LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => FAMIGLIA, SOCIETA', COSTUME e MALCOSTUME. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 12, 2010, 09:49:21 pm



Titolo: MIMMO GANGEMI Ma non è razzismo
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2010, 09:49:21 pm
12/1/2010

Ma non è razzismo
   
MIMMO GANGEMI

La migliore definizione di ‘ndrangheta che oggi mi viene sono gli occhi preoccupati di mia madre, 88 anni, e la lacrima che le si è staccata al primo battito di ciglia, appena ha scoperto che scrivo di ‘ndrangheta.

Mi tocca rifarlo. Non posso tacere Rosarno.

I due giorni di guerra civile sono stati per lo più etichettati come fatti di ‘ndrangheta. E di razzismo. Non condivido in parte la prima e non condivido del tutto la seconda. Da noi la ‘ndrangheta c’è sempre, sia chiaro. È padrona del territorio, si sostituisce allo Stato, impone le sue leggi non scritte. Non tutto però è per forza ‘ndrangheta.

Con la necessaria premessa che la violenza è sempre e comunque da condannare e che mi piange il cuore per quei poveri Cristi che tanto mi ricordano i nostri nonni diretti alla Merica, quando sfidarono il mare Oceano - così lo chiamavano, confidenzialmente, forse nella speranza di ammansirlo, convinti che Oceano fosse il nome - dico che a Rosarno non si è trattato di un accadimento di ‘ndrangheta. A Rosarno si è raccolta una sfida - «tu, nero, ti ribelli e vieni a fare il prepotente in casa mia e io ti mostro che non lo puoi fare». La sfida conteneva il senso di appartenenza, dell’onore, dell’ominità, la necessità di non restare sconfitti e scornati, tutte cose che sanno di ‘ndrangheta ma che non sono necessariamente ‘ndrangheta. È stato insomma il risultato di un costume sociale che è anche impregnato di ‘ndrangheta e che, essendolo, non poteva digerire la rivolta dei neri - peraltro violenta e che ha coinvolto una madre con i suoi bambini - la rivolta di ospiti, assistiti da un solerte volontariato locale, che non erano rimasti entro i limiti che competono agli ospiti. E la ‘ndrangheta? Era tra i facinorosi della reazione violenta e spropositata, magari fianco a fianco con cittadini già sue vittime. Ha cavalcato la battaglia, trovandosi a suo agio, come i vermi dentro il formaggio. Rischiava altrimenti di incrinare il suo potere di controllo del territorio, di frantumare l’alone di complicità, di connivenza, di affiliazione ideologica, di consenso a volte, che l’hanno radicata alla terra e a una fetta non marginale della popolazione.

«Finché sono Papa, papijo» dice don Mico Rota, capobastone, nel mio «Il giudice meschino». Papa, don Mico, lo era diventato sul campo, per meriti ‘ndranghetisti. Per papijare a un Papa occorrono però il completo controllo del clero e dell’intera comunità e nessuna ombra che offuschi la sua autorità di Papa. Lo stesso a Rosarno.

La ‘ndrangheta si è associata alla reazione della popolazione perché non poteva consentire a forestieri - siano neri o della civile Svezia - di fare la voce grossa in casa sua e intaccare così l’immutabilità. Sarebbe stata una debolezza.

Un fenomeno complicato, la ‘ndrangheta. È radicata. Non è facile estirparla. Ha occupato spazi che erano dello Stato, riesce talvolta a farsi preferire anche da chi è lontano dall’idea del delitto. Una guardia giurata, che non è prettamente forza dell’ordine ma che in qualche misura ne è affine, «bello, bello assai, giusto, tutto giusto» mi disse riguardo il pezzo in cui rivendicavo a noi calabresi il diritto di non essere eroi. Poi, «però, ingegnere, un po’ di ‘ndrangheta ci vuole, sennò come si fa a governare X?» poggiò lieve, in punta di lingua.

X è un paese del reggino ad alta densità ‘ndranghetista. Non lo cito per purgarmi in salute, e restare coerente al diritto, che riconosco ai calabresi, di avere paura. Non ho riportato un episodio isolato. Questa è un’opinione abbastanza diffusa. Non si riconosce allo Stato la capacità di governare il territorio, di essere Stato. E molti pensano alla ‘ndrangheta come all’unica struttura in grado di garantire un certo ordine, il suo ordine.

Non la ‘ndrangheta, quindi, alla radice dei fatti di Rosarno: ha solo fatto pure sua la reazione. E niente razzismo. Come può attecchire il razzismo nell’animo di chi è vittima di simili discriminazioni, anche dal «civile» Nord, e nel cui sangue ci sono tanti di quei miscugli da aver fatto di noi un ibrido meticcio? Poi il calabrese ha il senso dell’accoglienza, basti ricordare gli esempi di Badolato con i Curdi e di Riace.

Chi raccoglierà adesso le arance?

Molti non le raccoglieranno affatto, essendo mutate le modalità di erogazione del contributo europeo, non più in base al prodotto ma con un tot a ettaro, e questo ridurrà il già scarso utile. Per il resto provvederanno ancora e sempre i neri. Altri neri. Si raggiungerà un nuovo equilibrio. Magari saranno alloggiati nelle case coloniche dei proprietari, ‘ndranghetisti compresi, senza consentire che facciano massa e il rumore della massa. Non c’è altra soluzione. Certo non lo farà mano d’opera locale, le grandi folle di presunti disoccupati. Non a quelle cifre, non a venticinque euro a giornata. Neppure a quaranta, ché oltre non si può andare, solo dieci euro in più sconsiglierebbero la raccolta, meglio lasciare tutto a marcire, io stesso già lo faccio, a causa del mercato degli agrumi che è crollato. Ma forse i lavoratori locali non li raccoglierebbero comunque. Le classifiche che danno la Calabria con il più basso reddito pro capite della nazione sono carta straccia. Qui c’è il lavoro nero, qui c’è chi vive nel lusso e nell’abbondanza e percepisce il sussidio di disoccupazione, qui ci sono laureate che mai hanno preso in mano un’oliva, se non per mangiarla, eppure risultano raccoglitrici, qui la fame e la miseria sono solo sui numeri. Chi le pativa davvero, fame e miseria, è andato via.

Nemmeno mi convince l’assunto secondo cui i disordini sarebbero stati fatti scoppiare ad arte, per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla bomba alla Procura generale di Reggio. La ‘ndrangheta è una struttura orizzontale, tante piramidi, di dimensione e prestigio diversi, messe in serie. È difficile perseguano strategie comuni e condivise.

Né sono più tanto certo che si sia trattato di un gesto di intimidazione della ‘ndrangheta, di quella più potente almeno, particolarmente colpita dalla Legge negli ultimi tempi e preoccupata per i primi sintomi di un risveglio della società civile. Mi ha reso dubbioso la novità che parrebbe esserci stata una donna alla guida del motorino da cui è sceso il giovane che ha piazzato l’esplosivo. Se davvero era una donna - e non piuttosto un uomo camuffato - allora comincio a non raccapezzarmi: la ‘ndrangheta, quella che conta, quella «seria», quella che si può permettere passi autonomi, anche se scellerati e dannosi per tutti loro, mai prima d’ora ha affidato simili compiti a una donna, ne avrebbe perso in onorabilità, per come la intendono loro. Può però essere che abbia mutato pelle e strategie, mettendosi alle spalle il passato. Possibile ma difficile da digerire, questo. Alla San Tommaso, ne prenderò atto se e appena lo riscontrerò. Perché tendo a escluderlo. La ‘ndrangheta sta bene com’è, non intorpidisce le acque e conosce i rischi che comporta sfidare faccia a faccia lo Stato, lo ha già visto con Cosa Nostra. Poi restare ancorati al passato, ai comportamenti e alle «regole» del passato, è vitale per la ‘ndrangheta.
Se alle spalle delle nuove leve senza scrupoli non ci fossero i vecchi capibastone, quelli sopravvissuti ai tanti invece morti con le scarpe ai piedi, per strada cioè, in un agguato, e non di malattia nel letto di casa, se non ci fossero loro e il loro carisma, che ancora inganna di passato, scomparirebbero l’umore di condivisione, la quota di omertà che non è paura, la tranquilla convivenza, il consenso di una fetta della popolazione, e resterebbero nudi delinquenti facili da abbattere. Rimango con il dubbio.

Ho finito. Ho l’amaro in bocca. Se in questo momento mi chiedessero che cosa fare del nostro futuro, risponderei «andiamocene, mai riusciremo a sconfiggere la ‘ndrangheta». Poi penso alla stragrande maggioranza di persone perbene, alle radici che non è giusto recidere per le colpe di pochi, a questa mia terra bellissima e martoriata, penso che non saremmo noi stessi nel posto scelto per fuggire, penso che qui c’è l’aria che già fu fiato di mio padre, che qui riposano i miei morti, che incatenano più dei vivi. E resto.

da lastampa.it