Titolo: IL PRIMO ANNO DI OBAMA Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 11:26:53 am IL PRIMO ANNO DI OBAMA
Dall'audacia della vittoria alla timidezza del governare E c’è chi ormai si chiede: «Dov’è finita la sua poesia?» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON — «Dov’è la poesia di Obama?», si chiede Tom Friedman, premio Pulitzer e principe dei commentatori americani. Ed è quesito invero paradossale, per un leader arrivato alla Casa Bianca anche grazie al fascino travolgente della sua retorica, alla capacità di ispirare milioni di elettori con discorsi entrati nella leggenda. Ma per Friedman, che queste cose le dice anche di persona al presidente quando giocano a golf nella base di Andrews, la «mancanza di poesia» è il vero problema di Barack Obama, un anno dopo la storica notte del 4 novembre 2008. «Sono volutamente cauto — ci spiega al tavolo all’aperto di un caffè di Bethesda, sorseggiando un cappuccino scremato —. È presto, ci sono troppe cose in ballo: per dire, se andasse in porto la riforma sanitaria, scolpirebbero il suo profilo sul Monte Rushmore. Penso però che Obama abbia perso la sua narrativa, il racconto che leghi e connetta fra di loro le cose molto ambiziose che sta cercando di fare su sanità, energia, economia o istruzione». Friedman considera infatti i tanti cantieri di Obama tutti elementi di quella «nation building at home», la ricostruzione della nazione al suo interno, senza la quale l’America «è condannata al declino». Ecco, «Obama non è riuscito ad articolare insieme i suoi programmi e le iniziative in una visione: ciò ha reso molto facile per gli oppositori delegittimarli uno per uno. Certo, è curioso vederlo sulla difensiva, quando potrebbe argomentare che sta facendo qualcosa di incredibilmente patriottico» . Secondo il profeta dell’economia verde, «agli occhi degli americani Obama appare confuso, proprio perché non ha un racconto coerente, che motivi tutti gli strati della società e dia loro uno spirito di sacrifico condiviso. Sono ancora eccitati per averlo votato, ma non hanno la percezione chiara della direzione» . Vale anche per la politica estera: «Ha avuto una serie di intuizioni e lanciato iniziative giuste — dice Friedman —, alcune inevitabili e necessarie per affrontare le crisi ereditate. Ma se mi chiede quale sia l’obamaism sulla scena internazionale, non saprei dirlo. Obama è un work in progress. Potrebbe rivelarsi grandissimo, oppure fallire». «Ma la Storia ci insegna a non prendere troppo sul serio il primo anno di un presidente », ribatte Larry Sabato, direttore del Center for Politics alla University of Virginia , il politologo più citato degli Stati Uniti. Nessuno, ricorda, aveva previsto come il Vietnam avrebbe affossato Johnson o il Watergate Nixon, né alcuno nel 1993 avrebbe scommesso un dollaro falso sulla rielezione di Bill Clinton tre anni dopo. «La luna di miele di Obama è finita nei tempi tradizionali — spiega Sabato —, al momento il presidente ha un tasso di approvazione intorno al 53%, la stessa percentuale con cui è stato eletto. Ci sono segnali incoraggianti dall’economia e ora anche dalla riforma sanitaria. Altre cose sono preoccupanti, come l'Afghanistan o il debito pubblico, che ormai gli appartengono in pieno». «Purtroppo l'audacia della vittoria ha ceduto il posto alla timidezza del governare», sospira al telefono Arianna Huffington, grande dame dei blogger progressisti, fondatrice e direttrice dell’Huffington Post, obamiana della prima ora. Delusione, solo in parte confortata dalla speranza che «Obama torni a essere Obama», è il suo sentimento dominante. Passionale come vogliono i suoi natali greci, Huffington lancia un cri du coeur: « È lo stile della sua leadership che trovo deludente. Ho paura che non abbia imparato la lezione dei grandi confronti politici americani: hanno tutti richiesto di combattere fino a quando la battaglia non è stata vinta. Lo ricorda David Plouffe, il manager della campagna, nel suo libro: 'Obama ha corso convinto che il Paese abbia bisogno di un cambiamento profondo e radicale e che le lobby abbiano troppo potere'». Ma una volta alla Casa Bianca, questa convinzione si è dissolta: «Il presidente sembra credere che ciò che sia buono per Goldman Sachs sia buono anche per l'America. Ma ciò mina la fiducia del pubblico nel governo». Huffington ce l’ha soprattutto con Larry Summers, il primo consigliere economico, che durante i meeting nell'Oval Office, di fronte ai nuovi dati su disoccupazione e pignoramenti di case, è uso commentare: «Non c’è nulla da fare». «È l’opposto di yes, we can», commenta amara Arianna, che invoca Obama a «tornare alle origini » e non mollare «chi lo ha eletto, certo che avrebbe cambiato un sistema marcio » . Non è d’accordo Fareed Zakaria, direttore di Newsweek International, il guru della globalità che ha ispirato molte delle idee di Obama. «Il bilancio è largamente positivo. Ha dato un potente contributo a stabilizzare l’economia mondiale, con una risposta massiccia e rapida che ha impedito una depressione stile Anni Trenta. L’avvio della ripresa è avvenuto più velocemente di quanto nessuno avesse previsto. E questo va a suo credito». Sulla politica estera, Zakaria è più cauto: «Ha spianato il terreno per un’America più disposta ad ascoltare e capire. Ma le idee non hanno ancora trovato applicazione. È ingiusto dire che ha fallito come fanno i repubblicani, ma i risultati devono ancora venire». E le attese deluse? «L’elezione di Obama è stata la prima grande storia politica globale: giovane, birazziale, cosmopolita, ha sollevato attese impossibili e sta tentando di fare cose impensabili. Certo, se qualcuno ha creduto che camminasse sulle acque, sarà deluso. Ma in realtà il suo è un buon inizio». Errori? «Sulla riforma sanitaria, non ha affrontato di petto il problema più grave, i costi astronomici, scegliendo di non sfidare apertamente le lobby. Potrebbe pentirsene». Paolo Valentino 04 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Obama lancia la "dottrina cinese" Inserito da: Admin - Novembre 14, 2009, 10:57:16 am Importante discorso del presidente Usa a Tokyo
"L'ascesa di Pechino non ci spaventa, non cercheremo di contenerla" Obama lancia la "dottrina cinese" "Non è una minaccia per l'America" dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI TOKYO - "L'ascesa della Cina non ci spaventa, non è una minaccia per l'America. Lo sviluppo delle nazioni non è un gioco a somma zero in cui l'una vince se l'altra perde". Barack Obama sceglie Tokyo per un solenne discorso programmatico, in cui espone per la prima volta la sua "dottrina cinese". Un tema scottante e delicato su cui i suoi predecessori alla Casa Bianca sono spesso apparsi titubanti, incerti tra la rivalità strategica e il compromesso tattico basato sugli interessi del momento. Obama sa che il XXI secolo sarà segnato dalla sfida tra le due superpotenze ma esclude ogni analogia con il confronto Usa-Urss durante la guerra fredda. "Noi non cercheremo di contenere la Cina", dice, con un evidente riferimento alla dottrina del "contenimento" della minaccia sovietica che fu in auge a Washington nei decenni della tensione con Mosca. Nel suo primo viaggio in Asia, dove a più riprese si autodefinisce "il presidente americano che viene dall'Asia-Pacifico" (perché nato alle Hawaii e cresciuto in Indonesia), Obama riconosce alla Repubblica Popolare un merito immediato e concreto: "La Cina ha mostrato di svolgere un ruolo chiave nel far ripartire la crescita economica globale". Mai in precedenza era venuto dall'America un omaggio così esplicito al ruolo di "locomotiva" esercitato da Pechino negli ultimi mesi, mentre il resto del mondo era in recessione. Davanti a un pubblico giapponese particolarmente sensibile a questo tema, questo sabato mattina Obama aggiunge nel passaggio sulla Cina un accenno ai diritti umani: "Noi non rinunceremo mai a parlare in favore dei nostri valori, la difesa dei diritti individuali e della libertà religiosa. Ma lo faremo in uno spirito di cooperazione". E' un approccio soft, a poche ore dall'incontro con il presidente cinese Hu Jintao (stasera al vertice Apec di Singapore, tre giorni dopo a Pechino). Obama non cita esplicitamente il Tibet o lo Xinjiang, né casi specifici di abusi del governo cinese contro i diritti umani. Fa nomi e cognomi, invece, nel caso della Birmania. "Abbiamo deciso di comunicare direttamente", annuncia, confermando che al vertice dell'Apec a Singapore incontrerà il premier di Myanmar. Si interrompe così un lungo gelo diplomatico fra i due paesi. Visto che la politica dell'embargo e delle sanzioni non ha portato ad alcun miglioramento, Obama tenta anche in questo caso la strada del dialogo. Con fermezza, però: "Al premier birmano dirò questo: se volete la fine delle sanzioni dovete migliorare la situazione dei diritti umani e liberare i prigionieri politici, a cominciare dalla signora Aung San Suu Kyi". Questo sabato mattina, ultima giornata della visita a Tokyo, per Obama è stato finalmente l'occasione di un bagno di folla, in un paese dove la sua popolarità è ancora alle stelle. La cornice del suo discorso è il teatro sinfonico Suntory Hall. Sul palco, un sipario azzurro con una lunga fila di bandiere americane e giapponesi. Un'orchestra intrattiene il pubblico con "Eine Kleine Nachtmusik" di Mozart, prima dell'arrivo della superstar globale. L'emozione è grande quando Obama prende la parola, e lui non delude. "Premia" i giapponesi con una serie di ricordi personali, che risalgono all'infanzia trascorsa a Giacarta, in Indonesia. "Da bambino - racconta - mia madre mi portò qui in Giappone, in visita a Kamakura. Vidi quel simbolo di pace che è la grande statua dell'Amida Budda, ma per la verità ero più attratto dal vostro gelato matcha". Risate e applausi. Seguono altre ovazioni quando parla di "valori comuni fra le nostre due democrazie" e di "rifondare l'alleanza su una base di parità e mutuo rispetto". In giornata Obama vola a Singapore per il summit tra gli Stati membri dell'Apec, l'associazione Asia-Pacifico. "Il benessere dell'America dipende in gran parte da quel che accade in quest'area del mondo". A Singapore Obama porterà un'altra dottrina, quella sullo sviluppo "equilibrato" che espose già al G-20 di Pittsburgh. In sostanza: perché gli americani smettano di vivere al di sopra dei loro mezzi e comincino a ridurre i loro debiti, sostiene Obama, occorre che i giganti asiatici consumino e importino di più. Un suo consigliere economico cita questo dato: se l'Asia importa l'1% in più di prodotti "made in Usa", si creano in America 250.000 posti di lavoro. © Riproduzione riservata (14 novembre 2009) da repubblica.it |