto, Finocchiaro, Delrio, e ci mancherebbe, con Quagliariello, Ncd, con Paola Pelino, la senatrice dei confetti. Sorrisi con Razzi. Carraro e Schifani famelici intorno. E tanti baci e abbracci con Paolo Romani - il capogruppo di Berlusconi in Senato. Foto che poi restano. Nulla di male, ma il renzismo riteneva di muoversi con maggiore abilità nelle pieghe della comunicazione, dieci immagini contano più di un presunto testo scritto del Patto del Nazareno. Chi andrebbe a leggere quel patto? Le foto di smac smac, invece, le vedono tutti. Di Renzi non troverete un’immagine di uno dei suoi tre incontri con Berlusconi. Il premier lo sa, che quella foto girerebbe a vita, si moltiplicherebbe su Internet, sarebbe quella LA verità. Una condanna persino più dei fatti. «Se mai l’inciucio aveva bisogno di un’immagina chiave, simbolica, di una rappresentazione addirittura scultorea - osservò Filippo Ceccarelli su Repubblica, il giorno dell’abbraccio Bersani Alfano - eccola. Densa di commedia e di dramma. Quelle mani, quelle braccia, quelle due pelate, quei sorrisetti. I corpi non mentono». Sì, non mentono. A volte, una stretta di mano è già troppo. Da - http://www.lastampa.it/2014/08/09/italia/politica/da-romani-alla-segretaria-di-silvio-baci-e-abbracci-in-aula-della-boschi-rbqgwjcZwRPMvBGMdALgwJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Lotti sale ancora. Il “Signor No” di Matteo ora ha tutte le.. Inserito da: Admin - Settembre 16, 2014, 05:55:10 pm Lotti sale ancora. Il “Signor No” di Matteo ora ha tutte le chiavi
Solo lui può suggerire a Renzi cosa non fare. Influente, schivo, ha sorpassato Delrio e Carrai 15/09/2014 Jacopo Iacoboni C’è solo una persona che conta davvero, nell’attuale mondo di Matteo Renzi, uno che ha il potere di dirgli di no, di suggerirgli cosa non si può fare, di segare avversari interni e far crescere magari altri. C’è solo uno che, per quanti «no» dica al premier, alla fine Renzi stesso non solo accetta ma - è cosa non nota - ha soprannominato «il signor No». Tutti sanno del soprannome pubblico di Luca Lotti, «lampadina», pochissimi del vero soprannome: «il signor No». Luca Lotti è un uomo che parla poco coi giornalisti, già questo indice di intelligenza e mente ferma. Quando nel 2013 gli chiesero se Letta doveva sentirsi preoccupato da una leadership Renzi nel Pd, rispose «assolutamente no. Fossi in lui sarei contento perché avrei un Pd più forte che mi sostiene e che mi sollecita». La crudezza senza ostentazione di frasi così è però unita a una riservatezza senza nessuna spacconeria, che invece tanti renziani si consentono, credendosi (senza esserlo) simili a Renzi. Lotti no. “Il Lotti” - come lo chiamavano a Firenze quand’era capo di gabinetto del sindaco - non sbraca mai. C’è di più: il Lotti gestisce potere vero. Se Maria Elena Boschi è la «prima della classe», se Dario Nardella a Firenze ha una pacca sulla spalla per tutti («di cosa hai bisogno?») e - sindaco al posto di quella che era la prima scelta, Stefania Saccardi - si sogna futuro Renzi, alla Festa dell’Unità di Firenze la folla più grande è stata per Lotti (sia rispetto a Nardella, sia rispetto a Boschi ieri sera). Una folla che venerdì sera è andata davvero a baciargli la pantofola: tutti, dal militante all’aspirante renziano, a chiunque sperasse di ottenere un’attenzione, non si vuol dire un contratto nello staff di Palazzo Chigi, si prostravano. Del resto tutta la faccenda dello staff è passata materialmente - e non solo - da lui (e grazie a Lotti si sta infine sbloccando, considerando che mai un team del premier era stato senza contratti per più di sessanta giorni). Se «Franco» è lo storico segretario factotum di Renzi, è Lotti che tiene le chiavi politiche e apre e chiude porte (e Franco resta a Firenze). A Roma raccontano sia stato Lotti - lui naturalmente negherebbe - a decretare un declassamento di Delrio: uno «fratello minore», l’altro «fratello maggiore», come li chiama Renzi: ma il minore qui vince. Se però chiedi di Lotti, tutti si zittiscono. In un ambiente dove tutti chiacchierano e twittano e whatsappano troppo, non solo Lotti lo fa poco, ma pochi hanno voglia di parlare di lui: Lotti può stopparli, dunque è una specie di tabù nel nuovo potere: il più freddo e il più bravo. Se ci fosse Frank Urquhart-Underwood - il personaggio di House of Cards - nel renzismo, sarebbe lui. È capace di polso durissimo. Quando la riforma del Senato stentava, racconta un senatore che Lotti scrisse un sms a Zanda, «se succede ancora andiamo a votare a ottobre». Quando Sel superò la soglia di critiche tollerata (a fine luglio) Lotti avvisò «se continuano così non si fanno alleanze locali». Ha 33 anni - gli anni di Cristo, biondo come lui - ma sa essere fermo, lucido e a fuoco come gli altri del gruppo, mal per loro, no. Se Bonifazi dice «L’Unità rinascerà», si vedrà. Se lo dice Lotti (l’altra sera a Firenze: «Ci siamo presi un po’ di tempo perché vogliamo dare una mano»), è tutto diverso: si sta muovendo con imprenditori. All’Ilva appare Renzi, ma è Lotti vicino a una soluzione. Sui nomi, può far passare degli ignoti, come il sindaco di Montelupo, Paolo Masetti, nuovo delegato nazionale alla Protezione Civile dell’Anci: un ruolo che può «romper le scatole» all’Agenzia del Demanio, affidata a Roberto Reggi. Su Mps, è lui che ha mediato. Eppure pochi sanno apparire giovani e «diversi» dal resto del renzismo. Lotti non mette quelle camiciazze bianche, Lotti si veste coi jeans scuri e il golfino, blu o nero. Lotti è biondo, e con gli occhiali neri (stile Oakley) ha un suo perché. Lotti per rinsaldare l’amore con la moglie le compra una pagina di pubblicità sul quotidiano locale per dirle auguri il giorno del compleanno. Lotti, figlio di un dirigente di banca, è diventato quasi più potente di Marco Carrai, l’amico imprenditore di Renzi, non suo amico a sua volta. Anzi, forse senza «quasi». Da - http://lastampa.it/2014/09/15/italia/politica/lotti-sale-ancora-il-signor-no-di-matteo-ora-ha-tutte-le-chiavi-A9X2DypN6uP20XNHJqfyZO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Il M5s oggi, per uscire dal cul de sac bisogna individuarlo Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2014, 11:18:08 pm 10/10/2014
Il M5s oggi, per uscire dal cul de sac bisogna individuarlo Il grande tema finora eluso al Circo Massimo: l'onda anticasta è servita solo a spianare la strada a Renzi? Il Movimento cinque stelle non può considerarsi un fenomeno finito, affatto. Chi lo dice sbaglia prospettiva. Ma sbaglierebbe anche chi volesse nascondersi dietro un dito celando - innanzitutto a se stesso - i problemi che ha. Si tratta di un errore assai frequente in queste ore al Circo Massimo, il luogo dove, per dirla con una deputata e storica militante, "vogliamo scattare un po' una fotografia di ciò che siamo stati finora, e che saremo in futuro". Il Movimento ha incassato infatti le sue vittorie, su battaglie culturali che anzi rivendica fin troppo poco - da quella, generalissima, anticasta, che ha davvero imposto il mood politico di questi anni, ad altre, particolari; per esempio le proposte come il taglio dell'Irap, o gli interventi "sociali" di cui anche Renzi comincia a parlare, per esempio il "salario minimo" (Grillo parla di "reddito di cittadinanza", che è cosa diversa, ma siamo nell'ambito del medesimo problema percepito). Nondimeno, se si pensa al M5s oggi si pensa a una forza che viene percepita - e un po', bisogna dirlo, si percepisce - all'angolo, nella "fase più difficile della sua storia", come riconoscono anche militanti come Taverna e Roberta Lombardi. E si pensa a un'opposizione che perde, non riesce a incidere, a frenare un po' la corsa dell'uomo solo al comando nel partito unico italiano. Grillo al Circo Massimo ha parlato dei "pregiudizi di un'informazione malata". E ha continuato a dire "noi avevamo vinto le elezioni, abbiamo preso il 25 per cento, eravamo il primo movimento politico d'Italia, Napolitano doveva darci l'incarico". Una frase che però tradisce una fissità politica e un'incapacità di uscire dalla spirale di "ciò che non è stato, e avrebbe potuto". La realtà è che Napolitano quell'incarico non l'ha dato ma - se non si sbaglia - mai l'avrebbe dato a loro. Questo è uno dei pezzi del problema. Farebbero innanzitutto bene a chiedersi anche: perché? Il senso di inadeguatezza dimostrato è pari, in effetti, alla bontà di tante battaglie (i costi della politica, per dirne una) e molti temi posti, e certamente della mobilitazione orizzontale che le ha generate. Ma la sensazione è che - con Grillo che fa un (mezzo) passo indietro, e Casaleggio indebolito da un serissimo problema di salute - il M5s non sia ancora in grado di camminare da solo senza i due fondatori. I critici prevenuti, i media militari, o i semplici disinformati, hanno spesso favorito o avallato una rappresentazione del M5s come ostaggio di Grillo e Casaleggio. La realtà - con tutti gli errori commessi dai due - è che invece il problema attuale è proprio un Movimento in cui Grillo e Casaleggio ci sono di meno, e nessuno è in grado di esercitare analoga influenza. Grillo può scherzare sull'investitura a Luigi Di Maio; il quale piace davvero assai come fedele esecutore al gruppetto milanese che ruota intorno a Davide Casaleggio, il figlio di Gianroberto. Ma Di Maio - comunque lo si giudichi - ha un problema evidente, per diventare perno di tutti: che, appunto, non piace a moltissimi, del gruppo parlamentare o della militanza storica, o perché non li scalda, o perché appare loro troppo - diciamo così - "democristiano" e voglioso di autopromozione in solitaria. La realtà è questa. Anche per questo motivo, probabilmente, Grillo frena adesso su investiture. E sottolinea che Renzi "ha perso quattrocentomila iscritti in un anno". Il problema eluso, però, è che Renzi ha molti più voti e, soprattutto, ha drenato proprio a loro il cuore della battaglia anticasta e anti-élite. Paradossale, per un premier così ben insediato al Potere, e abbracciato da tanti poteri. Ma è stato furbo, e loro molto meno: diciamo che gli ha fregato il copyright (non importa, qui, se per portarlo a termine o tradirlo). Il M5s naturalmente mastica amaro su questo Potere renziano. Ma dovrebbe realizzare questo punto, per una vera ripartenza: domandarsi perché, dopo aver alzato l'onda della rivolta contro gli establishment, se l'è fatta scippare finendo di fatto a spianare la strada all'avversario: il premier anti-establishment amato dagli establishment. twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2014/10/10/blogs/arcitaliana/il-ms-oggi-per-uscire-dal-cul-de-sac-bisogna-capirlo-dZpkiCiKxTXx5TRf5eJ5cP/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Una Leopolda senza Baricco Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 05:00:57 pm Jacopo Iacoboni
Lo storytelling non c’è più. La narrazione, insomma, quell’idea di «raccontare la politica» di cui Matteo Renzi s’è così tanto innamorato da infilarla in ogni discorso, non avrà più alla Leopolda la sua icona più riconosciuta, l’uomo che ha insegnato il concetto all’attuale premier. Alessandro Baricco. Chi ha domandato a Baricco si è sentito rispondere «mi è impossibile andare», una frase che comunque sia comunica il senso di una stagione che s’è conclusa. Proprio lo scrittore è l’autore di alcune delle idee, e dei discorsi più noti, dell’epopea Renzi. Fu Baricco, in una Leopolda ormai passata - gli anni ruggenti della promessa di rupture - a dire, barbarico: «La sinistra della mia generazione ha mosso i suoi pezzi sempre per seconda, ha giocato sempre coi neri, di rimessa. Voi invece - raccontò a una platea estasiata, nel discorso in assoluto più cliccato e ascoltato del 2011 - dovete muovere per primi, chi muove per secondo diventa conservativo, vuole fare la patta, è molto difficile che giochi per vincere. La sinistra in cui sono cresciuto io, oggi è ciò che di più conservativo c’è in questo paese». La sensazione è che questa speranza di rottura della conservazione, di ricerca del merito, di scelta della squadra dei migliori, sia un po’ affievolita, diciamo così. Una Leopolda senza Baricco è più o meno come un Napoli senza Cavani (e non si vede un Higuain alle porte); ma quella dello scrittore non sarà l’unica assenza che siamo in grado di raccontare. Non ci sarà neanche la scoperta più promettente dell’anno scorso, quell’Andrea Guerra che, da ad a Luxottica, ha portato in questi anni l’azienda a essere la prima italiana per esportazioni, ha siglato le intese con Google, prima di andare via nella nuova, frizzante gestione Del Vecchio. Guerra al telefono ragiona così: «La Leopolda era un fantastico strumento di marketing, che funzionava bene in quanto tale. Ma che marketing puoi fare quando sei ormai al governo? Al governo devi fare le cose, e basta». Inutile addentrarsi in bilanci definitivi, troppo poco è ancora il tempo che è stato concesso a Matteo Renzi. Ma il segno di una qualche perplessità lo si coglie, in giro. Accanto a Guerra l’anno scorso emerse un personaggio che colpì molto chi era lì, una giovane donna col nome da uomo: Andrea Marcolongo. Fece un discorso ipnotico, con uno slogan che molti ricorderanno, «siamo un’Italia cresciuta a pane e sciatteria». Diplomata a pieni voti alla Holden, con un ottimo futuro già avviato nell’editoria, colpì a tal punto che Renzi la volle nella sua squadra, e è stato così che Marcolongo ha finito a lavorare come unica ghostwriter del premier per tutto l’ultimo anno, quello delle primarie e delle europee (tra le sue tante invenzioni anche tutte le citazioni nei discorsi renziani, da Dave Eggers a Murakami, provengono da lei). Anche lei quest’anno non ci sarà. Se ne vanno sempre i migliori. Un’assenza sicuramente di notevole peso sarà quella di Cosimo Pacciani. I non cultori della materia diranno: e chi è Cosimo Pacciani? Uomo di finanza, ma forse prima ancora intellettuale, grande e vero amico di Renzi dai tempi del liceo (il Dante di Firenze, che hanno frequentato insieme, anche se Pacciani è lievemente più grande), oggi - dopo una carriera rapidissima in Credit Suisse e Royal Bank of Scotland - è approdato all’Esm, il Fondo salvastati, dove guida la sezione rischi. La percezione di un atteggiamento di disincanto è nitida. E certo non se ne può rallegrare il premier. Un diverso tipo di uomo di finanza, Davide Serra, non ci sarà ma solo per impegni a Londra. E è stato generoso, ha donato alla Leopolda 2014 175mila euro. Da - http://www.lastampa.it/2014/10/15/italia/politica/da-baricco-a-guerra-la-stagione-delle-assenze-alla-leopolda-di-governo-FeAm27hsHr0J4UIokVbdjM/pagina.html Titolo: J. IACOBONI. - Da Serra a Landi e Romeo Ecco i finanziatori della Leopolda 2014 Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 05:03:20 pm Da Serra a Landi e Romeo Ecco i finanziatori della Leopolda 2014
Al lavoro tre persone, Carrai, Lotti e Boschi 18/10/2014 Jacopo Iacoboni C’è uno zoccolo duro, tra i finanziatori di Matteo Renzi, ma anche delle interessanti novità. Allora è molto utile spulciare una lista di finanziatori della prossima Leopolda. Tecnicamente i finanziamenti sono indirizzati alla cassaforte di Renzi, la Fondazione Open. Di fatto la gestione dell’organizzazione materiale della Leopolda è integralmente nelle mani di tre persone, Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai, personaggio su cui varrà la pena tornare. Il finanziatore principale è Davide Serra, l’uomo di finanza per il quale Renzi si scontrò molto con Bersani durante le primarie del 2012, forse perdendole (quando l’allora segretario attaccò sull’amicizia di «quelli delle Cayman»). Serra, che alla Leopolda non dovrebbe esserci ma solo per impegni che non può differire a Londra, ha donato alla causa 175 mila euro. Il secondo finanziamento è quello di Guido Ghisolfi - proprietario dell’azienda chimica Mossi e Ghisolfi - e sua moglie, Ivana Tanzi (120 mila euro). La Gf Group, una grande azienda alimentare ligure, ha contribuito con 50 mila euro. Ma danno importi non piccoli (ventimila euro) anche piccole realtà come l’azienda immobiliare Blau Meer srl, o società come la torinese Simon Fiduciaria (ventimila euro), nel cui consiglio figura anche il nome di Giorgio Gori. Un finanziamento molto importante viene da Alfredo Romeo - imprenditori di Isvafim - processato, ma poi assolto, che ha donato 60 mila euro. Naturalmente non contano soltanto le cifre versate, ma le caratteristiche e il peso di chi versa. Guido Roberto Vitale, un uomo di raccordo sempre importante negli ambienti finanziari milanesi, ha donato una piccola cifra, 5 mila euro, un attestato di simpatia per il premier. Non meno significativa la presenza tra i finanziatori di Fabrizio Landi (diecimila euro), vero nome forte del renzismo nella partita delle recenti nomine (lui, in Finmeccanica). Landi, fiorentino-genovese, ha fatto tantissime cose nella vita, compreso lavorare ai vertici di Esaote (di cui poi ha detenuto una piccola quota), e è considerato tra i pionieri del business biomedico in Italia. Ha rapporti rilevanti anche nell’establishment istituzionale italiano più alto, rapporti che possono aver giovato alla scalata di Renzi, che non pare più in rottura con quei mondi. Tra l’altro, per dire, dell’idea degli 80 euro in busta paga si parlava già in seminari con Landi e Yoram Gutgeld (e il banchiere Alessandro Profumo, che però non figura tra i finanziatori della Leopolda), prima che venisse messa in pratica. Alla Leopolda hanno contribuito anche nomi come Carlo Micheli, figlio di Francesco, finanziere (anche della Premafin di Ligresti). C’è la Telit, l’azienda di telefonini. Ci sono Paolo Fresco e la signora Marie Edmée Jacquelin, che in due hanno offerto 45 mila euro, c’è Renato Giallombardo, uno degli esperti italiani in fusioni, acquisizioni, operazioni di private equity. C’è Jacopo Mazzei (diecimila euro), che oltre a aver avuto vari incarichi a Firenze è anche, last but not least, consuocero di Scaroni. C’è, curiosità, un piccolissimo finanziamento (250 euro) anche di Antonio Campo dall’Orto, sicuramente il più geniale manager di tv in giro. Naturalmente tutti questi sono nomi di finanziatori che, nei bilanci (pubblici) della Fondazione Open, hanno dato l’assenso a veder pubblicato il loro nome. Ne esistono sicuramente altri, se la cifra dichiarata ora è 1 milione 905 mila euro. Ah, alla Leopolda ha contribuito anche lei, la Maria Elena Boschi, con 8800 euro suoi: più del sindaco di Firenze Nardella (6600), ma meno del tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, che ha trovato per l’evento dodicimila euro. Da - http://www.lastampa.it/2014/10/18/italia/politica/da-serra-a-landi-a-romeo-ecco-i-finanziatori-della-leopolda-3E6aAgH93KsdPvGVtlIeIL/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - La metamorfosi della Leopolda che prova a non tradire se... Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2014, 08:13:30 am La metamorfosi della Leopolda che prova a non tradire se stessa
I rottamatori al governo radunati a Firenze, tra amarcord e nuove sfide 25/10/2014 Jacopo Iacoboni Inviato a Firenze C’è la maglietta «gufi no grazie», una t-shirt bianca col loghino (rosso, i gufi sono rossi come la Cgil, oggi la controprogrammazione la fanno loro», sostiene Renzi). Ci sono i manifesti che prendono in giro tutti quelli che non hanno capito invenzioni geniali (per esempio il rock, «sarà passato di moda entro giugno», scrisse Variety nel ’55). C’è il carretto con Peppa Pig che fa lo zucchero filato ai bambini. Il menù della cena sociale «servito con stoviglie biodegradabili». Ci sono in arrivo cinque ministri, i cani anti-esplosivi all’entrata e tanta polizia all’uscita, un buffet sontuoso al confronto degli esordi, la faccia compiaciuta del Potere che ha sostituito quella incerta ma speranzosa dei ragazzi che furono. C’è un delegato della Fiom; e c’è Massimo Parisi, coordinatore toscano di Forza Italia e grande amico di Denis Verdini. La Leopolda, che era un brand ma anche un progetto di marketing centrato sul rinnovamento, è oggi il luogo di una forza autocelebrativa, che si prevede eterna. Il rischio in questi casi è il manierismo. Prendete il palco. La bici smontata. I palloni da rugby. I vecchi palloni di calcio in pelle. La copia di Wired con Steve Jobs. Il microfono vintage (anche quest’anno). La voliera. Gli altoparlanti Anni Cinquanta. Il salvagente. Sovrabbondanza di segni, sovrabbondanza di potere. Renzi in serata dirà «il garage è un luogo dove si immagina il futuro, ma anche dove si raccoglie il passato, la macchina rotta. Mettete la seconda, ragazzi. Dal garage ripartiamo». La Big Tent, la Grande Tenda alla Tony Blair, in musica tiene insieme cose agli antipodi, i Vampire Weekend e gli U2 dell’ultimo, dimenticabile, Songs of Innocence. La militanza di base è quella di sempre, tutti molto alla mano. Però qualcosa s’è perso. Vecchi amici se lo dicono, come la torinese Ilda Curti, una che c’era alle origini, e oggi no, che scrive a Ivan Scalfarotto, che c’è. «Sono in prima fila quelli che nel 2010 ci odiavano». E Ivan: «Ilda, con affetto, si occupano i posti lasciati vuoti da chi allora li occupava». Contano i segni. E le facce. Oggi potrebbe apparire a sorpresa oggi il ceo di twitter, Dick Costolo. Apparirà sicuramente Fabio Volo, ma come inviato da Fabio Fazio per Che tempo che fa. Volo un po’ stile Iene, è chiaro che Renzi furbo com’è lo abbraccerà, sai che foto? Potenza nazionalpopolare: i due fenomeni della politica e delle vendite di libri pop, uno accanto all’altro. Roba alla Jovanotti. Nei capannelli si chiacchiera. Dario Nardella in inglese renziano con Mike Moffo, strategist di Obama. Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd, parla dell’Unità e della scelta dell’editore Guido Veneziani: «Sì, pubblica rivista di gossip, ma che dobbiamo fare? Prima c’era Fago! Fa-go. Poeti non se ne sono presentati. C’erano anche Arpe, o una cordata dei Pessina». Alla fine s’è scelto Veneziani, i Miracoli (titolo di una sua rivista) possono tornare utili. Renzi è arrivato tardi. Ha stracitato Baricco - che però ormai è lontano - «ci insegnò il coraggio». Ha celebrato le Leopolde del passato, e spiegato così il senso della Leopolda oggi, «serve a dire che noi non ce ne andiamo, ci siamo e ci saremo. Ho fatto il patto del Nazareno? Sì, ma quando siete perplessi, abbiate la soddisfazione che Minzolini, Razzi e Scilipoti non l’hanno votato. Non parlate male della Leopolda, le bandiere del Pd che non ci sono... è come parlare male di voi». Ha reinvitato Civati, «Pippo, ti aspettiamo sempre». Ha avuto accenni di iattanza con Bersani, «sapete, nel 2013 abbiamo non vinto». Ha sfottuto i politici presenti, vedendo qualche sedia vuota, «mettetevici subito, i politici appena vedono una sedia...». Come se non fosse lui a darle, oggi. La “Mari”, Boschi, che doveva cedere il palco, era stata sempre lei ad aprire, nerovestita e sincera, «la nostra sfida è uscire di qui non con la soddisfazione di esserci rivisti, come i vecchi compagni di scuola, ma con nuovi progetti». Sentiva il rischio che tutto fosse una rimpatriata, regale amarcord per ciò che non è più. Da - http://www.lastampa.it/2014/10/25/italia/politica/la-metamorfosi-della-leopolda-che-prova-a-non-tradire-se-stessa-5qRsgkHNVMFt4Py3sfkheL/pagina.html Titolo: Re: JACOPO IACOBONI. - Il Renzi di fine anno, un abbozzo di fact checking Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 11:04:44 am Il Renzi di fine anno, un abbozzo di fact checking
29/12/2014 Di Jacopo Iacoboni Ha senso accogliere la tradizionale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio italiano non con i panettoni e lo spumante (e una lunga serie di sommari per riportarne il verbo), ma con qualche minimo abbozzo di fact checking su ciò che ha detto? I. Nel dubbio su cosa sia più gradito ai lettori dell'Italia 2014, proviamo ad abbozzare qualche piccola ragione di perplessità su alcuni passaggi - dettagli, ma cruciali, del discorso di Matteo Renzi. Il primo è questo: Renzi, parlando della contesa sull'applicazione (o meno) del Jobs Act ai dipendenti pubblici, ha detto testualmente: "In Consiglio dei ministri ho proposto io di togliere la norma sui dipendenti pubblici perché non aveva senso inserirla in un provvedimento che parla di altro. Il Jobs act non si occupa di disciplinare i rapporti del pubblico impiego per il quale c’è una riforma in Parlamento". A un ascolto distratto, l'effetto psicologico, ma anche puramente semantico, di una frase gettata là (ma ben congegnata) così può essere: Renzi ha escluso i lavoratori statali dal Jobs Act, insomma, li ha salvati. La realtà non è questa. E qualunque cosa pensiate del provvedimento sulla regole del lavoro (io ne penso non bene, come sapete), questa realtà va illustrata, il più possibile va fatta capire. Renzi ha escluso una norma che diceva, alla lettera, così: “La disciplina di cui al presente decreto legislativo non si applica ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165″. Traduzione: c'era (fino alla notte del 24 dicembre) una norma che escludeva i lavoratori del settore pubblico dal Jobs Act. Renzi non ha escluso i lavoratori, ha escluso quella norma (esattamente: un comma) che li escludeva. L'intervento di Renzi non è dunque nella direzione (come pure molti - l'ho sentito con le mie orecchie oggi a ora di pranzo - lo recepivano) di proteggere gli statali dal Jobs Act, e neanche in quella di includerli con una norma esplicita tra i beneficiati (?) dalle nuove regole. Semplicemente, il premier si tiene- dal punto di vista tecnico giuridico - nella più totale ambiguità su questo punto. Ma già insigni costituzionalisti (leggete La Stampa di oggi, per esempio Giuseppe Tesauro) illustrano che, per estendere agli statali il Jobs Act servirebbe una norma esplicita dentro il decreto legislativo, non la vaghezza delle interpretazioni possibili. Tra Poletti-Madia e Ichino (per capirci, i due fronti in contrapposizione, il Jobs Act non si applica agli statali, il Jobs Act si applica automaticamente anche agli statali) il premier si colloca in una via di comodo, che gli fa fare buona figura coi media acritici, e forse con gli italiani meno attenti, ma lascia aperto il problema a qualunque esito. Tenendo in sospeso milioni di persone. II. Parlando delle società partecipate Renzi ha detto "non c'è alcun progetto Cottarelli, ma l'obiettivo è comune, da ottomila bisogna passare a mille". Sull'obiettivo si vedrà, ma è falso che non ci sia un progetto Cottarelli. Il documento di Cottarelli era certo timido, e poco incisivo, ma non mancava di indicare 52 tagli possibili. Ve lo allego, qualora qualcuno avesse voglia di leggerlo. Anche questa è dunque un'ambiguità pesante, del discorso renziano odierno. III. A proposito della legge elettorale, Renzi oggi definisce l'Italicum un "Mattarellum con preferenze": "Il candidato di ogni collegio è chiaramente riconoscibile, in più c'è lo spazio per mettere due preferenze, un uomo e una donna. Io lo trovo un meccanismo di una semplicità impressionante. Chi arriva primo vince e governa per cinque anni". Anche questo è tecnicamente falso, per un motivo molto semplice (e detto da chi, come me, non disprezza affatto il Mattarellum, e conosce anche il valore positivo delle preferenze, oltre i loro limiti). Italicum e Mattarellum sono sistemi divergenti come possono esserlo le filosofie di fondo di un proporzionale con lista bloccata e di un maggioritario per quanto parziale (o annacquato). Metterle insieme, sfasarle, sovrapporle, significa sognare l'esistenza degli ircocervi twitter @jacopo_iacoboni da -http://www.lastampa.it/2014/12/29/blogs/arcitaliana/il-renzi-di-fine-anno-un-abbozzo-di-fact-checking-MHpmtPo6Jp6v8TjuIems4H/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Matteo e il governo parallelo. Il doppio binario delle nomine Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 04:08:27 pm Matteo e il governo parallelo. Il doppio binario delle nomine
Ministri esautorati, fedelissimi nelle task force su dossier miliardari 30/12/2014 Jacopo Iacoboni e Giuseppe Salvaggiulo Nel grande risiko delle nomine Matteo Renzi si muove da sempre su un doppio binario. Da una parte sceglie e promuove uomini dotati di curriculum inattaccabili e la cui cifra è l’indipendenza; dall’altra colloca personaggi fidelizzati al massimo e legati a lui da rapporti tangibili in un livello intermedio che configura la struttura ramificata del suo potere profondo. L’ultimo Consiglio dei ministri, alla vigilia di Natale, lo conferma: il governo ha nominato l’economista liberal Tito Boeri presidente dell’Inps e l’imprenditore Vincenzo Manes «consigliere al sociale». Il primo sul binario degli indipendenti di prestigio; il secondo, sconosciuto al grande pubblico, su quello dei fedelissimi negli snodi di potere. Manes, molisano, è un potente imprenditore nel settore metallurgico, ma si occupa anche di «innovazione sociale» con la sua Fondazione Dynamo. E è uno dei finanziatori palesi (62 mila euro), della fondazione renziana Open, che organizza la kermesse della Leopolda. Il primo esame Lo schema del doppio binario si era già testato nel primo giro di nomine nelle grandi aziende pubbliche poco dopo l’incarico di premier, o in pezzi dello staff di Palazzo Chigi. Da un lato le scelte spendibili nella logica del «cambiaverso»: donne, manager di profilo internazionale, professori, volti nuovi. E quindi profili come Carlotta de Franceschi consigliere economico; Patrizia Grieco e Paola Girdinio all’Enel; Emma Marcegaglia e Luigi Zingales all’Eni; Marta Dassù, Guido Alpa e Alessandro De Nicola a Finmeccanica; Francesco Caio e Antonio Campo Dall’Orto alle Poste. Dall’altro, lo schema portava nel cda dell’Enel l’avvocato pistoiese Alberto Bianchi, presidente della fondazione Open; a Finmeccanica un finanziatore storico della Leopolda, l’imprenditore senese nel settore biomedicale Fabrizio Landi; all’Eni Diva Moriani, imprenditrice aretina del rame nonché amministratrice proprio di Dynamo, la fondazione di Manes. Sempre all’Eni, nel collegio sindacale, è finito un altro amico di Renzi, Marco Seracini, che guidava NoiLink, altra fondazione importante nella galassia renziana. Mondi che ritornano. E cerchi che si chiudono. Da Firenze a Roma Nonostante si sia avvalso di alcune società di consulenza per cacciatori di teste, il premier ha già la sua rete e la utilizza ampiamente. Pedine cruciali come Filippo Bonaccorsi, appena chiamato a Palazzo Chigi per guidare la task force che dovrà gestire il delicatissimo piano del governo sulla scuola (oltre 21 mila istituti coinvolti, almeno un miliardo di euro in ballo). Bonaccorsi, avvocato romano, fratello della deputata Pd Lorenza - una dei quattro speaker dell’ultima Leopolda - ha guidato con perizia la privatizzazione dell’azienda di trasporto pubblico fiorentina, l’Ataf, quando Renzi era sindaco. Durante quella vertenza, vinta contro i sindacati, compare per la prima volta Maria Elena Boschi, che all’epoca aveva appena superato l’esame da avvocato. Il ministro ha raccontato che diede un aiuto, a titolo gratuito, per risolvere le grane giuridiche. Renzi la nominò nel cda di Publiacqua, azienda mista (46 Comuni più Acea, Suez, Mps) che porta acqua nelle case di 1,3 milioni di toscani e vanta 160 milioni di fatturato e 660 milioni di investimenti. Incarico, questo, retribuito. Non solo acqua Nel cda di Publiacqua, Boschi sedeva con il presidente Erasmo D’Angelis, ex giornalista del manifesto, ambientalista ma oppositore del referendum sull’acqua del 2011. Anche D’Angelis è stato portato a Palazzo Chigi da Renzi, con il ruolo strategico di capo dell’unità di missione sul dissesto idrogeologico. Sostituendo quattro ministeri, D’Angelis ha impresso una svolta radicale, sbloccando in pochi mesi 1300 cantieri per 1,6 miliardi di euro e candidandosi a gestirne altri 9 nei prossimi anni, facendo bingo sui fondi europei. Il modello D’Angelis viene ora ripetuto con Bonaccorsi sulla scuola: funzioni strategiche, piani di alto valore simbolico, grandi flussi di spesa pubblica accentrati a Palazzo Chigi e ministeri anche importanti esautorati: ambiente, istruzione, sviluppo economico, infrastrutture… Basta ascoltare gli sfoghi dei grand commis dei dicasteri, che non toccano più palla sui dossier principali (per non parlare dei ministri, talvolta nemmeno informati). Grandi opere Il modello, naturalmente, si applica anche al principale canale di spesa pubblica: il miliardario rubinetto delle grandi opere, affidato alle cure del Cipe guidato da Luca Lotti, un po’ l’Underwood del renzismo, il protagonista di House of Cards, la serie tv citata da Renzi anche ieri. Dopo il via libera a diverse autostrade, negli ultimi giorni il Cipe ha dato parere favorevole agli stanziamenti della Cassa depositi: 300 milioni per la metro 4 di Milano, 180 per la linea 1 a Napoli, 307 per l’inclusione sociale in Calabria, una decina al Piemonte per le «opere compensative» del Tav. Tra i principali dossier sulle infrastrutture sul tavolo del governo c’è il piano degli aeroporti. Al vertice di quello di Firenze, che ha appena ottenuto la salvifica fusione con Pisa, c’è (succeduto proprio a Manes) Marco Carrai che, con Bianchi, Boschi e Lotti, amministra la fondazione Open. Capisaldi di una sorta di governo parallelo quasi più influente di un consesso di ministri. Da - http://www.lastampa.it/2014/12/30/italia/politica/matteo-e-il-governo-parallelo-il-doppio-binario-delle-nomine-u43xHLUS1NUIFwpL0fNq2K/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Il Pd e le primarie liguri al veleno. Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:35:07 pm Il Pd e le primarie liguri al veleno. Cofferati: ex fascisti in campo
Domani si vota, la favorita Paita ammette: fino a oggi troppo potere lasciato alla Carige, se vinco cambierò 10/01/2015 Jacopo Iacoboni Inviato a Genova Qualche tempo fa un banchiere genovese di stazza nazionale suggeriva, ad autorevoli interlocutori che si introducevano in città, «per lavorare bene qui basta andare d’accordo con cinque persone: Burlando, Scajola, il Cardinale, il presidente della Fondazione (Repetto) e il presidente della Banca (Berneschi)». Mai fu data definizione migliore del sistema. Quel sistema doveva giungere al capolinea domani, con le primarie del Pd per scegliere il candidato (il che qui vuol dire il vincitore) delle prossime elezioni regionali. O forse no. Il banchiere e il sistema Sostiene Raffaella Paita, la candidata favorita, assessore alle infrastrutture della giunta, neorenziana, sponsorizzata dal governatore uscente, «io non credo alla teoria del sistema-Burlando. Burlando, per dire, in Carige non ha mai fatto una nomina. Semmai si può fargli la critica di non aver controllato bene quello che succedeva. Ma non c’è stata collaborazione con gli altri poteri, come ci viene rimproverato. Piuttosto, direi che a Genova c’è stata una tendenza a far andare un po’ troppo Berneschi uomo solo al comando. Con me le cose s u questo cambieranno». Bilancio grigio La fotografia ligure attuale non è rosea: disoccupazione al 14%, giovanile al 44, la peggiore tra le regioni del nord. Il 40% dei consiglieri regionali (dal Pd al Pdl all’Idv) indagati per le spese pazze, due vicepresidenti di Burlando arrestati. Lui politicamente viene descritto dai nemici come una specie di muro di gomma, capace di incassare ogni critica e andare avanti. Singolare però che il vasto fronte dei suoi oppositori - diviso e abbastanza inconcludente - non sia riuscito a partorire come candidatura anti-Paita nient’altro che il vecchio Sergio Cofferati. «Un fallimento come amministratore a Bologna - osserva Paita - uno che si candida sempre contro i giovani». Carige, Erzelli, Filse All’epoca delle primarie per il sindaco di Genova Burlando promise «ci togliamo dalle scatole questa qui (la Vincenzi), poi rivolteremo la regione come un calzino». Le cose sono andate diversamente. Non sempre per colpa sua, la crisi economica nazionale molto ha contribuito, poi c’è stata l’alluvione, ma la risposta è stata timida, priva di una visione, ordinaria. Burlando ha evocato responsabilità del sindaco di vent’anni fa, Adriano Sansa, in realtà è mancata una complessiva strategia ambientale durante la sua gestione in regione. Tenendo saldamente le chiavi della Filse, la finanziaria regionale per lo sviluppo, il governatore uscente ha preferito rinunciare a un progetto complessivo su pochi punti determinanti (per dire, contro la sversatura nel Bisagno), preferendo concentrare l’uso dei fondi europei su una miriade di microfinanziamenti a pioggia. Ha gestito così un enorme consenso, ma lasciando in eredità pesanti problemi. Nel frattempo Carige, ora in sofferenza, dava 250 milioni per il megaprogetto degli Erzelli: che ha tenuto due importanti aziende in città, Marconi e Nokia, ma lascia un’enorme cattedrale nel deserto di cui non si sa bene che fare. Il Cinese attacca E il Pd? «I partiti non esistono più - ha sempre teorizzato Burlando - ciò che conta è la rete degli amministratori locali». E lui, su questo, è stato formidabile. Così oggi Paita è appoggiata da uomini trasversali, anche molto discussi, come Franco Orsi, ex dc, ex forzista, poi Pdl, uomo di Scajola. O Alessio Saso, Ncd, uomo di potere del ponente ligure, peraltro indagato in un’inchiesta su presunte infiltrazioni della ’ndrangheta nel Ponente. «Le responsabilità, se ci sono, andranno provate», risponde la Paita. «Comunque il tema dell’alleanza col Ncd non è all’ordine del giorno oggi, deciderà Roma». Cofferati ci racconta un’altra storia: «Non è vero, l’alleanza c’è eccome; e c’è uno stravolgimento delle primarie, che non sono più uno strumento per gli elettori di centrosinistra, ma per i pacchetti di voti del centrodestra per scegliere il candidato meno sgradito. L’Ncd ha detto apertamente che porterà gente al voto per Paita». Qualcosa contro cui si sono pronunciati anche Bersani e Cuperlo, ieri: «Pesanti intromissioni da destra», accusano. «Stanno con Paita anche tanti ex fascisti», dice Cofferati. Ex fascisti? «Certo. Gente come Orsi, che anni fa abbandonò il palco di Scalfaro un 25 aprile. O come Arrigo Petacco: c’è un manifesto di intellettuali per la Paita e sapete il più noto chi è? Lo storico revisionista su Mussolini». Il clima è questo. Paita è sostenuta da Pinotti, e da Renzi, anche se il premier non ci ha messo granché la faccia. È stata anche molto attaccata da Cofferati per il conflitto d’interesse col marito, Luigi Merlo, presidente dell’Autorità portuale. Ora promette: «Se sarò eletta, lui si dimetterà». Curiosamente, per la carriera della moglie qui fa un passo indietro il marito, e questa è senz’altro un’evoluzione italiana. Twitter @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2015/01/10/italia/cronache/il-pd-e-le-primarie-liguri-al-veleno-cofferati-ex-fascisti-in-campo-nrHHEbdRdPiSpOZthRFJ5K/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Renzi e la Nemesi del rimpasto Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:50:58 am Renzi e la Nemesi del rimpasto
Diritto al non oblio 01/04/2015 Siamo talmente presi dal diritto all'oblio che ci sentiamo legittimati a dimenticare tutto; anche quello che dovremmo ricordare. La cosa appare ancor più stridente e dolorosa se riguarda i detti del potere. In questo caso, le frasi di Matteo Renzi. Il premier come sapete si trova nel pieno di una procedura di rimpasto vera e propria - anche se nel suo giro preferiscono la locuzione minirimpasto, e minirimpasto sia. Non sta solo sostituendo Maurizio Lupi con Graziano Delrio al ministero delle Infrastrutture (uno potrebbe dire: è inevitabile, che colpa ne ha Renzi?); sta dividendo quel ministero, creando di fatto un ministero regionale da assegnare al Ncd (o almeno così ha promesso), misurando con un certo bilancino questioni di sottosegretari e presenza di donne nel governo, ridefinendo (cosa decisiva) dossier e deleghe tra i sottosegretari a Palazzo Chigi. Insomma: tutto quello che, ha sempre detto lui, gli fa venire l'orticaria e mai avrebbe fatto. O almeno così ci promise. Senza raccogliere le tante occasioni che potremmo citare, ce n'è una molto indicativa, che va invece ricordata: diritto al non oblio. Risaliamo neanche tanto indietro ma è utile, se non ci si ricorda più di nulla: siamo a gennaio del 2014, con Enrico Letta ancora in sella ma traballante - oggettivamente traballante, e traballante perché terremotato dall'allora neosegretario del Pd. Comincia allora a circolare, con grande zelo collettivo, l'ipotesi di un rimpasto, spettro che in passato già bastava a connotare le fasi B dei governi, quelle nelle quali inizia - anche agli occhi dei media - la loro decadenza. Certo anche solo parlare di rimpasto non aiuta Letta, che peraltro poco si aiuta di suo. E Renzi? Con una mano fa vacillare Letta, con l'altra esclude assolutamente il concetto stesso di rimpasto dal suo orizzonte visivo. "L'invito che noi facciamo al governo è: basta chiacchiere, cominciamo a fare sul serio", disse ospite in tv a Virus. "Rimpasto? Secondo lei la prima cosa che faccio è sostituire un ministro bersaniano per mettere uno renziano come nella prima repubblica? Uno come me secondo voi può dire: per avere il mio consenso mi dai tre sottosegretari, un viceministro e mezzo ministero...? Altro che rimpasto, questo modo di fare è inqualificabile…". Lui odiava quelle pratiche da vecchia politica, spiegò. Aveva ragione, Renzi, a dirlo; se c'è una pratica insopportabile e totalmente-prima repubblica è proprio questa liturgia di "spacchettamento" (orrida parola, perdonate, ma la usano loro) di ministeri, di partitini da placare, sottosegretari da spartire, ministri da sostituire e deleghe da pappare. Insomma, quello che - Nemesi persin precoce - capita adesso a Renzi di fare. twitter @jacopo_iacoboni Da - http://www.lastampa.it/2015/04/01/blogs/arcitaliana/renzi-e-la-nemesi-del-rimpasto-Sip6NjX6r3fWmOoI8U1NyI/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Violante: le riforme di Renzi non sono quelle che scrivemmo.. Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:25:52 am Violante: le riforme di Renzi non sono quelle che scrivemmo noi saggi nella Commissione
«Stanno abbandonando il parlamentarismo e introducendo il governo del premier. Senza contrappesi si rischia di uscire dal solco costituzionale» 01/05/2015 Jacopo Iacoboni In questi giorni è un continuo evocare «i saggi di Napolitano», oppure «la Commissione per le riforme». Per usarli. Sia “i saggi”, sia la Commissione istituita da Enrico Letta, scrissero testi importanti su legge elettorale e riforma costituzionale. I testi li stese materialmente, in entrambi i casi, Luciano Violante. Violante, sostengono Ceccanti e Barbera che le linee principali della legge elettorale sono le stesse che scriveste voi «saggi». «Le leggi elettorali non vanno considerate da sole perché sono parte essenziale della forma di governo. Il mix tra legge elettorale e riforma costituzionale, nelle attuali proposte di maggioranza, ci fanno passare da un “sistema parlamentare razionalizzato” al “governo non parlamentare del primo ministro”. È un modello diverso, dal punto di vista costituzionale e politico. Senza idonei contrappesi può diventare un modello preoccupante». Ha ragione Enrico Letta nella sua lettera alla Stampa? «Letta ricorda giustamente che c’è differenza tra una commissione di esperti, e il Parlamento». Renzi ci ha scritto: sono stato costretto alla fiducia, altrimenti finivo preda della melina della minoranza. Letta sostiene che su una legge così cruciale bisognava andare avanti il più possibile «insieme». Del resto, aggiungerei, anche Renzi lo diceva, mesi fa. Che ne pensa? «La fiducia sulle leggi costituzionali e su quelle elettorali non andrebbe mai messa, come del resto scrive chiaramente la Commissione». Scriveste: «Una legge così delicata deve essere sottratta al capriccio delle maggioranze occasionali». «Appunto. C’è stato anche un eccesso di emendamenti, e di furbizie, da parte di alcuni partiti di opposizione. Quando l’opposizione parlamentare abusa dei propri diritti è inevitabile che la maggioranza abusi dei propri poteri». Il premio di maggioranza è al 40%, mentre - voi lo scrivete - chiedevate una soglia più alta. La soglia di accesso del 3% è troppo bassa, voi indicavate il 5. «E’ così. Ma ribadisco che il problema principale è il cambiamento della forma di governo e la necessità di costruire forti contrappesi parlamentari». Ora non è tardi? Quali contrappesi si possono introdurre a un Senato concepito con pochi senatori, non eletti, e senza veri poteri fiduciari, né di revisione dei conti? «Renzi ha fatto qualche positiva apertura a modifiche. A mio avviso dovrebbe trattarsi di un aumento dei poteri di controllo del Senato e del riconoscimento di effetti più incisivi alle proposte di iniziativa popolare». Renzi si riferisce solo al sistema di elezione dei senatori, non ai poteri. «Parrebbe. Ma se non si interviene corriamo il rischio che vengano trasformati in contropoteri i “poteri neutri”, come il capo dello Stato e la Corte costituzionale. Uno snaturamento che nessuno si augura. Credo nemmeno il premier». Cosa si potrebbe, o si sarebbe potuto, fare? «Introdurre la sfiducia costruttiva; ma un emendamento del genere è stato respinto dalla maggioranza. Segno che la linea era quella del governo “non parlamentare” del primo ministro. Le accuse del ritorno al fascismo sono ridicole; ma questa inedita forma di governo necessita, per restare nel solco costituzionale, di idonei contropoteri. Noi proponevamo inoltre una diversa proporzione tra i parlamentari: 450-480 deputati, e 150-200 senatori. Invece, i senatori sono troppo pochi e i deputati sono troppi». E sui capilista nella legge elettorale, o sulle candidature plurime, che idea ha? «Sui capilista io non faccio una tragedia. Ma se si accettano candidature in più collegi, serve una norma per obbligare il candidato “plurimo” a essere eletto dove ha il coefficiente più alto. Altrimenti spetta a lui scegliere chi è eletto, con inevitabili ulteriori distorsioni». Twitter @jacopo_iacoboni Da - http://www.lastampa.it/2015/05/01/italia/politica/violante-le-riforme-di-renzi-non-sono-quelle-di-noi-saggi-tbZUFdEh7cNlJw2Bqrh5YJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Casaleggio striglia Di Maio: lavorate male, sono deluso Inserito da: Admin - Luglio 01, 2015, 06:13:39 pm Casaleggio striglia Di Maio: lavorate male, sono deluso
Dopo la sfiducia dell’assemblea dei deputati alla Loquenzi, l’ira del cofondatore. Ora il delfino deve scegliere, o stare con il cofondatore o con i “suoi” parlamentari 26/06/2015 Jacopo Iacoboni Il golpe contro Casaleggio è in corso, ed è avvenuto quello che era stato segnalato: alla fine Ilaria Loquenzi, la capa della comunicazione del M5S alla Camera che tutti i deputati (poche volte si è sentita tale unanimità di giudizio) ritengono «priva di qualunque autorevolezza», e molti segnalano «anche priva dei titoli per quell’incarico», è stata sfiduciata. Contro di lei nella tarda serata di mercoledì hanno votato in 26 deputati (17 a favore, 14 astenuti; una trentina, attenzione, ha fatto in modo di risultare assente). Ma le conseguenze (e soprattutto i veri autori) di questo clamoroso attacco rivolto al cofondatore del Movimento vanno indagate e spiegate bene, nei limiti del possibile. Non è che la Loquenzi fosse - contrariamente alla vulgata - particolarmente vicina a Casaleggio (semmai è vicina a Roberta Lombardi, che non s’è mai vista così fuori giri come ieri, investiva a male parole tutti quelli che considera responsabili dell’«agguato», definendoli «pezzi di m», e faceva girare la voce di un ruolo, inesistente, di Massimo Artini nell’operazione). Semplicemente, appena dieci giorni fa il cofondatore dei cinque stelle aveva riconfermato sul blog, e a doppia firma con Grillo, che lei e Casalino al Senato restavano i capi degli staff di comunicazione. Per un motivo: perché sono i suoi tramite (specialmente il secondo, in realtà) con i parlamentari. La comunicazione nel M5S ha quasi la funzione di un ufficio di super-capogruppo, e sicuramente di trait d’union tra Roma e due capi che non sono a Roma. Difendere a muso duro Loquenzi e Casalino significa - per Casaleggio - difendere il principio che lui e Grillo restano, nonostante tutto, i terminali ultimi del Movimento. Ma è ancora questa la realtà dei fatti? Questa vicenda dimostra che, come minimo, al manager Casaleggio sfugge ormai la dinamica tutta politica della sua creatura. Un mese fa lui stesso aveva detto al direttorio - che gli esponeva la necessità di «sostituire o affiancare» la Loquenzi - «se fate questo io me ne vado e vi lascio al vostro destino». Ieri la reazione del manager milanese è stata, se possibile, ancora più furiosa, e proprio contro il direttorio: ha tenuto costanti contatti con Luigi Di Maio, il leader dei cinque. L’ha così strigliato che il giovane napoletano si aggirava con l’espressione di un ragazzo bastonato e arrabbiato. Il direttorio, attenzione, ha votato compatto a favore della Loquenzi; ma Casaleggio a questo punto è adirato in primis con loro, «siete stati incapaci, lavorate male, sono deluso da voi». E voleva pubblicare subito sul blog un post feroce, sia contro i deputati, sia contro il direttorio, per il modo in cui è stata gestita l’intera operazione. A finire nel mirino sarebbero non solo quelli che hanno votato contro, ma anche quelli che - consentendo che si svolgesse l’assemblea - agli occhi di Milano hanno creato le premesse per il crac. Tra i voti contro ci sono stati quelli della capogruppo Francesca Businarolo, del vicecapogruppo Giorgio Sorial (che da mesi si vanta del fatto che la Casaleggio verrà esautorata), dell’ex capogruppo Fabiana Dadone, dei liguri. Ma potrebbe essere rimosso, dal ruolo di presidente dei deputati, il veneto Federico D’Incà, uno dei volti «francescani» nei fatti (non a parole) del Movimento. Che ha votato a favore di Loquenzi pur non stimandola. Cosa farà adesso Casaleggio? Ragiona su due opzioni-ponte. Fare Rocco Casalino, l’ex del grande fratello, capo anche alla Camera. La controindicazione è che Casalino non è granché amato dai deputati, e probabilmente finirebbe anche lui sotto attacco. Oppure, piano B, nominare capa Silvia Virgulti, che viene dal network della Casaleggio, è molto vicina politicamente a Luigi Di Maio, e nei mesi scorsi ha raccontato in giro che «Casaleggio voleva nominarmi capa della comunicazione, ma io ho detto di no». Se succedesse questo sarebbe una vittoria di Di Maio, o una perfidia di Casaleggio, che renderebbe a Di Maio molto più difficile il rapporto col gruppo parlamentare? Il giovane leader del direttorio è in una tenaglia: deve scegliere se stare dalla parte dell’assemblea, sempre più anti-Casaleggio e vogliosa di autonomia (e magari usarla sottilmente assecondando la scalata, che coinciderebbe con la sua ascesa di leader in proprio), o restare al fianco di Casaleggio. Una scelta da cui dipende la sua stessa carriera politica. follow @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2015/06/26/italia/politica/di-maio-costretto-a-scegliere-o-casaleggio-o-i-parlamentari-uCxmYucqANvocg8bOcv04J/pagina.htm Titolo: JACOPO IACOBONI. Le parole di Di Maio nell’assemblea fatta rifare da Casaleggio Inserito da: Admin - Luglio 05, 2015, 10:28:46 am Le parole di Di Maio nell’assemblea fatta rifare da Casaleggio.
Che cosa sta succedendo nel M5S? 01/07/2015 Cosa sta succedendo davvero nel Movimento cinque stelle? Cosa c'è dietro la rivolta antiCasaleggio - consumata nel primo voto dei deputati contro Ilaria Loquenzi, responsabile della comunicazione, e poi rientrata con una seconda assemblea, imposta dal manager milanese e finita con la ratifica della sua decisione? La domanda diventa interessante se consideriamo che stiamo parlando comunque del secondo partito in Italia, ancora al venti per cento dei voti, forse qualcosa in più, e in gioco - almeno teoricamente - per andare al ballottaggio, con l'Italicum. Ma in questa domanda il punto cruciale è: il voto contro Casaleggio delineava una scalata bella e buona (una specie di golpe interno), o qualcosa che è accaduto soltanto per una somma di incapacità (del direttorio e dei deputati), una somma di casualità che hanno portato a un esito irripetibile? Racconta Javier Cercas in un libro fenomenale, Anatomia di un istante, che i golpe sono tali solo in atto, mentre qualcuno li sta tentando. Quando falliscono, i golpisti negheranno di aver mai anche solo pensato a un golpe. Nel caso del voto contro Casaleggio, bisogna risalire almeno al 20 maggio scorso, per capire le cose, quando La Stampa racconta con qualche anticipo che esiste un caso-Loquenzi, e che, soprattutto, su questo si è consumato uno scontro molto forte tra Casaleggio e il direttorio, in particolare Di Maio. Il gruppo guidato dal giovane leader aveva rappresentato al cofondatore una richiesta dell'assemblea: sostituire o affiancare la responsabile della comunicazione del M5S alla Camera, spiegando che era malvista da quasi tutti i deputati. In sostanza il direttorio, anziché stoppare questa operazione dell'assemblea, provava a rappresentarla. La risposta di Casaleggio fu durissima: "Se fate questo io me ne vado e vi lascio al vostro destino". Di Maio e il direttorio apprendono in quel momento (a maggio) che Casaleggio vive l'attacco a Loquenzi come un attacco alla sua stessa figura di leader. Il direttorio, da allora, sa; dobbiamo pensare che capisca. Non c'è molto da capire, del resto: gli viene detto chiaramente, e a brutto muso, da Casaleggio. Cosa potrebbero fare allora i cinque? Se stanno con Casaleggio, lavorare subito per far rientrare i malumori contro la Loquenzi. Se vogliono indebolire Casaleggio, assecondare l'assemblea, sapendo che silurerà Loquenzi (è matematico, e La Stampa lo prevede al millimetro). Invece cosa succede? Il direttorio resta in una posizione non chiarissima: nel primo voto vota ovviamente per difendere Loquenzi, ma fa poco e male per convincere i deputati, cioè per fare il suo lavoro di trait d'union tra Milano e Roma. Nella migliore delle ipotesi, lavora male; nella peggiore lascia montare una rivolta stando a vedere cosa ne esce. Magari qualcosa di buono per alcune delle tante ambizioni in campo in questa partita. Quando Casaleggio, è storia recentissima, cala il pugno di ferro, si riprende incredibilmente il pallone, azzera la prima assemblea e ne fa rifare un'altra, il direttorio è in una tenaglia. Come ne esce? L'assemblea di ieri sera meriterebbe di esser raccontata per filo e per segno, con tanti racconti a parte, e almeno citando un paio di interventi su tutti, quelli di Di Maio e quello di Matteo Mantero, opposti (Mantero fa accuse durissime al direttorio, su cui potremmo tornare in futuro). Ma qui - per la nostra analisi - è importante citare cosa dice il primo, il giovane leader campano. Di Maio si presenta davanti ai deputati e dice, anche con lieve autoironia: "Scusatemi se mi sono permesso in questi giorni di fare qualche telefonata agli amici, per spiegare meglio come stavano le cose. Forse abbiamo sbagliato noi, non siamo stati capaci di far capire abbastanza bene all'assemblea che il voto sulla Loquenzi veniva vissuto a Milano come un voto di fiducia personale su Casaleggio". Per questo, e solo per questo, sostiene Di Maio, si è creato il corto circuito disastroso di questa vicenda. A questo punto però in sala in tanti si chiedono: dopo che Casaleggio - un mese fa! - aveva chiaramente minacciato il direttorio di andarsene se avessero insistito sul tema della sostituzione di Loquenzi, come mai, fedeli come sono, non si sono messi alacremente all'opera per convincere subito l'assemblea che quello diventava un voto su Casaleggio, e hanno invece lasciato fare? Sono incapaci, poco avveduti, o magari sono stati un po' meno fedeli del previsto, cioè fedeli a metà? Assistevano a un golpe pronti a schierarsi, eventualmente, con chi l'avesse vinto? Certamente no; questo lo direbbe Cercas. follow @jacopo_iacoboni Da - http://www.lastampa.it/2015/07/01/blogs/arcitaliana/le-parole-di-di-maio-nellassemblea-fatta-rifare-da-casaleggio-HtiXGoXWd8DPQT3S8g7hpO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Crocetta: dare retta al Pd? Sarei finito travolto dagli... Inserito da: Admin - Luglio 05, 2015, 10:37:21 am Crocetta: dare retta al Pd? Sarei finito travolto dagli scandali
“Volevano in giunta Mirello Crisafulli e il cognato di Genovese, vi rendete conto? Renzi? Non mi risponde” In Sicilia la giunta di Rosario Crocetta è in serie difficoltà politiche, assessori in bilico, e il caso Tutino, il medico del governatore accusato di peculato e truffa 02/07/2015 Jacopo Iacoboni Inviato a Palermo Seduto su una poltrona nel suo studio di Palazzo d’Orleans - anzi, come dicono qui, Palazzo d’Òrleans - Rosario Crocetta ha l’aria di un uomo che resisterà fino alla fine. Il Pd in Sicilia è - tanto per cambiare - devastato da lotte interne, faide, divisioni. Crocetta è attaccatissimo dall’esterno, ma anche dall’interno, dai renziani e dai vecchi notabili a cui ha tolto poltrone e affari. Il problema è che la Regione è piantata, ferma, nulla riparte, e a Palermo nessuno è contento, neanche i cittadini, e lui fa fatica a girare per strada. Che succede, Crocetta, è mai possibile che il primo ad avercela con lei sembra essere il Pd? «È una vergogna, ma voglio farle un regalo. Se comincio a parlare io sui guai del Pd... Le racconto una cosa: quando vinsi le elezioni sa chi volevano farmi mettere in giunta, il Pd? Mirello Crisafulli, capisce? Guardate ora i suoi guai. E Franco Rinaldi, il cognato di Francantonio Genovese, ha presente lo scandalo che è poi scoppiato sulla formazione in Sicilia? Ecco: se stavo a dar retta al Pd la giunta durava sei mesi e veniva travolta dagli scandali giudiziari. Passi per l’Udc che voleva infilare Nino Dina, ma il Pd... Il loro astio per me comincia lì». Ha fatto molti tagli meritori, ma dicono che la Regione è immobilizzata, bloccata. «Vogliamo dire dei tagli? Mi odiano perché ho tagliato la formazione, che costava 400 milioni e oggi costa 150, e ci mangiavano tutti, tutti, anche il Pd. Perché ho fatto tre miliardi di risparmi per un buco di bilancio che ho ereditato. Perché avevamo ventimila forestali a cui non si potevano pagare più gli stipendi, e io ho tagliato quattrocento milioni di sprechi. E così mi odia questo sistema di potere trasversale». Però anche Faraone, i renziani, la attaccano. Loro c’entrano con quel sistema di potere? «Questo Faraone vuole solo fottermi la seggiola. Vogliono tutti la mia poltrona. Da Roma vogliono imporre dei piccoli proconsoli, non accettano che ci sia un governatore eletto dai siciliani, che lavora in autonomia». E Renzi? «Sono l’unico governatore con cui non ha mai, mai parlato, neanche una volta. Il governo ci deve 350 milioni di coperture, c’è una sentenza della Consulta, e non ce le dà per strangolarmi». Però anche lei è un po’ mollato da tutti, se ne va anche una donna simbolo, Lucia Borsellino, all’indomani dell’arresto di Tutino... «Fossi in lei me ne sarei andato da prima! La capisco benissimo, è addolorata, è oggetto di attacchi vergognosi. Per i risparmi che abbiamo fatto nella sanità, qui rischiamo la pelle. Abbiamo licenziato 900 delinquenti. La sanità con me è tornata in attivo, e non ho aumentato le tasse. Ma magari Renzi la Borsellino la difenderà; a me no di certo. Palermo è la città che attaccava Falcone, che eliminò Mattarella, che fece fuori Pio Latorre, che voleva mettere ordine, anche nel partito... O morto o in galera, diciamo qui». Ma c'è questa storia di Matteo Tutino, il suo medico arrestato per accuse gravissime, peculato, truffa aggravata. I suoi nemici dicono che lei lo favorisse. «Ma quando mai! È una barbarie questo uso di inchieste che non mi toccano minimamente. Che devo fare la prossima volta, farmi scegliere il medico curante dal Csm? Io sono diabetico e ho un problema respiratorio. Dovevo operarmi all’addome e Tutino voleva farlo lui perché la cosa poteva rientrare tra gli interventi di chirurgia estetica, rimborsati. Bene: non l’ho fatto, sono andato da un privato e ho speso 3800 euro. Peraltro la pancetta la tengo ancora, come vede». Scusi ma ha mai provato a parlare col premier? È del Pd. «Se lo chiamo mi passano i suoi attendenti, non m’interessa. Mi vogliono delegittimare e colpire. E pensare che il vero renziano ante litteram Sicilia sono io, la rottamazione la sto facendo io». follow @jacopo_iacoboni da - http://www.lastampa.it/2015/07/02/italia/politica/crocetta-dare-retta-al-pd-finivo-travolto-dagli-scandali-Jy0lFAHQ8AiwPJdv8zG9HO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - La “struttura delta” della Casaleggio. Ecco tutti i nomi e... Inserito da: Arlecchino - Febbraio 13, 2016, 04:38:32 pm La “struttura delta” della Casaleggio. Ecco tutti i nomi e come funziona
Dal contratto imposto al M5S Roma fino alle webstar politiche: come l’azienda guadagna 11/02/2016 Jacopo Iacoboni Diciamo che è la struttura delta della Casaleggio, uno staff nello staff. Al punto 4a del «contratto» con il candidato sindaco del M5S a Roma, Gianroberto Casaleggio ha inserito una delle clausole più importanti, che possono passare inosservate: «Lo strumento per la divulgazione delle informazioni e la partecipazione dei cittadini è il sito beppegrillo.it/listeciviche/liste/roma». Tradotto, tutto il traffico - anche video e social - deve passare dal blog. Ma chi gestisce in concreto questa “struttura” alla Casaleggio associati? La Stampa è in grado di raccontarlo millimetricamente. Mentre Grillo parla di «Rai fascista», la Casaleggio guadagna dai video di Rai, La7 e Mediaset, con un sistema semplice e perfettamente legale. Prima cosa: ancor prima del boom del M5S, la Casaleggio ha costruito una quindicina di - chiamiamole così - webstar, da Di Battista a Fico, gente con un milione di iscritti su facebook, che è tenuta a concedere di pubblicare ogni proprio video sul sito di Grillo. Se Dibba fa una performance dalla Gruber, la deve mettere sul sito di Casaleggio. I video non vengono caricati su youtube (che non accetta caricamenti con monetizzazione di video protetti da copyright), ma su un altro servizio di cloud storage di video, che non ha evidentemente ancora stipulato accordi con le tv italiane e le società di produzione. A questo servizio la Casaleggio paga una quota per ricevere in cambio dei ritorni pubblicitari dagli spot che partono prima del video, e dai banner (attraverso Adwords o altre piattaforme di monetizzazione pubblicitaria). Per ogni video caricato e visto la Casaleggio incassa in percentuale una quota stimabile fino ai mille euro e oltre per ogni video visualizzato almeno centomila volte (dati variabili). Cosa che a suo tempo fece infuriare moltissimi parlamentari M5S, che però non hanno mai avuto la forza di stoppare questo meccanismo. Alla Casaleggio tre persone hanno tenuto in mano operativamente la cosa, nel corso di questi anni in varie fasi: Pietro Dettori, che gestisce anche gli account twitter di Grillo, e molto spesso è autore materiale dei post (Grillo incredibilmente lascia fare anche quando poco o nulla sa di ciò che viene scritto, anche delle uscite più tremende), figlio di un imprenditore sardo legato in precedenza a Casaleggio. Biagio Simonetta, un giornalista, esperto di new media. Marcello Accanto, un social media manager. E, ultima entry, Cristina Belotti, che si occupa della tv La Cosa, una bella ragazza cresciuta curiosamente alla più pura scuola del centrodestra milanese, la scuola di Paolo Del Debbio - lavorava nella redazione del suo programma - e arrivata alla Casaleggio attraverso il network dei fratelli Pittarello; soprattutto Matteo, fratello di Filippo, storico braccio destro di Casaleggio, un passato anche da boy scout. Belotti è diventata collaboratrice di Luca Eleuteri, uno dei soci della Casaleggio (l’altro è Mario Bucchich; da non molto si sono aggiunti il programmatore storico della Casaleggio, Marco Maiocchi, e un uomo di marketing che collaborava con Casaleggio già in Webegg, Maurizio Benzi). I tre che gestiscono il blog e le pagine social della galassia Casaleggio controllano tutto il giorno il trend di viralità dei contenuti pubblicati, attraverso le analisi comparate dei dati (usano insights di facebook e Google analytics). Con l’incrocio semplicissimo di questi due strumenti, sanno in ogni momento quanto stanno guadagnando. Le webstar politiche fanno fare soldi all’azienda. Un berlusconismo 2.0. C’è però un’altra cosa in cui i «ragazzi» eccellono, e Dettori è bravissimo, la profilazione. È un loro divertimento sapere: chi si collega a un video, da dove, con quale software, quale browser, qual è la sua età e i suoi interessi. Non è proprio The Circle di Dave Eggers - l’azienda è troppo piccola; quello è il sogno. Da - http://www.lastampa.it/2016/02/11/italia/politica/la-struttura-delta-della-casaleggio-ecco-tutti-i-nomi-e-come-funziona-KjOs99jXDHs6JbhPBP5uAM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Le dieci domande a Casaleggio. Il manager in audizione alla.. Inserito da: Arlecchino - Marzo 10, 2016, 06:10:40 pm Le dieci domande a Casaleggio. Il manager in audizione alla Camera
L’ex M5S Mucci: chiederemo di ricavi e concessionaria del blog Il manager milanese Gianroberto Casaleggio in una foto scattata in piazza San Giovanni durante lo Tsunami Tour 09/03/2016 Jacopo Iacoboni Quando citi Lenin per atterrire i sospettati di eresia, il minimo che possa succederti è che prima o poi qualcuno tenti di processare te. Il Processo a Casaleggio. Il manager milanese è stato chiamato a comparire in audizione alla commissione Affari costituzionali della Camera tra gli «esperti» che a vario titolo parleranno della nuova legge sui partiti. L’idea è venuta a Mara Mucci, una ex deputata M5S oggi nel gruppo misto, che gli farebbe alcune domande. Diciamo le dieci domande a Casaleggio. Mucci ha parlato con «La Stampa» e ce le ha raccontate. «Faccio una premessa: questa legge sui partiti a me pare border line, credo ne sia anche consapevole il relatore, Matteo Richetti. Come si fa a imporre una forma giuridica alle forze politiche? Penso che anche nel Pd stiano riflettendo. Non possono imporre un’organizzazione a un movimento o a un partito, ma si può invece regolamentare per legge la trasparenza». La prima domanda da fare a Casaleggio, dice allora Mucci, è: «Ci direte con esattezza tutti i bilanci? Se rispondono che il bilancio è già pubblico, ci direte come sono rendicontati tutti gli eventi o extraeventi? Chi sono le società a cui vengono appaltati? A noi risulta che sia una sola, sempre la stessa, sono legati alla Casaleggio in qualche forma? Noi avevamo un servizio legale, dove viene rendicontato il pagamento di tutto questo? Chi lo paga? Qual è la lista esatta dei finanziatori di tutti gli eventi?». Ad alcune domande Casaleggio potrà rispondere agevolmente; ad altre meno. Mucci vorrebbe veder rispondere ad alcune domande sul blog e i suoi guadagni: «I bilanci della Casaleggio sono pubblici, alla Camera di Commercio; ma da quelli non si evince la fetta del blog: quali sono i ricavi pubblicitari esatti del blog, che è collegato all’attività di una forza politica, e se ne giova apertamente? Se tu metti nel bilancio, per dire, 8500 voci, o se aggreghi tutto in poche voci, è diverso, il bilancio diventa leggibile o oscuro. Qual è la società che fa la raccolta pubblicitaria? È una società controllata, direttamente o indirettamente, dalla Casaleggio associati?». È più che possibile, anzi è probabile, che Casaleggio non si presenti al suo Processo alla Camera, anche per evitare l’assalto. Molte questioni non paiono sempre messe bene a fuoco, come la vicenda delle mail sul server gestito da Massimo Artini («se Casaleggio usava quel server per spiare - dice una nostra fonte - perché poi avrebbe dato ordine di chiuderlo?»). Ma anche altre cose non tornano, e ci riconducono alla legge sui partiti, e all’emendamento Boccadutri che prevede 150 mila euro di multa a chi non presenta un bilancio e una forma giuridica. Qui la domanda che andrebbe posta - a Casaleggio, e ancor di più ai suoi scalatori/rottamatori del gruppetto Di Maio - è semplice: Danilo Toninelli, che per conto di Di Maio si occupa della questione della legge sui partiti, ha fatto diverse uscite molto plateali denunciando che la legge sui partiti è un modo per attaccare il Movimento, colpendolo anche economicamente. Ma qui siamo in grado di svelare una banalissima contraddizione, che peraltro nel gruppo parlamentare del Movimento conoscono tutti benissimo: proprio per evitare di incappare nei rigori della nuova legge, il Movimento si è ormai dotato sia di un’associazione giuridica (con fondatore, tesoriere e segretario, Beppe Grillo, Enrico Nadasi, Enrico Grillo), sia di un bilancio. In altre parole: l’associazione c’è già; il bilancio è già regolarmente pubblicato, e risulta a zero euro (certificato da una società terza, la Audit Services, è su https://materiali-m5s.s3.amazonaws.com/rendiconti/ASSOCIAZIONE.pdf). Le spese per eventi, o spese legali, o extra, sono invece pubblicate sotto la voce «Comitato elettorale». Ma allora scusate, se il problema non esiste, perché Toninelli e Di Maio fanno lo show contro la legge? Impossibile pensare lo facciano per avere un video teatrale da far cliccare. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/03/09/italia/politica/le-dieci-domande-a-casaleggio-il-manager-in-audizione-alla-camera-ZA4VyBQy0tUsyaNkA2Y6TM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Casaleggio pensa di abdicare, gli succederà il figlio Davide Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2016, 05:56:09 pm Casaleggio pensa di abdicare, gli succederà il figlio Davide
Passaggio dinastico, ma nel direttorio si preparano congiure LAPRESSE Roberto Casaleggio avrebbe di fatto già lasciato molti poteri decisionali al figlio Davide 07/04/2016 Jacopo Iacoboni Qualche giorno fa un parlamentare molto importante del Movimento cinque stelle è salito a Milano alla Casaleggio associati per una riunione con Gianroberto Casaleggio. In un’ora e mezzo il cofondatore del movimento ha subito (almeno) cinque o sei pesanti cali dell’attenzione, faticando a mantenere la concentrazione per un arco di tempo consecutivo neanche troppo lungo. Il parlamentare è tornato a Roma e ha riferito: «Gianroberto ormai ha mollato, non ce la fa più a star dietro al Movimento. Decide ormai quasi tutto il figlio». Non si può dire che la notizia sia stata accolta col dispiacere umano che ci si aspetterebbe, specialmente nel direttorio dei cinque stelle; personaggi creati proprio da Casaleggio, ma pronti a scalarlo con la brutalità della più classica politica. C’è un direttore del direttorio; e non è Gianroberto (tanto meno Beppe Grillo, che fa promozione al suo tour da comico e mostra di avere ormai le tasche piene del suo antico giocattolo), ma il figlio. Nel Movimento a questo punto si delinea una guerra sorda, perché è chiaro che le tante scalpitanti webstar elette, accecate dalla tv e dalla vita romana, accettavano già a stento Gianroberto, l’intellettuale carismatico a cui dovevano tutto; figurarsi un giovane che è loro coetaneo. Già, perché il Riccardo III del Movimento, stanco e tradito, li sta giocando e ha preparato una classica successione dinastica alla coreana. Una stagione finisce. Ma com’è nello stile dei regimi familiari, il tramonto è segnato da tradimenti, opportunismi, viltà e ingratitudine degli ex cortigiani. Dopo un periodo in cui la salute del Riccardo III era parsa in un qualche miglioramento, forti sono di nuovo i segni di affaticamento. Se Casaleggio molla la presa, siamo in grado di rivelare che dell’azienda si occupa ormai integralmente Davide, che è anche colui che, apparentemente assieme al direttorio, in realtà da solo, tiene le chiavi del blog di Beppe Grillo, cioè dell’unica vera macchina del consenso e della gestione del gruppo parlamentare. Ma chi è, Davide? Se Gianroberto è sempre stata la mente, Davide era il braccio, ma senza la stessa passione politica. Lui rendeva operative le decisioni prese durante le riunioni, coordinava le attività tecniche e organizzava gli «slot» dei dipendenti, cioè quanto ciascuno dovesse lavorare su un progetto. Sempre lui traduceva in tattiche, strategia e azioni pratiche, le visioni di Gianroberto, dopo averle analizzate dal punto di vista tecnico, spesso dopo lunghe riunioni a porte chiuse nell’ufficio del padre. È Davide ormai, prima di Gianroberto, che dà l’ok alle comunicazioni che partono dallo «staff di Beppe Grillo»; Davide tiene i contatti con i consulenti esterni (in particolare lo studio legale Montefusco). In realtà è da sempre dentro la macchina, fin dal 2009 si occupava dei meetup, era lui che conduceva allora gli incontri formativi dei candidati, anche prendendo decisioni politiche importanti. Gli esempi sono diversi, come questo: «Durante le elezioni su indicazione di Davide Casaleggio i candidati del meetup Europa decisero di estromettere x, y e z dal sito dei candidati, perché avevano spedito dei volantini con le sole loro facce in tutta Europa...». È Davide, e solo in un secondo momento i parlamentari che fanno capo a lui, che ha in mano e coordina il processo di «certificazione» delle liste, le espulsioni, e quindi verosimilmente ha in mano le chiavi del server. In azienda già da tempo era a tutti gli effetti il vice. Non è per nulla simpatico, anche agli altri soci, con cui spesso ci sono scontri; ma è il figlio del capo e lo fa valere. Campione di scacchi da bambino, molto riservato, abitudinario (a colazione non cambia mai: brioches e succo di pera), qualcuno lo definisce «arrogante e autoritario, ma per niente autorevole». Non esita a usare i dipendenti dell’azienda come pedine per regolare i conti con i partner. Sportivo, patito di immersioni, con la doppia cittadinanza, è capitato che cercasse di coinvolgere i collaboratori nelle sue attività private, soprattutto quelle sportive, anche sfruttandone le capacità tecniche (come quando chiese a un dipendente di seguirlo in un weekend di immersioni per effettuare riprese con la telecamera). È Davide che ha inventato il sistema dei clic e dei siti-satellite, è lui che ha trasformato il blog in una macchina pubblicitaria, che fa guadagni. Nelle discussioni, ci raccontano, più che il confronto rincorre l’obiettivo di indurre in errore l’interlocutore, anziché sostenere le proprie tesi, come descritto in uno dei libri che cita più spesso, «Getting to yes», di Roger Fisher e William Ury. Sul lavoro, e in politica, la frase ricorrente è «conta l’obiettivo», poco gli importa di come ci si arrivi. Stima Di Maio, ma lo considera un suo dipendente. «I parlamentari facciano i parlamentari, non devono occuparsi del loro collegio elettorale non siamo un partito», diceva anni fa Gianroberto Casaleggio, il Riccardo III del movimento. La nuova generazione, qualunque cosa succeda, ha già preso un’altra via. Da - http://www.lastampa.it/2016/04/07/italia/politica/casaleggio-pensa-di-abdicare-gli-succeder-il-figlio-davide-dWYOvKCJk5S4QHwOeYRBeM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - UN ANNO FA' C'ERA IL RISCHIO GUERRIGLIA. Inserito da: Arlecchino - Aprile 14, 2016, 05:15:48 pm Il M5S squassato china la testa e ratifica la volontà di CASALEGGIO
Ma ora il cofondatore e il direttorio sono sotto tiro e a rischio guerriglia 30/06/2015 Jacopo Iacoboni Alla fine, a tarda sera, i deputati del Movimento cinque stelle hanno chinato amaramente la testa e ratificato passivi la volontà di Casaleggio. Sono riusciti - magra consolazione - a non votare, perché il voto li avrebbe definitivamente squassati, ma squassati lo sono già: il direttorio è imbarazzatissimo e sculacciato dal cofondatore del Movimento e in definitiva Gianroberto Casaleggio si riprende il pallone e azzera il voto di sfiducia che gli era arrivato contro la scorsa settimana. Ma la storia, com’è evidente, avrà un mucchio di strascichi e non finisce così. Questa è solo una puntata, per quanto sintomatica e rivelatrice. Ilaria Loquenzi, la contestatissima - e molto poco amata - responsabile della comunicazione del Movimento alla Camera resta al suo posto, ma lo scontro che s’è consumato è stato durissimo: tra parlamentari e Casaleggio, tra parlamentari e direttorio, e all’interno degli stessi parlamentari. Ieri sera, in un’assemblea che non finiva mai e che è stata ovviamente molto aspra, si sono create (almeno) due grandi fazioni: da una parte il direttorio e diversi parlamentari che spingevano perché si rivotasse, pur sapendo che questo avrebbe definitivamente spaccato in due il gruppo, ma il loro guadagno era farsi belli con Milano e acquisire peso agli occhi di Casaleggio. Dall’altra chi mercoledì aveva votato no, stanco delle imposizioni di Casaleggio, ma anche tantissimi astenuti, o gente che non ne voleva assolutamente sapere di prender parte a quella contesa, mortale per l’affiatamento e le speranze di compattezza del gruppo. Nel primo voto, ricordiamolo, gli assenti erano stati una trentina: tanti. Il dato è che Casaleggio ha imposto una volontà, e ribadito che il Movimento lo comanda lui, come un manager che dirige un’azienda. Ma uno scontro consumato in questa maniera è destinato a lasciare una traccia pesantissima anche sugli sviluppi futuri. «Guardate che a Milano si ricorderanno di chi ha votato contro Casaleggio», Di Battista catechizzava così i contrari, quasi uno a uno. I quali l’hanno vissuta ovviamente come una minaccia di non esser ricandidati da Milano. In un partito normale fa parte del cinismo della politica che il capo minacci di non ricandidare i parlamentari che gli vanno contro, ma nel Movimento? È chiaro che alla fine di questa clamorosa frattura tra parlamentari e Casaleggio quello che viene sancito è la metamorfosi, forse definitiva, del Movimento cinque stelle, la sua trasformazione da movimento in partito. Resta sul campo anche l’ambizione di leadership di Luigi Di Maio, che forse ha pensato di poter gestire il malcontento antiCasaleggio, ma si ritrova bastonato dal manager milanese, e dimidiato nell’autorevolezza - coi suoi deputati - in vista delle prossime tappe di questa guerra. Da - http://www.lastampa.it/2015/06/30/italia/politica/il-ms-squassato-china-la-testa-e-ratifica-la-volont-di-casaleggio-geUhxZcvxkAfPBNzY3pcXI/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Parla l’ex braccio destro di Grillo e Casaleggio Inserito da: Arlecchino - Aprile 23, 2016, 12:57:53 pm Marco Canestrari: “M5S tradito: c’era una comunità. Ora solo una guerra per il potere”
Parla l’ex braccio destro di Grillo e Casaleggio 22/04/2016 Jacopo Iacoboni Londra «Sono stato per anni l’uomo che seguiva Beppe Grillo ovunque, dal colloquio con l’ambasciatore tedesco a quello con il presidente del Senato. Ho lavorato anni alla Casaleggio accanto a Gianroberto, ero il suo inviato agli incontri nazionali dei meet up, la cinghia di trasmissione tra loro, le cellule originarie del Movimento, e lui. Solo io e altre due persone sappiamo davvero cosa volessero Roberto e Beppe». Marco Canestrari oggi ha 33 anni. Sa tutto, del passato e del presente di quello che ormai è un’azienda-partito. Alla Casaleggio, dove fu chiamato dal fondatore, lo chiamano con lo sfottò appioppato da Grillo, «la mente grigia». Oggi vive a Londra, fa il programmatore informatico. Ha deciso di parlare e raccontare la mutazione genetica del Movimento, chi l’ha voluta e chi nonostante le lacrime ha tradito le volontà del fondatore dell’azienda. Perché lo fa? Di solito chi è stato alla Casaleggio una cosa in comune ce l’ha: il silenzio. «All’inizio eravamo una comunità. Roberto amava quella parola. Ora non più. Era il mio capo, lo ricordo con molto affetto e professionalmente devo tutto a lui. Credeva davvero nel suo progetto, non aveva secondi fini. Ma le cose sono andate diversamente. Al suo funerale mi sono avvicinato a Luca (Eleuteri, il socio di Casaleggio) per salutarlo, lui senza dire una parola mi ha puntato il dito in faccia per venti secondi e mi ha allontanato; forse contava su un presunto accordo di omertà che avrei violato dicendo pubblicamente la mia, ma non sono il tipo». Che pensa del M5S oggi? «Con l’Italicum ha la possibilità concreta di vincere le prossime politiche, e cambiare l’Italia. Dubito in meglio». Perché è pessimista? «Il Movimento nel 2013 è stato votato per nove milioni di motivi diversi, nessuno dei quali era ritrovarsi un gruppo parlamentare impegnato in una guerra per bande e a coprire le proprie bugie, a cominciare dagli stili di vita, tutt’altro che francescani. È nato denunciando i politici che usavano la querela per minacciare i giornalisti, e ora spaccia robaccia sui siti legati al blog, e alimenta cultura della minaccia e diffamazione seriale in rete. Sono diventati la voce del nuovo oscurantismo. Come gli antivaccinisti che attirano i clic sui siti. Al ministero della salute ci mandiamo un antivaccinista? È un sistema che allontana le competenze e attira i ciarlatani». Alla Casaleggio non dicevate che non c’erano leader? Qui si vede un leader, Di Maio, autonominatosi, e un capo sostanziale, Davide Casaleggio. È così? «Autonominatosi al Tg1 peraltro. Secondo Roberto il direttorio doveva solo smistare responsabilità. Invece è stato usato per fini personali e per acquisire potere». LEGGI ANCHE - Successione a Casaleggio, patto tra il figlio Davide e Di Maio. Ma la partita è il controllo dei server (di Jacopo Iacoboni) Mi fa dei nomi? «L’ascesa di Di Maio, che Grillo aveva cercato di fermare dicendo ’non ci faremo imporre il candidato premier dalle tv’, è speculare all’ascesa di Renzi e coltiva di per sé il germe del tradimento. Davvero qualcuno pensa che l’onorevole Di Maio smetterà di far politica a 37 anni, dopo due mandati? Hanno già creato un patto e una casta di intoccabili: tutto quello contro cui Roberto ci spingeva a lottare». Può fare degli altri esempi? «L’uso della tv per la rincorsa del consenso personale e non per il Movimento. Di Battista al Processo del lunedì. Fico che da Formigli dice che il limite del doppio mandato non si tocca, cioè parla a Di Maio anziché ai cittadini. Giravolte politiche impressionanti: l’assessore di Livorno indagato, a cui non si chiedono le dimissioni». Davide che persona è? È interessato alla politica? «Davide non ha nessuna passione politica, a differenza del padre. Roberto aveva costruito il M5s su una suggestione culturale di fondo: Il ciclo dei robot di Asimov. Pensava alle regole del Movimento come alle tre regole della robotica di Asimov: noi mettiamo solo delle regole, non elementi politici, diceva. All’interno di quelle regole poi si sviluppa tutta la dialettica. Davide invece vuole solo raggiungere gli obiettivi che si dà. Mancato Roberto, il Movimento rimane solo un asset dell’azienda: chi lavora sui portali - sul blog e su Rousseau - è assunto dalla Casaleggio, ad essa risponde e lavora anche su altri progetti, estranei alla politica. Io non credo che loro si arricchiscano, ma finanziariamente questo modello sta in piedi grazie alla pubblicità sul blog - che peraltro risulta la sede ufficiale del M5S - e sui siti che il blog sponsorizza. Se vi rinunciano, devono licenziare». Tutto questo continuerà a gestirlo Davide, non Di Maio? «Sì, da quello che mi risulta. Ed è il punto politicamente rilevante». In che senso? «Chi ha i dati gestisce tutto. Per esempio, adesso c’è qualcuno in Casaleggio che può sapere chi dei parlamentari ha votato a favore del direttorio e chi contro. Siamo autorizzati a supporlo perché il codice di Rousseau non è pubblico. L’informazione è potere: se nell’ambito di una comunità alcuni hanno tutte le informazioni, e altri nessuna, questi guideranno i processi in base alle proprie esigenze. Lo dice sempre anche Davide». L’ANALISI - Il passaggio più difficile per i grillini (di Giovanni Orsina) Canestrari, Grillo può non vedere tutto questo? «Può non vederlo, sì. Non gli vengono dette cose molto importanti che succedono: per i referendum chiesti dal Vday 2 sarebbero potuti arrivare dei rimborsi referendari. Fui mandato dalla Casaleggio a chiedere una delega in bianco in favore di Beppe per la gestione di questi rimborsi. Il comitato referendario era composto da ragazzi del meet up di Roma. Chiesi a Davide di garantirmi che Beppe ne fosse al corrente. Non ricevetti risposta. Ci incontrammo all’hotel Ripetta, sottoposi il documento al comitato e ci fu uno scontro perché alcuni non volevano firmare. Fu chiamato Beppe, che arrivò e disse di non saperne nulla, e annullò tutto. Capisce? Grillo non sapeva ciò che stavano facendo». Lei è ancora un iscritto al Movimento? «Sì, certo. E proprio perché rimango fedele al progetto di Roberto, che voleva che il movimento controllasse i parlamentari, ho dato vita a un progetto di analisi in rete. La prima tappa è il sito www.maquantospendi.it dal quale ciascuno si può fare la sua opinione. Non ho contribuito a far nascere il Movimento per poi vedere un parlamentare che spende 32mila euro in vitto in tre anni a spese del contribuente». Che farà Grillo adesso? È obbligato a occuparsi ora di ciò di cui forse non s’è mai occupato? «Beppe avrà un ruolo decisivo i prossimi mesi. So che di recente si chiede anche lui se la nostra gente volesse tutto questo. È molto dubbioso lui per primo sul M5S di oggi. Gli manderei un consiglio: pensa bene di chi fidarti, guarda il blog adesso, pieno di pubblicità, ricordati di quando mi chiedevi di convincere Roberto a togliere tutti i bottoni “compra” che non ti piacevano. Quello non è più il Blog, è un asset aziendale. E nessuno voleva un Movimento così». Versione integrale dell’intervista pubblicata oggi sul giornale LEGGI ANCHE - Il “Big bang” dell’incontro di Casaleggio con Grillo trasformò per sempre il web italiano (di Massimo Russo) Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/04/22/italia/politica/ms-tradito-cera-una-comunit-ora-solo-una-guerra-per-il-potere-MRjHH8uf6H08hLKSpjFuwM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Dieci pensieri sul voto nelle città Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2016, 01:02:46 pm Dieci pensieri sul voto nelle città
Virginia Raggi, candidata del M5S in grande vantaggio al primo turno delle comunali a Roma 06/06/2016 Jacopo Iacoboni Il primo turno delle amministrative delinea un quadro articolato, che provo a fotografare così. I. Il Movimento cinque stelle sfonda a Roma, la città dei disastri di Alemanno e la città di Mafia Capitale che tocca il Pd romano, oltre che della defenestrazione di Ignazio Marino (ci torneremo). Accanto alle percentuali di Virginia Raggi, direi che contano molto i voti assoluti al Movimento, per descrivere l’ampiezza di questo risultato. Alle politiche, nel 2013, il M5S prese a Roma 130mila voti. Alle europee del 2014, nonostante la grande vittoria di Matteo Renzi, il Movimento prese 293.241 voti. Ieri ne ha presi 393.483, centomila voti netti in più: un’immensità. È il punto di partenza di ogni analisi, ma anche punto molto impegnativo, una cima difficile da eguagliare e una città, Roma, che fa abbastanza storia a sé, nel bene come (soprattutto) nel male. II. I cinque stelle vanno molto bene a Torino, anche qui grazie a una donna, Chiara Appendino, un’ottima candidata per profilo personale, che ha scelto di fare una campagna molto moderata - secondo alcuni anche troppo - andando, anziché verso i temi di sinistra (reddito di cittadinanza), verso quelli di centrodestra (rapporto con le fondazioni, ampia e anche spregiudicata rassicurazione alla città borghese). Il risultato in voti assoluti è anche qui notevole. La progressione di questi anni parla meglio di ogni altra cosa: alle europee il M5S aveva preso a Torino 91mila voti, ieri ne ha presi 107mila. Cinque anni fa, quando Appendino entrò in consiglio comunale, il Movimenti ottenne 21mila voti. Parallelamente, il Pd del sistema-Fassino è passato da 138mila voti cinque anni fa a 106.832 ieri (alle europee, il Pd a Torino aveva preso 189.596 voti. III. Il M5S resta un Movimento molto disomogeneo territorialmente. Cresce anche a Milano, ma lì non supera il 10 per cento (molto poco, in quella città, per ambire in prospettiva alla sfida delle politiche). E’ basso a Napoli, la città di tre membri del direttorio su cinque. E’ stabile a Bologna, qui anzi con una lieve flessione di voti assoluti, e rimane fuori dal ballottaggio: e considerate che l’Emilia è una terra fondativa dei cinque stelle. Da questo punto di vista, la grande vittoria, anche simbolica, e l’incremento di voti assoluti (quasi universale) del M5S non coincidono con una equa ripartizione della sua presenza diffusa. I cinque stelle restano una forza centrale e centromeridionale, mentre al nord (con l’eccezione di Torino e la Liguria) faticano ancora. IV. Il Pd è in un arretramento sostanziale grave. I numero lo dicono un po’ ovunque, ma l’emorragia è drammatica a Roma. Nel 2013 i democratici presero nella capitale 267mila voti, alle europee del 40% di Renzi addirittura 506mila, ieri ne hanno presi 200mila. Molto pochi in assoluto, anche se - a mio giudizio - Giachetti ha compiuto un miracolo ad arrivare al ballottaggio col quasi 25 per cento. Un mese fa partiva spacciato al 14, secondo i sondaggi, e portando con sé il peso dei disastri del pd romano e delle inchieste di Mafia capitale. V. Renzi. Certo ha avuto un ruolo la voglia, assai diffusa in Italia, di dare anche un colpo a Renzi, e a quanto lui tenda a personalizzare ogni battaglia (questa, paradossalmente, l’aveva personalizzata molto meno di altre). Gli errori principali a me paiono due. Uno: il cosiddetto Partito della Nazione si sta rivelando in questi anni un boomerang ovunque, assoluto, kafkiano. O dove si prova a costruirlo (Beppe Sala a Milano è in lievissimo vantaggio, ma in una gara del tutto aperta, e ha concluso davvero col fiatone e spompo), o dove il Pd paga scissioni, lacerazioni, perdita di consensi e nascita di forze politiche alla sua sinistra. Successe in Liguria, successe a Venezia, succede a Torino, a Milano è finita malamente l’era Pisapia, a Napoli, dove ci si è alleati con Verdini. Non pare una politica che stia pagando, almeno nei territori. Chi è convinto del contrario, rimanga sereno a discutere con Verdini e Alfano. VI. Il caso Marino. A Roma - e veniamo al secondo errore del premier segretario - il Pd sconta, ne sono abbastanza certo, la penosa defenestrazione di Ignazio Marino, un siluramento deciso nelle segrete stanze, dall’alto e in maniera davvero opaca, di un sindaco eletto, che era rimasto impigliato in storie - come già si sta vedendo - di nessun rilievo penale. Sarebbe bastato non distruggere Marino per evitare il tornante del voto a Roma: senza il quale lo scenario di oggi sarebbe tutto sommato accettabile per Renzi (e al netto di Giachetti che, lo ripeto, ha salvato il salvabile). Ps. Marino, e quel che restava delle sue basi elettorali, l’hanno ovviamente fatta pagare come potevano, o non votando, o votando direttamente Raggi. VII. A Roma colpisce assai che il Pd vinca solo in tre municipi (due dei quali centro e Parioli), e oltre le mura perda ovunque. Un partito salottizzato e cricchizzato. VIII. I candidati. Il Pd - tolto secondo me Giachetti - non è in grado di imbroccare un candidato interessante e almeno relativamente fresco che è uno. Il Renzi della rottamazione presunta ci ha proposto: Fassino, Beppe Sala, l’oscura burocrate Valente, e l’usato (abbastanza) sicuro Merola. Uau, che appeal (senza contare i tratti di profondo conservatorismo, o di vera svolta moderata, di queste scelte). Pensate invece ai due posti dove il Movimento vince, Roma e Torino (altrove, ripeto, non va affatto così trionfalmente): schiera due volti interessanti, che funzionano, due donne che hanno un profilo molto più divertente anche da raccontare; qualunque cosa pensiate, naturalmente, del loro spessore politico, delle loro scelte politiche, delle loro frequentazioni, dei mondi (spesso di centrodestra) che le hanno accompagnate, o di tutte le ambiguità del partito-azienda e della Casaleggio, che più volte abbiamo riccamente documentato. IX. Il centrodestra. Mi pare che, se unito, esiste eccome: basti solo il caso di Milano a dimostrarlo: ha il problema di trovare un leader competitivo, come nel capoluogo lombardo è riuscito a fare. Ma non è scomparso affatto dall’Italia, attenzione. X A Roma, tutto l’opposto: Meloni e Marchini insieme avrebbero largamente garantito i voti per andare al ballottaggio, ma la rissa Berlusconi-Salvini ha reso impossibile una mediazione su un nome comune. Meloni resta figura chiave per il ballottaggio di Roma. Qui risulta che lei personalmente non ami affatto la Raggi (raccontano che le stia cordialmente antipatica), ma i suoi elettori? Molti sembrerebbero non così distanti da pose anti-establishment (e addirittura dure con rom me migranti) dei cinque stelle. Giachetti può lavorare sulla rete che porta all’elettorato di Marchini (Toti, Ranucci, propaggini varie di rutellismo), e deve provare a convincere almeno una fetta dei sostenitori di Giorgia. Un’impresa non impossibile, ma certo, molto, molto in salita. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/06/06/italia/speciali/elezioni/2016/amministrative/dieci-pensieri-sul-voto-nelle-citt-vtuCzFUpXJXUQm0UxqQUYJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. Ovvero, che peccato, un giornalista capace diventato fazioso... Inserito da: Arlecchino - Giugno 18, 2016, 11:55:14 am Il comunista Piero dai gesuiti a Marchionne
Di Fassino restano le profezie tutte sbagliate contro l’M5S e lo storico ‘abbiamo una banca’ riferito allo scandalo Unipol. Negli anni è stato virtualmente candidabile a tutto – dalla Consulta fino al suo sogno inconfessabile: il Quirinale – alla fine si è dovuto accontentare della poltrona di sindaco del capoluogo piemontese: dalle giovanili del Pci alla Fabbrica, storia di un uomo che vuole blindare il sistema Torino. Un sistema dominato dalla subalternità alle banche e da un patto cinico tra il rottamatore Renzi e l’ex studente dei gesuiti. Di Jacopo Iacoboni, da MicroMega 2/2016 Le profezie che si autoavverano A Torino la chiamano la «Seconda profezia di Fassino». In una seduta molto accesa del consiglio comunale, durante la quale si discuteva del consuntivo di bilancio del 2015 del Comune, davanti alle obiezioni insistenti di Chiara Appendino – la consigliera di minoranza che oggi lo sfida come candidata sindaco del Movimento 5 stelle – a un certo punto il sindaco democratico sbotta in uno dei suoi classici scatti e le fa: «Io mi sono seccato dei suoi giudizi presuntuosi, e anche fondati sull’ignoranza. Un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se sarà capace di fare tutto quello che oggi ha auspicato di saper fare». Lo disse roteando le mani a palme distese, gli occhiali da presbite nella mano destra, un gesto che fa spesso come a dire «via via, toglietevi di torno seccatori». Il momento avrebbe dovuto esser grave o almeno teso, in realtà quasi tutti scoppiarono a ridere; persino i consiglieri di maggioranza seduti nelle vicinanze del sindaco. Il quale poco dopo concesse, un po’ da sovrano assoluto come nelle costituzioni octroyées: «E comunque lo decideranno gli elettori». Il fatto è che la battuta calata dall’alto era troppo simile alla più sciagurata profezia politica della storia recente della sinistra italiana, che passerà alla storia, appunto, sotto il nome di «Prima profezia di Fassino». Era il 2009, l’ultimo segretario dei Ds era ospite della Repubblica quando, intervistato su Beppe Grillo che aveva chiesto di prendere la tessera del Pd in Sardegna, rispose: «Un partito non è un taxi sul quale si sale e si scende, è una cosa seria. Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende! Perché non lo fa?». Dopo, pare di poter dire, l’ha fatto. Ma sarebbe solo una battuta, quella di Fassino. Se non fosse che è sintomatica della sordità di un’intera generazione di dirigenti dell’apparato comunista italiano, e di un atteggiamento e un tic ca-ratteriale del sindaco del Pd. Alla fine il sindaco uscente si ricandida per guidare Torino, cosa che lui deve vivere già di per sé come una sconfitta, vista la considerazione che il personaggio ha di sé, e dopo esser stato virtualmente candidabile a tutto – dalla Consulta fino al suo sogno a qualcuno confessato: il Quirinale – ed esser rimasto con un pugno di mosche in mano; ma Fassino una forma di alterigia la eredita da tutta la storia, comunista d’apparato e poi postcomunista, da cui proviene: quella totale convinzione che «il partito siamo noi», «la sinistra siamo noi» e che «ciò che è fuori di noi è comunque nulla», nulla salus extra nostra moenia. A volte la declina in modi che possono far sorridere, oppure anche aggressivi verso chi gli capita a tiro, ma è un atteggiamento di fondo, che con il renzismo, in maniera solo apparentemente paradossale, si è sposato infine benissimo (i due si sono alleati in maniera singolare, ma persino naturale, e ci torneremo). Questo atteggiamento riemerge ciclicamente nella vicenda personale di Fassino, un fiume carsico, qualcosa che non riesce mai a tenere a bada e assomiglia da vicino a una forma di arroganza del potere. Fassino del resto ci è nato, se per potere intendiamo naturalmente la segreteria del Partito comunista, quando ancora era una cosa seria e a suo modo anche un po’ terribile, o ancora prima le scuole frequentate, i gesuiti a Torino, oppure dopo, da ragazzo e poi da giovane funzionario comunista, il rapporto con la fabbrica e con il mondo della grande azienda: ovviamente, la Fiat. Fu la vicinanza alla segreteria del partito, che coltivò fin da quand’era piccolino – e forse prima ancora la scuola dei gesuiti a Torino – che gli insegnarono qual era la sua collocazione naturale; quale che poi fosse, di volta in volta, quel potere, fino ad arrivare nei momenti più involutivi della sua carriera a una forma di accorta ma anche implacabile conservazione di un sistema di potere, qual è quello che lascia la sua gestione torinese. Un comunista ‘contro il comunismo’? Enrico Berlinguer aveva già messo gli occhi addosso a quel ragazzo e lo voleva alla guida della Fgci, poi lui rifiutò, come ha raccontato nella sua biografia Per passione, «aprendo così la strada» a Massimo D’Alema (Fassino, particolare interessante sulla sua psicologia, ha scritto una sua biografia quando aveva 54 anni). Il suo avvicinamento alla politica avviene nel ’64, con il gruppo di Aldo Agosti, la rivista Nuova Resistenza e poi il movimento studentesco, anche se Fassino – come i suoi compagni di scuola – sulla sua iscrizione al Pci si è riraccontato la storia a cui voleva credere: «Mi iscrissi al Pci dopo l’invasione di Praga, che il partito condannò. In questo senso ho detto che mi sono iscritto “contro il comunismo”: se quella condanna non fosse venuta, forse io non sarei arrivato». Insomma, se Veltroni non era mai stato comunista, Fassino fu comunista «contro il comunismo». E se è vero che è di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980 la foto che si porta più gelosamente dietro nei vari uffici che l’hanno ospitato, anche a Palazzo di città a Torino, bisogna pur dire che questa tendenza a riscrivere la propria storia lampeggia abbastanza spesso nella carriera di Fassino, assieme a quella parallela a cambiare opinione in base al mutare degli scenari. Il primo caso è abbastanza facile da illustrare: marcia dei quarantamila, Torino 1980. Il 26 settembre Berlinguer va a Torino e davanti ai cancelli a Mirafiori pronuncia la celebre frase sull’appoggio logistico del Pci una eventuale occupazione della Fabbrica. Il 27 ottobre cade il governo Cossiga e la Fiat trasforma i licenziamenti in cassa integrazione. Bene: se chiedete a Fassino, allora responsabile del Pci per le fabbriche, come andò quella trattativa, la sua risposta oggi è che «il Pci allora cercò di convincere il sindacato ad accettare l’offerta», una linea che «non passò per via del clima che si era creato». Insomma, come se lui fosse da sempre stato il grande riformista disposto al saggio dialogo coi poteri e la grande industria, «nell’interesse dei lavoratori». Se fate la stessa domanda a Fausto Bertinotti, che allora era segretario della Cgil piemontese, la storia diventa tutta diversa: «Se l’hanno pensato nelle segrete stanze del Pci se lo sono detto tra di loro. Io non l’ho mai sentito». Il secondo caso – i cambi d’idea anche repentini di Fassino – può essere illustrato con un salto in avanti che ci porta d’imperio ai giorni nostri. Di Fassino su Grillo abbiamo detto, non ha cambiato idea ma è stato profeta di sventura; ma bisognerà dire anche qualcosa di Fassino e Renzi, e di Fassino su Renzi. Nell’autunno del 2012, durante le primarie tra Bersani e l’allora sindaco di Firenze in vista della candidatura a premier alle politiche del 2013, Fassino si schierò senza esitazioni con Pierluigi Bersani, guarda caso il vincitore praticamente certo di quella primarie, avendo dietro di sé le coop, le regioni rosse e tutto l’apparato; Fassino, allora, andava dicendo cose assai tranchant sul rottamatore: «Renzi? Ha una grande capacità mediatica, ma penso che il paese abbia bisogno di una guida esperta e forte. Io sono per Bersani, che ha queste caratteristiche». Poi, nella primavera del 2013 – non un secolo dopo – in seguito alla «non vittoria» di Bersani, e a metà del guado della sofferta esperienza di Enrico Letta, Renzi era diventato d’incanto «l’uomo forte che rappresenta la capacità di novità». Lo disse al Foglio, che parve il luogo migliore per registrare la conversione di Fassino sulla strada del renzismo. Grande esultanza dei berlusconiani di quel giornale, che vedevano infine sdoganata la loro storia e trasferita sul piano della presentabilità sociale a sinistra. Il voto di Torino nella prossima primavera rappresenta l’ultimo capitolo di questa conversione, e di un patto di ferro tra Renzi e Fassino che ha fatto a un certo punto sperare, al secondo, nientemeno di poter giungere al Colle; ma a Renzi Fassino serve solo per blindare il sistema Torino, e questo è: prendere o lasciare. Se vogliamo ricercare e raccontare i prodromi, o almeno i segni anticipatori, di questo patto nella storia personale dell’ex segretario dei Ds, sono appunto in questa costante esperienza fassiniana dalla parte dell’esercizio del potere; unita a quella componente di esprit sabaudo che, anziché nella vocazione gobettiana o bobbiana, s’incarna nell’attitudine militare o militaresca, dunque nell’abitudine mentale all’obbedienza da ragazzi, e al dare ordini da vecchi. Fassino lavora tanto. Sgobba, anche. Il che lo rende piuttosto diverso dai comunisti e postcomunisti romani. Non si può dire sia refrattario ai potenti. La formula è «attitudine al dialogo»: «Io mi sono occupato di Fiat per diciassette anni, e ho sempre seguito la massima: “Quando in fabbrica c’è un problema o lo risolvi tu o lo risolve il padrone”. Insomma: mai tirarsi indietro e cercare sempre soluzioni». L’esito finale di questo approccio è stato un rapporto diretto con Sergio Marchionne, con il quale capita che si vada anche a cena, sempre nello stesso ristorante, la saletta riservata al Vintage; ma insieme sono stati avvistati, non una volta sola, anche in piazza dei Mestieri, la sede della Compagnia delle Opere. La Fiat e Cl. A suo tempo vi fu, anche, un certo annusarsi – sia pure più a distanza – con Giovanni Agnelli. Quando nell’83 Fassino venne eletto capo della federazione del Pci a Torino, disse che «l’avvocato Agnelli volle conoscermi appena venni eletto. Fu una lunga chiacchierata, molto simpatica. Mi disse: “Senta Fassino, io capisco tutto. A Torino ci sono tanti operai e voi siete il partito che li rappresenta. Ci scontriamo, ci mettiamo d’accordo, capisco tutto: comunista Torino, comunista Milano, ci sono le fabbriche. Ma una cosa non capisco: perché ci sono i comunisti a Roma e a Napoli?”». Dalle chiacchierate «molto simpatiche» col sovrano al canale con Sergio Marchionne il passo è stato persino più breve del previsto. Torino si è sempre governata presidiando i vertici di questo triangolo: il Pci, la Fiat, la procura. La borghesia intellettuale della città non ha fatto altro che fare il pendolo, alternativamente, dentro questo triangolo. Gli anni del terrorismo hanno costruito uno schema che poi nel tempo s’è modificato, ma non distrutto; diciamo che s’è aggiornato. Ma a Torino la Procura ha rappresentato un elemento di questo scenario, più che un fattore di rupture, reale o possibile, come a Milano – dagli anni di Tangentopoli a oggi. L’uomo-sistema E dire che la partenza familiare del sindaco conteneva premesse potenzialmente diverse. Il nonno materno, Cesare Grisa, socialista, e sindaco di Almese, il padre, Eugenio, capo partigiano. Il nonno paterno, Piero, ucciso dalla Brigate Nere. Anche Eugenio, suo padre, morì giovane, nel ’66, quando Fassino aveva solo 17 anni. Lo avvisano i suoi insegnanti gesuiti, e la condizione di orfano non può non aver pesato, psicologicamente, in questa biografia. C’è però un altro particolare curioso, in questa provenienza così antifascista e valsusina, di cui indirettamente bisognerà tenere conto: Fassino ha raccontato al Corriere: «Papà è stato il mio maestro di politica. Era amico di Craxi ma militava nella piccola corrente giolittiana». Bettino Craxi di cui proprio Fassino – da segretario dei Ds – avviò una sciagurata riabilitazione a sinistra. Ida Dominijanni a inizio 2006 scriveva: «Piero Fassino ha ribadito in questi giorni la sua rivalutazione del “politico della sinistra”, del “rivitalizzatore del Psi”, del primo leader ad aver intuito “il bisogno di modernizzazione economica e istituzionale” dell’Italia, dell’uomo di Stato che seppe decidere su Sigonella e sulla scala mobile; una mole di meriti che rende davvero imperscrutabile perché, come lo stesso Fassino ammette, il Pci-Pds-Ds-Pd abbia reso possibile farne il “capro espiatorio” di quel sistema di finanziamento illecito dei partiti sul quale “mancò allora una seria riflessione”». Lo studente dei gesuiti, il diciassettenne orfano di papà, il funzionario comunista, il politico di manovra, il segretario diessino, il rivalutatore di Craxi, l’alleato di Bersani e subito dopo di Renzi, il costruttore di una rete di potere che è quella della Torino 2016, delineano un prisma che però si unifica in un tratto: più che quello del «grande riformista», quello dell’uomo-sistema, e una fortissima ambizione sabauda, sia pure celata dai panni del gregario, dell’«onesto Fassino», del «Piero che a Roma arriva a Botteghe Oscure all’alba», o del Piero che a Torino negli anni Settanta aveva il vezzo di mettere le sedie a posto dopo le assemblee del Pci. Pochi lo ricordano, ma in tutti questi anni Silvio Berlusconi, di cui è stato straraccontato il celebre «inciucio» con D’Alema sulle riforme e sulla tv, è stato a un congresso postcomunista soltanto quando il segretario era Fassino. Accadde a Firenze, nel 2007. Fassino presentava la mozione «Per il partito democratico». Antiche amicizie – quella sua e soprattutto di D’Alema, per esempio, con Fabio Mussi o con Gavino Angius – si rompevano, e chi c’era quel giorno incredibilmente ad applaudire il segretario Piero? Silvio Berlusconi. Gli piacque molto il discorso di Fassino, il partito retto da quel piemontese di Avigliana gli riservò un’accoglienza discretamente calorosa e il Cavaliere alla fine sottolineò la «volontà coraggiosa» di Fassino, il tratto ormai compiutamente socialdemocratico dell’ormai imminente Pd che si delineava, fino a concludere: «Se è questo, al 95 per cento sarei pronto a iscrivermi pure io». Lo incrociammo mentre stava risalendo in macchina e il Cavaliere fu ancora più prodigo: «Vede, questa gente non mi odia, anche il loro segretario mi ha conosciuto e non mi odia più, chi mi conosce non mi può odiare». ‘Abbiamo una banca’ Che fosse in atto una mutazione politica del mondo del comunismo italiano era evidente da un pezzo, che ce ne fosse un’altra, per dirla pasolinanamente, antropologica, e dal punto di vista sabaudo, anche umana, non era così palese; almeno non nelle proporzioni. Nessuno in quei giorni ricollegò quegli elogi di Berlusconi, o la revisione del craxismo, col fatto che «l’onesto Piero» s’era incagliato, neanche un paio di anni prima, nel caso dell’«abbiamo una banca». Il 31 dicembre del 2005 il Giornale pubblicò il testo di alcune telefonate di Fassino con Giovanni Consorte, il manager Unipol che stava dando la scalata a Bnl (non distante da una parallela, grottesca scalata dei furbetti del quartierino Ricucci e Coppola nientemeno che al Corriere della Sera), e fece sensazione che Fassino – che non commise nessun illecito, non fu neanche indagato e anzi, si costituì parte civile e ottenne ragione per la pubblicazione della telefonata da parte del quotidiano di Paolo Berlusconi – con quell’«abbiamo una banca» si mostrasse anche linguisticamente così succedaneo e, ora sì, gregario, a miti e tic di un rampante capitalismo da razza padana, o addirittura razza furbetta. Dieci anni dopo i tempi dell’«unica merchant bank dove non si parla inglese» (la Palazzo Chigi attorno a Massimo D’Alema, nella celebre battuta di Guido Rossi), la sinistra dell’«abbiamo una banca» aggiungeva una variante tragicomica e altrettanto suicida, con quella battuta. La destra ovviamente la cavalcò e ci andò a nozze. Ma in quel che restava di una sinistra che avesse ancora a cuore il concetto di democrazia radicale, la cosa non poteva piacere né esser scusata. Barbara Spinelli, che per D’Alema aveva usato l’espressione di «disincanto etico», per Fassino scrisse che era un caso di «inebetita ignoranza». Da un certo punto di vista, grave più di un reato. Fassino fu sempre restio ad ammettere l’errore. Disse, al massimo: «Penso che ci sia molta cattiveria e ingenerosità nel modo in cui vengono utilizzate delle telefonate del tutto innocue. Io posso forse accettare di discutere dell’opportunità di quelle telefonate, ma non costituiscono certo né un reato né alcuna forma di illecito». Posso «forse». Le banche non erano un pallino di un momento. Se c’è una partita sulla quale, saltando per un momento all’oggi, il sindaco uscente si gioca tutto è appunto l’asse che dal comune porta a Intesa San Paolo, passando per la sua fondazione, Compagnia di San Paolo. Il comune che Fassino e soprattutto, prima di lui, l’assessore al Bilancio della giunta precedente, Gianguido Passoni, lasciano in dote al futuro è gravato di una mole preoccupante di debiti, che oggi è a quota 2,9 miliardi. Un indebitamento che grava tantissimo sulle casse del comune, costringendolo a tagli dolorosi anche nelle politiche sociali e ipotecando qualsiasi politica. Fassino ha motivato questa scarsità di risorse con la situazione di crisi generale, i vincoli di bilancio, i tagli dei trasferimenti decisi (anche) dal governo Renzi, senza mai menzionare o ridiscutere la politica di investimenti in derivati fatta dalle giunte precedenti del Pd. Ma è interessante notare come si è attrezzato per fronteggiarla: da una parte, rigorismo massimo nei conti e taglio drastico anche in servizi essenziali – perfino un’antica eccellenza torinese, come i nidi scolastici, è ormai assediata dalla carenza di risorse e con un rapporto educatori-bambini che comincia a sfiorare l’uno a sei. In alcuni nidi storici della città, per l’impossibilità economica e normativa di gestire il turn-over degli insegnanti, si può arrivare alla situazione limite: classi di 18 bimbi con due sole educatrici, uno stato di cose insostenibile e potenzialmente pericoloso. Dall’altra, c’è stato un asse sempre più stretto e ormai sempre più amicale – considerando che stiamo parlando di una città che ormai non arriva al milione di abitanti, quindi un piccolo salotto, un bellissimo centro, circondato da periferie impoverite e spaesate – col grande potere bancario della città, la Compagnia di San Paolo, primo azionista della prima banca italiana, e il più grande investitore sul territorio. Le cifre le dà l’attuale presidente, Luca Remmert, quando dice che la «Compagnia anche nell’ultimo anno è stato attore fondamentale del territorio con oltre 153 milioni di euro di stanziamenti per il 2016». In pratica non c’è quasi attività nella ricerca, nella formazione, nella scuola, persino nella salute, che a Torino di fatto non sia finanziata dalla Compagnia, anziché dal comune, la cui spesa se ne va di fatto quasi esclusivamente per la pura gestione ordinaria. Ecco perché detenerne le chiavi significa controllare il futuro politico del comune, quale che sia il sindaco che uscirà vincitore dalle urne. E qui, inesorabilmente, il sistema torinese si è compattato, facendo scudo all’idea che potesse non vincere il partito-sistema. Col pretesto che il consiglio della Compagnia andava in scadenza, e sostenendo che fosse impossibile rimandare le nomine (l’indicazione del presidente spetta per prassi al sindaco di Torino), Fassino ha iniziato una serie di pour parler il cui risultato, espresso a qualche importante interlocutore cittadino, era l’intenzione di nominare alla guida della Compagnia Francesco Profumo, rettore del Politecnico, grande amico di Fassino, e jolly del Pd in tutte le partite di potere sabaude (a un certo punto si era anche pensato di poter candidare lui, nel 2010, poi prevalse Fassino). Piccolo particolare: Profumo era già presidente di Iren, la potente società municipalizzata dell’energia di Torino, Genova e dell’Emilia, una spa quotata in Borsa (nel 2014 ricavi per 2,9 miliardi) ma anche, per vincolo statutario, a controllo pubblico. I comuni, con Torino in testa, ne decidono i vertici, e Iren a sua volta ne finanzia molte attività, con sponsorizzazioni e progetti di marketing territoriale (12 milioni nel 2014). Ecco perché il controllo di Iren e della Compagnia e l’influenza su Intesa Sanpaolo sono così strategici. Detenere, con Profumo, anche le leve dell’investimento cittadino della Compagnia avrebbe delineato un conflitto d’interessi improponibile, ma l’idea era di sondare la cosa, e magari tentarci nel più assoluto silenzio. Una denuncia di Giorgio Airaudo, che corre con una lista alternativa al Pd, e potrebbe «riaprire la partita» costringendo Fassino a un ballottaggio difficile – denuncia alla quale si è associata Chiara Appendino, la candidata 5 stelle – e soprattutto un’inchiesta della Stampa, hanno poi costretto Fassino ad annunciare che Profumo se voleva salire in Compagnia avrebbe dovuto lasciare la guida di Iren. Raccontano a Torino che un paio di giorni dopo, il sindaco fosse infuriato con Profumo, che gli aveva nascosto di essere, anche, candidato alla presidenza del Cnr. Mentre Profumo, che dopo l’inchiesta della Stampa s’è chiuso nel più totale silenzio, era arrabbiato perché Fassino non gli aveva detto niente di quell’uscita pubblica (che in effetti non era concordata) sul conflitto d’interessi del rettore. Quel giorno, a Torino, c’era con Remmert anche Giovanni Bazoli, che passeggiava ammirando le opere pittoriche della Quadreria all’educatorio Duchessa Isabella della Compagnia di San Paolo in piazza Bernini. E, un po’ distante, il segretario della Compagnia, Piero Gastaldo, legato a Sergio Chiamparino, desideroso di giocare anche lui una partita. Il Partito della nazione in salsa sabauda In generale, il sistema della fondazioni culturali rappresenta uno dei luoghi opachi dello spoils system della città: stipendi, superstipendi, criteri di nomine, tutto finisce quasi sempre appannaggio dello stesso giro di persone, più o meno dai tempi di Valentino Castellani: centoventi bocche che si spartiscono incarichi ben pagati, e non particolarmente faticosi. Chiara Appendino, la candidata dei 5 stelle, ha promesso: «Andremo a vedere tutto, il comune farà una conven-zione: per dare soldi alle fondazioni, loro dovranno rispettare criteri di trasparenza, bilancio, costi del personale. Oggi non esiste nulla, arbitrio puro. Inaccettabile, per dire, che un consigliere nominato prenda uno stipendio più alto dei manager comunali». In questi in-carichi di solito il 70 per cento va alla maggioranza (di centro-sinistra), ma un lauto 30 all’ormai palesemente finta opposizione di centro-destra. Finta perché questa volta Fassino – per fronteggiare il rischio di una perdita dei voti a causa della lista di Airaudo – ha spinto oltre ogni limite la sua disponibilità manovriera: si è alleato con una serie di liste che vanno da quella di «sinistra» (diciamo) dell’ex assessore al Bilancio, a quel che resta dell’Italia dei valori, fino al sostegno esplicito di Enzo Ghigo (l’ex proconsole di Berlusconi a Torino) e di Michele Vietti, l’amico di Angelino Alfano, crocevia degli studi avvocatizi della città. La versione torinese del Partito della nazione di Renzi. Questa è insomma la Torino di Fassino, la Torino che Renzi non può permettersi di perdere perché in altre città rischia ancora di più, e perdere qui sarebbe una Caporetto definitiva; e queste alcune delle sue dinamiche non note allo sguardo più distratto, le tipiche dinamiche di un sistema di potere chiuso, che non riguarda però una bega cittadina, ma il controllo della prima banca italiana, sull’asse Torino-Milano, i conseguenti assetti di potere che ne possono derivare. Contestuale alla nomina in Compagnia ci sarà quella in Intesa San Paolo, dove l’idea è riconfermare Gian Maria Gros-Pietro. In questo quadro le elezioni torinesi sono solo un elemento della fotografia, e neanche il principale. La scena è dominata dai soldi, ipotecata dalle nomine in scadenza di mandato, offuscata da un patto cinico tra il rottamatore e l’ex studente dei gesuiti, che ha scelto di farsene perno. Una sera di carnevale del 2002, in piazza Navona a Roma, Nanni Moretti pronunciò la sua invettiva politica più famosa, «con questi dirigenti non vinceremo mai!», e fece pure il gesto di indicarli. La frase, storicamente, fu appioppata a D’Alema, ma pochi sanno che in prima fila a Roma, quel giorno, in corrispondenza del dito di Moretti c’era proprio Piero Fassino. (28 aprile 2016) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-comunista-piero-dai-gesuiti-a-marchionne/ Titolo: JACOPO IACOBONI. - Rodotà: quando i referendum diventano un boomerang Inserito da: Arlecchino - Luglio 01, 2016, 05:29:10 pm Rodotà: quando i referendum diventano un boomerang
Il giurista smonta il mito della democrazia referendaria: “L’errore di Cameron è stato usare la consultazione per fini politici, attenti a non ripeterlo anche in Italia” Stefano Rodotà: «Il referendum senza vera informazione diventa una distorsione. I costituenti italiani erano stati più accorti, previdero una lunga fase, dall’inizio della campagna referendaria e il voto, che generalmente va da gennaio a giugno» 27/06/2016 JACOPO IACOBONI ROMA «Questo referendum è stato brandito da Cameron per ragioni interne al suo partito, un uso del tutto strumentale di uno degli istituti giuridicamente più delicati. Ma così facendo il referendum diventa - da strumento di democrazia diretta e partecipazione - lo strumento distorcente di un appello al popolo, peraltro un popolo disinformato. E muore». Professor Rodotà, la vicenda del referendum sulla Brexit - e oggi i tre milioni di firme, il premier scozzese Sturgeon che prova a fermare l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, e anche molti laburisti che ricordano che dovrà comunque decidere un voto del Parlamento - ecco, tutto questo logora definitivamente il mito della democrazia referendaria? «Una situazione analoga a quella attuale si creò in Francia nel 2000, all’epoca del referendum sul trattato costituzionale. Io, da estensore della Carta dei diritti fondamentali, partecipai a quella campagna referendaria francese; ero a favore del sì, consapevole dei limiti di quel testo, e mi trovai dinanzi anche tanti amici socialisti francesi, gente con cui avevo collaborato alla stesura, che mi dicevano “eh no, votiamo no perché Fabius...”, “eh no, votiamo no perché l’idraulico polacco...”. Anche allora, come oggi in Inghilterra, il referendum fu strumentalizzato neanche per interessi nazionali, per interessi di un partito. È il primo punto da capire». Qual è il secondo? «Proprio nella carta dei diritti, giugno ’99, ma anche nel Trattato di Lisbona, si scrisse che fondamentale non è solo il “mercato comune”, ma la costruzione di un “popolo comune” europeo. L’Unione avrebbe fallito se fosse rimasta alle procedure economiche, senza creare procedure di legittimazione popolare, cioè senza la politica. Il caso Grecia è stato esemplare. Il principio di solidarietà, che è nel trattato di Lisbona, è stato ridotto all’interesse nazionale; il “popolo comune” non è mai nato». L’informazione e il sistema dei media non sono stati complici? Il referendum sulla Brexit è stato costellato di bugie scandalose, si è lasciato dire a Johnson che in caso di uscita dall’Ue in Gran Bretagna sarebbero calati d’un colpo i migranti di 350mila unità... «Il referendum senza vera informazione è una distorsione. I costituenti italiani erano stati più accorti, previdero una lunga fase, dall’inizio della campagna referendaria e il voto, che generalmente va da gennaio a giugno». Il Labour ora si appella a un voto del Parlamento, ma la strumentalizzazione di cui Cameron è stato campione forse non ha lasciato del tutto indenne Jeremy Corbyn, troppo silenzioso, non trova? «Corbyn ha pensato che non gli conveniva fare campagna dura per il Remain, perché in qualche modo il Remain avrebbe vinto comunque, sia pure di poco, e lui non si sarebbe alienato i voti dei più scontenti. Ma questo è un altro modo di strumentalizzare il referendum, piegare un istituto delicatissimo a calcoli interni a un partito». Non pensa che bisogna essere meno ottimisti, a questo punto, sull’idea di democrazia diretta, referendaria? In Italia questa idea è agitata molto soprattutto dalla propaganda M5S. «Io, tolto quello del 2 giugno, i referendum li ho fatti tutti, e obiettivamente c’è un degrado. Ci sono anche esempi di referendum positivi, che hanno aumentato la partecipazione, penso a quello sull’acqua. Ma un referendum male usato produce un effetto divisivo fortissimo: il rischio qui è creare non uno, ma due popoli europei totalmente separati». Andiamo verso un referendum italiano in cui penso si scontrino due propagande, quella di Renzi, palese, e quella del M5S, meno denunciata. È possibile, in questo quadro, aspettarsi qualcosa di buono? «Ormai l’ambiente informativo è molto più sensibile alle suggestioni, e alla propaganda, di quanto non fosse anche nel passato recente. Siamo, direbbe il titolo di un bel libro di Emilio Gentile, in una Democrazia recitativa, in cui è più la recita che l’informazione. In questo quadro il referendum, da forma di democrazia diretta dei cittadini, si trasforma nell’appello al capo e alla folla. Renzi ha commesso l’errore di cavalcare questo quadro, che gli si può ritorcere contro». Oltre al Capo, infatti, c’è la Folla informe, diceva Canetti. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/06/27/italia/politica/rodot-quando-i-referendum-diventano-un-boomerang-JuXpMSRHAkJH5mE0mawMrL/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Il Manuale Cencelli del M5S. Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2016, 12:46:38 pm Il Manuale Cencelli del M5S.
La corrente Lombardi e la zona grigia contro Virginia Documento esclusivo: Urbanistica, Patrimonio, Bilancio tutti i nomi nelle Commissioni per accerchiare la Raggi La sindaca è alle prese con le difficoltà di far quadrare giunta, capo di gabinetto, portavoce. E nelle commissioni è osteggiata dalla cordata Lombardi (che trova convergenza d’interessi con Di Maio), e deve mediare con quella centrale, e quella dei talebani 04/07/2016 Jacopo Iacoboni Roma La partita dell’accerchiamento a Virginia Raggi, che abbiamo denunciato per tempo giovedì e venerdì, è giunta a due nodi cruciali: le nomine delle commissioni, vero asse del potere e sottopotere capitolino, e un attacco molto forte sferrato contro Daniele Frongia, da poco nominato capo di gabinetto e già in bilico. Sulle commissioni, La Stampa è venuta in possesso di un documento notevole, una specie di manuale Cencelli con tutte le caselle, di cui possediamo copia, che fotografa quanto sia accerchiata in questo momento Virginia Raggi. Un Cencelli di cui daremo tutti i nomi, e la spiegazione delle dinamiche di fondo ad essi sottese. Il punto di fondo è che la Lombardi (la ex Faraona tornata molto in spolvero, bisogna dargliene atto, e capace di legare con Luigi Di Maio) ha messo gli occhi su tre commissioni chiave: Urbanistica, Patrimonio e Casa e Bilancio. Nella prima ha stravinto: Virginia incassa, sì, la presidente, Donatella Iorio, architetto competente ma non politicamente abilissima, ma circondata da figure o lombardiane, o di quella vasta zona grigia - la corrente centro Movimento - abbastanza disponibile a trattative politiche al ribasso. Simona Ficcardi è della corrente Marcello De Vito (il braccio armato della Lombardi). Daniele Diaco, bravo ragazzo, tende però a seguire le indicazioni di Luca Marsico. E chi è Luca Marsico? Ex aspirante sindaco, voleva sfidare De Vito ma fu a suo tempo silurato brutalmente dalla Lombardi. Con queste modalità: salì a Nervi da Grillo portandosi il figlio piccolo. L’incontro fu assai umano e finì a pacche sulle spalle. Seguì giro di telefonate da Roma a Milano e Genova, risultato: Marsico, dopo l’incontro assai umano, fu silurato selvaggiamente, eppure oggi è diventato esecutore della Lombardi; una triste vicenda sintomatica delle dinamiche umane nel Movimento. Annalisa Bernabei è un caso incredibile: da non molto nei cinque stelle, ha rinunciato alla corsa da sindaco e preso poi un boom di voti personali per una new entry; come se avesse ricevuto grossi consensi di legittimi gruppi d’interessi. Poi c’è Fabio Tranchina: durante il confronto su Sky, Roberto Giachetti denunciò il video del consigliere M5S che abbandona la commissione municipale subito dopo aver firmato la presenza. Tranchina ha resistito a quella bufera su di lui, è considerato nelle logiche interne un centrista - esistono i centristi anche nel M5S - molto disponibile alla trattativa. E questa sarà la commissione urbanistica del nuovo comune. Alla presidenza della commissione Patrimonio e casa doveva andare Valentina Vivarelli, una talebana, rigida ma indipendente; si è scambiata con Maria Agnese Catini, nome molto più giocabile per la Lombardi, che presidia poi i sei posti per commissario del M5S anche con Marcello De Vito in persona, e di nuovo con la Ficcardi (che sarà oltretutto vice). Alla commissione Bilancio il presidente Marco Terranova è della Raggi, ma è anche legato a Luca Marsico (leggete sopra). Lombardi piazza anche qui De Vito, e c’è Monica Montella, ricercatrice Istat ma in rotta con Daniele Frongia (l’uomo più vicino alla Raggi). Anche qui grandi margini di manovra per la Faraona (gli altri nomi non paiono in grado di incidere, Coia non versato nelle decisioni, Angelo Sturni appartenente - con Calabrese e Angelo Diario - a quella corrente “utopica” del Movimento molto rispettabile, ma poco incisiva nelle dinamiche). In questo quadro, sa di vittoria marginale che Virginia si sia assicurata quasi integralmente la commissione scuola (Maria Tereza Zotta presidente) con commissari suoi come Terranova e Iorio, e indipendenti come Vivarelli e Gemma Guerrini, una di sinistra; specie se pensiamo che poi, per dire, all’Ambiente (altra commissione cruciale, a Roma) ci sarà Diaco presidente (leggete sopra), e certo sarà assai attivo Paolo Ferrara, consigliere M5S di Ostia, molto discusso, e interessatissimo indovinate a cosa? Naturalmente, alle spiagge. Ferrara, uomo totalmente della corrente Lombardi, è stato tra parentesi assai attivo in queste ore a fare telefonate per sondare la disponibilità di qualche personaggio a fare il capo di gabinetto. Ma come, direte, un capo di gabinetto non c’è già? A Daniele Frongia, lo possiamo dire con certezza, è stato chiesto di entrare nella giunta, con una carica di assessore alle partecipate. È difficile che finisca per fare quello, sarebbe troppo un downgrade, per uno che era stato già nominato capo di gabinetto. Ma insomma, la dinamica è chiara: l’asse che parte da Lombardi e trova sempre più ascolto in Di Maio non si fida della sua estraneità alla cordata. Frongia vicino alla Raggi rende Virginia troppo slegata; stessa ragione per cui Augusto Rubei, il candidato naturale designato a fare il portavoce, è stato calunniato dai nemici di Virginia. La contromossa Virgi non ce l’ha, a meno che non sia stata in un incontro a cena, sabato sera, Raggi-Di Maio. Da soli. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/07/04/italia/politica/il-manuale-cencelli-del-ms-la-corrente-lombardi-e-la-zona-grigia-contro-virginia-KBwvzSQ6Nj8BBkcylGLNHN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Le star della politica mediorientale grillina Inserito da: Arlecchino - Luglio 12, 2016, 11:45:04 am Gli antisionisti, i complottisti, i filo-Hamas.
Le star della politica mediorientale grillina Da Di Stefano a Sibilia, da Bernini a Vignaroli. Partendo dal leader “Dibba” 11/07/2016 Jacopo Iacoboni Nel luglio del 2013, all’epoca della prima visita in Israele di una delegazione M5S, il neoeletto deputato del Movimento Manlio Di Stefano postò su facebook una suggestiva foto e, sotto, il commento: «Buongiorno Palestina». La foto però era Gerusalemme, non Ramallah. Naturalmente quella missione fu assai diversa da quella di oggi; era una delegazione di neodeputati senza pressioni, quasi increduli di esser lì, anche allora c’era Manlio Di Stefano, e poi Stefano Vignaroli, Paola Carinelli e Maria Edera Spadoni. Quel viaggio segna un punto di partenza di una storia che in questi tre anni ha avuto diversi apici, la storia dei terzomondismi e della geopolitica mediorientale più spensierata che l’Italia recente ricordi. Nel Movimento cinque stelle, da molto prima dell’ascesa di Luigi Di Maio a candidato premier in pectore - con le conseguenti svolte sull’euro, sull’uso dei soldi, sulla tv, forse sul doppio mandato -, la politica estera è stata da sempre appaltata al gemello-rivale di Di Maio, Alessandro Di Battista, insediato nella commissione eteri, e a una cordata di parlamentari che non si sono fatti mancare ogni genere di spericolatezza verbale delle posizioni. Israele è spesso stato un loro bersaglio, ma si sono udite uscite scivolosissime sull’Isis, virtuosismi linguistici sull’Iraq, frasi non adeguatamente pesate su Hamas. Ogni viaggio è stato sempre al limite dell’incidente diplomatico, o ha tessuto relazioni che andranno indagate meglio (come la partecipazione recentissima, sempre di Di Stefano, al congresso di Putin a Mosca). Occasioni esterne, come una visita del Dalai Lama alla Camera, si sono tramutate in spunti teatrali per mostrarsi rivoluzionari: come quando, intrufolatosi con Alessio Villarosa al cospetto del leader tibetano, che smozzicò una frase sulla corruzione in Cina, Di Battista gli fece: «È lo stesso in Italia. Stiamo combattendo la stessa battaglia che fate voi». In favor di telecamera. Di Battista, che in un ipotetico governo cinque stelle sarà il candidato alla Farnesina, conquistò i riflettori per un ragionamento di questo tenore sull’Isis: «Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana». Il terrorismo, scrisse sul blog di Grillo, resta «la sola arma violenta rimasta a chi si ribella». Paolo Bernini, deputato noto per le prese di posizione contro le scie chimiche, disse al Corriere: «Io sono antisionista. Per me il sionismo è una piaga». Vignaroli comunicò: «Eccomi a Gerusalemme, città della pace dove l’uomo occupa, separa, violenta». La critica ai governi israeliani è scivolata, insomma, molto spesso in zone sdrucciolevoli. Nel luglio 2014 sempre Di Stefano e Sibilia presentarono un’interrogazione per chiedere l’interruzione delle commesse militari con Israele. Il primo dei due scrisse, sul blog di Grillo, un passaparola che spiega il conflitto israelo-palestinese attribuendolo tout court al sionismo: «Comprendere a fondo il conflitto israelo-palestinese significa spingersi indietro fino al 1880 circa quando, nell’Europa centrale e orientale, si espandevano le radici del sionismo». E sul sionismo Bernini assurse a vette complottiste: «L’11 settembre? Pianificato dalla Cia americana e dal Mossad aiutati dal mondo sionista», disse alla Camera. A chi di recente gli chiedeva se Hamas per lui è terrorista o no, Di Stefano ha risposto: «È una questione secondaria, in questo contesto. I militanti di Hamas dicono: preferiamo morire lottando che continuare a vivere in una gabbia. Per definirli come terroristi o meno dovremmo vederli in una situazione di libertà. Cosa che in questo momento non hanno». Già nel 2014 i cinque stelle formularono varie proposte di interruzione dei rapporti commerciali fra Italia e Israele. Ieri si sono limitati a dire che «non facciamo accordi sui prodotti che vengono dalle colonie israeliane dei Territori». Luigi Di Maio pare assai distante da tutto questo, ma allora la visita è stata organizzata un po’ alla svelta, e qualcuno nel Movimento, con quei compagni di viaggio, gli ha teso uno sgambetto, lungo la via dell’accreditamento in Israele. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/07/11/italia/politica/gli-antisionisti-i-complottisti-i-filohamas-le-star-della-politica-mediorientale-grillina-KOlTnbsqX3LOpqSEQNB5zO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. Napoli e Roma, rivolta nel M5S. - (IL PARCO GIOCHI DEI 5STELLE) Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2016, 11:55:36 am Napoli e Roma, rivolta nel M5S.
Gli espulsi reintegrati: “Chiediamo l’assemblea nazionale” Pizzarotti si sfoga coi suoi: inutile restare dove ti cacciano 18/07/2016 Jacopo Iacoboni Roma Ora gli espulsi del Movimento reintegrati a Napoli e guidati da Luca Capriello chiedono un’assemblea di tutti gli iscritti d’Italia. Lo annunceranno giovedì in conferenza stampa. «Vogliamo un’assemblea nazionale di tutti gli iscritti da tenersi a Roma dopo l’estate», spiega Roberto Motta, storico militante romano, ex braccio destro di Roberta Lombardi, l’uomo che ha collaborato a lungo alla stesura dei suoi testi di legge. Motta era uno di quelli che avevano preso alla lettera la storia del Movimento «assembleare e partecipativo», e per farla breve, dopo una serie infinita di scontri su tante vicende romane è stato infine espulso assieme a un’altra trentina di attivisti romani, prima delle ultime elezioni comunali (era uno che poteva entrare nella cinquina degli aspiranti sindaci). Altri due avevano fatto con lui il primo ricorso a Roma, ottenendo il reintegro sul portale. I romani sono difesi da Lorenzo Borrè, lo stesso avvocato dei napoletani: a Napoli il meet up era stato azzerato da Fico e Di Maio due giorni prima delle votazioni - trentasei espulsi, 23 dei quali hanno fatto ricorso. Ora tutti sono stati reintegrati dall’ordinanza del Tribunale. Insomma, a Roma e a Napoli i dissidenti si sono collegati. Hanno adesso vari strumenti per creare problemi giuridici, economici, politici al M5S centrale, la Casaleggio e il direttorio. La risposta che preparano il direttorio (e Davide Casaleggio) è opposta: cogliere la palla per azzerare apertamente il Non-Statuto, dotandosi di uno statuto da “partito”, non da “movimento”, e sancendo anche de iure la metamorfosi (o tradimento di Gianroberto, dipende dai punti di vista) che raccontiamo da due anni. Gli espulsi però attaccano. Motta sostiene: «Fico e la Lombardi non possono dire “valuteremo quali modifiche fare”, “risolveremo il problema senza aspettare i giudici”, perché il problema stabilito dal tribunale è proprio quel “noi”: chi è che risolverà, la Casaleggio? Il direttorio? Ma nessuno di questi soggetti, hanno detto i giudici, è titolato a prendere decisioni sulle espulsioni. Solo l’assemblea può decidere modifiche statutarie. E perciò noi ora vogliamo un’assemblea». I ricorsi cominciano a moltiplicarsi: sono tutte micce che accenderanno precedenti giuridici, dopo quello di Napoli. C’è un ricorso a Bruxelles, due a Messina, cinque in Abruzzo, mentre da Parma Marco Bosi, capogruppo di Pizzarotti nel Consiglio comunale, è in contatto con l’avvocato di questa rivolta romano-napoletana. Pizzarotti è sul depresso, ai suoi ha detto «inutile restare in un Movimento che ti caccia», ma sa anche che le sentenze cominciano a favorirlo. A Quarto una celebre espulsa, la sindaca ex M5S Rosa Capuozzo, si toglie vari sassolini dalla scarpa. Il Movimento la cacciò dopo averla messa alla gogna a corrente alternata e tardivamente, ma lei non è neanche indagata nella vicenda del presunto voto di scambio che ha lambito un consigliere grillino, e ora ci dice: «Il direttorio dovrebbe andare a casa, dopo questa sentenza. È un organismo che non è mai stato eletto e dovrebbe, invece, essere scelto dalla base, dagli associati». In realtà, spiega meglio l'avvocato Borrè, secondo il non-Statuto dell’associazione originaria (quella del 2009), all’articolo 4 si dice chiaramente che la democrazia «diretta e partecipativa» del Movimento non prevede «corpi intermedi», quale appunto il direttorio sarebbe. Di qui la possibilità che qualcuno ricorra anche contro Fico-Di Maio-Di Battista-Ruocco-Sibilia, mettendo tecnicamente fuorilegge la costola centrale del M5S. Capuozzo dice: «Non chiederò di rientrare in questo momento, perché il Movimento come è gestito ora è senza una democrazia veramente partecipata». Quella, di certo, non possono assicurarla ordinanze e sentenze. Ma altri - magari qualcuno dei parlamentari espulsi - potrebbero farlo. Un’assemblea - che naturalmente mai si farà - sarebbe epocale. Sugli iscritti al Movimento non si hanno cifre certe; nel settembre del 2013 il blog parlò di 80mila iscritti certificati, e 400mila in tutto «in via di certificazione». Gianroberto Casaleggio confermò queste cifre a Imola nel 2015. Negli anni fondativi, quando in pochi vedevano ciò che stava nascendo, Casaleggio ripeteva come un mantra «il Movimento è le sue regole»: ma senza, cos’è? Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. C-I gratuito Da - http://www.lastampa.it/2016/07/18/italia/politica/napoli-e-roma-rivolta-nel-ms-gli-espulsi-reintegrati-chiediamo-lassemblea-nazionale-wOlHeUFkHXhEIxWmbay5KK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Raggi frenata, a settembre incontrerà Renzi per ristrutturare Inserito da: Arlecchino - Luglio 20, 2016, 05:19:49 pm Raggi frenata, a settembre incontrerà Renzi per ristrutturare il debito di Roma
Bilancio del primo mese della sindaca, accerchiata dai poteri della Capitale e dalle lottizzazioni dei suoi rivali nel Movimento 19/07/2016 Jacopo Iacoboni Roma Virginia arriva con la pioggia, si potrebbe dire parafrasando un grande romanzo di Alvaro Mutis. Nel senso che per vedere il cambiamento promesso in modo tanto roboante dal Movimento a Roma, se va bene, bisognerà attendere l’autunno. Se cambiamento arriverà. Il primo mese della Raggi sindaco è stato un tormento in primis per lei; è quasi come se lei - che ieri festeggiava anche il compleanno (a casa: mazzi di rose e niente feste su barconi sul Lungotevere) - non fosse ancora davvero partita. LEGGI ANCHE Regole, complotti e welfare: l’Italia M5S nelle 514 proposte di legge Zero delibere all’attivo. La prima riunione vera di giunta che arriverà solo oggi (dedicata all’assestamento del bilancio; seguirà incontro con Tronca). Il reddito di cittadinanza, mega promessa elettorale, che ovviamente non si potrà fare a breve (prima bisogna, appunto, vedere bene il bilancio comunale). Raggi sta cercando di muoversi per incontrare Renzi e Padoan, e ottenere la collaborazione del governo sulla ristrutturazione del debito di Roma: una partita poco appariscente ma su cui si gioca tantissimo, e lei non è stata male. La giunta è nata però con estrema fatica. Raggi ha subìto pressioni forti; interne, dal M5S, ed esterne: tutti, da Davide Casaleggio a Di Maio alla Taverna a Di Battista, le hanno piazzato uomini. Il suo capo di gabinetto designato, Daniele Frongia, è stato impallinato dalla Lombardi (Raggi ha resistito e l’ha messo vicesindaco). E allora la sindaca s’è impegnata a revocare la scelta di Daniela Morgante, che percepiva amica della Lombardi. Vittoria politica parallela al siluramento della Faraona dal direttorio romano; senonché proprio ieri la Lombardi è stata, con un elemento di farsa, rimpiazzata da Stefano Vignaroli; il compagno della Taverna. Lombardi i suoi uomini nelle commissioni li aveva già piazzati, con un manuale Cencelli che La Stampa rivelò. E avrebbe almeno cinque consiglieri comunali suoi (oltre a tutta la capigruppo, il presidente De Vito, il capogruppo Paolo Ferrara, la segretaria Bernabei). Insomma, sul piano politico hanno sfibrato la Raggi, l’hanno accerchiata, esposta alla mercé delle pressioni. Lei stessa ha poi le sue, di relazioni: ha fatto nomine discutibili (il panzironiano Marra, vicecapo di gabinetto, che poi non è stato revocato), ma politicamente s’è anche difesa in maniera non scontata, ha cercato di rendersi autonoma in un brutto contesto. Questa è Roma, e il Movimento romano. LEGGI ANCHE Appendino e lo strano asse con Chiamparino È inevitabile che le cose da fare siano passate in secondo piano. Al Colosseo sono riapparsi i camion bar (proficuo asset dei Tredicine che era scomparso con Marino; c’è stata anche un’infelice frase del neo assessore Meloni, uomo-Casaleggio, in favore di questi discussi ambulanti, poi parzialmente corretta). Gli odiosi centurioni paiono rinati. Raggi ha invece tenuto bene il punto contro lo sgombero di via Cupa, dove sono accampati i migranti del Baobab. In pessime condizioni, sì, ma il prefetto voleva mandarli via con la forza pubblica, alla destrorsa; Raggi s’è opposta, e ha fatto bene. Ma la soluzione non ce l’ha, e ha chiesto un tavolo al ministro dell’Interno. Sapete chi sia. Sul piano mediatico ha avuto i successi maggiori, le tre mosse di comunicazione sono state intelligenti: andare a Tor Bella Monaca sull’onda di un video virale in cui dei bimbi giocavano in mezzo ai topi. Affacciarsi sul Lungotevere a far ripulire i cassonetti. Andare a Rocca Cencia. L’immagine è di una sindaca che non sta chiusa nella torre d’avorio, sta in mezzo alla gente, nelle periferie. Ottimo. Ma a Rocca Cencia c’è poi il problema di un impianto di smaltimento dei rifiuti che l’Ama non ha messo in condizione di funzionare bene, e tantissimi sono i malumori sulla neo assessora all’ambiente, Paola Muraro, che per dodici anni ha ricevuto ottime consulenze proprio all’Ama: è il nuovo che avanza o il conflitto d’interessi eterno all’italiana? LEGGI ANCHE Regole, complotti e welfare: l’Italia M5S nelle 514 proposte di legge Su Acea l’idea del M5S era l’acqua pubblica. E Raggi questo voleva, compreso silurare il potente ad Alberto Irace, uomo stimato da Caltagirone. Sta vincendo invece la linea dell’assessore al Bilancio, Marcello Minenna, e di Di Maio, un appeasement con questa azienda, vera camera di compensazione del sistema-Roma. E a settembre dovrà iniziare una partita di nomine appetitose in tutte queste partecipate. C’è da sperare che Virginia arrivi con la pioggia. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. GRATUITAMENTE Da - http://www.lastampa.it/2016/07/19/italia/politica/virginia-frenata-da-troppe-mediazioni-Ajcrdf7fg6XrHisSt2N3KJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Miccichè: così il M5S ha proposto un’intesa a Forza Italia... Inserito da: Arlecchino - Agosto 02, 2016, 05:05:22 pm Miccichè: così il M5S ha proposto un’intesa a Forza Italia in Sicilia
“Erano d'accordo a eliminare i ballottaggi se si supera il 35%”. Cancelleri: ho chiamato il capogruppo di Forza Italia, ma il patto ce l’hanno loro col Pd 02/08/2016 JACOPO IACOBONI Quello che le parole di Gianfranco Miccichè descrivono è un’incredibile offerta di Patto siciliano. Il Movimento cinque stelle, acerrimo nemico di Forza Italia, telefona al partito di Berlusconi per chiedere di cogestire l’importantissima legge elettorale per eleggere i sindaci dei maggiori comuni sull’isola, un passaggio chiave nella costruzione del futuro assetto di potere in Sicilia. Ieri la legge è stata approvata in Commissione, con voto contrario del M5S, e rispedita adesso all’aula dell’Ars, l’assemblea regionale siciliana, che ha facoltà legislativa. Ma in realtà, dice Miccichè, il M5S era d’accordo per abolire - a certe condizioni - il ballottaggio. Cancelleri nega: «L’unica cosa vera è che ho chiamato il loro capogruppo. Gli ho solo chiesto che non mettesse la firma su una legge contro di noi, altrimenti arriviamo davvero al famoso 50 per cento più uno. Il vero patto ce l’hanno loro col Pd». Come stanno davvero le cose? Proviamo a spiegare. «Cancelleri ha chiamato Marco Falcone, il nostro capogruppo all’Assemblea regionale siciliana, e proposto una specie di desistenza», sostiene Miccichè, che attualmente è commissario di Forza Italia sull’isola. «La verità è che il M5S a parole attacca ed è più puro dei puri, nella prassi tratta accordi su tutto e dappertutto». Secondo la sua versione, all’inizio della settimana scorsa Cancelleri - che non solo è la figura di spicco del Movimento siciliano, ma è anche, stando ai sondaggi, il favorito futuro governatore, e un amico personale di Di Maio - ha convenuto con Falcone che «una soluzione si può trovare, insieme, e senza danneggiare nessuno, senza farsi la guerra», per usare la frase di Miccichè. Il punto è decisivo. La legge elettorale siciliana attuale prevede il ballottaggio, e Forza Italia e il Pd si stanno attivando in maniera trasversale per abolirlo, «perché è chiaro che in un sistema tripolare il ballottaggio finisce per premiare quasi sempre la forza che sta tra sinistra e destra, cioè in Italia il Movimento Cinque stelle», spiega Miccichè. Il Movimento, ovviamente, andrà in tv dicendo «vogliono farci fuori» (a Roma già lo sta facendo Danilo Toninelli). In realtà stava trattando, e aveva una sua proposta. Poiché passare a un ballottaggio a tre sarebbe stato estremamente negativo per il M5S, visto che azzera il possibile effetto Parma del ballottaggio a due, l’idea su cui i cinque stelle stavano ragionando era eliminare il ballottaggio, ma solo se si fosse raggiunta una certa soglia. «Il M5S era d’accordo a eliminare il ballottaggio solo se un candidato avesse superato la soglia del 35%», sostiene Miccichè. In Commissione è stata votata una bozza diversa: elimina il ballottaggio punto e basta, e fissa una soglia del 40 per cento per attingere al premio di maggioranza. Però Fausto Raciti, il segretario regionale del Pd, nel pomeriggio ha detto: «Soglia dei ballottaggi al 40%: la nostra proposta sulla riforma elettorale era e rimane questa». Quindi Cancelleri lo accusa: «Sconfessa i suoi deputati, che hanno votato un’altra cosa, l’eliminazione sic et simpliciter del ballottaggio». Morale: il M5S controaccusa Forza Italia e Pd, ma Forza Italia svela che i cinque stelle predicano bene ma razzolano come gli altri, proponendo intese politiche, peraltro normalissime, ma non per loro. Beppe Grillo, nell’ottobre 2012, dipinse sul blog Miccichè come il rappresentante tipo della politica morta, pubblicando un video in cui il candidato di Forza Italia parlava a una piazza vuota a Santa Caterina Villarmosa. «Gianfranco Miccichè è stato coordinatore siciliano di Forza Italia, deputato, sottosegretario e pure ministro. Ora si candida a presidente della Regione Sicilia. E lo fa arringando piazze vuote, animate solo da qualche contestatore, da un trespolo. Sotto al palco non c’è nessuno. Qualcuno avvisi Miccichè e lo accompagni dietro le quinte. Sarà un atto di grande umanità». Già il fatto che ora il Movimento telefoni a Forza Italia di Miccichè ha dell’incredibile: non erano morti? BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/08/02/italia/politica/miccich-cos-il-ms-ha-proposto-unintesa-a-forza-italia-in-sicilia-15kbHoR85OD9D2JGzk5qnO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Manlio Cerroni: “A Roma ho visto ben di peggio” Inserito da: Arlecchino - Agosto 15, 2016, 06:52:52 pm Il principe delle discariche difende Muraro e la sindaca: “Nessun conflitto d’interessi”
Manlio Cerroni: “A Roma ho visto ben di peggio” 12/08/2016 Jacopo Iacoboni, Giuseppe Salvaggiulo Manlio Cerroni è da decenni, di fatto, il monopolista dei rifiuti a Roma. Criticato, temuto, trasversale. L’”ottavo re di Roma”. La politica ha spesso avuto bisogno di lui, e ci ha trattato. La magistratura se ne è dovuta interessare numerose volte. Lui ha resistito a tutto. Naturale chiedergli, ora, cosa pensi del caso Muraro. Cerroni, il dibattito sui rifiuti in Consiglio comunale a Roma l’ha chiamato in causa, lei che ne pensa? «Era giusto che si facesse per un primo confronto. Mi auguro adesso che tutti si mettano al lavoro per trovare a breve le soluzioni necessarie». Sia il M5s, sia il Pd, sia la destra la tirano in ballo come “il ras dei rifiuti”, e tutti si rimpallano l’accusa di favorirla. Perché? «Io sono in questo campo da 70 anni e a vario titolo mi occupo dei rifiuti di Roma. Favori e aiuti? Sono io che ogni volta che mi è stato richiesto di intervenire con soluzioni tecniche ed operative non mi sono mai tirato indietro. Sull’epiteto “ras” capisco che i giornali amino i nomignoli. Mi chiedo solo come mai quando si parla o scrive di altri imprenditori, ovviamente anch’essi alle prese con vicende giudiziarie (per giunta ancora in corso) non si usino appellativi tipo “il ras del mattone” o “il boss della finanza creativa” e così via». Ma lei davvero si considera una salvezza, per Roma e i romani? «Se uso la parola “benefattore” o “salvezza” di Roma è senza intenti megalomani ma per rendere chiari i concetti. La discarica di Malagrotta che per 30 anni ha smaltito giorno e notte i rifiuti di Roma alle tariffe più basse d’Italia ha fatto risparmiare ai romani qualcosa come 2 miliardi di euro. Questa è la verità». Cosa pensa dell’assessora Muraro? L’ha mai conosciuta? Ha avuto modo di apprezzarla? «Sono decenni che lavora nei rifiuti. Certo che la conosco. È una professionista capace e apprezzata dagli operatori del settore sia pubblici che privati. Viene dai rifiuti e l’hanno messa a occuparsi del problema rifiuti forse in omaggio al brocardo “faccia ognuno il suo mestiere”». La Muraro sostiene che grazie a lei l’Ama ha risparmiato 900 milioni nel contenzioso con il Colari. È vero? «Ognuno di noi ha rappresentato convintamente le ragioni della sua azienda. E lei da consulente dell’Ama lo ha fatto per l’Ama. Come era giusto che facesse. Staremo a vedere, il tempo è galantuomo». Secondo lei Muraro è in conflitto di interessi? Dovrebbe dimettersi? «Ho visto, in questo Paese e in questa città, ben altri conflitti di interesse. Io questo conflitto non lo vedo anzi...» Ha ragione la Muraro a dire che per risolvere il problema rifiuti a Roma bisogna usare il suo impianto tritovagliatore, che Ama non usa da mesi? «Come abbiamo scritto al ministro Galletti, io credo che vadano utilizzati tutti quegli impianti disponibili e funzionanti in grado di risolvere il problema drammatico della pulizia di Roma. Per togliere d’impaccio la dirigenza Ama, ho ceduto con un contratto di affitto di ramo di azienda la Stazione di Tritovagliatura di Rocca Cencia a un’altra società. Io, noi, non c’entriamo più». Rifiuti Roma, Muraro: “Da Regione massima collaborazione” Quali erano i suoi rapporti con i vertici dimissionari di Ama, e cosa pensa delle loro scelte? «Fortini non era in grado operativamente di svolgere il compito di salvare Roma dall’emergenza. Ha bandito una gara europea per portare i rifiuti indifferenziati all’estero quando sapeva molto bene, o almeno mi auguro, che l’Ue dice che bisogna utilizzare gli impianti di prossimità». Qual è la sua opinione della sindaca Raggi? L’avrebbe votata, se fosse residente a Roma? Come si sta comportando sui rifiuti? «Credo che sia nella fase di rodaggio di chi vuole comprendere le cose prima di proporre soluzioni concrete a medio termine. I sindaci, in particolare quelli di Roma, si possono giudicare sul campo. E io i sindaci li ho visti, conosciuti e incontrati tutti». Cosa pensa più in generale del M5s? Alcuni suoi esponenti come l’onorevole Vignaroli provengono dai comitati civici contro Malagrotta: cosa ne pensa? «Si tratterà di vederli all’opera. E Roma in questo sarà una grande cartina al tornasole. Credo di non aver mai incontrato Vignaroli. Né adesso né quando era attivista del Comitato Malagrotta. E soprattutto non ho fatto con lui nessun incontro segreto». Cerroni, un’ultima cosa: come va letta l’operazione Acea-Suez? Quali sono i suoi rapporti con Caltagirone oggi? «Posso solo dire che l’idea di coinvolgere Acea nella gestione dei rifiuti di Roma non è di questi giorni. Con l’ingegner Caltagirone ci siamo incontrati un paio di volte qualche anno fa per parlare di rifiuti. Non se n’è fatto nulla». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da – La Stampa Titolo: JACOPO IACOBONI. - La “struttura delta” della Casaleggio. Inserito da: Arlecchino - Ottobre 07, 2016, 08:41:08 pm La “struttura delta” della Casaleggio.
Ecco tutti i nomi e come funziona Dal contratto imposto al M5S Roma fino alle webstar politiche: come l’azienda guadagna 11/02/2016 Jacopo Iacoboni Diciamo che è la struttura delta della Casaleggio, uno staff nello staff. Al punto 4a del «contratto» con il candidato sindaco del M5S a Roma, Gianroberto Casaleggio ha inserito una delle clausole più importanti, che possono passare inosservate: «Lo strumento per la divulgazione delle informazioni e la partecipazione dei cittadini è il sito beppegrillo.it/listeciviche/liste/roma». Tradotto, tutto il traffico - anche video e social - deve passare dal blog. Ma chi gestisce in concreto questa “struttura” alla Casaleggio associati? La Stampa è in grado di raccontarlo millimetricamente. Mentre Grillo parla di «Rai fascista», la Casaleggio guadagna dai video di Rai, La7 e Mediaset, con un sistema semplice e perfettamente legale. Prima cosa: ancor prima del boom del M5S, la Casaleggio ha costruito una quindicina di - chiamiamole così - webstar, da Di Battista a Fico, gente con un milione di iscritti su facebook, che è tenuta a concedere di pubblicare ogni proprio video sul sito di Grillo. Se Dibba fa una performance dalla Gruber, la deve mettere sul sito di Casaleggio. I video non vengono caricati su youtube (che non accetta caricamenti con monetizzazione di video protetti da copyright), ma su un altro servizio di cloud storage di video, che non ha evidentemente ancora stipulato accordi con le tv italiane e le società di produzione. A questo servizio la Casaleggio paga una quota per ricevere in cambio dei ritorni pubblicitari dagli spot che partono prima del video, e dai banner (attraverso Adwords o altre piattaforme di monetizzazione pubblicitaria). Per ogni video caricato e visto la Casaleggio incassa in percentuale una quota stimabile fino ai mille euro e oltre per ogni video visualizzato almeno centomila volte (dati variabili). Cosa che a suo tempo fece infuriare moltissimi parlamentari M5S, che però non hanno mai avuto la forza di stoppare questo meccanismo. Alla Casaleggio tre persone hanno tenuto in mano operativamente la cosa, nel corso di questi anni in varie fasi: Pietro Dettori, che gestisce anche gli account twitter di Grillo, e molto spesso è autore materiale dei post (Grillo incredibilmente lascia fare anche quando poco o nulla sa di ciò che viene scritto, anche delle uscite più tremende), figlio di un imprenditore sardo legato in precedenza a Casaleggio. Biagio Simonetta, un giornalista, esperto di new media. Marcello Accanto, un social media manager. E, ultima entry, Cristina Belotti, che si occupa della tv La Cosa, una bella ragazza cresciuta curiosamente alla più pura scuola del centrodestra milanese, la scuola di Paolo Del Debbio - lavorava nella redazione del suo programma - e arrivata alla Casaleggio attraverso il network dei fratelli Pittarello; soprattutto Matteo, fratello di Filippo, storico braccio destro di Casaleggio, un passato anche da boy scout. Belotti è diventata collaboratrice di Luca Eleuteri, uno dei soci della Casaleggio (l’altro è Mario Bucchich; da non molto si sono aggiunti il programmatore storico della Casaleggio, Marco Maiocchi, e un uomo di marketing che collaborava con Casaleggio già in Webegg, Maurizio Benzi). I tre che gestiscono il blog e le pagine social della galassia Casaleggio controllano tutto il giorno il trend di viralità dei contenuti pubblicati, attraverso le analisi comparate dei dati (usano insights di facebook e Google analytics). Con l’incrocio semplicissimo di questi due strumenti, sanno in ogni momento quanto stanno guadagnando. Le webstar politiche fanno fare soldi all’azienda. Un berlusconismo 2.0. C’è però un’altra cosa in cui i «ragazzi» eccellono, e Dettori è bravissimo, la profilazione. È un loro divertimento sapere: chi si collega a un video, da dove, con quale software, quale browser, qual è la sua età e i suoi interessi. Non è proprio The Circle di Dave Eggers - l’azienda è troppo piccola; quello è il sogno. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/02/11/italia/politica/la-struttura-delta-della-casaleggio-ecco-tutti-i-nomi-e-come-funziona-KjOs99jXDHs6JbhPBP5uAM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - L’abbraccio dei Cinquestelle con i due emissari di Putin Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2016, 10:36:54 am L’abbraccio dei Cinquestelle con i due emissari di Putin
Il ruolo di Zheleznyak e Klimov tra internet, Russia Today e mondo grillino La foto mostra la manifestazione per il Sì al referendum di sabato 29 ottobre. Il sito Russia Today aveva spacciato la folla come manifestazione a favore del No 05/11/2016 Jacopo Iacoboni Roma Due dei più stretti collaboratori di Vladimir Putin sono al centro di legami con il M5S che passano anche attraverso siti internet filorussi molto critici con il governo italiano. Per ricostruire la vicenda bisogna partire dal 17 ottobre quando Rt, Russia Today, il network in lingua inglese finanziato dal governo russo - un’utenza globale di almeno un miliardo di persone - si è visto chiudere «dopo attenta valutazione» il conto detenuto nel Regno Unito presso la Natwest Bank, costola della Royal Bank of Scotland. La caporedattrice di Rt, Margarita Simonyan, twittò sarcastica: «Lunga vita alla libertà di parola». Il network la raccontò come una decisione ispirata dal governo inglese. La Duma annunciò - attraverso il vicepresidente Sergei Zheleznyak, del partito di Vladimir Putin, Russia Unita - che avrebbe chiesto formalmente spiegazioni al governo inglese. Analoga misura su Rt era stata presa nel 2015 dalla banca che il network utilizzava in precedenza, Barclays. Jonathan Eyal, condirettore del «Russian and European security studies» al Royal United Services Institute a Londra, ha dichiarato al New York Times: «Sono stati sollevati problemi riguardanti l’azienda e le sue fonti di finanziamento». Natwest, ha ipotizzato Eyal, «deve aver preferito la controversia legata alla chiusura dei conti piuttosto che avere un accordo con un business che potrebbe contenere denaro di incerta provenienza». Sputnik Italia, altro network dell’universo putiniano, raccontò la vicenda in modo completamente diverso mettendo l’accento sull’annuncio di Zheleznyak che la Duma avrebbe «aiutato il team legale di Rt a far valere i suoi diritti», invocando il Consiglio d’Europa e l’Onu. In Italia la storia è passata inosservata, ma Zheleznyak è un personaggio ormai attivo sottotraccia anche nella nostra politica. Proveniente dalla pubblicità, sempre più influente (ha 46 anni) nel partito di Putin, inserito dall’amministrazione Obama in una blacklist che comprende politici e finanzieri che, per ricchezza o influenza, conducono attività pro Putin all’estero che gli Usa giudicano sospetta, Zheleznyak è uno dei due uomini - assieme al capo delle relazioni internazionali, Andrey Klimov, uomo di una generazione precedente - che sta facendo da sponda tra Russia e mondo-M5S. I due hanno incontrato in più di un’occasione i deputati del M5S più addentro al dossier-Putin: Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano. Il viaggio di Di Stefano a fine giugno a Mosca è cosa nota. Ma almeno un incontro informale precedente era avvenuto a Roma. Lo racconta lo stesso Di Stefano. E un altro avvenne a marzo, durante una missione a Mosca descritta così da Di Battista: «Abbiamo avuto ottimi incontri», soprattutto su lotta alle sanzioni e terrorismo internazionale. Di Battista raccontò che «i russi hanno un ottimo apparato di intelligence, hanno esperienza e sono disposti a collaborare». Di Stefano, invece, notò tra l’altro quanto fosse cruciale la guerra mediatica: «Attraverso i media si alimenta una russofobia crescente per giustificare l’ingresso di nuovi Stati in Europa e nella Nato. Montenegro, Georgia e Ucraina ne sono un esempio». Particolare non trascurabile: Zheleznyak in passato è stato alto manager di News Outdoor Group, il più grande gruppo di raccolta pubblicitaria dell’Est Europa, con sedi a Mosca e Varsavia, un colosso che può far vivere o morire molti siti. Nel 2011 divenne capo della commissione della Duma per l’informazione, la comunicazione e la tecnologia. Nel 2013, allo scoppio dello scandalo della sorveglianza americana attraverso la Nsa, dichiarò al «Guardian» che la Russia doveva «accrescere la sua sovranità digitale indirizzando la crescita di Facebook e Twitter». Il «red web» (la rete internet filo Putin), e la propaganda negativa, ne sono logica conseguenza. Il Movimento cinque stelle, affascinato dal mito dell’uomo forte, ma costruito sulla teoria delle reti, abbraccia quasi naturalmente Zheleznyak. Rt riserva grandi interviste ai cinque stelle (anche a Di Battista, servizio trionfale su Rt in lingua spagnola). Attacca Renzi esagerando la minima contestazione in Italia contro di lui, dipingendo il caos, o producendo autentiche bufale informative, fino a sollevare la recente protesta attraverso canali diplomatici italiani. Il network russo viene viralizzato spesso a partire da Tze Tze, il sito guida della galassia Casaleggio; ma spesso anche dalle propaggini più anonimizzate della macchina web filo M5S. In parallelo Sputnik Italia inanella, in pochi mesi, questa sequenza di servizi, impaginati come pura cronaca, tutti viralissimi nel web filogrillino: «Renzi, cameriere di Europa e Usa»; «Sanzioni, voce agli imprenditori messi in ginocchio da Renzi»; «Renzi china la testa agli Usa»; «Vertice di Ventotene, tutto fumo e niente arrosto?». Varianti su Sputnik francese: «Le déficit de l’économie italienne peut être le début de la fin de l’Ue”. Account chiave pro M5S (alcuni dei quali spingono la propaganda fino a ipotesi di diffamazione) ricambiano: «La vittoria di Trump porterebbe una ripresa del commercio con la Russia, un miglioramento dell’economia italiana e europea». Un concetto assai caro anche al sito chiave che dà al M5S i contenuti da esibire per piacere a Mosca, «lantidiplomatico.it», che si distingue per il suo sostegno a Putin, Assad e Trump. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/11/05/italia/politica/labbraccio-dei-cinquestelle-con-i-due-emissari-di-putin-l7G0E54oaCbpgn9gUqrjtN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Andrea Guerra: “Ora Matteo trovi il coraggio di fare un ... Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2016, 10:50:42 am Andrea Guerra: “Ora Matteo trovi il coraggio di fare un nuovo governo”
L’ex consigliere: “Il referendum può essere l’anno zero. Vincerà il Sì” Da oggi fino al 6 novembre si svolgerà la settima edizione della Leopolda 04/11/2016 JACOPO IACOBONI ROMA «Il referendum e la legge di stabilità possono rappresentare l’anno zero di Matteo Renzi». Andrea Guerra è il manager che portò Luxottica a diventare la prima azienda esportatrice italiana. È stato un anno a Palazzo Chigi, consigliere economico di Matteo Renzi, ma Guerra è un atipico, oggi presidente esecutivo di Eataly, ma anche uno che alla Leopolda di quattro anni fa fece un discorso filosofico sulla «risonanza» che dobbiamo sentire dentro, citando il poeta Rilke, per creare qualcosa. Raramente interviene nel dibattito, ha accettato di farlo con La Stampa. Perché dice che se vincesse il No sarebbe un danno per l’economia? Qual è il nesso? «Intanto, basta vedere una lotta serrata nei sondaggi per osservare parallelamente aumentare il costo del denaro, gli spread, e quindi anche la non attrattività di investimenti italiani per gli stranieri. Il sì alla fine vincerà. Qui servirà la scossa, fino a immaginare una salita di Renzi al Quirinale e la creazione di una squadra nuova, meritocratica, agile e aperta al mondo. Alibi zero: diciotto mesi di lavoro intenso nella progettazione ed esecuzione di una Italia nuova più semplice, più forte e più giusta». Come imprenditore come giudica questi anni di governo? «Renzi ha fatto cose ottime per gli imprenditori, adesso toccherebbe a loro raccogliere la sfida. Decontribuzioni, ammortamenti di ogni genere, il Jobs Act… non hanno più alibi. Adesso se l’Italia si ferma e non ci sono investimenti sufficienti, la responsabilità è di una classe imprenditoriale non pronta, che non si apre al mondo, non ama rischiare o investire». Detto da lei fa impressione. Li conosce. «Le racconto il caso della mia scelta di unirmi al gruppo di Eataly. Ho scelto una società italiana con vocazione globale, una società imprenditoriale aperta e curiosa, con un marchio già riconosciuto e rispettato in tutti gli angoli del mondo. Una risposta al “non si può”. Ho sempre scelto questo tipo di sfide perché più dell’Italia amo il mondo. M’invitano tantissime imprese italiane a parlare ai loro dirigenti. Ascoltano questa mia idea affascinati, poi il capo mi dice: “Guerra, lei ha detto delle cose bellissime, ma non le faremo mai”». Dov’è che Renzi ha sbagliato, in questi due anni? «Lo guardo in prospettiva: serve meno solitudine e più diversità, nelle scelta delle persone che avrà intorno. Renzi vive, non per colpa sua ma per difendersi da Roma, chiuso a Palazzo Chigi. Anche in questo tocca buttare giù i muri: aprirsi a più persone, più mondo esterno anche dentro i palazzi. Deve rottamarci definitivamente, tutti noi, e avere a che fare con la sua generazione, senza subire il fascino degli anziani dei media, dell’impresa, dei presunti salotti buoni della finanza». Come mai per il No votano soprattutto i giovani? Renzi non dovrebbe chiedersi soprattutto questo? «Il Pd, come del resto tutti i partiti consolidati, ha perso la capacità di parlare ai ragazzi sotto i 25 anni. È un partito che si è anche allontanato da tutto quel mondo di terzo settore - penso a Emergency del mio maestro Gino, a Slow Food del geniale Carlin Petrini, a Libera - che inizialmente era suo, e adesso magari interloquisce di più con il M5S. Ho l’impressione che in tanti giovani italiani prevalga un atteggiamento di sfiducia, anche aggressiva, a volte. Sono totalmente “anti”. È su questo che dobbiamo scavare. Sicuramente il ventennio berlusconiano, da un punto di vista culturale e di rispetto delle istituzioni, lo pagheremo ancora a lungo». I Cinque stelle questo atteggiamento l’hanno alimentato senza innocenza, non trova? «Il M5S, gliene va dato atto, ha capito per primo i canali attraverso cui parlare a questa fetta di giovani, e a questa rabbia: i social e quel tipo di viralità. Ha saputo trovare delle persone: per esempio, perché una Chiara Appendino non è finita nel Pd? Ma andrebbe denunciata con più forza la deriva di bugie e anche di istigazione all’odio con cui la loro macchina web sta facendo propaganda; e in maniera non casuale, costruita a tavolino. Non penso sia irreversibile. Renzi ha ancora un fortissimo appeal su molti. E per la prima volta, accanto all’elettore di sinistra deluso che conosco da anni, compresi tanti miei amici, si sta creando anche quella dell’elettore cinque stelle deluso». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/11/04/italia/politica/andrea-guerra-ora-matteo-trovi-il-coraggio-di-fare-un-nuovo-governo-B2fcVGcJgonhpBFSwPhWfO/pagina.html Titolo: IACOBONI. - L’Antidiplomatico, così un sito divulga la linea filo-russa del M5S Inserito da: Admin - Novembre 08, 2016, 10:44:10 am L’Antidiplomatico, così un sito divulga la linea filo-russa del M5S
Nato dall’uomo dello staff di Di Battista. Tra i collaboratori fissi spunta Achille Lollo Pubblicato il 08/11/2016 Ultima modifica il 08/11/2016 alle ore 07:39 JACOPO IACOBONI Non avendo pronta una chiara linea geopolitica, e un network sperimentato di interlocutori, la politica estera del Movimento cinque stelle della prima fase, tra la nascita (2009) e lo Tsunami tour (2012-2013), s’è sempre risolta nelle visite - più o meno estemporanee - di Beppe Grillo alle ambasciate. L’ambasciata tedesca, quella americana, il consolato americano, cominciarono a manifestare anni fa curiosità per questo «comedian» trasformatosi in agitatore politico di folle. Volevano capire. Annusavano. Alla vigilia delle elezioni del 2013 sollevarono un caso le parole pronunciate il 13 marzo dall’ambasciatore Usa David Thorne al liceo Visconti, a Roma: «Voi giovani siete il futuro dell’Italia. Voi potete prendere in mano il vostro Paese e agire, come il Movimento 5 Stelle, per le riforme e il cambiamento». Grillo esultò. Vergò sul blog un post trionfale: «L’ambasciatore Usa e il M5S». Poi però le cose sono drasticamente cambiate. Negli ultimi due anni ha cominciato a farsi strada, nel M5S, un mantra totalmente opposto, «la Russia non è un nemico». La chiave della loro geopolitica è diventata via via la richiesta di abolire le sanzioni contro Mosca. Gli incontri, parallelamente, si sono spostati dal livello teatrale di Grillo alle ambasciate a un livello più prosaico ma confidenziale: quello degli imprenditori, o dei colonnelli Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano. Due a Mosca, e poi a Roma, con personaggi chiave del partito di Putin, uno dei quali assai discusso. È in questa fase che diventa di riferimento, nel divulgare la linea, un sito, L’Antidiplomatico. Nonostante neghi un’inclinazione filo-Putin, L’Antidiplomatico descrive bene il legame culturale sempre più stretto tra cinque stelle e propaganda di Mosca. Basta leggere gli ultimi dieci articoli in cui, direttamente o indirettamente, si parla del leader russo. «Oliver Stone: Trump è pericoloso, ma cosa vi fa pensare che Hillary non lo sia?». «Come mai i giornalisti diffamano Putin e non indagano sull’immenso patrimonio accumulato da Bill e Hillary Clinton?». «La Russia annuncia una tregua umanitaria ad Aleppo» (parentesi: Aleppo viene paragonata storicamente alla battaglia di Stalingrado, un grande classico della propaganda russa attuale). «Il ministro della Difesa russo: “È tempo che l’Occidente definisca se lottare contro i terroristi o contro la Russia”». «Putin: “Mi piacerebbe avere in Russia la macchina di propaganda in mano agli Usa». E via così. La Clinton non riscuote certo, eufemismo, la loro simpatia. Lantidiplomatico.it è registrato a nome di Alessandro Bianchi, un giovane pescato nelle reti della sinistra radicale romana, poi diventato il più stretto collaboratore di Alessandro Di Battista, e utilizzato dal M5S anche per la commissione esteri della Camera. Bianchi, la settimana scorsa, non ha risposto quando La Stampa l’ha contattato. Con lui c’è una redazione agile di collaboratori; il principale dei quali, Fabrizio Verde, ha le stesse origini politiche, più altre due persone. Le firme fisse non colpiranno i lettori giovani; ma i meno giovani sì: nel colophon della rivista online tra i soli quattro «collaboratori assidui» compare Achille Lollo, alla cui biografia L’Antidiplomatico scrive, assai stringato: «Corrispondente di Brasil de Fato in Italia, curatore del programma TV “Quadrante Informativo” e colonnista del “Correio da Cidadania”». Altrove sul sito Bianchi aggiunge: «È stato direttore delle riviste Naçao Brasil e Conjuntura Internacional». L’ex militante di Potere Operaio - per diciott’anni latitante in Brasile, e prima dieci anni in Angola, condannato per il rogo di Primavalle appiccato alla casa dei Mattei in cui morirono un bambino di 10 e un ragazzo di 22, figli del segretario della sezione missina di quel quartiere romano - è oggi libero cittadino, dopo la prescrizione della pena. In questo milieu matura il sito che in questi mesi sta vedendo lievitare i suoi accessi, e l’influenza tra i parlamentari cinque stelle che si occupano di geopolitica. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/11/08/italia/politica/lantidiplomatico-cos-un-sito-divulga-la-linea-filorussa-del-ms-wcy1I06N9alcHSE8nUGwsL/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Ecco la cyber propaganda pro M5S. La procura indaga ... Inserito da: Arlecchino - Novembre 18, 2016, 09:44:52 am Ecco la cyber propaganda pro M5S. La procura indaga sull’account chiave
Algoritmi, false notizie, bufale. Palazzo Chigi denuncia per diffamazione Pubblicato il 16/11/2016 Jacopo Iacoboni Beatrice Di Maio è una star del web pro M5S. Si muove nel territorio della propaganda pesante, che in tanti Paesi - per esempio la Russia di Putin, assai connessa al web italiano filo M5S - dilaga. Nella sua attività, Beatrice si è lasciata sfuggire alcuni tweet che delineano ipotesi di reati come calunnia e diffamazione; o vilipendio alla presidenza della Repubblica. È stata denunciata alla Procura di Firenze dal sottosegretario a Palazzo Chigi Luca Lotti, come provano alcuni documenti. Ma chi è esattamente Beatrice Di Maio, e ha qualcosa a che fare con la Casaleggio o la comunicazione ufficiale M5S? Sarà la magistratura a dire se esiste una cyber propaganda pro M5S Si tratta di un account twitter pro M5S dedicato a una demonizzazione anti-Pd, senza disdegnare puntate contro il Quirinale. Beatrice ha 13.994 follower, è un top mediator, dentro un social network relativamente piccolo. Tweet e post di account analoghi diventano virali in Facebook attraverso un sistema di connessioni, nel caso di Beatrice dall’andamento artificiale dentro cui è inserita, alimentando un florido business pubblicitario, legato al flusso di traffico. LEGGI ANCHE L’Antidiplomatico, così un sito divulga la linea filo-russa del M5S Insomma, Beatrice non è un account casuale. Scrive cose gravissime sulla presidenza della Repubblica: «Per alcuni il silenzio è d’oro... quello di Mattarella è d’oro nero!». E sotto, una foto del Quirinale con il tricolore e la bandiera della Total. Inutile sottolineare l’accostamento ingiurioso, Mattarella non è stato lambito dall’inchiesta lucana. Beatrice twitta «il governo trema. Da Potenza agli aeroporti inchiesta da paura. Renzi: “Io non mi fermo”» e sotto, una foto di Charlot che scappa all’impazzata. Ma Renzi non è mai stato indagato in Basilicata nell’inchiesta su Temparossa. Beatrice posta una foto della Boschi e, sopra, un tweet «Boschi, lezione alla Oxford University. “The amendment is on the table”. Hashtag: #Total #LaCricca #quartierino». Avvicinando emotivamente il nome Boschi a Total e a quartierino si suggerisce che Boschi sia al centro di un giro di tangenti legate a Total e allo scandalo petrolio: ma anche questo è un falso. LEGGI ANCHE La propaganda russa all’offensiva anti-Renzi. E il web grillino rilancia Oppure: «#intercettazioni, Guidi: “Ho le foto di Delrio coi mafiosi”», e sotto, nel tweet, la foto di Delrio con Renzi, Boschi, Lotti. Se dicessero cose così giornali o tg, pagherebbero ingenti risarcimenti per diffamazione. Quei tweet hanno suggerito questi falsi, e la struttura in cui Beatrice è interconnessa li ha diffusi; nella logica del «ciò che siamo capaci di rendere virale prima o poi diventa vero agli occhi di chi vogliamo convincere». Twitter, nonostante numerose segnalazioni, non ha finora ritenuto di chiudere l’account. Perché rivolgere attenzione, anche giudiziaria, a quello che potrebbe essere un comune troll, o un militante anonimo? Perché Beatrice si muove dentro quella che è configurata come una struttura: a un’analisi matematica si presenta disegnata a tavolino secondo la teoria della reti, distribuita innanzitutto su Facebook (dove gravitano 22 milioni dei 29 milioni di italiani sui social), e - per le élite - su Twitter. Ha un andamento assai ingegnerizzato. Su Facebook, la rete è costituita da un numero limitato di account di generali (da Di Maio e Di Battista a Carlo Martelli, figura virale importante, in giù) e - tutto attorno - da una serie di account di mediatori top e, aspetto decisivo, da pagine e gruppi di discussione che fanno da camera di risonanza. In basso vi sono semplici attivisti o fake di complemento: gli operai. Immaginate una mappa geografica: gli snodi (hub) sono le città e i villaggi, fortemente clusterizzati (aggregati a grappoli); i mediatori e soprattutto i connettori sono le strade. Naturalmente, una rete così recluta anche tanti attivisti reali, che non possono vedere l’architettura, assorbiti dalla pura gravità dei nodi centrali: la struttura si mimetizza con l’attività spontanea come un albero in una foresta. Eventuali falsi e calunnie, ovunque generate, si viralizzano, venendo spostati dal centro alla periferia, anonimizzati, quindi meno denunciabili. LEGGI ANCHE L’abbraccio dei Cinquestelle con i due emissari di Putin L’account di Beatrice ha di volta in volta vari ghost. «Ghost», nell’analisi matematica sui dati della parte pubblica di twitter, non significa ghostwriter, cioè persone che scrivono per lei; significa account «matematicamente indistinguibili» da lei secondo alcuni parametri come interazioni, contenuti, e meta dati di riferimento (il tempo in cui un certo account fa determinate cose). A luglio i «ghost» così intesi erano quelli di un ex candidato governatore M5S e di @BVito5s, Rottamiamo Renxit, account dedicato alla distruzione del premier. In seguito, @Teladoiolanius (contenuti di destra, anti-immigrati e pro Trump), @Kilgore (bastonatura di avversari, politici o giornalisti) e @AndCappe (account vicinissimo a @Marpicoll, a sua volta ghost di @marionecomix, account delle vignette grilline di satira pesante a senso unico), o di recente @_sentifrux (Sentinella), @carlucci_cc (Claudia) e @setdamper. Numerosi altri account chiave sono sempre matematicamente vicinissimi, sempre ricorrenti, prevalentemente anonimizzati, profondamente interconnessi tra loro. Svolgono ruoli precisi: chi è anti-immigrati, chi anti-Renzi, chi pro-Putin, chi pro-Trump, chi dedito alla bastonatura. La condivisione esatta dell’andamento dei metadati, e la spartizione palese dei ruoli, non si configurano, algoritmicamente, come casuali. C’è una centrale che gestisce materialmente questi account? La Procura si trova ora a indagare anche su questo. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/11/16/italia/politica/palazzo-chigi-denuncia-laccount-della-cyber-propaganda-pro-ms-mOsOd6Vh4O8y4y0n4WrwlN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Nel mirino l’uomo di Casaleggio. Grillo: “Da noi chi sbaglia Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2016, 09:08:16 pm Nel mirino l’uomo di Casaleggio. Grillo: “Da noi chi sbaglia paga”
Bugani: “Una trappola”. L’autore dell’esposto: “Sapeva e mise il like” Pubblicato il 24/11/2016 Ultima modifica il 24/11/2016 alle ore 07:06 JACOPO IACOBONI TORINO Nella storia degli indagati M5S per le firme a Bologna, inutile girarci intorno, è Massimo Bugani l’uomo politicamente nel mirino. È uno dei tre membri dell’Associazione Rousseau (assieme a Davide Casaleggio e all’europarlamentare David Borrelli). Ha un ruolo importante nella piattaforma informatica. È stimato da Casaleggio junior, che lo considera persona di fiducia. Bugani, ha osservato ieri, ritiene che ci siano «giochetti in corso contro di noi a Bologna», per colpire lui e direttamente Beppe Grillo e Davide Casaleggio; e si sfoga tornando a evocare anche il «sabotaggio». Grillo sul blog fa una difesa d’ufficio ma poi dice: «Anche qualcuno di noi a volte sbaglia, ma state sicuri che pagherà, come sempre è accaduto e come sempre accadrà»: un modo per fare quadrato, sì, ma non una difesa senza se e senza ma di nessuno. Segno di una differenza da cogliere, tra il fondatore e il giro di Davide Casaleggio. La tesi di Bugani è che «siamo caduti o in un banale errore o in una trappola tesa da ex esponenti del Movimento allontanati». La sua testimonianza è che «Marco (Piazza, il suo braccio destro indagato) è scrupolosissimo. Se è accaduto qualcosa è stato fatto in assoluta buona fede, senza che lui ne sapesse nulla, o per danneggiarlo». Dice che loro sono prontissimi ad andare dagli inquirenti. E minaccia querele contro i suoi accusatori politici. Piazza fa sapere che se c’è l’avviso di garanzia si autosospenderà. Gli accusatori però non arretrano affatto, per la minaccia di essere querelati. Anzi. Stefano Adani, uno dei due che materialmente hanno presentato l’esposto, ci dice: «Innanzitutto non sono episodi isolati. Ne citiamo quattro. Il banchetto al Circo Massimo, dunque con autenticatore fuori Regione, cosa vietata dalla legge. Due episodi a Bologna, di cui uno al circolo (usa proprio questa parola, «circolo») Mazzini, dove si raccoglievano firme che venivano autenticate dopo: è vietato. E almeno un altro accaduto a Vergato, comune dell’Appennino bolognese, dove arrivò un autenticatore da un altro paesino». Bugani cosa c’entra? Risponde Adani: «Fa parte dell’esposto che Bugani sapesse di almeno una delle cose illegali avvenute: su Facebook gli scrisse un militante mandandogli la foto della sua firma al Circo Massimo, e Bugani mise il like. C’è lo screenshot, pubblicato da Radio Città del Capo due anni fa. Poi il like Bugani l’ha cancellato, sostenendo che il suo tablet era finito nelle mani di un collaboratore che era d’accordo con noi. Cosa ovviamente non vera». Toccherà naturalmente ai magistrati verificare chi abbia ragione, sarebbe un caso di «like a sua insaputa». Potrebbe finire dunque anche il braccio destro di Casaleggio nelle indagini? Adani non vuole rispondere sui nomi del suo esposto, ma aggiunge un dettaglio: «Non ci sono solo i quattro indagati: gli episodi dell’esposto documentano anche altre persone. E pensare che noi anni fa a Bologna andavamo ai banchetti del Pd per verificare e contestarle a loro, le firme false; poi nel Movimento c’è chi si è messo a fare le stesse cose». C’è mai stato un incontro tra loro e Bugani o Piazza? «Glielo abbiamo chiesto, non ci ha mai risposto». Bologna e l’Emilia sono terre fondative, dei cinque stelle. Terre di guerre interne, di storie brutte come la lapidazione sessista di Federica Salsi, o come quella di Giulia Sarti messa sotto attacco per le mail. Una terra di grandi divisioni dentro il Movimento, tra ciò che poteva essere e ciò che è stato. Favia versus Bugani su tutte, con Favia che finisce fuori, il volto delle origini, il pupillo di Grillo. Ora Favia ci dice: «Il gruppo di Bugani non può sperare di cavarsela con l’ingenuità o l’ignoranza: vi dico per certo che sono persone che conoscono benissimo le leggi sulla raccolta delle firme. Perché fanno queste cose? Per l’arroganza di chi si sente ormai potente e può tutto». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/11/24/italia/politica/nel-mirino-luomo-di-casaleggio-grillo-da-noi-chi-sbaglia-paga-z2cRlIpbrQ6wnYbkXKucSM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Renzi: “Bisogna che vinca il Sì, in questo modo saremo più... Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2016, 09:13:45 pm Renzi: “Bisogna che vinca il Sì, in questo modo saremo più forti in Europa”
Il premier alla Stampa: “Se passa il No Berlusconi non troverà me al governo ma Grillo. Non importa cosa farò io dopo, ho 41 anni e nulla da aggiungere al mio curriculum” Pubblicato il 26/11/2016 Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 09:32 Jacopo Iacoboni Torino «Se vince il Sì andremo in Europa con più forza a spiegar loro come fare su migranti, economia, e posti italiani a Bruxelles». Uscendo dalla redazione de La Stampa - dove ieri mattina ha risposto in una videointervista alle domande di Massimo Gramellini e dei lettori - Matteo Renzi parla di quella che è per lui la sfida cruciale del referendum del 4 dicembre, e il suo messaggio di fondo: se vince il No, dice, torneranno tecnocrati alla Mario Monti che vessano i cittadini, alzano le tasse, e rimettono il segno meno davanti ai dati del Pil. Se vince il Sì, secondo il premier, «l’Italia sarà più stabile e in grado di dettare condizioni all’Europa. Indicheremo una terza via, per rispolverare un’espressione clintoniana», e l’idea che espone in redazione è di sfuggire all’alternativa tra Trump e Angela Merkel, tra populisti e globalisti. «Il mondo in questo momento è dibattuto, con la Russia che sappiamo, con l’effetto Trump che aleggia, con la Brexit». In questo scenario lui vede uno spazio, un’opportunità, di far pesare una via italiana: «Noi siamo quelli che hanno fatto mettere agli atti, davanti alla Cancelliera, le perplessità sull’austerity». Oppure, per farsi sentire di più: «Noi diamo all’Europa venti miliardi tutti gli anni e ne prendiamo indietro dodici. Se di questi dodici ne lasci per strada una parte, hai vinto il premio Nobel per la stupidità. Mentre ci impegniamo a riequilibrare questo rapporto di venti a dodici, intanto ci siamo detti: spendiamo meglio questi dodici». La «vera» Casta Ambizioni europee come queste passano ora, inesorabilmente, dal voto sul referendum costituzionale. Dopo questa aspra campagna elettorale, con accuse e controaccuse, cosa rispondere a un racconto che vorrebbe ormai il rottamatore nei panni del simbolo di una Casta? «Dicono a noi che siamo la Casta? Dall’altra parte, nel fronte del No, vedo un sistema che tiene insieme cinque ex presidenti del Consiglio: Monti, De Mita, Lamberto Dini, D’Alema e Berlusconi. Li riconosci dalla quantità di pensioni. Berlusconi dice: “Il giorno dopo ci sediamo al tavolo con Renzi”. No, il giorno dopo, ci trova Grillo e Massimo D’Alema, non il sottoscritto. Cinque ex premier che per anni ci hanno detto riforme e non le hanno fatte. Se gli italiani vogliono affidarsi a loro, prego, si accomodino». Lo scenario che prefigura, o lo spauracchio che agita, se preferite, è che se vincesse il No rischiamo un governo tecnico, «ma il governo tecnico non fa l’interesse dell’Italia, spiana la porta ad altri interessi, ad altre cose. Per questo serve la politica, un governo politico». Il No dell’Economist Il presidente del Consiglio non può non rispondere qualcosa sull’Economist, che ha scritto: «L’Italia dovrebbe votare No». Sa che quell’articolo viene cavalcato in rete, diventa virale, viene agitato come verità in terra dagli stessi che un paio d’anni fa strepitavano contro i giornali della finanza e dell’establishment: «Leggo che l’Economist parla di un governo tecnico, loro lo chiamano tecnocratico. Magari per l’Italia è meglio, io l’ultimo governo tecnico che ricordo, quello di Mario Monti, ha alzato le tasse e ha prodotto il segno meno sulla crescita. Il 2017 sarà cruciale per l’Europa, l’Italia deve avere una forte strategia europea e lo può fare solo un governo con solidità e stabilità, un governo politico. Un governo tecnico che dice “ce lo chiede l’Ue” non fa l’interesse dell’Italia ma di altri». I risultati del governo Qualche punto prova a rivendicarlo, anche rispondendo a domande come quella di Corrado Attili. «Tutto possiamo dire tranne che in due anni non abbiamo fatto niente». Ricorda quelli che a lui paiono meriti del suo governo: «Negli ultimi due anni il nostro debito è stabilizzato, al 132 per cento. È alto, troppo alto, ma non cresce più. Anzi l’abbiamo tagliato, di 43 miliardi. Lo so, vogliamo fare di più, ma mia nonna diceva che il meglio è nemico del bene». Inseguendo una perfezione mitica ci avvitiamo nell’inazione, quella che lui chiama la palude. Situazione che, a Gramellini che gli chiede dei limiti della riforma, riassume in una battuta: «Questo referendum è come un viaggio in autostop; ne avete mai fatti da ragazzi? È come se tu volessi andare da Roma ad Aosta, passa uno che ti offre un passaggio fino a Torino. Voi che fate, accettate o aspettate uno che vi porti ad Aosta?». Per dire che tante cose le avrebbe volute diverse anche lui, come gli domanda il lettore Giorgio Mari, «se avessi potuto fare da solo la riforma sarebbe stata diversa», ma il punto cruciale, il taglio dei costi e la fiducia data da una sola Camera, è per lui comunque fondamentale. L’attacco al M5S Il Renzi di oggi ammette diversi errori, in questa fase sta evidentemente provando a ricucire un gap di umanità che s’era creato, e lui a un certo punto ha avvertito. Anche agli insulti sceglie di replicare con più ironia, o autoironia, o almeno ci prova: «Nella mia veste di scrofa ferita e di aspirante serial killer, da parte nostra dico che la nostra intenzione è di abbassare totalmente i toni dello scontro, anche perché va nel nostro interesse». Però sui tagli ai costi della politica e la doppia morale dei cinque stelle, va all’attacco: «Il M5S parla di riduzione degli sprechi, ma prende come noi i fondi per il gruppo parlamentare: al Senato noi abbiamo preso 30 milioni, loro 13. La differenza è che il M5S utilizza i fondi del gruppo al Senato per pagare la casa di Rocco Casalino, un loro dipendente. Capite? Pagano le bollette coi soldi dei fondi del Senato, è vietato». Per Torino, il premier elogia come la Regione di Sergio Chiamparino sta gestendo l’emergenza del maltempo; dice di aver incontrato «la sindaca Appendino», in uno spirito di collaborazione reciproca. Promette un intervento immediato per il maltempo, «i soldi ci saranno, ma bisogna spenderli bene». E sul Moi, le palazzine del villaggio olimpico da tempo occupate da famiglie di immigrati e profughi, assicura: «C’è massima disponibilità a sostenere un’iniziativa finalizzata a risolvere la situazione in modo... piemontese, quindi con grande sobrietà. Siamo disponibili a venire incontro alle esigenze delle istituzioni». «Se devo, me ne andrò» In definitiva, è un Renzi meno da selfie - anche se diversi ragazzi gliene chiedono, quando esce dalla Stampa, e lui non si sottrae - e più concentrato a far passare un messaggio conclusivo: l’Italia può essere importante, nella stagione Trump-Brexit, con la Russia sullo sfondo: «Abbiamo davanti il 4 dicembre un grande assist per segnare, cambiare l’Italia e anche l’Europa, o sparare la palla in tribuna. La mia sorte non è importante - risponde al lettore Fiora - non farò più l’errore di personalizzare; ma poi gli stessi che me lo rimproverano mi domandano continuamente “che cosa farò io?”. Rispondo così: non importa. Io ho 41 anni, ho fatto il sindaco della città più bella del mondo (Gramellini lo interrompe: “A parte Torino”), non devo aggiungere più nulla al mio curriculum. Non sto lì a vivacchiare, non sono adatto. Se dobbiamo tornare alle liturgie del passato, le riunioni di maggioranza con i tecnici, per la logica della palude, delle sabbie mobili tanti sono più bravi di me. Io sto se possiamo cambiare». Un sassolino dalla scarpa se lo toglie, senza nominare Enrico Letta: «Quando toccherà a me lasciare Palazzo Chigi, uno si gira, si inchina alla bandiera e sorride, non mette il broncio. Passerò la campanella con un sorriso e un abbraccio a chiunque sia perché Palazzo Chigi non è casa tua ma degli italiani». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/11/26/italia/speciali/referendum-2016/renzi-bisogna-che-vinca-il-s-in-questo-modo-saremo-pi-forti-in-europa-wfNl3YT8Y6HdaL6RwODrvI/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. Ieri in tv il premier dimissionario Matteo Renzi ha rivendicato Inserito da: Arlecchino - Dicembre 11, 2016, 05:39:10 pm Lo sfogo di Renzi: ho perso la fiducia dei giovani. Lavorerò su di loro e sul web La conversazione con Gramellini: “Non mi faccio incastrare. Mi ricandido alla segreteria sfidando D’Alema o chi metterà lui” La poltrona Ieri in tv il premier dimissionario Matteo Renzi ha rivendicato di aver lasciato la poltrona con stile, pur disponendo ancora della maggioranza in Parlamento Pubblicato il 11/12/2016 Ultima modifica il 11/12/2016 alle ore 08:42 Jacopo Iacoboni Roma Una delle riflessioni che sta facendo Matteo Renzi in queste ore dopo la vittoria del No al referendum, e le sue dimissioni da premier, è semplice e difficilmente confutabile dati alla mano: ho perso perché ho perso la fiducia del voto dei giovani. Ed è su questo terreno - ragiona - che m'impegnerò da oggi in avanti, fino alle elezioni, in qualunque momento ci saranno. Ricostruire comunità, riconquistare i giovani. Puntando anche molto sul web, come spiegheremo meglio più avanti. Proprio lui, l’ex rottamatore, che comparve sulla scena scompaginando un apparato Pd stantio, ha poi totalmente perso freschezza, la guasconeria che l’aveva fatto sembrare così esterno al Palazzo, e così in grado di sintonizzarsi con una generazione nuova di italiani, s’è presto mutata nella percezione in arroganza. È stata una nemesi impressionante che Renzi finisse con l’essere identificato, a torto o a ragione (o, come spesso accade nella vita, in un mix di entrambe le cose), col simbolo di quella Casta che doveva combattere. Ma è andata così, è un fatto. La riflessione renziana sui giovani l’ha raccontata ieri in tv Massimo Gramellini durante “Le parole della settimana”, riferendo di uno scambio al telefono, non un’intervista, semmai più un flusso di pensieri, con il presidente del Consiglio dimissionario. Seduto su uno sgabellino con accanto Serena Dandini e Fabio Volo, Gramellini ha raccontato alcune valutazioni interessanti, che vale la pena di riferire. Innanzitutto Renzi rivendica di avere lasciato la poltrona con stile, pur avendo ancora in Parlamento una maggioranza, e di esserci rimasto male nel vedere politici ed editorialisti che maramaldeggiano in tv, invitarlo a tornarsene a casa. Uno spettacolo, possiamo aggiungere, del tutto italiano, che colpisce sempre il potente in difficoltà, e tanto più quanto più il potente è (stato) forte (corollario: i primi ad accoltellare sono di solito personaggi dal potente beneficiati). Contrariamente a quanto uno potrebbe credere, Renzi non è pentito di essersi lanciato nell’avventura del referendum - cosa che s’è rivelata fatale anche per la sua promessa di lasciare in caso di sconfitta. Negli ultimi giorni prima del voto l’allora premier aveva più volte ammesso l’errore di aver personalizzato la consultazione sulla riforma costituzionale, ma è anche vero che ogni volta che l’ammetteva gli tornavano a chiedere cosa avrebbe fatto in caso di sconfitta: insomma, s’è impiccato a una sua stessa frase. Eppure, è il ragionamento di Renzi, il mio errore più grosso è stata la riforma della scuola: non è riuscita come avrebbe voluto. Mentre il referendum a suo dire è stata una battaglia giusta perché le riforme erano necessarie, e lo dimostra la vicenda del Monte dei Paschi; Renzi di questo è totalmente convinto (la Bce proprio ieri l’altro ha negato qualsiasi proroga per la ricapitalizzazione, e dunque i 5 miliardi andranno trovati, probabilmente con l’aiuto dello Stato). Sostiene il segretario del Pd che ci si è trovati, con la vittoria del No, in una situazione kafkiana: i senatori hanno votato la propria abolizione e sono stati rimessi in sella dai cittadini che li detestano. Scherzando, ha aggiunto: quando torno al governo, la prima cosa che faccio sarà nominare il Cnel, quello che non mi hanno fatto abolire. Scherzando ma chissà fino a che punto, si potrebbe chiosare: il «rimettersi in cammino» allude chiaramente a una rivincita, che però va costruita un po’ da lontano, e con un Pd non esattamente suo complice. Almeno, non tutto. Renzi ha consegnato a Gramellini alcune riflessioni anche sugli aspetti più formali della crisi di governo che in queste ore il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dovuto dipanare, sul ruolo del Pd, ma anche su quello del suo leader. Molti suoi nemici hanno ipotizzato che il passo indietro fosse solo di facciata, o che Renzi si fosse dimesso nella speranza di restare lui dimissionario fino al voto, oppure con l’idea di accettare una plausibile ipotesi di reincarico. Gramellini ha raccontato invece di un premier uscente determinato: non mi faccio incastrare, gli ha detto. Do la campanella con un sorriso al mio successore, sia Gentiloni, Padoan, Godzilla o Jack lo Squartatore. Poi me ne torno cittadino tra i cittadini, senza stipendio né vitalizio. E mentre il nuovo governo Renzi senza Renzi governa, lui si ricandida alla segreteria del Pd, dove sfiderà D’Alema o l’uomo che lui gli metterà contro. Vinco e sparisco da Roma, ha spiegato Renzi, girando l’Italia fino alle elezioni politiche e allargando la squadra, come tutti mi avete chiesto. Renzi è convinto di avere con sé circa un terzo degli italiani: che non sarebbe poco - anche se non è esattamente il 40 per cento dei voti per il Sì che alcuni renziani, troppo ottimisticamente, s'intestano, ma è una base su cui impostare una rivincita. Nello scambio telefonico riportato ieri su Raitre, il discorso è andato a cadere inevitabilmente sui giovani, anzi, sull’accoppiata giovani più Internet (e social network). Renzi ha detto a Gramellini di avere perso il voto giovanile perché il Pd è assente dal web, e dunque lui nei prossimi mesi dedicherà tutte le sue energie a ricostruire una comunità digitale. Non sarà facile, si può aggiungere, senza mettere a fuoco anche cosa si vuole dire; e quanta cattiveria si è disposti a sprigionare nello spazio cyber, che non è più solo terra di promesse. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/12/11/italia/politica/lo-sfogo-di-renzi-ho-perso-la-fiducia-dei-giovani-lavorer-su-di-loro-e-sul-web-nf1I71Lwn1r9YdUfY8VsvJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - La catena dei siti bufala contro Gentiloni porta a Sofia Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2016, 03:08:46 pm La catena dei siti bufala contro Gentiloni porta a Sofia
Esce oggi la prima puntata della ricerca di due informatici, Paolo Attivissimo e David Puente: sede in Bulgaria, sfruttano anche il nome “5 stelle” AP I siti della ricerca pubblicata oggi dai due informatici debunker, Paolo Attivisismo e David Puente Pubblicato il 16/12/2016 Ultima modifica il 16/12/2016 alle ore 07:25 JACOPO IACOBONI ROMA Martedì, neanche ventiquattr’ore dopo aver giurato al Quirinale col nuovo governo, Paolo Gentiloni era già sommerso da una valanga di insulti su Facebook. Un post in particolare è diventato viralissimo, ricevendo decine di migliaia di like in poche ore e pompando a sua volta odio, e eventuali diffamazioni sul nuovo presidente del Consiglio. Sul sito «Libero Giornale» (nulla a che fare né con Libero né col Giornale) gli si attribuiva la seguente frase: «Gentiloni choc: “Gli italiani imparino a fare sacrifici e la smettano di lamentarsi”». Naturalmente Gentiloni non ha mai pronunciato quelle parole; il post ha generato tanto traffico pubblicitario (e discredito anti-casta). Le tre bufale più condivise in assoluto negli ultimi 15 giorni in Italia vengono dallo stesso sito, che il primo dicembre aveva viralizzato un altro post, su 35 arresti di «politici legati al Pd» e pronti a truccare il voto referendario; notizia inventata, ma record: al momento tira ancora e supera le 147 mila condivisioni. Insomma, chi c’è dietro questo sito? Due debunker italiani - tra i professionisti più stimati nel ramo - lo svelano stamane sul sito attivissimo.blogspot.com, pubblicando la prima puntata di un’analisi e un tracciamento che hanno condotto. I due sono Paolo Attivissimo, commentatore informatico, e David Puente, informatico e tracciatore di fake news (oltre che ex dipendente della Casaleggio associati, da cui uscì anni fa in una stagione molto diversa dalla attuale. Oggi gestisce il sito specializzato davidpuente.it). «Liberogiornale.com - scrivono - non è un semplice sito d’informazione amatoriale che sbaglia o un sito di “satira e finzione” (come asserisce in caratteri piccolissimi in un angolo ben nascosto): è una fabbrica professionale di panzane. Pubblica intenzionalmente balle per fare soldi. Fa parte di una rete professionale occulta di siti sparabufale che ha ramificazioni anche fuori dall’Italia». Ieri tra l’altro Laura Boldrini ha raccontato di aver chiesto a quattro esperti un aiuto per contrastare la diffusione delle fake news: oltre a Puente e Attivissimo, anche Walter Quattrociocchi del CSSLab dell’Imt di Lucca, e Michelangelo Coltelli (di Butac.it). Il meccanismo della pubblicità I siti di presunta satira come «Libero Giornale», scrivono Attivissimo e Puente, «spesso storpiano in modo ingannevole i nomi di testate molto note, come Ilfattoquotidaino.com (non è un refuso: è proprio quotidiano), News24tg.com o Gazzettadellasera.com. L’intento sembra piuttosto evidente: ingannare i lettori». I nomi dei titolari di questi siti sono nascosti. «Libero Giornale» è intestato alla società Domains by Proxy LLC. Ma seguendo la pubblicità, Attivissimo e Puente sono risaliti a un filo, usando i dati pubblici del web o dei social: «Questi siti usano una stessa fonte, e addirittura lo stesso account publisher (denominato “kontrokultura”), per i propri banner pubblicitari. La fonte è la società Edinet, sede a Sofia, in Bulgaria. I suoi dati pubblici sono nel registro del Ministero della Giustizia bulgaro. Il sito della società è Edinet.bg, il cui “Chi siamo” (scritto, stranamente, in italiano) spiega che si tratta di un “Gruppo editoriale” che ha uffici “in Francia, Germania, Slovenia e soprattutto Italia. I componenti e collaboratori di Edinet sono al 90% Italiani ed è proprio in Italia che sono puntate tutte le nostre risorse”. Ma che sorpresa. Il registro del ministero bulgaro indica anche il nome del titolare: Carlo Enrico Matteo Ricci Mingani». Ulteriori loro ricerche individuano poi un comunicato stampa in cui Matteo Ricci si definisce «come “responsabile delle pubblicazioni” di Edinet Ltd. Il comunicato annuncia che “Edinet Ltd ha rilevato il gruppo KontroKultura”. Guarda caso, lo stesso nome usato per l’account pubblicitario. Matteo Ricci si vanta di gestire “oltre 30 testate online”». Quali altri siti ospitano i banner pubblicitari di Edinet, con l’account «kontrokultura»? «Oltre a Gazzettadellasera.com e Liberogiornale.com spuntano News24europa.com, News24tg.com, Notiziea5stelle.com e altri ancora». Notevole che Ricci Mingani usi anche il nome “5 stelle”. Il M5S potrebbe chiedere i danni. Finora non l’ha fatto. Attivissimo e Puente, nelle puntate successive, parleranno del meccanismo Facebook attraverso cui, con una serie di pagine e vari gruppi di “fan club politici”, si svela, «intorno a questi siti, uno stuolo di promotori e “pompatori” di queste false notizie sui social network: complici consapevoli e inconsapevoli». Camere dell’eco, più o meno individuabili e profilate, attraverso cui il dibattito politico italiano risulta drogato. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/12/16/italia/politica/la-catena-dei-siti-bufala-contro-gentiloni-porta-a-sofia-8T8UMuEfoJvdSA1WOpFQmL/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - La “struttura delta” della Casaleggio. Ecco tutti i nomi e... Inserito da: Arlecchino - Dicembre 31, 2016, 02:32:14 pm La “struttura delta” della Casaleggio. Ecco tutti i nomi e come funziona
Dal contratto imposto al M5S Roma fino alle webstar politiche: come l’azienda guadagna Pubblicato il 11/02/2016 Ultima modifica il 11/02/2016 alle ore 07:54 Jacopo Iacoboni Diciamo che è la struttura delta della Casaleggio, uno staff nello staff. Al punto 4a del «contratto» con il candidato sindaco del M5S a Roma, Gianroberto Casaleggio ha inserito una delle clausole più importanti, che possono passare inosservate: «Lo strumento per la divulgazione delle informazioni e la partecipazione dei cittadini è il sito beppegrillo.it/listeciviche/liste/roma». Tradotto, tutto il traffico - anche video e social - deve passare dal blog. Ma chi gestisce in concreto questa “struttura” alla Casaleggio associati? La Stampa è in grado di raccontarlo millimetricamente. Mentre Grillo parla di «Rai fascista», la Casaleggio guadagna dai video di Rai, La7 e Mediaset, con un sistema semplice e perfettamente legale. Prima cosa: ancor prima del boom del M5S, la Casaleggio ha costruito una quindicina di - chiamiamole così - webstar, da Di Battista a Fico, gente con un milione di iscritti su facebook, che è tenuta a concedere di pubblicare ogni proprio video sul sito di Grillo. Se Dibba fa una performance dalla Gruber, la deve mettere sul sito di Casaleggio. I video non vengono caricati su youtube (che non accetta caricamenti con monetizzazione di video protetti da copyright), ma su un altro servizio di cloud storage di video, che non ha evidentemente ancora stipulato accordi con le tv italiane e le società di produzione. A questo servizio la Casaleggio paga una quota per ricevere in cambio dei ritorni pubblicitari dagli spot che partono prima del video, e dai banner (attraverso Adwords o altre piattaforme di monetizzazione pubblicitaria). Per ogni video caricato e visto la Casaleggio incassa in percentuale una quota stimabile fino ai mille euro e oltre per ogni video visualizzato almeno centomila volte (dati variabili). Cosa che a suo tempo fece infuriare moltissimi parlamentari M5S, che però non hanno mai avuto la forza di stoppare questo meccanismo. Alla Casaleggio tre persone hanno tenuto in mano operativamente la cosa, nel corso di questi anni in varie fasi: Pietro Dettori, che gestisce anche gli account twitter di Grillo, e molto spesso è autore materiale dei post (Grillo incredibilmente lascia fare anche quando poco o nulla sa di ciò che viene scritto, anche delle uscite più tremende), figlio di un imprenditore sardo legato in precedenza a Casaleggio. Biagio Simonetta, un giornalista, esperto di new media. Marcello Accanto, un social media manager. E, ultima entry, Cristina Belotti, che si occupa della tv La Cosa, una bella ragazza cresciuta curiosamente alla più pura scuola del centrodestra milanese, la scuola di Paolo Del Debbio - lavorava nella redazione del suo programma - e arrivata alla Casaleggio attraverso il network dei fratelli Pittarello; soprattutto Matteo, fratello di Filippo, storico braccio destro di Casaleggio, un passato anche da boy scout. Belotti è diventata collaboratrice di Luca Eleuteri, uno dei soci della Casaleggio (l’altro è Mario Bucchich; da non molto si sono aggiunti il programmatore storico della Casaleggio, Marco Maiocchi, e un uomo di marketing che collaborava con Casaleggio già in Webegg, Maurizio Benzi). I tre che gestiscono il blog e le pagine social della galassia Casaleggio controllano tutto il giorno il trend di viralità dei contenuti pubblicati, attraverso le analisi comparate dei dati (usano insights di facebook e Google analytics). Con l’incrocio semplicissimo di questi due strumenti, sanno in ogni momento quanto stanno guadagnando. Le webstar politiche fanno fare soldi all’azienda. Un berlusconismo 2.0. C’è però un’altra cosa in cui i «ragazzi» eccellono, e Dettori è bravissimo, la profilazione. È un loro divertimento sapere: chi si collega a un video, da dove, con quale software, quale browser, qual è la sua età e i suoi interessi. Non è proprio The Circle di Dave Eggers - l’azienda è troppo piccola; quello è il sogno. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/02/11/italia/politica/la-struttura-delta-della-casaleggio-ecco-tutti-i-nomi-e-come-funziona-KjOs99jXDHs6JbhPBP5uAM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Distrarre dalla Raggi e rassicurare le cancellerie: ... Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2017, 01:33:20 pm Distrarre dalla Raggi e rassicurare le cancellerie: Casaleggio jr ordina, il fedelissimo Borrli telratta
Ma il fronte anti-Di Maio attacca: se Virginia ha mentito, rischia davvero di cadere LAPRESSE Pubblicato il 09/01/2017 Ultima modifica il 09/01/2017 alle ore 07:03 Jacopo Iacoboni Ier i Nigel Farage ha contattato Beppe Grillo. Un colloquio, ha poi raccontato, nel quale si è complimentato per le recenti prese di posizione del leader M5S iper euroscettiche e molto dure sui migranti. Da quello che ha riferito - Farage ha detto di aver capito che «l’alleanza del M5S con l’Alde non durerà a lungo». Il colloquio con «Beppe» è stato totalmente amichevole, il che appare bizzarro, nel giorno di uno dei più clamorosi, ma anche intelligenti cambi di idea politici della stagione recente: il gruppo grillino passa dall’alleanza con uno dei più feroci euroscettici, il leader della Brexit, all’alleanza con un «eurofanatico», come proprio Farage definisce Verhofstadt. Ma perché avviene proprio adesso, questa svolta a trecentosessanta gradi? E poi: chi l’ha decisa, e attuata? Adesso perché la Casaleggio ha bisogno di cambiare totalmente il frame dell’informazione, che da oggi sarà centrato sui guai di Virginia Raggi (da stamattina ogni giorno potrebbe essere quello buono perché i pm interroghino la sindaca di Roma). La tragedia politica che sarebbe stato un avviso di garanzia, che poteva essere dirompente nella logica forcaiola «indagine uguale dimissioni», è stata attutita col nuovo codice etico grillino: le dimissioni non ci saranno più, per un eventuale avviso di garanzia. Senonché, rivela una fonte che ha accesso alla discussioni importanti nel Movimento, è sorto un altro problema grosso nel quale Raggi s’è infilata da sola, e che spiega quanto sia necessario ancora - per Grillo e Davide Casaleggio - coprire mediaticamente questa vicenda: Raggi potrebbe aver mentito. «Il 16 dicembre, dopo l’arresto di Marra, la sindaca, nella famosa conferenza stampa con accanto Daniele Frongia, disse che “Marra era solo uno dei 23 mila dipendenti del Comune”. È stato un grave errore non comunicativo, politico». Anche al grillino più impermeabile ai fatti risulterebbe difficile credere alla sincerità di questa affermazione della sindaca se - come sembra probabile - dalle chat tra lei e l’ex vicecapo di gabinetto venisse fuori un rapporto politico-amministrativo preferenziale tra i due. «Se Raggi avesse mentito che si fa?». Il fronte Fico-Lombardi (personaggi diversissimi, ma gli unici - per antica militanza uno, per astuzia e, a modo suo, coraggio politico l’altra) potrebbe chiedere la testa della sindaca, a quel punto proprio usando il nuovo codice: che protegge dall’avviso di garanzia, ma spiega che le dimissioni possono esser decise (fu in sostanza il caso di Pizzarotti) quando l’eletto M5S non si comporta in maniera trasparente, o peggio, mente ai «cittadini». I suoi elettori. Ossia: al popolo cinque stelle. In quest’ottica sollevare proprio oggi la questione europea è arma di distrazione di massa (dopo la storia del tribunale popolare sulle fake news). Chi ha deciso, comunque, tempistica e contenuto della svolta sull’Alde? Le impronte di Davide Casaleggio, attraverso il suo fedelissimo David Borrelli, sono ovunque. Di Maio era di certo uno dei pochi a sapere. Come probabilmente il primo capogruppo M5S in Europa, Ignazio Corrao. Borrelli ha sondato le varie opzioni di alleanza; certo è uno non amato dagli ortodossi, perché considerato troppo poco anti-europeista (in tv da Mentana disse «io ho 45 anni, sono nato e cresciuto con il sogno europeo. Il mio primo viaggio è stato un interrail in giro per l’Europa. Credo fortemente in quello che era l’Europa all’epoca»). L’obiettivo di questa mossa di Casaleggio jr è rassicurare le cancellerie europee - a Milano hanno al fin notato che, per gli osservatori stranieri, il M5S sta finendo in un ghetto, quello dei partiti xenofobi, anti-euro e filorussi. «Vogliono giocarsi il tutto per tutto alle prossime politiche, che per loro sono un “o la va o la spacca”». Il Movimento è talmente diviso, e deve tenere insieme talmente tante cose disparate che, paradossalmente, ha una sola chance: vincere a breve, costi quel che costi. Pazienza per la base, il mito delle origini, le contraddizioni e le giravolte. Licenza Creative Commons Da - http://www.lastampa.it/2017/01/09/italia/politica/distrarre-dalla-raggi-e-rassicurare-le-cancellerie-casaleggio-jr-ordina-il-fedelissimo-borrelli-tratta-oJYe2kh9qcLsopqe3SkGnK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - “Chi parla senza via libera non sarà ricandidato”. Inserito da: Arlecchino - Gennaio 26, 2017, 12:28:45 pm “Chi parla senza via libera non sarà ricandidato”.
A rischio 70 parlamentari del M5S Grillo-Casaleggio dopo l’avviso di garanzia a Raggi: siamo sotto attacco. Ma la fronda resta Pubblicato il 24/01/2017 Jacopo Iacoboni La notizia dell’avviso di garanzia è stata comunicata da Virginia Raggi a Beppe Grillo ieri mattina. Il capo del Movimento e Davide Casaleggio se l’aspettavano da giorni, così il post sul blog, tutto a uso interno, delinea una strategia che era stata decisa da giorni, e resterà l’editto bulgaro della militarizzazione del Movimento. «Siamo sotto attacco - si sono detti -, adesso chi parla fuori dalle righe verrà punito, non ci sarà un futuro per lui». Nessuna candidatura, nessuna futura legislatura. LEGGI ANCHE - Roma, Raggi indagata per abuso e falso Il post, che tutti leggono contro Fico, in realtà avvisa Fico (se lui o altri pensano di usare l’indagine sulla Raggi per cavalcare una rivolta interna, «saranno fatti fuori»), ma prova anche a tenere in piedi la giunta Roma. Davide Casaleggio non vuole mollare assolutamente la Raggi. Il disastro della sindaca non è tanto l’avviso di garanzia in sé, da cui il nuovo codice etico M5S l’aveva già protetta ad personam, ma il fatto che - osserva un parlamentare di peso - «ha mentito quando ha detto che Marra era solo uno dei 23 mila dipendenti capitolini». E anche ieri, aver detto «invito a comparire» e non «avviso di garanzia» ha suscitato ire e scherno tra i parlamentari suoi nemici. Ecco perché Grillo ha bisogno della militarizzazione, e degli avvertimenti preventivi. Con la sindaca indagata per due presunti reati, il fronte della rivolta avrebbe potuto rialzare la testa: non solo Fico, ma anche Roberta Lombardi, una che a modo suo sa fare politica e aveva definito Raffaele Marra «un virus che ha infettato il Movimento», la stessa che ha dato un sostanziale via libera a una riunione vera e non sul web dell’assemblea che si sta pensando a Roma. Il non detto dei capi del M5S è che molti di quei settanta parlamentari che hanno seguito la rivolta anti-Di Maio non saranno inseriti tra i candidabili. La Casaleggio sta facendo uno scouting che sostituirà i riottosi, cercando anche competenze migliori: impresa non titanica. L’episodio scatenante è stata la dichiarazione di Fico critico sulla passione di Grillo per Trump. Ma è Raggi, non il neo presidente Usa, il vero nervo scoperto. C’è tutto questo dietro il post di ieri di Grillo, in cui arriva a negare elementari libertà costituzionali dei parlamentari: «I portavoce eletti del Movimento 5 Stelle hanno un compito ben definito: dedicarsi al compimento del programma. Il programma per le prossime elezioni non sarà definito dai parlamentari ma dagli iscritti. Chi non sarà d’accordo potrà perseguire il suo programma in un’altra forza politica», sempre che riesca a farsi eleggere, spiega il testo. Poi prosegue: «Tutte le uscite comunicative dei portavoce (partecipazioni a eventi, interviste alla tv, interviste ai giornali, post sui social network riguardanti l’azione politica del Movimento 5 Stelle e simili) devono essere concordate assieme ai responsabili della comunicazione». Persino tweet e post su Facebook, insomma, vanno decisi coi vertici. Passando attraverso tre persone, Ilaria Loquenzi alla Camera, Rocco Casalino al Senato e Cristina Belotti all’Europarlamento. Un senatore si sfoga: «Noi, parlamentari della repubblica, dobbiamo chiedere se poter parlare a tre comunicatori di cui una esibisce un curriculum (pubblicato sul meetup romano “Cittadini in Movimento”) nel quale compie strafalcioni di ortografia italiana e inglese, “sono un ufficio stampa”, con “capacità di foundraising”, “sono anche un artista visiva”, senza apostrofo. Un altro è un ex del grande fratello di cui Emilio Fede ha recentemente detto “Casalino l’ho aiutato, ma lui non è stato riconoscente”. La terza, nuovo capo comunicazione in Europa, era un’assistente nei programmi di Del Debbio». Trionfa la logica del colpiscine uno per educarne cento. D’Incà, Morra, Nugnes, Sibilia, Tamburrano, sono in tanti ora a esser guardati con sospetto. Il loro futuro politico è molto a rischio. Altri si sono allineati mestamente. Dulcis in fundo Alessandro Di Battista, tenendo un comizio contro i giornalisti a Roma («ci spalano m... addosso») davanti a un capannello di ambulanti, si è trovati dinanzi a un pubblico che gli ha promesso: «Servi bastardi, li ammazziamo noi». LEGGI ANCHE - Referendum sull’autonomia in Veneto: prove d’asse tra Movimento 5 Stelle e Lega Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2017/01/24/italia/politica/chi-parla-senza-via-libera-non-sar-ricandidato-a-rischio-parlamentari-del-ms-yAqYyFJ2FKDnDi0rDA63mM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Roma, via libera allo stadio meno cemento e niente torri Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2017, 11:55:49 am Roma, via libera allo stadio meno cemento e niente torri
La Raggi finisce in ospedale, poi a sera trova l’intesa con la società sul taglio delle cubature. Militanti romani in rivolta, editto di Grillo Virginia Raggi ha avuto un malore ed è stata trattenuta in ospedale al San Filippo Neri, nove ore, per accertamenti, che hanno escluso problemi seri Pubblicato il 25/02/2017 Ultima modifica il 25/02/2017 alle ore 07:17 JACOPO IACOBONI ROMA Alla fine il punto d’incontro per fare lo stadio della Roma s’è trovato: il 50 per cento di cubature di cemento in meno, un business park dimezzato, niente più ponte sul Tevere, addio tre torri. Ma restando a Tor di Valle. Il compromesso che tiene in vita il M5S a Roma. Ci si è arrivati in un incontro avvenuto a tarda sera tra la sindaca e i capi della Roma, dopo che in mattinata Virginia Raggi sindaca si è sentita male e è stata trattenuta in ospedale, nove ore, per accertamenti, che hanno escluso problemi seri. Nel frattempo il Movimento da una parte si riorganizzava all’interno, e dall’altra faceva la spola con i vertici della Roma. LEGGI ANCHE - Stadio Roma, c’è l’accordo: si farà a Tor di Valle Lieve Malore per la Raggi in mattinata Nel Movimento i capi hanno sempre dato la linea all’interno attraverso i post scriptum ai post; l’ultimo - totalmente inosservato dai media - è stato un ps sul blog di Grillo, un messaggio chiarissimo (anche i grillini hanno il loro politichese): in tre righe sotto un testo in cui si parlava completamente d’altro c’era scritto: «Ps. Francesco Sanvitto e il cosiddetto tavolo urbanistico non parlano a nome del Movimento 5 Stelle e non sono titolati a farlo». Sanvitto è il coordinatore del tavolo urbanistico, architetto, vicino politicamente alla Lombardi, e organizzatore della manifestazione sotto il Campidoglio (o meglio: quella che la Raggi ha concesso di fare dietro) l’altro giorno, per protestare contro quello che moltissimi nel M5S romano giudicano «lo stadio del cemento». Insomma: Grillo si è reso conto che lo stadio è una partita strategica sulla quale il Movimento può restare persino sepolto, e ha cercato di dare una mano alla sindaca, assai provata da tutti i punti di vista, per farlo, in qualche modo. Ma come? Sceso a Roma convinto di battezzare un sì, s’è reso conto che il Movimento è seduto sopra un’autentica bomba a orologeria: molto meglio assecondare le proteste dei tifosi romanisti (in maggioranza, elettori della Raggi), che le proteste di quel che resta del nucleo storico di grillini romani, riassunte da Sanvitto, dal celebre post della Lombardi, ma anche - per fare solo un esempio – ben simboleggiate da Francesca De Vito, sorella di Marcello. Lombardi, vistasi progressivamente isolata dai capi, dal suo punto di vista è stata comunque abile. Ha coagulato attorno a una fortissima critica del progetto originario almeno quindici consiglieri. Per farla breve: ha saputo fare - unica - politica, nel deserto di capacità degli altri. In questo modo ha fatto capire che a Roma Grillo deve passare comunque da lei. Qual è però il pacchetto che Raggi ha potuto proporre, prima ai consiglieri poi nell’incontro serale con la Roma? Tolta di mezzo l’idea dello spostamento, giudicata totalmente impraticabile dalla Roma (e da Parnasi), la via è stata una cospicua decementificazione o, come dice una fonte, «una diversa rimodulazione del progetto, con minore intensità di costruzione». Insomma, molto più verde e meno cemento. La rabbia però rimane, in quei militanti che ritenevano il M5S più intransigente nelle trattative coi costruttori. Sanvitto, su un sito romano, romatoday, ieri attaccava: «Non ho mai sostenuto di parlare a nome del Movimento. Siamo semplicemente un tavolo di militanti che da tre anni a questa parte sostengono la stessa posizione sul progetto dello stadio. Fino a che il M5S era all’opposizione andavano bene. Oggi non più. Grillo faccia pace con il cervello. Ce ne faremo una ragione». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/02/25/italia/politica/roma-via-libera-allo-stadio-meno-cemento-e-niente-torri-BXldZ6lB4h7GkbHKOqysZN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. Lo Statuto M5S inchioda Grillo “titolare” e “gestore” del blog Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 12:35:43 pm Lo Statuto M5S inchioda Grillo “titolare” e “gestore” del blog
Dopo la nuova denuncia per diffamazione, scaricabarile del fondatore con la Casaleggio e con chi gestisce manualmente i social e “gli account” (al plurale). Il Pd chiede un milione di danni. La causa è in piedi, solo spostata da Genova a Roma Beppe Grillo, per difendersi dalla querela per diffamazione e dalla richiesta di danni milionaria, fa scrivere ai suoi legali: «Orbene, il blog citato dall’attore (...) è gestito dalla Casaleggio Associati srl, e non da Giuseppe Grillo» Pubblicato il 16/03/2017 - Ultima modifica il 16/03/2017 alle ore 10:10 JACOPO IACOBONI È una vicenda che, assieme ad altre, può entrare nel cuore della cyberpropaganda pro M5S e diventare un caso di scuola. Nella memoria difensiva per una nuova querela per diffamazione arrivata a Beppe Grillo dal Pd (il blog e tweet diedero sostanzialmente dei corrotti a Renzi e Boschi per Tempa Rossa, i due non furono mai neanche indagati; ora il Pd chiede un milione di danni), gli avvocati del capo del M5S scrivono: Grillo «non è responsabile, quindi non è autore (suo sinonimo), né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del blog, né degli account twitter (corsivi nostri), né dei tweet e facebook, non ha alcun potere di direzione né di controllo sul blog né sugli account twitter, né dei tweet o facebook, e tanto meno di, e su, ciò che ivi viene postato». Grillo scarica addosso ad altri eventuali denari da pagare, separandosi da ciò che avviene in suo nome nello spazio cibernetico. Ma addosso a chi? Alla Casaleggio? Al dipendente che gestisce i suoi social? A uomini della comunicazione ufficiale, o dell’Associazione Rousseau? E «gli account», quali sono esattamente? Gli avvocati non usano il singolare (eppure l’account in causa qui è solo quello di Grillo). Usano il plurale. La memoria è firmata da tre legali, Enrico Grillo, Guido Torre, Michele Camboni. Il primo è il nipote di Beppe e, soprattutto, è tra i firmatari (assieme al comico e Enrico Maria Nadasi) di un atto storico, il cosiddetto statuto di cui il M5S si dovette dotare (nel dicembre 2012 a Cogoleto, vicino a Genova) per evitare, disse il fondatore M5S, di correre il rischio di non potersi presentare alle elezioni. Oggi Grillo dice: «Rispondo solo dei post firmati». Tuttavia in quell’atto fondativo, all’articolo 4, è scritto il contrario: «Giuseppe Grillo, in qualità di titolare effettivo del blog raggiungibile all’indirizzo www.beppegrillo.it (...), mette a disposizione dell’Associazione Movimento cinque stelle la pagina del blog». La conclusione: «Spettano quindi al signor Giuseppe Grillo (...) titolarità e gestione della pagina del blog». Peraltro, nella memoria difensiva attuale Enrico Grillo è difensore di Beppe Grillo; nello «statuto» del M5S è, circostanza mai smentita, vicepresidente M5S. Nella pagina del blog, invece, sta scritto che Grillo è titolare per la privacy, e la Casaleggio è titolare del trattamento dei dati. L’intestatario formale è (cosa nota) tale Emanuele Bottaro. È un sistema che rende difficile, ma non impossibile, accertare responsabilità di testi, e favorisce le anonimizzazioni; facebook e account su twitter pongono più problemi di individuazione. Oggi gli avvocati di Grillo scrivono anche (al punto D): «Orbene, il blog citato dall’attore (...) è gestito dalla Casaleggio Associati srl, e non da Giuseppe Grillo». Grillo ci sta dicendo, insomma: prendetevela con ciò che avviene in Casaleggio? Sarebbe la rottura di un vecchio patto che aveva; ma con Gianroberto; non con Davide. Marco Canestrari, ex di quell'azienda, spiega: «ll blog è il centro di un progetto di cui Grillo non è ideatore né amministratore, ma testimonial. Per un po’ Grillo è stato tenuto al corrente delle iniziative della Casaleggio. Poi si è solo fidato. Ora non lo riguardano. O così vorrebbe. In diverse circostanze, il ruolo di chi si offre di accollarsi determinati oneri è detto “prestanome”». Gianroberto Casaleggio - al Fatto che gli chiedeva «quanti post del blog sono suoi e quanti di Grillo?» - rispose: «Sono tutti nostri. Ci sentiamo sei-sette volte al giorno per concordarli, poi io o un mio collaboratore li scriviamo, lui li rilegge. E vanno in rete». Scomparso lui, cosa è successo? Mesi dopo la sua morte, con lo spettro di dover pagare tanti risarcimenti danni, Grillo si sta separando dall’azienda, e dalla cyberpropaganda pro M5S? La causa, contrariamente agli alternative facts esposti ieri sul blog, è in piedi. È stata solo riassunta da Genova a Roma, da qui a tre mesi. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/03/16/italia/politica/lo-statuto-ms-inchioda-grillo-titolare-e-gestore-del-blog-qsxMd8e28cDQpU1a9E0vtJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - «Io, sulle orme di Touraine, o di Daniel Bell, teorizzo che.. Inserito da: Arlecchino - Marzo 25, 2017, 01:41:32 pm De Masi: lavorare gratis ci salverà. L’ho spiegato alla Casaleggio, a Grillo e Davide piaceva l’idea
Il sociologo corteggiato dal M5S: «Le epurazioni? Possono essere anche una garanzia. Se capisci prima chi non va bene puoi evitare i casi Raggi» Dopo la cena lunedì sera all’Hotel Forum con l’assessore di Roma Massimo Colomban, parla il sociologo De Masi, e racconta il suo incontro con Grillo e Casaleggio junior Pubblicato il 22/03/2017 - Ultima modifica il 22/03/2017 alle ore 07:10 JACOPO IACOBONI «Io, sulle orme di Touraine, o di Daniel Bell, teorizzo che tra dieci anni i partiti somiglieranno molto più al Movimento Cinque Stelle che non alla Dc». Professor De Masi, non la preoccupano lievemente le epurazioni, o il populismo? «Beh ma oggi chi non è populista? Anche Renzi lo è». La conversazione con Domenico De Masi, sociologo, autore di slogan come «lavorare gratis, lavorare tutti», o «la disoccupazione ci salverà», è divertente, sebbene talora lunare. Oggi De Masi è uno dei consulenti interpellati da duo Grillo-Casaleggio jr. Com’è nato questo suo rapporto con Grillo? «Vennero da me due parlamentari M5S, Cominardi e Ciprini, e mi chiesero se esistevano metodi sociologici per capire come evolverà il mercato dal lavoro tra dieci anni. Ne è venuta fuori una ricerca, che ora Chiarelettere pubblicherà». E Grillo quando arriva? Cosa gli interessa, dei suoi lavori, il «lavorare gratis lavorare tutti»? O «il futuro è dei disoccupati»? La sua tesi è nota, e fa assai discutere: lavorando gratis si avrebbe comunque una soddisfazione e un reinserimento, lei ritiene. «Grillo legge il rapporto e mi telefona. Chiedeva di passare un’oretta con me. Sono andato a Milano. C’erano lui e Casaleggio, il giovane. Avevano la ricerca con tutte sottolineature. Avevano un’ora di tempo, siamo stati tre ore. Ho spiegato che il lavoro diminuirà ancora. Spero che tutto questo si traduca poi in proposte di legge». Tipo? «La prima potrebbe essere la riduzione dell’orario di lavoro a 36 ore». Ma non è un po’ l’apologia della decrescita quando la gente invece vorrebbe lavorare? «Ma no, è il sogno di Aristotele, la jobless growth! È il progresso, per fortuna». E Grillo e Casaleggio? «Casaleggio è stato zitto tutto il tempo, Grillo faceva tante domande. Ma erano profondamente incuriositi. Li ho trovati molto più interessati dei soliti manager miei committenti. Bisognerebbe dargli un poco più di credito». Le epurazioni non aiutano, in tal senso. «Però se io avessi intuito prima com’era la Raggi, forse l’avrei mandata via. Secondo me è anche una garanzia, di non ricadere in errori fatti». Ah. Capisco. Lunedì era a cena al Forum. «Sì ma con Colomban, non Grillo; domani devo fare una conferenza con lui. Un assessore atipico». Con simpatie quasi leghiste, dicono. Che ci fa lei, un molisano? «Ah, davvero? Non lo sapevo. Di questo Colomban so pochissimo. So che ha venduto l’azienda e ha comprato un castello, e ora deve fare l’assessore a Roma. L’abbiamo chiamato, con Luigi Abete, imprenditori e professori, a raccontarci la sua idea. È già venuto Visco, poi Padoan. Volevamo capire che sta succedendo a Roma». Il M5S va aiutato, lei crede. «Io ho sempre votato Pd, ma a me questi m’intrigano. Parliamoci chiaro: Craxi, che ha ereditato un partito di 150 anni, non ha mai superato il 16%, questi stanno al 33%». Ma non la spaventano il populismo, l’autoritarismo, le loro pratiche sul web? «Ma diciamoci la verità, chi è che non è stato un po’ populista in questi anni? Ormai ogni partito è un uomo che decide tutto. Potremmo avere un parlamento di sette otto persone». A bruciapelo: farebbe il ministro del lavoro M5S? «Io? Mai. Mi chiamo De Masi e sono molto demasiano; sono inaffidabile, dal punto di vista di un partito». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/03/22/italia/politica/de-masi-lavorare-gratis-ci-salver-lho-spiegato-alla-casaleggio-a-grillo-e-davide-piaceva-lidea-fQ4MVVdT7gV7uVudDTa3EI/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - A Ivrea la convention M5S: “Non è la nostra Leopolda, qui ... Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2017, 05:11:18 pm A Ivrea la convention M5S: “Non è la nostra Leopolda, qui parliamo di futuro”
La kermesse della neonata fondazione Casaleggio si è aperta con un video con alcune parole di Gianroberto Casaleggio Pubblicato il 08/04/2017 - Ultima modifica il 08/04/2017 alle ore 13:26 JACOPO IACOBONI INVIATO A IVREA La convention della neonata fondazione Casaleggio a Ivrea si è aperta con un video con alcune parole di Gianroberto Casaleggio e una musica un po’ alla “Profondo rosso”. Nel filmato c’è un chiaro richiamo “olivettiano” che rimanda alla nascita dell’avventura di Gianroberto Casaleggio: sullo schermo immagini della fabbrica novecentesca dove ormai di fatto sono nati i computer. Si è partiti da un richiamo quasi operaista a una certa identità del Movimento 5 stelle, che forse non è quella prevalente ma è esplicitamente richiamata, e si è finiti a mostrare scene di computer e di tastiere, scene più contemporanee e più legate all’immaginario, nel bene e nel male, del Movimento e dell’azienda che lo guida. «Siamo nella vecchia fabbrica della Olivetti dove venivano fatti i tasti della Valentine ed è anche il posto dove lavorava mio padre quando era progettista di sistemi operativi. Quindi l’Olivetti ha lasciato un’aura in questo Paese e volevamo intercettare quest’aura per iniziare a ragionare sui temi del futuro. Oggi abbiamo invitato esperti che ci possano parlare di futuro», ha detto Davide Casaleggio. E a chi gli ha chiesto se sia la Leopolda del M5S Casaleggio sorridendo ha risposto: «Oggi non stiamo parlando di politica, stiamo parlando di futuro». In sala ci sono tutti i principali leader di questa forza politica che ormai si candida a governare il Paese con il suo aspirante premiere Luigi Di Maio, che è seduto accanto alla compagna Silvia Virgulti, in elegante giacca verde e camicia verde smeraldo. C’è Roberto Fico che entrando ha ribadito di restare contrario al Bilderberg, anche per mettere a tacere tutte le polemiche sugli avvicinamenti alle lobby. C’è Di Battista che è sempre molto acclamato. C’è soprattutto una platea abbastanza interessante di piccoli e medi imprenditori. In sala poi ci sono Enrico Mentana, Antonio Di Pietro, Artom, un imprenditore da sempre vicino al M5s e soprattutto a Casaleggio, e ci sarà più tardi Sebastiano Ardita, il procuratore aggiunto di Messina, che di fatto dovrebbe essere l’unico del lungo corteggiamento del Movimento ai giudici perché Francesco Greco avrebbe deciso di non venire. Ma la giornata è lunga e finirà intorno alle sette di stasera, dunque potrebbero esserci sorprese. Tutta la scena è molto televisiva, un format in nero, sobrissimo nero e rosso, come se la parte di Gianroberto Casaleggio fosse quella che riporta alla sobrietà in mezzo a tante derive mediatiche, propagandistiche, a tante ombre che minano la crescita del Movimento. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/04/08/italia/politica/a-ivrea-la-convention-ms-non-la-nostra-leopolda-qui-parliamo-di-futuro-P1N6jyisV2yiGc1nPIU9OP/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Molto marketing, poca politica: una kermesse in stile azienda Inserito da: Arlecchino - Aprile 09, 2017, 04:50:56 pm Molto marketing, poca politica: una kermesse in stile aziendale Il forfait di Nespoli è un caso, pochi giovani in platea. Gli attivisti: “E le donne?” Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto Casaleggio, guida ora l’omonimo studio che «gestisce» le piattaforme dei grillini oltre al sistema Rousseau per la partecipazione online degli attivisti Pubblicato il 09/04/2017 - Ultima modifica il 09/04/2017 alle ore 07:27 Jacopo Iacoboni Inviato a Ivrea (to) È stata una partita bloccata a centrocampo, in cui è mancato il colpo del fuoriclasse. Francesco Greco alla fine non è venuto, quel tipo di legittimazione, culturalmente definitiva, per la Casaleggio ancora non c’è. Ma siamo vicini. Un format costruito come fossimo a La7, e non nella Olivetti di Ivrea, ma un problema ancora irrisolto: la Srl milanese che controlla il Movimento si allarga alla società, la società è tentata (sono i probabili vincitori), ma anche preoccupata, non si fida fino in fondo. E così alla fine il procuratore di Milano non viene. L’astronauta Paolo Nespoli non viene. Altri magistrati hanno rifiutato l’invito. Casaleggio senior amava fare, in azienda, un giochino, lo chiamava la «mappa del potere italiano», consigli di amministrazione, poteri, pezzi di Stato. Ecco: qui c’è per ora una tentata, mappa del potere M5S. Gianluigi Nuzzi, uno dei due speaker ufficiali di questa giornata per ricordare Gianroberto Casaleggio (l’altro è Franco Bechis), dice la verità, forse stizzito: «Abbiamo invitato tanti magistrati: qualcuno ha detto sì, qualcuno ha detto no, qualcuno ha detto prima sì e poi no». E sulla defezione dell’astronauta Nespoli: «Non vorrei che qualcuno gli avesse detto che se fosse salito su questo palco, poi non sarebbe più salito su una navicella». Non è chiaro a chi si riferisse, ma esprime frustrazione: per ora l’operazione di entrare in mondi nuovi riesce solo a metà. Viene Sebastiano Ardita, un fuoriclasse della magistratura. Alla fine, grande il contributo di Enrico Mentana («non sono diventato casaleggiano», ripete, e fa un discorso contro gli alternative facts dei social network, un po’ come parlare di corda in casa dell’impiccato,) e Marco Travaglio a tener su la cosa, con ritmo più televisivo, evita l’afflosciamento. La platea non è semplicemente grillina. Ci sono tanti pensionati, per esempio Luciano Mion, 70 anni, ex della Olivetti: «Sono venuto qui perché conobbi Gianroberto, qui lo chiamavamo l’ombroso». Oppure queste due ragazze, studentesse di ingegneria, Greta di Novara e Lucrezia Tascini di Milano, che domandano: «Ma è possibile non ci sia una donna una sul palco?». Niente musica, a parte quella iniziale, un po’ alla Goblin di Profondo rosso. Le uniche evocazioni sono le frasi di Casaleggio messe su delle pile di fogli, casomai qualcuno proprio volesse strapparle e portarsele a casa. Ci sono due movimenti, qui. La Casaleggio, che parla e sceglie chi deve parlare, e il Movimento dei parlamentari, che devono ascoltare. Non resta loro ormai che rivolgersi ai giornalisti. Roberto Fico dice a Sky che «la riunione del Bilderberg continuiamo a contestarla, ben venga che queste persone escano allo scoperto e le vediamo». Alessandro Di Battista fa battute («Se parlate di Leopolda querelo»). Di Maio è in seconda fila: la sua investitura non pare così scontata, oggi. Chiara Appendino nel frattempo è salutata affettuosamente da Davide Casaleggio. Ripete: «Faccio il sindaco di Torino, e farò questo i prossimi anni». Vedremo. C’è il capo di Google in Italia, Fabio Vaccarono, evoca le «enormi possibilità di accesso all’informazione» (nessun riferimento però alla questione fake news e blog di Grillo). Nicola Bedin, il managing director del San Raffaele, un tempo considerato un istituto berlusconiano: sic transit gloria mundi. Oppure Paolo Magri, il direttore dell’Ispi. Nicola Morra riflette, «la libertà si conquista, anche dentro il M5S, e io me la prendo», a chi gli chiede delle cose che non vanno. Gli interventi filano via un po’ soporiferi, più speech aziendali che politici. Carlo Freccero, sempre franco: «Il Movimento dev’essere una cosa più stropicciata, meno leccata, ci vorrebbe anche gente critica, su quel palco, e loro dovrebbero accettarla». Alle sei di sera Aldo Giannuli, la mente più antiveggente di quelle legate a Gianroberto Casaleggio, sorride disincantato: «Ogni tanto li faccio arrabbiare. Ma mi accettano. E se accettano me vuol dire che non sono così antidemocratici». Poi si allontana, immagine di un Movimento elegante e professorale, che probabilmente non c’è mai stato. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/04/09/italia/politica/molto-marketing-poca-politica-una-kermesse-in-stile-aziendale-92QRnEBjjAOjADcgXUlYBN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - I 5 stelle e il partito dei giudici Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2017, 06:29:47 pm I 5 stelle e il partito dei giudici
Pubblicato il 10/04/2017 - Ultima modifica il 10/04/2017 alle ore 07:15 JACOPO IACOBONI Ci sono un paio di fotografie - opposte - che vanno isolate dalla convention di Ivrea in ricordo di Gianroberto Casaleggio. La prima è l’istante in cui è salito sul palco Sebastiano Ardita, il procuratore aggiunto a Messina, autore di inchieste importanti, spesso concluse con condanne, non con dei nulla di fatto, come altri pm. Pochi hanno notato che Beppe Grillo è arrivato esattamente in quel momento, per sentire proprio quell’intervento. La seconda fotografia è Antonio Di Pietro che diceva in giro «sono qui perché tanti anni fa ho collaborato con Gianroberto Casaleggio», e si è fermato a lungo a parlare con Luca Eleuteri, esecutore di Gianroberto a cui fu demandata - in Casaleggio - la pratica Italia dei Valori. Due vecchi amici, ma nulla più. Ecco: la seconda foto è l’immagine, ormai sbiadita, della Casaleggio che progetta il «partito dei giudici», che fu poi incarnato dall’allora pm più famoso d’Italia. La prima invece è l’immagine della Casaleggio che sta maturando una svolta nel rapporto tra Movimento e giustizia: non più il «partito dei giudici», ma un «partito nei giudici». L’espressione è di una fonte che conosce esattamente le cose di cui si è parlato in alcune chiacchierate riservate a Ivrea. Attorno a un tema centrale: che posizione dovrà assumere il Movimento sulla giustizia, e sui giudici? È noto che il sogno M5S sarebbe poter presentare il nome di Piercamillo Davigo (in caso di vittoria elettorale) come il preferito in una ipotetica rosa da sottoporre al Quirinale. Ma chi lo conosce sostiene: «Non accetterà, quasi al cento per cento». A parte quel quasi, qual è allora l’opzione subordinata dei grillini? Il partito di Davide Casaleggio potrebbe assumere, a breve, una posizione molto forte sul tema: separazione - drastica, assoluta - tra magistratura e carriere in politica. Guarda caso, è la linea che sta cercando di imporre - nella corsa lunga per il Csm - la corrente «Autonomia e Indipendenza», dove tra l’altro militano Davigo e Ardita. Questa presa di posizione sarebbe in forte contrasto con un altro partito trasversale, in magistratura, più disposto agli scambi con la politica (in doppia direzione). Scambi che hanno visto esperienze anche diversissime, ma non sempre brillanti, da Di Pietro a Ingroia, da De Magistris (lanciato sul blog di Grillo assieme a Sonia Alfano) a Piero Grasso. Se questo piano B si realizzerà, il M5S passerebbe dal «partito dei giudici» (quella era l’Idv) al «partito nei giudici», una nuova forma di collateralismo che assicurerebbe, a un tempo, controllo di palazzo Chigi e legame - c’è chi dice addirittura subalternità vera - con un gruppo di toghe amiche. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/04/10/italia/politica/i-stelle-e-il-partito-dei-giudici-vzbO0WNeMtS20RxmgGc5CO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - La difesa di Grillo evoca i contratti e-commerce. Inserito da: Arlecchino - Aprile 13, 2017, 06:16:37 pm La difesa di Grillo evoca i contratti e-commerce.
Cassimatis sospesa dal “gestore” senza nome La strategia degli avvocati: chi si candida accetta con il clic un testo “mutuato” da quelli con le aziende web, che dà ai due capi poteri assoluti Marika Cassimatis. Vincitrice delle votazioni online del 14 marzo per scegliere il candidato sindaco del Movimento a Genova Pubblicato il 13/04/2017 - Ultima modifica il 13/04/2017 alle ore 07:18 JACOPO IACOBONI Un groviglio di articoli e commi, regolamento, statuto e codice etico, codicilli nei quali alla fine è certamente arduo orientarsi, anche dal punto di vista giuridico. A Genova gli avvocati di Grillo - che si riservano ora un reclamo, e in extremis il ritiro del simbolo - contro la Cassimatis le hanno tentate tutte: a partire dall’assenza di «interesse soggettivo ad agire» da parte della ricorrente. Il 17 marzo Grillo «scomunicò» la candidata vincitrice delle votazioni online del 14 marzo. Lei fece ricorso al tribunale civile. Solo dopo - il 6 aprile, la causa era già in piedi - il Collegio dei Probiviri M5S (tre parlamentari di nome Riccardo Fraccaro, Nunzia Catalfo, Paola Carinelli, nessuno dei quali noto alle cronache per distinguo con la linea della Casaleggio) ha sospeso Cassimatis. L’atto è stato usato dalla difesa di Grillo per sostenere che lei, in quanto sospesa, non è più nel Movimento, e non è quindi titolata ad agire. Era andata bene con Venerando Monello e il suo ricorso contro il contratto della Raggi a Roma, ma non è andata bene stavolta: il giudice non ha minimamente accolto questa parte della strategia della Casaleggio. LEGGI ANCHE - Casaleggio e il caso Genova. “Aumentiamo i votanti certificati” (Lombardo) Nella difesa vi è qui una prima falla: gli avvocati citano il Collegio dei probiviri grillini, che tuttavia, nel provvedimento di sospensione della Cassimatis, scrisse - grossolanamente - «vista la comunicazione del gestore del sito del Movimento 5 stelle, a questo collegio pervenuta, sospendiamo...». Chi è il gestore del sito ufficiale del M5S, www.movimento5stelle.it? Trasparenza, zero. Il sito cita però nei credits della pagina il blog www.beppegrillo.it, e spiega «i contenuti di questo sito sono rilasciati sotto licenza (creative commons)». In sostanza, i probiviri scrivono che una sospensione viene varata «vista la comunicazione del gestore». Il titolare dei dati del blog di Grillo è la Casaleggio associati; il gestore è, principalmente, un suo dipendente, oggi all’Associazione Rousseau. I legali di Grillo stanno dicendo - in maniera politicamente rilevante - che, su punti chiave, non decide neanche Grillo, ma «il gestore»? E chi è? Il secondo elemento difensivo è che il capo M5S ha invalidato la votazione che scelse Cassimatis perché, dice, arrivata senza il preavviso di 24 ore (stesso argomento usato dalla Cassimatis per far invalidare il successivo voto, che «elesse», si fa per dire, il rivale Pirondini). I giudici l’hanno ritenuto irrilevante. Il terzo punto è importantissimo: la Casaleggio sa di avere un pesante baco nei testi grillini (sparsi in tre luoghi: regolamento, statuto, codice etico), esattamente nelle ultime due righe dell’articolo 2 del regolamento M5S: «Le decisioni assunte dall’assemblea nella scelta dei candidati sono vincolanti per il capo politico». È un principio assembleare vero: dunque pericolosissimo. È in base a questo, nella sostanza, che Cassimatis vince il ricorso. Sennonché, la vittoria riconosce anche quel regolamento; che invece era stato definito «nullo giuridicamente» a Napoli. È un aspetto notevole, di questa guerra. La Casaleggio, nella causa persa, incassa insomma un riconoscimento (da un tribunale) del contestato testo che è alla base delle espulsioni. Perde sul garante, e su votazioni già avvenute, ma da oggi in poi si potrebbe organizzare prima del voto. La figura del garante, attenzione, esiste: è stata aggiunta, ma solo nel Codice etico grillino. Nel codice, però, il garante può escludere dei candidati solo per motivi di pendenze penali in corso; non per astratte valutazioni sulla loro moralità. Solo che poi Grillo e la Casaleggio fanno votare ai candidati anche una form (un modulo) su Internet in cui è scritto che il garante «può escludere dalla candidatura in ogni momento e fino alla presentazione della lista presso gli uffici del Comune». Sostengono gli avvocati di Grillo, «mutuando la normativa dei contratti conclusi online» (quelli dell’e-commerce, in cui «il clic vale come consenso»). È questa la statuizione formale più alta, finora, dell’applicazione di regole del diritto commerciale alla politica in Italia. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/04/13/italia/politica/la-difesa-di-grillo-evoca-i-contratti-ecommerce-cassimatis-sospesa-dal-gestore-senza-nome-Xb5oQV4b6REaAgbMHltuUN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Dall'ex premier a Letta e Calenda, i troppi aspiranti Macron Inserito da: Arlecchino - Aprile 28, 2017, 12:19:33 pm Dall'ex premier a Letta e Calenda, i troppi aspiranti Macron italiani
L’ex premier Enrico Letta ha un rapporto personale con il candidato francese Emmanuel Macron Pubblicato il 25/04/2017 - Ultima modifica il 25/04/2017 alle ore 07:14 JACOPO IACOBONI È facile essere Macron in Francia, il difficile - e forse tragico - è cercare di esserlo in Italia, col proporzionale, senza doppio turno e senza barrage républicain. La fila è lunga ma, sostanzialmente, si riduce a tre personaggi (alcune comparse offrono simpatiche chiose al tema). Il primo personaggio è Matteo Renzi. Dice che «la vittoria di Macron potrebbe dare molta forza a chi vuole cambiare l’Europa. Chi ama l’ideale europeista sa che gli avversari sono i populismi». Poi precisa: «Ma sa anche che l’Europa è un bene troppo grande per essere lasciato ai soli tecnocrati». Renzi sta puntando tutto, e da anni, anche da prima di Macron, va detto, sul superamento della sfida tra sinistra e destra, ma capisce che, per come si sono messe le cose per lui nell’Italia 2017, la battaglia ai partiti populisti, o cyberfascisti, rischia di collocarlo dalla parte dell’establishment, delle odiate élite. E così sì, vorrebbe essere il Macron italiano, ma accentuando un profilo critico verso l’Europa esistente finisce per allontanarsene troppo: «L’elezione diretta del presidente della commissione, il cambio di paradigma della politica economica, l’Europa sociale, un piano per le periferie, la difesa comune e nuove politiche sulle reti e sulla ricerca: questo chiederemo a Bruxelles». «Il problema è che in Italia nessuno ha avuto non l’ambizione di Macron, quella ce l’hanno, ma la sua visione strategica: mettersi fuori dal sistema dei partiti», riflette Alessandro Campi, politologo mai scontato. «In Italia tutti parlano del cambiamento, ma restano ancorati a forme di politica tradizionale. A Renzi fu anche suggerito, a un certo punto, di uscire dal Pd, di farsi un partito suo, e magari chiamarlo “In Cammino”». Uno scatto che non ha avuto. L’avranno altri, magari Calenda? Certo altri aspiranti Macron italiani sanno muoversi con più efficacia e agganci, almeno europei, sul presupposto - macroniano - che la vittoria contro i populismi arriverà solo da un vero partito europeista, oltre i partiti tradizionali, distante parecchio dalla retorica del «siamo per l’Europa, ma un’Europa diversa». E qui gioca, di sfondo, la figura di Enrico Letta (uomo che peraltro ha un rapporto personale, con Macron). L’ex premier continua a non avere contatti con Renzi, ma gioca una partita impossibile da ridurre al bersanismo. Difficile che ottenga di nuovo una chance di leadership in tempi brevi, ma non intelligente anche pensare di poterne fare a meno, per com’è messa l’Italia. Lui lo sa, e da Sciences Po, dove aspetta gli eventi sulla riva del fiume, suggerisce un’analisi su Macron significativamente diversa da Renzi: «Il dato francese è rappresentato dalla fine del ciclo delle vecchie famiglie politiche che hanno caratterizzato la scena francese. Il rapporto ormai è fra il candidato e gli elettori. Bisogna fare tesoro di questa esperienza, figlia della nuova politica che si veicola attraverso internet, senza la mediazione dei grandi partiti politici. Può piacere o non piacere, si può essere d’accordo o meno, essere contenti o meno di questa evoluzione ma occorre prenderne atto. Chi non lo fa sarà spazzato via». Dove, a parte la curiosa inversione delle parti con Renzi, appare evidente che il macronismo di Letta è un europeismo post-partiti, quello di Renzi un preteso, e rischioso, europeismo anti-establishment. Così potrebbe pure spuntare, in questa corsa, Carlo Calenda, un uomo capace, amato al Quirinale, all’impresa italiana, non troppo connotato politicamente col centrosinistra, anzi. In questo, davvero molto macroniano. E infatti Calenda si smarca dalla gara (ieri s’è limitato a una riflessione classicamente europeista - «il risultato di Macron fondamentale per la tenuta dell’Ue» - ma ha anche lievemente preso in giro, indirettamente, alcuni rivali: «La gara italica a chi è più Macron è sintomo di debolezza e provincialismo»). Macron sarebbe insomma, ci ricorda lui, l’Ena, banche importanti, studi prestigiosi, cosmopolitismo, apertura sui diritti, cultura metropolitana. Ci sarebbero, poi, anche nel centrodestra emulazioni varie. A Stefano Parisi piacerebbe, occupare quello spazio geografico centrale della politica (anche se «augurarsi la vittoria di Macron non vuol dire condividere le politiche economiche e sociali che propone»). Renato Brunetta coltiva un gusto più rapido, comunque definitivo nel suo genere, più Macron di Macron: «Macron è un lib-lab. Come lo sono io». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/04/25/italia/politica/dallex-premier-a-letta-e-calenda-i-troppi-aspiranti-macron-italiani-exxjXZIuiALZGN14ou7B4J/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Militanti M5S denunciano: c’è un traffico di dati sensibili, Inserito da: Arlecchino - Aprile 29, 2017, 12:45:09 pm Militanti M5S denunciano: c’è un traffico di dati sensibili, identità digitali e password private
Online nuove rivelazioni di Supernova, il progetto di due ex collaboratori di Gianroberto Casaleggio. Anche dei parlamentari sarebbero stati a conoscenza della vicenda catanese Pubblicato il 28/04/2017 - Ultima modifica il 28/04/2017 alle ore 19:50 JACOPO IACOBONI Militanti del Movimento che denunciano: per farci iscrivere a un meet up ci hanno chiesto tutti i dati sensibili, il codice fiscale, e persino la password delle nostre mail private. Parlamentari del Movimento che vengono a sapere della cosa da parte di alcuni di quei militanti, e ne discutono animatamente in una chat (anziché denunciarlo, alcuni si preoccupano che la cosa non esca fuori). Infine un pc, con tutti i dati sensibili e le password, che sarebbe sparito e non si sa che fine abbia fatto. Le rivelazioni di questi presunti traffici sono contenute nella nuova anticipazione di Supernova, il libro di due ex stretti collaboratori di Gianroberto Casaleggio, Nicola Biondo e Marco Canestrari, in uscita dopo l’estate. Il capitolo appena uscito s’intitola: “Traffico di dati sensibili, identità digitali e password private”. (Sottotitolo: “A Catania spunta pure un mercato delle tessere”). L’affaire deflagra nelle chat grilline, scrivono gli autori, il 24 aprile. «Se non escono i nomi di chi ha fatto girare questi moduli finisce a schifiu», attacca Giulia Grillo, all’epoca capogruppo uscente M5S a Montecitorio, che vuole vedere chiaro in questa storia. «Al centro della discussione c’è un modulo prestampato», scrivono Biondo e Canestrari (e lo pubblicano). «È un modulo di iscrizione al Movimento cinque stelle e prevede una sfilza di dati sensibili: codice fiscale, estremi del documento di identità, recapiti telefonici e mail. Viene richiesta, verbalmente ma imperativamente, anche la password della mail privata (dice un parlamentare nella chat che abbiamo potuto leggere)». Si tratta naturalmente di qualcosa di totalmente opposto ai principi di trasparenza e onestà del Movimento. «Chi conosce il Movimento sa che l’unico modo di iscriversi è passare dal portale Rousseau, e che nessun meet up può raccogliere iscrizioni e dati di questo tipo - scrive Supernova -. Due parlamentari catanesi, Giulia Grillo e Nunzia Catalfo, sono state allertate da alcuni attivisti. Postano in chat il documento. Vogliono sapere chi lo ha utilizzato». Oltre a non ottenere risposte soddisfacenti, scoprono di più. Un attivista segnala che, circostanza inquietante, proprio in quelle ore è sparito un pc da uno dei meet up catanesi. «Raccogliere dati sensibili senza averne titolo - ricordano Biondo e Canestrari - è un reato. Ma c’è di più. A dirlo è la stessa Catalfo: “Sembrerebbe che insieme al modulo è stata chiesta la password dell’indirizzo personale di posta. Se fosse vera questa cosa sarebbe gravissima. A nome del Movimento...”». In chat enumerano i testimoni di questa storia, chi dice siano quattro, chi ancora di più. Si tratta - nella stagione delle tante ombre nelle pratiche cyber nel mondo pro M5S - di una vicenda allarmante. Biondo e Canestrari spiegano: «Dati sensibili raccolti senza autorizzazione, identità digitali che passano di mano, iscrizioni irregolari, password private. Chi detiene questo “pacchetto di dati” può, se vuole, aprire account a nome dei neo-iscritti». In altre parole, se si possiedono persino le password delle mail personali, si possono aprire account social collegati a persone reali, magari a loro insaputa. Cittadini, anche inconsapevoli, potrebbero anche finire con l’esser prestanomi involontari per “cyber operations”. Un caso limite, di cui - va specificato - in queste chat non si fa cenno. Le parlamentari M5S capiscono che la storia è pesante, la richiesta di dati sensibili e di password fatta non si sa bene da chi. Può fermarsi in Sicilia, o salire lo stivale. Uno degli attivisti catanesi più in vista, si legge in Supernova, spiega che esiste persino «un tariffario», «un mercato delle tessere parallelo per ottenere una candidatura». Il militante osserva: «Adescano la gente ai banchetti o in sede. E poi gli presentano questo modulo per iscriversi al Movimento. E per candidarsi devono portarne 20 per il consiglio comunale e 50 per il sindaco». Biondo e Canestrari raccontano anche di un confronto severo tra due parlamentari catanesi, su questa vicenda. Nunzia Catalfo scrive a Giarrusso: «Mario dobbiamo verificare chi lo ha prodotto [il modulo ndr.] non il testimone che lo denuncia, perché quello semmai lo verificherà la magistratura». E lui: «Testimone di che, se ci nascondi qualche cosa Nunzia non credo sia corretto». «Testimone di un illecito» (gli ribatte Catalfo la quale, scrivono Biondo e Canestrari, «è pienamente consapevole della gravità»). Mario qui qualcuno fa firmare moduli, chiede password personali a nome del Movimento». E Giarrusso: «Se lo fa è gravissimo e va subito cacciato. Ma vorrei sapere da dove vengono le notizie...». Restano tante domande: è successo solo in un meet up catanese, o in altri meet up italiani? E soprattutto, esiste un utilizzatore finale di questi dati, password e identità digitali? Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/04/28/italia/politica/militanti-ms-denunciano-attorno-al-movimento-un-traffico-di-dati-sensibili-identit-digitali-e-password-private-TSwtP0jadBcdI5JPPAToUL/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - E la platea di ricercatori di Harvard tartassa l’aspirante... Inserito da: Arlecchino - Maggio 09, 2017, 05:45:12 pm E la platea di ricercatori di Harvard tartassa l’aspirante candidato premier M5S
Uno degli studiosi: “Avevate promesso competenze, ma il vostro partito è fatto da persone con istruzione molto bassa, e lei non è neanche laureato”. E il professor Archon Fung, introducendo l’incontro con Di Maio: “Il M5S partito populista di destra” Pubblicato il 04/05/2017 - Ultima modifica il 04/05/2017 alle ore 10:46 JACOPO IACOBONI Non è stata una passeggiata, quella di Di Maio ad Harvard. La serata non gli ha risparmiato un’introduzione piuttosto amara da parte del professore Archon Fung, che ha definito il M5S partito «populista di destra». Poi - dopo uno speech rigorosamente letto da un foglio che aveva in mano - Di Maio è stato bersagliato da domande naturalissime in America, ma alle quali non è abituato in Italia, domande sempre rispettose ma puntute, a volte anche molto severe. Il punto più imbarazzante è stato quando un ricercatore italiano che ha studiato ad Harvard, Mario Fittipaldi (caso ha voluto che venisse anche lui da Napoli - s’è concesso una battuta sul fatto che a tutti, anche a lui, piace la pizza e la mozzarella, e avrebbe preferito restare a fare ricerca in Italia anziché doversene andare così lontano) gli ha domandato: «Vi siete presentati sulla scena anche parlando di competenze. Ma io non accetto che questo partito sia fatto da persone con un’istruzione molto bassa, come anche lei, bisogna dire, che non ha finito l’università ma che parla di eccellenze universitarie. Paola Taverna, che faceva l’assistente di laboratorio, deve venire a spiegare a me, che studio queste cose da anni, come funzionano i vaccini?»». Di Maio prima ha replicato timidamente («premesso che ognuno può avere le sue opinioni anche al di là del titolo di studio»...), poi, nel merito, ha scaricato sulla casta anche il problema dell’istruzione non eccezionale di tanti grillini: «Io sono uno di quelli che rappresentano una forza politica che voleva avere più tempo per formarsi, per crescere, per provare a governare questo Paese; ma visto che gli esperti, quelli preparati, lo hanno ridotto in queste condizioni, non abbiamo tempo per riuscire a organizzarci con lentezza. Per questo molti di noi hanno lasciato quello che facevano e hanno deciso di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose. Ci riusciremo? Non lo so. Di certo io gli esperti li ho visti già all’opera, e abbiamo visto in che condizioni è l’Italia». Insomma, ancora una volta l’aspirante candidato premier del Movimento cinque stelle si trova messo di fronte a certe «lacune» del suo curriculum (l’ultimo che gliele aveva fatte notare era stato il presidente del Senato Piero Grasso). Così la visita ad Harvard si è trasformata anche in un non facile esame. Lo stesso accademico che ha introdotto la serata, Archon Fung, professore di Democrazia e cittadinanza alla Harvard Kennedy School, si è sentito in dovere di precisare, a scanso di equivoci: «Anche noi abbiamo ricevuto tante lamentele perché invitavamo qui Luigi Di Maio. Per questo voglio spiegare lo spirito con cui lo riceviamo: è importante coinvolgere anche chi ha punti di vista molti diversi dai nostri. Abbiamo spesso speaker dal centro-sinistra, qualche volta anche dal centro-destra, ma un populista considerato di destra, non lo abbiamo mai avuto». Gli ha indorato la pillola dicendo che il suo partito potrebbe rappresentare «qualcosa di simile a ciò che è avvenuto con Trump», e che lui «potrebbe essere il prossimo primo ministro in Italia». Il tutto con un gran sorriso, ma con Di Maio che aggrottava la fronte. Alla fine c’è stato anche qualcuno che ha chiesto a Di Maio un commento sulle opacità del M5S sui nuovi fascismi, obiettando che su questo in Italia il Movimento è stato assai poco chiaro, e tra l’altro spesso «si fonda su fake news e su teorie anti-scientifiche». La domanda, forse troppo imbarazzante, è stata stoppata cortesemente, anche perché tendeva a diventare troppo lunga. Insomma, una serata agitata e movimentata. Accanto a Di Maio, per tutta la serata, una traduttrice: il vicepresidente della Camera ha preferito leggere il suo discorso in inglese (senza poter ancora esibire la buona pronuncia di Virginia Raggi), e rispondere alle domande in italiano. Infine due parole sull’ente organizzatore della serata: lo “Yes Europe Lab” si definisce (dal sito) un laboratorio di azione civica europeista. Insomma, non fa parte della struttura istituzionale dell’Università di Harvard ma è animato da europei che frequentano l’istituto. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/05/04/italia/politica/e-la-platea-di-ricercatori-di-harvard-tartassa-laspirante-candidato-premier-ms-c1My2zyLXffO99nyX4C0bL/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Imposimato: Casaleggio invita la gente sbagliata, per questo Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2017, 10:52:14 pm Imposimato: Casaleggio invita la gente sbagliata, per questo non sono andato a Ivrea. E Di Maio non è all'altezza
«Ai loro eventi chiamano la Trilateral. A discutere di giustizia scelgono Cantone e non me. Parlo perché vorrei salvare il Movimento» Pubblicato il 13/06/2017 - Ultima modifica il 13/06/2017 alle ore 16:12 JACOPO IACOBONI «Incapaci». Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto di Cassazione, è stato il candidato del Movimento cinque stelle al Quirinale. La nostra conversazione avviene domenica pomeriggio, prima di conoscere i risultati del voto (ieri ci siamo solo brevemente risentiti), dunque le sue considerazioni non sono affatto influenzate dal flop M5S, né tanto meno opportunistiche. Il magistrato, che fu il più votato nelle leggendarie elezioni online sui server della Casaleggio, è un uomo che davvero piace tanto, storicamente, alla base originaria del Movimento: come furono Rodotà, Strada, la Gabanelli. La novità è che mai come in queste ore Imposimato sta usando parole dure sulle scelte del Movimento. Ha criticato le decisioni sullo stadio della Roma. Ha criticato l’accordo (poi fallito) voluto da Davide Casaleggio e Di Maio sulla legge elettorale. Non ne ama giravolte e opportunismi lobbistici. Serve un passo indietro di Grillo per trasformare i 5 Stelle in un partito Cosa sta succedendo, Imposimato? Il Movimento ha ormai tradito se stesso? «Ho scritto un post su Facebook per difendere una ottima cinque stelle, Cristina Grancio, vicepresidente della commissione urbanistica, che si rifiuta di votare al buio la pubblica utilità dello stadio, sollevando obiezioni serissime alla Raggi. La situazione è ingarbugliata. In un atto di significazione notificato al sindaco (ex art 9 D Lgs 241/1990) sono stati avanzati seri dubbi sulla stabilità economica finanziaria della Eurnova spa di Parnasi. L’impresa potrebbe essere coinvolta in una procedura fallimentare. Questo, domando alla Raggi, cosa significherebbe, per i cittadini romani? In più sarebbero a carico dei cittadini, cioè anche mio, 45 milioni di spese, che inizialmente incombevano su chi doveva realizzare lo stadio. È questo, il Movimento dei cittadini?». La Raggi le ha mai dato ascolto? «Non ho rapporti con la Raggi». E con Grillo e Davide Casaleggio? Cosa succede tra voi? «Grillo lasciamo perdere, non parlo con Grillo. Ho un buon rapporto con Davide Casaleggio, ma ultimamente le sue scelte mi lasciano perplesso». È vero che era stato invitato alla convention della Casaleggio a Ivrea e ha deciso di non andare? «Come l’ha saputo? Ero stato invitato ma, pensi lei, a sentire, non a parlare. Le pare normale? Io, che sono stato il candidato al Quirinale del Movimento? Io, che sono un simbolo per loro, il giudice coraggio per i ragazzi grillini? E invece a parlare c’erano personaggi come De Masi. Perché, ho pensato, devo andare ad ascoltare uno che ha fatto campagna per il sì al referendum? E poi avevano chiamato gente della Trilateral, si rende conto? La grande sostenitrice del governo Renzi. Hanno poi fatto un incontro sulla giustizia, chiamando Cantone, e non me...». Come se lo spiega? «Certamente il M5S vive di contrasti interni. Io sono contro le correnti, ma sono anche per il dissenso motivato. E se non sono d’accordo, lo dico. Scrivo e parlo per quella parte di Movimento che vuole salvare il Movimento». Qualcuno lo sta affossando deliberatamente? «È più una questione di incapacità. Per me è stata una delusione Luigi Di Maio. L’ho sostenuto, ma non credo sia all'altezza della situazione. Se tu ti metti a fare una legge elettorale così sballata, fatta di nominati, con un accordo opaco con Renzi e Berlusconi, vuol dire che non sei capace». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/06/13/italia/politica/imposimato-casaleggio-invita-la-gente-sbagliata-per-questo-non-sono-andato-a-ivrea-e-di-maio-non-allaltezza-MRiiAvpAvHFtl7YLoruqzK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. La sindaca M5S di Anguillara: “Avvisai la Raggi del disastro, Inserito da: Arlecchino - Luglio 24, 2017, 05:00:15 pm La sindaca M5S di Anguillara: “Avvisai la Raggi del disastro, non è mai venuta alle riunioni”
Sabrina Anselmo: «C’erano tutti, Acea, Regione, comuni lacustri, tranne la Città Metropolitana. Il Movimento? Vogliono cacciarmi solo perché ho difeso il lago» La sindaca Sabrina Anselmo rischia l’espulsione per aver omesso di aver subito una condanna 9 anni fa, poi estinta per indulto. Del caso si è occupato il blog di Grillo e il M5S ha aperto un procedimento disciplinare Pubblicato il 24/07/2017 - Ultima modifica il 24/07/2017 alle ore 07:14 JACOPO IACOBONI «La Raggi? Alle riunioni sul lago di Bracciano non è mai venuta». Sabrina Anselmo è la sindaca, M5S, di Anguillara Sabazia, uno dei tre comuni lacustri assieme a Bracciano e Trevignano che formano, con Roma Capitale, il Consorzio del lago. Anselmo è una grillina convinta, ambientalista, e sta facendo da molto tempo una battaglia affinché Acea e il Comune di Roma (che ne detiene il 51%) stoppino le captazioni di acqua dal lago. In coincidenza con questa battaglia, è spuntata giovedì una lettera anonima spedita in comune che ricorda una vicenda cui fin qui i vertici M5S non avevano prestato attenzione: Anselmo omise nel suo curriculum di candidata di aver subito una condanna per calunnia nove anni fa. La pena fu condonata e estinta per indulto, non compare sul casellario giudiziale, ma ora la storia è stata fatta tornare a galla, e il M5S ha motivo per espellerla. «È fango contro di me». È un pretesto? Il vero motivo per cui vogliono espellerla è lo scontro con Roma sul lago di Bracciano? «Sì, è inutile negarlo. E non le nascondo che non è il primo che fa questa riflessione. I fatti parlano chiaro. Pago la battaglia per fermare le captazioni di acqua dal lago, battaglia che ho fatto assieme agli altri due sindaci del lago». Acea cosa ha risposto a questa richiesta? «Intanto Acea non ci ha mai fornito i dati reali». Parlano di un mero 8% dei prelievi dal lago. Questo però non quadra con l’ira di Paolo Saccani, il presidente di Acea Ato 2, per lo stop imposto da Zingaretti. Saccani parla di «atto abnorme e illegittimo». Ma perché Acea è così adirata per lo stop? «È quello che gli abbiamo detto anche noi. Solo che Acea non ci ha mai dato i dati; il monitoraggio ce l’hanno solo loro. Anche Zingaretti, che stimo per ciò che ha fatto, glieli chiede, nell’ordinanza. Perché Acea parla sempre solo di “media di captazione”? Non c’è chiarezza. Anche noi abbiamo scienziati e geologi. Acea dice che il lago sarebbe solo trenta centimetri sotto, in realtà lo zero idrometrico va calcolato in riferimento al fiume Arrone: il lago è sotto di 1 metro e 70». Sul disastro ecologico le chiederò dopo. Quali sono esattamente i passi che avete fatto? Da quando, e in quali sedi, denunciate il disastro, che ormai è arrivato? «Da novembre abbiamo allertato i tavoli con i rappresentanti di Acea sul territorio. Poi a marzo sono cominciate le riunioni periodiche in regione. Gli attori c’erano tutti, Acea, la Regione, l’unico sempre assente è stato la Città Metropolitana, che non si è mai presentata» Stiamo parlando della Raggi? Non è mai venuta? «Non ho problemi a dirlo». Scusi, ma perché non veniva? E comunque, siete dello stesso partito, lei non l’ha avvisata direttamente del disastro? «Sì. Io ho avuto occasione di parlarle in un paio di occasioni di quello che stava succedendo sul lago. La situazione era visibile, c’erano anche le foto. L’ho invitata a venire a vedere con i suoi occhi». E lei non è mai venuta? «Se è venuta, io non l’ho mai saputo. Non so se la cosa sia stata presa sottogamba, o se sia stata delegata Acea a gestire la situazione. Fatto sta che è stata gestita malissimo. Se da novembre si fossero presi i provvedimenti giusti, magari si sarebbero salvati quei 40 centimetri che a noi avrebbero fatto la differenza. Questo non prendere mai in considerazione la realtà dei fatti mi amareggia. Acea a volte è venuta ai tavoli anche con arroganza». Raggi cosa le disse quando ne parlaste? «Disse che conosceva bene il problema, che si sarebbe attivata per risolverlo. Capisco perfettamente che un sindaco sale su un treno in corsa. Però un piano più tempestivo non avrebbe portato a questi risultati». Voi avete fatto anche un esposto alla procura di Civitavecchia per disastro ambientale. «Sì, abbiamo chiesto alla Procura di aprire un’indagine per accertare le responsabilità. L’acqua sta finendo. Sta morendo un’alga rara, che abbiamo salvato per miracolo espiantandola in un laboratorio. C’è l’ipotesi di disastro ambientale, e archeologico». Sindaco, lei sarà espulsa dal M5S? «Io non mi tiro indietro. Dovessi scontrarmi con tutto e tutti. Ero entrata nel Movimento proprio per fare battaglie come questa per l’ambiente». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/07/24/italia/politica/la-sindaca-ms-di-anguillara-avvisai-la-raggi-del-disastro-non-mai-venuta-alle-riunioni-33VwOXA0uqKG58IgYPIFxJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Mannino: “Il voltafaccia di Cancelleri a favore degli abusivi Inserito da: Arlecchino - Agosto 16, 2017, 07:35:22 am Mannino: “Il voltafaccia di Cancelleri a favore degli abusivi è la fine del Movimento per cui ho lottato”
La deputata sospesa dal M5S dopo le parole del candidato governatore: «Grillo e molti attivisti dovrebbero rileggersi un post di 11 anni fa contro l’abusivismo di necessità» Pubblicato il 13/08/2017 JACOPO IACOBONI PALERMO Claudia Mannino è una grillina che ha creduto davvero alle battaglie che sbandierava Beppe Grillo sul blog, in un’altra epoca rispetto al Movimento attuale. Siciliana, impegnata da anni a Palermo in una lotta vera, pericolosa, contro l’abusivismo e la mafia dei rifiuti, Mannino è poi finita coinvolta in una vicenda che sa di faida interna nel Movimento, la guerra delle firme false. Rinviata a giudizio a Palermo, si è sempre dichiarata estranea a quella vicenda, in cui è accusata dalla rea confessa Claudia La Rocca. In attesa «fiduciosa» delle decisioni della magistratura, la Mannino - che non ha mai attaccato i giudici, e mai concesso interviste polemiche - ha rifiutato di autosospendersi, come chiesto da Grillo e Casaleggio, perché riteneva di non aver fatto nulla di male, e così è attualmente nel gruppo misto. Ormai si considera una ex grillina. Mannino, lei è stata l’unica a criticare Giancarlo Cancelleri per le parole sull’«abusivismo di necessità» pronunciate dal candidato governatore del Movimento in tv. Cosa ha pensato quando le ha sentite? «Sono rimasta allibita. È un voltafaccia elettorale, clamoroso per il Movimento. Sembrano ormai giustificare l’illegalità o almeno concedere delle scappatoie a chi non ha rispettato la legge. Questo è del tutto incompatibile con il Movimento cinque stelle in cui ho creduto io». Di Grillo, se non erro, si ricordano celebri post sul blog proprio contro «l’abusivismo di necessità», i condoni, la piaga del cemento selvaggio. «Infatti. Beppe e molti attivisti e portavoce dovrebbero rileggersi quello che scrisse proprio Beppe in un post di undici anni fa contro l’abusivismo di necessità. Vede, non possiamo metterci a esaminare il lato umano della questione delle case abusive, e degli affari che ci ruotano intorno. Dobbiamo affrontarla secondo le leggi e con metodo, perché altrimenti è chiaro che molti possono essere in condizioni difficili, e avere le loro giustificazioni. C’era una signora che aveva la casa abusiva a Palermo, si staccò un pezzo del Monte Pellegrino, investì la sua casa e la donna, che aveva rifiutato di lasciare quella casa, è morta. Ecco, è anche una questione di sicurezza. E poi il Movimento era nato per dire basta al meccanismo tutto italiano delle sanatorie, o della legge che va rispettata se riguarda i nemici, mentre si chiude un occhio con gli amici o per bieche ragioni elettorali». Cancelleri a chi sta parlando, a gruppi di interessi siciliani o a singole persone, secondo lei? «Si sta chiaramente rivolgendo a tante persone che vogliono regolarizzare le loro case, o magari neanche vogliono, perché non hanno mai fatto neppure richiesta di regolarizzazione quando sono state varate delle sanatorie in passato. Ma non è questo il metodo». Cancelleri propone un regolamento tipo quello di Bagheria: dove peraltro, piccola parentesi, c’è un sindaco grillino che fu al centro di un caso perché le Iene denunciarono che aveva la casa abusiva. «Ma non c’è solo a Bagheria questo tipo di regolamento. La Campania di De Luca - che il Movimento tanto attacca - eccelle in questo genere di “regolarizzazioni”. In numerosi paesi sono stati emanati questi regolamenti o sanatorie, chiamiamole come vogliamo. Posso fornirle la lista (effettivamente, me la fornisce, nda.). Anche tantissimi paesi siciliani. Tra l’altro, è curioso che il sindaco di Licata, che oggi passa da eroe contro l’abusivismo, non sia stato altrettanto rigoroso quand’era vicesindaco dell’amministrazione precedente. Comunque sia, la strada sarebbe totalmente un’altra rispetto a quella indicata da Cancelleri. Lui e i suoi dicono che rispetteranno la magistratura: ma sanno che le ordinanze di demolizione possono farle anche i comuni? Vogliono per caso intimare ai sindaci di non fare ordinanze? Che spieghino nel dettaglio come vogliono fare». Lei come farebbe? «Intanto non rendi gli abusivi proprietari della casa abusiva. Fai un censimento serio; se esistono delle persone che sono davvero bisognose puoi consentire di restare, ma devono pagare l’affitto, e la casa viene acquisita al patrimonio comunale. Un’altra opzione potrebbero essere delle convenzioni con i proprietari dei palazzi invenduti e su cui non pagano l’Imu, per colpa del governo, in questo caso. Sarebbe un modo virtuoso da entrambi i lati per affrontare la cosa. O ancora, confiscare i beni, o fare la mappatura degli immobili della pubblica amministrazione e destinarne alcuni ad abitazione per quei nuclei familiari che non hanno dove andare a vivere. Nelle frasi di Cancelleri non vedo invece nulla di virtuoso». Lei ha detto di sentirsi ormai sola, in questa battaglia. Da chi si aspettava una parola, nel Movimento? «Intanto un post sul blog con la posizione ufficiale del Movimento. E poi mi aspettavo qualche parola dai campani, che conoscono benissimo questo problema. La Nugnes, o Micillo. Ma anche gli altri che lavorano nelle commissioni sull’ambiente e gli appalti, Federica Daga, Massimo De Rosa, la Terzoni o Zolezzi... E ovviamente Di Maio, che tra parentesi è campano, e questi problemi dovrebbe conoscerli». Non ha detto niente? «Niente, il silenzio più assoluto. È in tour elettorale con Cancelleri e Di Battista». Com’è possibile che al candidato in una Regione come la Sicilia venga consentito di prendere una posizione politica di questo tipo su una materia come l’abusivismo? L’avesse presa un altro, come minimo avrebbe rischiato l’espulsione. «Evidentemente la struttura interna con cui si sono organizzati consente a Cancelleri di dire tutto. Sono allibita». Mannino, può spiegare qual è la sua posizione dopo l’inchiesta della Procura di Palermo sulle firme false? «Io non c’entro nulla e solo dopo ho scoperto che evidentemente qualcosa non è andata come io sapevo. Per questo quando Grillo mi ha chiesto a novembre di sospendermi, non l’ho voluto fare: non ho fatto nulla per cui debba sospendermi. Grillo fece allora una richiesta di assemblea che votasse l’allontanamento dal gruppo. Ma alcuni dei colleghi non hanno voluto che si facesse quest’assemblea, e sono passata al gruppo misto. Roberto Fico mi pregò, il giorno di Pasqua, di non fare l’assemblea, promettendomi che la comunicazione mi avrebbe supportato per il mio lavoro, ma purché me ne fossi andata di mia volontà, altrimenti “ne esci con le ossa rotte”, disse. Il che, detto a una siciliana come me, fa uno strano, brutto effetto». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/08/13/italia/politica/mannino-il-voltafaccia-di-cancelleri-a-favore-degli-abusivi-la-fine-del-movimento-per-cui-ho-lottato-JgYFEmUjaPZuPAEBfTTd5H/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - L’uomo di Putin per il web: “Perché ci interessa il M5S” Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:21:37 pm L’uomo di Putin per il web: “Perché ci interessa il M5S”
Parla Robert Shlegel, ex leader dei giovani putiniani di Nashi: “Di Battista e Di Stefano? Ci sono piaciuti. Loro il primo partito-Internet” «Loro sono il primo vero partito-Internet»: Robert Shlegel con Di Stefano, Sergej Zheleznyak e Di Battista, in un incontro di fine marzo 2016. Lo scopo, «format per ulteriore cooperazione, e esperienza nelle campagne elettorali» Pubblicato il 09/11/2017 JACOPO IACOBONI «Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano? Ci hanno fatto in generale un’impressione positiva, quando ci siamo incontrati. Se l’accordo poi è stato formalizzato? Se c’è stata una forma di aiuto, politico o finanziario? Questo deve chiederlo a Zheleznyak». Il quale, per ora, non ci ha ancora risposto. Per la prima volta in Italia parla un testimone diretto di alcuni dei contatti russi tra il Movimento cinque stelle e uomini della cerchia stretta di Vladimir Putin. Si tratta di Robert Shlegel, neanche trentacinquenne, fino al 2016 deputato della Duma, dov’è stato capo dell’Expert Council della Commissione parlamentare per le politiche sull’informazione, l’information technology e le comunicazioni, e ex membro influente del gruppo della Duma per la creazione di un parlamento elettronico. Per la prima volta siamo in grado poi di pubblicare anche una foto di uno degli incontri dei grillini con gli uomini di Putin, incontri sempre o negati o estremamente minimizzati, e comunque mai adeguatamente pubblicizzati in Italia (l’incontro qui è con Di Battista e Di Stefano, avvenuto a fine marzo 2016 a Mosca, assieme al potentissimo e discusso Sergej Zheleznyak, uomo nella lista di politici e finanzieri russi sottoposti a sanzioni dall’amministrazione Obama). Se i contatti dei grillini con Zheleznyak hanno cominciato ad emergere perché rivelati un anno fa dalla Stampa, la presenza e la testimonianza che ci rende Shlegel sono del tutto nuove. Anche Shlegel, sebbene non svolga più ruolo ufficiale, è un uomo assai influente, nel suo ramo. Benché ancora molto giovane, in Russia ha fatto parlare molto di sé perché fu a lungo il capo di Nashi, la gioventù putiniana, impegnata con tecniche sperimentali anche nel costruire eserciti di attivisti online pro Putin. Nel 2006 costruì uno studio di produzioni video dal basso, che faceva agit prop su Internet per Putin, con il meccanismo di video non sempre riconducibili direttamente a qualcuno, ma potentemente virali. Fu lui a suggerire alla Commissione centrale del partito di formare un elenco di blog e siti per condurre operazioni di agitazione su Internet. Sempre lui a creare, in tandem con i vertici di VKontakte – il più grande social network in cirillico – gli account di tutti i deputati del partito di Putin. Il Guardian scrisse che, nell’agosto 2015, Anonymous International pubblicò un carteggio di mail hackerate ai danni di vari politici russi vicini a Putin, tra cui Shlegel, riguardanti «un attacco troll coordinato ai siti web di importanti organizzazioni giornalistiche americane e inglesi, tra cui New York Times, Cnn, Bbc, Usa Today, Huffington Post». Shlegel ha sempre negato questo tipo di critiche; e ha tra le altre cose tenuto contatti per i russi con Afd, il partito di estrema destra tedesco, e lo Jobbik. «In questo momento non faccio più politica in quanto tale, non sono più al partito», ci dice Shlegel. «Gli incontri col Movimento fanno parte di una serie di meeting internazionali. Non pianificammo un lavoro specifico. Noi eravamo interessati molto al loro lavoro perché sono diventati il primo di questi Internet-party, partiti nati con Internet». Ci viene in aiuto, paradossalmente, un comunicato ufficiale reperito nelle pieghe del web in cirillico. Lo pubblica il sito di Russia Unita, il partito di Putin. In un incontro coi grillini si è parlato, si legge, di «format per una ulteriore cooperazione tra M5S e Russia Unita, esperienza nelle campagne elettorali e agenda internazionale». Il terzo punto riguarda, chiaramente, il no alle sanzioni a Mosca, noto caposaldo geopolitico grillino. Il primo spiega che - nel marzo 2016 - la cooperazione era così avviata da poter mettere a scopo di un meeting un «ulteriore» rafforzamento. Il secondo punto - esperienze, ossia (traduciamo noi) know how, di campagne elettorali - è ciò di cui la Russia di Putin è stata a modo suo maestra, la propaganda in questi anni dark. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2017/11/09/italia/politica/luomo-di-putin-per-il-web-perch-ci-interessa-il-ms-dui6bxd4Qcpiyu8cydmpjM/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Dal web spariscono post della propaganda grillina a favore... Inserito da: Arlecchino - Novembre 16, 2017, 09:10:50 pm Dal web spariscono post della propaganda grillina a favore di Putin e anti-vax
Così la rete pro M5S sta mischiando le carte. Svaniscono pagine di siti o di gruppi Facebook, o sono spostati in siti più defilati i testi più imbarazzanti o apertamente falsi Pubblicato il 14/11/2017 JACOPO IACOBONI Con regolarità inquietante stanno sparendo, dai siti della rete pro M5S (a volte siti ufficiali della Casaleggio, altre volte siti non ufficiali simpatizzanti) pagine, post, video che hanno rappresentato contenuti fondamentali della propaganda pro Putin, o no vax, apparsa nel mondo grillino nel biennio cruciale 2015-2017. Perché questi testi o video adesso scompaiono, risultando assai spesso non accessibili? Ne abbiamo scoperti e testati numerosi, con aiuto diffuso anche da utenti sui social network, per giorni e giorni: e questi sono i risultati al momento in cui scriviamo (tutto è sempre possibile, dopo: anche che riappaiano). Proviamo a indicarne alcuni. Su La Fucina - sito registrato dalla Casaleggio il 25 luglio 2013, che ha come admin Davide Casaleggio - compariva fino all’inizio di quest’estate un post più video antivaccinista che fu viralissimo, dal titolo: «Vaccini, è scesa la censura». Nel video il medico Giuseppe Di Bella attacca: «Si sono lamentati perché in Italia fanno pochi vaccini, però non hanno considerato la quantità documentatissima di danni gravissimi, di bambini autistici, di cui non bisogna parlare. Se c’è lo choc immunitario dei vaccini polivalenti, addirittura sei in una volta, per bambini piccoli, piccolissimi, ecco, non se ne deve parlare». LEGGI ANCHE - Di Maio vola a Washington: “Fedeli agli Usa, non a Mosca” (I. Lombardo) Beppe Grillo a maggio polemizzò ferocemente col New York Times che aveva criticato il Movimento per la propaganda antivaccinista in un articOlo dal titolo “Populismo, politica e morbillo”. Grillo gridò che a sostegno dell’accusa «non c’è nulla, neppure un link, un riferimento, una dichiarazione. Nulla». In realtà i link furono prodotti. Anche La Stampa ne offrì numerosi. Il fatto è che alcuni poi spariscono: per esempio la pagina citata della Fucina, che correla vaccini e autismo (indirizzo originario: http://www.lafucina.it/2015/03/16/medico-e-paziente/). La possiamo tuttavia mostrare grazie a webarchive.org, a una serie di screenshoot, e avevamo scaricato il video. Altro esempio, utile a capire anche alcune dinamiche: una pagina facebook seguitissima (piace a 494 mila persone), Silenzi e falsità dei media italiani, legata all’omonimo sito di cui risulta admin Marcello Dettori (Pietro Dettori, ex social media manager alla Casaleggio, è oggi responsabile editoriale dell’Associazione Rousseau), embedda un video con il logo della Cosa, canale “goviral”. Si tratta di un canale virale della tv del blog di Grillo, con un piccolissimo disclaimer che ne indica la natura teoricamente satirica. Tuttavia quei video, caricati su altri siti, divengono virali in una rete su Facebook dove il disclaimer non c’è più. E girano contenuti di questo tenore: «Putin salva migliaia di operai tirando fuori gli attributi». Il video si riferisce a Putin che ordina in malo modo ai dirigenti di una fabbrica di pagare gli stipendi arretrati ai poveri operai ridotti alla fame. La fabbrica chiuderà di lì a poco, ma questo non viene detto. Il video, reso virale tramite il canale facebook di Silenzi e falsità, non è più accessibile al momento in cui scriviamo (e da vari giorni) da quel canale, dopo che La Stampa ne ha scritto (compare ancora invece dalla pagina Facebook di Tze Tze). Risulta inaccessibile, da La Fucina, un link storico (http://www.lafucina.it/2014/07/29/pilota sparato-aereo malese/) della propaganda pro Putin in Italia, la cui sparizione ci viene segnalata dal debunker David Puente. Il volo MH17 della Malaysia airline si schiantò in Ucraina il 17 luglio 2014. La information war russa impiantò notizie fabbricate in vari luoghi, accusando gli ucraini. Uscì un’intervista, poi smontata, a un pilota ucraino che diceva di aver sparato, e era ripresa da un sito alternativo di destra tedesco, spesso all’origine di contenuti falsi. Divenne un titolo della Fucina: «Il pilota ucraino che confessa di aver sparato sull’aereo malese». Oggi la pagina è sparita. Sul blog di Grillo, a dicembre 2014 apparvero un testo di Manlio Di Stefano e un video apologetico di Putin che dice «vogliono incatenare l’orso russo». Il video reca da settimane il messaggio «Error loading player: No playable sources found» (sia da Chrome, sia da Explorer, sia da Mo zilla/Firefox). Sappiamo però che era un video de La Cosa (la tv ufficiale del blog di Grillo) perché resta embeddato (continua dunque il caricamento pubblicitario) in un altro sito della galassia grillina, defilato, rispetto al blog di Grillo. Pagine vanno, pagine vengono, video appaiono, video spariscono, poi magari ricompaiono, più periferici. Putin, come la militante grillina dissidente Stefania Batzella, viene sbianchettato dalla foto di famiglia in un interno. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/11/14/italia/cronache/dal-web-spariscono-post-della-propaganda-grillina-a-favore-di-putin-e-antivax-KjTwXA1HdeszeQsgFdLlHN/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Il candidato M5S in Sicilia arrestato per estorsione che... Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2017, 05:51:47 pm Il candidato M5S in Sicilia arrestato per estorsione che diceva: “Da una parte gli onesti, noi, dall'altra tutti i partiti”
Fabrizio La Gaipa, imprenditore, aveva corso con i grillini nella lista di Cancelleri Pubblicato il 14/11/2017 - Ultima modifica il 14/11/2017 alle ore 15:59 JACOPO IACOBONI Fabrizio La Gaipa, 42 anni, imprenditore alberghiero di Agrigento, candidato alle scorse regionali con il M5S nella lista di Giancarlo Cancelleri, è stato arrestato per tentata estorsione ai danni di alcuni suoi dipendenti, e è ora agli arresti domiciliari. Secondo l’inchiesta - che nasce da sei esposti in Procura e, fanno sapere gli inquirenti, ha trovato riscontri solidi - avrebbe costretto alcuni dipendenti a firmare false buste paga, e in più avrebbe commesso seri illeciti nelle dichiarazioni al fisco. Non male, per un uomo del partito che gridava «onestà onestà» e vantava una sorta di presunta diversità morale. Ma chi è La Gaipa? Il personaggio merita di essere raccontato meglio, amante di Pirandello e dei film di George Clooney, tutto dedito all’arte, al turismo colto e alla promozione della Sicilia «e del bello», proprietario di un albergo agrigentino di lusso, il “Costazzurra Museum&Spa”, dove facevano massaggi con antichi strumenti in terracotta, già presidente del Consorzio turistico Valle dei Templi. La Gaipa deve aver intrattenuto un buon rapporto con Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, ritratti in foto - ci viene in aiuto il profilo Facebook (attenti, a queste foto su Facebook) di La Gaipa - sorridenti e abbronzatissimi accanto a lui e a Giancarlo Cancelleri. La foto è stata pubblicata nell’ottobre scorso, quando i big del Movimento si sono felicemente fermati a chiacchierare con lui e a immortalarsi, a margine di un buffet, segno di una certa vicinanza di La Gaipa al gruppetto leader del Movimento, quello di Di Maio e Cancelleri, che ha ottenuto un buonissimo risultato in termini di voti in Sicilia ma non è riuscito a portare Cancelleri alla presidenza della Regione. Meloni commenta l’arresto di La Gaipa: “Del M5S i più impresentabili” La notizia del suo arresto, con gravissime accuse, stride un po’ - va detto - col quadretto di La Gaipa che tendevano a consegnarci le sue patinate e pensose interviste pubbliche. Prendiamone una rilasciata ad “Agrigento Oggi”, di neanche un mese fa. La Gaipa vi appariva come l’imprenditore in camicia bianca tutto dedito a creare posti di lavoro «per il bene dei nostri figli»: «Assistiamo - diceva - a un gravissimo impoverimento sociale causato dalla fortissima emigrazione. Ormai praticamente ogni famiglia ha uno o più figli che sono dovuti andare a cercare una prospettiva migliore lontano da questa terra. Dobbiamo tornare a dare opportunità ai nostri figli. Bisogna creare posti di lavoro ed oggi l’unica opportunità è offerta dalle aziende, specie quelle piccole e medie che rappresentano la spina dorsale dell’economia dell’Isola». La Procura ritiene però che i metodi da lui usati non fossero il massimo bene dei nostri figli. La Gaipa si scagliava contro «decenni di malgoverno» che hanno costretto «tutta la Sicilia si trova a vivere una condizione di profonda crisi». Arringava contro «il totale abbandono» della provincia agrigentina. Sosteneva che solo il programma M5S, e il suo in particolare, avrebbero potuto risollevarla: si rinasce solo «ridando dignità ai cittadini dell’agrigentino attraverso il completamento delle opere pubbliche e il ritorno ad una cultura del bello. Solo in questa maniera si creeranno i presupposti per una rinascita sociale ed economica vera e duratura». Ma è negli slogan finali, che La Gaipa si superava, mettendo da una parte gli onesti, lui e il M5S, dall’altra tutti gli altri: «Mi pare evidente che in queste elezioni si combatta una battaglia in cui da una parte ci sono i cittadini e dall’altra la vecchia politica che ci ha portato alla situazione insostenibile in cui siamo». Concludeva che «l’unico alleato del Movimento 5 Stelle sono i cittadini onesti e liberi». Parole onestamente profetiche. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/11/14/italia/politica/candidato-ms-in-sicilia-arrestato-per-estorsione-y3l2YnPt07JNMar2pTvBBJ/pagina.html Titolo: J. IACOBONI. - Leghisti e grillini, ecco i siti e le pagine Facebook imparentate Inserito da: Arlecchino - Novembre 28, 2017, 11:26:39 pm Leghisti e grillini, ecco i siti e le pagine Facebook imparentate
Il report informatico citato dal Nyt: “Hanno lo stesso codice”. Il social manager di Salvini: lo cambierò Il legame tra Salvini e Mosca è sempre stato dichiarato apertamente dalla Lega. Ora emergono siti di sostegno ufficiale leghisti che condividono codici di Google con siti del mondo pro M5S Pubblicato il 26/11/2017 - Ultima modifica il 26/11/2017 alle ore 07:23 JACOPO IACOBONI Mentre il Movimento smentiva furiosamente la notizia di un incontro con Matteo Salvini, un sito web che sostiene in modo ufficiale Salvini risultava condividere i codici analytics di Google e l’Id di Google Adsense (con cui viene monetizzata la pubblicità online) con siti pro M5S, e siti pro Putin. L’analisi, resa nota dal New York Times, è in un report della società dell’informatico Andrea Stroppa, consulente tra gli altri di Matteo Renzi, che La Stampa ha potuto consultare, e aggiunge importanti dettagli sull’esistenza nei social italiani di sovrapposizioni de facto tra aree politiche diverse in Italia, all’insegna di un nemico comune: il governo, le élite liberal, il Pd, Renzi, la Boschi, la Boldrini, ma anche Monti, Napolitano, la Bonino, Gentiloni, gli immigrati, la società multietnica, gli Stati Uniti, l’euro, l’Europa. Una propaganda spesso xenofoba, sempre anticasta, centrata sull’idea che i politici siano tutti corrotti tranne grillini e leghisti, o sull’esaltazione di Putin. Oggi possiamo fare alcuni passi avanti, fornendo i nomi dei due siti grillini citati nel report. Si tratta, ci ha confermato Stroppa, di Videoa5stelle.info (ha una relativa pagina Facebook da 21 mila follower) e infoa5stelle.info (e relativa pagina Facebook da 95 mila follower). Luca Morisi, il social media manager di Salvini, che inizialmente aveva declinato ogni commento al Nyt, in serata ha riconosciuto che i codici coincidono per i diversi siti. Ha spiegato però che un ex attivista M5S ha lavorato assieme a lui alla costruzione del sito ufficiale “Noi con Salvini”, e ci ha copiato gli stessi codici informatici dei siti grillini e putiniani; «ma non abbiamo nulla a che fare con i siti pro M5S o pro Putin», dice Morisi. Ha promesso che tutto sarà bonificato nel weekend. A una richiesta di ulteriore chiarimento inviata da La Stampa non ha risposto. In alcuni paesi, come l’Inghilterra, la coordinazione delle propagande è illegale secondo la legge elettorale (in Uk c’è un’inchiesta su presunto coordinamento illegale tra la campagna per la Brexit di Farage e quella di Cameron). In Italia non lo è, non si è mai neanche ben capito il problema. Per ora, continuiamo a non sapere - Google non aiuta - chi sia l’intestatario dell’account Adsense. Un’analisi dei contenuti, di questi siti, aiuta a capire alcuni “mediatori", tra network diversi (i mediatori sono come i tubi di un impianto idraulico): usando il grafo di Facebook scopriamo che i post di un sito grillino in questione, “Infoa5stelle”, vengono rilanciati alacremente (quattro volte nei primi quattro post della colonna ordinata per ampiezza delle condivisioni) dal Fan club Luigi Di Maio, una pagina non ufficiale di 75 mila seguaci, di cui abbiamo scritto in passato, molto centrale nel network pro M5S su Facebook, e gestita da personaggi intrecciatissimi (nelle amicizie Facebook) a profili di big grillini. La Stampa scrisse un anno fa di un vero network pro M5S, ben costruito, 550 pagine, sei grossi cluster, profilati per temi. Traduzione: la sovrapposizione Lega-mondo M5S, dai codici coincidenti, entra facilmente nei rispettivi network. La seconda storia di questi giorni riguarda un caso di falso interessante perché anche qui c’è un errore, della catena, che fa venire alla luce connessioni: Maria Elena Boschi ha denunciato giorni fa un profilo Facebook (tale Mario De Luise) e una pagina (Virus5stelle) che postavano diffamazione violenta contro lei e Boldrini, tra gli altri, accostandole a Riina (oltre a cose come foto di Renzi in una bara, e foto di Napolitano schiacciato in un pozzo; così, per fare due soli esempi). Uno dei due gestori della pagina, Adriano Valente, esibisce nei suoi post sui social una foto con Di Maio a una marcia grillina (la foto è stata ritrovata e pubblicata su twitter da Lorenzo Romani, un social consultant che ad agosto aveva per primo lanciato l’allarme documentato su sovrapposizioni di codici tra siti leghisti e grillini). Valente indossa il laccio nero da badge riservato agli organizzatori del corteo. La foto è vera? Nardelli, reporter di Buzzfeed, ha poi pubblicato che Di Maio dal suo profilo ufficiale Facebook, in passato, ha taggato Valente. Boschi aveva sfidato Di Maio a dire qualcosa; ieri nel suo post sulle fake news il candidato premier M5S non ha detto nulla sui due casi specifici, ha solo condannato in generale le fake news. Valente dice di cadere dalle nuvole: «Giusto per chiarire, gestisco sei pagine numerose in rete (sic) assieme ad altri ragazzi, un certo Mario De Luise pare abbia postato ieri dal suo profilo una bufala del funerale di Riina. Pare poi l’abbia pure pubblicata sulla pagina Virus 5 stelle. Io personalmente sono estraneo». Ma è lui il gestore di quella pagina. E poi: chi sono gli «altri ragazzi» di cui parla? Esistono persone che fanno gli intestatari di pagine e gruppi? Infine, il profilo di De Luise: è stato chiuso su Facebook, ma ne aveva almeno un altro identico (col nome scritto attaccato) che posta contenuti da pagine o gruppi Facebook del network pro M5S: Tutti con il M5S (146.114 seguaci), Adesso basta (473 mila), Noi sosteniamo il M5S (99.870). È una guerra; che, senza nessun problema, raggiunge più di tre milioni di profili di italiani. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/11/26/italia/politica/leghisti-e-grillini-ecco-i-siti-e-le-pagine-facebook-imparentate-eD0mUA5EwRTdAKaRONE8BJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Il Pd accusa: “Di Maio chiarisca su quei siti di disinformazi Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2017, 08:57:17 pm Il Pd accusa: “Di Maio chiarisca su quei siti di disinformazione”.
A quali personaggi portano le impronte su Facebook Il primo report annunciato da Renzi sulle fake news. Gli incroci attorno al “Club Luigi Di Maio” su Facebook, che posta violenza, antisemitismo e casi di presunta diffamazione Il report del Pd inizia tracciando la storia web di una singola fake news su «L’incontro segreto Renzi-Zuckerberg», accompagnata dal titolo strillato «VERGOGNA!»: nella «villa» di Renzi a Firenze il leader Pd e il CEO di Facebook avrebbero parlato di come censurare informazione e libertà di opinione sul web. Ovviamente non andò così Pubblicato il 13/12/2017 Ultima modifica il 13/12/2017 alle ore 07:36 JACOPO IACOBONI Alcuni siti e pagine Facebook pro M5S, alacri nel diffondere disinformazione e campagne di demonizzazione virali, presentano un evidente coordinamento nei post, e sono gestiti, sì, da personaggi privi di cariche ufficiali, che però risultano più volte taggati su Facebook da profili ufficiali del Movimento, a partire da quello di Luigi Di Maio. Sono alcuni dei punti nodali contenuti nel primo report pubblicato dal Pd sulla Disinformazione. Il report inizia tracciando la storia web di una singola fake news su «L’incontro segreto Renzi-Zuckerberg», accompagnata da titolo strillato «VERGOGNA!»: nella «villa» di Renzi a Firenze il leader Pd e il Ceo di Facebook avrebbero parlato di come censurare informazione e libertà di opinione sul web. Ovviamente non è andata così, il post originario è su una pagina pseudosatirica, ma post e video vengono quasi all’istante (soprattutto, a un minuto di distanza tra loro) rilanciati da tre siti del network pro M5S: Virus5Stelle, M5SNews, Vogliamo il Movimento 5 Stelle al Governo. Già solo così raggiungono 230mila utenti. Chi sono i gestori? I primi due sono amministrati dalle stesse persone: Daniele Ferrari e Adriano Valente. Ferrari è anche admin di «M5SNews». Uno di questi siti mise in circolo la foto in cui si faceva passare il concetto di Boschi e Boldrini mafiose (in quanto immortalate al funerale di Riina; cosa naturalmente mai avvenuta). Nardelli, reporter di Buzzfeed, aveva fatto notare come Valente fosse stato taggato dal profilo Facebook ufficiale di Di Maio. Ma anche l’altro gestore Ferrari - dice il report Pd - «admin di tutte e tre le pagine, è taggato in alcuni post di Luigi Di Maio (del 14 gennaio e del 9 gennaio 2016)». Di Maio sa di taggare gente che tiene pagine con ripetute, presunte diffamazioni seriali? Ferrari, mostra il report, è anche taggato da un’altra pagina Facebook ufficiale, quella di Riccardo Fraccaro. Nel report si racconta poi un caso diverso: un sito e pagina Facebook di destra con 400 mila fan, Adesso basta, il cui proprietario risulta essere all’estero, un ricco texano che ha una catena di siti della rete alt-right Usa, spesso xenofobi. «Adesso basta» condivide parti sorgenti con pagine leghiste, ha scoperto David Puente, e risulta intrecciata col network rivelato dall’inchiesta del New York Times nelle settimane scorse: pagine ufficiali leghiste e non ufficiali grilline (gestite dal social media manager ufficiale di Salvini, e da un tale di Afragola che si dice «attivista M5S», e ha l’amicizia Facebook ricambiata con diversi big grillini). Forse merita aggiungere qualcosa sul «Club Luigi Di Maio» su Facebook, quello che pubblicò la foto di Emanuele Fiano, parlamentare Pd di religione ebraica, assimilato a un maiale. Enrico Mentana, in un’altra occasione, aveva chiesto a Di Maio che diffidasse una pagina di tale tenore dall’usare il suo nome. Di Maio rispose: «Abbiamo chiesto a Facebook di cambiare il nome. Qualcuno a me estraneo pubblica delle foto insultando il deputato Pd Fiano». Ma il nome del “Club” resta uguale, come anche il tenore dei post. Facciamo due esempi degli ultimi giorni: uno, un post con tante foto segnaletiche di politici del Pd, o Monti, o Fornero, o Bonino, e la scritta «che ne pensate?». Il commento più civile è: «li cospargerei col kerosene». Due, il «Club Di Maio» pubblica post di Daniele Tizzanini, ultrà del Genoa, personaggio oggetto di attenzioni giudiziarie, raccontato bene da Ferruccio Sansa sul Fatto, già autore del minaccioso blitz alla redazione del Secolo XIX, che in passato scortò Grillo nella passeggiata a Genova dopo l’alluvione (Grillo disse poi di non conoscerlo). Il «Club Di Maio» «non ha nessun legame con me né col M5S», scrisse Di Maio. Ma il Club pubblica (l’ultimo ieri l’altro) post del profilo “Dario De Falco”, il quale a sua volta fino al 2016 (abbiamo gli screenshot) posta contenuti del «Club». È lo stesso De Falco amico d’infanzia di Di Maio, consigliere M5S di Pomigliano, oggi un personaggio ufficiale importante del Movimento? È entrato infatti nei tre membri del Comitato elettorale M5S per le elezioni 2018 (gli altri due sono Spadafora e Dettori). Il profilo “De Falco” condivise sulla pagina del «Club» la foto di un compleanno di Di Maio di anni fa. “De Falco” si tagga con “Nicola Iovinee”, uno degli admin del «Club». Siamo in una sfera non ufficiale, naturalmente il Movimento e Di Maio nulla hanno nulla a che fare con tutto ciò. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/12/13/italia/politica/il-pd-accusa-di-maio-chiarisca-su-quei-siti-di-disinformazione-jaAkRHxqmJlrs9EyNFAZuK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - L’ambasciata britannica riceve Casaleggio. Inserito da: Arlecchino - Dicembre 22, 2017, 04:09:26 pm L’ambasciata britannica riceve Casaleggio.
Il Movimento osservato speciale a Londra Mostrato il feeling con Davide, contro le tentazioni russe 5S Jill Morris, ambasciatore britannico a Roma, ha ricevuto Davide Casaleggio «per capire meglio il programma e gli obiettivi del M5S» Pubblicato il 21/12/2017 - Ultima modifica il 21/12/2017 alle ore 10:51 JACOPO IACOBONI Nella giornata di martedì Davide Casaleggio - presidente della Casaleggio associati - è stato ricevuto dall’ambasciatore britannico a Roma Jill Morris. Lo ha comunicato lei stessa su twitter, spiazzando un po’ i riservati ambienti milanesi dei cinque stelle, che non avevano dato pubblica comunicazione dell’incontro. Morris ha postato una bella foto sorridente del colloquio, accompagnata dal seguente commento: «Lieta di incontrare ieri a Roma Davide Casaleggio per capire meglio il programma e gli obiettivi del M5S». L’incontro è stato cordiale e, a quanto risulta a La Stampa, è andato molto bene. Non è la prima volta che la rappresentanza diplomatica di Sua Maestà si vede in forma ufficiale con esponenti importanti dei cinque stelle, Movimento che molto incuriosisce oltremanica, ma è anche un osservato speciale e un oggetto misterioso, per tante ragioni. Solo per stare al passato più recente, sono stati ricevuti due dei giovani leader parlamentari più in vista del gruppo grillino. Alcune circostanze di questo incontro con Casaleggio jr meritano tuttavia un approfondimento. Se è vero che l’ambasciata è solita intrattenere rapporti cordiali anche con altre forze politiche italiane, è altrettanto un fatto che il Foreign Office - il ministero degli Esteri britannico - ha una lunga tradizione di discreta, benché attiva presenza in alcune dinamiche della politica italiana. Non è sfuggita la circostanza che sia stata proprio l’ambasciata a render pubblico questo incontro con Davide Casaleggio, uomo che non ricopre ruoli ufficiali nel Movimento, e anzi ha sempre detto di essere solo un consulente per la piattaforma online «a titolo gratuito». Se è stato ricevuto «per capire meglio gli obiettivi del M5S», e se questo ci viene fatto sapere direttamente dall’ambasciatore, ha un valore. Non era certo sfuggito al Foreign Office - da sempre su posizioni atlantiche, e forte di un orientamento filo Nato mai messo in discussione neanche nella stagione della Brexit - il posizionamento geopolitico del Movimento, l’allenaza con Farage, gli incontri dei grillini con emissari del partito di Vladimir Putin, e più in generale una evidente narrativa anti Nato e filorussa del M5S, che si è speso per abolire le sanzioni a Mosca, ed è arrivato a evocare la possibilità di rivolgersi ai cittadini italiani - con un referendum - sulla stessa adesione italiana alla Nato. Davide Casaleggio agli occhi degli inglesi è la persona ideale per ricordare al Movimento le sue origini: ha un legame speciale con l’Inghilterra, è figlio di madre inglese, è bilingue e ha la doppia cittadinanza, tutti elementi che sembrano riassumere in sé, anche simbolicamente, l’antico lavoro svolto da Gianroberto in una joint venture inglese-italiana che si occupava di telecomunicazioni. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2017/12/21/italia/politica/lambasciata-britannica-riceve-casaleggio-il-movimento-osservato-speciale-a-londra-i7DJtiSrAHkCmLzaZgrIVI/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. Guccifer 2.0, che hackerò le mail della Clinton, è un agente.. Inserito da: Arlecchino - Marzo 24, 2018, 11:33:45 am Guccifer 2.0, che hackerò le mail della Clinton, è un agente ufficiale dei servizi militari russi
Nell’operazione del GRU alcuni errori rivelatori. La rivelazione del Daily Beast, su analisi forensica incorporata dall'indagine Usa, chiude il capitolo della contro-narrativa «non c’è prova che sia stata Mosca» Pubblicato il 23/03/2018 - Ultima modifica il 23/03/2018 alle ore 17:51 JACOPO IACOBONI Un piccolo ma evidente errore lasciato nel manufatto dell’hackeraggio ha consentito di individuare, a questo punto in maniera sostanzialmente definitiva, l’identità di Guccifer 2.0 - l’account accreditato di aver passato a Wikileaks le mail hackerate al DNC, i democratici Usa: si ha la conferma definitiva, sostiene il Daily Best, che Guccifer 2.0 è un ufficiale del GRU, il servizio segreto militare russo. Il procuratore speciale Robert Mueller ha immediatamente acquisito la prova, e portato nel suo team gli agenti che hanno prodotto l’ultima analisi forensica. Nei primi passi dell’indictment, Mueller aveva puntato su 13 attori russi non ufficiali, ma esordito con cautela, con la tecnica di un avvicinamento sempre molto graduale ai bersagli più grossi. Il più importante dei russi dell’indictment era un personaggio intermedio, un oligarca, ma non dei più potenti, “il cuoco di Putin”, Evghenij Prigozhin, proprietario dell’Internet Research Agency, la cosiddetta troll factory di San Pietroburgo. Mueller non aveva puntato direttamente al Cremlino, o agli apparati - civili e militari - della Russia. Richiesto di un commento dal giornale americano, Mueller ha declinato. L’attribuzione forensica è però quella cruciale; e potrebbe alzare di molto il tiro dell’indagine, passando da una sfera di attori non ufficiali russi alla sfera dei servizi, direttamente controllati dal Cremlino. Nel gennaio del 2017 un documento ufficiale dell’intera comunità dell’intelligence americana (Cia, Fbi, Nsa) aveva reso noto «con probabilità molto alta» che il GRU aveva usato Guccifer 2.0 e Dcleaks per disseminare le mail hackerate a Hillary Clinton e John Podesta, ma non aveva direttamente considerato Guccifer un agente dei servizi segreti militari. È il passaggio che sta avvenendo in queste ore in America, e dovrebbe spazzar via in modo definitivo argomenti tipo quelli che si sono sentiti all’inizio di questa storia («eh ma non c’è prova che sia stata la Russia ad hackerare la Clinton», oppure «Guccifer è una false flag, in realtà un attore rumeno, che si finge russo»). Guccifer ha sempre preteso di presentarci come «hacker solitario», qualcuno che aveva agito senza scopo politico e senza collegamenti statuali. Una pretesa che appare ormai sostanzialmente insostenibile. Peraltro, Guccifer polemizzava sarcasticamente con Crowdstrike - la prima azienda di cybersecurity che ricondusse l’hackeraggio ai russi: «Davvero credete che siamo stati dentro il sistema del DNC per un anno e abbiamo preso solo due documenti?». Tecnicamente, Guccifer si connetteva con una VPN (un network privato), Elite VPN, che aveva un punto di uscita apparente in Francia, ma il quartier generale in Russia. In almeno un’occasione, scrive però The Beast, Guccifer si connette senza VPN, il che porta abbastanza facilmente a tracciare il suo IP in Grizodubovoy Street, a Mosca, una delle sedi ufficiali del GRU. Partita finita. I leaks cominciano da DCleaks nel giugno 2016, il giorno di apertura della convention dei democratici. Il 22 luglio Wikileaks inizia a pubblicare 19mila mail e 8000 allegati, rubati nell’hackeraggio dai russi. Nel frattempo Roger Stone, uno dei consiglieri di Donald Trump, è ripetutamente in contatto con Guccifer, via messaggio diretto. Wikileaks ha sempre reclamato di non aver mai comunicato con Stone; Stone ha testimoniato - alla Commissione Intelligence della Camera, - di aver comunicato con Wikileaks attraverso «un intermediario», da lui identificato come «un giornalista». The Atlantic ha qui documentato che Stone e Wikileaks comunicarono direttamente il 13 ottobre 2016 [Stone confermò la veridicità dei messaggi di cui parla The Atlantic, pur definendoli «fuori contesto»; messaggi in cui si dice «amico» di Wikileaks; ma non volle fornire la sua schermata della conversazione, utile eventualmente a correggere The Atlantic]. Thomas Rid, professore di forensica politica alla Johns Hopkins Sais a Washington, spiega: «L’errore [lasciato dall’ufficiale del GRU] è molto rivelatore. Ma è solo uno di numerosi errori. Noi ne notammo alcuni il primo giorno, molti dei quali ancora non sono usciti. A questo punto non ci aspettiamo più grandi sorprese. Non abbiamo a che fare col loro miglior team». A meno che ovviamente non abbiano voluto disseminare di firme l’operazione, ma le firme sono davvero troppe: possibile che abbiano puntato al bersaglio senza preoccuparsi granché neanche del tradecraft, e del nascondimento dell’operazione. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. DA - http://www.lastampa.it/2018/03/23/esteri/guccifer-che-hacker-le-mail-della-clinton-un-agente-ufficiale-dei-servizi-militari-russi-TLNJlIhYtjMXV9SmWXQOQK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. Facebook rimuove più di 250 pagine e profili che erano operati Inserito da: Arlecchino - Aprile 04, 2018, 12:51:24 pm Facebook rimuove più di 250 pagine e profili che erano operati dalla troll factory di San Pietroburgo Erano rivolti soprattutto a target interni russi. Thomas Rid: “Manca una coordinazione tra l’attività dell’IRA e gli hacker di Apt28 e gli altri attori russi impegnati in hackeraggi e leaks”. E Caroline Orr fa notare: “Convenientemente, la rimozione arriva poco prima che Zuckerberg vada a testimoniare davanti al Congresso” Pubblicato il 04/04/2018 - Ultima modifica il 04/04/2018 alle ore 08:42 Jacopo Iacoboni La notizia è importante, ma anche tardiva e lacunosa: Facebook ha rimosso 70 account di Facebook e 65 account di Instagram, assieme a 138 pagine Facebook, che erano controllati direttamente dalla troll factory di San Pietroburgo, la famigerata Internet Research Agency (IRA). Sono pagine soprattutto russe, Facebook dice che il 95% delle pagine era in russo e agiva su scenari interni russi, ma bisognerebbe comunque poter studiare attività ed engagement di queste pagine e profili, per capire se hanno operato - per esempio dal punto di vista pubblicitario - in scenari americani o europei. E soprattutto per capire le date nelle quali hanno agito. Cosa che non ci viene concessa. La prima evidenza è che, per quanto riguarda l’interferenza russa nei processi elettorali occidentali (il referendum sulla Brexit in Grand Bretagna, le presidenziali americane che hanno portato all’elezione di Donald Trump, il referendum costituzionale italiano del 5 dicembre 2016, le elezioni presidenziali francesi, con il ballottaggio tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen), queste pagine e dunque questa operazione di Facebook ci dicano relativamente poco, se non che il problema delle ops della Russia c’è stato eccome, anche se non riusciamo a circoscriverlo e quantificarlo con precisione. Marshall Cohen, analista della Cnn, ritiene che questa chiusura di pagine confermi «quanto mi ha detto un giornalista top a Mosca: l’IRA ormai ha spostato le disinfo ops verso audience interne russe». È possibile che ciò sia avvenuto dopo il cruciale biennio elettorale 2016-2017. Alex Stamos, il capo della sicurezza di Facebook dato in uscita da molti rumors, ha firmato il comunicato e si dice «orgoglioso di lavorare con un grande team che sta combattendo la Misinformation in tutte le lingue e tutte le nazioni. Questo è un passo importante, ma c’è molto ancora da fare». In realtà, raccontano che Stamos - che ha rischiato, unico, di pagare per lo scandalo Cambridge Analytica - sia forse il più determinato dentro Facebook a combattere le ops russe e l’interferenza di Mosca nei processi elettorali occidentali, ma non tutti abbiano sostenuto l’intensità della sua battaglia. Il che spiega in parte ritardi e lentezze. Tra l’altro la mossa di Menlo Park arriva con una tempistica non neutrale, come ha fatto notare Caroline Orr: «Convenientemente, proprio prima che Zuckerberg vada a testimoniare davanti al Congresso, Facebook finalmente rimuove pagine e account legati alla troll Factory di San Pietroburgo». Volendo lo si poteva fare prima? Dal punto di vista dell’intelligence, è una mossa che può inasprire il contraccolpo dal governo russo contro gli Usa «molto più di qualunque altra rivelazione, perché è una mossa focalizzata all’interno della Russia», spiega Thomas Rid, professore di informatica e analisi forense alla Johns Hopkins Sais. «Storicamente abbiamo sempre visto una buona quota di targeting rivolto a audience interne russe da parte di attori molti più grandi come Apt28. Storicamente, i servizi russi sono stati sempre più aggressivi verso i target interni, inclusi i target russi all’estero». Eppure, spiega Rid, «finora non abbiamo visto collegamenti forensi diretti tra l’attività dell’IRA - troll, amplificazione, eccetera - e attori malevoli ben conosciuti e potenti impegnati nell’hacking e leaking. Questa assenza di coordinazione tra le due sfere non è qualcosa di inaspettato». È come se fossero esistite due mani, una soft e l’altra hard, mani piuttosto compartimentate e separate. Dal punto di vista europeo, il comunicato di Stamos non dice molto di più di quello che sappiamo. Conferma però assertivamente che «l’IRA ha ripetutamente usato network complessi di account inautentici per ingannare e manipolare persone che usano Facebook, compreso prima, durante e dopo le elezioni presidenziali americane». Nelle prossime settimane Facebook permetterà a utenti autentici del social network di sapere se hanno interagito, messo like o seguito le pagine o i profili russi dell’IRA. Non sarebbe male anche venire a sapere se qualcuna di queste pagine o account facesse disinfo ops anche attraverso attività pubblicitaria relativa alla politica, in America e non solo. E soprattutto, bisognerebbe avere tutte le specifiche sulle operazioni di account inautentici russi avvenuto tra il 2015 e il 2017: dati preziosi ma in larga parte, ormai, probabilmente inattingibili. Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2018/04/04/esteri/facebook-rimuove-pi-di-pagine-e-profili-che-erano-operati-dalla-troll-factory-di-san-pietroburgo-q3cOtZ0FosZG5UxjesCfOJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. Premier terzo, con la Lega. La via d’uscita di Casaleggio Inserito da: Arlecchino - Aprile 07, 2018, 12:19:12 pm Premier terzo, con la Lega. La via d’uscita di Casaleggio
Dietro l’addio di Giannuli la presa d’atto dell’intesa. Il leghista Giorgetti, che tiene i contatti: opzione possibile, a patto sia un politico Doppio mandato: la regola resta, lo ha deciso Grillo, in un recentissimo vertice M5S. E questo costringe Di Maio nella posizione di doversi giocare il tutto per tutto in questo giro. Casaleggio intanto attende, facendo in giro discorsi sovranisti in economia, che entusiasmano il mondo leghista. Pubblicato il 06/04/2018 - Ultima modifica il 06/04/2018 alle ore 08:05 Jacopo Iacoboni Il Movimento è una macchina in leasing, la guida Luigi Di Maio, ma le chiavi sono nelle mani di un’altra persona, colui che detiene la presidenza della piattaforma online su cui gira tutta la vita di questa forza politica: i dati, gli iscritti, le votazioni online, i link ai social network, le candidature. Ecco, qual è la strategia dell’uomo che ha queste chiavi, Davide Casaleggio, in questa difficile crisi per formare una maggioranza? Casaleggio jr ripete in questi giorni: «Il Movimento ormai è una forza di governo, e deve governare». È finito il tempo dell’opposizione. In questo c’è una differenza anche caratteriale con Beppe Grillo, che non s’è mai tanto posto il problema di andare al governo, mentre invece Davide marcia in sintonia con Di Maio. Tuttavia, mentre Di Maio gioca il tutto per tutta in una partita ormai solitaria, Davide ha un’altra strada davanti più che buona. Per capirlo dobbiamo seguire tre passaggi. Il primo è una discussione, avvenuta molto di recente, tra Grillo, Casaleggio jr e Di Maio. Tema: il limite del doppio mandato, la regola fondativa del Movimento, voluta da Casaleggio sr e da Grillo, non amatissima dai leader parlamentari, più volte messa nel mirino (si arrivò anche a proporre di interpretare il vincolo del doppio mandato nel senso di dieci anni pieni nelle istituzioni). Bene, il confronto ha avuto questo esito: la regola del doppio mandato resiste. È stato Grillo in persona a decidere che «questa cosa non si tocca, non possiamo cambiare anche questo». A Casaleggio la cosa torna utile, gli consente di tenere a bada un’eccessiva presa di potere di Di Maio. E qui veniamo al secondo punto. L’irrigidimento di Di Maio in questi ultimi giorni - lui come unico premier possibile - è stato in parte conseguenza diretta della conferma del limite del doppio mandato: Di Maio sa di doversi giocare tutte le sue carte adesso. Anche se ieri, all’uscita dal colloquio con Sergio Mattarella, è parso più flessibile; magari solo per opportunità. Qui arriviamo al terzo tassello del puzzle: come si muove Casaleggio jr in tutto questo? Attende, senza slanci, molto concreto. Sostiene Di Maio; ma se la situazione si dovesse piantare sul suo nome, la sua consonanza con la Lega ha fatto enormi passi avanti, e lui potrebbe accettare «un premier terzo», indicato da M5S-Lega, ne sono convinti anche dentro il M5S, al di là delle smentite di facciata. Ciò che è solido è l’intesa sua con la Lega. Già c’era un’affinità, storica, tra il Carroccio e Casaleggio sr: Roberto diceva ai suoi dipendenti: «Sapete perché la Lega ebbe il successo che ebbe? Perché era nei bar, all’inizio c'erano quattro gatti a sentire Bossi. Ve lo dico perché uno di questi quattro gatti ero io». Ora la sintonia è evidente anche nei temi. Casaleggio jr sa che i sondaggi parlano chiaro: metà dell’elettorato grillino (il 46%, fonte Demopolis) vuole un accordo con la Lega, solo il 18% col Pd, e appena il 25% vuole tornare alle urne. E fa in giro discorsi sovranisti in economia: in un forum recente a porte chiuse ha proposto in Italia, sul modello francese, la creazione di una Banca Pubblica di Investimento che faccia ordine tra tutte le finanziarie statali locali: «Il nostro Paese possiede già tutte le soluzioni al problema del finanziamento dell’innovazione. Ma il coinvolgimento di attori esteri come advisor, il finanziamento statale di soggetti esteri e gli investimenti all’estero e non in Italia da parte dei fondi istituzionali italiani sono sicuramente parte di questo problema». Musica per Salvini. In più, gira il mondo presentando la piattaforma Rousseau nell’ipotesi che possa diventare commercialmente appetibile anche in altri Paesi, per altri partiti. Rivelatrice, in questo scenario, l’uscita dello storico Aldo Giannuli, che ha abbandonato il M5S. Giannuli - che era amico di Roberto, ed era davvero interno ai meccanismi dell’azienda, e anche di recente pranzava con Davide - ha osservato: «Il M5s delle origini si diceva “né di destra né di sinistra”, ma in realtà ospitava nel suo seno sia destra che sinistra, oggi quella ambiguità è sciolta e, pur continuando a dirsi né di destra né di sinistra, il Movimento sta imboccando una strada decisamente di destra». Dove, al di là della ricostruzione opinabile, ciò che conta è la sicurezza con cui Giannuli, che sa le cose, ci sta dicendo, assertivamente, che il M5S è andato a destra. Destra significa, qui: intesa di fondo con la Lega. L’uomo che più sta tessendo i contatti tra mondo leghista e il mondo milanese del M5S è Giancarlo Giorgetti. L’opzione di una premiership affidata a un terzo rispetto ai due leader di partito, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, in un governo della Lega con i 5 Stelle, «può avere un senso», ha spiegato; a condizione che «la persona che guida il governo abbia una legittimazione da parte degli italiani: non può essere un tecnico o un professore». Non pare possa essere Franco Bernabè, pure stimatissimo, in Casaleggio. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. DA - http://www.lastampa.it/2018/04/06/italia/politica/premier-terzo-con-la-lega-la-via-duscita-di-casaleggio-mhOMfoJXUEESHIaaEF0DeO/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Sulla Siria rialza la testa l’ala filorussa del M5S: ... Inserito da: Arlecchino - Aprile 19, 2018, 01:45:44 pm Sulla Siria rialza la testa l’ala filorussa del M5S: Luigi si ricordi dei comizi di Grillo contro le guerre Usa
Teorie complottiste, malumori tra eletti di spicco, il ruolo di Di Battista. E la rivista. L’antidiplomatico spinge online la narrazione della Difesa russa: l’attacco chimico a Douma una fake news Pubblicato il 17/04/2018 - Ultima modifica il 17/04/2018 alle ore 07:31 JACOPO IACOBONI Se c’è qualcuno, nel Movimento, che non apprezza le ambizioni di premiership di Di Maio, ha un’occasione d’oro: la Siria, e poi l’atteggiamento da tenere sulle sanzioni alla Russia. L’altro giorno il capo politico M5S ha scritto un post che voleva dare una svolta filo-atlantista e europeista, un post di rassicurazione indirizzato a diversi ambienti il cui senso si riassumeva in questa frase: «Restiamo al fianco dei nostri alleati, soprattutto perché in questa fase delicatissima credo che l’Ue debba avere la forza di farsi vedere compatta e unita». Bene: dire che nel M5S questa mossa di Di Maio non sia piaciuta a tutti è dire poco. Il primo segnale chiaro l’ha mandato Carla Ruocco - la parlamentare tuttora più in filo diretto con Beppe Grillo - che ha postato sui suoi social: «Una coalizione a guida Usa questa notte ha bombardato degli obiettivi in Siria, in questo spettacolo Beppe Grillo ci spiega perché gli Americani sono in guerra permanente dall’inizio della loro storia». E subito dopo, il link di uno spettacolo di Grillo in cui il garante M5S fa tutta un’invettiva anti-americana: «Chi pagherà il debito americano, un trilione? Gli americani fanno le guerre a chi? A quegli stati che nel 2002 sono passati dalla sfera del dollaro alla sfera dell’euro. Hanno capito, gli americani, che il mondo può fare a meno di loro». Il secondo messaggio è arrivato da Stefano Vignaroli, assai vicino politicamente a Paola Taverna, la nuova vicepresidente del Senato. Vignaroli ha postato pari pari lo stesso testo della Ruocco, lei alle 10,24, lui alle 10,46. Questa coincidenza testuale e temporale fa pensare a un’area del dissenso che ha condiviso un messaggio da lanciare, non ad azioni isolate di due parlamentari, sia pure critici. Terzo indizio rivelatore è Vito Petrocelli, il più filorusso dei grillini, uomo dai mille contatti moscoviti, grande critico del Tap, il gasdotto azero-salentino, gasdotto non amatissimo a Mosca. Petrocelli commenta: «Un attacco evidentemente sferrato senza il via libera dell’Onu». E ieri ha rilanciato un articolo di Megachip, sito filorusso, osservando: «Se tra Roma e Damasco nulla è come appare, è forse perché vale lo stesso tra Washington e Mosca». Di chi è l’articolo? Di una nuova star nel firmamento pro Mosca del Movimento, il neodeputato sardo Pino Cabras, collaboratore di Giulietto Chiesa per Pandora tv, collaboratore anche per Sputnik Italia, in buoni rapporti con Pietro Dettori (il braccio destro di Davide Casaleggio). Cabras scrive: «(in Siria) Si è trattato di un’aggressione - l’ennesima - a carico di un paese sovrano che fa parte dell’Onu, con effetti indiretti in grado di generare comunque pericolose ripercussioni». Gli effetti indiretti sarebbero, anche, sabotare un possibile governo del Movimento. Esiste, ritiene Megachip, «una lettura del modo in cui si vorrebbe usare l’intervento di alcune potenze nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo». Cabras a sua volta cita Debora Billi, e chi è Debora Billi? A lungo responsabile della comunicazione web M5S alla Camera, famosa per un tweet choc contro Giorgio Napolitano (alla morte di Giorgio Faletti, la Billi twittò: «Se ne è andato Giorgio. Quello sbagliato»; poi si scusò), Billi oggi va sostenendo questo: «La nuova crisi in Siria càpita proprio a fagiolo, un’occasione d’oro per chi non desidera cambiare un bel nulla. I media come sempre fanno la loro parte, che è poi quella del leone. Remano con forza nella direzione del governo “responsabile”, con la speranza che le leve del comando siano riconsegnate a chi le ha tenute saldamente finora, tradendo così la volontà popolare del 4 marzo». E il capo politico ombra, Alessandro Di Battista, assieme a Di Stefano il più amico dei russi, cosa dice? Appena un anno fa, prendendo spunto dall’attacco Usa contro la base militare siriana di Shayrat, Di Battista si scagliò contro il premier Pd: «Le parole di Gentiloni sono sconvolgenti. Doveva richiamare alla pace ma un vassallo evidentemente non è libero di farlo». Oggi invece è Di Maio che cerca di attestarsi su una posizione non così distante dal Gentiloni di allora. Di Battista tace, ma parla - eccome - la rivista a lui molto vicina, L’antidiplomatico, snodo della geopolitica filorussa e filo-Assad di tanto M5S. Lantidiplomatico.it spinge in rete la tesi che l’attacco con armi chimiche di Douma (che ha causato la reazione Usa-Gb-Francia) sia una fake news; e spinge online un video diffuso dal portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konashénkov, in cui due medici smentiscono che ci siano pazienti con sintomi di avvelenamento da armi chimiche. Nel frattempo, Di Battista martella Berlusconi, così complicando anche sul fronte interno la vita a Di Maio. Lo fa da solo, o appoggiato da Davide Casaleggio? Un’ottima fonte ci risponde: iniziativa solitaria dello scrittore di Mondadori. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2018/04/17/italia/sulla-siria-rialza-la-testa-lala-filorussa-del-ms-luigi-si-ricordi-dei-comizi-di-grillo-contro-le-guerre-usa-8CSvkQLiOAOaeh8yn0txiK/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Grillo e il ritorno pericoloso dell'urlo “al golpe al golpe!” Inserito da: Arlecchino - Maggio 06, 2018, 06:36:28 pm Grillo e il ritorno pericoloso dell'urlo “al golpe al golpe!”
Un classico del leader M5S diventato sempre più rischioso, dalla minacciata marcia su Roma nel 2013 alla celebre intervista-svolta a RT, il network legato al Cremlino Pubblicato il 04/05/2018 - Ultima modifica il 04/05/2018 alle ore 18:44 Jacopo Iacoboni C’è come un teorema ormai costante, nella politica italiana ai tempi dell’Esperimento-M5S: quanto più il Movimento cinque stelle si mostra incapace di tradurre in realtà la sua straordinaria forza di macchina della propaganda - e della formazione e manipolazione del consenso - tanto più Grillo torna a tuonare al «colpo di stato» e alla democrazia deprivata. Naturalmente non accade nulla, quasi sempre (e per fortuna), ma lo spasmo permanente lavora in profondità sulla democrazia e sul consenso, quasi sulla psiche di massa, e qualche effetto duraturo lo produce, non contando il fatto che prima o poi qualcosa potrebbe davvero accendere, oltre che la miccia dell’urlo e il ritorno al vaffa. Da quel celebre 21 aprile 2013, quando il comico leader del Movimento scrisse sul blog «Colpo di stato, tutti a Roma», per protestare contro l’elezione di Giorgio Napolitano, è stato un susseguirsi di sue grida di «golpe», «colpo di stato intelligente», «colpo di stato permanente». Un al lupo al lupo che naturalmente non trova nessun appiglio giuridico e costituzionale, ma torna a farsi sentire ciclicamente, quando è necessario aumentare i giri - o semplicemente riaccendere il motore - della propaganda, e del partito-propaganda. Ogni volta più cupa e pericolosa, però, perché meno forte e sempre più disponibile è la struttura dell’amministrazione dello stato che lo accoglie, ormai, anziché fronteggiarlo. È difficile, anzi impossibile, fare un elenco esaustivo di queste frasi abbastanza distanti dalla «responsabilità» evocata in questa fase dal Quirinale; valgano qui alcun casi spot, tutti però in tornanti cruciali nella storia dell’esperimento-Movimento. Il 7 giugno 2013, parlando vicino a Roma, Grillo comiziò: «Abbiamo un presidente della Repubblica che s’è raddoppiato il mandato, in tre hanno fatto un colpo di stato, e hanno fatto l’inciucione degli inciucioni, cercando di dare la colpa noi. Noi diciamo di no a questa organizzazione criminogena». Il 4 febbraio 2014 la variante era: «In Italia è in corso, ora, un colpo di Stato. Non puoi più far finta di nulla»: anche stavolta (come succede oggi) ce l’aveva contro la riforma elettorale, ma pure contro il decreto Imu-Bankitalia e la “ghigliottina” decisa alla Camera dalla presidente Boldrini. «Questa è la negazione della democrazia. Laura Boldrini deve dimettersi. Ha violato le leggi della democrazia. Il M5S farà in modo d’invalidare il decreto Imu-Bankitalia. In alto i cuori!». Pochi giorni dopo tornava a lavorare sul nuovo nemico dopo Giorgio Napolitano, Laura Boldrini, appunto, allora presidente della Camera, dipinta come una traditrice della legalità e delle pratiche parlamentari democratiche. Grillo osservò, il 14 febbraio 2014: «In Italia è in corso, ora, mentre tu leggi questo articolo, un colpo di Stato, non puoi più far finta di nulla. Non è il primo, potrebbe essere l’ultimo. In questi anni ci sono stati molti colpetti di Stato dall’adozione del Porcellum che ha creato un Parlamento di nominati dai partiti, all’uso indiscriminato dei decreti-legge che ha spossessato il Parlamento della funzione legislativa con il beneplacito del Presidente della Repubblica. La scorsa estate c’è stato un tentativo di colpetto di Stato per scardinare la Costituzione modificando l’articolo 138, ma è stato sventato dal M5S». Per concludere: «La volontà popolare viene rappresentata dagli eletti in Parlamento e l’Italia, secondo la Costituzione, è una Repubblica parlamentare. Così dovrebbe essere, ma non è così. Il passo successivo è l’eliminazione dell’opposizione. Finora non era necessario». È un acuto permanente, un’isteria continua, un’ansia iniettata scientemente nel circuito sanguigno della politica e dell’opinione pubblica: con esiti di volta in volta imprevedibili, ma comunque via via più pericolosi, e imprevedibili, non più dominabili, né nella realtà né nei social network (nel frattempo, peraltro, il vero autore dell’Esperimento è morto). Nicola Biondo ha raccontato in Supernova (in uscita l’edizione aggiornata il 10 maggio) che fu un miracolo se nell’aprile 2013 riuscì a convincere, da Roma, il gruppetto che scendeva con Grillo nella Capitale a non arrivare in piazza Santi Apostoli in serata, dove chissà cosa sarebbe potuto succedere con la massa indistinta in subbuglio (si notava, scrive Biondo, un allarmante attivismo e predisposizione di pezzi di apparato). Dario Franceschini, in quei giorni, fu avvistato da torme di popolo inferocite e sobillate, e quasi umiliato a suon di insulti mentre cenava in un ristorante del centro di Roma. Franceschini che fino a pochi giorni fa pareva aver obliato il fatto. Grillo però ci ricadde e ci ricade. Comunque sia, non dimentica la parte. Per lui, immemore di pericoli e sprezzante dei rischi delle piazze arringate, è sempre golpe, colpo di stato o almeno colpetto, senza mai farsi venire il dubbio che forse, è in questo modo la democrazia muore davvero, drogata e isterizzata. L’accordo raggiunto a Bruxelles dall’Eurosummit sul piano di aiuti per la Grecia, che evitò l’uscita di Atene dalla moneta unica? Fu ovviamente visto come un complotto di poteri forti e aristocrazie più o meno oscure (immancabili i riferimenti a George Soros). Grillo commentò su twitter: «La strategia dell’eurogruppo, quella del terrore: colpirne uno per educarne 19#ThisIsACoup, questo è un colpo di Stato». Facendosi intervistare da RT, in un’intervista-svolta che apriva la stagione filorussa e filoputiniana del Movimento, Grillo utilizzò invece la locuzione del «colpo di stato intelligente», assai gradita alla propaganda del Cremlino: «Il colpo di Stato sta già avvenendo, ma non è un colpo di Stato a cui siamo stati abituati. È un colpo di Stato intelligente. È basato sul causare una divisione in Parlamento, infiltrarsi al governo e piazzare un leader forte che andrà a prendere i pieni poteri, e gli italiani sono molto sensibili a questo tipi di leader». Non è neanche possibile, né utile, una ricerca definitiva, perché i database impazziscono e le frasi di Grillo, a volte clamorosamente identiche, vengono riadattate a tutto e tutti. Ritornano. Il discorso politico diventa canovaccio, i cloni verranno poi chiamati, nelle tv, sui social, in aula, a ripeterlo. Senza tregua, e senza governo di tregua. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2018/05/04/italia/grillo-e-il-ritorno-pericoloso-dellurlo-al-golpe-al-golpe-kWIEgPqzMqi9HVamls68AP/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - Beppe elogia di nuovo Putin e Trump Inserito da: Arlecchino - Maggio 17, 2018, 12:28:41 pm Il rilancio del patto Salvini-Di Maio: via libera del M5S a un euroscetticismo forte, e un grillino per primo a Palazzo Chigi nella staffetta.
Così i due leader hanno rimesso in piedi un accordo che sembrava finito. Intanto Di Maio ha convinto Grillo, che dice a Newsweek: «Il governo M5S-Lega? Ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma accadrà». E Beppe elogia di nuovo Putin e Trump Pubblicato il 16/05/2018 - Ultima modifica il 16/05/2018 alle ore 10:31 Jacopo Iacoboni La notizia è che entrambi i contraenti del potenziale patto M5S-Lega, ieri sera tardi, sono tornati a dire che ci saremmo quasi, «siamo a un passo» (parole di Di Maio). Nonostante in realtà l’atteggiamento pubblico della Lega sia stato molto, molto critico e quasi pessimista per due giorni interi, lunedì (il giorno delle consultazioni al Quirinale) e ieri, e Salvini ripeta ancora che «se proprio non si riesce, si va al voto». Ma è successo qualcosa, è innegabile, e ce lo racconta una fonte molto bene informata su questa vicenda, che ha potuto avere accesso pieno ai ragionamenti in corso, e possiamo provare a ricostruire così. Di Maio ha accettato di spostarsi di nuovo - anche pubblicamente - su posizioni più radicali e critiche sull’Unione europea e i trattati, posizioni sostanzialmente euroscettiche. Salvini in cambio ha concesso che, nell’ipotesi di staffetta, il primo ad andare a Palazzo Chigi sarebbe un nome, «politico», grillino. E non è detto che siano i nomi dei due leader, potrebbero benissimo essere i numeri due, diciamo così. Naturalmente si tratta di un accordo embrionale, non scritto col sangue, che può cambiare e è esposto ai venti, come avete visto fortissimi, di queste ore. Ma è un’intesa di fondo tra i due, che fino a oggi non c’era stata. Assieme a tutto questo, c’è un pacchetto di nomine su cui la quadratura si può trovare abbastanza facilmente, le nomine sono tante e, solo per fare un esempio, il M5S potrebbe avere una preminenza nel dettare tempi e nomi in Cdp, Cassa depositi e prestiti, mentre la Lega conquisterebbe una parola decisiva sul Tg1 Rai. Nell’ipotesi di rilancio del patto che vi stiamo raccontando, ognuno cede qualcosa all’altro. Di Maio lo ha reso manifesto ancora in serata quando, lasciando la Camera, ha detto «io mi preoccupo degli italiani. Se c’è qualche eurocrate non eletto che si preoccupa è un problema suo». Non è una frase marginale, perché significa due cose. La prima rivolta alla Lega: che Di Maio condivide (sia pure con qualche diversità di toni) le critiche di Salvini alle intrusioni europee, e il governo che eventualmente dovesse partire comincerebbe proprio da qui: da una ridiscussione di trattati e clausole. La seconda, rivolta al mondo del Movimento, e soprattutto a Beppe Grillo: perché così facendo Di Maio spedisce un messaggio di forte rassicurazione a un Grillo inquieto, che era attanagliato da forti perplessità sulla natura di un governo che gli sembrava politicante e anodino, dettato solo dalla voglia di potere. Grillo sarà certamente contento di vedere un Di Maio di nuovo così ingrillato sull’euro e sulla Bce. A tanti simpatizzanti M5S non dispiace affatto l’alleanza con la Lega, anzi: semmai gli dispiaceva il moderatismo eccessivo, e l’aria da eterno compromesso. [update. Grillo in un’intervista a Newsweek che esce proprio oggi dice: «Il M5S al governo? Ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma accadrà. Se puntiamo a ridurre le imposte per le piccole e medie imprese, se puntiamo a un reddito di cittadinanza, se vogliamo migliorare la vita delle persone, allora possiamo trovare un accordo». Nell’intervista Grillo di nuovo elogia ampiamente Putin: «È certamente una persona che ha idee chiare. Non temo affatto Putin. La Russia vuole fare commercio, non la guerra. L’antiputinismo ci costa miliardi in sanzioni». E parla bene di Trump e Brexit, assimilandoli alla vicenda del M5s: «Ho osservato che i media mainstream erano così totalmente contro Trump che, alla fine, lo hanno aiutato. Lo stesso è accaduto con il Movimento Cinque Stelle. I media hanno ottenuto l’opposto di quello a cui miravano. Lo stesso è accaduto con la Brexit»]. In questo quadro è assai rilevante anche la bozza di contratto svelata da Huffington Post ieri sera, con cose come procedure per mettere in discussione l’euro, la richiesta alla Bce di congelare il debito italiano di 250 miliardi (debito che in realtà è in grande parte nelle mani di Banca d’Italia, ma che volete che siano questo dettagli), l’abolizione immediata delle sanzioni alla Russia, e un comitato parallelo - organo del tutto fuori dalla Costituzione, che prevede la partecipazione anche di organi costituzionali - al consiglio dei ministri, per dirimere eventuali controversie. La smentita M5S-Lega (non è più la bozza attuale) è poco rilevante politicamente: importa che un testo del genere (datato lunedì mattina, peraltro, non un secolo fa) ci sia stato, che ci sia stato questo, nella discussione: il totale no euro e pro Russia. Che un testo di questo tenore sia uscito proprio ieri - il giorno delle bordate di Bruxelles contro il potenziale asse M5S-Lega - ha influito sulle dinamiche in corso, ha cioè prodotto l’effetto di ricompattare i due contraenti del patto, e di farlo in chiave fortemente euroscettica. Non è da escludere che si sia realizzato così uno dei desiderata di Salvini. Ma anche Di Maio sblocca, con questo passo, un tassello chiave: Salvini sarebbe disponibile a far partire a palazzo Chigi un premier «politico», e grillino: è l’identikit appunto di Di Maio, o magari del suo delfino Vincenzo Spadafora? Il destino di questa scelta, forse per la prima volta, è nelle mani dell’abile leader di Pomigliano d’Arco, e del suo mentore Davide Casaleggio. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2018/05/16/italia/staffetta-rilancio-del-patto-salvinidi-maio-via-libera-del-ms-palazzo-un-euroscetticismo-forte-chigi-un-grillino-per-primo-nella-1xnvt50XKz7xh6xe1GYe4M/pagina.html Titolo: IACOBONI. Un network di account sospetti ha spinto la campagna contro Mattarella Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2018, 04:08:12 pm Un network di account sospetti ha spinto la campagna sui social contro Mattarella
Satira pesante, insulti e anche minacce di morte contro il presidente della Repubblica. Secondo il report di due informatici, “contro la presidenza della Repubblica un’azione coordinata di digital propaganda” Pubblicato il 30/05/2018 - Ultima modifica il 30/05/2018 alle ore 20:26 Jacopo Iacoboni Un network di “account sospetti” su twitter, strutturato e con movenze organizzate, ha prodotto una forte spinta artificiale a tre hashtag di propaganda (a volte con contenuti anche di propaganda pesante e di minacce) contro il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nei due giorni più caldi della crisi per la formazione del nuovo governo, di domenica e lunedì scorso. Sono i giorni in cui il Movimento cinque stelle gridava all’impeachment contro Mattarella, anche se gli account di questo network non presentano evidenze riconducibili a un partito ufficiale. Gli account non mostrano neanche segni di interferenza straniera, appaiono piuttosto frutto di farm italiane. La sostanza, comunque inquietante, è che dei network si muovono per attaccare online la presidenza della Repubblica, contribuendo a invelenire e esasperare una situazione politica già molto difficile. È quanto emerge da un report di due informatici, Andrea Stroppa e Danny di Stefano, che hanno utilizzato un algoritmo per individuare la propaganda digitale (da loro già impiegato - quasi identico - durante il World Economic Forum di Davos 2018) per analizzare tre hashtag: #mattarelladimettiti, #impeachment e #impeachmentmattarella. L’analisi ha individuato 360 account. È stata condotta dal 27 maggio (alle ore 21.50) al giorno successivo (alle 14.30). «Non parliamo di bot o troll - scrivono gli autori - ma di “account sospetti”: questo perché in uno scenario così altamente complesso, indicare un account come bot o troll è difficilmente dimostrabile, in particolar modo in un ecosistema di propaganda digitale molto discusso». La ragione principale è semplice: «Se indichiamo l’account @marioRossi232323 come bot, perché le sue caratteristiche del profilo e i suoi contenuti o azioni dimostrano automazioni, chi gestisce il presunto bot, un essere umano, potrebbe prenderne il controllo all’istante e iniziare a usarlo in prima persona, provando quindi a dimostrare l’infondatezza di una ricerca». Account generati da un software possono poi tranquillamente “animarsi”, ossia essere operati da umani. [Update: proprio ieri, tra l’altro, nell’ambito di un’altra vicenda che non ha a che fare col network di cui qui parliamo, tre persone sono state iscritte nel registro degli indagati dopo le minacce e gli insulti comparsi sui social nei confronti del Capo dello Stato. La Procura di Palermo li accusa di attentato alla libertà del presidente della Repubblica e offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica, reati puniti fino a 15 anni di reclusione]. I due informatici hanno usato quattro criteri in questa analisi, confermata alla Stampa anche da una terza parte: composizione del nickname e caratteristiche del profilo, proporzione (ratio) tra following e followers, argomenti trattati, analisi di network. Per esempio, un account normale di solito tende ad avere più follower rispetto ai following, o almeno non in modo sproporzionato. Il report dunque considera solo gli account che, per ogni follower, hanno invece seguìto almeno 5 persone. Le conclusioni a cui arrivano i due informatici sono queste: è stata in corso contro la presidenza della Repubblica «un’azione coordinata di digital propaganda, ben studiata in modo da potersi agevolmente nascondersi in mezzo agli account legittimi. Non ci sono evidenze che questi account appartengano ufficialmente a partiti politici come Lega Nord e M5S». Né che la campagna provenga dall’estero. «È però allo stesso modo evidente che in Italia esiste una rete in grado di manipolare eventi politici e sociali, con capacità di poter amplificare fenomeni e farli diventare virali». L’analisi non si sofferma volutamente su «account importanti» (il numero di follower di per sé non dice granché, sono molto più interessanti il network, e eventualmente i livelli e il tipo di engagement), ma su quella che è - diciamo così - la loro «base sottostante» di piccoli account sospetti. Da questo punto di vista, le disinfo ops o le ops di black propaganda stanno lievemente mutando forma, nell’ultima stagione, almeno in Italia, cercando di polverizzarsi e mimetizzarsi il più possibile con account naturali dei social. Eviteremo quindi di citare gli account del report Stroppa-Di Stefano, ma solo alcuni dei loro contenuti, che vanno dalla satira pesante («Mattarella ha un würstel al posto del cuore #impeachment») all’insulto («traditore della patria» è il più tenue) o alla violenza verbale («Così #Mattarella butta nel cesso il voto di 15 milioni di italiani. Perché secondo lui la sovranità in Italia appartiene alla #UE e alla #Merkel e non al popolo italiano»), alla minaccia («Don’t Fear The Reaper» - «non temere la Grande Mietitrice», cioè la morte, e sotto, una foto di Mattarella in camice ospedaliero e la scritta «do not intubate do not reanimate»). Inutile procedere oltre, era solo per dare una vaga idea. Augurano o minacciano di morte Mattarella. Il punto centrale - bisogna ripeterlo - è che secondo i due informatici si tratta di un preciso network: il sample analizzato è relativamente piccolo, ma potrebbe essere più largo (i criteri per l’inclusione sono stati molto selettivi, spiegano gli autori). Molti account del network sono sotto «limitazione temporanea» da parte di twitter, o subiscono restrizioni: segno che sono stati oggetti di ripetute segnalazioni, o sono sotto l’attenzione della cybersecurity dell’azienda. Altri presentano, anche a prima vista, una congiunzione di interessi politici che è poi alla base di alleanze reali attuali, tra sovranismo, ultranazionalismo, tematiche sociali (nazionali e sociali), temi anti-establishment. Una politica parallela è insomma pronta a essere scatenata e rialzata, se davvero si andasse al voto bisognerà tener d’occhio le reti, dove contenuti sovranisti, fortemente nazionalista e anticasta si sono sposati ormai da tre anni, e invocano con modi brutali la rivoluzione legastellata. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2018/05/30/italia/un-network-di-account-sospetti-ha-spinto-la-campagna-sui-social-contro-mattarella-Gq8Y0IKb3NeCFkIW6vi5jO/pagina.ht Titolo: JACOPO IACOBONI. - “Ci sono prove di un attacco degli hacker russi di APT28 anch Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2018, 09:31:13 pm “Ci sono prove di un attacco degli hacker russi di APT28 anche in Italia”
Lo sostiene una ricerca presentata dallo Z-lab di Cybersec: “Il bersaglio potrebbe essere la Marina italiana”. La società di cybersecurity italiana ha incrociato i dati con analisti di una piattaforma aperta: si tratta del medesimo malware del gruppo legato al GRU, un software maligno che ha agito anche nell’hackeraggio delle mail democratiche nelle presidenziali Usa Pubblicato il 17/07/2018 - Ultima modifica il 17/07/2018 alle ore 10:39 JACOPO IACOBONI Alla long story dell’interferenza della Russia nei processi elettorali occidentali, si potrebbe aggiungere un altro tassello. Questa volta la vittima sarebbe l’Italia. Ricercatori di un’azienda di cybersecurity italiana (CSE Cybersec) hanno scoperto che sulle reti italiane è circolato un malware in tutto simile a quello usato dai russi di Apt28 (aka Fancy Bear, o Pawn Storm), un gruppo paramilitare di hacker ritenuti collegati al GRU, il servizio segreto militare russo. Apt28 è stato a lungo ritenuto l’autore di tante operazioni molto importanti di hacking, tra le quali spicca l’hackeraggkio della primavera del 2016 ai danni delle mail del Comitato nazionale dei democratici, nella corsa verso le elezioni presidenziali americane - prima che il nuovo indictment del Procuratore speciale Robert Mueller accusasse direttamente dodici ufficiali del GRU di aver eseguito, gestito e diretto l’operazione. L’operazione di spionaggio - che i ricercatori chiamano “Operation Roman Holiday” - dura da alcune settimane, e non è certo chi sia il bersaglio finale dell’hackeraggio, ma potrebbe trattarsi della Marina italiana. Lo spiega Pierluigi Paganini, capo tecnologo di CSE Cybsec, che tra l’altro è direttore del Master in cybersecurity alla ormai famosa Link Campus University, intervistato da Agi: «Se adottiamo le logiche degli attaccanti parrebbe un riferimento alla Marina militare italiana e ci invita a verificare l’ipotesi che quel codice malevolo sia stato sviluppato come parte di una serie di attacchi mirati contro la Marina o altre entità ad essa associate, come i suoi fornitori». Scoperta la “backdoor”, la porta posteriore nelle reti, una serie di esempi del malware sono stati inviati da Cybersec a una piattaforma di cybersecurity aperta, Virus Total, attraverso un analista conosciuto online con il nome @drunkbinary. E da questo incrocio di verifiche è risultato confermato, spiegano i ricercatori, che esiste un pezzo di malware (il software maligno che di solito si impianta in un computer nemico, inducendolo a cliccare un link malevolo inviato alla vittima) in tutto analogo a quelli usati dagli hacker di Apt28. Le somiglianze sono, dal punto d vista dell’evidenza informatica, molto rilevanti: il linguaggio in cui è scritto il codice del malware è uguale a quello di un malware usato dai russi (linguaggio Daphni). I luoghi remoti di command and control verso i quali vengono indirizzati i dati; anche alcune «librerie dinamiche” che il malware spinge surrettiziamente i computer attaccati a caricare. Non sarebbe il primo attacco russo contro l’infrastruttura italiana: di almeno un’altra circostanza è stato scritto già un anno e mezzo fa dal Guardian, che citò fonti governative, mai smentito da nessuno. «Non possiamo escludere - sostiene Cybersec - che Apt abbia sviluppato la backdoor per colpire specifiche organizzazioni, tra le quali la Marina militare italiana, o qualche altro subcontractor. Nelle nostre analisi non siamo riusciti a collegare il file malevolo dll ai sample di X-agent trovati, ma crediamo che entrambi siano parte di un attacco ben coordinato e chirurgico di Apt28». Varrà la pena notare che anche nel nuovo indictment di Mueller si racconta delle modalità X-agent con cui ha agito - in questo caso direttamente il GRU -contro le mail dell’ufficio di Hillary Clinton. La ricerca, pubblica, è stata messa a disposizione sul sito dello Z-Lab di Cybersec. La piattaforma online che l’ha incrociata - VirusTotal - mette a disposizioni alcuni samples riscontrati. Cresce, negli ambienti degli analisti e degli osservatori internazionali, la preoccupazione che il caso Usa non sia affatto isolato. E inquietudini geopolitiche si sommano a quelle forensi: specialmente nel momento in cui il presidente americano Donald Trump, a Helsinki, ha detto di credere a Vladimir Putin, che nega che la Russia abbia hackerato le elezioni Usa, anziché a tutta la comunità dell’intelligence americana, che sostiene il contrario; e nel momento in cui il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, incontrando a Mosca prima esponenti del Consiglio per la sicurezza nazionale russo, poi il ministro dell’interno russo, ha spiegato che l’Italia coopererà proprio con la Russia «nella cybersecurity e contro gli attacchi informatici», arrivando a scambiarsi - ha scritto Salvini - anche «banche dati» con Mosca. Licenza Creative Commons Da - http://www.lastampa.it/2018/07/17/italia/prove-di-un-attacco-degli-hacker-russi-di-apt-anche-in-italia-xzMWxKUmQWaJCQOk5fJoKM/pagina.html Titolo: J. IACOBONI Interferenze di Casaleggio sugli eletti M5S il Parlamento Ue avvia.. Inserito da: Arlecchino - Ottobre 25, 2018, 05:04:37 pm “Interferenze di Casaleggio sugli eletti M5S”, il Parlamento Ue avvia un’istruttoria
Dopo la denuncia dell'europarlamentare Daniela Aiuto, che disse a La Stampa: «Casaleggio controlla tutto, vogliono anche le password dei social, entrano nelle nostre vite» Pubblicato il 23/10/2018 - Ultima modifica il 23/10/2018 alle ore 20:50 JACOPO IACOBONI Dopo l’intervista a La Stampa dell’europarlamentare Ue Daniela Aiuto, l’Ufficio di presidenza del parlamento europeo ha aperto formalmente un’istruttoria per verificare la sua denuncia di gravi intromissioni subite dai rappresentanti della comunicazione M5S in Europa - nominati da Davide Casaleggio, e a volte provenienti dalla sua azienda. Nell’intervista la Aiuto, comunicando di voler lasciare il M5S, denunciava: «Nel Movimento 5 Stelle gli eletti sono al servizio della comunicazione, e non il contrario. Comunicazione fatta di persone di solito provenienti dalla Casaleggio, o scelte lì. Queste persone sono diventate il gestore delle nostre esistenze, non della comunicazione soltanto. Entrano nelle nostre vite perché possono decidere il successo o l’affossamento mediatico del singolo eletto. Si è arrivati anche a dire a qualche mia collega come doveva truccarsi o vestirsi. E non si colgono più i contorni dei criteri di meritocrazia». E, cosa ancor più rilevante, parlava di un controllo orwelliano sui social network, e gli account Facebook. Il procedimento su iniziativa di David Sassoli (Pd-Pse) accolta dall’Ufficio di presidenza guidato da Antonio Tajani Alla richiesta di fornire alcuni esempi di come questo controllo pervasivo fosse esercitato, da Casaleggio, Aiuto rispondeva: «Cristina Belotti [prima in Casaleggio associati, poi responsabile della comunicazione M5S in Europa, oggi nello staff del ministro Luigi Di Maio a Roma, nda.] chiese a tutti noi eletti di consegnare la password di accesso alle nostre pagine Facebook. Lei voleva avere il potere di cancellare qualunque post ritenesse poco opportuno. Io ovviamente non gliela diedi, ma tanti altri sì. Molto del successo del Movimento è stato costruito dalle pagine Facebook ed in generale dall’uso sapiente dei social network. Da quello che capivamo, chi gestiva i profili di Di Maio e di Di Battista era un’unica mente, che poi adattava il tenore dei post alle caratteristiche dei singoli esponenti». La storia ha suscitato molte reazioni, in Europa e in Italia, tra i parlamentari di diversi gruppi europei, sia della famiglia socialista, sia di quella popolare. La qualità della denuncia, il ruolo della donna che la formulava, il fatto che non sia stato possibile smentirla, e il livello delle intromissioni raccontate (anche nelle sfere più private), hanno fatto il resto. Così il vicepresidente del parlamento Ue, David Sassoli, ha chiesto dodici giorni fa all’Ufficio di presidenza, guidato dal popolare Antonio Tajani, di aprire un’istruttoria. Richiesta che ieri sera è stata formalmente accolta. «Finalmente si farà chiarezza sulle voci di gravi interferenze della Casaleggio Associati sul mandato dei parlamentari», dice Sassoli (Pd-Pse). L’ufficio di presidenza ha invitato Tajani ad ascoltare l’onorevole Aiuto. L’ipotesi è che sia stata violata «libertà e indipendenza dei parlamentari», protette e tutelate dall’articolo 2 del Regolamento del Parlamento europeo». Secondo la regole che tutelano la sovranità assoluta del singolo eletto, il parlamento infatti stabilisce: «In conformità dell’articolo 6, paragrafo 1, dell’Atto del 20 settembre 1976 nonché dell’articolo 2, paragrafo 1, e dell’articolo 3, paragrafo 1, dello Statuto dei deputati al Parlamento europeo, i deputati esercitano il loro mandato liberamente e in modo indipendente e non possono essere vincolati da istruzioni né ricevere alcun mandato imperativo». Cosa può succedere adesso? Non esiste una procedura standard, e non esistono in realtà neanche precedenti, perché una tale presunta intromissione non è mai accaduta nella storia del parlamento europeo. La deputata Aiuto sarà convocata e ascoltata dal presidente dell’europarlamento, in quanto potenziale vittima della violazione dell’articolo 2 del Regolamento. Dopo quel passo, la presidenza del parlamento europeo informerà le autorità del paese di appartenenza. Licenza Creative Commons Da - http://www.lastampa.it/2018/10/23/italia/interferenze-di-casaleggio-sui-parlamentari-il-parlamento-ue-avvia-unistruttoria-UhKbASQVy0S2M3hAeMNmLJ/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI. - “Solo una stalla, però Di Maio ci faceva cene e bagni estivi” Inserito da: Arlecchino - Dicembre 03, 2018, 03:55:27 pm “Solo una stalla, però Di Maio ci faceva cene e bagni estivi”
Le Iene svelano anche un’ipoteca Equitalia: «Luigi prestanome di un’elusione fiscale?» Pubblicato il 03/12/2018 JACOPO IACOBONI ROMA Ci sono quattro fabbricati nel terreno dell’azienda Di Maio che non risultano dalle mappe catastali, e dunque sarebbero totalmente abusivi, che possono mettere in grave difficoltà direttamente Luigi Di Maio, non più solo suo padre, per (almeno) due storie scoperte ieri sera da Le Iene. La prima storia è questa. Intervistato dall’inviato Filippo Roma, Di Maio aveva riconosciuto due dei quattro fabbricati: uno, aveva detto, è «una masseria dove ha vissuto mio padre per un periodo della sua vita quando era piccolo», l’altro è «un magazzino», del quale Di Maio apriva la porta agli operai per consegnar loro delle attrezzature («L’unica cosa che facevo era aprire questa porta perché mio padre non dava la chiave del catenaccio a tutti e quindi lo aprivo io, i lavoratori si prendevano quel che dovevano prendere e poi andavano via»). Del terzo fabbricato, il vicepremier dice che si trattava di «una stalla», che starebbe lì «credo dalla Seconda guerra mondiale». Senonché Le Iene mostrano che - da foto satellitari prese da Google Earth nel 2002 - la presunta «stalla» non c’era, compare solo dal 2008 in poi. E, secondo altre foto che la trasmissione ha mostrato ieri sera, non sarebbe una stalla, ma un patio con mattoni in cotto, pensato per delle serate, dotato di una cucina e una piscina fuori terra montabile. Le Iene hanno pubblicato foto di Di Maio in piscina, o di lui che cena con alcuni amici. Cioè fa ampio uso di un luogo nel quale, secondo le mappe catastali, non vi dovrebbe essere alcuna costruzione né «per usi abitativi», né «ricreativi»? I quattro fabbricati, l’ha dichiarato anche il sindaco di Mariglianella, sono tutti abusivi. Di Maio alla trasmissione ha detto che «non è una villetta, nel senso che non è abitata, non è un posto abitato, non ci sono camere da letto o altro». Le foto di quella cena sarebbero del 2013, e quelle del suo bagno in piscina sono state pubblicate - ha detto ieri sera la trasmissione - ad agosto 2018. La domanda che ci si pone è dunque: Di Maio ha mentito ripetutamente sulla «stalla», che invece sarebbe un patio con piccola piscina montabile? E andava ad aprire agli operai la porta di un magazzino abusivo, in un contesto di totale illegalità, sapendolo oppure no? La seconda storia è questa: da tutte le carte - sia del terreno dell’azienda a Mariglianella, sia dell’ipoteca che vi grava - si apprende che Antonio Di Maio, dal 2006, non figura più in nessun documento. Dal 2006 al 2013 proprietaria è la madre del vicepremier, Paolina Esposito (tra parentesi, da dipendente pubblico non poteva essere proprietaria), e poi subentrano i figli, tra cui Luigi. Ma, ecco il punto, nel 2010 è iscritta sui terreni un’ipoteca di Equitalia del valore di 333.499 euro, per un credito non pagato di 176.724 euro. Secondo l’avvocato Raffaella Di Carlo (Studio Martinez&Novebaci), la cui intervista è stata mandata ieri in tv, parlando in linea generale «ormai la giurisprudenza è costante nell’aver riconosciuto la figura sia del socio occulto che dell’amministratore occulto, cioè di quelle persone che pur non risultando da nessuna parte sono di fatto le persone che esercitano il ruolo di chi la gestisce e la organizza». Quali possono essere i motivi - le domandano Le Iene - per cui uno gestisce di fatto un’azienda perché ne è proprietario, però ufficialmente non compare? L’avvocato risponde: «Ce ne possono essere diversi, diciamo che uno dei più ricorrenti, dei più frequenti, è quando una persona ha dei debiti e non vuole che i propri beni vengano aggrediti dai creditori». Sarebbe reato di elusione fraudolenta, e chi vi concorre, come prestanome di fatto, compierebbe un altro reato, quello di concorso. Naturalmente non sarà il caso del vicepremier; che ha promesso che potrà chiarire tutto, anche se forse occorre un po’ più di tempo del previsto. Licenza Creative Commons Da - https://www.lastampa.it/2018/12/03/italia/solo-una-stalla-per-di-maio-ci-faceva-cene-e-bagni-estivi-Ueu72fMHkgaH759ZtPuY2M/pagina.html Titolo: JACOPO IACOBONI Wired: ecco quando Davide Casaleggio ha incontrato a Roma Bannon Inserito da: Arlecchino - Febbraio 14, 2019, 06:53:11 pm Wired: ecco quando Davide Casaleggio ha incontrato a Roma Steve Bannon
Lunga inchiesta sul Movimento 5 stelle del magazine che era il preferito di Gianroberto: “Una fonte vicina all’ex strategist del presidente Trump ci ha confermato che i due si sono visti nel giugno 2018” Pubblicato il 14/02/2019 - Ultima modifica il 14/02/2019 alle ore 14:06 JACOPO IACOBONI La notizia è destinata a non passare inosservata, altro tassello cruciale del network internazionale anglosassone ultraconservatore in cui naviga il Movimento cinque stelle. La riferisce Wired, che era probabilmente la rivista più amata da Gianroberto Casaleggio, quella su cui hanno scritto e sono stati intervistati tanti cyber-utopisti simili a quello che avrebbe voluto rappresentare lui in Italia: «Una fonte vicina a (Steve) Bannon ha confermato a Wired che quando era a Roma, a giugno, Bannon incontrato Davide Casaleggio». L’articolo di Darren Loucaides è una lunga storia delle origini e dello sviluppo del Movimento, intitolata “What happens when Techno-utopians actually run a country”, Che succede quando davvero gli utopisti tech guidano un Paese). Wired parte da prima che il Movimento nascesse, ossia dagli anni in cui Casaleggio iniziò l’esperimento di testare le dinamiche di costruzione e gestione del consenso e del discorso online nella intranet di Webegg. Ma le rivelazioni più forti dell’articolo riguardano appunto la sfera dei contatti angloamericani della cellula fondativa dei cinque stelle (abbiamo inviato mail agli indirizzi personali di Davide Casaleggio per ottenere conferma o smentita della notizia di un suo incontro a Roma con Bannon, ma non abbiamo ricevuto risposta). L’incontro sarebbe avvenuto a inizio giugno 2018, il o intorno al 3, cioè proprio nei giorni in cui stava nascendo il governo di Giuseppe Conte, l’alleanza Movimento-Lega per la quale così tanto si è battuto politicamente proprio il mondo di Steve Bannon. Bannon dopo il 4 marzo disse subito a caldo, al New York Times, che l’alleanza tra le due forze populiste era «il sogno finale», suo e di suoi tanti amici. L’8 si incontrò con Matteo Salvini a Milano (allo Spazio Pin, in quella occasione era presente anche Marcello Foa), un pomeriggio che racconteremo meglio in altra occasione. In seguito l’ex senior strategist di Donald Trump alla casa Bianca (e successore di Paul Manafort alla guida della campagna presidenziale Trump) spiegò a The Politico che Lega e Movimento erano profondamente affini, anche se in una specie di chiasma rovesciato: «Un partito populista con tendenza nazionalista come i Cinque stelle e un partito nazionalista con tendenze populiste come la Lega», disse, e resta tuttora una delle letture più vere e penetranti fatte finora del fenomeno del Movimento. «È imperativo che funzioni, perché questo mostra un modello per le democrazie dagli Stati Uniti all’Asia». A Politico.eu Bannon chiarì ulteriormente il concetto: «L’alleanza Lega-Movimento è un esperimento che, se funziona, cambierà la politica globale». L’articolo di Wired contiene tanti altri dettagli interessanti, oltre a confermare - dal lato americano - una indiscrezione che in Italia era stata anticipata da Nicola Biondo e Marco Canestrari, due ex collaboratori di Gianroberto Casaleggio. Per esempio Wired accenna a uno degli episodi cruciali della storia del Movimento: la visita in Casaleggio associati a Milano, nel gennaio 2015 - raccontata con due fonti dirette che parteciparono all’incontro - di Nigel Farage e Liz Bilney (ceo di Leave.Eu, il comitato finanziatore della Brexit costituito da Arron Banks). Scrive Wired: «È stato questo incontro, dice [Bilney], che “ha piantato il seme delle idee” di quello che porterà al successo della Brexit. Leave.EU è stata fondata sei mesi dopo l’incontro di Milano, e un anno dopo il Regno Unito ha votato per lasciare l’Unione europea (Bilney è ora sotto indagine della National Crime Agency per presunta violazione delle leggi sulle regole di spesa elettorali)». L’inchiesta di Wired contiene poi altri dettagli sulle tecniche e le modalità usate da Casaleggio ai tempi dell’esperimento sul consenso e la psicologia di gruppo in Webegg. Wired ricorda tra l’altro che, accanto alla fede convinta che le reti avrebbero abbattuto la mediazione tra capi e base (nelle aziende e nelle società), avvicinando le periferie ai vertici e dando potere decentralizzato alle periferie (i nodi esterni di una rete), Casaleggio coltivava poi un culto e una passione per la verticalità: «Scrisse un commento su una rivista lodando Gengis Khan (apocrifo) e la pratica di uccidere i suoi generali a caso come mezzo efficace di mantenere i subordinati e gli intermediari sulle loro dita. Khan, lui scrisse, “divenne il più grande conquistatore nella storia con l’applicazione di tecniche e principi che oggi sono necessari per competere in rete”». Licenza Creative Commons Da - https://www.lastampa.it/2019/02/14/italia/wired-ecco-quando-davide-casaleggio-ha-incontrato-a-roma-steve-bannon-O2TCDJ2k1otApq2lB2eMkN/pagina.html |