Titolo: IRENE TINAGLI Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2009, 04:16:36 pm 7/10/2009
Italia una società bloccata IRENE TINAGLI Cosa spinge le persone a studiare, lavorare e impegnarsi ogni giorno per fare sempre un po’ di più? È la speranza di poter garantire a se stessi e ai propri figli un futuro migliore. Una speranza che si realizza quando in un Paese esiste mobilità sociale. È questa prospettiva di crescita personale che fa muovere un Paese, che stimola le persone a imparare, a produrre e a creare ricchezza, non l’obiettivo della pensione o quello di ridurre il debito pubblico. Eppure, noi ci preoccupiamo solo delle pensioni e di escamotage contabili per far tornare i conti. Legittimo, anche questo è necessario. Ma abbiamo smesso di preoccuparci di ciò che davvero contribuisce alla costruzione del futuro, di quello che i cittadini sperano, sognano, temono. Abbiamo dismesso le loro paure, bollandole come «psicologiche», irrilevanti. Così facendo abbiamo commesso due gravi errori. Primo, abbiamo dimenticato quello che ormai tutti gli economisti sanno: che sono proprio le percezioni e i fattori psicologici che alla fine determinano le scelte e i comportamenti economici delle persone. Se le persone sono convinte che qualsiasi cosa facciano sarà inutile ai fini della loro crescita personale, smetteranno di investire in se stesse, di impegnarsi nello studio o nel lavoro che fanno. Secondo, abbiamo rinunciato ad analizzare e capire la realtà in cui vive il Paese. Il sentire delle persone non nasce dal nulla, nasce da esperienze concrete e dalle dinamiche sociali ed economiche. È importante cogliere questi fenomeni con tempismo per adottare politiche e interventi adeguati. Un’analisi approfondita di queste dinamiche mostra che l’Italia è in effetti un Paese bloccato e che il rallentamento della mobilità sociale non è una percezione infondata. È invece legato a problemi reali del nostro sistema economico e sociale che si sono acutizzati nel tempo. Negli ultimi anni in Italia sono aumentate le diseguaglianze, e la povertà si è diffusa tra i giovani e le famiglie con i bambini piccoli, tanto che oggi l’Italia è il Paese europeo con il più alto tasso di bambini a rischio di povertà. Non solo, ma l’Italia è anche uno dei Paesi in cui è più difficile uscire dal disagio. Questi sono tutti elementi che rendono la nostra società sempre più rigida e difficile da «scalare». Una società in cui la famiglia di origine è sempre più determinante nell’accesso alle opportunità e nella probabilità di successo delle nuove generazioni. Abbiamo uno dei tassi di «ereditarietà» della ricchezza più alti d’Europa: i dati sull’elasticità dei redditi tra padri e figli ci dicono che in Italia circa il 50% del differenziale di ricchezza dei genitori si trasmette ai figli, un dato altissimo se confrontato con altri Paesi europei in cui si aggira attorno al 20%. Cosa significa questo? Significa che i figli dei ricchi tendono a restare ricchi e i figli dei poveri tendono a restare poveri. Non solo, ma è sempre più difficile per i ragazzi nati in famiglie umili avere la possibilità o la forza di riscattarsi. In Italia la probabilità che un giovane con padre non diplomato si laurei è solo del 10%, contro oltre il 40% dell’Inghilterra e il 35% della Francia, per fare un esempio. Questo ci dice che milioni di giovani in Italia stanno gettando la spugna. La situazione è particolarmente allarmante perché non esiste in Italia nessun piano o misura che si proponga di affrontare il problema in modo strategico e sistematico. Ed è proprio questo quello che più di ogni altra cosa ci distingue rispetto ad altri Paesi. Infatti, l’irrigidimento della società è un problema che non riguarda solo noi ma che, in vario grado e misura, caratterizza anche altri Paesi industrializzati come Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Tuttavia in questi Paesi esiste una consapevolezza maggiore verso questi temi, che ha portato all’adozione di misure strutturali volte a recuperare dinamismo e restituire opportunità a ceti sempre più esclusi. Una strategia che in Italia manca completamente. Ma quali sono le politiche attivabili per riattivare la mobilità sociale di un Paese? Da un lato politiche sociali efficaci per garantire a cittadini di ogni provenienza sociale pari accesso alle opportunità di crescita, dall’altro un sistema economico in grado di riconoscere i meriti e dare modo a chi è bravo di far carriera. I Paesi che stanno cercando di recuperare mobilità sociale intervengono in queste direzioni, soprattutto in quella su cui sono più carenti. Per esempio Inghilterra e Stati Uniti, che tradizionalmente hanno privilegiato i meccanismi meritocratici di mercato, stanno investendo pesantemente in politiche sociali per restituire ai ceti più deboli opportunità di crescere e migliorarsi. L’Italia invece è debole su entrambi i fronti. Ha un sistema economico ancora molto ingessato da protezioni di vario genere, e una spesa sociale dominata per il 60% dalle pensioni che non lascia spazio per lo sviluppo dei bambini, per i giovani, e per tutti quei servizi che aiutano le giovani famiglie a conciliare lavoro e carriera e a crescere. Possiamo continuare ad ignorare il problema e ad evitare le necessarie riforme ed investimenti, ma dobbiamo allora essere pronti a subirne le conseguenze. Conseguenze che sono visibili già oggi, ma che saranno ancora più gravi tra qualche anno. Perché se i dieci milioni di bambini e ragazzi che ci sono oggi in Italia non avranno l’opportunità o la motivazione di studiare, impegnarsi e migliorarsi, non riusciranno ad avere le competenze necessarie per competere su un mercato del lavoro sempre più agguerrito e globalizzato. E se non saranno competitivi loro, non lo sarà nemmeno l’Italia. Irene Tinagli, docente di Economia delle Imprese presso l’Università di Madrid, illustrerà oggi alle 15,30 il primo rapporto sulla mobilità sociale alla presentazione pubblica della fondazione «Italia Futura», che si svolgerà a Palazzo Colonna, a Roma. da lastampa.it Titolo: Italia società bloccata e immonda. Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:43:14 am 08/10/2009 - maria vittoria - lavoravano come inservienti alle camere mortuarie
Mazzette anche sui cadaveri Licenziati due dipendenti Estate 2001: il giorno del blitz della finanza al Maria Vittoria L’ospedale fa partire i controlli incrociati sui servizi svolti dalle pompe funebri marco accossato torino I due dipendenti del Maria Vittoria coinvolti nello scandalo delle camere mortuarie sono stati licenziati dall’azienda. Dopo la Commissione di disciplina e il ricorso al Collegio arbitrale, l’Asl To2 ha deciso di interrompere ogni rapporto di lavoro: decorrenza 1° ottobre in un caso, 1° novembre nel secondo. L’unica possibilità per non perdere il posto che ancora resta ai due dipendenti allontanati è appellarsi ora al giudice del lavoro. Ma l’Asl To2, anche in questo caso, è pronta alla battaglia legale. I fatti risalgono all’estate 2001. Pm Giuseppe Ferrando: gli incaricati di diverse morgue di più ospedali torinesi vennero sorpresi a prendere mazzette da impresari di onoranze funebri a cui segnalavano i decessi. Soldi in cambio di possibili funerali e biglietti da visita fatti scivolare nella mani dei parenti dei defunti: «Contatti questa impresa, dica che la mando io». Partirono intercettazioni audio e video, interrogatori e testimonianze, finché una mattina di luglio scattò il blitz della Guardia di Finanza. E con le Fiamme Gialle arrivarono le manette e il carcere. Terminato il percorso giudiziario, per i due addetti alle camere mortuarie dell’ospedale di corso Tassoni è scattato anche il provvedimento dell’azienda. I due hanno inoltre già dovuto risarcire all’ospedale 68 mila euro per danno d’immagine. Capitolo chiuso? Recenti inchieste avviate fuori Torino hanno rivelato che l’abitudine alla segnalazione non sembra completamente sconfitta, anche se molti degli ospedali coinvolti hanno deciso di affidare il servizio delle camere mortuarie a una ditta esterna specializzata. «In ogni caso - spiega il direttore amministrativo dell’Asl To2, Claudio Mellana - abbiamo deciso di attivare, da adesso e per sempre, una serie di controlli incrociati: monitoreremo chi svolge i servizi mortuari non solo al Maria Vittoria, ma anche negli altri due ospedali della nostra Asl, il San Giovanni Bosco e l’Amedeo di Savoia: monitorando le decisioni dei famigliari nella scelta delle onoranze funebri saremo in grado di osservare se ci sono anomalie, e accorgerci di eventuali “spartizioni” sospette dei reparti». Fece clamore, la vicenda delle mazzette sui morti. Vicenda che si è rivissuta nel 2007 con altri arresti alle Molinette, già coinvolte nel primo scandalo del 2001. «Vicenda che non vogliamo più rivivere - conclude Mellana - e per questo abbiamo deciso di rendere pubblico il nostro controllo». Azione preventiva. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI Il costo collettivo Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2009, 10:09:44 am 23/10/2009
Il costo collettivo IRENE TINAGLI Mai preso una lira. La dichiarazione di Mastella all’indomani dell’indagine sui presunti favori e posti di lavoro all’Arpac fa riflettere. Niente soldi, solo innocenti «segnalazioni»per aiutare della povera gente in difficoltà. Al di là della vicenda giudiziaria in sé, sulla quale indagherà la magistratura, questa reazione mette in luce un sistema di gestione della cosa pubblica e delle relazioni politiche che per decenni è stato considerato del tutto normalee innocuo. In Italia si pensa sempre che tutti i mali siano legati alle mazzette, alla corruzione «economica ».Mail funzionamento del nostro sistema non è corrotto solo da mazzette, ma anche da sistemi clientelari che spesso ci impongono impiegati, funzionari e dirigenti incapaci. È sempre stato così, non lo hannocerto inventato i coniugi Mastella. Così sono nati i sistemi locali del pubblico impiego, e anche a questo in fondo sono serviti: a creare una base stabile di posti di lavoro con cui dare una mano a tanta «povera gente»: amici, vicini di casa, parenti, persone che avevano bisogno di una mano per sistemare se stessi o i propri figli. Nonera, di per sé, un sistema criminale. Nell’Italia del dopoguerra che si stava rimettendo in piedi è stato in un certo senso uno strumento di ricostruzione di tante comunità, di affermazione dello Stato, di gestione delconsenso. Oltretutto,affermandosi in un periodo di forte espansione e in un’economia ancora poco globalizzata in cui il ruolo del talento e delle competenze altamente specializzate eramenopervasivo di oggi, questo sistema generava inefficienze tutto sommato tollerabili. Ma tutto è cambiato a partire dalla fine degli Anni Ottanta. L’avvento delle nuove tecnologie, la compressione inevitabile dei sistemi di impiego pubblico, la crescente globalizzazione e soprattutto la crescente complessità dei servizi e dellecompetenzecon cui si sono dovute misurare organizzazioni pubbliche e private hanno reso questi sistemi di assunzione localistica e clientelare insostenibili e dannosi. Insostenibili da un punto di vista economico e sociale. Economico, perché hanno rallentato la modernizzazione dei nostri servizi, hanno aumentato vertiginosamente i costi, costringendo spesso a ricorrere a consulenzepercompensare lamancanzadi competenzeinterne,hanno moltiplicato le inefficienze e i tempi di realizzazione di progetti.Ma insostenibili anche dal punto di vista sociale, perché il persistere di questi sistemi di «segnalazioni» e favori ha finito per minare la fiducia degli stessi cittadini nelle istituzioni e nello Stato. Perché anche loro sono cambiati. Tanti cittadini che prima vedevano nell’ente pubblico localeunrifugio eunaprotezione sociale, oggi vedononell’ente pubblico un erogatore di servizi importanti, e non accettano più inefficienze in nome di una protezione occupazionale che in ogni caso l'ente non è più in gradodi garantirecomeuntempo. Tantepersoneche primavedevanonel sistema clientelareunarisorsa sicura, abbondantee accessibile, oggi vi vedono un ostacolo alla propria realizzazione e al proprio benessere. Perchélamancanzadi servizi funzionali impedisce loro di realizzare legittime ambizioni personali e professionali, e perché le inefficienze delle pubbliche amministrazionisi ripercuotonosu di loro, il loro lavoro, le loro attività commerciali e professionali, nonché sulleopportunitàdi studioecrescita dei propri figli. Insomma, in questi ultimi venti anni è cambiato radicalmente lo scenario economico e sociale in cui il nostro Paese si trova a competere e operare. Mai poveri coniugi Mastella sono rimasti all’Italia di 40 anni fa e pensano quindi di aver fatto poco danno. Fanno quasi tenerezza. Non si rendono conto che il problema non risiede tanto nell’eventuale guadagno privato che possono averne derivato o no, ma nel costo collettivo del loro comportamento. Il dramma è: quanti Mastella cisonoancorain giro perl’Italiaa «piazzare»amici econoscenti nelle nostre pubbliche amministrazioni ignari o noncuranti dei costi chequestocomportamentoinfliggeatutto il Paese? da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI L'amore è una cosa da ricchi Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2009, 05:29:54 pm 30/12/2009
L'amore è una cosa da ricchi IRENE TINAGLI In questa fine dell’anno si parla molto di amore e di odio. E pur prendendo spunto da eventi pubblici, si finisce spesso per parlarne in chiave molto individuale e personalistica. Se ne parla come di sentimenti quasi irrazionali che scoppiano all’improvviso da un gesto, una parola, e si punta il dito verso i comportamenti di alcune persone o le dichiarazioni di altre. E sempre in gesti e parole individuali si cerca la soluzione. Ma non è così semplice. Funziona così, forse, tra le coppie di innamorati, ma non in una società organizzata. Quando si riferisce a intere comunità sociali anche l’amore, così come l’odio o la fiducia, ha una sua «economia», ovvero delle dinamiche che ne supportano lo sviluppo e la diffusione, degli elementi che lo favoriscono e altri che lo inibiscono. Ed è fermandosi ad analizzare il fenomeno in questa prospettiva che si possono capire, al di là degli individui, le condizioni necessarie a costruire una società fondata sull’amore e il rispetto reciproco. Può sembrare un approccio romantico, ma in realtà esistono molti studi che da decenni monitorano le evoluzioni di numerosi Paesi in tutto il mondo e che aiutano a capire come si sviluppano società più pacate, più tolleranti e più aperte al dialogo. I lavori del sociologo Ronald Inglehart e dei suoi colleghi sono tra i più interessanti, anche perché supportati da dati internazionali molto affidabili raccolti in tutto il mondo da oltre trent’anni. Queste ricerche mostrano che i Paesi con i sistemi politici meno polarizzati e aggressivi, e i climi sociali più aperti, tolleranti e fiduciosi sono quelli che si sono spostati verso sistemi culturali e valoriali di tipo post-materialista, ovvero società in cui si è smesso di preoccuparsi delle cose essenziali - sopravvivenza materiale, lavoro, diritti e servizi di base ecc. - e si comincia a preoccuparsi di cose come sviluppo e crescita personale, emancipazione, autorealizzazione. In altre parole i Paesi che mostrano i climi politici e sociali più «amorevoli» e concilianti sono quei Paesi in cui le istituzioni trasmettono - e ricevono - fiducia, in cui i servizi funzionano, in cui c’è più sicurezza sociale ed economica, Paesi in cui in sostanza si è smesso di preoccuparci troppo della sopravvivenza quotidiana, in cui non si ha paura che ci venga tolto il necessario per sopravvivere, e dove ci si può focalizzare su quello che serve per vivere bene e per auto-realizzarsi: cultura, istruzione, arte, libera espressione, e così via. Al contrario i Paesi in cui la gente è assorbita dalla paura di non farcela, di trovarsi sola di fronte alle insicurezze e alle difficoltà, senza certezza di assistenza, di aiuto, con la percezione di diritti sociali e civili incerti e fragili, sono Paesi in cui più facilmente si sviluppano paura e odio. Paesi in cui l’istinto di sopravvivenza prevale sul senso di comunità, dove la diffidenza finisce per uccidere la fiducia e la solidarietà, dove l’avversario diventa nemico, dove il confronto diventa scontro e aggressione. Come si posiziona l’Italia rispetto a queste dimensioni? I dati del World Value Survey ci mostrano due dati preoccupanti. Il primo è che l’Italia ha un livello di sviluppo di valori «postmaterialisti» molto basso (tra i Paesi della vecchia Europa fanno peggio di noi solo Spagna e Portogallo). Il secondo è che dopo un continuo miglioramento che ha consentito alla nostra società di crescere molto nel corso degli Anni Ottanta e Novanta, nell’ultimo sondaggio il nostro Paese registra un passo indietro, una regressione che ci riporta quasi ai livelli di venti anni fa. Questi dati richiamano inevitabilmente le difficoltà economiche e sociali esplose negli ultimi anni e l’incapacità di governarle: l’aumento della precarietà lavorativa, un’immigrazione crescente e mal gestita, il calo di competitività e della produttività. E’ in questo tipo di contesto che la società ha iniziato a ripiegarsi su se stessa e a sviluppare diffidenza, rancori, paure ed è da qui che occorre partire per costruire un Paese meno incattivito. Perché in una comunità non si può instillare amore per decreto, né con un gesto benevolo né con parole concilianti, ma si costruisce collettivamente e democraticamente lavorando su molti fronti: economico, sociale, culturale. E questa è una cosa che molti nostri politici, di governo e opposizione, dovrebbero tenere a mente. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI Bamboccioni, le soluzioni degli altri Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2010, 05:44:29 pm 20/1/2010
Bamboccioni, le soluzioni degli altri IRENE TINAGLI Un fatto di cronaca nuovo ha riportato in auge un dibattito vecchio: il tema dei bamboccioni, con tutti i luoghi comuni che si porta appresso. La nostra cultura familistica, i nostri figli viziati, le mamme che non mollano. Ma la questione non è meramente socio-culturale. La percentuale di ultratrentenni (30-34 anni) che vivono con i genitori è quasi triplicata in venticinque anni: per gli uomini si va dal 15.5 del 1981 al 41 dei giorni nostri, per le donne, più indipendenti, si passa dall'8.7 al 20.8 per cento. Una società non cambia «cultura» così in fretta: questo fenomeno ha importanti radici economiche. Ciò non significa, attenzione, che questi «bamboccioni» siano davvero tutte vittime, costretti a stare a casa da una totale mancanza di lavoro. Significa però che, per come sono strutturati il mercato del lavoro e il mercato della casa, è economicamente più conveniente stare con i genitori piuttosto che fare tanta fatica per veder solo peggiorare il proprio stile di vita. E' pura razionalità economica. Possiamo dare la colpa ai nostri ragazzi, che oggi sono più pigri, più viziati, più ignoranti e arroganti di un tempo, possiamo lamentarci perché non ci sono più i bravi giovani volenterosi di una volta e così via. Ma, a parte i casi estremi portati alla luce da certe sentenze (che non possono essere additati come rappresentativi di milioni di ragazzi), questi giovani non sono né pigri né presuntuosi: semplicemente fanno quello che possono, si arrangiano, si fanno due conti in tasca e si comportano di conseguenza. Il ragionamento è molto semplice: se sei un tirocinante che prende 5-600 euro al mese, o anche un operatore di call center che ne prende 800 (e i call center pullulano di laureati), difficilmente ti puoi permettere di spenderne altrettanti per l'affitto di un appartamento. O vai a vivere in condivisione con estranei (come fanno molti immigrati e anche molti dei nostri che emigrano in altre città), oppure, se hai una famiglia alle spalle, decidi di restare con i tuoi. E almeno su questo i nostri ragazzi sono bravi e capaci di fare i conti tanto quanto i loro colleghi stranieri. Infatti, questo problema non affligge solo i giovani italiani. Basta alzare lo sguardo oltreconfine, per renderci conto che la questione dell’indipendenza dei giovani non è solo nostra. Proprio nel mese di Dicembre in Inghilterra ha fatto scalpore un report dell'Ufficio di Statistica Nazionale che ha rivelato come il numero di giovani che vivono con i genitori ha toccato un picco mai visto in venti anni. Negli Stati Uniti invece già da alcuni anni si parla del fenomeno dei "figli boomerang", ovvero quelli che se ne vanno da casa per andare all'università, ma che poi vi rientrano subito dopo la laurea perché incapaci di mantenersi da soli lavorando. Un fenomeno in forte aumento anche in Canada, dove il censimento del 2006 ha mostrato che il 43.5 per cento dei giovani sotto i 30 anni vive ancora con i genitori, contro il 32 per cento di venti anni prima. In Spagna l'età media in cui un giovane va a vivere da solo è costantemente aumentata fino a raggiungere, lo scorso anno, la drammatica soglia dei 30 anni. Persino in Svezia, uno dei Paesi in cui tradizionalmente i figli se ne vanno a 18 anni, l'estate scorsa è scattato il primo l'allarme. Nuovi dati hanno mostrato che il 21 per cento dei giovani sotto i 27 vive ancora con i genitori, in netto aumento nel giro di pochi anni. E giusto un paio di settimane fa un sondaggio ha mostrato che il 70 per cento dei giovani svedesi tra i 20 e 25 anni vorrebbe andare a vivere da solo, ma non ce la fa economicamente. Non è un caso se i genitori svedesi sono già in agitazione e iniziano ad iscrivere i propri figli alle liste per accedere alle case «popolari» sin dall'adolescenza. Insomma, si tratta di un fenomeno serio e di portata internazionale, legato principalmente a due fattori. L'andamento del mercato immobiliare da un lato - con la bolla speculativa degli ultimi dieci anni che ha portato costi e affitti alle stelle. E la progressiva frammentazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro dall'altro, che ha colpito soprattutto i più giovani, in Italia come altrove. Gli altri Paesi stanno iniziando a pensarci e a muoversi. La Spagna ha istituito gli affitti di emancipazione, un contributo all'affitto per i giovani lavoratori che escono da casa. A Parigi si stanno progettando case per la condivisione, ovvero appartamenti pensati per accogliere in modo decente più di un inquilino, in modo che ciascuno abbia il proprio bagno e i propri spazi vitali, senza mortificare la dignità. In Svezia si sta parlando di una sorta di «piano casa» che porti a costruire nuovi alloggi specificatamente per i giovani, con affitti controllati. Sono misure recenti, ne valuteremo gli effetti, ma intanto in questi Paesi c'è la consapevolezza di un problema serio da affrontare con misure concrete di politica economica, edilizia e di Welfare. Da noi nulla, ci si focalizza sulla pigrizia, ma non stupiamoci poi se tra altri venti anni anziché averne il quaranta per cento a casa ne avremo il sessanta. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI Per la scuola una scelta miope Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:34:22 am 22/1/2010
Per la scuola una scelta miope IRENE TINAGLI La proposta del ministro Sacconi di abbassare l’obbligo scolastico da 16 a 15 anni nasce da un problema reale: i tanti giovani che interrompono gli studi prima dei 16 anni e che cadono nell’inattività o nel lavoro nero. Il problema quindi esiste, ed è importante affrontarlo. Quello che lascia perplessi però è il tipo di risposta, perché ha il sapore di una sconfitta. Una risposta che prende atto di un fallimento e si adegua al ribasso. Anziché pensare a misure che stimolino e incentivino la frequenza della scuola, magari attraverso sistemi di borse di studio e di coinvolgimento e supporto alle famiglie, o una riorganizzazione vera dei sistemi di formazione lavoro, si lascia perdere. In un certo senso si getta la spugna. Perché affidare i giovani di quindici anni ai sistemi «formativi» extrascolastici significa lasciare soli, vista la totale inconsistenza della formazione extrascolastica in Italia. È vero, le imprese potranno beneficiare di un anno di manovalanza a basso costo e i giovani avranno un anno di esperienza lavorativa (che, attenzione, è ben diversa da vera «formazione»), ma tutto questo è un ripiego terribilmente di breve periodo e poco lungimirante. È come chi si brucia la casa per vendersi le ceneri. Oggi ci si guadagna un pochino, ma si perde un patrimonio molto maggiore per il futuro. Uno dei problemi più grandi del sistema economico e produttivo italiano è proprio la scarsa qualificazione di tanti lavoratori, che entrati in azienda a quattordici o quindici anni, hanno maturato degli skills talmente specifici a un certo tipo di produzione, che poi diventa difficilissimo riconvertirli o sottoporli a nuova formazione molti anni dopo. È per questo che quando chiude una fabbrica si mettono in ginocchio intere economie locali. Un maggior livello di istruzione serve a questo: a rendere il lavoratore più flessibile, e più ricettivo a programmi di formazione futura. Questo non significa che ci sia bisogno di avere tutti laureati o premi Nobel, ma solo che occorre maggiore attenzione ai percorsi formativi e di avviamento al lavoro delle nuove generazioni, per assicurarci che il giovane non venga semplicemente abbandonato dietro una catena di montaggio. Perché un quindicenne che oggi, nel 2010, lascia la scuola per mettersi dietro una macchina, si scontrerà prima o poi con problemi che sarà poco attrezzato ad affrontare, e con lui la società in cui vive. Altri Paesi si stanno ponendo questo problema. Come l’Inghilterra, che negli ultimi dieci anni ha più che raddoppiato la spesa per la formazione professionale dei giovani riorganizzandola pesantemente: sono state create numerose «National Skills Academies», guidate da aziende e datori di lavoro, che oltre a formare migliaia di ragazzi hanno stimolato le aziende stesse ad investire di più, facendo lievitare a 38 milioni di sterline (+16% in soli due anni) la spesa delle aziende in formazione giovanile. Un intervento peraltro integrato da un programma di welfare per i giovani, un «New Deal for Young People» che supporta ed incentiva la formazione e il lavoro, di cui hanno già beneficiato un milione e trecentomila ragazzi tra i sedici e i diciotto anni. Ecco, la proposta di Sacconi ha il merito di affrontare un problema reale da noi troppo spesso ignorato, per ignavia o ipocrisia, ma ha il limite di farlo con uno spirito che trasmette una sensazione di rinuncia, che rischia di negare una prospettiva ai figli dei più poveri che di fatto vedranno disegnarsi di fronte a loro l’orizzonte di fine del percorso formativo alla scuola media, una logica del «meglio di niente». Mentre oggi più che mai il Paese avrebbe bisogno di una politica capace di dare segnali forti, che riconosca i problemi, certo, ma anziché abbassare l’asticella l’alzi continuamente, rilanciando con proposte innovative proprio sulle sfide più difficili. Una politica che ci dica che possiamo fare meglio di così e puntare più in alto. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI Un'idea sbagliata di Welfare Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2010, 09:56:19 am 25/1/2010
Un'idea sbagliata di Welfare IRENE TINAGLI Dopo la battuta sulla legge per buttare fuori casa i ragazzi dopo i diciotto anni, il ministro Brunetta ha proposto di prendere risorse dalle pensioni di anzianità per dare ai giovani «non 200, ma 500 euro al mese». I contorni operativi della proposta sono molto fumosi (salario sociale? borse di studio o sgravi?). Ma, di fatto, la proposta che milioni di italiani hanno ascoltato davanti ai teleschermi è quella di dare 500 euro al mese ai giovani togliendoli ai pensionati. Una cifra alta, più del doppio rispetto al supporto all'affitto per i giovani di 200 euro già in vigore in Spagna e che inizia a circolare come ipotesi anche in Italia (non è un caso se Brunetta cita proprio 200 euro come elemento di confronto). Ma anche per questo la proposta lascia molto perplessi. Una cifra così alta richiede risorse enormi che, guardacaso, al momento non sono reperibili. Perché dunque non prendere in seria considerazione quello che è stato fatto altrove e che potrebbe essere fatto adesso? La proposta dei 200 euro ai giovani lavoratori avrebbe potuto essere fattibile sin dai primi giorni di insediamento del governo. Sarebbe costata all’incirca due miliardi e mezzo: più o meno la stessa cifra che è costato eliminare l'Ici per i ceti più abbienti. Questo non significa che la riforma delle pensioni non sia necessaria, ma che la storia della coperta corta non deve diventare una scusa per rimandare cose importanti o, ancora peggio, per scatenare guerre tra classi deboli. Ma c’è un altro motivo di perplessità che riguarda la logica della misura stessa, almeno così come è stata lanciata in TV. Far passare, volutamente o no, il messaggio che togliendo le pensioni agli anziani si potrebbe dare una sorta di salario sociale ai giovani, non fa che perpetuare l’immagine di un welfare che «assiste» e protegge delle categorie ritenute più deboli di altre. Una cultura assistenzialista già dannosa tra i più anziani, figuriamoci se inizia a diffondersi tra i giovani. Per questo sono più utili misure magari più contenute ma che supportano il perseguimento di determinate opportunità. Il vero problema del welfare, oggi, non è tanto quello di includere o escludere certe categorie dall'assistenza, ma di un ripensamento di criteri di allocazione di risorse, in modo da bilanciare necessità e meriti, equità ed opportunità. È certamente una sfida difficile, ma non più rimandabile, su cui c’è bisogno di elaborare un piano serio, che venga poi illustrato al paese in modo chiaro, dettagliato, e non scaglionato a suon di annunci e rettifiche fatti alla radio o in Tv. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI Il circolo vizioso tra caste e amicizie Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2010, 10:01:54 am 8/2/2010
Il circolo vizioso tra caste e amicizie IRENE TINAGLI I dati appena rilasciati dal ministero mostrano un quadro molto netto: diminuiscono le iscrizioni all’Università. Quasi settemila matricole in meno rispetto all’anno scorso. Potrebbe sembrare un piccolo assestamento in un anno di crisi, ma non è così. Non è una flessione temporanea: questo dato si inserisce in un trend negativo che si protrae ormai da diversi anni. Rispetto all’anno accademico 2003-04 le immatricolazioni sono calate di quasi 52.000 unità, un dato impressionante, sia in termini assoluti che percentuali. Infatti, se nel 2003 si sono iscritti all’Università il 74,4% dei ragazzi usciti dalla superiori, quest’anno solo il 59% lo ha fatto. Un calo di oltre 15 punti percentuali in poco più di un quinquennio. Un trend che sta impoverendo la nostra società e che mina pesantemente le basi della nostra economia. Negli anni in cui tutti parlano dell’importanza del capitale umano, di saperi sempre più sofisticati, anni in cui la maggior parte dei Paesi occidentali ha quasi raddoppiato la quota di popolazione in possesso di una laurea, da noi si torna indietro. Le conseguenze sulla nostra competitività economica sono e saranno devastanti, ma forse adesso conviene fermarsi a riflettere sulle cause. Perché da questa riflessione si riescono a capire meglio i contorni e la portata del fenomeno. Questa situazione è conseguenza di un meccanismo sociale che si è inceppato: tanti giovani non studiano più perché pensano che non serva, che l’Università non funzioni più come ascensore sociale. Il meccanismo si è inceppato in parte per colpa di un sistema universitario incapace di trasmettere competenze al passo con i tempi e con le esigenze del sistema produttivo di oggi. Ma anche per colpa di un panorama delle opportunità che è sempre più chiuso e cristallizzato. Il nostro mercato del lavoro funziona ancora in modo molto informale, localistico e personalistico. Come ci mostrano i dati dell’ultima indagine Excelsior sulle assunzioni delle imprese, circa il 54% delle assunzioni avvengono per conoscenza diretta o per segnalazione di conoscenti. Un altro 25% da banche dati interne alle aziende. Questo significa che chi non ha conoscenze personali o non è già inserito in azienda ha davvero poche probabilità di trovare lavoro. Centri d’impiego, Internet e mezzi stampa coprono una percentuale irrisoria delle assunzioni. La storia che ai giorni nostri si può trovare lavoro semplicemente mandando un curriculum in Italia pare sia davvero un mito. La cosa drammatica è che questo sistema non solo non viene combattuto ma in alcuni casi viene persino legittimato e difeso. Come per la vicenda di alcune banche che pochi mesi fa hanno formalizzato un accordo con i sindacati per prepensionare i dipendenti ed assumerne i figli. Certo, i figli avrebbero dovuto avere certe caratteristiche, ma resta il fatto che, a parità di laurea in economia, essere figli di un bancario fa la differenza. Cosa dovrebbero quindi fare di fronte a questo scenario i figli degli operai, ma anche di molti impiegati, commesse o commercianti, che non possono contare su nessuna garanzia basata su famiglia e censo? La cosa più semplice: abbandonare velleità universitarie e far leva sul capitale relazionale che hanno a disposizione per fare, a loro volta, l’operaio, il commesso, il commerciante. È questo infatti che ci dicono gli ultimi dati di Almalaurea: tra gli iscritti all’Università aumenta la percentuale di chi è figlio di laureati e diminuisce la percentuale di chi invece ha genitori che si sono fermati alla scuola dell’obbligo. E questo non farà che alimentare un circolo vizioso che irrigidirà ulteriormente la nostra società e la nostra economia. Perché se i giovani provenienti dai ceti più poveri perdono anche l’università come occasione di confrontarsi con un mondo diverso dal loro, di mescolarsi con persone di varia estrazione, saranno davvero condannati a restare inchiodati ai blocchi di partenza, e non saranno in grado di offrire né a se stessi né ai propri figli orizzonti e prospettive migliori. Ed è molto triste pensare che nell’era in cui Paesi come l’India o la Cina stanno sperimentando l’abbattimento di vecchie caste e un nuovo senso di libertà e opportunità, in Italia i giovani stanno scivolando verso nuove gabbie e soffrendo frustrazioni e rinunce che nessun Paese sano e moderno dovrebbe tollerare. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI L'emergenza dei giovani senza lavoro Inserito da: Admin - Marzo 11, 2010, 09:35:43 am 11/3/2010
L'emergenza dei giovani senza lavoro IRENE TINAGLI Mentre l’Italia è distratta dai vari pasticci pre-elettorali il resto del mondo si interroga sull’emergenza economica più drammatica di questi ultimi tempi: la disoccupazione, che non dà cenni di miglioramento nemmeno di fronte ai timidi segnali di ripresa. Ma soprattutto si sta accorgendo che esiste un’emergenza dentro l’emergenza: la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto livelli più che doppi della disoccupazione complessiva ed è in continuo aumento. Mentre nell’ultimo anno la disoccupazione complessiva in Europa è passata dall’8% al 10%, quella giovanile è balzata dal 16,6% al 21,4%. Un aumento di circa il 30% in media, con punte del 50-60% in paesi come la Spagna (+49%), la Grecia (+56%), e persino in un paese tradizionalmente virtuoso su questo fronte come la Danimarca (+49%, anche se il tasso assoluto in questo paese resta tra i più bassi in Europa). Anche negli Stati Uniti il fenomeno ha assunto proporzioni preoccupanti: nel luglio scorso si contavano 4,4 milioni di giovani senza lavoro, contro un milione del luglio 2008. Questo ha aperto dibattiti serrati in molti paesi. Negli Stati Uniti, così come in Inghilterra o in Spagna, il tema viene costantemente affrontato sui giornali e sui media da economisti e politici, mentre in Danimarca è stato appena pubblicato uno studio ad hoc, commissionato all’Ocse, in cui viene analizzato il problema e sono valutate una serie di misure, inclusa una possibile revisione del loro «Welfare Agreement». In Italia invece il fenomeno della disoccupazione giovanile non sembra destare troppi allarmi tra i policy makers. In parte perché vi è spesso la tentazione di attribuire questo fenomeno ad aspetti culturali, legati a scelte specifiche delle nuove generazioni (rimandare volontariamente l’ingresso nel mondo del lavoro, restare a carico dei genitori ecc.) oppure a loro carenze intrinseche (minori competenze, scarsa determinazione o flessibilità) che li renderebbero meno appetibili sul mercato del lavoro. In parte perché la disoccupazione giovanile ha minor impatto sociale nell’immediato. I giovani tipicamente non hanno figli a carico, e possono invece contare sulla famiglia di origine come ammortizzatore sociale, quindi la loro inattività ha, nel brevissimo periodo, effetti meno devastanti di quella di uomini e donne in età adulta. Ma queste considerazioni hanno un orizzonte molto limitato e non valutano fino in fondo la portata e le conseguenze del fenomeno sulla competitività futura del paese. Siamo di fronte a un’intera generazione che entrerà nel mercato del lavoro con gravi ritardi, in condizioni sub-ottimali, sia da un punto di vista economico che psicologico e motivazionale. Giovani adulti che sono costretti ad accettare posizioni mal retribuite, poco gratificanti e poco formative. Un cattivo inizio che avrà ripercussioni su tutta la loro traiettoria professionale, come mostrano anche recenti ricerche condotte negli Stati Uniti. L’economista di Yale Lisa Kahn, dopo una serie di studi su centinaia di giovani entrati nel mercato del lavoro dagli Anni Settanta in poi, dimostra che le generazioni che iniziano a lavorare in periodi di recessione restano penalizzate per tutto il resto della loro vita: carriere più lente, lavori meno gratificanti, salari significativamente inferiori persino a distanza di anni dal primo lavoro, con gap retributivi rispetto alle generazioni più fortunate che toccano punte del 25%. Non solo, ma i giovani che hanno dovuto fare i conti con un ingresso nel mondo del lavoro più difficile sviluppano anche una maggiore avversione al rischio che si portano dietro per tutta la loro carriera, diffidenza nel cambiare lavoro (che è invece uno degli strumenti migliori per progredire e guadagnare di più), minori ambizioni. Questo si riflette non solo sulle sorti personali di questi individui, ma avrà conseguenze su tutta la collettività, soprattutto nei paesi occidentali. In questi paesi infatti l’invecchiamento costante della popolazione, e con essa i costi crescenti di pensioni, assistenza sociale e sanità, richiederanno una forza lavoro sempre più dinamica, produttiva, capace di generare innovazioni e redditi più alti, insomma: di contribuire di più all’economia del paese. Ma la forza lavoro di domani è fatta dai giovani di oggi: più svalutate sono le loro carriere, le loro competenze, i loro salari e le loro motivazioni, e meno saranno capaci di contribuire alla crescita del paese, mettendo quindi a rischio un equilibrio sociale ed economico già abbastanza fragile. Per questo dovremmo smetterla di trattare il tema della disoccupazione giovanile come una mera «questione generazionale» e affrontarlo come vera e propria questione nazionale, così come altri paesi stanno iniziando a fare. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI La fantasia è un bene ma non basta Inserito da: Admin - Marzo 15, 2010, 09:41:09 am 15/3/2010
La fantasia è un bene ma non basta IRENE TINAGLI Le tante storie di giovani che sfruttano la rete per realizzare delle idee imprenditoriali e per trovare un po’ di gratificazione personale ed economica non possono che mettere di buonumore. Uno spiraglio di ottimismo contro tutti quelli che dicono che alla crisi non c'è scampo, e contro tutti quelli che dicono che i giovani di oggi sono pigri e incapaci di arrangiarsi. Ma al di là dell'istintiva simpatia questo fenomeno lascia trasparire una serie di elementi che dovrebbero stimolare una riflessione più approfondita soprattutto da parte dei nostri policy makers. Il fenomeno dei wwworkers ci dice che tra i giovani c’è voglia di imprenditorialità, voglia di mettersi in gioco, e che questi ragazzi hanno idee, curiosità, che sanno usare le tecnologie non solo per chattare ma anche per tirarci fuori qualcosa di utile. Però ci dice anche che l'orizzonte di queste iniziative è molto limitato e che l'impatto che esse possono avere sulla struttura o il futuro dell’economia italiana sarà probabilmente di scarsa rilevanza. Si tratta per lo più di minibusiness che usano tecnologia e innovazioni, ma che non ne producono. In altre parole: non siamo di fronte alle famose storie di ragazzi che nel garage di casa sviluppavano nuovi software, sistemi operativi o motori di ricerca. Siamo di fronte a persone che usano una piattaforma Internet per vendere forme di pecorino o fissare appuntamenti per portare a spasso i cani dei vicini. Sono due cose molto diverse. Nel primo caso, c’è il potenziale per creare imperi economici che generano migliaia di posti di lavoro e che spostano di qualche metro le frontiere tecnologiche mondiali. Nel secondo caso, se va tutto bene, si creano le basi di un buon business familiare, che certo non è poco, ma che non darà all'economia e alla società del Paese quel contributo che hanno dato i giovani fondatori di Google, Facebook, Skype e simili. Questo non significa che in Italia non ci siano giovani in grado di inventare una nuova tecnologia che possa cambiare il mondo, o di mettere in piedi un business innovativo o di creare un prodotto di respiro internazionale. Significa solo che i giovani che potrebbero o vorrebbero cimentarsi con queste imprese non vedono davanti a loro la possibilità di farlo. Non vedono interlocutori, non vedono intermediari, o forse semplicemente non hanno le informazioni e la formazione necessaria e non sanno come fare. Vedono solo muri, burocrazia e costi altissimi anche per muovere i primi passi. Meglio allora ridimensionare le ambizioni, saltare intermediari, banche e finanziatori e affidarsi alla rete. Meno promettente, ma più veloce, economica, senza bisogno di troppi permessi e carte bollate: se va va, se non va si cambia rotta subito. Questa è in molti casi la realtà italiana: ogni volta che un progetto importante richiederebbe il coinvolgimento di banche, pubblica amministrazione e di determinate «condizioni di sistema» si preferisce ridimensionare le ambizioni e ci si arrangia da soli. Ed è un vero peccato. Perché si potrebbe convogliare tutta questa energia, curiosità e voglia di fare in attività imprenditoriali più strutturate, con maggiori potenziali di crescita. Si potrebbero aiutare i giovani che abbiano questo desiderio di mettersi in gioco ad imparare come davvero si mette in piedi un'impresa a 360 gradi, così come ha fatto quella generazione di imprenditori che ha reso grande l'Italia. Una generazione che oggi, forse scoraggiata dalla crisi e da un sistema politico inerme, appare un po’ chiusa in se stessa e incapace di rigenerarsi per aprire una nuova stagione di prosperità, innovazione e ottimismo. E d'altronde è difficile pensare che il nuovo made in Italy sia rappresentato da un sito che vende prosciutti o cappellini fatti in casa. Questi ragazzi sono bravi, coraggiosi e ingegnosi, ma i loro piccoli o grandi successi personali, che ci auspichiamo sempre più gratificanti, non fanno che mettere a nudo un fallimento collettivo. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI Il recupero dell'identità americana Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 08:58:42 am 23/3/2010
Il recupero dell'identità americana IRENE TINAGLI L’approvazione della riforma sanitaria non è solo un’importante vittoria politica per un Obama un po’ indebolito dalla crisi economica. È un passo importante verso la costruzione di quella nuova America che Obama aveva in mente quando si è candidato alla Casa Bianca. È una riforma che non tocca solo la sanità, ma tutta la società americana, ed è coerente con altre misure prese in questo anno di mandato, dal raddoppio degli investimenti nell’istruzione primaria alla recente riforma dei programmi scolastici. L’obiettivo di Obama non è, come gridano allarmati alcuni repubblicani, quello di fare un’America socialista ed egualitaria, ma di farla tornare ad essere una terra di opportunità per tutti, un Paese in cui il sogno americano torni ad essere possibile. Perché negli ultimi quindici anni l’America ha fatto, sì, un grande balzo in avanti, cavalcando la straordinaria rivoluzione tecnologica e scientifica partita negli Anni Ottanta, e riuscendo ad attrarre, motivare e premiare i talenti più brillanti da ogni angolo del mondo. Ma in questa enorme rincorsa ne ha lasciati moltissimi indietro. Tanti, troppi. I 46 milioni di cittadini senza assicurazione medica con cui l’America si trova a fare i conti oggi (una cifra spaventosa pari quasi al 15% dell’intera popolazione) non sono vagabondi, alcolizzati o incapaci; sono per lo più cittadini normali, con un lavoro e una famiglia. Secondo un rapporto rilasciato l’anno scorso dalla Kaiser Family Foundation, il 70% dei non assicurati vive in famiglie in cui almeno un componente ha un lavoro full time. E, dato ancora più sconcertante, il 40% dei non assicurati sono ragazzi tra i 19 e i 29 anni. Se questi giovani non hanno neppure i soldi per badare alla loro salute, come potranno avere le risorse necessarie per istruirsi e costruirsi un futuro? Tutto questo mina pesantemente le basi della mobilità sociale degli Stati Uniti, trasformando il sogno americano in un miraggio sempre più sfocato. I dati di numerosi studi lo confermano. La mobilità intergenerazionale dei redditi negli Stati Uniti è una delle più basse del mondo occidentale: quasi il 50% del differenziale dei redditi dei genitori si trasmette ai figli, ovvero chi nasce ricco ha alte probabilità di restare ricco, mentre chi nasce povero resta povero. Questo problema è rimasto a lungo ignorato, messo in ombra dalle straordinarie storie di giovani divenuti all’improvviso imprenditori di successo planetario. Queste storie hanno continuato a proiettare ovunque l’immagine di un’America piena di opportunità, capace di riconoscere e valorizzare meriti e competenze. Sì, ma i talenti e le competenze di chi? A guardare bene i protagonisti di queste storie di successo erano giovani come Steve Jobs o Bill Gates, provenienti da famiglie benestanti che fondavano le loro imprese mentre erano ad Harvard o in altre prestigiose istituzioni. E lo stesso per i numerosi talenti stranieri che negli Usa hanno costruito imperi economici. Tutti giovani che negli Stati Uniti hanno trovato opportunità straordinarie, ma che non vi sono approdati con la valigia di cartone, bensì per ottenere un Master a Carnegie Mellon, come Vinod Khosla, indiano, cofondatore di Sun Microsystem, o un PhD in Informatica a Stanford, come il russo Sergey Brin, cofondatore di Google, o come Sabeer Bathia, altro indiano, cofondatore di Hotmail. Nel frattempo per milioni di ragazzini nati e cresciuti negli Stati Uniti l’Università, quella di qualità, è divenuta sempre più irraggiungibile. Non è un caso se Bill Gates e altri imprenditori dei settori high tech stanno facendo pressione sul Congresso per aumentare l’ingresso nel Paese di studenti stranieri perché i giovani americani rinunciano o non riescono ad arrivare alle prestigiose lauree di cui loro sono continuamente in cerca. Questo fenomeno non solo potrebbe avere conseguenze enormi sulla capacità innovativa e competitiva futura degli Stati Uniti, ma sul tessuto sociale del paese e sul senso di appartenenza dei suoi cittadini. Perché se l’America perde la mobilità sociale, i suoi cittadini perderanno quel senso di possibilità, di fiducia ed identificazione nelle istituzioni che è sempre stata la grande forza degli Stati Uniti. Obama lo sa e ha capito che la mobilità sociale è una medaglia a due facce: da un lato il riconoscimento dell’eccellenza, ma dall’altro l’accesso alle opportunità per sviluppare questa eccellenza. Gli Stati Uniti negli ultimi quindici anni si sono preoccupati molto del primo aspetto, ma poco del secondo, col rischio di perdere la loro vera essenza di «terra di opportunità per tutti». Riuscire a bilanciare queste due anime non sarà facile, ma è la sfida che gli Stati Uniti dovranno affrontare se vorranno continuare a crescere e a far sognare nuove generazioni di americani. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI La rinascita di Madrid e gli errori dei catalani Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:38:42 am 1/4/2010
La rinascita di Madrid e gli errori dei catalani IRENE TINAGLI La crisi economica sta dettando non solo le sorti di imprese, banche e lavoratori, ma anche di città e territori, facendo emergere storie interessanti da cui è possibile imparare lezioni preziose anche per noi. Come la storia della rinascita di Madrid e del suo sorpasso economico sulla Catalogna. Un evento annunciato due settimane fa dalla Fondazione delle casse di risparmio (Funcas) e che continua ad avere grande eco nei media spagnoli. Il sorpasso fa notizia perché la Catalogna è sempre stata considerata la locomotiva del Paese, la regione più ricca e avanzata, quella più industrializzata e produttiva e quella più vicina all’Europa e al mondo «moderno». Madrid invece era considerata la capitale un po’ parassitaria, trainata dal settore pubblico, poco innovativa e lontana dall’Europa. Una rivalità antica che ricorda un po’ le rivendicazioni milanesi e lombarde nei confronti di Roma. Anche per questo osservare e capire le dinamiche tra le due città spagnole è molto interessante. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato e sta ribaltando lo scenario. Oggi Madrid non solo ha per la prima volta un peso sull’economia nazionale superiore a quello della Catalogna, ma i cittadini madrileni godono di un potere d’acquisto pro capite nettamente superiore (132% della media nazionale contro il 108% della Catalogna), e un livello di disoccupazione significativamente più basso (14,1% contro il 16,25%). Chiaramente le difficoltà catalane sono legate alla crisi mondiale: la vocazione industriale della regione ha sofferto del crollo della domanda internazionale più dell’economia madrilena, maggiormente diversificata e orientata ai servizi. Ma a ben vedere ci sono altre ragioni, processi che precedono la crisi e che aiutano a inquadrare la crisi catalana - così come la rinascita madrilena - in una prospettiva più ampia. Da circa dieci anni Madrid ha investito in modo sistematico nella città, ristrutturando palazzi, teatri, riportando a nuovo strade, marciapiedi, parchi, e moltiplicando le attività culturali e creative, dal teatro alla musica al ballo. Nel frattempo la Catalogna è stata assorbita dal processo di affermazione dell’identità catalana e da forti spinte autonomiste, che dagli Anni Novanta si sono fatte sentire in modo sempre più prepotente, fino all’imposizione, nel 1998, del catalano nelle scuole e negli uffici pubblici. E così mentre Madrid investiva milioni di euro nella rete metropolitana (oltre 100 chilometri aggiunti in pochi anni), nei collegamenti ferroviari tra centro e hinterland, nel raddoppio dell’aeroporto e nella moltiplicazione di attività culturali, la Catalogna ha investito milioni di euro per l’assunzione di professori di catalano, l’apertura di prestigiose ambasciate catalane a Parigi, Londra, Berlino, New York, perdendosi spesso in guerre contro gli immigrati e in liti tra Comuni e quartieri che hanno bloccato la realizzazione di alcune infrastrutture chiave. Questo ha generato una chiusura sociale e ritardi infrastrutturali che hanno posto le basi per danni rilevanti di cui si iniziano a vedere i sintomi. Infastidite dall’idea di dovere imparare un’ulteriore lingua, le centinaia di migliaia di latino-americani (ma anche molti nordamericani ed europei) che prima sceglievano Barcellona e la Catalogna come meta d’immigrazione si sono ridirezionati su Madrid, facendola divenire il vero centro di collegamento tra Europa e America Latina, mentre nell’industriale Catalogna sono rimasti i flussi migratori dal Nord Africa in cerca di lavoro nel manifatturiero, flussi meno qualificati e più difficili da integrare. Non solo, ma questa apertura culturale di Madrid, accompagnata da un’economia più diversificata e «terziarizzata» e dal notevole miglioramento infrastrutturale, ha trasformato Madrid nella sede privilegiata per i quartieri generali di numerose multinazionali. E così, mentre la Catalogna vedeva chiudere una dietro l’altra tutte le fabbriche dei maggiori gruppi - da Philips a Samsung, Panasonic, Braun, Nissan, Pirelli e molte altre ancora -, Madrid negli stessi anni ha visto un flusso crescente di aziende. British Telecom, Ibm, le società di software Sap ed Ag sono solo alcuni dei nomi più noti che hanno scelto la capitale spagnola come sede per i loro uffici di interfaccia con il Mediterraneo e con l’America Latina. I catalani ancora stentano a credere ai nuovi dati. Per anni il boom economico è riuscito a mascherare e neutralizzare molte scelte sbagliate, ma adesso la crisi sta presentando il conto. E prima saranno capaci di accettare la batosta e capire i limiti dell’approccio perseguito negli ultimi anni, prima potranno risollevare le sorti di una regione ancora ricca di risorse e potenzialità enormi. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI Non perdiamo la nostra dolce vita Inserito da: Admin - Aprile 19, 2010, 09:40:36 am 19/4/2010
Non perdiamo la nostra dolce vita IRENE TINAGLI Nel 2015 i «nuovi mercati», dalla Russia al Messico alla Corea, potrebbero rappresentare per il «made in Italy» un potenziale di crescita di circa 3,8 miliardi di euro. Un dato estremamente interessante, illustrato nel rapporto «Esportare la Dolce Vita» appena presentato da Confindustria in collaborazione con Prometeia e Sace. Basterebbe che l’Italia mantenesse l’attuale quota di mercato e l’espansione della classe medio-alta di questi Paesi farebbe il resto. Certamente una buona notizia per le nostre aziende, che però dovrebbero guardare oltre i numeri e porsi qualche domanda. E’ così scontato che la quota di mercato resti la stessa? In fondo non è impensabile che in questi anni altri Paesi imparino a fare (e vendere) belle scarpe o belle borse. L’assunzione di base è che questi nuovi mercati continueranno a comprare prodotti «made in Italy» non solo e non tanto per la loro qualità, ma per l’immagine a essi associata. La famosa «dolce vita». Ed è qui che dovremmo fermarci a riflettere. Cosa significa davvero, esportare la dolce vita? Questa è la domanda da porsi e che non può essere catturata da alcune stime sull’andamento del mercato. Perché esportare la dolce vita non significa solo vendere un prodotto, ma, appunto, uno stile di vita. Il problema è che nessuno in Italia ha mai condotto una riflessione su cosa sia, veramente, l’italian lifestyle. Si pensa alla scarpa in pelle, al foulard di seta o al maglione di cachemere, e va benissimo, ma abbiamo perso di vista che lo «stile di vita» non è solo il prodotto, ma la cornice emotiva entro cui si inserisce e che aiuta a venderlo. E lo stile di vita è fatto di tante cose: dal cibo, ai bar, alle nostre piazze, alla musica, fino a come parla e cammina la gente... È la cultura e la vita di un popolo a marcarne lo stile e a proiettarne l’immagine nel mondo. Ma noi non ci abbiamo mai pensato, non ci siamo mai interrogati su cosa davvero caratterizzasse il nostro stile di vita rendendolo affascinante e attrattivo per milioni di cittadini del mondo. Non è un caso se provando a cercare italian lifestyle su Internet si trovano solo definizioni e fonti straniere. È il resto del mondo che, negli anni, si è chiesto cosa fosse lo stile di vita italiano, provando a capirlo, interpretarlo, magari anche stravolgendolo e copiandolo. Noi non ce ne siamo mai curati. E così mentre Starbucks ha fondato un impero economico sui bar dove ti puoi sedere e leggere il giornale ispirandosi all’italian lifestyle, noi abbiamo riempito i nostri bar di slot machine automatiche scimmiottando Las Vegas e distruggendo un nostro patrimonio sociale e culturale. E mentre altri Paesi con il dilagare del «nuovo urbanismo» hanno creato o rilanciato centinaia di centri urbani ispirandosi, alla fin fine, ai nostri villaggi (centri compatti, «camminabili», dove si alternano piccoli negozi ad abitazioni, caffè e ristoranti), noi abbiamo lasciato morire le nostre città, assetandole di risorse e infrastrutture o sventandrole con ipermercati stile America Anni Cinquanta. E ancora, mentre negli Stati Uniti si cerca di educare sempre più i giovani a mangiare cibi freschi, a sedersi a tavola e apprezzare la «dieta mediterranea», la Coldiretti ci dice proprio in questi giorni che il 41% dei giovani italiani è attratto dai cibi spazzatura. Tanti nostri giovani, che un tempo erano «poveri ma belli», simbolo di bellezza ed eleganza, oggi assomigliano sempre più a riproduzioni di American Idol, vittime di un sistema che non ha saputo offrire loro nessuno stimolo alternativo. Ecco, oltre a fare i conti sulle potenziali quote di mercato dovremmo anche chiederci come stiamo coltivando, valorizzando e facendo evolvere lo stile di vita e la cultura italiana, e quale stile di vita ci caratterizzerà e ci rappresenterà nel mondo tra dieci o venti anni. Insomma, quale valore distintivo rappresenterà per le future generazioni di «cittadini globali», cosa sognerà e in cosa si identificherà un giovane russo o coreano quando tra 20 anni comprerà un abito «made in Italy»? Questo dovremmo chiederci. E quest’immagine futura è quella che stiamo costruendo adesso, non solo con i nostri prodotti, ma con le nostre politiche culturali, sociali e territoriali, perché sono la nostra musica, la nostra televisione, le nostre città e i nostri giovani che faranno l’italian lifestyle del futuro e che decideranno anche le sorti del nostro «made in Italy» e della nostra economia. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI La Spagna sta meglio o peggio di noi? Inserito da: Admin - Aprile 30, 2010, 06:14:35 pm 30/4/2010
La Spagna sta meglio o peggio di noi? IRENE TINAGLI Brutta settimana per il governo spagnolo. Prima la notizia del tasso di disoccupazione sopra il 20%. Poi il declassamento del rating da parte di Standard & Poor’s. Ma se i giornali internazionali hanno dato più spazio al declassamento, è il dato sulla disoccupazione che ora preoccupa di più gli spagnoli e lo stesso governo. Perché contraddice quello che Zapatero ha sempre detto nei mesi scorsi e su cui ha sempre contato: ovvero che la crisi fosse in fase finale e che con il 2010 le cose sarebbero migliorate. Invece la disoccupazione non si ferma e molti economisti prevedono che resterà su questi livelli anche per tutto l’anno prossimo. Il problema spagnolo è duplice: da un lato è legato alla struttura produttiva del paese, ancora incentrata su settori tradizionali e a basso contenuto di conoscenza e innovazione, dall’altro è legato al mercato del lavoro. Un mercato molto volatile e soprattutto spaccato in due: una folta schiera di lavoratori «consolidati» e ben protetti da una parte, e centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani, assunte con contratti a termine e senza alcuna protezione dall’altra. I contratti a termine in Spagna hanno avuto una diffusione enorme, toccando picchi del 30% di tutta l’occupazione spagnola. Sono contratti che per certi versi hanno aiutato il boom economico degli anni scorsi, ma questi posti di lavoro così facili e veloci da creare sono stati anche facili e veloci da distruggere appena l’economia, e soprattutto il settore delle costruzioni che di questi contratti ha fatto ampio uso, sono andati in crisi. Non potendo scaricare le conseguenze del rallentamento economico né sulle forze lavoro più vecchie (solidamente protette dai sindacati) né su un riaggiustamento dei salari (fermamente ancorati a contrattazioni collettive che ogni anno rinegoziano aumenti indifferenziati per tutte le aziende di ciascun settore), tutta la crisi si è scaricata su questi lavoratori meno protetti entrati nel mercato del lavoro in anni più recenti. Non è necessario un esperto per notare le similitudini con la situazione italiana. L’unica vera (e non irrilevante) differenza sta nel fatto che in Spagna l’emergenza occupazione e la riforma del mercato del lavoro sono ormai quasi quotidianamente oggetto di dibattito pubblico, sia nel governo e nel parlamento che sui giornali, nelle università e nella società civile. Un gruppo di economisti spagnoli ha redatto un documento con alcune proposte per ristrutturare il mercato del lavoro senza ingessarlo, aumentando le protezioni per le fasce attualmente «scoperte» (con un «contratto unico» simile a quello proposto in Italia dagli economisti Boeri e Garibaldi), ma allo stesso tempo rendendo le condizioni di licenziamento meno proibitive e le contrattazioni collettive più flessibili. Una proposta che ha raccolto oltre cento adesioni tra economisti di tutta la penisola iberica (viene infatti chiamato «la proposta dei cento») e che vede un forte sponsor nella Banca di Spagna e nel Fondo Monetario Internazionale. Un altro gruppo di economisti sta seguendo un disegno di legge sulla ristrutturazione della struttura produttiva del paese, cercando di supportare alcuni deputati nell’identificazione di misure appropriate sul fronte innovazione e formazione. E un paio di settimane fa il governo ha reso nota un bozza di riforma del lavoro che, pur con alcuni aspetti discutibili, cerca di riprendere alcuni dei punti più rilevanti delle proposte circolate in questi mesi. Insomma, il dibattito nella società e nella politica spagnola è vivo. Se poi riuscirà a produrre anche riforme forti e incisive è un altro discorso. In fondo l’anno prossimo la Spagna sarà già in clima elettorale. E noi meglio di chiunque altro sappiamo cosa ciò significhi in termini di decisionismo e coraggio. Ma intanto le forze politiche, economiche e sociali stanno dando qualche segnale di attenzione e di impegno. In Italia invece, nonostante vi siano, anche qua, persone che con serietà studiano il fenomeno ed elaborano proposte interessanti, il dibattito pubblico sembra dominato da ben altro. Basta guardare i titoli degli ultimi giorni. Lodo Alfano alla riscossa, intercettazioni ed emendamento «D’Addario», litigi e scaramucce politiche, e una nuova altalena sul rischio di nuove elezioni. Il fatto che il tasso di disoccupazione italiano sia ancora molto più basso di quello spagnolo non è che una magra consolazione di fronte a questo scenario così caotico. E viene da chiedersi quanto possa durare questa nostra presunta superiorità economica. da lastampa.it Titolo: IRENE TINAGLI Disapprendimento estivo Inserito da: Admin - Maggio 25, 2010, 09:36:18 am 25/5/2010
Disapprendimento estivo IRENE TINAGLI Far studiare meno i nostri ragazzi per far guadagnare di più alberghi e ristoranti. Ecco di cosa stiamo discutendo in questi giorni in Italia. La proposta del senatore del Pdl Giorgio Rosario Costa di ritardare al 30 settembre le aperture scolastiche per favorire il turismo ha incontrato il favore del ministro dell’Istruzione Gelmini e ha aperto subito un vivace dibattito. La Lega Nord si preoccupa delle famiglie che non sapranno dove parcheggiare i figli in settembre, alcuni sindacati accusano di voler rimandare il tema più importante delle retribuzioni dei docenti, altri sembrano più possibilisti (in fondo anche il turismo crea posti di lavoro). C’è poi chi si preoccupa se il provvedimento sia o no in linea con gli obblighi europei sulle ore minime di scuola. Ma nessuno, nemmeno il ministro dell’Istruzione, si è chiesto che impatto questo provvedimento può avere sui ragazzi e sul loro processo di apprendimento, di crescita, insomma: sulle persone che stiamo formando e che faranno il futuro del nostro Paese. Questo fatto, prima ancora della proposta in sé, è assolutamente sconcertante. Nei mesi scorsi è emerso in varie occasioni il problema di una inadeguatezza crescente della preparazione dei nostri ragazzi, come testimoniato anche dai test Pisa dell’Ocse. Ci si sarebbe aspettato che da questi dati e considerazioni il governo prendesse spunto per misure volte a migliorare e intensificare l’offerta scolastica e formativa, non a diminuirla. Invece è avvenuto l’opposto. Prima è stata abbassata l’età dell’obbligo scolastico per aiutare, è stato detto, le imprese (ma le imprese avrebbero semmai bisogno di risorse più qualificate, non meno), e ora si parla di ridurre l’anno scolastico per aiutare il settore turistico. E’ così che stiamo coltivando la nostra competitività futura? A quale modello di competitività puntiamo: a sviluppare un’economia innovativa e moderna o a trasformarci in una sorta di gigantesco resort mediterraneo? Questa proposta non solo rischia di ridurre drammaticamente la nostra capacità competitiva, ma anche di aumentare i divari sociali e ridurre la mobilità sociale del nostro Paese. Esistono numerosi studi che dimostrano come un prolungato allontanamento dai banchi di scuola distrugge il sapere dei ragazzi, soprattutto quelli provenienti da famiglie povere che d’estate hanno meno stimoli e occasioni di apprendimento. Assieme ad altri colleghi il professor Harris Cooper della Duke University, direttore del Programma sull’Istruzione, ha dimostrato con una serie di ricerche che la performance dei ragazzi in matematica e scienze crolla drasticamente dopo le vacanze estive, dando luogo a quello che è stato ribattezzato il «disapprendimento estivo» (summer learning loss). Solo per le capacità di lettura si registrano alcuni miglioramenti, ma esclusivamente per i ragazzi benestanti, mentre quelli provenienti da famiglie povere peggiorano sensibilmente anche su quel fronte. Questi studi, assieme al preoccupante peggioramento delle performance scolastiche dei ragazzi nei quartieri più poveri, hanno intensificato il dibattito statunitense sull’istruzione. Tale dibattito è alla base di iniziative recenti come il forte impulso ai programmi estivi di recupero e apprendimento, e persino la discussione sulla possibilità di allungare l’anno scolastico - che adesso parte agli inizi di settembre, così come avviene in Spagna, Francia, Inghilterra e altre parti d’Europa (ad eccezione della Scozia dove la scuola riparte il 20 agosto!). Lo stesso ministro dell’Istruzione statunitense Arne Duncan ha citato i lavori del professor Cooper in un recente discorso in cui promuoveva i programmi educativi estivi. Si potrà essere d’accordo o no con le sue idee, ma è comunque rincuorante sentire un ministro dell’Istruzione che si ispira a ricerche scientifiche sull’istruzione e non agli incassi delle località turistiche. Se vogliamo davvero supportare il nostro turismo potremmo iniziare a tenere più pulite e funzionali le nostre città e i nostri mezzi pubblici, a rendere fruibile e accessibile il nostro splendido patrimonio storico e artistico, e a supportare una vera riqualificazione dell’offerta culturale e ricettiva, oggi totalmente inadeguata. Ma, per favore, non disinvestiamo nei nostri ragazzi e nel nostro futuro. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7396&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Il buco nero del sistema Italia Inserito da: Admin - Maggio 27, 2010, 04:35:07 pm 27/5/2010
Il buco nero del sistema Italia IRENE TINAGLI La macelleria sociale è già in atto, a prescindere dalla manovra. E riguarda una fascia di popolazione a cui questo Paese si ostina a non guardare: i giovani. Idati appena resi noti dall’Istat lasciano poco spazio all’ottimismo. Il tasso di occupazione complessivo è calato dell’1,2% nell’ultimo anno, mentre quello dei giovani tra i 15 e i 29 anni dell’8,2%, scendendo al 44%. Ma il dato più preoccupante va oltre la mera disoccupazione e riguarda i cosiddetti «neet», ovvero i giovani che non sono né occupati in un lavoro né inseriti in percorsi di studio o formazione («neither in employment, nor in education or training»). In Italia sono il 21,2% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, in larga parte diplomati e laureati: proprio quelli sui quali dovrebbe poter contare un Paese per rilanciare la propria economia. Si tratta in totale di oltre due milioni di giovani che, semplicemente, non fanno niente. Aspettano. Aspettano forse tempi migliori, mentre intanto le cose che hanno imparato a scuola vengono dimenticate o diventano obsolete, e assieme ai saperi svaniscono fiducia, entusiasmo, voglia di guardare avanti. Questo è un dato drammatico, che avrà conseguenze pesantissime sul futuro di questi giovani e del nostro Paese. Stare lontani sia dal lavoro che dalla formazione aumenta le probabilità di essere disoccupati in futuro o di avere lavori stabili che consentono di crescere professionalmente. Diminuiscono le competenze e il bagaglio di esperienze, in altre parole: diminuisce il livello di capitale umano sia dell’individuo che del sistema socio-economico in cui questa persona vive e lavora. E’ anche alla luce di questi dati che una recente pubblicazione dell’Ocse ha previsto che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia non diminuirà con il rallentare della crisi, ma continuerà piano piano a crescere. Questo fenomeno non può essere imputato solo al crollo della produzione industriale. La crescita della disoccupazione complessiva in Italia è stata più bassa che in tutti gli altri Paesi, quindi il fatto che invece proprio in Italia i giovani siano così emarginati dal mondo del lavoro non può essere legato solo alla crisi. Un altro indicatore che ci mostra che il nostro problema va oltre la crisi economica emerge dal confronto con la Spagna. Infatti, persino in quel Paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile è quasi il doppio del nostro, la percentuale di giovani «neet» che proprio non fanno niente è minore che da noi, segno che i giovani senza lavoro sono comunque inseriti in programmi di formazione, studio o apprendistato, un elemento che contribuisce a tenerli attivi e competitivi per il futuro. Queste considerazioni ci fanno capire che il vero buco nero del nostro Paese non è solo e tanto la struttura economico-produttiva, ma il sistema della formazione e la transizione dal mondo dello studio a quello del lavoro. E’ questo il principale meccanismo di lotta all’inattività giovanile, come ci dicono ormai tutti i principali studi in materia. Basta guardare ai Paesi che fino ad oggi sono riusciti ad ottenere i migliori risultati su questo fronte: Olanda, Danimarca, e Germania per esempio, hanno tutti dei sistemi molto strutturati di formazione professionale, alternanza scuola-lavoro, e ammortizzatori sociali legati allo sviluppo di competenze e permanenza nel circuito della formazione. Invece nel nostro Paese è proprio sul fronte della formazione e della transizione scuola-lavoro che manca un’offerta vera e di qualità. Abbiamo milioni di giovani abbandonati a loro stessi, che in molti casi non finiscono neppure gli studi superiori (non a caso abbiamo uno dei più bassi tassi di diplomati d’Europa), in altri restano emarginati dal mercato del lavoro o da una formazione che potrebbe aiutarli a restare comunque competitivi nel lungo periodo. Una lacuna che non è stata colmata da nessun intervento o politica del governo. Di fronte ad una carenza di formazione e al dramma dei ragazzi che non finiscono le scuole, tutto quello che si è stati capaci di fare è stato abbassare l’obbligo scolastico, e schiacciare le ambizioni dei ragazzi incitandoli ad «accettare qualsiasi tipo di lavoro», rivalutando i lavori umili e manuali. Mentre la grande riforma del mercato del lavoro che il ministro annunciava già un anno fa si è limitata alla fine alla lotta sull’arbitrato. Un po’ pochino per risolvere un problema di questa portata. Di fronte a un’emergenza del genere i ministri del Lavoro e dell’Istruzione e dello Sviluppo Economico dovrebbero lavorare insieme a ritmi serratissimi per pensare a misure strutturali che consentano al Paese di non perdere per strada queste nuove generazioni. Invece il ministero dell’Istruzione pare più in sintonia con quello del Turismo, il ministero dello Sviluppo Economico, dopo aver distribuito un po’ d’incentivi per l’acquisto di cucine e lavatrici, è adesso in cerca di identità dopo le dimissioni di Scajola, mentre quello del Lavoro pare ancora troppo impegnato nell’abolizione o riscrizione dell’articolo 18. I milioni di giovani senza lavoro e senza formazione adeguata sono il vero dramma di questo Paese. Cercare di mortificare le loro ambizioni non è la soluzione. Ma d’altronde è difficile parlare di futuro e ambizioni in un Paese la cui unica ambizione, oggi, è «non fare come la Grecia». http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7408&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Un patto sociale da riscrivere Inserito da: Admin - Giugno 04, 2010, 06:34:07 pm 4/6/2010
Un patto sociale da riscrivere IRENE TINAGLI L’Unione Europea riporta alla ribalta la questione dell’aumento dell’età pensionabile delle donne. Questione che il governo pensava di aver risolto con un provvedimento «graduale» da realizzarsi da qui al 2018. Talmente graduale da sembrare non sufficiente all’Ue a risolvere la situazione iniqua e anomala dell'Italia, dove le donne possono andare in pensione ben 5 anni prima degli uomini (pur avendo, tra l'altro, un'aspettativa di vita superiore di 6 anni). Può sembrare strano che il governo, che da quando è in carica si è mostrato così deciso su tagli assai più critici (da quelli all’istruzione, alla ricerca, fino a quelli ai Comuni e alle Regioni), sia stato e sia ancora così cauto nell’implementare una misura che in fondo allineerebbe l’Italia agli altri Paesi europei e che porterebbe peraltro grossi benefici economici. Ma non è poi così strano se si pensa allo scontro quasi ideologico che per molto tempo ha caratterizzato questo argomento. E’ uno dei pochissimi temi su cui non solo sono d'accordo tutti i sindacati, ma persino significativi pezzi di maggioranza e opposizione. Quando Brunetta, pochi mesi dopo il suo insediamento, affermò la necessità di alzare l’età pensionabile per le donne, si alzò un coro indignato di no, da Epifani a Bonanni alla Polverini, al quale si unì la contrarietà dell’allora segretario del Pd Franceschini e la perplessità di alcuni altri membri del governo. Calderoli e Bossi, per esempio, si sono dichiarati contrari ancora pochi mesi fa. Ed è questa reticenza diffusa che spiega la timidezza del governo su questo fronte. Perché l’Italia alla fine è un Paese di mogli, mamme e nonne. E di famiglie che si reggono su di loro. E spaventa terribilmente l’idea di mettersi contro il cuore pulsante della società, di rovesciare tutta un’impostazione culturale. Perché l’Italia è il Paese che magari tratta e presenta le donne come totalmente asservite ai bisogni dei mariti, dei figli, dei nipoti, degli amanti, ma che poi le celebra con canzoni, feste, e le premia consentendo loro di andare in pensione prima. Ed è per rompere questo tipo di cultura, più ancora per gli innegabili e indispensabili risparmi economici che il provvedimento porterà alle casse dello Stato, che le donne per prime dovrebbero accogliere a braccia aperte il monito della Ue. E dire ai propri mariti, ai Calderoli, ai Bossi, agli Epifani: grazie mille del pensiero ma da domani ai vecchi e ai nipoti ci pensate un po' anche voi. Chissà che non sia la volta buona che in Italia cominceremo a vedere un po’ di asili e case di assistenza e senza nemmeno far troppe battaglie. Perché proprio questo è stato il tipo di scambio che per anni i governi italiani hanno condotto implicitamente con le famiglie: noi facciamo pochi asili e poca assistenza sociale, però in cambio vi mandiamo le mamme e le nonne in pensione prima. Non è un caso se l’Italia, che tanto ama la famiglia, alla fine spende per le politiche per la famiglia e l'infanzia la metà pari pari della media Ocse (1,2% del Pil contro il 2,4%). Rompere questo «accordo» significherebbe, per questo governo, doversi poi trovare a fare i conti con una domanda crescente di servizi di assistenza all’infanzia e alla vecchiaia di cui finora si era preoccupato pochissimo. Purtroppo anche le donne per troppi anni sono state complici di questo gioco. Da un lato rivendicavano, sì, il diritto di emanciparsi da un ruolo antico che non corrispondeva più alle loro aspirazioni, e di avere più asili e servizi, ma intanto continuavano ad assumersi tutta la responsabilità dei doveri familiari e si tenevano i piccoli privilegi che lo Stato gli riservava, per poter assolvere al meglio tali doveri così come la società si aspettava da loro. Ma in questo modo si sono autocondannate a non emanciparsi mai fino in fondo. E con loro il nostro Paese. Perché se una donna sa che lavorerà meno di un uomo per potersi dedicare a vecchi o nipoti, investirà di meno nella propria carriera sin dagli inizi. Perché in fondo saprà, prima ancora di cominciare a lavorare, che dovrà rallentare il passo non solo per il primo figlio, ma poi per il primo nipote e infine per il primo segnale d’Alzheimer del genitore o del suocero. E l’Italia continuerà ad avere un tasso di attività femminile più basso degli altri Paesi europei, una retribuzione media femminile più bassa degli uomini e così via. E continuerà ad essere così non perché le donne siano incapaci o gli uomini siano cattivi, ma perché le une e gli altri vivono in un sistema che genera incentivi affinché le cose stiano così. Ma questo circolo vizioso si può spezzare, cominciando per esempio col rompere questo sciocco e inutile favoritismo nei confronti delle donne e reinvestendo i risparmi che ne deriverebbero alle casse dello Stato per potenziare servizi all’infanzia e alla famiglia. Per questo le donne dovrebbero essere le prime ad appoggiare questo provvedimento. E capire che non usciranno mai dalla loro vera o presunta inferiorità finché continueranno a voler usare tale inferiorità come scusa per avere trattamenti in qualche modo privilegiati, a mo’ di compensazione per l'ingiustizia che subiscono. Le ingiustizie si eliminano ex ante, non si compensano ex post. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7439&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Costituzione usata come scusa Inserito da: Admin - Giugno 16, 2010, 11:25:07 pm 16/6/2010
IRENE TINAGLI Costituzione usata come scusa Al di là dello scontro quasi ideologico che si solleva ogni volta che si tocca la Costituzione, ciò che colpisce del dibattito sull’articolo 41 è la tesi che questo articolo sia ciò che ha frenato e frena la competitività italiana e che, modificandolo, l’Italia possa tornare a competere sui mercati internazionali. Ma è davvero così? E’ vero che la competitività di un Paese dipende dalla sua Carta costituzionale? Questa è la domanda che dovremmo porci in questo momento. In questa prospettiva è interessante andare a guardare le classifiche internazionali sulla competitività e scoprire che i Paesi più competitivi del mondo hanno alle spalle Costituzioni, modelli di Stato e di governo completamente diversi l’uno dall’altro. In vetta alle classifiche troviamo infatti Paesi di tradizioni liberali e liberiste, come gli Stati Uniti. Ma anche Paesi di tradizione social-democratica, come la Svezia e la Danimarca, così come troviamo democrazie parlamentari e presidenzialiste, Stati unitari e Stati federali, repubbliche e monarchie. Già da queste riflessioni sorge quindi più di un ragionevole dubbio. Il dubbio che forse la competitività dipenda da altri fattori. Ed infatti è così. La competitività - che altro non è che la capacità di crescere nel lungo periodo - è legata ad altro. Si tratta chiaramente di una molteplicità di fattori, ma tre in particolare sono fondamentali: un sistema della ricerca e dell’istruzione moderno e competitivo, una pubblica amministrazione funzionale e trasparente, ed un sistema fiscale e redistributivo efficiente ed equo, che supporti il lavoro e gli investimenti. Investimenti non solo materiali ma anche e soprattutto immateriali, a partire proprio da quelli in ricerca, istruzione e formazione. E’ così che si crea un circolo virtuoso: una forza lavoro preparata e competitiva e un sistema di imprese che fa leva su tale capitale umano per generare innovazione e crescita. Certamente mantenere questi investimenti e questo ciclo virtuoso in tempi di crisi non è facile, ma non impossibile. Basta guardare la Germania, che, pur dando alla luce una manovra finanziaria durissima con i tagli più pesanti dalla Seconda Guerra Mondiale, ha lasciato intatti tutti gli investimenti in istruzione e ricerca, dando mostra di una lungimiranza e di una prospettiva strategica invidiabili. L’Italia invece non solo ha tagliato pesantemente scuola, formazione, università e ricerca, ma non è stata nemmeno capace di portare fino in fondo alcune riforme avviate da questo stesso governo che avrebbero perlomeno dato un contributo a quei cambiamenti strutturali necessari per un eventuale reinvestimento futuro. La riforma dell’Università è ancora ferma, rallentata non solo dai tanti emendamenti ma anche dall’evidente priorità data ad altri provvedimenti, dai vari Lodo Alfano fino all’ultimo provvedimento sulle intercettazioni, sui quali sono state spese molte più energie. La riforma della pubblica amministrazione di Brunetta è stata in pratica mutilata dall’ultima manovra del governo che, per introdurre il blocco dei salari nel pubblico impiego, ha di fatto congelato (anche se non formalmente sospeso) tutta la parte della riforma che avrebbe introdotto un po’ di meritocrazia, valutazione e responsabilità nella pubblica amministrazione. Di riforma fiscale invece è stato quasi tabù parlare fino ad oggi. Adesso viene rispolverata, ma posta come subordinata alla più alta questione della «libertà di impresa» e alla modifica della Carta costituzionale. Creando un po’ di confusione sulle finalità di tale provvedimento, facendo quasi credere che questo articolo impedisca la creazione d’impresa. Non solo non è cosi, ma la creazione d’impresa, di per sé, non è un problema per il nostro Paese. In Italia si fa già abbastanza impresa, non a caso abbiamo una densità imprenditoriale tra le più alte d’Europa (circa 66 imprese ogni 1000 abitanti, contro 22 della Germania, 39 della Danimarca, e 40 della Francia). Il problema delle imprese italiane è un altro: è la difficoltà di crescere avendo a che fare con una pubblica amministrazione lenta ed inefficiente, con una fiscalità complessa e penalizzante per chi davvero investe in innovazione e ricerca, e la difficoltà a trovare giovani (giovani veri, non quarantenni) preparati e ben formati sul mercato del lavoro. Questi sono i veri problemi delle imprese, e la modifica dell’articolo 41 non servirà a cambiare molto questo stato di cose. Anche la semplificazione della complessità normativa, la razionalizzazione di autorizzazioni e controlli può essere realizzata subito, senza modifiche costituzionali. D’altronde, è proprio questo governo che ha istituito il ministero per la Semplificazione normativa. Ed è proprio quel ministro, il senatore Calderoli, che pochi mesi fa si è fatto immortalare armato d’ascia e fiamma ossidrica mentre dava fuoco alle 375 mila tra leggi e regolamenti abrogati dal suo ministero. Viene naturale chiedersi come mai tra tutte quelle migliaia di leggi non ce ne fosse nemmeno una che sia servita a rendere più semplice la vita delle imprese e dei cittadini, tanto che oggi siamo ancora a parlare di normativa asfissiante. Ecco, potremmo ripartire da lì, dal rilancio di una semplificazione normativa più mirata e selettiva, in modo da andare più incontro alle esigenze di aziende e cittadini. E da una riorganizzazione delle procedure e degli adempimenti burocratici per le imprese, per esempio realizzando in modo capillare su tutto il territorio gli sportelli unici per le attività produttive, istituiti per legge dodici anni fa ma nella realtà ancora largamente incompiuti, o, quando esistenti, raramente accompagnati dalle necessarie semplificazioni amministrative e dalla necessaria formazione del personale. Per realizzare tutto questo non è necessario creare una nuova Costituzione. Magari un nuovo ministro sì, potrebbe servire, visto che il ministro per le Attività produttive si è dimesso quasi due mesi fa e ancora non si è trovato un sostituto. Insomma, se l’obiettivo è rilanciare la competitività del nostro Paese, investire tempo ed energie per modificare la Costituzione potrebbe non essere la strategia più efficace. Ci sono molte altre cose più incisive e fattibili subito che possono servire assai meglio a questo scopo. Se poi l'obiettivo è un altro, allora è un altro discorso. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7481&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Università, valutiamo le qualità Inserito da: Admin - Luglio 25, 2010, 12:20:42 pm 24/7/2010
Università, valutiamo le qualità IRENE TINAGLI Come periodicamente accade nel nostro Paese, si riaccende il tormentone vecchi contro giovani, con l’eterno tema del ringiovanimento dell’università italiana. L’occasione stavolta è la proposta del Pd di mandare in pensione tutti i professori sopra i 65 anni, un’idea lanciata già qualche mese fa ma tornata d’attualità dopo l’apertura del ministro Gelmini. Chiaramente numerosi professori vicini o già sopra la soglia si sono indignati, sentendosi rottamati come vecchie auto, rivendicando l’enorme patrimonio culturale e scientifico che in questo modo andrebbe buttato al vento. Altrettanto prevedibilmente i sostenitori della proposta hanno accusato chiunque fosse contro di voler difendere i baroni, di essere i peggiori nemici dei giovani e così via. C’è tuttavia qualcosa che non torna in questo dibattito un po’ scontato. Dal lato dei «giovani», per quanto sia facile simpatizzare per i ricercatori che lavorano nel sistema universitario italiano con contratti precari e stipendi da fame, non torna affatto il ragionamento per cui chiunque abbia più di 65 anni rubi lo stipendio mentre i giovani che verrebbero immessi nel sistema sarebbero tutti grandi talenti iperproduttivi. E non torna che persone che per anni hanno usato la retorica del merito e della qualità propongano una misura così indiscriminata che non entra in nessun modo nel merito e nella qualità delle cose. Dall’altro lato, però, stona anche sentire illustri professori difendere la propria categoria autoproclamandosi indispensabili al prestigio e al futuro della ricerca italiana, quando da decenni non sono sottoposti ad alcun tipo di verifica o valutazione. È sicuramente una situazione complessa, e anche alcuni dei correttivi ipotizzati potrebbero non funzionare, come l’idea espressa mercoledì sul Corriere da Francesco Giavazzi di togliere agli ultrasessantacinquenni il potere di voto nei concorsi. Soluzione interessante, ma che potrebbe non sortire gli effetti sperati, visto che il groviglio di relazioni, favori e amicizie tra professori è talmente fitto che chi voglia manovrare i concorsi può tranquillamente farlo tramite le «seconde file» di suoi fedelissimi. Senza considerare che anche in questo caso si torna a dar per scontato che tutti i sessantacinquenni stiano lì solo per manovrare i concorsi. La questione si potrebbe risolvere in altro modo. Cercando di vedere la parte di ragione di entrambi anziché accanirsi sui rispettivi torti. È vero che l’Università italiana ha raggiunto un livello di vecchiaia ormai patologico ed è vero che ci sono dei professori ordinari che assorbono tantissime risorse economiche senza produrre ricerca scientifica di qualità. Ma è altrettanto vero che ci sono anche professori sopra i 65 anni ancora produttivi, di prestigio internazionale, che possono continuare a dare un contributo importante alla ricerca e alle nuove leve di studenti e ricercatori. Dunque una possibile soluzione: istituire una valutazione rigorosa sulla qualità della produzione scientifica di tutti i professori associati e ordinari, a prescindere dall’età (non solo esistono validi indicatori, ma adesso esiste anche un’Agenzia in Italia, l’Anvur, che avrà le carte in regola per condurre tali valutazioni). I professori che non rientrano negli standard qualitativi previsti potranno scegliere: se hanno un’età pensionabile possono andare in pensione, altrimenti dovranno optare per un contratto differenziato che preveda solo docenza, non ricerca, e che abbia quindi un salario ridotto della metà. In questo modo i professori che reclamano la propria indispensabilità al sistema universitario italiano avranno finalmente l’opportunità di dimostrarlo. E di farlo non attraverso i criteri del «merito eccezionale» non ben definito che prevede la proposta del Pd, ma dimostrarlo attraverso una regolare valutazione delle loro attività secondo standard scientifici internazionali (così come avrebbe voluto fare il senatore Ignazio Marino, purtroppo inascoltato dal suo stesso partito). Dopotutto il mantenimento in servizio di un professore bravo non deve essere visto come un favore al professore, ma un servizio alla società. Non solo, si risolverebbe anche la questione delle risorse economiche, perché mandare in pensione tutti gli ordinari sopra i 65 significa comunque un onere per le casse dello Stato, a fronte di nessun servizio reso. Invece, riducendo lo stipendio per chi faccia solo attività didattica, si avrebbe una spesa complessiva molto minore, per un servizio importante che comunque viene reso. Infine, si risolverebbe anche la questione dell’intra moenia per i professori sollevata sempre dal Pd. È vero che molti professori hanno attività professionali a latere di quella accademica, ma questo non necessariamente incide sulla qualità della ricerca e dell’insegnamento. Se un docente riesce comunque a produrre ricerca di qualità potrà fare quello che vuole nel tempo libero, se invece le attività extra vanno a detrimento della qualità accademica sarà lui il primo a tagliare sulle consulenze se ha intenzione di restare professore full time. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7633&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Tutti eguali di fronte al concorso Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 09:41:45 am 30/7/2010
Tutti eguali di fronte al concorso IRENE TINAGLI Dopo tante polemiche e dopo tanta pazienza, Mariastella Gelmini finalmente esulta. E ha molte ragioni per farlo. La sua Riforma è stata approvata ieri in Senato, con un impianto sostanzialmente integro, non stravolto dalle centinaia di emendamenti che rischiavano di snaturarlo completamente. Ma l'approvazione del ddl non è solo un ottimo successo per il ministro, ma anche, nel complesso, un buon passo avanti per l'Università Italiana. Alcune delle misure introdotte rappresentano delle innovazioni «culturali» sicuramente di rilievo, perché per la prima volta si introduce l'idea di valutazione sia sulle attività degli Atenei che sulle attività dei singoli docenti, anche i professori quelli già inseriti nel sistema. Le valutazioni non sono drastiche e mieteranno forse meno vittime del previsto, ma intanto viene introdotto nel sistema il «germe» della valutazione, del «merito», quel cambiamento culturale che per anni è stato oggetto di tanta retorica e annunci, ma rarissime azioni concrete. Il decreto prevede numerose novità anche nella gestione e nella governance accademica, ma il punto che ha suscitato maggiori polemiche e che più tende a rompere vecchie logiche di funzionamento è quello che riguarda la figura dei ricercatori, che diventano a tempo determinato, per un massimo di 6 anni (quindi niente più ricercatori a vita), e le procedure di assunzione dei nuovi professori, che passeranno tutte attraverso un concorso di abilitazione nazionale (con commissione tirata a sorte) di fronte al quale ogni concorrente sarà trattato alla pari. Nessun favoritismo o priorità per chi è già nel sistema, magari da anni, nessuna ope-legis: tutti uguali di fronte al concorso. Certo, una volta ottenuta l'abilitazione, si entra in una lista unica e le Università sono libere di chiamare e dare priorità a chi vogliono all'interno di tale lista, ma per facilitare la mobilità è l'immissione di «esterni» il decreto prevede che tra i nuovi assunti di ciascuna Università ci sia una quota minima (un terzo per i professori di prima fascia) di persone che non erano già nell'Ateneo in questione. L'introduzione di queste «quote outsider» mette forse un po' di tristezza, facendoli apparire quasi come specie da proteggere, ma visto come sono andate le cose fino ad oggi, appare l'unico modo per arginare vecchie pratiche di assunzioni «incestuose» dentro gli Atenei. Queste regole sull'assunzione saranno ancora più efficaci se saranno veramente abbinate a tutte le misure citate dall'articolo 5 del decreto, in cui si prevedono valutazione e premi per le università che avranno effettivamente seguito criteri aperti e internazionali nell'assunzione dei nuovi docenti, nonché' valutazioni regolari delle attività dei docenti anche dopo che sono stati assunti. Tali misure purtroppo sono solo citate nel decreto e demandate a successivo decreto attuativo del Governo, ma, se attuate secondo le modalità e gli indirizzi indicati nel decreto, rappresenterebbero una mezza rivoluzione e renderebbero molto più completa la Riforma. Nel complesso, questo insieme di nuove regole, se riuscisse a passare indenne anche l'approvazione della Camera e venire poi supportata da buoni decreti attuativi, potrebbe davvero incoraggiare gli studenti più bravi a perseguire la carriera accademica e forse anche a convincere molti «cervelli» italiani emigrati all'estero a tentare la strada del rientro. C'è un solo pezzo che manca, di cui nessuno parla, ovvero l'apertura del sistema non solo ai giovani italiani, ma anche a quelli stranieri. Su quel fronte la nuova riforma difficilmente potrà far fare grossi progressi. Il sistema ancora in piedi dei concorsi nazionali (in quale lingua?), con relativi iter burocratici, gazzetta ufficiale e così via, per non parlare dei salari ancora bassi, assai poco competitivi nel panorama internazionale, così come i fondi di ricerca ridotti all'osso non renderanno il nostro nuovo sistema universitario particolarmente attraente per gli stranieri. Quindi, anche se gli Atenei avranno incentivi all'internazionalizzazione del loro corpo docenti, difficilmente riusciranno ad attrarre docenti dall'estero, soprattutto i più bravi. Ad ogni modo, c'è da sperare che, una volta create le condizioni di un mercato interno più funzionale, meritocratico e trasparente, il resto si possa costruire su su. Insomma, un passo forse non totalmente sufficiente, ma certamente necessario. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7655&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Condannati dall'età Inserito da: Admin - Agosto 06, 2010, 02:57:37 pm 6/8/2010
Condannati dall'età IRENE TINAGLI Che effetto avrà il rallentamento demografico sul futuro dell’Europa? Numerosi centri di ricerca se lo chiedono da tempo, visto che il tasso di natalità continua a scendere in molti Paesi e che con la crisi anche i flussi migratori sono diminuiti e non sembrano più sufficienti a invertire il trend. Il timore principale, soprattutto per i politici, è che un’entità come l’Europa, che conta appena mezzo miliardo di persone, scompaia in termini di influenza globale di fronte a giganti come la Cina o l’India che hanno alle spalle popolazioni che superano, ciascuno, il miliardo di persone. La popolosità ha certo una sua rilevanza: un presidente che rappresenti un miliardo di persone ha un peso diverso rispetto ad uno che ne rappresenti solo una piccola parte, anche perché popolazioni numerose alimentano mercati e consumi, attraggono investimenti etc. Ma è evidente che il numero di cittadini, da solo, non basta a fare una potenza né politica né economica. Non è solo una questione quantitativa, ma anche qualitativa, che riguarda la struttura demografica, così come la struttura economica e sociale di un Paese. Da questo punto di vista non è il mero calo demografico a dover preoccupare, ma l’invecchiamento progressivo della popolazione. La grande potenza dell’India non sta solo nel miliardo e centottanta milioni di persone, ma nel fatto che il 50% di questa popolazione ha meno di 25 anni, e il 65% meno di 35. In Cina l'età mediana è 34 anni. Per fare un confronto, l’età mediana in Italia è 43 anni, in Germania 44, e in Francia, uno dei Paesi più «giovani» d'Europa, 40. L’invecchiamento della popolazione europea non ha soltanto, come spesso e giustamente si ricorda, conseguenze gravose sul sistema pensionistico e di spesa sociale. Ma ha effetti rilevanti anche sul fronte della produttività, della capacità innovativa e di produzione di un Paese. Su tutti questi aspetti si riflette troppo poco. Si pensa sempre a cosa significhi avere tanti vecchi, ma cosa significa, per contro, avere pochi giovani? Una popolazione più giovane significa innanzitutto avere una forza lavoro attiva, con istruzione e competenze fresche, recenti. Un giovane di 25 anni avrà un titolo di studio fresco alle spalle, saprà usare tutte le nuove tecnologie, mentre una persona di 45 o 50 anni avrà, nel migliore dei casi, una laurea vecchia più di vent’anni, probabilmente presa battendo la tesi su una Olivetti. Un giovane sotto i trent’anni tipicamente lavora più ore e con stipendi non ancora gonfiati da anni di anzianità e carriera. Vale a dire: produce di più e a costi inferiori, ha più voglia di affermarsi, di imparare, e in generale aiuta il sistema a muoversi più velocemente, a produrre ed innovare a ritmi più elevati e costi più contenuti. E questo è tanto più vero nelle economie più dinamiche, in cui gli «investimenti» in istruzione e lavoro premiano di più. Tornando al caso dell’India, per esempio, non solo la sua popolazione è per la maggior parte giovanissima, ma queste nuove generazioni hanno livelli di istruzione relativamente elevati, il 100% parla fluentemente inglese, e molti di loro sono laureati, professionisti e ingegneri di prima generazione, che non hanno alle spalle esperienze e patrimoni di supporto; hanno tutto da costruire, tutto da guadagnare. In altre parole: hanno sete di crescere, di affermarsi, di mettersi in gioco. In un’Europa in cui la classe media è esplosa ormai decenni fa, ed in cui le famiglie producono sempre più figli unici, la nuove generazioni tendono ad avere spalle più coperte rispetto ai loro colleghi cinesi ed indiani e meno incentivi a mettersi in gioco. Tanto più che i giovani europei si trovano di fronte ad economie che crescono assai più lentamente ed in cui le prospettive di riscatto e crescita economica e sociale sono, in termini relativi, assai modeste. Sono questi gli aspetti su cui l’Europa dovrebbe riflettere. Sono la presenza, l’energia e le opportunità di crescita delle nuove generazioni a fare davvero la differenza sul futuro e l’influenza globale di un Paese, perché i giovani non solo danno un contributo chiave alle innovazioni tecnologiche ma anche ad un maggior dinamismo culturale. D’altronde i grandi trend globali, le nuove frontiere dell’arte, della scienza e anche della cultura di massa hanno più probabilità di venire da giovani artisti ribelli, scienziati emergenti e più in generale da nuove generazioni desiderose di crescere che non da ormai affermati cinquantenni e sessantenni. La questione demografica in Europa è certamente un problema da affrontare senza ulteriori ritardi, ma prima ancora di pensare a come aumentare il numero assoluto di cittadini europei, nella speranza un po’ ingenua che aumentando il peso demografico si possa mantenere il peso politico globale, l’Europa dovrebbe concentrarsi sulla creazione di una realtà economica e sociale più fluida, dinamica e attrattiva per i giovani di tutto il mondo, con meno burocrazie e meno patrimoni e più stimoli per le attività produttive, per l’innovazione e l’imprenditorialità. Insomma, cercare di fare del Vecchio Continente un Paese per giovani, che generi quell’influenza sociale e culturale che è condizione necessaria per una vera influenza globale. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7684&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Il nuovo pudore che la politica non sa capire Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 05:17:36 pm 12/8/2010
Il nuovo pudore che la politica non sa capire IRENE TINAGLI Il caldo si sa, dà un po’ alla testa, ma non può essere solo il caldo la causa dell’ondata di denunce, insulti e aggressioni rivolte a persone che, a detta dei denuncianti, «offendono» il pudore e la sensibilità della gente. Ma chi sono questi svergognati e quali sono i vituperati atti osceni oggetto del contendere? Sono coppie dello stesso sesso che si tengono per mano e che si scambiano un bacio in pubblico. E che per questo vengono denigrate, umiliate e in alcuni casi picchiate (come pochi giorni fa a Pesaro). Sono donne che prendono il sole in topless, come nel caso di una giovane denunciata sulla spiaggia di Anzio perché «turbava» i figli della vicina di ombrellone. Sono docenti di educazione sessuale denunciati perché spiegano il sesso a ragazzi già adolescenti chiamando le cose col proprio nome anziché ricorrere alla metafore delle api, come è successo qualche mese fa a Treviso. Sono persino mamme che allattano i propri figli in pubblico. Potrebbero sembrare casi sporadici e come tali ignorati senza troppi allarmismi. Ma è un fenomeno in corso già da alcuni anni su cui varrebbe la pena riflettere. Anche l’estate scorsa sono state numerose le aggressioni ai gay che camminavano per mano, considerati «vergognosi» e oltraggiosi, così come si sono avuti episodi di mamme alle quali è stato impedito di allattare in pubblico, come una mamma allontanata da un ristorante di Madonna di Campiglio, o un’altra redarguita dal proprietario di uno stabilimento balneare della riviera romagnola perché avrebbe dovuto allattare chiusa in cabina. Questi comportamenti non possono essere attribuiti alla tradizione cattolica o a qualche fattore culturale immutato e immutabile del nostro Paese, perché venti anni fa di donne in topless al mare se ne vedevano a decine, e a nessuno veniva in mente di gridare allo scandalo e chiamare la polizia. Magari qualcuno poteva storcere il naso e pensare «non ci sono più i bravi giovani di una volta», ma c’era la consapevolezza di una società che cambiava, di nuove regole di convivenza civile alle quali occorreva adeguarsi. E soprattutto cominciava a farsi strada, allora, un concetto di libertà e di diritti civili e individuali che oggi a quanto pare sta diventando sempre più condizionato, limitato non tanto dal rispetto della legge, come dovrebbe essere, ma dalle sensibilità personali. Il limite della libertà di un individuo oggi non sembra essere più il rispetto della legge e della libertà degli altri, ma della loro sensibilità, del loro concetto di buono e cattivo, di ciò che a loro piace o dà fastidio. E questa è una deriva molto insidiosa. Ma come siamo arrivati a questa sensibilità pubblica così esasperata, che finisce talvolta per sfociare in atti di intolleranza e aggressività? Siamo arrivati fin qui non perché la gente sia diventata all’improvviso più cattiva o più bigotta, ma perché è stata lasciata sempre più sola ad affrontare cambiamenti sociali importanti, condizioni di convivenza mutevoli, bisogni e valori emergenti. Siamo arrivati fin qui perché la politica ha perso lungimiranza e coraggio ed è sempre più latitante sui temi che riguardano la crescita e l’evoluzione della nostra società, che riguardano la vita, i sentimenti, le idee, e i valori dei cittadini. Riesce magari a varare una manovra o a introdurre od eliminare una nuova tassa, ma si dimentica che la crescita di un Paese non è fatta solo di manovre correttive, tassi di interesse e conti pubblici. La crescita di un Paese è anche e soprattutto una crescita culturale e sociale. Trent’anni fa la politica aveva saputo, assai più di oggi, occuparsi dei temi legati ai grandi cambiamenti sociali allora in atto: il divorzio, l’aborto, il ruolo delle donne nella società e la parità di diritti. I partiti non si tiravano indietro di fronte alle grandi battaglie civili, e si prendevano la briga innanzitutto di informare e formare opinione, di impegnarsi in un’attività divulgativa che bene o male aiutava i cittadini a capire i cambiamenti in atto e orientarsi. E poi si preoccupavano di agire e legiferare avendo a riferimento un’idea della società che pensavano di costruire nel lungo periodo. Oggi la politica sembra invece aver abdicato a questo ruolo. Le grandi questioni sociali e civili che hanno scosso le nostre comunità negli ultimi anni sono diventate «temi sensibili», rischiosi, difficili, e i politici hanno preferito evitarli oppure assecondare e cavalcare le paure e i dubbi ad essi collegati per cercare consenso facile, anziché aprire dibattiti seri ed informati. Un atteggiamento miope e opportunista che ha saputo solo acuire disagi e attriti, facendoci trovare oggi di fronte ad un Paese paralizzato su questioni di grande rilevanza come quella del testamento biologico, dell’omofobia, o del ruolo e del rispetto delle donne, che continuano ancora oggi a subire violenze inaudite - come ci dimostra la cronaca, che quasi ogni giorno ci offre storie di mogli ed ex fidanzate perseguitate, picchiate e uccise. In questo vuoto politico ogni malumore, ogni frustrazione, ogni paura rischia di prendere la strada della chiusura, dell’intolleranza, della diffidenza, della protezione fai da te. L’atteggiamento della politica verso tali questioni è tanto più miope se si pensa che certi temi comunque ritornano. E ritorneranno, infatti, quest’autunno, con il voto alla Camera della legge sul biotestamento e, probabilmente, con un nuovo voto sulla legge contro l’omofobia. Qualcuno si sta già chiedendo se questi voti spaccheranno la maggioranza e se e come contribuiranno a definire nuove geografie politiche. Speriamo però che, almeno questa volta, la politica sappia prendersi le proprie responsabilità e cogliere l’occasione per avviare un dibattito serio, informato, lungimirante e non demagogico su questi temi, che pensi al futuro della nostra società e non solo a contare voti e disegnare alleanze di carta. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7700&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Perché non siamo un Paese per scienziati Inserito da: Admin - Agosto 30, 2010, 04:28:03 pm 30/8/2010
Perché non siamo un Paese per scienziati IRENE TINAGLI Gli italiani non sono solo un popolo di poeti e navigatori, ma anche di ottimi medici e scienziati. Non c’era certamente bisogno di una nuova classifica per appurarlo, tuttavia la lista della Virtual Italian Academy, che valuta la performance in termini di pubblicazioni e di impatto accademico di 400 ricercatori italiani, ce lo conferma e ci costringe a ricordare nomi di nostri illustri connazionali che troppo spesso lasciamo in ombra. Nomi come quelli di Carlo Croce, Napoleone Ferrara, Giorgio Trinchieri, Alberto Mantovani e molti altri ancora. Uomini (e donne, come Silvia Franceschi, a capo del gruppo di biologia ed epidemiologia dell’Agenzia internazionale per la Ricerca sul Cancro di Lione) che hanno dato e stanno dando contributi essenziali alla lotta contro malattie come il cancro, l’Hiv, la leucemia, l’epatite e molte altre che affliggono il genere umano. La classifica però ci offre anche altri spunti di riflessione. La prima cosa su cui ragionare è la constatazione che una grande fetta di questi nomi eccellenti non stanno conducendo la loro ricerca in Italia ma all’estero. Tra i migliori 20 solo 7 lavorano in Italia, gli altri 13, ovvero il 65%, sono tutti fuori. Allargando la lista ai top 50 le cose non migliorano molto: quasi il 60% dei migliori 50 è all’estero. Le proporzioni si invertono se andiamo a vedere la parte bassa della classifica: tra gli ultimi 100 il 74% è in Italia. Questo non significa solo che gli altri Paesi ci rubano tutti quelli più bravi, perché in realtà molti di quelli che sono all’estero vi si sono trasferiti assai prima di diventare famosi (Carlo Croce è in Usa da circa trent’anni, Napoleone Ferrara dai tempi del suo postdottorato alla Ucla, e potremmo fare altri esempi analoghi), ma significa che chi è andato all’estero, pur avendo già una marcia in più, ha trovato le condizioni giuste per poter sfruttare questa marcia e correre più veloce verso la meta. È anche per questo che se andiamo a vedere l’indice H, ovvero l’indice di performance utilizzato per stilare la classifica, e ne calcoliamo la media per tutti i ricercatori che sono in Italia confrontandola poi con la media di coloro che sono all’estero, ci accorgiamo che i ricercatori che lavorano in Italia hanno una performance media molto più bassa di quelli all’estero. L’indice di performance medio per i ricercatori che lavorano in Francia è di 57.4, per quelli in Usa è 56.3, per quelli in Svizzera 51.8, per quelli in Italia è 44.9. Si tratta chiaramente di numeri da prendere con estrema cautela, perché includono ricercatori attivi in settori anche molto diversi e quindi non sempre confrontabili, ma a livello meramente indicativo danno quantomeno dei segnali. Il segnale chiave è che all’estero la produttività scientifica, che non dipende mai esclusivamente dall’individuo ma dal contesto in cui si forma e opera, è assai più elevata che da noi. Un’altra cosa importante da tenere in considerazione è che i nostri ricercatori all’estero non solo hanno avuto le condizioni per crescere e affermarsi, ma anche quelle per formare le nuove generazioni di scienziati del Paese in cui operano. Infatti la maggior parte di loro sono ormai da molti anni direttori di grandi centri di ricerca che hanno a disposizione centinaia di giovani e centinaia di milioni di dollari per fare ricerca, assumere e far crescere nuovi ricercatori. Un sistema così oliato non solo garantisce all’individuo bravo l’opportunità di lavorare bene e di emergere, ma dà a tutto il sistema di ricerca nazionale una continuità fondamentale per contribuire al benessere e alla crescita del Paese. La possibilità di avere risorse assegnate sulla base delle capacità e dei risultati, nonché quella di poter assumere e coordinare team di ricerca capaci, affiatati e operativi con una certa continuità sono condizioni essenziali per la produttività della ricerca scientifica. Purtroppo in Italia queste condizioni sono mancate per troppo tempo e solo in parte riusciranno a essere generate dalla recente riforma delle Università (sempre che i numerosi aspetti su distribuzione di fondi e incentivi lasciati a provvedimenti successivi del governo vengano poi attuati). Senza contare che le condizioni per una buona ricerca non stanno solo nel sistema di funzionamento dell’Università. In Italia non se ne parla mai, ma per fare ricerca non servono solo assunzioni o laboratori. È altrettanto importante, per esempio, poter avere o raccogliere dati, informazioni, statistiche, condurre esperimenti, studiare casi. E questa disponibilità dipende dall’organizzazione e dal funzionamento di mille altri enti e istituti: dall’organizzazione di Asl e ospedali fino all’Istat e alla Banca d’Italia. In alcuni settori tali condizioni sono anche migliori in Italia che in altri Paesi (per esempio in alcuni ambiti medici, dove non a caso abbiamo eccellenze significative), mentre in altri settori (per esempio in alcune scienze sociali come sociologia, alcuni rami di economia e public policy), i dati disponibili sono spesso lontani dalla quantità e soprattutto qualità di quelli disponibili in altri Paesi. In Italia si fanno tanti sondaggi d’opinione, ma i dati statistici che servono per la ricerca accademica fanno fatica a essere raccolti e resi pubblici in modo sistematico, costante e capillare. Manca una cultura che veda in queste attività una forma di investimento per la conoscenza e la crescita del Paese. Basta pensare che a maggio 2010 l’Istat non aveva ancora ricevuto i fondi per la realizzazione del censimento 2011. Insomma, le eccellenze non sono e non possono essere punte di iceberg che ogni tanto ci sorprendono e ci fanno compiacere della nostra bravura. Sono fenomeni che vanno saputi coltivare e portare avanti con costanza, consapevolezza, lungimiranza, dentro e fuori le università. Implicano uno sforzo collettivo, economico e culturale. L’Italia dovrebbe cercare di lavorare di più sulle condizioni affinché chi resta in patria possa essere produttivo al pari dei propri colleghi all’estero, e affinché possa realizzare questi obiettivi sentendosi non un eroe donchisciottesco e solitario, ma un «normale» scienziato che fa il proprio lavoro in un sistema motivante e funzionale. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7762&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Il made in Italy ora vince con la laurea Inserito da: Admin - Settembre 28, 2010, 11:59:00 am 28/9/2010
Il made in Italy ora vince con la laurea IRENE TINAGLI C’è un nuovo made in Italy che si sta facendo strada nel mondo. Un made in Italy che forse da noi non fa molta notizia, perché sfugge agli stereotipi dell’artigiano con il metro che pende dal collo o chino su una forma di parmigiano che tanto amiamo, ma che sta facendo scintille. Sono fenomeni come Grom, catena di gelaterie di alta qualità ormai famosissima; oppure Amorino, altro marchio di gelaterie di lusso nato da due italiani che hanno conquistato la Francia (circa trenta negozi in pochissimi anni). O ancora Christian Oddono, l’italiano che sta sbaragliando il mercato del gelato in Gran Bretagna. I casi di Grom, Amorino e Oddono sono già stati molto citati, ma tutte le attenzioni sono state rivolte al prodotto venduto, il gelato, rivendicando la rinascita di uno dei nostri prodotti più noti nel mondo, più raramente alle persone e alle competenze che ci sono dietro. E invece è proprio lì che dovremmo andare a guardare per trovare il vero trait d’union di queste tre storie e di molte altre in altri settori. Nessuna di queste persone era gelataio di professione prima di questa avventura imprenditoriale, né probabilmente ci pensava da ragazzino. Erano ragazzi che pensavano a studiare. E infatti sono tutti laureati, e molti di loro, forse per combinazione, sono laureati alla Bocconi, che non è esattamente il Cordon Bleu. Lì hanno studiato corporate finance, management, contabilità e gestione dei costi, non il punto di cottura del soufflé. Dopo la laurea hanno maturato esperienze aziendali e di alta finanza, come Oddono, che lavorava in corporate finance nella City di Londra, o come Paolo Benassi, uno dei cofondatori di Amorino, che seguiva la distribuzione di Max Mara. Così, mentre noi continuiamo a celebrare l’idea dell’attività artigiana vecchio stile, quella che «non si impara a scuola ma solo sul mestiere», meglio se già a 14 anni, questi casi ci mostrano un made in Italy costruito su competenze economiche, finanziarie e di marketing di altissimo livello, sull’ambizione di trentenni formatisi in università prestigiose o nella City di Londra. Un made in Italy con la laurea. E infatti sono proprio le capacità organizzative, economiche e finanziarie acquisite con gli studi ed esperienze manageriali che hanno consentito a questi nuovi imprenditori di fare quello che fino ad ora l’Italia ha faticato a fare: l’industrializzazione dell’artigianato italiano. Un concetto che per decenni in Italia è sembrato una contraddizione in termini, quasi un insulto alla nostra tradizione artigiana. Un pregiudizio (o un’incapacità) che abbiamo pagato caro visto che alla fine sono state multinazionali straniere a industrializzare molti dei nostri prodotti tipici. Noi avevamo la tradizione dei bar dove si sorseggia caffè leggendo il giornale, ma la catena Starbucks è nata a Seattle. Noi avevamo la pizza, ma la catena Pizza Hut è nata, anche lei, negli Stati Uniti. E così via per l’abbigliamento, i mobili, o lo stesso gelato, i cui primi casi di industrializzazione del gelato di alta qualità sono nati con i marchi Haagen Dazs e Ben & Jerry. Fino ad oggi. Né Amorino né Grom né Oddono sono ancora passati alla grande distribuzione, ma hanno comunque compiuto un importante passo. Uno scale up reso possibile non tanto grazie al prodotto in sé, che alla fine ha poco di rivoluzionario, ma alle competenze, alla visione strategica, alla capacità di costruire un marchio riconoscibile, di posizionarsi bene in mercati tutt’altro che facili. Ed è questa capacità manageriale, più che l’attrattività dei prodotti italiani, il fenomeno che merita più attenzione, quello che accende una speranza per il futuro del made in Italy. Il futuro del made in Italy non si basa sulla probabilità che tornino di moda prodotti come il gelato, il caffè o il prosciutto, ma sulla capacità di far nascere e crescere nuovi imprenditori competenti e internazionali capaci di reinterpretare i modelli organizzativi del made in Italy e di portarlo nel mondo. Non solo, ma la capacità organizzativa e la visione internazionale potrebbero consentire agli italiani di compiere un passo ulteriore: di «fare agli altri quello che è stato fatto a noi». Ovvero quello di creare opportunità imprenditoriali globali e innovative su prodotti e culture stranieri. Perché no? Perché gli stranieri possono invadere il mondo con catene di ristoranti ispirati al caffè o alla cucina italiana e gli italiani non possono portare nel mondo catene o prodotti ispirati alle culture straniere? Lo ha già fatto Marco Fiorese, altro ex bocconiano che dopo anni di esperienza in operazioni di internazionalizzazione di aziende italiane in Cina ha creato una catena di fast food asiatici, ZenZen. In pratica ha mutuato la cultura americana del fast food da un lato e i sapori e la tradizione culinaria asiatica dall’altro. In appena 4 anni ZenZen ha già 20 ristoranti in tutto il mondo. Ecco, queste sono le nuove generazioni di aziende e di imprenditori che l’Italia dovrebbe puntare a formare, anche perché, nonostante questi illustri esempi, sono ancora pochi i laureati che scelgono di misurarsi con avventure imprenditoriali. Eppure per fare impresa oggi non basta la conoscenza tecnica del prodotto, ma occorrono capacità manageriali e organizzative di alto livello - non è un caso se tutti questi esempi vengono da percorsi formativi di natura economico-manageriale. Invece da noi si continua a vivere nel mito dell’artigiano solitario chiuso nella bottega con i suoi apprendisti, il mito del mestiere che si tramanda di generazione in generazione, come se tutto il mondo intorno non cambiasse mai. Peggio ancora, cerchiamo a tutti i costi di adattare i nostri giovani a questo mondo antico, incitandoli all’umiltà e alla riscoperta del mondo che fu, abbassando l’obbligo scolastico per metterli prima possibile dietro a un tornio o a un bancone, mentre dovremmo fare il contrario: aiutare il nostro piccolo mondo antico ad adattarsi alle nuove dinamiche mondiali, a diventare sempre più appetibile per manager ed imprenditori preparati e ambiziosi, e per finanziatori internazionali che forse subiscono anche il fascino della vecchia bottega, ma ancora di più quello di un piano aziendale solido e supportato da competenze di alto livello. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7884&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI I capolavori dell'arte salvati dalla tecnologia Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 03:58:19 pm 1/10/2010
I capolavori dell'arte salvati dalla tecnologia IRENE TINAGLI Chi pensava che l’eredità di tanti grandi artisti del passato fosse destinata ad ammuffire nelle sale più o meno visitate di qualche museo non aveva fatto i conti con l’avanzare delle nuove tecnologie. Proprio in questi giorni Botticelli e i capolavori del Rinascimento fiorentino sono tornati a emozionarci non attraverso una mostra ma da foto digitali in altissima definizione che stanno spopolando sul Web. Nonostante tanti luoghi comuni, arte e tecnologia non sono mai state completamente separate. Dalla creazione di colori che resistessero al tempo, o che consentissero sfumature e certi effetti di luce, alle tecniche e i materiali che hanno consentito sculture sorprendenti e innovative, fino allo sviluppo più recente di luci speciali per mostrare quadri antichi e preziosi senza danneggiarne lo splendore, o all’archiviazione digitale di intere biblioteche regalateci intatte dal tempo ma nascoste nei luoghi più disparati del mondo. Ma le applicazioni della tecnologia all’arte non si fermano qui e continueranno a sorprenderci ed emozionarci in futuro. E questo deve darci gioia e speranza non solo per l’arricchimento culturale che questi progressi portano con sé, ma anche per la loro portata economica e le ricadute che hanno sulle prospettive di crescita del nostro Paese. Come mostra un recente studio realizzato dall’Istituto Tagliacarne su impulso di Unioncamere e del ministero per i Beni e le Attività Culturali, le attività connesse alla valorizzazione e promozione del patrimonio culturale sono una vera e propria filiera produttiva. Conta circa 900 mila imprese, dà lavoro a 3,8 milioni di persone e produce un valore aggiunto di circa 167 miliardi di euro, ovvero il 12,7% del valore aggiunto prodotto dall’economia italiana. Un’universo produttivo sempre più ampio e variegato, in cui si intrecciano attività tradizionali e artigianali, tecnologie, comunicazione e nuove professioni. Un settore che oltretutto, sempre secondo i dati del Tagliacarne, dal 2001 al 2006 ha avuto una crescita media annuale superiore alla media in Italia, sia in termini di valore aggiunto (+4,3% contro +3,5%) sia di occupazione (+2,9% contro +1,3%). Dati forse poco pubblicizzati, ma di cui bisognerebbe essere tutti più consapevoli. Qualcuno, comunque, ci sta già provando. E infatti proprio da questa consapevolezza è nato DNA Italia, il primo salone italiano dedicato alle tecnologie per la conservazione, fruizione e gestione del patrimonio culturale, che apre oggi a Torino. Tre giorni in cui il Lingotto darà spazio a workshop, dibattiti, e a numerosi progetti, materiali, e tecnologie d’avanguardia applicate o applicabili al Patrimonio Culturale. Dal multimediale alle nanotecnologie, dall’imaging alle tecnologie spaziali: un’occasione per guardare un po’ avanti e immaginare tutto quello che si potrebbe fare in questo bel Paese così ricco di risorse eppure oggi così avvilito. Un Paese incapace di sollevare lo sguardo dai propri piedi, preoccupato dal baratro in cui sembra sempre dover cadere da un momento all’altro, ignaro delle vette che potrebbe raggiungere se solo sapesse alzare la testa. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7899&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Dalla crisi un'opportunità per i talenti Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2010, 10:35:06 am 24/10/2010
Dalla crisi un'opportunità per i talenti IRENE TINAGLI Come ha detto l'economista Paul Romer, è un vero peccato sprecare una crisi. Le crisi possono infatti essere ottime occasioni per ripensare vecchi modelli di sviluppo e investire in futuro, preparando il terreno per la creazione di nuove attività imprenditoriali, nuovi settori, nuove tecnologie. E questo non lo si fa, come hanno fatto alcuni Paesi, immettendo miliardi di euro o dollari per salvare grandi gruppi, o per stimolare la costruzione di opere pubbliche e case (che andranno ad ingrossare la mole di appartamenti vuoti che già invadono città e periferie), o per incentivare l'acquisto di cucine e lavastoviglie. Misure di questo genere possono solo servire a evitare il tracollo del vecchio (e sulla loro efficacia esistono comunque molti dubbi), ma non certo a creare le basi per qualcosa di nuovo. Il nuovo lo si costruisce pensando a ciò che deve crescere, formarsi, a ciò che sarà. Il nuovo lo costruiranno in larga parte le nuove generazioni, per questo oggi più che mai sarebbero necessarie politiche rivolte a loro. Nuovi modelli educativi, che insegnino davvero cosa significa essere oggi cittadini nel mondo, figli di una società aperta, informatizzata, dove il problema non è accumulare o memorizzare informazioni, ma essere capaci di analizzarle e ricombinarle in maniera critica. Nuovi modelli di formazione professionale che non inchiodino i ragazzi ad un mestiere che in passato durava 30 anni e oggi al massimo ne dura tre, ma che insegnino loro a gestire e sviluppare le proprie capacità in modo intelligente e flessibile. Nuovi sistemi di lavoro e di welfare che non tutelino solo i padri, ma che aiutino i giovani ad affrontare la flessibilità senza che diventi una trappola, così come sistemi fiscali e finanziari che diano loro fiducia, pensando non a quanto possono essere spremuti oggi, ma a quanto potranno contribuire domani se aiutati a crescere. E sistemi amministrativi e burocratici internazionali che rendano facile la mobilità fisica, perché è ridicolo lamentarsi oggi della mobilità dei giovani talenti: sarebbero talenti miserabili se restassero ad ammuffire sempre nello stesso posto. Il vero problema del «talento» oggi non è che è troppo mobile, ma che ancora non lo è abbastanza. Considerato quanto è stato investito, a livello internazionale, in infrastrutture, autostrade, aeroporti e in armonizzazione dei sistemi per far circolare le merci, è impressionante quanto poco sia stato fatto per facilitare la mobilità delle persone e dei lavoratori da un Paese all’altro, in modo da supportare una efficace e tempestiva «allocazione» del talento dove meglio può crescere e contribuire allo sviluppo senza essere sprecato. Ecco, la crisi poteva essere un’opportunità per rivedere tanti nostri vecchi modelli e tararli sul futuro. Per il momento invece la crisi è stata utilizzata semplicemente per giustificare tagli profondi (una misura che, per via del deficit, sarebbe stata necessaria a prescindere) se non addirittura per bloccare alcuni processi di riforma. Basta pensare a come la scorsa finanziaria abbia determinato, di fatto, il congelamento di parti rilevanti della riforma della pubblica amministrazione, o al recente blocco della riforma dell'università, o al continuo annuncio e rinvio della riforma dello statuto dei lavoratori, degli ammortizzatori sociali e così via. E anziché mettere mano a una vera e importante riforma della formazione professionale che andasse nella direzione degli altri Paesi europei, dove si cerca di rafforzare il legame tra scuola e impresa, è stato abbassato l'obbligo scolastico e demandata ogni formazione alle imprese (che oggi, vale la pena ricordarlo, sono tra quelle in Europa che investono meno in formazione, persino quando si tratta dei ragazzi: solo il 20% dei giovani in apprendistato riceve qualche tipo di formazione). Di fronte a questo scenario complessivo così desolante, anche le iniziative del nostro ministero per le Politiche Giovanili, dal Festival dei Giovani Talenti all'idea dei villaggi della gioventù, pur interessanti, sembrano assolutamente inadeguate e irrilevanti in una fase delicata come questa: quali talenti premieremo tra qualche anno se non ci preoccupiamo di formarli e dare loro un'opportunità di crescita, di lavoro, di realizzazione? http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7993&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Il cognome della madre al primo posto Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 11:30:19 am 5/11/2010 - LE IDEE
Il cognome della madre al primo posto IRENE TINAGLI Mentre le donne italiane sono mortificate dall’ennesimo e orgoglioso rigurgito sessista, il processo di emancipazione delle donne spagnole procede spedito. È iniziata infatti oggi la discussione parlamentare di una legge secondo cui l’ordine dei cognomi assegnati alla nascita di un bambino (in Spagna un bambino prende i cognomi di entrambi i genitori) non metterà più al primo posto quello del padre. A meno di una esplicita richiesta da parte dei genitori i due cognomi verranno attribuiti in ordine alfabetico. Una riforma dall’alto valore simbolico, che in un certo senso sancisce la fine di una società che non troppo tempo fa era ancora fortemente patriarcale e «maschio-centrica». Ma le cose sono cambiate moltissimo negli ultimi anni, e continuano ad evolversi. La questione dell’uguaglianza di genere in Spagna è una cosa seria, non una bandierina sventolata solo in prossimità delle elezioni. È stata una priorità nell’agenda del governo Zapatero sin dal suo primo insediamento nel 2004. Tra i primi provvedimenti del governo vi fu infatti la legge sulla violenza contro le donne, che non solo ha creato una grande rete di centri di accoglienza per le donne vittime di maltrattamenti, ma che ha investito moltissimo sulla prevenzione, supportando programmi educativi nelle scuole, vietando pubblicità ove la donna venisse associata ad oggetti commerciali e regolamentando altri aspetti legati alla comunicazione mediatica. Un impegno confermato e rafforzato poi con le Legge sull’Uguaglianza del 2007, che si poneva obiettivi ambiziosi di parità sui luoghi di lavoro, nella pubblica amministrazione e in politica. Per non parlare poi dell’accurato bilanciamento tra uomini e donne nella formazione del governo e nell’assegnazione di numerose cariche e responsabilità politiche. La cosa che forse colpisce di più è che nonostante la crisi, nonostante le difficoltà politiche che questo governo sta attraversando a causa di tematiche economiche caldissime e prioritarie, il focus sui diritti civili e sul ruolo delle donne non si è mai spento, ma continua ad essere al cuore dell’attività del governo e di molte sue scelte. Non solo il governo ha continuato ad avere una composizione perfettamente equilibrata tra componenti maschili e femminili anche nel secondo mandato e dopo l’ultimo rimpasto di ottobre, ma la politica ha dato alle donne ruoli di primo piano nella vita del Paese. Quelle poltrone ministeriali non sono state mosse strategiche di facciata, ma segnali di un investimento reale nelle donne e nel loro potenziale. Non a caso i due astri nascenti del Psoe sono proprio due donne: l’attuale ministra degli Esteri, Trinidad Jimenez, e la ministra della Difesa, Carme Chacon, che viene addirittura indicata da molti come il nome più quotato per la successione a Zapatero. Carme Chacon, la ministra che ha fatto emozionare milioni di donne in tutto il mondo con l’immagine del suo primo saluto ai «suoi» ragazzi: chi non ricorda ancora la foto di quella giovane ed esile donna, al settimo mese di gravidanza, che passa in rassegna l’esercito? Ecco, quella donna, che all’epoca aveva 37 anni e oggi 39, potrebbe coltivare la ragionevole e legittima ambizione di essere il prossimo primo ministro spagnolo. Vista in questa prospettiva, la legge sulla fine del predominio maschile nella sopravvivenza del cognome non appare che un piccolo tassello di un processo di modernizzazione che per le donne spagnole sarà sicuramente ancora lungo, ma ricco di soddisfazioni. E le immagini che arrivano dall’Italia, di centinaia di ragazze che si offrono volentieri come splendida cornice per le performance oratorie di Gheddafi o per le feste dei potenti, convinte che quella sia l’unica possibilità di riscatto sociale che hanno, appaiono così surreali da sembrare immagini di un film d’epoca. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8042&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Cameron scommette sul futuro Inserito da: Admin - Novembre 20, 2010, 09:33:38 am 20/11/2010
Cameron scommette sul futuro IRENE TINAGLI David Cameron sorprende ancora con la scelta del nuovo «guru» che lo aiuti a mettere a punto una nuova visione della società e dell’Inghilterra. Cameron ha infatti convocato Richard Florida, professore all’Università di Toronto, uno dei nomi più noti in materia di innovazione, creatività e sviluppo regionale. Per chi conosce il lavoro di Florida la sorpresa è più che comprensibile: la sua fama infatti è legata alle sue idee sulle società creative, multiculturali, aperte alle diversità di religione, cultura, orientamento sessuale e anche alle sue battaglie spesso in controtendenza. All’indomani dell’11 Settembre 2001, quando il governo Usa irrigidiva i requisiti per entrare nel Paese, Florida chiedeva di aprire di più le frontiere per studenti e lavoratori. Quando Bush lanciò la campagna per stimolare l’acquisto della casa da parte degli americani, Florida replicò che il possesso della casa inchioda le persone, limita la mobilità e la crescita economica e non va incentivato. Per non parlare poi delle sue battaglie sull’importanza di investire in cultura e arte, in rinnovamento urbano, in diversità, immigrazione, diritti civili, e altre cose invise a molti economisti e politici più tradizionali. Perché dunque il primo ministro inglese Cameron ha deciso di convocare un personaggio così controverso e potenzialmente in conflitto con il suo elettorato? Perché, come ha scritto il ministro della Cultura inglese Jeremy Hunt in un articolo sul Times, «Florida descrive la vita com’è adesso, non com’era un tempo», e Cameron ha capito che se vuole davvero sviluppare la sua idea della Big Society in modo innovativo e accattivante deve innanzitutto essere capace di capirla questa grande società, di intravedere le forme che prende, i desideri che ha, i modi in cui può essere guidata, motivata, incoraggiata. E per fare questo deve mettere da parte ideologie o vecchi armamentari politici e confrontarsi con accademici, analisti, opinionisti internazionali, persone abituate a vedere e analizzare il mondo con una visione più ampia di quella del funzionario di partito o del proprio centro studi. Questa sete di idee, di confronto, di elaborazioni intellettuali da tradurre poi in nuove proposte politiche è ciò che in passato ha caratterizzato molti leader di successo. L’idea di New Labor che cavalcò Tony Blair, per esempio, fu il frutto di un confronto profondo con intellettuali del calibro di Anthony Giddens, uno dei sociologi più noti del mondo. Così come la nuova idea di sogno americano lanciata da Obama nel 2008 (yes we can!) nacque da una serie di ricerche, analisi sulla mobilità sociale negli Stati Uniti, sui problemi emergenti della società americana. Ecco, questo è il potere delle idee, delle analisi genuine, e questa è la forza della politica quando è capace di far leva sulle migliori menti e valutazioni per capire i cambiamenti in atto e scommettere su qualcosa di nuovo, senza cavalcare paure contingenti, ideologie o nostalgie del passato, ma cercando di costruire il futuro, anche col rischio di fare errori. Purtroppo questo coraggio e questa energia è ciò che manca alla politica italiana. Una politica che anziché andare a caccia di intellettuali, analisti e opinionisti che possano offrire nuove interpretazioni ed elaborazioni, li teme e li evita; e che, pur sbandierando spesso la necessità di nuove idee, finisce poi per propinarci solo quelle più vecchie e rassicuranti, legate all’immagine dell’Italia gloriosa del passato, ma incapaci di delineare quella che potrebbe essere in futuro. Una politica che, per esempio, continua a fare retorica sulla nostra manifattura e su un’immagine del «Made in Italy» da dopoguerra, ignorando i dati che ci mostrano come in Italia ormai solo il 27% del valore aggiunto deriva dall’industria, un dato che ci avvicina a Paesi che noi consideriamo de-industrializzati da tempo come la Gran Bretagna (23,6%), così come ha lucidamente descritto in questo stesso giornale l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott. E una politica che continua a incitare i giovani ad accettare lavori più umili, ignorando i dati dell’Ocse secondo cui l’Italia ha già uno dei tassi di «sottoimpiego» maggiori d’Europa e che quindi la nostra sfida non sarà abbassare le ambizioni dei ragazzi, ma alzare il livello delle opportunità. Ma ormai persino i dati vengono negati e delegittimati per paura di misurarsi con problemi nuovi e difficili. Questa paura e questa chiusura non fanno che allontanare la politica dalla realtà, dalla gente, impoveriscono il dibattito pubblico e la possibilità di un riscatto. Certo, i dati e le analisi offrono solo spunti, idee, fotografie di una realtà in evoluzione, possono essere incompleti, richiedono interpretazioni, formulazione di ipotesi sul futuro e anche l’assunzione di rischi e possibili fallimenti. Tuttavia, finché mancherà questo coraggio, finché chi osa guardare oltre la siepe e immaginare un futuro diverso sarà temuto e marginalizzato, la politica non potrà mai rinnovarsi del tutto, emozionare, né tanto meno aiutare questo Paese a rialzarsi. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8111&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI L'alleanza che paralizza l'Italia Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2010, 10:53:33 am 19/12/2010
L'alleanza che paralizza l'Italia IRENE TINAGLI Alcuni commentatori negli ultimi giorni hanno evidenziato l’impasse politica italiana, in cui una coalizione di governo ormai debole e monca resta tuttavia «aggrappata» al potere, come ha scritto il Financial Times. Pochi però si sono soffermati ad analizzare il contesto sociale che accompagna questa crisi, un contesto in cui sta germogliando un paradosso preoccupante per il futuro del Paese. Da un lato infatti siamo di fronte ad un governo che fatica ad agire e che ha fallito la sua missione più importante. Ovvero quella della rivoluzione liberale tanto declamata agli inizi. Come ci dicono anche gli ultimi dati la pressione fiscale in Italia è aumentata, la burocrazia non si è snellita, le amministrazioni pubbliche sono aumentate anziché diminuire, le liberalizzazioni sono bloccate, le professioni ancora più protette e la concorrenza in molti settori è ancora al palo. Dall’altro lato però troviamo un’opposizione - non solo politica ma anche civile e sociale - che anziché incalzare sul fronte delle riforme, dell’innovazione sociale ed economica, del progresso, si chiude sulla difesa dell’esistente, legittimando e dando voce ad una miriade di piccoli o grandi conservatorismi che nell’ultimo anno sono esplosi ovunque. Se si pensa bene, infatti, tante delle proteste che negli ultimi mesi hanno scosso l’Italia non sono proteste alimentate dalla sete di quel cambiamento che stenta ad affermarsi, ma proteste per la paura di tutto quello che è cambiato e che può cambiare, la paura di perdere qualcosa. Dalle proteste contro l’Alta velocità (che presto otterranno la grandiosa vittoria di farci togliere dall’Unione europea tutti i fondi stanziati per la realizzazione della Tav), a quelle contro le quote latte e le multe per gli sforamenti. Dalle rivolte contro una nuova organizzazione del lavoro a Pomigliano, a quelle contro l’apertura di nuove discariche, fino alle manifestazioni che, con la giustificazione pur legittima di protestare contro i tagli all’istruzione, di fatto mirano ad affossare una Riforma che tentava timidamente di aprire il mondo chiuso dell’Università italiana. Questo è il paradosso italiano che fa paura: un governo che già ha fatto poco per modernizzare il paese, incalzato però da una serie di forze ancora più conservatrici. Un paese terrorizzato dal cambiamento, incapace ormai di guardare oltre la siepe del proprio giardino. Per i cittadini di Terzigno e Boscoreale la battaglia si gioca a Cava Vitiello, per gli anti-Tav piemontesi l’orizzonte si ferma in Val di Susa, nella baita costruita in difesa della loro Valle. E mentre gli operai di Pomigliano o di Lesmo salgono sui tetti dei capannoni per contrastare riorganizzazioni aziendali che mettono a rischio i loro posti, gli allevatori invadono le strade di trattori per non pagare le multe, e anche i ricercatori si arrampicano sul tetto delle università per difendere i loro contratti. Ognuno di loro ha un fantasma da combattere, che non è solo il governo, ma è, a seconda dei casi, l’Unione europea, l’euro, la globalizzazione, la competizione dei lavoratori asiatici o degli scienziati stranieri. Ognuno vorrebbe più o meno segretamente potersi proteggere da queste minacce, chiedere al Governo di spendere un po’ di più per neutralizzarle, perché facciano meno paura e generino meno disagio. È probabilmente normale che singoli o piccoli gruppi di cittadini di fronte alla crisi reagiscano così, quello che non è normale e che preoccupa è che tanti leader civili e politici non siano capaci di elevarsi sopra gli interessi particolari e indicare una strada di crescita moderna e unitaria. Nessuno ha avuto il coraggio di dire a queste persone che pur avendo ragione a chiedere prospettive di vita migliori, non potranno aspettarsi che tali condizioni siano le stesse che hanno avuto i loro genitori. Nessuno ha detto che il diritto al lavoro non potrà più essere inteso come diritto al posto di lavoro a vita, ma il diritto a delle opportunità che magari si concretizzeranno in 5 o 6 lavori diversi nell’arco di una vita. Nessuno ha detto che anche i diritti per i quali lottare possono cambiare forma perché cambiano le cose da cui dobbiamo proteggerci. E quindi, così come oggi i bambini si vaccinano contro l’epatite B e il papilloma e non più contro il vaiolo, similmente oggi è meglio pensare ad ammortizzatori e servizi che aiutino in caso di flessibilità piuttosto che a lotte per impedirla, così come avviene da anni in Paesi come Olanda, Svezia e Danimarca. Nessuno ha detto che diminuire la tassazione sul lavoro e aumentarla sul patrimonio significherà anche smetterla con le politiche di supporto al possesso della casa - che invece è un tormentone ricorrente della politica italiana di ogni colore -, e che nei paesi che amiamo citare per l’alta protezione sociale come Germania, Francia o Danimarca il tasso di proprietà della casa va dal 43% della Germania al 54% della Francia mentre da noi sfiora l’80%. Nessuno insomma ha parlato del cambiamento sociale, culturale ed economico che tutto il Paese dovrà avviare per rimettersi in moto e per generare nuove opportunità di crescita. Nessun leader civile o politico ha saputo delineare questa visione e ha avuto il coraggio di opporla ai conservatorismi di parte. Beppe Grillo si fa fotografare di fronte alla baita no-Tav, Bersani e Vendola posano compiaciuti mentre sbucano dalla scala che li porta sopra i tetti, Bossi arringa gli allevatori lombardi, i sindacati portano in piazza i giovani contro un Paese bloccato e nepotista, ma poi firmano tutti contenti accordi con le banche perché assumano i figli dei dipendenti. Ed è proprio di fronte a questo scenario che Berlusconi può permettersi di chiudere i propri giochi nel perimetro di Palazzo Madama e Montecitorio. Per questo il problema dell’Italia, quello vero, non è tanto se continuerà a governare Berlusconi o qualcun altro, il problema vero, per chiunque si troverà in mano il Paese, sarà affrontare senza ipocrisie e populismi queste paure così radicate tra i cittadini, ed indicare un obiettivo che dia il coraggio a milioni di italiani di guardare oltre la siepe e fare il salto http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8214&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Gli studenti saranno manager di se stessi Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2010, 06:22:18 pm 24/12/2010 (7:29) - DOSSIER/ QUALE FUTURO PER I GIOVANI
Gli studenti saranno manager di se stessi Cresce la richiesta di giovani laureati e specializzati Ma dovranno gestire un’esplosione di iniziative IRENE TINAGLI Il 2010 non è stato un buon anno per i giovani, con la disoccupazione giovanile che ha toccato picchi del 27% e un generale clima di sfiducia tramutatosi in proteste. Tuttavia è possibile captare qualche segnale positivo che aiuti a sfruttare al meglio le opportunità, che non capitano proprio a casaccio ma - come diceva Louis Pasteur - favoriscono le menti preparate. Dunque, è bene prepararsi, a partire dagli studi. Nonostante in questi ultimi anni in Italia si parli tanto dell’inutilità della laurea, segnali recenti ci dicono invece che abbandonare gli studi non è una scelta vincente. Nonostante l’occupazione sia ancora in calo, la domanda di lavoro altamente qualificato è in espansione. Il problema è: quali studi? In preparazione per cosa? Stando alle previsioni Unioncamere, le opportunità maggiori si concentrano sulle figure tecnico-scientifiche nei settori chimico, farmaceutico, assicurazioni e servizi finanziari, informatica e servizi avanzati alle imprese. Ma la vera opportunità e sfida per i giovani sarà soprattutto rafforzare la loro capacità economico-imprenditoriale, da affiancare a qualsiasi tipo di specializzazione, scientifica o umanistica, tecnica o artistica. La capacità di organizzare e gestire risorse, di sviluppare e realizzare nuove idee sarà sempre più cruciale, perché le organizzazioni di ogni genere hanno sempre più bisogno di persone capaci di gestire processi complessi, di catalizzare e gestire risorse. Persino nel settore sociale, artistico e culturale le capacità economiche ed imprenditoriali sono fondamentali, perché tutto il settore sta attraversando una fase di grande trasformazione: prorompente crescita (provate ad andare a Berlino o a Londra per farvi un’idea...), ma profonda riorganizzazione, con la riduzione di forme tradizionali finanziate dal pubblico ed un’esplosione di iniziative private e innovative. Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi anni è la diffusione della cosiddetta «imprenditoria sociale». Organizzazioni che operano come privati, ma che si pongono obiettivi di utilità sociale, di mobilitazione civile, di solidarietà attiva. Organizzazioni che operano su scala globale come avaaz.org, la rete di mobilitazione civile che in meno di tre anni ha creato un network di oltre sei milioni di attivisti nel mondo (e una capacità di fund raising imponente), o come ashoka.org, che raccoglie fondi per supportare iniziative di imprenditoria sociale. Anche nei settori artistici e culturali così come in quelli più tradizionali legati alla manifattura e al made in Italy cresce lo spazio per organizzazioni capaci di legare nuove tendenze e tecnologie e di competere a livello internazionale. Non bastano però buona volontà, passione civile o creatività artigiana. Sono necessarie idee solide e competenze manageriali, relazionali, informatiche, finanziarie di altissimo livello, ancora prima dell’accesso ai capitali. Nonostante i luoghi comuni, infatti, le opportunità finanziarie internazionali non sono a zero: i «venture capital» internazionali sono ripartiti dopo la fase acuta della crisi e molte banche hanno più liquidità di prima, vista la maggiore avversione al rischio e propensione al risparmio di tante famiglie in tempo di crisi. È partita quindi la caccia al prossimo grande fenomeno tecnologico e commerciale su cui scommettere. Per questo negli ultimi anni si sono moltiplicate fondazioni e iniziative volte a promuovere e supportare l’imprenditorialità a 360 gradi, da quella tecnologica a quella sociale, attraverso laboratori, incontri, incubatori, bar camp, fondi speciali e concorsi di idee. Qualche opportunità, insomma, c’è. La vera sfida però è avere buone idee e le competenze per svilupparle nel mondo iper-competitivo e globale di oggi. Queste si sviluppano attraverso corsi e approfondimenti universitari (un numero crescente di business school europee stanno raffinando la loro offerta, ispirandosi alle università californiane tradizionalmente più attive sul fronte della formazione imprenditoriale), ma anche attraverso percorsi meno ortodossi che aiutano a legare saperi teorici e pratici, a misurarsi con sfide reali. E quindi diventano sempre più importanti viaggi, esperienze all’estero, di studio, lavoro e anche di impegno sociale. Non è un caso se negli Stati Uniti sono esplosi programmi come «Teach for America», dove i giovani laureati delle migliori università lavorano come insegnanti per due anni nelle scuole più disagiate. Lì imparano a gestire situazioni difficili e a misurare il cambiamento. È ciò di cui ci sarà molto bisogno nei prossimi anni: imparare non solo ad adeguarsi al cambiamento, ma a guidarlo, plasmarlo e girarlo a vantaggio della società, unendo tecnologia e umanesimo, efficienza e solidarietà. Un bisogno particolarmente urgente nel nostro Paese, dove l’unione tra le grandi tradizioni artigiane, creative e solidaristiche con le nuove tecnologie, competenze e prospettive internazionali potrebbe aprire scenari di crescita. Tirare fuori la grinta e la vena imprenditoriale non sarà facile per i giovani italiani, schiacciati da un sistema formativo ancora convinto di dover sfornare grandi pensatori o eccellenti funzionari, e da famiglie formatesi negli Anni Settanta e Ottanta, in piena espansione del settore pubblico, abituate al posto fisso e avverse al rischio. Riuscire a smarcarsi dall’influenza dei «grandi vecchi» sarà per loro l’unico modo per dispiegare energie e aprire nuove strade. http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201012articoli/61719girata.asp Titolo: IRENE TINAGLI Ai ragazzi diciamo solo arrangiatevi Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 03:12:44 pm 8/1/2011
Ai ragazzi diciamo solo arrangiatevi IRENE TINAGLI Ancora una volta potrà dire «l’avevo detto». Due giorni fa il ministro Tremonti metteva in guardia contro facili ottimismi sulla fine della crisi, e ieri i dati Istat sull’occupazione confermano un quadro tutt’altro che positivo. Non accenna a diminuire la disoccupazione complessiva, restando inchiodata all’8,7%, il dato più alto dal 2004, e riprende a salire quella giovanile, che arriva al 28,9%. Certamente questi dati non vanno letti isolatamente, ma assieme a quelli che, per esempio, indicano come anche l’occupazione sia parallelamente cresciuta (+0,1% rispetto a novembre) e a quelli che indicano che un maggior numero di persone si è rimesso attivamente alla ricerca di un lavoro, andando a ingrossare le statistiche sulla disoccupazione. Ma cercare di nascondersi dietro uno zero virgola in più porta all’unico risultato di non affrontare un problema strutturale e molto grave del nostro Paese, ovvero l’incapacità di crescere (da questo punto di vista i dati sull’occupazione andrebbero letti assieme a quelli del Pil, che stenta a ripartire, e a quelli della produttività, ancora ferma) e, problema ancor più grave, l’incapacità di coinvolgere le giovani generazioni nel tessuto economico e produttivo del Paese. Nonostante continui a essere ignorata e sminuita dal nostro governo, la questione della disoccupazione giovanile in Italia è ormai da tempo un problema di assoluta gravità, che mortifica l’entusiasmo di milioni di giovani e delle loro famiglie e che frena la ripresa economica del Paese. Un problema al quale nessuno in Italia è stato capace di dare una risposta concreta. Uno scenario politico senza idee, diviso tra chi ha fatto leva sul disagio dei giovani semplicemente per cercare di indebolire il governo (compensando così un difetto dell’opposizione), e chi invece, all’interno del governo, ha liquidato la questione con dichiarazioni tanto incredibili quanto poco costruttive. Come l’ultima del ministro Sacconi, che durante le feste natalizie ha rimarcato come la disoccupazione giovanile sia colpa di cattivi genitori che li spingono a studiare e laurearsi quando invece potrebbero imparare un mestiere e adattarsi meglio alle esigenze del mercato. Chissà se è venuto in mente al ministro che il mercato del lavoro è anche frutto delle politiche economiche e sociali che un Paese persegue. E che è il governo di un Paese che dovrebbe mirare ad adattare il proprio sistema economico e sociale alle dinamiche internazionali in modo da tenerlo competitivo, non i giovani che devono adattarsi al declino del Paese e all’incapacità dei politici di rimetterlo in moto. No, non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti o falegnami rimasti che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile, ma intervenendo in maniera più incisiva sia su una effettiva riforma del mercato del lavoro (in modo da eliminarne la dualità che oggi marginalizza milioni di giovani), sia su politiche economiche lungimiranti. Politiche di sviluppo orientate a far sì che in Italia arrivino o nascano nuove imprese, in particolare imprese innovative, ad alta vocazione internazionale, capaci di far emergere nuovi settori e generare nuova occupazione. Certo, non sono interventi semplici, soprattutto in tempi di crisi, e anche altri Paesi hanno mostrato di fare degli errori di fronte alla crisi e di non riuscire sempre a ottenere i risultati sperati. Ma le cose si muovono, e sono pochi quelli che restano fermi. Dopo aver investito gran parte di inizio mandato a riformare aspetti importanti del sistema di protezione sociale americano, Obama è passato a più aggressive misure di sviluppo, varando nel corso del 2010 un consistente pacchetto di incentivi alle imprese per supportare le nuove assunzioni e nuovi investimenti, con paralleli tagli alle tasse, per un totale di 150 miliardi di dollari. Sarà un caso, ma negli ultimi mesi l’occupazione negli Stati Uniti ha registrato continui miglioramenti. Proprio ieri i dati hanno indicato la creazione di oltre 100.000 posti di lavoro nel mese di dicembre - meno di quanto era stato precedentemente stimato, ma comunque un dato positivo soprattutto se lo si somma ai posti che erano stati creati a ottobre e novembre (210.000 e 71.000), nettamente al di sopra delle aspettative. La Germania, a sua volta, pur cercando di contenere il deficit con uno dei tagli di spesa del settore pubblico più pesanti dal dopoguerra, ha rilanciato il proprio sistema produttivo investendo in ricerca e sviluppo, negoziando con le imprese migliaia di posti di formazione per i giovani, orientando molti incentivi economici verso nuovi settori e le «industrie creative e culturali» (alla faccia di chi pensava che i tedeschi fossero solo interessati a costruire la propria potenza su macchinari e tecnologie), e finanziando numerose attività di supporto per le imprese orientate all’esportazione. Il programma tedesco «Hermes», che offre garanzie di credito alle imprese esportatrici, nel 2009 ha emesso garanzie per 22,4 miliardi di euro, un record storico per la Germania. Una politica i cui risultati sono, fino a oggi, sotto gli occhi di tutti. In Italia oggi molti politici litigheranno su come leggere gli ultimi dati, ma se si avesse il coraggio di ammettere il fallimento di una politica che lascia quasi un terzo dei propri giovani senza lavoro e senza prospettive, e se si avesse davvero la forza di attivare politiche di sviluppo utili, e non solo predire o minimizzare disgrazie, forse un giorno potremmo dire a questi giovani qualcosa di più emozionante e utile di un semplice «arrangiatevi». http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8269&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Ma noi siamo donne o bambole? Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2011, 06:00:54 pm 25/1/2011
Ma noi siamo donne o bambole? IRENE TINAGLI Molte donne in questi giorni si stanno interrogando sul loro ruolo nella società italiana, come è accaduto ogni volta che, in questi ultimi anni, qualche scandalo sessuale ha scosso il mondo della politica. Eppure la questione del ruolo femminile in Italia ha radici più profonde e diffuse di quanto emerga dalle ultime vicende di cronaca e va ben oltre i confini di Arcore o di via Olgettina. Se l'ennesimo scandalo che coinvolge il premier serve a riaprire il dibattito su un tema così importante, va bene, ma se vogliamo davvero cogliere l'occasione per una riflessione approfondita, non possiamo fermarci lì. Forse val la pena ricordare alcuni dati resi noti pochi giorni fa dall'Istat e passati quasi sotto silenzio: in Italia una donna su due non lavora e non cerca lavoro. Donne semplicemente «inattive». Si tratta di un tasso di inattività che supera quello di tutti gli altri 26 Paesi europei (con l'esclusione di Malta, se questo può consolare). Specularmente, le donne «attive» sono il 46,3%, un dato che fa vergognare di fronte al 66,2% della Germania, al 60% della Francia, per non parlare del 71,5% dei Paesi Bassi. Perché le donne in Italia non si mettono nemmeno alla prova? Preferiscono veramente altre strade di realizzazione personale (maternità e famiglia, per esempio) o rinunciano a priori perché consapevoli di un Paese in cui i loro sforzi e i loro sacrifici non verranno riconosciuti e non incontreranno gratificazioni né nel settore pubblico né in quello privato? L'ultimo rapporto del World Economic Forum sulla parità di genere nel mondo del lavoro e delle imprese ci pone al 74° posto, dopo Malawi, Ghana e Tanzania, per fare alcuni esempi. A far scendere il nostro Paese nella classifica è soprattutto la scarsa performance sul fronte delle opportunità di lavoro e di carriera. Una difficoltà legata, secondo i risultati dell'indagine, ad una carenza di servizi di supporto (come gli asili), ma anche alla mancanza di modelli femminili di riferimento e ad un clima generale molto maschilista. E dove potrebbero trovare questi modelli le donne italiane? Tranne alcune recenti eccezioni che iniziano a farsi strada in importanti istituzioni di rappresentanza (Marcegaglia e Camusso), il mondo politico non offre certo grandi esempi. Nonostante il governo possa contare sulla presenza di alcune donne, è indiscutibile che i ruoli chiave della politica italiana restano saldamente in mano a uomini, tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra. La lotta di successione in entrambe le coalizioni ha sempre visto e continua a vedere uomini come protagonisti. Nel centrodestra si sono via via fronteggiati Fini, Bossi, Tremonti, con saltuarie incursioni di Sacconi e Brunetta; al centro Casini, Rutelli raggiunti ora da Fini; identica cosa nel centrosinistra: Veltroni, D'Alema, Bersani, Franceschini, Vendola. Neppure tra i nomi dei giovani emergenti troviamo delle donne. In pole position ci sono Renzi e Zingaretti. Dove sono le donne? Nel centrodestra sono a far quadrato attorno al premier. Nel centrosinistra hanno appena dato avvio ad una campagna di protesta dal titolo «non siamo bambole». Una polemica che, all'indomani del Lingotto 2, in cui gli invitati a parlare erano esclusivamente uomini, poteva sembrare diretta agli stessi leader del centrosinistra, ma che risulta invece diretta al premier. Ma cosa cambierà davvero per le donne italiane una volta che questo presidente del Consiglio non calcherà più, per motivi legali, politici o semplicemente biologici, la scena politica? A quali leadership innovative ed illuminate potranno guardare le donne per cercare supporto, identificazione, attenzione, rispetto e, soprattutto, opportunità di crescita per loro stesse e per il Paese? A guardare bene viene anche da chiedersi se le donne stesse siano pronte. Pronte non solo e non tanto a dichiararsi «esseri pensanti» invece di bambole, come facevano le suffragette di un secolo fa, ma pronte ad assumersi vere responsabilità di leadership. E soprattutto pronte a smarcarsi dall'ala protettrice dei loro mentori, a uscire dall'ombra, a sentirsi responsabili e artefici del loro successo e non eternamente grate a chi ha dato loro una opportunità come se non fosse meritata. Come se la gratitudine la si dimostrasse con la sottomissione e non con l'assunzione della piena responsabilità del proprio ruolo ed il semplice svolgimento del proprio lavoro. Ma qua si entra in un terreno che travalica la mera questione femminile e che chiama in causa un cambiamento culturale che non riguarda solo le donne, ma un Paese intero. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8331&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI. 8 marzo, le donne crescono Inserito da: Admin - Marzo 06, 2011, 11:38:56 am 6/3/2011
8 marzo, le donne crescono IRENE TINAGLI Per quest’anno si prevede un 8 Marzo meno stucchevole e più pragmatico del solito. Un otto marzo che vede rianimato un dibattito sul ruolo della donna nella società che si era un po’ affievolito negli anni scorsi, e che comincia a ragionare in termini di azioni concrete, in Italia e altrove. Per una serie di coincidenze, infatti, nelle ultime settimane il dibattito sull’emancipazione femminile si è riacceso non solo a casa nostra (a seguito della manifestazione del 13 Febbraio e delle legge sulle quote rosa nei consigli di amministrazione che sta per essere approvata in Parlamento), ma anche in molti Paesi esteri. Negli Stati Uniti, grazie anche ad un rapporto commissionato dall’amministrazione Obama da cui emerge un consistente divario salariale tra donne e uomini, si è riaperto il dibattito sul Paycheck Fairness Act, una legge che potenzierebbe gli strumenti per combattere il gap salariale e che, approvata da tempo dalla House of Representatives, attende ora l’approvazione al Senato. In Inghilterra Lord Davies, ex banchiere ed ex ministro per il Commercio e gli Investimenti, ha recentemente riaperto la questione femminile dichiarando che le società quotate a Londra dovrebbero raddoppiare entro il 2015 la presenza femminile nei loro consigli di amministrazione, passando dall’attuale 12.5% ad almeno il 25%. E in Germania la Merkel, di fronte al continuo ritardo del mondo finanziario ed imprenditoriale tedesco (solo il 2.2% dei consigli di amministrazione delle prime 30 aziende quotate in borsa è rappresentato da donne), ha minacciato di introdurre quote rosa del 40% per tutte le aziende più grandi, scatenando un putiferio. Una presa di posizione che ricalca quella della Commissaria Europea Viviane Reding che poche settimane fa a Davos ha lanciato la proposta di applicare quote rosa ai consigli di amministrazione delle maggiori 500 imprese europee. D’altronde sono già numerosi i Paesi Europei che hanno adottato misure simili (Norvegia, Spagna, Islanda, e, da poco, Francia). E, nonostante le perplessità e le polemiche iniziali, la loro introduzione si è rivelata molto efficace. In Norvegia la quota di donne nei consigli di amministrazione è passata dal 25% del 2004 al 42% del 2009, e in Spagna dal 4% del 2006 al 10% del 2010. E non sembra aver danneggiato in alcun modo le imprese (d’altronde creare delle soglie minime di presenza non impedisce di sollevare da un incarico e sostituire una donna che non si dimostri all’altezza). Anche numerosi esperti ed economisti, che in passato avevano sollevato riserve verso qualsiasi tipo di restrizione alle scelte «libere» del mercato, si stanno ricredendo dopo aver osservato che l’esclusione delle donne da posizioni di responsabilità non è legata a differenze nella distribuzione del «talento» nella popolazione femminile, ma ad aspettative pregiudiziali del datore di lavoro sulla loro futura disponibilità di tempo e dedizione. Questi «pregiudizi» non solo precludono opportunità di crescita alle donne, ma ne demotivano l’impegno e le spingono indirettamente a lavorare di meno, alimentando quindi un circolo vizioso di inefficienze individuali e collettive. E’ noto infatti che un più elevato tasso di attività femminile si traduce in maggior stabilità economica delle famiglie e maggior crescita economica per il Paese. Non solo, ma come dimostra uno studio della società di consulenza McKinsey, le aziende con più donne nei consigli di amministrazione hanno una migliore gestione del rischio, più efficaci attività di controllo e, in media, un reddito operativo che supera del 56% quello delle aziende con consigli di amministrazione solo maschili. Ecco, questo è il contesto in cui si celebra questo 8 marzo 2011. Un dibattito i cui contorni ideologici si sono forse un po’ indeboliti, ma in cui si sono inseriti elementi molto concreti, con contributi di esperti, economisti, ragionando su azioni politiche e disegni di legge. Un approccio che certo non può sostituirsi al lavoro profondo e culturale che ogni individuo, famiglia e associazione civile dovrà condurre in seno alla società per combattere quotidianamente stereotipi e ingiustizie, ma che rappresenta comunque un passo avanti per le donne e per la crescita del Paese. Un passo avanti perché chiama in causa non solo la buona volontà dei singoli, ma l’impegno delle politiche pubbliche, il cui compito è quello di generare opportunità di crescita per i propri cittadini e rimuovere ogni ostacolo basato su pregiudizi e discriminazioni. In fondo, pensare a delle politiche che diano alle donne opportunità di realizzazione che non passino necessariamente ed esclusivamente attraverso il matrimonio o la maternità, ma anche attraverso la propria ambizione personale ed il proprio lavoro è una questione che va oltre il concetto di femminismo e o di efficienza economica, è questione di civiltà. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: IRENE TINAGLI Studiare è più utile che mai Inserito da: Admin - Marzo 09, 2011, 06:42:14 pm 9/3/2011
Studiare è più utile che mai IRENE TINAGLI E' già abbastanza difficile essere giovani e prendere decisioni sul proprio futuro. Lo è ancora di più in contesti in cui si ricevono informazioni confuse, superficiali, o addirittura sbagliate. Questo è, purtroppo, il contesto in cui vivono e devono prendere decisioni i giovani italiani. Un contesto incapace di guidarli ed informarli adeguatamente: solo così si spiega il significativo calo delle iscrizioni all’Università segnalato dagli ultimi dati Almalaurea. No, non è la crisi il motivo di tale rinuncia. Normalmente in tempi di crisi si osserva il comportamento opposto: considerata la difficoltà di entrare nel mercato del lavoro molti preferiscono tenersi fuori ed investire in istruzione e competenze per rientrare poi, freschi di formazione, in un mercato del lavoro in ripresa. Ed è, infatti, quello che si è osservato negli Stati Uniti, dove il 2009 ha visto un record storico di diplomati iscritti all’Università (oltre il 70%), un boom che denota una voglia di investire in se stessi in attesa di tempi migliori. In Italia no. In Italia i giovani non hanno fiducia né nella ripresa né nel valore di investire in se stessi. E non ce l’hanno perché i primi a non avercela sono i loro genitori, i loro maestri e i loro governanti. Tutte quelle persone che ormai da tempo continuano a dire che tanto studiare non serve. Che è meglio essere umili, accontentarsi magari di terminare la scuola dell’obbligo e imparare un mestiere. Un diploma è già abbastanza. Nessuno ha detto a questi giovani che la probabilità di restare disoccupati senza un titolo di studio superiore è il doppio che in presenza di un titolo. Certo, nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione nel primo anno dopo la laurea è aumentato dal 15 al 16%. Ma questo dato è la metà del tasso medio di disoccupazione giovanile in Italia. Senza contare che, comunque, a cinque anni dalla laurea l’80% dei laureati ha un lavoro stabile, mentre chi è senza istruzione tende a cumulare precarietà. E nessuno dice ai giovani che, anche in presenza di un titolo, c’è un’enorme differenza di prospettive tra un diploma e una laurea. Dati Istat indicano che nell’arco della vita lavorativa i laureati hanno un tasso di occupazione di oltre 11 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (77% contro 66%). Non solo, guardando al lungo periodo i laureati hanno retribuzioni che in media sono superiori del 55% rispetto a quelle dei diplomati. Un gap che chiaramente si accumula con il tempo e che si reduce tra i più giovani. Ma anche nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni la retribuzione dei laureati supera del 30% quella dei diplomati. E’ sciocco quindi consigliare ai giovani di non andare all’università perché i salari di ingresso sono analoghi tra laureati e diplomati. Un salario di ingresso dura un anno, ma una vita professionale ne dura minimo 30. E l’effetto dell’istruzione nell’arco di questi 30 anni è enorme. E’ vero, il mito della laurea che appena conseguita ti garantisce il posto fisso e ben pagato è andato sgretolandosi - in Italia come in molti altri Paesi -, così come è vero che i nostri laureati rispetto ai loro genitori hanno una vita più difficile, ma il valore dell’istruzione resta comunque indiscusso anche per le nuove generazioni. Anzi, in un mondo sempre più qualificato studiare è più necesario che mai. E la vera scommessa per qualsiasi Paese che abbia la voglia e la forza di guardare al futuro non è istigare i giovani a deporre le armi ai primi segnali di incertezza che trovano agli inizi di carriera, ma al contrario adoperarsi ed investire per aiutarli ad orientarsi, per dargli il coraggio di guardare avanti. Perché se questi ragazzi rinunciano ad investire in se stessi a farne le spese non sarà solo il loro futuro, ma quello di tutti noi. Come pensiamo noi di riqualificare e rilanciare il nostro sistema economico e produttivo con una forza lavoro che anziché qualificarsi si dequalifica? Come pensiamo noi di sopravvivere in un mondo in cui anche la competitività di Paesi emergenti come Cina e India è sempre più trainata da scienza, cultura e tecnologia quando non riusciamo a far laureare nemmeno il 20% dei nostri giovani? Il quadro che emerge dal continuo calo di iscrizioni universitarie è scoraggiante. E’ il quadro di una generazione senza direzione, senza guida, senza fiducia nel futuro. Un tratto che non è tipico dei giovani, ma che è frutto di un Paese che ha perso il senso stesso della parola futuro, identificata ormai delle sue stesse classi dirigenti con la prossima tornata elettorale e con la fine o meno del proprio mandato. Ma questi giovani hanno tutta la vita davanti. Diamogli un motivo per affrontarla a testa alta, con grinta e determinazione. La loro rinuncia è una sconfitta per tutti noi. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: IRENE TINAGLI Per chi suona la campana portoghese Inserito da: Admin - Marzo 26, 2011, 11:54:54 am 26/3/2011
Per chi suona la campana portoghese IRENE TINAGLI In mezzo ai drammatici eventi che ci vengono offerti dalla cronaca estera la crisi economica e politica del Portogallo può apparire secondaria, liquidata, come è stato fatto con Irlanda e Grecia, con il solito mantra secondo cui il nostro sistema bancario e fiscale è più solido del loro e che non abbiamo niente da temere. E’ un errore. Il caso del Portogallo ha delle peculiarità che lo distinguono dall’Irlanda e che lo avvicinano a noi più di quanto pensiamo. E riflettere sulla situazione portoghese potrebbe darci spunti molto utili. Il Portogallo infatti non ha visto grosse crisi del sistema bancario legate all’esplosione di bolle speculative come è successo in Irlanda o in Spagna, per esempio. Persino il calo del Pil dovuto alla crisi è stato meno pesante che in altri Paesi europei: nel 2009 il Pil portoghese è sceso del 2,5% contro il -5,2% dell’Italia, il -4,7% della Germania e il -4,9% dell’Inghilterra. Non è stato un crollo improvviso e repentino, ma una lenta agonia legata essenzialmente a un’economia che da oltre un decennio è incapace di crescere e di riqualificarsi, di passare da produzioni tradizionali sempre meno competitive di fronte ai Paesi asiatici a produzioni più moderne, diversificate e ad alto rendimento. Negli ultimi dieci anni il Pil portoghese è cresciuto a una media annua dello 0,7%, molto inferiore alla media europea. Una dinamica che ha condannato il Portogallo a essere il Paese più povero tra le economie occidentali e ad accumulare piano piano debito su debito. Perché nonostante tendiamo ad associare il debito pubblico esclusivamente a questioni di tasse e spese, la capacita di far fronte al debito è legata in egual maniera alla crescita economica. Infatti, così come la possibilità di un individuo di pagare un mutuo non dipende solo da quanto risparmia ma da quanto reddito produce, lo stesso vale per il debito di un Paese: più il Paese cresce e meno il debito pesa. Una logica elementare che però molti sembrano scordare. Come sembrano scordare che la capacità di crescita economica di un Paese dipende in modo determinante dalla qualità della sua forza lavoro, dalle sue competenze, i suoi saperi e la sua produttività - fattori a loro volta indissolubilmente legati all’istruzione. E’ qui, in questo nodo tra istruzione, qualificazione della forza lavoro e capacità di crescita economica che si è arenato il Portogallo. Nonostante i tentativi di riforma degli ultimi anni, soprattutto sul fronte universitario, la sua forza lavoro resta tra le meno qualificate dei Paesi Ocse (solo il 14% è in possesso di un titolo di laurea e, dato ancora più preoccupante, sono pochi anche quelli in possesso di un diploma superiore: solo il 28%) e il tasso di abbandono scolastico è al 37% (contro una media europea del 16,6%). Con questa scarsa preparazione il Portogallo ha ben poche possibilità di rimettersi in moto e riqualificare la propria economia, come hanno notato anche numerosi osservatori stranieri, dall’Economist al Wall Street Journal. Proprio per queste caratteristiche «strutturali» quella portoghese è una situazione difficile, a cui l’Italia dovrebbe guardare con molta attenzione, perché assai vicina a quella che lei stessa si trova ad affrontare. Tranne il dato sull’abbandono scolastico, che per fortuna in Italia è meno della metà di quello portoghese, su tutti gli altri indicatori i due Paesi mostrano preoccupanti similitudini. Se prendiamo i dati sui tassi di crescita economica citati precedentemente, ci accorgiamo che c’è solo un Paese che ha fatto peggio del Portogallo in questi dieci anni: l’Italia, appunto. La percentuale della forza lavoro tra i 25 e i 64 anni in possesso di un titolo di laurea è la stessa in entrambi i Paesi (14%), e se guardiamo l’andamento di questo dato nella fascia di età tra i 24 e i 35 anni l’Italia fa anche peggio del Portogallo stesso: solo il 20% dei nostri giovani ne è in possesso contro il 23% dei portoghesi. In molte circostanze l’Italia ha dimostrato di non essere capace di analizzare con lucidità la propria situazione e di imparare dai propri errori. Ma imparare dagli errori degli altri a volte è più semplice che guardarsi dentro, e l’attuale crisi portoghese potrebbe essere un’ottima occasione per fare riflessioni importanti anche sul nostro futuro. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: IRENE TINAGLI Ora le donne conquistano le dot-com Inserito da: Admin - Aprile 03, 2011, 10:45:25 am Costume
03/04/2011 - ANALISI Ora le donne conquistano le dot-com Da Google a Facebook, dai chip al biotech arriva la generazione delle leader in rosa IRENE TINAGLI SAN JOSE' Semiconduttori, fisica, ingegneria informatica ed elettronica: i settori sui quali è nata e cresciuta la Silicon Valley non sono certo domini femminili. E infatti se si guarda ai fondatori delle più note aziende, sono quasi tutti uomini. Eppure, qualcosa sta cambiando. Molte donne si stanno facendo strada nel top management delle aziende di maggior successo e si stanno affermando tra le figure più autorevoli della Silicon Valley. Safra Catz (49 anni) presidente di Oracle già dal 2004, è senza dubbio tra le più potenti, seguita da Carol Bartz (62), amministratore delegato di Yahoo, e da Ann Livermore (52), vice presidente esecutivo di Hewlett-Packard (azienda avvezza alla leadership femminile, guidata per anni dalla potentissima Carly Fiorina). Tra le donne più giovani e in più rapida ascesa sono da citare Sheryl Sandberg, tostissima quarantunenne alla guida di tutte le operation di Facebook, e Marissa Mayer, 35 anni, vicepresidente di Google per le applicazioni geografiche e una delle più papabili pretendenti alla futura leadership dell’azienda di Mountain View. Ma le donne della Silicon Valley oggi non si limitano ad essere manager di aziende fondate da altri, tra le generazioni di trenta-quarantenni iniziano ad emergere anche interessanti imprenditrici. Come Anne Wojcicki, biologa trentasettenne che cinque anni fa ha fondato «23andme», società di biotecnologie supportata anche da Genentech, o come Gina Bianchini, che nel 2005, a 33 anni, ha fondato la piattaforma di social network Ning, o ancora Ann Miura-Ko, 34 anni con in tasca un PhD in modelli quantitativi per la sicurezza informatica, professoressa a Stanford, e ora co-fondatrice del fondo di investimenti Floodgate, che sta investendo in startup come Twitter, Gowalla, Formspring e altre promettenti iniziative imprenditoriali. Insomma, il futuro della regione sarà sempre più declinato al femminile: anche in questo la Silicon Valley sta dimostrando una interessante capacità di trasformazione. da - lastampa.it/costume/sezioni/ Titolo: IRENE TINAGLI Madrid-Barcellona, il sorpasso Inserito da: Admin - Aprile 15, 2011, 04:29:43 pm 15/4/2011
Madrid-Barcellona, il sorpasso IRENE TINAGLI Ogni volta che Madrid e Barcellona si confrontano sul campo di calcio, la Spagna è in tensione. Una tensione che va oltre quella tipica dei derby calcistici, e che incarna una rivalità profonda, che tocca aspetti culturali, economici e politici. Noi italiani sappiamo bene quanto possano essere forti e radicati certi campanilismi, ma la rivalità tra Madrid e Barcellona ha dei tratti particolari. Innanzitutto perché va oltre la competizione tra due città e prende quasi le forme di una contrapposizione tra due culture. Lo spirito e le tradizioni «iberiche» da una parte, intrise d’arte, cultura e passione, e quello più pragmatico catalano dall’altro, con la sua vocazione più produttiva e commerciale. E poi perché si tratta di una rivalità che anziché attenuarsi col tempo, è andata al contrario acuendosi. Forti della loro superiorità economica e produttiva, i catalani sono stati sempre considerati la locomotiva spagnola e sono diventati sempre più sicuri di poter fare a meno del resto della Spagna, con le sue sacche di povertà, inefficienza e arretratezza. E queste spinte autonomiste sono cresciute fino a portare a scelte che hanno lasciato perplessi molti spagnoli (e non solo) come l’imposizione del catalano come lingua ufficiale nelle scuole e negli uffici pubblici, o la recente creazione di «ambasciate catalane» in giro per il mondo. La rivalità si è tinta però di nuove tensioni da quando la città di Madrid ha cominciato a recuperare terreno sul fronte dello sviluppo economico, sociale ed infrastrutturale. Una rinascita sempre più tangibile, che ha preso corpo nella ristrutturazione di splendidi edifici classici, nell’apertura o nel rilancio di musei, gallerie, così come nella realizzazione di una metropolitana capillare ed efficientissima, giudicata tra la migliori d’Europa, e nel forte potenziamento dell’aeroporto, con l’inaugurazione dell’ambizioso (e bellissimo) nuovo terminale disegnato da Richard Rogers, uno dei terminali più grandi del mondo. Già questo sarebbe bastato a far irritare i catalani, che invece negli ultimi anni hanno visto progressivamente deteriorarsi le loro infrastrutture. E’ facile quindi immaginare l’effetto che ha avuto poi la crisi economica del 2008, che ha colpito il tessuto produttivo catalano molto più di quello di Madrid, più diversificato e terziarizzato, e che ha portato, nell’autunno scorso al «sorpasso» dell’economia madrilena rispetto a quella catalana. Oggi i cittadini della capitale non solo godono di una città splendida e rinnovata, ma hanno un potere d’acquisto più alto e contribuiscono all’economia nazionale più dei catalani. Anziché vivere questi cambiamenti come un avvertimento di quanto sia importante restare vicini a una Madrid che non è più un pezzo di antiquariato come hanno pensato per decenni, i catalani hanno visto questo ribaltamento di pesi e di ruoli come un tradimento, un segnale di abbandono da parte del governo centrale (a poco è valsa l’inaugurazione del nuovo terminale dell’aeroporto di Barcellona dell’anno scorso). E si sono ulteriormente incattiviti e allontanati dalla Spagna. Tanto che alle ultime elezioni amministrative catalane, tenutesi lo scorso Novembre, «Convergencia i unio», il partito della borghesia imprenditoriale nazionalista catalana, è letteralmente esploso, conquistando il 38,4% dei voti e portando a casa e 62 seggi, contro i 28 del partito socialista catalano. Può sembrare strano che un’ostilità che ha ormai connotazioni molto politiche, legate più al rapporto tra Catalogna e il governo spagnolo che non tra le due città in sé, possa influenzare così tanto il clima di un incontro calcistico e caricarlo di significato simbolico, ma è proprio così. E’ accaduto con tutti gli incontri più recenti tra le due squadre, e non solo. Basta ripensare alla finale dei mondiali del luglio scorso. Mentre al fischio finale che decretava la Spagna campione del mondo ogni singolo angolo di Madrid esplose, nei quartieri residenziali di Barcellona, quelli della vera borghesia catalana, calò un silenzio surreale, da far venire i brividi. E’ questo che rende così carichi i prossimi incontri tra il Real Madrid e il Barca, soprattutto per i catalani: la sensazione che non sia tanto una partita tra la loro città e la capitale, ma tra loro e il resto di Spagna. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: IRENE TINAGLI Precari, quanti tutori non richiesti Inserito da: Admin - Aprile 17, 2011, 05:10:52 pm 17/4/2011
Precari, quanti tutori non richiesti IRENE TINAGLI Non c’è dubbio che il tema della precarietà e dei giovani sia ormai diventato centrale nel dibattito pubblico. Una centralità che si nota non solo dalla quantità di persone che ogni volta si mobilitano attorno ad esso, ma da come personaggi politici, amministratori o sindacalisti abbiano ormai incorporato questo tema nei loro discorsi e siano diventati molto abili a dare voce a quel senso di smarrimento e paura che serpeggia tra milioni di persone. Da Tremonti a Vendola, non ce n’è uno che non inveisca contro il dramma della società precaria, delle minacce che ci «mangiano il futuro» e che non approfitti di piazze e palcoscenici per rievocare paure e scagliarsi contro tutti i nemici dei giovani e dei precari. Accuse appassionate e confuse, che coinvolgono alla stessa maniera Berlusconi e la Cina, la Gelmini e Lele Mora, la globalizzazione e l’immigrazione in una sorta di teoria del complotto globale che ci condanna tutti ad essere vittime senza scampo. Visioni apocalittiche che strappano facilmente applausi, ma che lasciano molti interrogativi su quale idea di futuro disegnino per i nostri giovani. In effetti, ascoltando i discorsi dei politici che si cimentano con questo tema, ci accorgiamo che ciò che evocano e che propongono non contiene nessuna idea di futuro, ma solo di passato. A forza di cavalcare l’onda del «si stava meglio prima», molti hanno finito per convincersi che l’unica risposta ai cambiamenti globali sia tornare a trent’anni fa. Ovvero tornare alla lotta di classe, alle ideologie, allo Stato imprenditore, ai baracconi statali, al posto a vita per tutti, e cosi via. Un ritorno al passato che ha mietuto vittime tra personaggi illustri ed autorevoli tanto a destra quanto a sinistra: ministri, segretari di partito e di sindacati. Ma perché in così tanti sono caduti in questo ripiegamento nostalgico? In parte per naturale istinto di autoconservazione. Gli stravolgimenti degli ultimi tempi certamente mettono in discussione il ruolo delle politiche pubbliche, dello Stato, dei partiti, dei sindacati. E il terrore delle persone che operano in questi ambiti è proprio un ripensamento di modelli che possa indebolire il loro ruolo. E quindi non stupisce che il ministro dell’Economia accarezzi l’idea di intervenire in modo sempre più diretto nell’attività produttiva del Paese, così come i segretari di alcuni sindacati rivendichino con più veemenza di prima l’intoccabilità di tutto ciò che giustifica la loro esistenza. In parte perché pur avendo capito e saputo dar voce a certe paure, fanno fatica a comprendere la molteplicità dei bisogni delle nuove generazioni e i cambiamenti sociali e culturali che il mondo sta attraversando. Lo smarrimento che milioni di giovani avvertono, in Italia come altrove, non è solo legato al timore di restare senza pensione o alla nostalgia di garanzie che loro stessi non hanno mai conosciuto. È un disagio che nasce anche da una voglia di costruire qualcosa di nuovo, qualcosa che assomigli più a loro e non ai loro genitori o nonni, qualcosa più in sintonia con ciò che avviene nel resto del mondo e che loro conoscono e odorano assai meglio di noi. In altre parole, tanti di questi ragazzi non vogliono una vecchia gabbia arrugginita che li intrappoli, ma una rete che li aiuti a non fracassarsi quando provano a volare. Certo, se l’alternativa alla gabbia è il vuoto, sceglieranno la gabbia. Ma non è questo ciò a cui anelano e non dovrebbe essere questo ciò verso cui vengono spinti. Ecco, di fronte a questo esercito di persone che cercano modi per sviluppare le proprie potenzialità, per contare di più e avere maggiore controllo della propria vita, politici e sindacalisti rispondono invece additando le ambizioni e l’intraprendenza individuali come il vero male che affligge la nostra società, il tarlo che illude i giovani. Così facendo lanciano il messaggio opposto: voi non contate e non potete nulla, affidatevi a noi e tutto si sistemerà. Questo tipo di mentalità ci spiega come mai al Festival del Giornalismo, di fronte ad un discorso che incoraggiava i giovani ad investire in se stessi e a far leva su istruzione ed esperienze internazionali per acquistare più sicurezza e forza contrattuale, Susanna Camusso, il segretario generale della Cgil, abbia tacciato tale incoraggiamento di «pericolosità sociale» perché «crea l’illusione che si possano raggiungere risultati attraverso l’impegno individuale, mentre ciò è possibile solo attraverso l’azione collettiva». È chiaro che l’impegno individuale non potrà, da solo, raggiungere risultati collettivi importanti e di lungo periodo (anche se, per esempio, è stato il gesto individuale di Bouazizi ad accendere la rivolta in Tunisia, non un’azione sindacale). Tuttavia insistere sulla contrapposizione tra azione collettiva e impegno individuale, come se l’una dovesse necessariamente escludere l’altra, non serve a nessuno. La prima lavora sui tempi lunghi che spesso attraversano generazioni, il secondo dà la forza e gli strumenti per affrontare il quotidiano. Entrambi sono importanti. Contrapporli non aiuta soprattutto ad immaginare e costruire una società innovativa e motivante, unitaria e solidale ma consapevole delle ambizioni e responsabilità individuali. Una società, in sintesi, in cui chi ha dei sogni sia stimolato a perseguirli e non venga percepito come un pericolo dai suoi stessi governanti. Perché se politici e sindacalisti vogliono davvero che gli italiani si «riprendano il futuro» non possono certo pensare che lo facciano delegando tutto a loro e stando fermi ad aspettare. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: IRENE TINAGLI Primo Maggio e vecchie barricate mentali Inserito da: Admin - Aprile 27, 2011, 02:48:48 pm 27/4/2011
Primo Maggio e vecchie barricate mentali IRENE TINAGLI La concentrazione di feste come il 25 Aprile e il Primo Maggio ha riaperto le polemiche sollevate dal segretario della Cgil, Susanna Camusso, contro il sindaco di Firenze Matteo Renzi che dava libertà ai negozi di restare aperti. La questione è stata trasformata, come ormai quasi ogni cosa in Italia, in una questione di principio ideologico, in una lotta di classe che vede contrapposti commessi da una parte e bottegai capitalisti e sfruttatori dall’altra. Giustizia sociale contro consumismo sfrenato. E nonostante gli appelli del sindaco fiorentino, nessuno si è fermato a valutare la questione in una prospettiva più ampia, che vada oltre la questione del Primo Maggio, e a porsi una semplice domanda. A che servono i negozi, le botteghe, i bar o i ristoranti nei centri delle città? No, non servono solo a far cassa. Per quello basta un centro commerciale, uno dei tanti che punteggiano le uscite autostradali. I negozi cittadini, o meglio «le botteghe», così come i bar, le osterie e i ristoranti sono più di un registratore di cassa, sono parti vitali di un essere vivo e pulsante: la città. Solo chi non ha capito cosa è una città, come e perché è nata e perché sopravvive, può pensare ai negozi come meri luoghi di commercio o avamposti del consumismo moderno. Le botteghe cittadine sono una delle realtà più antiche del nostro Paese, uno dei fenomeni attraverso i quali si è manifestata in maniera più evidente l’imprenditorialità diffusa della nostra gente, e attorno ai quali brulicava la vita di paese e quella socialità che tutto il mondo ci invidiava. Le città sono equilibri delicati, sono luoghi di economia, ma anche di socialità e cultura, e queste tre anime, economica, culturale e sociale si sostengono reciprocamente. Non si va in un’osteria in centro solo per sfamarsi, ma perché prima si può fare un aperitivo nel corso e dopo una passeggiata in piazza. E raramente si va in centro solo per vedere un monumento o comprare un oggetto, ma perché sappiamo che mentre siamo lì possiamo incontrare persone che conosciamo, fare due chiacchiere, e allora sì, anche comprare il pane, il caffè, o giocare la schedina. E mentre passeggiamo in centro magari vediamo i cartelloni del teatro o del cinema e ci viene pure un’idea per la serata. Questo è il ruolo e l’essenza delle città. Luoghi vivi fatti per vivere. E in quest’ottica ogni piccolo elemento ha una sua funzione che non è meramente economica o sociale, ma un po’ tutto assieme. Nel suo capolavoro The Death and Life of Great American Cities l’urbanista Jane Jacobs fece un’accurata descrizione di come i marciapiedi, per esempio, siano uno strumento fondamentale per la struttura sociale della città, luoghi in cui le persone si fermano a parlare, e in cui i bambini possono giocare. E così come i marciapiedi è importante il ruolo delle finestre, dei portoni, delle vetrine. Perché porte, finestre e vetrine aperte danno aria, vita e luce alla città e sono il miglior antidoto contro l’abbandono, il degrado, la delinquenza. Chi vede la città come un mero agglomerato di funzioni distaccate e distaccabili o addirittura contrapposte - il lavoro da una parte, il consumo dall’altra, la socialità in un’altra ancora - non solo non ha capito cos’è una città, ma la condannerà alla morte certa. Così come è già accaduto a molte città straniere e purtroppo anche da noi. La città ha bisogno di essere viva, libera e spontanea, e per farlo ha bisogno di elementi diversi e complementari: arte, musica e commercio, tradizione e modernità, italiani e stranieri. E la politica dovrebbe aiutarla a trovare soluzioni innovative per far convivere spontaneità ed esigenze di tutti. Dare la possibilità a un negozio di stare aperto se vuole non è tanto un favore che si fa al negoziante, ma anche un servizio a tutti quei lavoratori che durante la settimana sono chiusi in una fabbrica o un ufficio grigio e quando è festa non vedono l’ora di cambiarsi e andare fuori con i figli, andare al cinema, al parco giochi e anche a fare un po’ di spesa tutti insieme. Tutte cose che potrebbero essere fatte in città, senza essere costretti a rinchiudersi in un centro commerciale periferico. Le città aperte servono molto più a questi lavoratori che ai ricchi, perché questi ultimi possono sempre rifugiarsi in qualche villa al mare o in hotel di lusso a Londra o Parigi per sottrarsi alla noia di una città fantasma, ma i meno fortunati no. Certo, anche chi lavora nei negozi ha diritto al riposo, ci mancherebbe altro, ma viene da chiedersi se non sia possibile trovare delle soluzioni innovative che possano andare incontro alle esigenze di più persone senza imporre ulteriori divieti. La proposta del sindaco di Firenze di accordarsi con gli interinali per tenere aperti i negozi senza costringere commessi e commesse agli straordinari poteva essere una possibilità. Altri accordi potevano essere valutati, come è stato fatto in altre città senza troppi clamori. Ma nell’Italia ormai barricadera del tutti contro tutti e dello scontro ideologico ad ogni costo, per alcune persone le piazze servono solo per mostrare striscioni o banchetti elettorali quando fa comodo. Per tutto il resto dell’anno possono chiudere e morire. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: IRENE TINAGLI Cercasi leader per i grillini anti Zapatero Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 09:23:44 am 20/5/2011 - GLI "INDIGNADOS"
Cercasi leader per i grillini anti Zapatero IRENE TINAGLI Niente a che vedere con le rivolte arabe che pure sono state evocate o con le abituali e gigantesche manifestazioni di protesta spagnole. Gli «indignati» che protestano a Madrid contro la politica assomigliano piuttosto ai «grillini», senza un leader. Sono scesi in piazza per la prima volta domenica scorsa, 15 maggio (da qui il nome «Movimento 15-M»). Forse un tentativo di minimizzare il fenomeno per paura del «contagio egiziano»? Forse una repressione in atto? La risposta è probabilmente molto più semplice. La Spagna è abituata a manifestazioni di altra entità. Giusto per fare alcuni esempi, l'anno scorso la manifestazione contro l'estensione della legge sull'aborto aveva raccolto a Madrid 250 mila persone; il 29 settembre i sindacati hanno mobilitato un milione e mezzo di manifestanti, in buona parte proprio nella capitale, per non parlare della notte bianca madrilena che ha portato per le strade del centro la bellezza di 700.000 persone. La manifestazione di domenica scorsa ha radunato a Madrid, secondo quanto riportato dal País, 20.000 persone. Certamente una manifestazione importante, ma non sorprende se agli inizi non abbia destato troppo scalpore e non sia apparso come un fenomeno preoccupante. Il fenomeno è emerso nei giorni successivi, quando le manifestazioni si sono diffuse e prolungate, anche se solo con poche centinaia di persone, sfidando la pioggia e i divieti delle giunte elettorali provinciali. Ma soprattutto il fenomeno è cresciuto man mano che alcuni politici hanno iniziato a intravedere la possibilità di trasformare la protesta in strumento elettorale, viste le elezioni amministrative di domenica prossima. E così il candidato socialista alla presidenza della provincia di Madrid ha dichiarato subito simpatia per i manifestanti di Madrid sperando di trasformarli in uno strumento contro la rivale Esperanza Aguirre. Mentre esponenti del partito popolare, come il sindaco di Madrid Gallardon, sottolineano che non si tratta di una manifestazione anti-sistema ma anti-governo, contro la crisi economica a cui Zapatero non ha saputo dare risposta adeguata. Zapatero dal canto suo ha dichiarato che «bisogna ascoltare ed essere sensibili». Insomma, i politici cercano per lo più di accarezzare e mostrare il loro lato migliore ai «ribelli». Se non fosse per il divieto a prolungare le manifestazioni emesso da alcune giunte elettorali provinciali (che ha gettato una vaga ombra di «repressione» sul movimento), il paragone con le piazze arabe avanzato da alcuni giornali appare quindi fuori luogo. Il movimento spagnolo non si è trovato di fronte ad un regime totalitario pronto a serrare i ranghi e a schiacciarlo, ma a un sistema democratico che istintivamente cerca, come normalmente fa un sistema democratico in questi casi, di assorbirlo. Magari restando un po' spiazzato agli inizi, ma adattandosi pian piano per inglobarlo meglio, cercando di accoglierne alcune istanze e neutralizzandone altre. Se la Junta Electoral (chiamata a decidere sul divieto o no di manifestare alla vigilia elettorale) sarà abbastanza saggia da evitare lo scontro con divieti stringenti, è probabile che la «primavera spagnola» si riveli assai meno esplosiva di quanto alcuni hanno pensato in questi giorni. A ben vedere il movimento 15-M di piazza del Sol più che somigliare a piazza Tahir ricorda il nostro movimento 5 stelle, anch'esso formatosi a seguito di una manifestazione anti-partitica quale fu il V-day del 2007. Le analogie sono molte, a partire dalle richieste: così come il movimento 5 stelle emerse con la proposta di legge popolare contro la candidatura di politici indagati, e per un ritorno alla preferenza diretta, così il movimento spagnolo è nato dalla piattaforma democracia Real Ya e da una proposta di riforma elettorale per combattere la corruzione che da un po' di tempo a questa parte segna la scena politica spagnola. Entrambi inoltre vogliono evitare apparentamenti con ogni partito, configurandosi come movimenti «anti-partitici» e anti-sistema. Infine, così come il movimento a 5 stelle ha pian piano accolto altre forme di protesta contro i temi più disparati, dalle istanze del movimento no tav, alle proteste contro gli inceneritori in Campania, così il movimento 15-M ha già aggiunto alle sue richieste l'abolizione di una serie di leggi: dalla «legge Bologna» di riforma del sistema universitario, alla recente legge sull'«Economia sostenibile» fino a quella anti-tabacco che da gennaio proibisce di fumare nei locali pubblici. In sintesi: movimenti di delusi, «indignati» che finiscono per manifestare un disagio complessivo verso la politica esistente più che offrire una proposta politica organica. La differenza tra i due movimenti è che a quello spagnolo manca un capopopolo come Grillo e la capacità di aggregazione di vip e intellettuali che ebbe il V-day. E questo, se da un lato rende il movimento spagnolo più spontaneo e autentico, dall'altro potrebbe renderlo più difficile da organizzare in comitati e liste elettorali come è avvenuto da noi. Difficile però dire se questo possa rappresentare uno svantaggio o un vantaggio per i giovani e per la politica spagnola. In fondo, nonostante il movimento 5 stelle sia ormai presente in Italia da 4 anni e abbia raggiunto interessanti successi elettorali, il progresso sulle sue istanze iniziali è stato pressoché nullo. La legge contro la corruzione in politica, o la riforma delle legge elettorale sono ancora in alto mare. Ma queste sono le regole della democrazia e non c'è da lamentarsene troppo: le rivoluzioni arabe che in poche settimane hanno rovesciato interi regimi hanno portato, per adesso, migliaia di morti e un grande caos politico e sociale, situazioni complesse la cui soluzione non sarà né semplice né rapida. Se i movimenti ribelli di quest'altro lato del Mediterreneo non ricalcheranno le orme di quelli Nord africani e finiranno per intraprendere altre strade per influenzare la politica e metterle il «fiato sul collo», non sarà da considerarsi un fallimento, ma semmai un successo della loro azione e tutto sommato delle nostre democrazie. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: IRENE TINAGLI Rassegnazione, male italiano Inserito da: Admin - Maggio 25, 2011, 05:13:45 pm 24/5/2011
Rassegnazione, male italiano IRENE TINAGLI Tutti a casa». Un tempo era un grido di protesta rivolto ai politici, oggi sembra piuttosto una realtà di rassegnazione per milioni di Italiani. Tra i molti dati e analisi presenti nell’ultimo rapporto dell’Istat colpisce in modo particolare la persistenza in Italia di un bacino di inattività altissimo, soprattutto tra i giovani e le donne. Non persone disoccupate in cerca di lavoro, semplicemente ferme. Secondo i calcoli dell’Istat sono circa 3 milioni. Una cifra enorme. E la cosa più preoccupante è che per ben due milioni di queste persone il motivo di questa inattività è la convinzione che, tanto, sia inutile anche cercare lavoro. L’Istat li definisce gli inattivi scoraggiati. La loro percentuale sulla forza lavoro in Italia è più che doppia rispetto alla media degli altri Paesi europei, e sei volte superiore a quella della Francia. Siamo così di fronte ad una sorta di paradosso. Da un lato un tasso di disoccupazione ufficiale che è migliore di quello di molti altri Paesi europei (8,4% contro una media europea del 9,6%), dall’altro però un tasso di inattività che non ha eguali, arrivato al 37,8% contro una media europea del 29%. Da un lato un’economia mondiale che ricomincia a girare, con una crescita media del Pil globale che nel 2010 è stata del +5%, dall’altro una totale sfiducia degli Italiani nella capacità dell’Italia di agganciare questa ripresa e, soprattutto, di tradurla in nuova occupazione e crescita diffusa. Come mai? Qualcuno potrà pensare che gli italiani sono male informati, o incapaci di vedere quando le cose vanno bene perché di natura scettica, oppure semplicemente che sono pigri. Ma non è così. Gli italiani, come tutti gli altri, sanno leggere certi segnali e adeguare le proprie scelte di conseguenza. I segnali che influenzano i comportamenti dei cittadini in questi casi sono essenzialmente due: quelli provenienti dal mercato del lavoro più vicino a loro e quelli provenienti dalla politica. I primi hanno mostrato chiaramente un peggioramento non tanto e non solo della quantità del lavoro (nel biennio 2009-2010 si sono persi mezzo milione di posti), ma anche e soprattutto la sua qualità. I secondi hanno visto una politica economica, sociale e fiscale che in questi anni ha fatto pochissimo non solo per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche per rendere il lavoro e la sua ricerca una scelta conveniente. Come ci insegnano i premi Nobel Pissarides e Mortensen (anche se non è necessario un premio Nobel per capirlo) cercare lavoro ha dei costi, fisici e psicologici. E’ normale che una persona deciderà di sostenere questi costi e questa fatica se pensa che ne valga la pena. Se invece i segnali indicano che questa convenienza è scarsa, smettere di cercare può diventare, per alcune persone, una scelta plausibile. Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: IRENE TINAGLI Se il Paese non fa sistema Inserito da: Admin - Giugno 05, 2011, 04:42:56 pm 5/6/2011
Se il Paese non fa sistema IRENE TINAGLI La Fiat si ricompra la quota di azioni della Chrylser finora in possesso del governo americano e ne diventa azionista di maggioranza. Una delle aziende storiche della produzione di auto mondiale, inserita nel cuore produttivo degli Stati Uniti, da oggi issa bandiera italiana, e incassa i ringraziamenti di Obama. Basterebbe questo per festeggiare tutti assieme, per ritrovare un po’ di orgoglio nazionale. E invece no. Molti sembrano quasi seccati. Eppure si tratta di un bella rivincita per il nostro Paese, così deriso ultimamente per gli scandali e le vicende da operetta, e una rivincita soprattutto per uno dei nostri marchi più antichi ma anche maggiormente caduti in disgrazia negli ultimi anni. E’ ormai nota a tutti l’interpretazione dell’acronimo Fiat diffusa negli Stati Uniti: «Fix It Again Tony» (aggiustala ancora Tony), ad indicare la scarsa qualità del prodotto. Ed è una fortuna che gli italiani non abbiano visto le facce incredule di tanti americani quando due anni fa venne annunciata l’entrata della Fiat in Chrysler, con un manager italiano al timone di tutta la baracca: sarebbe stato un vero schiaffo al nostro orgoglio nazionale. Ma questa era l’immagine che la nostra capacità produttiva aveva in America allora. Come se agli italiani qualcuno annunciasse che la nazionale di calcio da domani è allenata da Bob Bradley, l’attuale allenatore della nazionale americana. Gli americani erano esterrefatti. Eppure hanno sospeso il loro giudizio e hanno dato una chance ad uno straniero venuto d’Oltreoceano a insegnare a fare macchine a chi le macchine le aveva inventate. Hanno aspettato, hanno dato un’opportunità, e hanno riconosciuto i risultati ottenuti. Una cosa semplicissima, così semplice che a noi, chissà perché, non riesce mai. I risultati della Fiat, nostra vecchia gloria, non ci hanno scaldato. Ancora segnata dai conflitti e dalle divisioni causate dalle vicende della Fiat degli ultimi tempi, l’Italia non riesce a ritrovare unità neppure di fronte ad un successo che, per una volta, non minaccia e non tocca gli interessi di nessuno. Anzi, forse proprio questo successo contribuisce a far tornare a galla quest’antica incapacità dell’Italia di sentirsi Paese, di compattarsi di fronte a degli obiettivi che riguardano il bene collettivo e non di una sola parte, l’incapacità di capire che un paese non cresce e non può crescere solo per gli avvocati o i tassisti o i farmacisti o i manager o gli operai, ma può e deve crescere per tutti e tutti devono avere una chance di mettersi alla prova, dallo stagista al top manager. Il monito di Marchionne, che in perfetta linea col suo stile poco accomodante non ha mancato di sottolineare la differenza di trattamento avuta in America da quella riservatagli in Italia («ringraziamenti là, insulti qua»), è un monito che va ben oltre la Fiat e ricorda molto da vicino l’esperienza di migliaia di italiani, soprattutto quelli che sono stati costretti a trasferirsi all’estero per lavorare. Tutti denunciano questo «atteggiamento», questo clima di diffidenza preventiva che in Italia accoglie ogni nuovo progetto e ogni cambiamento, che fa sì che le cosa si combattano prima, sul terreno dello scontro delle parti, delle ideologie, e non dopo, sui risultati e sul contributo dato ad un obiettivo comune. Chiunque in Italia abbia provato a proporre un’idea nuova, in aziende pubbliche o private così come in università o in centri di ricerca, sa cosa significa scontrarsi con quella diffidenza di chi, di fronte a un progetto innovativo, non si chiede quale sia la potenzialità e il contributo al bene collettivo che questo progetto può dare, ma si chiede prima se e come può danneggiare il suo interesse particolare, scalzarlo dalla sua posizione, o se magari può essere usato per indebolire una parte avversa. Persino il ministro Sacconi di fronte alle dichiarazioni di Marchionne non ha perso occasione per dare la colpa ai sindacati conservatori, alla magistratura ideologizzata e alla borghesia bancaria. Come se costruire un «Sistema Italia» migliore non chiami in causa tutti quanti, e ricadendo pure lui nel gioco degli scontri di parte, delle dita puntate. Ecco, se l’Italia riuscirà a cambiare questo atteggiamento e a ritrovare un senso di bene comune e di obiettivi condivisi, farà un piacere non tanto a Marchionne, della cui contentezza si può forse anche fare a meno, ma restituirà entusiasmo, fiducia ed energia a tutta una generazione di italiani, in Italia e in giro per il mondo, che aspettano solo di avere una chance, un’opportunità di dare un piccolo contributo al Paese, facendo del proprio meglio, senza dover fare i conti con le diffidenze preventive, gli insulti, le lotte di parte, i poteri acquisiti. E di loro no, l’Italia non può fare a meno. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: IRENE TINAGLI Se manca la visione del futuro Inserito da: Admin - Luglio 05, 2011, 04:26:41 pm 5/7/2011
Se manca la visione del futuro IRENE TINAGLI Tra le tante strumentalizzazioni e ambiguità che in questi giorni hanno accompagnato le proteste del movimento No Tav colpisce soprattutto quella di chi vuol far passare la ribellione in Val di Susa come parte di una nuova coscienza civile che si sveglia in Italia, di un vento che ha iniziatoa soffiare con i referendume le amministrative. Vento nuovo? Al di là dell’ovvia osservazione che le proteste contro la Tav hanno ormai radici decennali, ciò che queste vicende fanno riemergere è, al contrario, una delle piaghe più antiche della vita sociale, politica ed economica italiana. Un Paese in cui ogni progetto, visione o investimento che travalichi i confini geografici e temporali del qui e adesso si scontra con un mostruoso mosaico di opposizioni particolari. Interessi e prospettive non solo incapaci di coagulare in una visione congiunta di bene comune, ma spesso foraggiati e incoraggiati dagli stessi politici che quella visione unitaria dovrebbero invece contribuire a ricomporre. Un Paese quindi perennemente imprigionato nei localismi, nel «fate quel che vi pare, ma non a casa mia», il Paese in cui tutti puntano il dito contro tutti ma nessuno è mai disposto a mettere in discussione i propri piccoli grandi interessi, dai deputati agli allevatori di mucche, dai ministri ai tassisti. Il Paese dove i rifiuti traboccano inondando interi paesi, ma dove nessuno vuole un inceneritore, un Paese dove l’energia costa il 35 per cento più che altrove, stroncando la competitività delle imprese, ma dove è impossibile fare un piano energetico di qualsiasi tipo. Un Paese iper-cementificato, ma dove gli avversari della cementificazione gridano inorriditi all’idea di un grattacielo che da solo potrebbe sostituire centinaia di bifamiliari con giardinetto, restituendo all’ambiente chilometri di terra libera. E tutti, tutti hanno un unico argomento: «ma in fondo c’è proprio bisogno di questa opera?». No, certo che non ce n’è bisogno. Non c’è mai un bisogno schiacciante di una cosa nuova che prima non c’era. L’Italia in fondo esisteva anche quando non c’erano autostrade, fogne, ferrovie ed elettricità. Ma è proprio questo il senso degli investimenti, il senso di una programmazione che guarda in avanti. E’ lì che sta la vera anima rivoluzionaria di un Paese e di un popolo. Non tanto nel saper affossare i governi o ghigliottinare i potenti, ma nel saper guardare al di sopra delle proprie spalle, saper intuire quello che ci può essere e contribuire tutti insieme a costruirlo, assumendosene anche i rischi. Sapersi chiedere cosa può succedere «se». «Cosa succederebbe se ci fosse un ponte che collega la Svezia alla Danimarca?», si devono esser chiesti un giorno i governanti dei due Paesi. Lo hanno scoperto nel giro di pochi anni. Il ponte di Öresund che collega la città svedese di Malmö alla capitale danese Copenhagen fu completato in meno di 4 anni, dal 1995 al 1999, e aperto al pubblico nel 2000. Inizialmente il traffico era inferiore alle aspettative, d’altronde le abitudini di vita e di lavoro delle persone, le attività economiche, non cambiano dalla sera alla mattina. Ma, alla fine, nemmeno tanto lentamente: già nel 2007 non solo era aumentato molto l’utilizzo del ponte, ma anche la crescita delle aree interessate dall’infrastruttura. In quegli anni Malmö ha registrato un tasso di crescita della popolazione due volte superiore alla media nazionale e un raddoppio del proprio capitale umano. Il fatto è che il rapporto tra infrastrutture e crescita è complesso: spesso le infrastrutture anticipano e guidano certi percorsi di sviluppo, e il loro effetto futuro non si può prevedere sulla base dell’utilizzo delle vecchie strutture e tecnologie. Sarebbe stato come se negli Anni Novanta l’Italia avesse deciso che era inutile portare qua Internet e l’e-mail perché il flusso di missive delle Poste italiane era un po’ in calo. Certamente l’Italia sarebbe sopravvissuta. Ma a quale prezzo? Anche se forse nel caso della Tav è una forzatura dire che senza quella tratta Torino e l’Italia saranno escluse dall’Europa: lo sono già. L’Italia non solo è fanalino di coda tra i Paesi europei per chilometri di alta velocità, ma è quella che ne ha meno in cantiere, quella che ne costruirà meno in futuro. La Spagna ha inaugurato la prima linea veloce nel 1992 e in meno di dieci anni ha costruito circa 2700 chilometri di alta velocità, il triplo dei nostri, e ne ha in cantiere altri 1800 (contro i nostri 92). La Cina ne ha operativi più di seimila e ne sta costruendo oltre quattordicimila, investendo 309 miliardi di dollari. Per non restare troppo indietro Obama sta spingendo per massicci investimenti nell’alta velocità anche negli Stati Uniti (e proprio in questi giorni il dibattito sull’alta velocità è caldissimo anche lì). E sappiamo che la strategia complessiva dell’Unione Europea sull’alta velocità andrà comunque avanti, con o senza il passaggio dall’Italia. No, quel pezzo di alta velocità, di per sé, non cambierà probabilmente le sorti italiane, sarà uno dei tanti anelli mancanti del nostro Paese, uno dei tanti ospedali incompiuti, dei capannoni abbandonati, o una delle migliaia di piste ciclabili ammezzate che terminano nel nulla, simbolo perfetto di un Paese eternamente in partenza ma incapace di capire dove vuole arrivare. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8937&ID_sezione=&sezione= Titolo: IRENE TINAGLI Federica, speranza delle donne italiane Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 05:28:38 pm 28/7/2011
Federica, speranza delle donne italiane IRENE TINAGLI La vittoria di Federica Pellegrini non è solo una splendida pagina sportiva, ma una rivincita e una speranza per milioni di donne italiane e di tanta parte della nostra società. Quella che è stanca di vedersi rappresentata nel mondo da scandali politici e giudiziari, debiti, risse e anziani signori abbarbicati alle proprie poltrone. Così come è stanca di vedersi rappresentata come un Paese di donne succubi e uomini predatori e opportunisti. Basta. L’Italia è anche quella che vediamo a Shanghai: forte e trionfante, competitiva, bella nel modo più bello e più sano. Sì, l’Italia è anche questa ed è meraviglioso vederla fresca e sorridente sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo. Con questa impresa Federica Pellegrini diventa non solo la prima donna a conquistare l’oro sia nei 200 che nei 400 in due mondiali consecutivi, ma si conferma un bell’esempio e un riferimento per le tante donne italiane che ogni giorno si impegnano con forza, sacrificio e determinazione nei settori più disparati, senza mortificare i loro affetti o la loro femminilità ma neppure senza restarne schiave. In questi anni la Pellegrini ci ha infatti abituato alle sue vittorie sportive ma anche alle sue debolezze, ai suoi amori, al suo essere giovane donna che cerca di affermare una sua strada personale e professionale. Un corpo splendido e atletico che alcuni hanno cercato di ricondurre agli stereotipi della donna bella e ammaliatrice, ma che mai risplende e incanta come quando fende con forza la resistenza dell’acqua, potente strumento di vittoria più che di seduzione. E una personalità forte e complessa, ricca di sfumature e di fragilità che la Pellegrini stessa non ha mai nascosto, ma ha affrontato con un coraggio e una determinazione da leonessa. Dalla sfida con la bulimia, confessata quando ormai era già un ricordo, a quella con gli attacchi di ansia, che ancora ad aprile l’hanno tormentata alle gare di Riccione, ma che mai sono riusciti ad avere la meglio sulla sua forza e la sua sete di vittoria. Per questo è così bello vederla primeggiare: perché rappresenta una donna vera, che lotta contro gli avversari e contro le proprie paure. E soprattutto perché dimostra che quando si trova a competere in un mondo in cui tutto quello che conta è la forza, la testa e il cuore, una donna è capace di vincere senza se e senza ma. E questo è un bellissimo segnale per tutte quelle donne che cercano di affermarsi in contesti più falsati dai pregiudizi, in cui qualità e merito non sono mai sufficienti. Un segnale che, a ben vedere, da’ ottimismo ed energia a tanti italiani e non solo alle giovani donne, perché ci fa riscoprire il senso del sacrificio e della determinazione, della voglia di lottare e di mettersi in gioco, un senso che ultimamente in troppi abbiamo perso. Grazie Federica. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9029 Titolo: IRENE TINAGLI L'eredità di un'epoca Inserito da: Admin - Agosto 06, 2011, 04:49:55 pm 30/7/2011
L'eredità di un'epoca IRENE TINAGLI L’annuncio di oggi non fa che certificare una fine ormai annunciata da tempo: la fine dell’era Zapatero. Una stagione caratterizzata da grandi estremi, apertasi con celebrazioni entusiaste in tutta Europa, che sembravano fare di Zapatero il modello di riferimento della sinistra europea, e che ora si chiude tra profonde polemiche, accuse durissime e prese di distanza. Le celebrazioni del primo mandato erano legate ad una crescita economica tra le più sostenute d’Europa, che per anni ha registrato ritmi doppi o tripli della nostra, assieme ad un ragguardevole aumento dell’occupazione. Dopo gli Anni Novanta, in cui la disoccupazione superava spesso il 20%, con Zapatero arrivò al 7,5% del 2006. Nei primi tre anni del suo mandato la Spagna vide la creazione di quasi 4 milioni di nuovi posti di lavoro. Una «espansione di carta», denunciano oggi i suoi detrattori, visto che, dopo il ciclone della crisi economia globale, la Spagna si ritrova con una disoccupazione nuovamente sopra al 20% e una disoccupazione giovanile al 44%. Per non parlare del fatto che con la crisi le misure sociali sono divenute più pesanti sul bilancio dello Stato, facendo schizzare il deficit al 6,5% del Pil. Una performance che ha certamente ammutolito i sostenitori delle politiche zapateriane degli anni passati e scatenato le accuse e le rivendicazioni dei suoi detrattori. Come spesso accade in queste circostanze entrambe le prospettive - quella entusiasta degli inizi e quella accusatoria degli ultimi tempi - sono parziali e fuorvianti, perché omettono aspetti importanti che non rendono giustizia a ciò che è accaduto in Spagna negli ultimi dieci anni. Gli osannatori si erano scordati che Zapatero aveva ereditato da Aznar un Paese con un’economia già molto ristrutturata, con occupazione in crescita e conti pubblici sotto controllo (anche per la Spagna l’entrata nell’euro aveva implicato politiche di bilancio rigorose), e si erano scordati di guardare dentro alla crescita, e rendersi conto di quanto questa fosse trainata da settori molto tradizionali e da una bolla edilizia che aveva generato occupazione di scarsa qualità, esposto banche e aziende e aumentato l’indebitamento delle famiglie. Tuttavia è incorretto ed ingeneroso limitare l’analisi del miracolo spagnolo ad una mera bolla speculativa che si è interamente bruciata negli ultimi anni, mangiandosi tutto ciò che era stato creato. Nel periodo di espansione il Paese è stato dotato di una efficiente rete infrastrutturale, di città moderne e funzionali, di un’offerta turistica e culturale che hanno fatto divenire la Spagna la quarta meta turistica del mondo dopo colossi come Francia, Stati Uniti e Cina. La crescita non è stata investita solo in ammodernamento infrastrutturale, ma in politiche sociali che vanno dall’aumento del salario minimo agli investimenti in istruzione e ricerca, fino alla lotta alla violenza domestica e alle discriminazioni contro gli omosessuali. Politiche molto criticate ma che hanno avuto risultati importanti. L’indice di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi si è ridotto significativamente e anche sul fronte dell’emancipazione delle donne e della lotta alle discriminazioni sono stati fatti passi avanti. Nei primi quattro anni dall’introduzione della legge contro la violenza sulle donne sono aumentate le denunce, le condanne (quasi centomila dal 2004 alla fine del 2008) e, soprattutto sono calate le morti per violenza domestica (quasi dimezzate tra il 2008 e il 2009). E, nonostante gli scetticismi iniziali, il matrimonio gay oggi è visto positivamente dalla maggioranza degli spagnoli, tant’è vero che anche il candidato del partito popolare ha dichiarato che non abrogherà la legge in caso di vittoria elettorale. Anche gli investimenti in ricerca e sviluppo, raddoppiati dal 2004 al 2010, stanno dando i primi frutti: secondo la Royal Society inglese, la Spagna è entrata tra i primi dieci Paesi del mondo per citazioni scientifiche. Varie università e business schools spagnole occupano posizioni di rilievo nei ranking internazionali e, soprattutto, sono piene di docenti e ricercatori stranieri: oggi il 20% dei ricercatori presenti in Spagna è straniero. Certamente questi investimenti sul fronte sociale, della ricerca e dell’innovazione non sono bastati ad arginare l’emorragia occupazionale e l’aumento del deficit, né serviranno a bloccare gli attacchi speculativi che stanno prendendo di mira la Penisola iberica. Tuttavia sarebbe un errore ignorare le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato non solo l’economia, ma anche le città, le comunità e la società spagnola. Nonostante le difficoltà macroeconomiche e le molte riforme ancora da portare avanti, la Spagna di oggi non è certo quella di otto anni fa. E c’è da sperare che chiunque vinca le prossime elezioni non disperda i progressi di ammodernamento sociale del Paese che la Spagna ha costruito e di cui avrà bisogno più che mai in futuro. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9037 Titolo: IRENE TINAGLI Un mondo che guarda al futuro Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 05:42:10 pm 18/8/2011
Un mondo che guarda al futuro IRENE TINAGLI Pochi giorni fa si è concluso l’anno internazionale dei giovani indetto dall’Onu, e subito è partita la Giornata Mondiale della Gioventù della Chiesa Cattolica, che quest’anno si celebra a Madrid. Quest’attenzione alle nuove generazioni non fa che mettere in luce un triste paradosso. Quello di una gioventù tanto seguita con apprensione da buona parte della società, civile e religiosa, quanto ignorata e penalizzata dalle politiche pubbliche e dai governi. I giovani sono la fascia di popolazione che è stata più colpita dalla crisi economica internazionale, e quelli che ne subiranno maggiormente le conseguenze anche in futuro. Eppure, quasi niente di ciò che è stato fatto, discusso e proposto in questo periodo da governi e organi politici ha tenuto in debita considerazione la necessità di ridisegnare un sistema economico e sociale sostenibile nel tempo. Un sistema che dia più opportunità e speranza alle nuove generazioni. Basta pensare a ciò che abbiamo visto in queste settimane. Una manovra finanziaria che mette una pezza ad anni di politiche economiche di corto respiro semplicemente aumentando tasse e tagliando dove capita, rimandando a comitati e date future tutte le riforme che davvero servirebbero oggi: dalle liberalizzazioni dei servizi a quelle delle professioni, dal funzionamento dello Stato a quello del mercato del lavoro. E anche tra questa accozzaglia confusa di tagli e tasse assistiamo allo spettacolo desolante di rappresentanti di ogni genere di interessi che corrono per salvare qualche provincia o qualche ente, per eliminare o rimandare quei tagli che li riguardano più da vicino, o quelli che più fanno arrabbiare i propri rappresentati o elettori, siano essi pensionati o ereditieri, allevatori o calciatori. Gli unici che non hanno lobby o rappresentanti che si affannano a inseguire i politici nei palazzi del potere sono proprio loro, i giovani. Gli unici senza un richiesta specifica un interesse precostituito da difendere perché hanno ancora tutto da costruire e chiedono solo un’opportunità per farlo. Ma soprattutto chiedono una motivazione per andare avanti, per non mollare, per credere in qualcosa su cui investire le proprie energie e il proprio entusiasmo. E quindi cercano riferimenti e supporto altrove: nelle piazze, tra i coetanei, nelle istituzioni laiche o religiose che in qualche modo si rivolgono a loro, offrendogli un’opportunità di ascolto, di azione, di speranza. Lo hanno fatto tre mesi fa i migliaia di ragazzi che si sono ritrovati nelle piazze spagnole per chiedere una politica più giusta e provare a stilare una piattaforma di proposte. Lo fanno oggi centinaia di migliaia di giovani che da ogni angolo del mondo si stanno dirigendo a Madrid con i loro zaini in spalla per ritrovare quello che non trovano più nelle nostre società avvizzite: la voglia di condividere una speranza e un’idea di futuro. Al di là delle diverse credenze o prospettive, quello che queste manifestazioni di giovani ci stanno indicando, religiose o laiche che siano, è che i ragazzi hanno una terribile voglia di ritrovarsi e di discutere non solo di piccole misure e manovre, ma un’idea di società nuova, una società che recuperi e dia un nuovo significato a concetti come solidarietà, giustizia, opportunità, felicità. E questa grande vitalità, questa energia che arriva dal mondo giovanile non fa che rendere ancora più lontana e odiosa l’immagine di tutti quei potenti che da settimane stanno chiusi nei loro palazzi a mercanteggiare su una o l’altra misura, con un occhio all’andamento delle Borse e un altro agli equilibri di poltrone tra i propri accoliti. Quegli stessi politici, esperti e commentatori che così tante volte si sono scagliati proprio contro i più giovani, accusati d’essere inetti, egoisti, viziati; causa e al tempo stesso sintomo di una società senza ideali, senza esempi e modelli virtuosi. Ecco, dopo tante parole, oggi siamo di fronte a due immagini concrete e quanto mai stridenti: quella di centinaia di migliaia di giovani che affrontano lunghi viaggi, sacrifici e piazze assolate per ritrovarsi e immaginare il futuro e quella di tanti grandi vecchi da troppo tempo tesi solo a difendere il presente. E viene da chiedersi: chi è che sta dando l’esempio? da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9102 Titolo: IRENE TINAGLI I passi obbligati per la crescita Inserito da: Admin - Settembre 15, 2011, 10:36:17 am 15/9/2011
I passi obbligati per la crescita IRENE TINAGLI Approvata la manovra, si apre il capitolo crescita. Ne ha parlato pochi giorni fa Napolitano, ricordando quanto questo tema sia «stringente e drammatico». E ne ha fatto cenno Tremonti dal G8 di Marsiglia, annunciando un «dossier crescita» che dovrebbe aprirsi già questa settimana. E’ un tema ineludibile, e finalmente tutti sembrano averlo capito. Tuttavia, nonostante tutti ne parlino, nessuno sembra avere le idee chiare su come ottenerla. Tra le voci più ricorrenti quando si parla di crescita troviamo le infrastrutture e le opere pubbliche, oppure gli aiuti alle imprese: da incentivi settoriali al supporto alla capitalizzazione e alla crescita dimensionale. Tutte misure trite e ritrite, di cui è stato ampiamente fatto uso in passato e che non hanno mai portato risultati duraturi. Si tratta infatti di misure limitate, soggette ad abusi a distorsioni, incapaci di autosostenersi nel lungo periodo perché troppo gravose sui bilanci pubblici. Una possibilità di cui si sente parlare poco, su cui sarebbe necessario un dibattito più approfondito, è quella di creare le condizioni per nuovi processi imprenditoriali, nuove imprese attive in settori innovativi e mercati ad alte prospettive di crescita. Il tema è stato flebilmente affrontato dal governo, che ha inserito in finanziaria un’agevolazione fiscale per imprese e partite Iva di nuova creazione, ma il dibattito su questa misura o su eventuali altre misure di supporto è stato quasi inesistente. Lo scrittore ed ex imprenditore Edoardo Nesi ha rilanciato questo argomento con un lungo e appassionato editoriale sul Corriere della Sera di martedì, in cui sosteneva che per ricominciare a crescere servono migliaia di giovani imprenditori, che fondino aziende «protese a creare il nuovo (…), che vendano prodotti che oggi non esistono». Come realizzarlo? La ricetta di Nesi è semplice: prendere l’un per cento dei capitali scudati rientrati dall’estero e con quel miliardo di euro finanziare queste nuove imprese, «dandogli fiducia prima ancora che la meritino». Al di là della sua fattibilità tecnica, la proposta merita attenzione perché affronta la questione del rilancio economico senza fare appello alle solite richieste di aiuti e protezioni per una struttura produttiva che non tiene più, e perché lo fa enfatizzando la necessità di dare fiducia ai giovani attraverso un’immagine molto bella e molto vera (dare fiducia prima di vedere risultati, altrimenti che fiducia è?). Tuttavia la proposta, pur validissima nelle intenzioni, lascia trapelare alcune convinzioni fortemente radicate nella nostra cultura, che permeano le nostre politiche economiche rendendole spesso deboli e poco efficaci. Innanzitutto l’idea che ci sia una relazione univoca e quasi lineare tra investimenti o sgravi da un lato e creazione di innovazione o nuove imprese dall’altro. Come se a un certo investimento in ricerca corrisponderà, prima o poi, un certo aumento di innovazione, o se a un certo aiuto o sgravio alle nuove imprese corrisponderà un ricambio di struttura produttiva. Purtroppo non ha mai funzionato così, né in Italia né altrove. I processi innovativi ed imprenditoriali richiedono condizioni assai più ampie, a partire, per esempio dal sistema dell’istruzione. Un sistema che, nel nostro Paese, non è minimamente attrezzato per trasmettere una vera cultura imprenditoriale e per dare quegli strumenti necessari a valutare criticamente opportunità, tecnologie e mercati, e a misurarsi col rischio e la competizione internazionale. Raramente si «nasce» imprenditori di successo. Serve un ambiente che stimoli, formi e supporti certe attitudini, oggi più di prima. In Italia si è perso. Non è un caso se in Italia i giovani imprenditori ormai sono sempre più figli di altri imprenditori. Abbiamo finito per rendere chiusa ed ereditaria l’attività che più dovrebbe servire a rivoluzionare società e mercati. E non basterà dare un finanziamento ai figli dei disoccupati e dei cassintegrati affinché questi diventino i prossimi Bill Gates. L’altro punto debole è legato all’idea che per supportare nuove imprese o tecnologie siano necessari soldi pubblici. Si sente parlare spesso del problema dell’accesso al capitale e dei fondi, e si sono persino diffuse proposte di «venture capital pubblico». Eppure negli ultimi venti anni le possibilità di accesso a finanziamenti sul mercato globale sono cresciute esponenzialmente. E non solo i venture capitalists: dai network di business angels alle fondazioni private, dai concorsi imprenditoriali al crowdfunding. Se in Italia queste opportunità non sono ancora ai livelli internazionali, non possiamo pensare di sopperire con fondi pubblici (erogati da chi? Con quali criteri?). Semmai, dovremmo chiederci come mai gli investitori stranieri fanno fatica ad arrivare e ad investire sui nostri ragazzi o come mai produciamo pochi investitori in casa nostra. E allora cominceremmo ad accorgerci di quanto ci penalizzi, per esempio, un sistema di norme che fanno sì che per chiudere un’impresa ci voglia quasi più tempo che per aprirla – un aspetto chiave per i venture capital che devono aprire e chiudere decine di imprese ogni anno. O quanto ci abbia penalizzato avere imprenditori che appena l’economia ha iniziato a frenare si sono rifugiati nell’immobiliare (incentivati da un regime di tassazione che rende più conveniente avere 100 case che tenere in piedi un’azienda), smettendo di imparare, misurarsi con le nuove tecnologie e i nuovi mercati. Ecco, già unendo come in un gioco enigmistico i punti emersi sin qui - dall’istruzione ai mercati di capitali, dal diritto fallimentare al sistema fiscale e così via - si cominciano a delineare i contorni di ciò che serve per ripartire. Non una misura miracolosa o un grappolo di eroi, ma un Paese intero che decide di pensare e agire come tale. E soprattutto un Paese in cui tutti siano chiamati a fare la loro parte. Una parte già difficile in fase di tagli e risparmi, doppiamente critica in fase di rilancio, investimenti e azione. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9200 Titolo: IRENE TINAGLI Il futuro è più forte della crisi Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:33:18 am 25/9/2011
Il futuro è più forte della crisi IRENE TINAGLI La settimana che ci lasciamo alle spalle non solo ha bruciato miliardi di euro sui mercati internazionali, ma sembra aver intaccato anche le speranze dei più tenaci ottimisti. In un momento simile è davvero urgente, come ha suggerito Christine Lagarde, che tutti i Paesi mettano da parte campanilismi ed esitazioni ed inizino a lavorare in modo più armonico e coordinato per ritrovare, in tempi più brevi possibili, stabilità finanziaria senza penalizzare ulteriormente la crescita. Tuttavia, anche in un momento così critico, è importante essere in grado, di tanto in tanto, di alzare la testa e saper intravedere le trasformazioni e le opportunità che si dispiegano nel lungo periodo. Provare a leggere i fatti di oggi non con la lente della cronaca, ma con quella della storia, per capire se e come questa fase si può inserire in un’evoluzione più ampia che abbia, alla fine, uno sbocco positivo. D’altronde la storia economica dell’occidente è costellata da crisi continue e da alcune fasi di grandi cambiamenti epocali, fasi in cui cambia il paradigma produttivo, l’organizzazione industriale e sociale di un Paese. Ogni volta che ci troviamo di fronte a tali trasformazioni ci sentiamo minacciati, in pericolo, pensiamo d’essere di fronte alla fine del nostro mondo e della nostra società. Ma la verità è che poi il nostro mondo è sempre andato avanti. E sempre in meglio. Noi siamo probabilmente di fronte ad uno di questi cambiamenti «paradigmatici». Un cambiamento che, però, siamo incapaci di vedere e accettare. Uno dei motivi per cui siamo così incapaci di coglierlo è che siamo ancorati ad una visione dello sviluppo economico come di un fenomeno limitato, che non può durare all’infinito perché in fondo le risorse stesse sono limitate ed esauribili. È la stessa convinzione che ci fa credere che lo sviluppo sia un gioco a somma zero, in cui se uno guadagna l’altro perde. Ed è una visione miope e antistorica, che ci rende inutilmente catastrofici. Le risorse certamente sono finite, ma le modalità con cui si possono combinare ed utilizzare per creare prodotti e sviluppo (e occupazione) non lo sono. Per fare un esempio, agli inizi dell’Ottocento l’illuminazione si basava sull’olio di balena, una risorsa costosa e limitatissima. Molti all’epoca avranno pensato che nel giro di pochi anni sarebbero tornati tutti al buio, oppure che se i cinesi cominciavano a volere più lampade, avrebbero lasciato l’Europa e l’America al buio. Ma non è stato così. E non lo è stato grazie ad un geologo canadese che nel 1849 ha ideato un modo per distillare il cherosene dal petrolio, una risorsa più economica e abbondante delle balene. E così si è aperta una nuova era per l’illuminazione: più accessibile e duratura. Sostituita poi dall’elettricità, ancora più accessibile e «pulita». E trasformazioni così sono accadute e continuano ad accadere per i trasporti, l’industria, l’agricoltura. Anche solo ripercorrendo questi banali esempi ci rendiamo conto di come le possibilità di crescita e di trasformazione economica siano potenzialmente illimitate. Basta saper dar spazio all’innovazione e al cambiamento tecnologico, perché queste sono l’unica vera molla che nel corso della storia ha guidato questi processi di sviluppo. Innovazione nei modi di usare e organizzare le risorse naturali, il lavoro, ma anche l’istruzione, l’intelligenza umana, e persino i nostri sistemi politici. E’ per questo che, pur nell’esigenza di trovare soluzioni-tampone all’emergenza attuale, è importante non perdere di vista i grandi processi che guidano la crescita nel lungo periodo e tenere un occhio sempre attento a tutti i segnali di innovazione che si annidano nel lavoro di ricercatori, scienziati e imprenditori visionari. Perché questi sono già pezzetti di futuro che ci germogliano in seno. Purtroppo, mentre le innovazioni che potrebbero disegnare il nostro futuro stanno prendendo forma in qualche angolo del mondo, noi sembriamo incapaci di uscire dai vecchi paradigmi. E continuiamo a chiederci quali industrie sovvenzionare, quali accordi commerciali o quali dazi o incentivi ripristinare per tenere in vita le nostre vecchie fabbriche sempre più vuote. E pensare che nel 1948 l’economista americano Edgar Hoover scrisse: «L’importanza relativa della manifattura come fonte di occupazione ha raggiunto ed esaurito il suo picco una generazione fa». E certamente la manifattura che conosceva Hoover andò progressivamente scemando. Ma l’economista non sapeva che proprio in quegli anni nei laboratori di alcune aziende e università americane stavano germogliando innovazioni che hanno portato ad una nuova rivoluzione industriale, quella dei computer e dell’elettronica. Una rivoluzione che ha cambiato radicalmente non solo le nostre aziende ma le nostre vite e la nostra società, con una spinta espansiva che era inimmaginabile nel momento in cui Hoover scriveva. Certamente oggi è importante e urgente tamponare l’emergenza dei debiti sovrani, cercando magari di riattivare un po’ di occupazione con i mezzi e nelle realtà oggi disponibili. Ma non è lì che giace il nostro futuro. Cerchiamo di non abbassare troppo lo sguardo altrimenti rischiamo di farcelo sfuggire quando ci passerà davanti. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9238 Titolo: IRENE TINAGLI Crescere senza paternalismi Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 06:03:24 pm 8/10/2011
Crescere senza paternalismi IRENE TINAGLI Volete costruire un’azienda di successo? Assumete giovani ben preparati. Perché giovani? Semplice: perché sono più svegli». Con la sua solita schiettezza Mark Zuckerberg si rivolse così, pochi mesi fa, ad una platea di imprenditori riunitasi all’Università di Stanford. I giovani sanno destreggiarsi con le tecnologie, non hanno bisogno di ricorrere sempre ai manuali d’istruzione, sanno risolvere da soli un sacco di cose, imparano alla svelta e hanno voglia e curiosità di farlo. E poi hanno vite più semplici, di solito non posseggono automobili, case o famiglie e possono concentrarsi sulle grandi idee, i progetti veramente interessanti e di lungo periodo. Insomma: competenze, entusiasmo, voglia di imparare e orizzonti lunghi. Ovvero tutto quello di cui avrebbe bisogno l’Italia e a cui invece rinuncia lasciando a casa milioni di giovani. E’ questo quello che anche Mario Draghi ci ha ricordato ieri. Ribaltando il paradigma di senso comune secondo cui «non c’è lavoro per i giovani perché non c’è crescita», Draghi ha sottolineato che la relazione causale tra occupazione giovanile e crescita va anche in direzione opposta: più emarginiamo i giovani e meno crescita avremo. Perché con loro teniamo fuori dal sistema produttivo un gran potenziale di innovazione, di energie e competenze. Ma quanto pesa questa emarginazione sulla nostra economia? Uno studio condotto dall’Istituto per la Competitività (iCom) e presentato la settimana scorsa a Roma stima che la disoccupazione giovanile (sotto i trenta anni) fa mancare oltre 5 miliardi di euro all’anno in termini di redditi netti. E se includiamo anche tutti quelli che non figurano nelle liste di disoccupazione ma che comunque non fanno niente (i cosiddetti Neet: non occupati né impegnati in alcun piano di studio o formazione), il reddito a cui rinuncia l’Italia sale a circa 23 miliardi l’anno. Riuscire a trovare un lavoro per questi giovani dovrebbe essere, quindi, la grande priorità dell’Italia. Ma è sufficiente inventarsi qualche posto di lavoro in più, magari siglando accordi sindacali con ministeri o altri enti per allungare qualche lista d’assunzione o sbloccare qualche concorso, per poter sprigionare questo potenziale di crescita e innovazione? No. Provvedimenti di questo genere possono servire ad aumentare in parte l’impatto sul monte stipendi con qualche ripercussione sui consumi. Ma non garantiscono quella valorizzazione delle competenze, dell’energia, del potenziale innovativo di cui parlava Draghi. Non è cercando di replicare all’infinito il modello economico e sociale su cui ci siamo basati fino ad oggi che valorizzeremo fino in fondo le nuove generazioni. Per poterlo fare dovremo ripensare e ridisegnare molti aspetti del nostro sistema economico e sociale. Non a caso Draghi ha parlato di «riforme strutturali». Cosa significa? Significa mettere mano al funzionamento del mercato del lavoro, a quello degli ammortizzatori sociali, e anche a quello dell’istruzione, della formazione, della cultura. Tutte cose che, in questi ultimi 15 anni, non hanno saputo o voluto fare né i governi di destra né quelli di sinistra, che invocavano o tagli o allargamenti dei sistemi di protezione, lavoro e formazione, ma non un loro ridisegno organico. E invece è quello il nodo che prima o poi dovremo affrontare. Perché se Paesi come la Germania, l’Olanda o la Danimarca hanno tassi di disoccupazione giovanile che sono un terzo o un quarto del nostro è anche perché hanno sistemi di formazione e servizi sociali più radicati, che coinvolgono scuole, amministrazioni pubbliche e aziende, nel tentativo non solo di offrire delle opportunità, ma di fornire a tutti le capacità per poterle cogliere. I giovani, per quanto bravi e svegli possano essere, non nascono né scienziati né imprenditori: hanno bisogno di competenze, di sviluppare capacità critiche e di padroneggiare i linguaggi del futuro, non solo l’inglese o l’economia, ma anche i linguaggi delle nuove tecnologie e di programmazione. Per non parlare poi delle competenze relazionali e imprenditoriali, sapersi muovere in contesti diversi ed internazionali. E tutte queste capacità non si trasmettono ripristinando il 7 in condotta, le pagelle numeriche alle elementari o le classi senza stranieri. Né continuando a trattare i giovani con compiaciuto paternalismo come fanno tanti politici, sindacalisti e anche tanti «buoni padri di famiglia». Persone che, mentre mostrano tanto accorato dispiacimento per i giovani che non avranno casa né pensioni, o che non riescono ad aprire uno studio o una farmacia, restano però aggrappati con le unghie e con i denti alle proprie piccole grandi protezioni, che siano vitalizi o pensioni prese a 40 anni, professioni super protette o studi e aziende che stanno in piedi grazie a stagisti, precari o clandestini che lavorano fuori da ogni regola. E se da un lato elogiano gli appelli di Draghi o Napolitano, dall’altro fanno pressioni sui loro rappresentanti perché nulla cambi. Non è così che risolleveremo il nostro Paese. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9296 Titolo: IRENE TINAGLI Se l'opzione generazionale non arriva mai Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2011, 05:39:12 pm 30/10/2011
Se l'opzione generazionale non arriva mai IRENE TINAGLI Se pensiamo alla velocità con cui il mondo sta cambiando e la confrontiamo con la lentezza con cui pensano e agiscono i nostri politici, ci accorgiamo che qualcosa non torna. E' stridente il contrasto tra il mondo reale, fatto di fenomeni nuovi che ci colgono alla sprovvista, di Paesi emergenti che esplodono strappandoci quote di mercato, e il mondo della nostra politica, fatta di signori attempati che periodicamente si siedono attorno a un tavolo, scambiandosi scartoffie in attesa del prossimo meeting. Cosi come colpisce il contrasto tra l'immagine di giovani manager, analisti e imprenditori che fanno e disfanno le sorti dei mercati internazionali, e le immagini dei nostri politici vecchi e stanchi che non sanno più capire ciò che gli passa sopra la testa né dare risposte a nulla. Politici appesantiti non solo da acciacchi e ceroni, ma ancora più da decenni di compromessi, irrigiditi dal cinismo più che dall'artrosi. Sono i politici navigati, scaltri, che cercano di minimizzare energie e sforzi per arrivare al prossimo piccolo traguardo. E così vanno avanti a forza di rinvii, palleggiandosi lettere d'intenti, lanciando proclami che tengano impegnata l'opinione pubblica per tre o quattro giorni, seguiti da smentite che ne occupano altri tre. Così un'altra settimana è andata in chiacchiere. Con sollievo di tutti gli schieramenti politici. Perché tutti ormai hanno alle spalle decenni di onorata carriera da cui hanno imparato che la politica conviene (a loro) farla così. Di fronte a questo avvilente scenario viene da chiedersi se tutto questo sia davvero inevitabile. Possibile che non esista una chance di ricambio, un’«opzione generazionale» in grado di farci riprendere il passo col mondo? Fino ad oggi l'Italia non sembra aver maturato gli strumenti per una tale opzione. I pochi giovani che riescono a farsi spazio tra i vari Berlusconi, Bersani, Bossi o D'Alema sono stati accuratamente selezionati in modo da neutralizzare ogni possibile cambio sostanziale. E quando capita qualche eccezione, come il caso di Matteo Renzi che ha sfidato i «dinosauri» del Pd, viene isolata e ignorata come una cellula impazzita, un cancro da estirpare. Perché, chiaramente, è troppo giovane (!), deve imparare a «non scalciare», e, soprattutto, deve dimostrare ciò che vale. E' vero: le persone devono dimostrare sul campo quello che valgono. Ma questo vale per i giovani come per i vecchi. E non è chiaro come mai quelli che sono sulla stessa poltrona da venti o trent’anni, senza essere riusciti a cambiare quasi niente, non possano, per la stessa teoria, farsi da parte. Così come non è chiaro come mai un quarantenne o un trentenne che sia più fresco di studi, che abbia vissuto in prima persona cosa significhi studiare o cercare lavoro nel mondo di oggi, debba essere più inadeguato di un politico che, nella migliore delle ipotesi, ha preso una laurea agli inizi degli anni Settanta, non ha mai dovuto neanche scrivere o inviare un curriculum nella sua vita, e biascica tre parole d’inglese. Perché quindi abbiamo tanta paura a dare un'opportunità a qualche volto nuovo? Questa diffidenza verso i giovani e il cambiamento è un atteggiamento tipico italiano, e forse delle culture più tradizionali come quelle mediterranee. In Spagna, per esempio, dopo l'esperimento Zapatero si è registrata una nuova chiusura. Carme Chacón, la trentanovenne ministra della Difesa che avrebbe voluto essere il candidato socialista alle prossime elezioni, è stata subito fatta fuori dai baroni di partito, che hanno ripiegato su Rubalcaba, uomo di più consolidata tradizione partitica. I Paesi del Nord Europa, invece, sono più abituati a cambi anche radicali, a dare fiducia a volti e generazioni nuove. E proprio il loro esempio potrebbe farci capire che cambi generazionali anche radicali possono essere un'opportunità e non devono far paura. E il riferimento non è solo all'Inghilterra che ha eletto il quarantacinquenne David Cameron o che, a suo tempo, elesse il quarantaquattrenne Tony Blair. Anche i Paesi scandinavi offrono ottimi spunti. Jens Stoltenberg, attuale primo ministro norvegese, fu eletto quando aveva 41 anni, dopo essere stato, all'età di 36 anni, ministro dell'Economia e delle Finanze. Il nuovo primo ministro danese, Helle Thorning-Schmidt, ha 44 anni, ed è tra le più anziane della sua squadra di governo. La Thorning-Schmidt, infatti, non ha avuto paure o esitazioni ad affidare il ministero delle Finanze al trentottenne Bjarne Corydon o il ministero degli Interni alla ventottenne Astrid Krag Kristensen. Per dare un'idea di ciò che questo possa significare in termini di cambiamento culturale, basta pensare che quando Susanna Camusso è diventata dirigente della Fiom milanese, la trentaquattrenne ministro del Lavoro danese, Mette Frederiksen, non era ancora nata. E quando il nostro ministro Sacconi veniva eletto per la prima volta in Parlamento, Mette non andava neppure all'asilo. Certo, non è detto che tutti questi giovani ministri e primi ministri facciano un buon lavoro. E finché non avranno completato il loro mandato non sapremo con certezza dove avranno condotto i loro Paesi. Ma sappiamo con certezza dove i nostri grandi politici tanto esperti e navigati hanno portato il nostro. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9378 Titolo: IRENE TINAGLI Responsabilità collettive della crisi Inserito da: Admin - Novembre 14, 2011, 07:29:11 pm 14/11/2011
Responsabilità collettive della crisi IRENE TINAGLI I grandi festeggiamenti che hanno accompagnato l’uscita di scena di Silvio Berlusconi fanno molto pensare. Si sente parlare di liberazione nazionale, come se fosse caduto un dittatore che da solo ha rovinato un Paese intero. Eppure quest’uomo che oggi nessuno, neppure tanti suoi alleati, pare abbia mai voluto, è stato votato non una ma ben tre volte dagli italiani. Tra l’altro l’ultimo suo successo risale alle amministrative del 2010, poco più di un anno fa, già in piena crisi economica e dopo vari scandali. Dimenticarsi questo dettaglio impedisce di fare un’analisi profonda del Paese e di operare una corretta distribuzione di responsabilità, sia rispetto a chi lo ha supportato così a lungo sia nei confronti di chi, avversandolo, non ha evidentemente saputo offrire agli italiani un’alternativa più convincente. C’è un altro aspetto che molti sembrano dimenticare nell’agitazione euforica di questi giorni. Ovvero la responsabilità non solo individuale ma collettiva della situazione economica attuale. È verissimo: oggi Berlusconi lascia un debito pubblico al 120%, una disoccupazione giovanile quasi al 30%, un tasso di attività femminile fermo al 46%, nonché un Paese ancora ostaggio di burocrazia, sprechi e corruttele. Ma la disoccupazione giovanile era già un problema quindici anni fa: per quasi tutti gli Anni Novanta è stata attorno al 30%; così come il debito già in quegli anni aveva raggiunto e superato quota 120, per non parlare dei problemi cronici relativi all’occupazione femminile, alla burocrazia e agli sprechi. Insomma, più che di aver creato certe situazioni, questo governo ha la responsabilità (enorme) di non averle affrontate con sufficiente serietà, incisività e coerenza. E per quanto sia giusto e naturale che la responsabilità di questo fallimento ricada per primo su chi questo governo l’ha formato e guidato, sarebbe un errore ignorare che alla radice di questo fallimento c’è una responsabilità che va oltre quella personale di Berlusconi. Molte delle misure e riforme che sarebbero state necessarie in questi anni, e che sono contenute nella famosa lettera della Banca Centrale Europea (pensioni, lavoro, liberalizzazioni degli Ordini e dei servizi pubblici etc.), sono state aspramente osteggiate sia all’interno del centro-destra che del centrosinistra, vedendo più di una volta schierati sullo stesso fronte sia alcuni dei più fedeli alleati di Berlusconi, come Bossi, che i suoi storici nemici, come Di Pietro o Vendola. Senza contare che iniziative legislative come quella per l’abolizione delle province o dei vitalizi sono state bocciate con voto quasi unanime dei parlamentari di entrambi gli schieramenti. È importante ricordarsi queste dinamiche, perché sono le stesse che in passato hanno frenato e fatto cadere anche altri governi. E continueranno a frenare l’Italia se ogni volta crediamo di risolvere tutto attribuendo responsabilità o poteri salvifici a singoli individui dimenticando queste responsabilità collettive. Un atteggiamento che ci condannerà a rivedere sempre lo stesso film e a non riuscire mai ad aprire una stagione veramente nuova. La vera sfida di Monti sarà proprio questa. Non solo riallineare l’economia italiana, ma anche le numerose e divergenti voci che hanno finito per sfibrare il tessuto sociale e la cultura politica del Paese. Un compito che richiederà la capacità di parlare non solo ai mercati internazionali ma agli italiani, riaprendo un canale di comunicazione onesto, chiaro, e coerente con i cittadini, capace di ricreare fiducia senza però cadere in tutte le facili demagogie che hanno reso i partiti prigionieri di se stessi e incapaci di dare al Paese la guida lungimirante di cui aveva bisogno. Un compito difficile, ma, speriamo, non impossibile. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9435 Titolo: IRENE TINAGLI I vantaggi di una risorsa trascurata Inserito da: Admin - Novembre 23, 2011, 12:26:54 pm 23/11/2011
I vantaggi di una risorsa trascurata IRENE TINAGLI Nel momento in cui molti sono in tensione, aspettando di vedere se e quanto le prossime manovre toccheranno stipendi, case o pensioni, il Presidente Napolitano ci stimola ad alzare lo sguardo. Ci invita, finalmente, a pensare anche agli «altri». Alle minoranze religiose, culturali, e, in particolare, a tutti quei bambini nati in Italia da stranieri che l’Italia si ostina a non voler considerare suoi cittadini. E così facendo Napolitano ci fa riflettere su cosa significa essere comunità inclusiva, che accoglie, che cresce senza discriminazioni e senza chiusure. Una riflessione importante non solo per il suo lato profondamente umano e valoriale, ma anche per il suo aspetto sociale ed economico. Da sempre chiusura e protezionismo, tanto nelle società quanto in economia, portano isolamento e regressione. L’apertura non solo porta al proprio interno nuove energie, nuove idee e più dinamismo, ma proietta all’esterno l’immagine di una comunità forte, attrattiva, che non teme il confronto e le influenze esterne, ma che le integra e si alimenta di esse. E’ stata questa, per esempio, la grandissima forza degli Stati Uniti nei due secoli passati. Un Paese che ha accolto milioni di immigrati, spesso senza che nemmeno conoscessero la lingua inglese. E questo contributo ha reso gli Stati Uniti non solo un’economia più forte, ma un riferimento per milioni di persone nel resto del mondo. E oggi, anche se molti dei vecchi immigrati parlano ancora i loro dialetti di origine, l’inglese è diventato la lingua passepartout di tutto il mondo. Una sorta di divertente contrappasso, non avvenuto per caso. Ma per capire il valore che gli immigrati possono portare in una società non c’è bisogno di guardare alla storia e al passato degli Stati Uniti: basta aprire gli occhi e saper vedere l’Italia di oggi. Gli immigrati rappresentano ormai una componente fondamentale della nostra economia e della nostra società, molti settori crollerebbero senza di loro. Come ci dicono i dati dell’Istituto Tagliacarne, che assieme a Unioncamere monitora il contributo degli stranieri alla nostra economia, ci sono settori, come quello delle costruzioni, in cui addirittura un quarto del valore aggiunto prodotto è dovuto agli stranieri. Sempre secondo le stime del Tagliacarne, il contributo complessivo degli stranieri al valore aggiunto prodotto in Italia è stato, nel 2009, di oltre 165 miliardi di euro, il 12,1% del totale. Non solo, ma attraverso il loro lavoro gli immigrati contribuiscono anche ai nostri servizi e alle nostre pensioni. Pochi sanno che i contributi versati dagli immigrati all’Inps ammontano a sette miliardi e mezzo di euro, ovvero il 4% di tutte le entrate dell’Inps, una cifra altissima soprattutto se si considera che sono pochissimi gli immigrati che, invece, beneficiano di pensione dallo Stato italiano. E sono pochi non solo perché molti devono ancora maturarla, ma perché sono tanti quelli che dopo alcuni anni tornano poi nel loro Paese di origine lasciandoci in dote i loro contributi. Questo significa, come ben documenta l’ultimo libro di Walter Passerini e Ignazio Marino («Senza Pensioni», Chiarelettere), che gli immigrati stanno supportando in modo sostanzioso anche il nostro sistema di welfare sociale oltre che economico. E possiamo immaginare quanto maggiore potrebbe essere tale contributo se riuscissimo finalmente ad affrontare questo tema con meno foga ideologica e meno paure, aiutando molti stranieri ad integrarsi, cominciando dal rendere i loro figli, che di fatto sono italiani, cittadini a tutti gli effetti. Le conseguenze di un’apertura di questo genere sarebbero molto importanti, e non solo in termini economici. Pensiamo a cosa possa significare per una famiglia, e soprattutto per dei bambini e dei giovani, sentirsi parte integrante della società in cui vivono e lavorano, sentirsi portatori degli stessi diritti e doveri di chi gli sta intorno. L’emarginazione genera rancore, odio, rende inevitabilmente arrabbiati contro chi ti esclude. L’integrazione, quella piena e sincera, dà e genera fiducia, coesione, identità collettiva. E questo aiuta a prevenire malesseri sociali, conflitti, criminalità. E aiuta a fare fronte comune contro i problemi e le crisi, in nome di un Paese che non è soltanto di quelli che in qualche modo se lo sentono nel sangue, ma di tutti quelli che lo hanno scelto con passione, determinazione e amore. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9470 Titolo: IRENE TINAGLI Scommettere su qualità e preparazione Inserito da: Admin - Novembre 27, 2011, 03:20:54 pm 27/11/2011
Scommettere su qualità e preparazione IRENE TINAGLI E’ prassi comune, soprattutto tra i politici, additare gli economisti come i responsabili della crisi, della precarietà e dei milioni di giovani senza prospettive. Eppure molti economisti da anni non fanno che ripetere, proprio ai nostri politici, la necessità di investire di più nella formazione e nell’integrazione dei giovani nel mercato del lavoro. Lo ha fatto anche ieri il neo Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nell’intervista a La Stampa mettendo in evidenza tutte le contraddizioni dell’Italia. Un Paese che per reagire alle pressioni di un’economia globalizzata ha scaricato le sue debolezze sui più giovani. Col risultato paradossale che in un’economia mondiale sempre più trainata da conoscenza e innovazione, in cui la domanda ed il valore di competenze fresche tendono ad aumentare, l’Italia vede diminuire i salari d’ingresso dei suoi giovani laureati, persino di quelli di cui ha più bisogno, come gli ingegneri. Ma Visco non cerca di accattivarsi le simpatie dei movimenti studenteschi o dei sindacati. Nessuna condanna della legge Biagi, nessuna invocazione per posti fissi o salari minimi e università gratis per tutti. Il problema è investire per dare qualità e valore all’istruzione dei giovani, in modo da renderli più forti sul mercato del lavoro. Il dramma dell’Italia non è stata l’introduzione di strumenti di flessibilità, ma l’incompletezza delle riforme e l’uso che ne è stato fatto. Quegli strumenti avrebbero dovuto aiutare le imprese ad investire in tecnologie e formazione. Ma così non è stato, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Ora è tempo di rimboccarsi le maniche e invertire rotta. Il tempo e’ scaduto e gli alibi pure. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9487 Titolo: IRENE TINAGLI Senza confini Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 12:55:38 am 4/12/2011
Senza confini IRENE TINAGLI «Buona fortuna figliolo!», così si salutavano un tempo i giovani che decidevano di fare le valigie e andarsene in cerca di opportunità lontano da casa. Oggi invece è a quelli che restano che bisogna augurare buona fortuna, perché per chi resta inchiodato nel proprio Comune di residenza le prospettive sono sempre più ristrette. Non è tanto la mobilità geografica, di per sé, a far la differenza, ma la possibilità di accedere ad opportunità diverse e qualificanti, di maturare esperienze più variegate. Perché oggi è finita l’era delle carriere «verticali», le storie degli impiegati che da semplici fattorini finiscono la loro carriera come dirigenti o presidenti di quella stessa azienda. Oggi è l’era delle «boundaryless careers», le carriere senza confini, come scrisse qualche anno fa la professoressa Denise Rousseau, esperta di organizzazioni e lavoro. Sono le carriere che sconfinano, che travalicano settori tradizionali, che rompono le gerarchie aziendali dalle linee verticali per muoversi lateralmente da un’organizzazione all’altra accumulando in pochi anni esperienze che vecchi top manager non sono riusciti ad accumulare in una vita. E sono carriere che sempre più travalicano anche confini geografici. L’esplosione di mercati emergenti come la Cina, l’India o il Brasile, per esempio, non dà solo lavoro alla manodopera di quei Paesi, ma sta aprendo molte opportunità anche a progetti di altissimo livello nei settori dell’ingegneria, dell’economia, dell’architettura, dell’informatica, della comunicazione. Certo, per chi cresce in città come New York o Londra, esposto a mille opportunità diverse, è possibile costruire percorsi interessanti e gratificanti anche senza spostarsi geograficamente. Ma per i milioni di giovani cresciuti nella provincia italiana, difficilmente queste opportunità si materializzano sotto casa, e la capacità e la volontà di rincorrere opportunità altrove diventa fondamentale. Eppure, nonostante le difficoltà crescenti di chi si muove in contesti più locali e tradizionali, i sondaggi ci dicono che sono ancora relativamente pochi i giovani italiani che sono disposti a muoversi, soprattutto al centro e al Nord Italia. A bloccarli non sono soltanto gli affetti familiari, ma la scarsità di informazioni, la mancanza di una guida, l’incertezza e la lunghezza dei percorsi. A pesare in queste scelte vi è anche l’influenza di mèntori e genitori ancorati ad altre epoche, abituati a considerare una laurea sotto casa uguale a quella presa a Duke, Eton o Carnegie Mellon (anche perché la maggior parte dei nostri genitori, diciamo la verità, non ha idea di cosa sia Duke o Carnegie Mellon), a temere lunghe lontananze e difficoltosi rientri. Una cosa è vera: nonostante chi vada all’estero sia spesso tacciato di cercare scorciatoie, di solito accade l’esatto opposto. I percorsi e le esperienze fuori confine sono spesso lunghi e faticosi. Lo sanno bene anche tutti i giovani ricercatori che negli anni passati hanno scelto la strada del dottorato negli Stati Uniti. Anche se oggi qualcosa è cambiato, fino a tempi molto recenti la differenza è stata netta: un dottorato in Italia durava tre anni, non aveva esami, e dava subito la possibilità di mettere un piede nella porta dell’accademia italiana. Un PhD americano invece durava in media 5-6 anni, ti massacrava di corsi ed esami, e ti faceva perdere contatti per un eventuale rientro in patria. Tant’è che in certi casi erano gli stessi professori italiani che sconsigliavano ai propri studenti di partire. Ma di fronte a scelte che possono cambiare radicalmente la nostra formazione e il nostro futuro sono altre le considerazioni da fare. L’unico criterio da seguire deve essere la qualità e la rispondenza ai propri bisogni, necessità e attitudini. Se l’opportunità che si presenta «sotto casa» risponde a queste caratteristiche, sarebbe sciocco andarsene. Ma quando così non è, è sciocco restare. Ed è questo il mantra che dovrebbe accompagnare ogni giovane nelle proprie scelte di studio, di lavoro e di crescita personale: la scelta della qualità, oggi più che mai. Perché anche se ci lamentiamo spesso dello scarso riconoscimento dei «meriti», tuttavia col tempo la qualità viene sempre fuori ed è la miglior assicurazione contro crisi e globalizzazione, perché è l’unica carta spendibile in ogni parte del mondo. Non è facile entrare in quest’ottica; molti genitori incitano ancora i giovani a scegliere le strade che sembrano più brevi, più rapide, che danno un «titolo» sicuro, che sono o appaiono più comode. Ma sono quasi sempre scelte sbagliate. Perché c’è sempre qualcosa che si sacrifica sull’altare della comodità e della scorciatoia. E questo qualcosa è quell’approfondimento, quel sacrificio che ci consente di imparare e capire non solo il settore in cui lavoriamo, ma qualcosa riguardo a noi stessi, a ciò che sappiamo fare meglio, e che ci aiuta a forgiare e indirizzare meglio il nostro percorso futuro. Il talento non è innato, e non ci viene rivelato come un’apparizione. Lo si scopre così, col tempo, le esperienze, il confronto con gli altri, i progetti e le sfide sulle quali ci misuriamo. Sono queste esperienze che ci aiutano a scoprire cosa veramente amiamo, cosa ci distingue dagli altri nel complesso e competitivo mercato del lavoro. E su queste consapevolezze è più semplice non solo costruire carriere gratificanti, che ci aiutano a trovare un lavoro che ci piace, ma anche dispiegare tutto il nostro potenziale umano e personale. Certo, percorsi del genere implicano anche molti errori, ripensamenti e sconfitte. Ma l’epoca delle carriere fulminanti degli Anni 80 è finita almeno quanto l’era dei lavori fissi degli Anni 70. E per quanto possa spaventare, questa era di «carriere senza confini» è anche ricca di opportunità, basta non perdersi nella ricerca di scorciatoie, ma investire in se stessi e non aver paura di guardare fuori. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9513 Titolo: IRENE TINAGLI Il destino dato in appalto Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2011, 03:59:52 pm 29/12/2011
Il destino dato in appalto IRENE TINAGLI Non c’è giorno in cui non siamo bombardati da qualche dato negativo su consumi, produzione, povertà ed occupazione. È l’immagine, si dice, di un Paese che si impoverisce sotto la scure della crisi e di manovre recessive. In questo scenario è difficile spiegare il dato del 2011 sulla raccolta del settore dei giochi (gratta e vinci, lotterie, lotto, slot machine, scommesse sportive e così via) appena reso noto: 76,5 miliardi di euro. Un aumento rispetto al 2010 di 15 miliardi di euro, ovvero il 24,3% in più. Questo significa che nell’anno della crisi più nera, della disoccupazione giovanile al 30%, dello spread alle stelle e dei tagli indiscriminati, gli italiani hanno speso in giochi e scommesse oltre 1200 euro non a famiglia, ma a testa - includendo nel calcolo persino i neonati! Con un aumento di spesa di circa 250 euro a persona rispetto all’anno precedente. Un dato veramente sorprendente. Che l’industria del gioco e delle scommesse sia relativamente più resistente alle crisi rispetto ad altri settori è cosa nota. Così com’è noto che la diffusione dei giochi online e la progressiva liberalizzazione avvenuta in numerosi Paesi (prima tra tutti l’Italia, che negli ultimi anni ha rilasciato migliaia e migliaia di nuove licenze) hanno dato impulso a questo settore a livello globale. Tuttavia risultati di queste dimensioni in un Paese come l’Italia, che proprio nel 2011 si è vista quasi sull’orlo del baratro, destano più di un interrogativo. Persino in Gran Bretagna, patria delle scommesse, gli anni della crisi hanno visto un sensibile calo di queste spese (-12,2% nel 2009 e situazione pressoché stazionaria nel 2010). Come mai gli italiani spendono in giochi e scommesse non il doppio, e nemmeno il triplo ma otto volte di più di quanto spendono in istruzione? Come mai di fronte alla crisi hanno diminuito i consumi di moltissimi beni, inclusi quelli alimentari, e hanno persino rinunciato ad iscrivere i propri figli all’Università, ma non al gratta e vinci o al lotto? E come mai rivendicano un sistema fiscale e sociale più redistributivo, che tolga ai pochi per dare ai più, e poi si affidano a meccanismi di redistribuzione opposti, in cui i più mettono soldi che verranno elargiti a pochissimi a prescindere dalle loro necessità? Non è facile rispondere a queste domande, anche perché dietro al fenomeno collettivo vi sono scelte individuali difficilmente penetrabili e, naturalmente, assolutamente libere e insindacabili. L’impressione che ne emerge tuttavia è quella di milioni di persone che si sentono sempre meno padrone del proprio destino, che non sanno o non vedono come poter migliorare la propria posizione, costruire il proprio futuro. E in questo vuoto si affidano, semplicemente, al caso. L’unico fattore che non chieda né impegno né sacrifici ma anche una delle poche cose che non faccia favori a nessuno. Uno dei pochi meccanismi che appare trasparente nella sua totale casualità. Una logica che non dà né per necessità né per merito, ma solo per fatalità. Ecco, il pensiero che milioni di italiani ripongano maggiore fiducia nella fortuna come mezzo per risollevare le proprie sorti piuttosto che nelle loro capacità o in quelle dei loro governanti dovrebbe farci riflettere. E farci capire che il grande lavoro di ricostruzione che ci attende nel 2012 non riguarda soltanto le casse dello Stato. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9593 Titolo: IRENE TINAGLI Se l'Europa non pensa al futuro Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2012, 09:56:55 am 6/1/2012
Se l'Europa non pensa al futuro IRENE TINAGLI Il 2012 dovrà essere l’anno dei giovani. Dovrà esserlo per forza, perché non è più tollerabile che Paesi che si sciacquano tanto la bocca con parole come crescita e futuro accettino in silenzio milioni di giovani sempre più soli, senza lavoro, senza protezioni sociali né prospettive. In Italia la disoccupazione tra i giovani sotto i 25 anni ha oltrepassato il 30%. E anche se i sindacati gridano all’emergenza licenziamenti e disoccupazione complessiva, non è così: il problema sta nella fascia giovanile. Il tasso di disoccupazione degli adulti è più o meno lo stesso di un anno fa. Quello dei giovani in un solo anno è passato dal 26% al 30%. Prima della crisi era al 20%. E spesso non si è trattato nemmeno di licenziamenti, perché la maggior parte di questi giovani non hanno mai visto un contratto a tempo indeterminato, non hanno mai visto indennità di disoccupazione, cassa integrazione, né supporto per maternità o malattia. Si sono semplicemente visti chiudere progetti, scemare le commesse, non rinnovare incarichi. Nessuna violazione dello statuto dei lavoratori, niente di cui i sindacati abbiano da lamentarsi, tutto regolare. Delle specie di morti rosa, che non fanno rumore, che si consumano nel silenzio dei nuclei familiari e che non mobilitano la piazza. E nessuno ha mai saputo o voluto dare risposta a questo esercito crescente di inoccupati o sottoimpiegati. Come spiega benissimo Pietro Ichino nel suo ultimo libro (Inchiesta sul Lavoro, Mondadori), ha fatto comodo a tanti, a troppi, che ci fosse questa valvola di sfogo: alle imprese come ai sindacati. Per questo è importante che il nuovo governo metta mano ad una vera riforma del lavoro che elimini questo odioso dualismo che c’è oggi nel mercato del lavoro: una parte completamente ingessata e una parte abbandonata a se stessa. Non possiamo continuare a pensare che i posti per i giovani si creino con i prepensionamtenti. Non solo perché l’ultima riforma non lo consente più, ma perché questa soluzione, ampiamente abusata in passato (in Italia ma anche in altri Paesi europei), ha dimostrato quanto sia fallimentare in un mercato del lavoro rigido e chiuso. Tutto quello che queste politiche hanno generato sono decine di miliardi da pagare in pensioni evitabili e quasi nessun posto di lavoro «buono» creato per i giovani. Né ci possiamo illudere che semplicemente aumentando il costo del lavoro «flessibile», senza toccare niente del restante mercato, possiamo scoraggiarne l’uso. Tali aumenti non faranno che scaricarsi sui redditi dei giovani (il cui salario di ingresso nel mondo del lavoro continua a calare) e incentivare un ulteriore migrazione da contratti a progetto alle partite Iva (assai più costose per i giovani), come già è ampiamente avvenuto negli ultimi anni. Quello che è necessario è qualcosa che questo governo sa benissimo, ovvero misure per la crescita attraverso liberalizzazioni e alleggerimento degli oneri (fiscali e burocratici) per far nascere e crescere le imprese, e riforme del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Perché è così difficile farle? Perché non tutte sono a costo zero, soprattutto il ridisegno degli ammortizzatori sociali in un modo che includa anche i giovani. Non è impossibile, potrebbe essere fatto rivedendo da un lato gli attuali aiuti alle imprese (circa trenta miliardi di aiuti iscritti a bilancio, molti dei quali di dubbia utilità) e dall’altro gli attuali sistemi di protezione sociale (a partire dalla cassa integrazione a zero ore a fondo perduto). Non c’è quindi bisogno di troppe spiegazioni per capire perché né imprese né sindacati scalpitino per tali riforme. Eppure qualcuno a un certo punto dovrà cominciare a pensare non solo ai propri iscritti, associati ed elettori, ma al Paese tutto intero, incluso coloro che non hanno né voto né tessere in tasca. Si tratta di un problema che dovrà affrontare non solo l’Italia, ma anche molti altri governi. In molti Paesi, infatti, le politiche economiche e sociali hanno fatto fatica a rispondere adeguatamente ai rapidi cambiamenti internazionali dell’economia e del lavoro degli ultimi anni, non solo per incompetenza, ma spesso perché frenati da forti resistenze interne e interessi di gruppi più o meno grandi. Basta guardare alla Spagna. Un Paese dove la disoccupazione giovanile ha superato il 42%, ma dove tale tema è stato sopravanzato in campagna elettorale dalla questione delle pensioni. E infatti, nonostante il deficit, i tagli alla ricerca e gli aumenti delle tasse, l’unica concessione del nuovo governo è stata fatta ai pensionati, sbloccando le indicizzazioni e rivalutando le pensioni. Ma il problema non è solo in Spagna. La disoccupazione giovanile in Francia è al 23%, in Belgio al 18%, in Svezia al 22%, in Gran Bretagna al 20%. Ovunque si fatica a trovare il bandolo della matassa (nonostante a pochi chilometri ci siano Paesi in cui le cose funzionano assai meglio, ma che, per qualche motivo, sembrano impossibili da seguire). Mario Monti inizia oggi il suo «tour» europeo: c’è da sperare che oltre a convincere gli altri Paesi che l’Italia sta cambiando e migliorando gli faccia capire che qualcosa dovranno cambiare anche loro, e che dovremo impegnarci tutti insieme se vogliamo che questo continente da vecchio non diventi decrepito da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9619 Titolo: IRENE TINAGLI E' in gioco un cambiamento profondo Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2012, 10:56:49 pm 21/1/2012
E' in gioco un cambiamento profondo IRENE TINAGLI Attese e polemiche, sono arrivate le liberalizzazioni. Molte critiche erano già partite prima ancora del decreto, figuriamoci adesso. Ogni dettaglio sarà scandagliato, ogni partito metterà i propri paletti, ogni lobby si armerà fino ai denti. In tutto questo rumore l'opinione pubblica rischia di restare confusa e divisa. A cosa servono davvero, chi ci guadagnerà e chi ci perderà? Fioriscono stime e tabelle, ma essendo le previsioni incerte per definizione, alla fine molti temono che chi ci perde sia più di chi ci guadagna. Le tariffe dei professionsiti diminuiranno, anzi no, aumenteranno. Si creeranno nuovi posti di lavoro, anzi no, la concorrenza li distruggerà. E così via. E su queste confusioni e paure giocano molte lobby e molti politici. Il rischio però è che si perda di vista la vera essen- za delle liberalizzazioni e l’impatto complessivo che possono avere sul Paese. Liberalizzare significa semplicemente rendere più semplice e meno vincolata la concorrenza, ovvero creare le condizioni perché nuovi concorrenti possano organizzarsi per entrare ed operare sul mercato. Tutto qua. Non è detto che ogni città verrà invasa da edicole, farmacie, negozi e professionisti, né che all’improvviso tutti i prezzi crolleranno o aumenteranno. Ma il punto, nonostante molti giochino su queste argomentazioni, non è questo, non è se qualcuno alza o abbassa la tariffa. Il punto è che ci sia un’offerta sufficientemente variegata che consenta al cittadino di scegliere il rap- porto qualità/prezzo che fa al caso suo. E creare un mercato che consenta ad un negoziante o ad un professionista di decidere come prefe- risce competere. Questo implica un cambia- mento profondo di come si muovono i consumatori, i produttori, ma anche del ruolo dello Stato. Il compito del regolatore pubblico in al- cuni settori non sarà più decidere quanta e quale offerta e a quale prezzo è disponibile al cittadino,masarà vigilare che i cittadini abbia- no accesso ad un’informazione chiara e trasparente su prezzi e caratteristiche di tutta l’offerta disponibile, e strumenti efficaci per potersi difendere da eventuali frodi o abusi. Questa è la vera novità che potrebbe cambiare profondamente non solo la nostra economia ma an- che la nostra società. Che poi questo si traduca in un determinato aumento o diminuzione dei prezzi medi in certi settori non possiamo saperlo con certezza. Potrebbe anche semplicemente tradursi in un aumento di qualità ed efficienza a parità di prezzo. Ma non sarebbe comunque un ottimo risultato che cambia la qualità della vita e del lavoro nel nostro Paese? Stesso ragionamento per gli effetti occupazionali. Prendiamo l’esempio dei servizi pubblici. Una maggiore concorrenza e trasparenza nei settori pubblici non necessariamente porterà un aumento di posti di lavoro. Potrebbe capitare che certe aziende erogatrici che fino ad oggi hanno assunto centinaia di figli di amici e parenti, si trovino costrette, per poter competere, ad assumerne un po’ meno, persone che siano però veramente competenti e produttive. Ma non sarebbe forse un risultato positivo? E’ vero, la concorrenza, nei settori pubblici come altrove, dovrebbe favorire la creazione di nuove aziende e quindi nuovi posti di lavoro che vadano a compensare la perdita che avrà luogo nelle aziende meno efficienti. Ma non è facile stimare di quanto sarà l’impatto netto nel prossimo anno o due, soprattutto in un contesto di forte contrazione dell’economia nazionale e internazionale come quello attuale. La domanda che dobbiamo porci non è soltanto «quanti posti di lavoro» creeremo quest’anno, ma quali logi- che cambieremo, quale Paese vogliamo costruire e quali condizioni stiamo creando affinché ciò si realizzi. Recuperare efficienza, eliminare sacche di inefficienza e posizioni di rendita, da- re alle persone la libertà di potere scegliere se, quando e come produrre un certo servizio op- pure se, quando e come consumarlo, significa dare più opportunità ai cittadini. E anche questa è equità. Anche questa è redistribuzione. Non si redistribuisce solo dando assegni di assistenza, ma anche creando spazi ed opportunità per chiunque abbia voglia e capacità di mettersi in gioco, a prescindere dalle persone di cui è figlio, amico o parente. Quanti consumatori o quanti aspiranti imprenditori, professionisti, farmacisti e commercianti decidano poi di cogliere davvero queste opportunità nel giro di un anno o due è un altro discorso. Che dipende da fattori economici congiunturali, da fattori culturali (non è detto che tutti gli aspi- ranti professionisti o farmacisti italiani decida- no di investire i loro risparmi in un’attività im- prenditoriale e rischiosa), e anche da una serie di altri fattori di contesto (riforma della giusti- zia civile, del mercato del lavoro, della burocrazia e del fisco, perché anche questi fattori in- fluenzano le scelte d’investimento e di consumo). Ma il cambiamento che è in gioco è più profondo e va ben oltre il 2012. E per quanto sia giusto discutere e valutare anche gli effetti immediati di questi provvedimenti, occorre fa- re molta attenzione. Per anni siamo stati vitti- madi riforme fallite perché vincolate agli inte- ressi di breve periodo, affossate dal «chi ci gua- dagna e chi ci perde». Dimostriamo che abbia- moimparato dagli errori passati. Ci guadagneremo tutti. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9674 Titolo: IRENE TINAGLI Se non ora quando? Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2012, 09:57:27 am 1/2/2012
Se non ora quando? IRENE TINAGLI Ormai non fa più nemmeno notizia: la disoccupazione giovanile in Italia non accenna a scendere. Anzi, su base annua, continua a salire. Secondo i dati resi noti ieri dall’Istat è al 31%. Fin dove dovrà arrivare perché questo Paese si decida a far qualcosa e a farlo subito? Forse qualcuno dovrebbe ricordare a politici, sindacalisti e amministratori di vario livello e colore che continuare ad ignorare il problema, ricordandosene solo per qualche slogan nei comizi, non farà cambiare direzione a questo trend. Ma soprattutto qualcuno dovrebbe ricordare loro che questo andamento ci porterà dritti dritti verso una situazione di gravissima insostenibilità sociale ed economica. Non si tratta solo dei giovani, ma di tutti noi. Per capirsi: dire che stiamo mangiando il futuro dei giovani è una sciocchezza. Perché in realtà stiamo mangiando quello di tutta la nazione, incluso quello di tante signore e signori che oggi guardano con compassione e commiserazione questi «poveri ragazzi». Perché tra dieci-quindici anni avremo qualche milione di adulti con scarsi stipendi, poca e probabilmente cattiva esperienza lavorativa, e quasi zero contributi cumulati. E avremo, di conseguenza, un Paese che non riuscirà a sostenere né crescita né spese sociali, perché avrà una forza lavoro che non sarà in grado, suo malgrado, di contribuire sufficientemente alla produttività, alle entrate e alla crescita. E che, anzi, avrà probabilmente bisogno di assistenza sociale. Continuare a dire che stiamo danneggiando il loro futuro, quindi, è miope e fuorviante. È come guardare un orto che avvizzisce e pensare «povere piantine», scordandoci che senza quelle piantine resteremo presto tutti senza mangiare. È stupefacente come nessuno sembri rendersi conto della bomba che stiamo confezionando e su cui siamo seduti. E come molti ancora pensino che semplicemente mantenendo le tutele dei padri possiamo tutelare sia i padri che i figli, senza rendersi conto che così facendo rimandiamo solo il momento in cui entrambi salteranno con le gambe all’aria. E i primi assaggi li avremo presto, quando migliaia di lavoratori da anni in cassa integrazione resteranno scoperti. Perché la cassa integrazione straordinaria, lo sappiamo bene, non ha fatto che finanziare una lenta agonia, ma non ha reso né le aziende né i lavoratori più forti e competitivi sul mercato. E anche quella bomba, presto, esploderà. Domani inizia il tavolo tra ministro del Welfare e parti sociali. I segnali «preparatori» di questi giorni non sono molto incoraggianti, con le parti sociali che hanno già lanciato veti e allarmi preventivi. I sindacati hanno messo le mani avanti su cassa integrazione e articolo 18, intoccabile perché questione di «civiltà» (qualcuno dovrà prima o poi dire a Francia, Danimarca, Spagna, Inghilterra e a molti altri Paesi europei quanto siano incivili). E anche Confindustria pare molto allarmata per l’ipotesi di riformare la cassa integrazione straordinaria - un costo di miliardi di euro che lo Stato si sta sobbarcando da anni per dare tempo alle imprese di «ristrutturarsi» (un tempo che però sembra non arrivare mai). La convergenza di interessi tra sindacati e industria su alcuni dei temi chiave della riforma che da domani sarà in discussione dà un’idea abbastanza chiara delle cause dell’ingessamento della nostra economia, e dell’incapacità di una buona parte del nostro sistema produttivo di aprirsi ai giovani così come alle nuove tecnologie e all’innovazione. È in parte comprensibile che una parte sociale che ha impostato tanta parte della sua ragion d’essere sul tema della difesa del posto di lavoro prima ancora che del lavoratore in sé (perché prima si difende il posto, l’«inamovibilità», poi si parla di formazione, crescita, competenze etc.) sia pronta a dar battaglia sul comma di un articolo. Così come può essere comprensibile che un’associazione di industriali che tanto hanno beneficiato (e spesso approfittato) degli aiuti dello Stato siano adesso spaventati da riforme che potrebbero rendergli la strada più difficoltosa. E c’è da riconoscere che la crisi non ha aiutato: con essa sono aumentate paure e insicurezze, ed è più facile per rappresentanti politici e di categoria cavalcare certe paure che assumersi la responsabilità di un’azione coraggiosa che le sfidi. Ma quando domani si troveranno tutti allo stesso tavolo per discutere una riforma che, pur non essendo l’unica soluzione al problema dei giovani, rappresenta un tassello fondamentale dell’insieme di misure che il governo sta attuando, c’è da sperare che le varie parti ritrovino questo coraggio. E che preferiscano sfidare le paure e gli interessi di parte per il bene comune, piuttosto che restare schiavi di un copione che l’Italia legge ormai da troppi anni. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9719 Titolo: IRENE TINAGLI Nuove regole per vivere senza il posto fisso Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2012, 12:11:50 pm 3/2/2012
Nuove regole per vivere senza il posto fisso IRENE TINAGLI La realtà è questa: in Italia ci sono oltre 10 milioni di persone, tra cui moltissimi giovani, che vivono situazioni di lavoro inesistenti oppure estremamente precarie. E per precarie, sia ben inteso, non si intende semplicemente un contratto a tempo determinato, ma si intende una posizione di lavoro in cui non si ha alcuna forma di tutela, dove non ci si può permettere di ammalarsi né tantomeno una gravidanza, dove non ci sono ferie pagate né indennità di fine rapporto e dove, come nel caso delle migliaia di persone costrette ad aprirsi una partita Iva pur non essendo professionisti, bisogna anche pagarsi da soli i contributi che normalmente paga il datore di lavoro. Per queste persone il miraggio non è tanto il posto fisso, ma condizioni di lavoro degne di questo nome, e un qualche supporto che le aiuti quando un contratto finisce e hanno bisogno di tempo o di nuova formazione per trovarne un altro. Milioni di giovani di fatto chiedono questo. Quello che già hanno gran parte dei loro coetanei nel resto d’Europa. Di fronte a questa realtà possiamo fare due cose. Possiamo dire a questi giovani che non devono stare a guardare questi «dettagli», ma che devono aspettare e puntare al posto fisso, come i loro nonni e i loro padri, perché quando ce lo avranno vivranno felici e protetti per il resto dei loro giorni. Poco importa se la competizione internazionale ha reso i mercati talmente instabili che le aziende non assumono più con contratti fissi. Poco importa se quel posto arriverà tra venti anni o forse mai. L’importante è tenere vivo l’obiettivo. Nel frattempo alle aziende che non riescono a sopravvivere offrendo contratti vecchio stampo si concede una serie di possibilità contrattualistiche ad altissima «deregolamentazione». In questo modo le aziende sono più o meno contente, i sindacati pure. I giovani un po’ meno, ma pazienza. Gli resta comunque il sogno di entrare prima o poi a far parte dei lavoratori «veri». Oppure possiamo dire a questi giovani che, viste le turbolenze economiche attuali e con aziende che aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, sarà sempre più difficile avere un posto che duri tutta la vita. Che se continua così si ritroveranno in milioni a scannarsi per poche migliaia di posti che arriveranno quando saranno impoveriti e stremati. E possiamo quindi provare a rendere questo percorso meno logorante. Da un lato, cercando di stimolare le imprese ad assumere, allentando le incertezze più gravose (come quelle delle cause di lavoro per reintegro che durano anni), alleggerendo la burocrazia e provando a rilanciare un po’ di investimenti. Dall’altro lato creando per questi giovani lavoratori, col coinvolgimento di Stato e aziende, nuove reti di sicurezza che in caso di malattia, gravidanza o ricerca di nuovo lavoro, non li lascino soli con la promessa che «quando avranno il posto fisso sarà tutto diverso». La prima strada è quella che abbiamo perseguito sino ad oggi. La seconda è quella che il governo Monti dice di voler intraprendere. Si può certamente discutere sui bei tempi che furono, e, più seriamente, sugli strumenti che verranno adottati e sul come implementarli. Ma non si può dire che cercare di riformare un mercato del lavoro e del welfare squilibrato come il nostro sia sbagliato. Perché l’obiettivo, almeno per come è stato presentato fino ad oggi da Monti e da Fornero, non è smantellare un sistema di tutele, ma ridisegnarle per fare in modo che milioni di persone che oggi hanno poco lavoro e zero protezioni, possano finalmente ritrovare un po’ di speranza. Non ci dimentichiamo che oggi, al di là dei due milioni e duecentoquarantamila disoccupati, più della metà dei lavoratori italiani non è protetta né dall’articolo 18 né, molto spesso, da forme di tutela assai più basilari: quattro milioni e centomila dipendenti di imprese con meno di 15 addetti, un milione e mezzo di collaboratori autonomi tipo cocopro, un milione e mezzo di interinali o con contratti a termine, mezzo milione di stagist, un milione di collaboratori domestici, e due milioni e mezzo di irregolari. Per non contare la marea di partite Iva che di fatto operano come lavoratori dipendenti. E’ chiaro che ridisegnare un sistema in questo senso chiama in causa tutti: le aziende - che non potranno più avere l’alibi di regole troppo rigide per andare a questuare sussidi allo Stato; i sindacati - che dovranno trovare un modo di fare lotta sindacale incentrato sulla persona, la sua formazione e crescita più che sul posto di lavoro; e infine lo Stato - che dovrà garantire formazione e servizi efficienti e vigilare sul funzionamento del mercato. Certamente questo ridisegno richiede estrema cura, per evitare gli errori e le distorsioni delle riforme passate. Ma proprio questa cura e questo concorso di forze sono necessarie per ridare a tante persone una serenità che un tempo veniva trovata da molti nel lavoro fisso ma che oggi ha bisogno di nuovi strumenti per essere raggiunta da tutti. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9728 Titolo: IRENE TINAGLI L'Italia non sa dare valore ai suoi laureati Inserito da: Admin - Marzo 07, 2012, 05:22:19 pm 7/3/2012
L'Italia non sa dare valore ai suoi laureati IRENE TINAGLI Per tutti quelli che da tempo si accalorano nel dire quanto inutile sia la nostra università, gli ultimi dati dell’indagine Almalaurea potrebbero sembrare una conferma delle loro opinioni. Aumenta infatti il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea, sia per coloro che escono dalla triennale (dal 16% al 19%) che per quelli che hanno intrapreso la specialistica (dal 18% al 20%). Mentre tra i laureati che invece lavorano aumenta il tasso di «precarietà» e diminuisce, in termini reali, il salario di ingresso. E’ prevedible quindi che adesso riemergano interpretazioni che leggono in questi dati i sintomi dell’inutilità del titolo di studio, della cattiva qualità delle nostre università o delle cattive abitudini dei nostri giovani, che cercano la laurea quando non è necessaria, o che si rifiutano di spostarsi o di fare lavori più umili e via dicendo. Questa lettura non solo è parziale e incompleta (perché comunque l’occupabilità e gli stipendi dei laureati restano complessivamente migliori che per gli altri) ma anche profondamente ipocrita, soprattutto quando a farla non sono accademici in vena autocritica, ma rappresentanti del mondo delle imprese, della politica e del lavoro. Infatti, nonostante le indubbie debolezze del nostro sistema universitario, non possiamo ignorare che l’Italia ha un sistema economico-produttivo che non ha mai compiuto fino in fondo quel processo di trasformazione e riqualificazione produttiva avvenuto in altri Paesi, ed è in larga parte incapace di valorizzare e assorbire competenze, talenti e nuove tecnologie. Questa incapacità la si coglie, per esempio, dalle previsioni di assunzione delle imprese raccolte ogni anno da Unioncamere, che mostrano un’incidenza della domanda di laureati del 12.5% su tutta la domanda di lavoro (contro il 31% degli Stati Uniti, per esempio). Ma la si coglie soprattutto osservando, più in generale, la composizione dell’occupazione in Italia e il suo andamento nel tempo. Gli ultimi decenni hanno visto, in tutti i Paesi industrializzati, un enorme cambiamento nella struttura occupazionale, con un progressivo svuotamento delle fasce operaie ed impiegatizie e un aumento di tutte le occupazioni più qualificate: tecnici specializzati, manager, imprenditori, professionisti (accompagnato anche da un parallelo aumento delle occupazioni senza alcuna qualifica). Un fenomeno legato all’avvento delle nuove tecnologie, alla crisi della vecchia industria e all’emergere di nuovi settori economici più smaterializzati: informatica, nanotecnologie, telecomunicazioni e via dicendo, fino all’intrattenimento e ai videogames. L’aumento di queste occupazioni di fascia alta è stato consistente in tutti i Paesi industrializzati, ed il loro peso sulla forza lavoro è arrivato, in casi come Inghilterra e Olanda, a superare il 30% della forza lavoro, assorbendo e attraendo grandi dosi di «capitale umano», ovvero laureati, specialisti e dottorandi. Tutto questo in Italia non è avvenuto: la crescita delle occupazioni di fascia alta è stata abbastanza contenuta negli Anni Novanta, e negli ultimi anni ha avuto un trend negativo che, come mostrano i dati Eurostat, l’ha riportata sotto il 18% dal 19% di qualche anno fa. Un calo moderato, ma che colpisce di fronte agli andamenti positivi di tutti i più grandi Paesi europei. E sulla mancata riqualificazione del sistema economico italiano i nostri politici, imprenditori, e sindacalisti non possono incolpare studenti e professori, ma devono assumersi le proprie, enormi responsabilità. Perché sanno benissimo come in Italia per troppo tempo questo processo sia stato temuto e osteggiato dalla maggior parte delle forze sociali e politiche in campo. Ed è noto come ogni investimento in nuove tecnologie e ricerca sia stato visto spesso come accessorio, e come ogni industria che non fosse sufficientemente «pesante», che non fosse «manifattura» sia stata considerata minore, o come ogni discussione sul ruolo dei servizi avanzati, delle industrie creative e culturali sia stato spesso derubricato come «fuffa». Una fuffa che negli altri Paesi non solo genera milioni di posti di lavoro qualificati, dando opportunità di crescita a tanti giovani laureati, ma che aiuta le stesse industrie tradizionali ad essere più efficienti, internazionalizzate e creative nel modo di riorganizzarsi e competere nei mercati internazionali. Recuperare il tempo perduto non sarà semplice. E non si dica che il salto si potrà fare aggiungendo nuovi e costosi incentivi: non serviranno. La situazione si cambia facendo dell’Italia un Paese dinamico e competitivo, con un mercato del lavoro che supporta efficacemente le riorganizzazioni aziendali e le riqualificazioni dei lavoratori, che si apre agli investimenti stranieri, che cambia i criteri con cui da decenni si appaltano servizi nella pubblica amministrazione e con cui si distribuiscono sussidi, incentivi e protezioni varie alle imprese, e che introduca una concorrenza chiara e trasparente che dia la possibilità alle imprese davvero più brave di competere e crescere. Perché la meritocrazia e la competenza di cui tanti amano parlare non si instaurano né per decreto né per incentivo, ma creando un sistema in cui diventino necessità. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9851 Titolo: IRENE TINAGLI La distanza tra Roma e Madrid Inserito da: Admin - Marzo 30, 2012, 05:55:35 pm 30/3/2012
La distanza tra Roma e Madrid IRENE TINAGLI Sciopero generale ieri a Madrid: i sindacati si ribellano alla riforma del lavoro e manifestano tutto il loro dissenso. Il governo tuttavia, forte anche del plauso della Commissione Europea e degli osservatori internazionali, dichiara di non avere intenzione di fare alcun passo indietro. La Spagna come l’Italia? Solo in apparenza. La riforma spagnola per certi versi è più radicale di quella italiana eppure, grazie alla forte maggioranza parlamentare uscita dalle urne, Rajoy si è potuto permettere un percorso meno mediato e con meno intoppi. La situazione italiana è molto diversa. Nonostante Monti dichiari che i cittadini appoggiano la sua riforma, il suo consenso ha una natura molto diversa da quello di Rajoy. Senza togliere niente all’efficacia dell’azione del governo Monti, buona parte del suo consenso vive di luce riflessa e inversa: è la grande debolezza dei partiti a dargli molta forza. Ma per quanto deboli siano, sono pur sempre i partiti che fanno o disfano le maggioranze parlamentari che devono approvare le sue riforme. E da qui le mediazioni, i tavoli, le soluzioni intermedie, gli aggiustamenti. Non è un caso se le prime riforme di Monti, avvenute in un momento di crisi totale dei partiti, sono quelle approvate più rapidamente, mentre le successive hanno vissuto maggiori «battaglie». Questo processo di mediazione chiaramente può essere visto sia come una opportunità – perché consente di raggiungere soluzioni più bilanciate - che come un problema – gli effetti potrebbero risultarne attenuati o troppo dilazionati. Ma a ben vedere le differenze tra gli atteggiamenti e le misure dei due governi non derivano soltanto dall’avere una solida maggioranza parlamentare, ma anche da una serie di idee e questioni più squisitamente politiche e per certi versi ideologiche che cominciano ad emergere nel caso spagnolo. E’ inevitabile infatti che molte delle iniziative prese dal governo di Rajoy in qualche modo lascino trasparire l’impronta politica del partito che le ha elaborate. L’obiettivo non è solo rimettere a posto il deficit, ma anche rispondere alle aspettative del proprio elettorato, sia in economia, con pesanti tagli al sistema di Welfare creato dai socialisti che i popolari hanno sempre considerato eccessivo, sia in altri ambiti non economici. Non è un caso se il governo spagnolo ha iniziato ad affrontare temi di ben altra natura, come, per esempio, la questione dell’aborto, un tema su cui i popolari non hanno mai digerito la riforma di Zapatero del 2010. Proprio l’altro ieri il ministro della Giustizia Gallardon ha annunciato una nuova legge sull’aborto, dichiarando che le leggi attuali spingono le donne ad interrompere la gravidanza, e sostenendo che «la libertà» di diventare madri è ciò che rende le donne autenticamente donne. Ecco, in queste circostante viene fuori fino in fondo la differenza tra un governo politico e un governo tecnico. Nessun ministro dell' attuale governo italiano si sarebbe mai sognato di esprimere giudizi di questa natura su un tema così delicato. E per quanto le dichiarazioni del ministro Gallardon possano scuotere e sconcertare (soprattutto i milioni di donne che ormai sono abituate a scegliere in totale libertà cosa le definisca «donne», senza che glielo debba dire un ministro), è normale che un governo politico cerchi di portare avanti una sua idea di società, di diritti civili, di etica, di rapporto Stato-cittadini. Il governo tecnico, come lo stesso Monti ha ricordato in alcune occasioni, non può entrare in materie di questo genere. Non perché non abbia idee in proposito - sicuramente sia Monti che molti suoi ministri avranno loro idee in materia di unioni civili o di interruzione di gravidanza -, ma perché non rientra nel loro mandato implicito. Non è un caso se da qualche mese a questa parte in Italia non si parla quasi più di matrimoni gay, omofobia, testamento biologico, fecondazione assistita e altri temi che invece negli anni scorsi hanno segnato anche molto animatamente il dibattito pubblico. Tutti temi rimasti sostanzialmente aperti, congelati nel clima di emergenza economica in cui ci siamo ritrovati. Ma questo vuoto non potrà durare in eterno. Un Paese non può andare avanti a lungo senza affrontare questioni importanti che influenzano la vita quotidiana dei cittadini anche al di là dell’economia. Da questo punto di vista ciò che preoccupa non è tanto che il governo tecnico non entri in questi argomenti, ma che pure i partiti sembrano essersene scordati. Sempre più anestetizzati dalla rapidità d’iniziativa con cui il governo Monti si sta muovendo sui temi economici, i partiti sembrano aver perso anche la capacità di pensare e proporre la loro idea di società e di Paese nel suo complesso. Sarà bene che si risveglino presto da questo torpore e che si facciano trovare pronti all’appuntamento elettorale, perché molti italiani aspettano delle risposte e delle strategie, e non solo sull’articolo 18. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9942 Titolo: IRENE TINAGLI I giovani siano imprenditori di se stessi Inserito da: Admin - Aprile 04, 2012, 05:05:26 pm 4/4/2012
I giovani siano imprenditori di se stessi IRENE TINAGLI Inventarsi un lavoro. Più la disoccupazione giovanile aumenta, più i ragazzi se lo sentono dire. Ma come possono fare? E come possiamo aiutarli a inventare nuovi lavori? Si dice loro di ripensare gli studi, scegliere più accuratamente, definire percorsi di formazione più allineati con l’evoluzione dell’economia. Ma è difficile prevedere quali competenze saranno richieste da qui a cinque o dieci anni, spesso non lo sanno nemmeno le aziende. Ieri magari avevano bisogno di un addetto stampa, oggi di un graphic designer, o di un social media manager. Ieri di un commercialista, oggi di un avvocato specializzato in diritto cinese o proprietà intellettuale. Non è facile programmare carriere in questo scenario, e non è facile per un governo «creare posti di lavoro» secondo politiche industriali vecchio stile, quelle che tanti politici oggi invocano, a suon di sussidi e incentivi. Il modo migliore e più sano è dare ai cittadini più imprenditoriali, e in particolare ai giovani, i saperi, le competenze e le condizioni necessarie a fare nuove imprese ad alto potenziale di crescita. In questo modo non solo inventeranno il proprio lavoro, ma anche quello di molti altri. Gli studi della Kauffman Foundation hanno dimostrato che negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni la quasi totalità di nuovi posti di lavoro è stata generata da aziende nei loro primi anni di vita, aziende «nuove». Per questo il tema su come stimolare la creazione di nuove imprese è sempre più importante, e si discute spesso delle «condizioni» per farlo: semplificare la burocrazia, abbassare i costi di fare impresa, attrarre e stimolare il capitale di rischio, investire in infrastrutture digitali e nuove tecnologie. Tutte cose su cui è fondamentale agire presto, perché si tratta di condizioni fondamentali senza le quali non si va da nessuna parte. Ma c’è qualcos’altro, altrettanto importante, di cui si però si parla molto meno: l’educazione alla curiosità, al rischio, all’imprenditorialità. Tutti i sondaggi condotti tra i giovani italiani mostrano bassi livelli di propensione al rischio e all’imprenditoria. Anche se molti ragazzi hanno minori aspettative rispetto al posto fisso e anche se aumenta, per esempio, la disponibilità a viaggiare e spostarsi, tuttavia la voglia di fare impresa resta molto bassa. Uno dei sondaggi più recenti, condotto nel febbraio scorso da Termometropolitico in collaborazione con La Stampa su ottomila italiani sotto i trentacinque anni, ha fatto emergere come il 24% degli intervistati accetterebbe «qualsiasi lavoro, anche pagato male, basta che sia sicuro e a tempo indeterminato e senza alcun rischio». Per contro solo il 16% preferisce «fare sacrifici per qualche anno per mettere soldi da parte e iniziare una sua attività indipendente». Un dato sorprendentemente basso. Per fare un confronto, in un’indagine condotta dalla Gallup Organization assieme alla Fondazione «Operation Hope» e resa nota pochi giorni fa, il 77% dei giovani intervistati dichiara di voler essere «boss di se stesso», il 45% di voler fare la propria impresa, e il 42% si dice convinto che inventerà qualcosa che cambierà il mondo. Non solo, ma il 91% sostiene di non avere paura ad assumersi dei rischi, anche se possono portare a sbagliare e fallire, e l’85% dice di «non mollare mai» quando desidera raggiungere un obiettivo. Altro che accontentarsi! Naturalmente i due sondaggi sono stati fatti con criteri e campioni diversi ed è difficile fare un confronto puntuale, ma le differenze di atteggiamento che emergono sono così enormi che non possono non suscitare alcune riflessioni. La prima è che, evidentemente, certe predisposizioni imprenditoriali hanno radici lontane e profonde, e sono legate ai contesti in cui si formano i giovani, ben prima che arrivino alla laurea. E non possiamo pensare di iniettargliela da un giorno all’altro, magari quando hanno già completato gli studi, e quando si sono già immaginati un futuro lineare e tranquillo che tutti, dai genitori a tanti politici, gli hanno prefigurato come orizzonte desiderabile ed esigibile. È normale che tanti giovani cresciuti in contesti di questo genere non abbiano voglia di fare gli imprenditori. Non ci si improvvisa pionieri. Ma nemmeno ci si nasce. Diciamo che ci si «cresce», grazie al contesto, alle competenze, agli esempi e al clima che ci girano attorno. Ed è questa la seconda riflessione da fare: su cosa e come supportare questi processi senza aspettare che sia troppo tardi. Sempre dal sondaggio Gallup emerge come il 54% dei ragazzi tra la quinta elementare e l’ultimo anno di superiori abbia imparato a scuola le basi su come gestire i propri risparmi, aprire un conto, prendere un prestito e così via, e come il 50% riceva corsi e informazioni a scuola su come creare un business. Certamente imparare questi aspetti da ragazzini non implica che poi si decida di metterle in pratica, ma aiuta per lo meno a sentirsi più sicuri e meno sprovveduti quando si voglia cimentarsi con «inventarsi il proprio lavoro» o fare una nuova impresa. Si è più stimolati a pensare a nuove idee, a pensare che sì, si può fare qualcosa di nuovo, qualcosa di utile, qualcosa che forse, chissà, cambierà il mondo. Perché per accontentarsi c’è sempre tempo. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9960 Titolo: IRENE TINAGLI Il Politecnico parlerà inglese un passo importante per il paese Inserito da: Admin - Aprile 12, 2012, 03:44:15 pm 12/4/2012
Il Politecnico parlerà inglese un passo importante per il paese IRENE TINAGLI Gli ingegneri italiani sono sempre stati un gran vanto per il nostro Paese, una tradizione che ha trainato la rinascita industriale del dopoguerra e che ha dato una forte identità a molte nostre aziende, marchi e prodotti. Una tradizione spesso sbandierata con orgoglio per contraddire le teorie più pessimiste sul potenziale del nostro Paese. Confesso di averlo fatto anch’io quando vivevo negli Stati Uniti. Ricordo una discussione con alcuni accademici e imprenditori americani e italiani «emigranti», il tema era il declino della formazione universitaria italiana, e come controargomento portai ad esempio le nostre facoltà d’ingegneria e i Politecnici, che da sempre sfornano ingegneri di primissima qualità. Mi sentii ribattere che probabilmente erano molto bravi, ma non parlavano una parola d’inglese. Questo accadeva poco meno di 15 fa. Molte cose sono accadute da allora. Il mondo ha attraversato trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali che all’epoca sarebbero state impensabili. Anche gli ingegneri italiani, ormai, parlano l’inglese. L’iniziativa del Politecnico di Milano sancisce il completamento di un percorso di «ammodernamento» che probabilmente sarà seguito presto da altre facoltà. Un cambiamento che non solo darà un bel contributo a tutti i nostri ingegneri che vogliano misurarsi con mercati e opportunità a livello internazionale, ma che renderà l’Italia un Paese più attraente per tutti gli studenti stranieri che vogliano approfittare della eccellente qualità della formazione ingegneristica del nostro Paese. Tutto questo agevolerà quel processo di scambio culturale e di apertura internazionale fondamentale per l’innovazione e la competitività di un paese. C’è solo un piccolo, tenue rammarico. Imparare a conversare in una nuova lingua non cancella mai la capacità di conversare nella lingua madre. Ma quando si imparano concetti tecnici, specifici, che sono totalmente nuovi, li si imparano nella lingua con cui vengono presentati per la prima volta. E non viene automatico tradurli nella lingua madre come può accadere con parole consuete come buongiorno o buonasera. Anzi. Chiunque abbia esperienze di studio e specializzazione all’estero sa quanto tempo e fatica richieda «ritradurre» in italiano termini ed espressioni apprese per la prima volta in una lingua straniera. Questo significa che la strada del cambio linguistico per le nuove generazione di ingegneri italiani potrebbe essere senza ritorno. Non sarà banale per ragazzi formatisi in lingua inglese tornare a progettare in italiano. Non è un dramma, ed è più lungimirante una scelta di questo genere di quella fatta, per esempio, da quelle università catalane che impongono esami in una lingua che non parla più nessuno. Ma è comunque un piccolo pezzo della nostra tradizione che ci lasceremo alle spalle. E ogni grande tradizione deve sapersi adattare e cambiare pelle se vuole continuare a vivere nella realtà del suo tempo e non solo nei musei e nei libri di storia. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9988 Titolo: IRENE TINAGLI L'efficienza è l'unica via d'uscita Inserito da: Admin - Aprile 25, 2012, 04:12:45 pm 25/4/2012
L'efficienza è l'unica via d'uscita IRENE TINAGLI Di fronte agli ultimi dati dell’Istat sulla frenata dei salari si può reagire in due modi. Si può incolpare la crisi, o l’austerità di Monti e invocare nuove contrattazioni più generose o altre forme di supporto al reddito. Oppure si può cercare di fare un ragionamento più approfondito per capire le radici del problema e quali soluzioni possano funzionare o no. La questione dei salari in Italia, e del parallelo rapporto con i consumi (anch’essi stagnanti) è un problema reale e profondo, ma non c’entra tanto con la crisi né con l’austerità. Ha radici più lontane, che hanno iniziato a manifestare i propri effetti prima della crisi. Già nel 2006 i dati dell’Eurostat mostravano come l’Italia avesse salari medi annuali inferiori del 20-30% rispetto a Paesi come Francia o Germania. E nel 2007 l’allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in una relazione presentata alla società italiana degli economisti, lanciò un allarme sulla stagnazione di consumi e salari che affliggeva l’Italia già da alcuni anni. Il vero problema, come indicava Draghi e come ha ribadito un paio di giorni fa l’attuale governatore Visco, risiede nella produttività. Proprio la Banca d’Italia in uno studio sui primi dieci anni di Unione Monetaria (1998-2008) ha mostrato come la produttività sia aumentata del 18% in Francia, del 22% in Germania e del 3% in Italia. Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro. Affrontare il nodo della produttività è complesso, e un’analisi completa richiede più spazio di quanto conceda un editoriale. Ma è importante almeno ricordare che parlare di produttività significa parlare non solo di investimenti e nuove fabbriche, ma anche di servizi avanzati, istruzione della forza lavoro (di cui non si parla mai, come se fossimo tutti geni naturali quando invece siamo una delle forze lavoro meno qualificate d’Occidente), e un sistema di regole di mercato e di amministrazioni pubbliche trasparenti, snelle e funzionali. La funzionalità ed efficienza del sistema in cui operano imprese e lavoratori è fondamentale, ed è data dalla semplicità e dai costi della burocrazia e dall’amministrazione pubblica, dalla qualità dei servizi che produce, così come dalla fluidità di certi mercati, perché più sono protetti e rigidi, più sono inclini a sprechi e inefficienze. Ed è ovviamente legata anche alla dinamicità del lavoro, intesa non solo come flessibilità in entrata ed uscita, quanto come flessibilità nell’organizzazione del lavoro, che è cosa diversa, perché implica poter cambiare rapidamente orari, turni, mansioni e riqualificazioni all’interno dell’azienda, cose complicate con l’attuale struttura della contrattazione. Tutti questi cambiamenti hanno fatto e continuano a far paura, e l’incapacità di gestirli se non in modo confuso e spesso pasticciato ha portato alla situazione attuale. Il paradosso è che non di rado molte associazioni di categoria, aziende o persino cittadini, preferiscono ridurre un po’ la propria ricchezza pur di non essere costretti a cambiare modo di produzione, lavoro, studio o formazione. In pratica è come se negli anni passati fossimo stati testimoni di una sorta di scambio implicito tra mancanza di riforme complete da un lato e minori redditi dall’altra. Prendiamo l’esempio della pubblica amministrazione: è vero, come giustamente ricorda il segretario Cgil Camusso, che questo settore ha gli stipendi bloccati da anni (ed è uno dei fattori che traina al ribasso i dati Istat), ma è anche vero che, in Italia come in Spagna o in Grecia, questi blocchi sono la conseguenza di una incapacità di riformarli e renderli più efficienti rispetto ai servizi che erogano. Non potendo fare riforme che consentano di risparmiare risorse e migliorare l’efficienza legando i costi all’impegno e ai risultati (riforme sistematicamente vanificate da veti, proteste o da miseri accordicchi che le neutralizzano), l’unico modo per contenere la spesa è bloccare i salari. E’ un metodo sbagliato, ingiusto e inefficiente. Ma a quanto pare è l’unico fino ad oggi accettabile dalle varie «parti» in gioco. E nel settore privato sono emersi comportamenti e soluzioni diverse ma similmente distorte e distorsive ogni volta che si è provato a parlare di liberalizzazioni, riconversioni e così via. Anzi, piuttosto che investire in riforme e risorse per rendere i nostri mercati più aperti a nuovi settori, nuove tecnologie, e a tutto quello che poteva aiutare una riconversione del sistema produttivo, abbiamo speso miliardi per evitare tale riconversione e tenere in vita aziende stracotte e non competitive. Il problema è che tutte queste mancate riforme alimentano ulteriori inefficienze «di sistema» che a loro volta si traducono in maggiori tasse, maggiori costi di produzione, e in prezzi più alti e/o prodotti e servizi più scadenti. Quindi non basta invocare controlli sui prezzi o rinegoziazioni centralizzate dei salari per risolvere la questione, perché non sono variabili «indipendenti» regolabili dall’alto, ma sono legate alla nostra capacità di cambiare il nostro modo di studiare, lavorare, produrre e gestire la macchina statale. Può sembrare una sfida impossibile, ma non lo è. Molti Paesi hanno saputo superare crisi e debolezze, basta pensare alla recessione svedese di inizio Anni Novanta, con raddoppio del debito e decuplicazione del deficit, o alla stagnazione del Pil della Germania nei dieci anni dal 1995 al 2005. Paesi che ce l’hanno fatta con riforme profonde e spesso pesanti, ma motivate da un unico imperativo: il bisogno di cambiare per poter rinascere. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10030 Titolo: IRENE TINAGLI Il Paese delle piccole città Inserito da: Admin - Aprile 28, 2012, 10:45:34 am 28/4/2012
Il Paese delle piccole città IRENE TINAGLI È un’interessante fotografia del nostro Paese quella che sta emergendo dai primi risultati del Censimento 2011. Interessante non solo per ciò che cambia, ma anche (e forse ancora di più) per ciò che invece resta uguale a se stesso, magari anche in controtendenza con quel che avviene nel resto del mondo. È questo il caso della distribuzione geografica della popolazione sul territorio, che resta molto frammentata. Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti. Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale). Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne. Come indica il documento Istat, nei sei Comuni più grandi (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova) negli ultimi decenni si è assistito a un lento ma progressivo decremento di popolazione, un decremento che sembra confermato dai dati preliminari (con l’interessante eccezione di Torino e Roma). Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee. Città che negli Anni Settanta e Ottanta avevano visto forti contrazioni di popolazione, frutto di un declino e un processo di trasformazione economica e produttiva che aveva colpito sia di qua che di là dall’Oceano. Una crisi pesante soprattutto per quelle città che fino a quel momento erano state le più prospere e industriose: New York, Chicago, Detroit, Pittsburgh, ma anche Amsterdam, Berlino, Oslo, Stoccolma, per non parlare di luoghi come Manchester o Liverpool (in quegli anni Liverpool perdeva qualcosa come il 4-5% di popolazione all’anno). Poi, negli Anni Novanta, fu chiara l’inversione di tendenza. E recentemente sono tornate a crescere quasi tutte. Persino Detroit e Pittsburgh, che per oltre trent’anni hanno registrato perdite, stanno invertendo tendenza. Stando ai dati delle Nazioni Unite, Oslo negli ultimi anni cresce a ritmi di quasi il 2% annuo, Stoccolma dell’1,7%, Madrid quasi del 3%, Barcellona dell’1,5%, e molte altre segnano aumenti costanti anche se più contenuti. Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione. Non è un caso se oggi città come New York, Londra, Stoccolma o Oslo hanno percentuali di professionisti e «lavoratori creativi» che vanno dal 40 al 50% della forza lavoro. Questi due fenomeni hanno ridisegnato e continuano ad influenzare profondamente la geografia economica e sociale non solo dei Paesi emergenti ma anche di quelli industrializzati, con conseguenze importanti sulla loro capacità di produrre innovazione, attrarre talenti ed investimenti internazionali, nonché di sfruttare sinergie ed economie di scala che consentono di realizzare una miglior efficienza energetica e minor impatto ambientale (numerosi studi recenti mostrano un impatto ambientale pro capite significativamente minore nelle grandi città che nelle piccole). Di fronte a queste dinamiche internazionali, le tendenze che si stanno registrando in Italia non possono che sollevare riflessioni ed interrogativi. Non si tratta né di mettere sotto accusa né di difendere incondizionatamente la nostra struttura territoriale, ma semplicemente di analizzare in modo serio tutte le caratteristiche e le implicazioni di una realtà urbana che è al tempo stesso conseguenza e concausa di importanti dinamiche economiche e sociali del Paese. Per troppo tempo abbiamo trascurato le problematiche e le potenzialità delle nostre città e della peculiare «geografia economica» che ci caratterizza, con riflessioni superficiali o ideologiche, dati approssimativi e politiche urbane scarse se non inesistenti. Forse è il caso, almeno su questo, di invertire tendenza. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10040 Titolo: IRENE TINAGLI Indignados la protesta non basta Inserito da: Admin - Maggio 13, 2012, 05:59:16 pm 13/5/2012
Indignados la protesta non basta IRENE TINAGLI Indignati un anno dopo. Impossibile resistere alla tentazione di un bilancio. Chiedevano un cambiamento nei partiti, più trasparenza, partecipazione, un nuovo ordine economico e politico, nazionale e internazionale, nuovi strumenti per far fronte alla crisi. Cosa hanno ottenuto? Senz’altro un cambio di governo, con la tremenda disfatta dei socialisti e l’avvento dei popolari. Ma è un cambio che sarebbe accaduto comunque. Mentre di cambiamenti all’interno dei partiti non se n’è vista neanche l’ombra. Gli uomini che si sono sfidati alle elezioni spagnole dell’autunno scorso erano due rappresentanti della politica che più tradizionale non si può. Le loro proposte erano altrettanto scontate e ciò che si è visto col nuovo governo era più che prevedibile: aumenti di tasse, tagli pesanti ovunque: istruzione, sanità, infrastrutture, regioni. L’unica eredità del movimento 15-M è stato il contagio internazionale. Su quel fronte i risultati sono stati notevoli: da Roma a Londra, da Atene a New York, da Parigi a Mosca. Non c’è stata capitale del mondo che non sia stata investita da questa ondata di protesta. Eppure, anche fuori dalla Spagna cosa abbiamo visto? In Francia si sono fronteggiati due candidati tutt’altro che nuovi, e il Presidente in carica è stato battuto, tutto sommato, da un uomo di partito che fa politica da decenni. In Russia si è appena varata la Terza Presidenza di Putin, e in Usa il Presidente in carica si trova di fronte Romney, un politico di lungo corso, ultrasessantenne, figlio di un altro politico anche lui ex governatore del Michigan. Solo in Grecia e in Italia la scossa è stata più forte per i partiti tradizionali, ma col risultato di una frammentazione che appare già ingestibile in Grecia e che fa intravedere rischi analoghi per l’Italia nel 2013. Le uniche vere «novità» sono state il boom di Alba Dorata in Grecia, un partito che si ispira al nazismo e al fascismo di ottanta anni fa, del Fronte Nazionale di Marine Le Pen in Francia, un partito fondato quarant’anni fa dal padre dell’attuale leader, e del Movimento 5 Stelle in Italia, movimento creato da un comico ultrasessantenne che fu introdotto al grande pubblico da Pippo Baudo 35 anni fa e che da oltre vent’anni si è riconvertito alla critica politica. Insomma, si può dire che, se sul fronte del movimento e dei media internazionali gli indignados hanno avuto un discreto successo, sul fronte del nuovo ordine economico e politico c’è ancora molta strada da fare. E la sensazione è che la protesta, per quanto giusta, bella, pacifica e innovativa, da sola non basti. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10096 Titolo: IRENE TINAGLI Abusi su minori serve un'opera di monitoraggio Inserito da: Admin - Maggio 15, 2012, 11:28:53 am 15/5/2012
Abusi su minori serve un'opera di monitoraggio IRENE TINAGLI Episodio increscioso», «caso sconcertante», così vengono tipicamente definiti i casi di abusi su minori, come eventi casuali, imprevedibili e insondabili. Come il caso della tredicenne violentata pochi giorni fa a Milano da un insospettabile imprenditore trentenne. «Che caso strano, chi l’avrebbe mai detto?». E invece casi come questi capitano a decine, che si sommano alle centinaia di altri abusi, di ogni genere, perpetrati su bambini anche piccolissimi. Troppo piccoli per parlare, per far notizia. Piccoli che arrivano negli ospedali pieni di lividi, ematomi, bruciature, spesso quando è troppo tardi. Violenze che maturano lentamente e inesorabilmente nel silenzio più totale, nell’indifferenza più o meno colpevole di vicini, parenti e persino dei genitori stessi. Che non vedono, o fanno finta di non vedere, come la mamma della ragazza disabile stuprata dal fratello per sette lunghi anni in Calabria e venuta alla luce solo un paio di mesi fa. È difficile quantificare il fenomeno, perché, incredibilmente, nel nostro Paese non esiste un monitoraggio sistematico a livello nazionale. Esistono sporadiche indagini locali, i rapporti curati da Telefono Azzurro ed Eurispes (l’ultimo disponibile è di tre anni fa, e riporta le segnalazioni al numero 114) e pochissimo altro. Sulla pagina web dell’Osservatorio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza istituito nel 1997 si legge solo un post del 2008 in cui si elencano le sue funzioni, idem per il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. L’ultima relazione sulla condizione dell’infanzia dell’Osservatorio disponibile online è del 2008-2009, e, pur toccando molti temi interessanti, non riporta alcun dato o analisi sul fenomeno dei maltrattamenti, violenze e abusi, probabilmente per mancanza o frammentazione delle fonti. Eppure il fenomeno esiste, eccome. I dati riportati in un rapporto Eurispes indicano che nei soli 4 anni tra il 1997 e il 2000 gli abusi su minori denunciati alle autorità sono aumentati del 90%. Due bambini al giorno sono oggetto di abusi sessuali, senza contare tutti gli altri tipi di maltrattamenti e violenza domestica che non sfociano in denunce e al massimo si esauriscono al pronto soccorso come finte cadute e sbadatezze. Dati internazionali più accurati dei nostri mostrano la gravità di un fenomeno che non accenna ad arretrare, ma anche anzi appare in preoccupante aumento, con conseguenze spesso fatali. Negli Stati Uniti, dove esiste un monitoraggio più sistematico, nel 2010 oltre cinque bambini al giorno sono morti a causa di maltrattamenti, quasi il doppio rispetto al 1998. L’80% di questi bambini aveva meno di 4 anni. In Italia il monitoraggio sistematico non c’è, ma chi segue le cronache locali non può non vedere quanto di frequente questi «episodi» capitino anche da noi. Perché non ne parliamo? Perché non affrontiamo questo fenomeno non come casi isolati e imprevedibili ma come un problema sociale da affrontare con seri interventi di prevenzione, informazione e cura? Perché i recenti suicidi legati alla crisi monopolizzano testate e trasmissioni per settimane intere, mobilitano comitati, manifestazioni e fiaccolate, mentre centinaia di bambini picchiati, maltrattati, violentati ogni giorno non fanno muovere un dito? Forse perché preferiamo parlare di quelle vittime che ci consentono di identificare un nemico comune: il governo, i politici, Equitalia. Mentre la violenza sui minori, che è spesso domestica, ci costringe a guardarci dentro, a scavare dentro la nostra società, le nostre famiglie. Non è forse un caso se gli episodi di violenze e abusi su minori che raggiungono e scuotono di più l’opinione pubblica sono quelle in cui il nemico diventa visibile, ovvero casi in cui sono coinvolti stranieri, parroci o maestri. Perché in quei casi il problema non è più tanto l’abuso che matura in seno alla società o alla famiglia, ma diventa un altro: l’immigrazione, il declino della scuola o della chiesa. Eppure secondo le stime il 60-70% degli abusi avviene in contesti domestici e familiari. E non si creda che avvengano solo in situazioni di grande povertà ed emarginazione, o che riguardino solo genitori vittime di alcol e droga. Non è così. Come raccontano i pediatri che lavorano nei centri specializzati, abusi e violenze avvengono anche in famiglie benestanti, magari di manager e professionisti vittime non dell’alcol ma probabilmente di ritmi stressanti, solitudine, assenza di servizi, impreparazione di fronte a situazioni difficili e ingestibili. Casi insospettatibili che però si riversano indistintamente su minori indifesi. Per queste centinaia di piccole vittime mute non esistono appelli o petizioni, eppure sarebbe della massima urgenza intervenire, perché gli abusi su minori segnano vite intere, condannando non solo i percorsi individuali di chi ne ha sofferto, ma ripercuotendosi sulla società che li circonda, perché implicano problemi e difficoltà che si trascinano nel tempo aumentando la probabilità di ulteriore emarginazione e altri abusi. Come si può intervenire? Innanzitutto cominciando a fare una vera e seria opera di monitoraggio, come da anni ci sollecita a fare il Comitato Onu per i diritti dell’infanzia. In secondo luogo rafforzando la rete di assistenza, i centri specializzati, che in Italia sono ancora molto pochi. E infine facendo una seria opera di formazione, sensibilizzazione e informazione, soprattutto presso le scuole e le famiglie. Formazione per far riconoscere i segni, per capire quando è il caso di intervenire, e anche per sensibilizzare le famiglie affinché sappiano vedere e rompere il muro d’omertà che troppo spesso le blocca e le chiude, e sappiano chiedere aiuto prima che si arrivi al peggio. La famiglia è una grande risorsa, una fonte di solidarietà e supporto, ma può anche diventare una trappola in cui si infrangono sogni e speranze di bambini e adolescenti schiacciati dagli abusi e dall’indifferenza, bambini che non avranno mai una possibilità di riscatto. L’Italia più indifesa è proprio lì. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10103 Titolo: IRENE TINAGLI Partiti congelati da una dittatura generazionale Inserito da: Admin - Luglio 17, 2012, 05:20:39 pm 16/7/2012
Partiti congelati da una dittatura generazionale IRENE TINAGLI Qualche mese fa, con l’epilogo del governo Berlusconi e la rinuncia di maggioranza e opposizione a nuove elezioni, tutti pensammo che un’epoca si stesse chiudendo. Pensavamo che quella scelta fosse il preludio di una grande fase di riorganizzazione e rinnovamento politico: nuova legge elettorale, nuovi leader, nuovi programmi, nuova fase politica. Qualcuno parlava addirittura di una terza repubblica alle porte. Ma finora non è stato così. E basta vedere come i partiti hanno usato questi mesi e come si stanno muovendo oggi, per capire che non accadrà nemmeno nel tempo che ci resta da qui alla primavera 2013. Berlusconi ha appena annunciato che si ricandiderà come leader del Pdl, mentre il partito democratico sta di nuovo temporeggiando sul tema primarie. Alla vigilia dell’assemblea nazionale del Pd di venerdì in cui il tema è esploso in maniera più virulenta, Franceschini aveva dichiarato che le modalità per identificare il candidato premier sono ancora da decidere e che, se proprio si dovessero fare le primarie, Bersani sarebbe «il» candidato del Pd (come se eventuali altri membri del Pd che decidessero di presentarsi alle primarie fossero i candidati di qualche altro partito). Non importa se poi Berlusconi cambierà di nuovo idea o se il Pd farà davvero le primarie aperte dentro al partito: quello che colpisce di queste dichiarazioni è il tono e il messaggio che lanciano. E’ il modo con cui questa classe dirigente, che ci accompagna da decenni e che ci ha portato sull’orlo del disastro economico e sociale, si ripresenta di fronte ai cittadini col piglio di chi è il padrone assoluto della vita politica del Paese, e che quindi si riserva il diritto di decidere se, quando e come un rinnovamento sarà concesso. Una spocchia che denuncia non solo una visione della politica ma anche del rapporto intergenerazionale e dei processi di rinnovamento completamente distorta. Una mentalità perfettamente sintetizzata dal segretario del Pd Pierluigi Bersani quando qualche mese fa, replicando a distanza al sindaco di Firenze Matteo Renzi, dichiarò che il partito era apertissimo ai giovani, purché si mettessero «a servizio». Un’immagine terribile, che evoca i giovani come materiale ad uso e consumo dei dirigenti e delle logiche di partito. Berlusconi, che ama definirsi uomo di fatti più che di parole, non ha fatto dichiarazioni del genere ma ha semplicemente agito seguendo questa stessa logica quando ha indicato Alfano come suo successore, per poi buttarlo in un angolo pochi mesi dopo e riproporsi egli stesso in prima linea. E non danno esempi migliori le alte dirigenze di partiti più piccoli come la Lega Nord o l’IdV. Al di là delle ripercussioni che questa situazione politica ha sulla nostra immagine e credibilità internazionale, non va sottovalutato l’effetto che esso ha al nostro interno. Atteggiamenti e dichiarazioni di questo genere, infatti, non solo mortificano i cittadini e la loro voglia di cambiamento, ma anche tutte le migliaia di persone giovani e meno giovani che da anni si battono con passione all’interno dei partiti per un loro rinnovamento, per un ricambio di idee e di persone vero e profondo. Fino a un paio di anni fa si diceva che la colpa era delle giovani leve, che non erano abbastanza critiche, indipendenti, che non avevano il coraggio di sfidare i propri leader, di discutere, di proporre, di lanciare messaggi chiari. Ma negli ultimi anni di giovani indipendenti e determinati abbiamo cominciato a vederne, in entrambi gli schieramenti. Le elezioni amministrative, per esempio, sono state occasioni in cui alcune di queste figure «rinnovatrici», più o meno giovani, hanno saputo mettersi in gioco ed affermarsi con successo. Ciascuno di questi successi avrebbe dovuto lanciare un segnale chiarissimo ai vertici nazionali dei partiti. E invece niente. Ma se nemmeno dissentire e proporre, se nemmeno costruirsi un profilo autonomo e di valore nelle amministrazioni locali o nelle professioni serve per legittimarsi nelle dinamiche partitiche, cosa devono fare i giovani e i rinnovatori di ogni età per poter cambiare davvero qualcosa? E’ davvero difficile dare una risposta a questo interrogativo. Ma di fronte alla situazione attuale sembrerebbe che l’unica alternativa per rompere l’arroganza di chi si crede ancora il padrone del pollaio, sia uscire dal recinto e provare a costruire qualcosa di nuovo con quello che il mondo fuori dai vecchi partiti ha da offrire: nuove esigenze, idee e risorse. Un percorso difficile, che richiederà a questi rinnovatori di smettere i panni dei ribelli rompiscatole e di indossare quelli dei leader a tutto tondo, con i rischi e le responsabilità che cio’ comporta. Un percorso che potrebbe anche non portare i risultati sperati, ma che almeno darà agli italiani quello che oggi non hanno: una scelta. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10336 Titolo: IRENE TINAGLI Decrescita, un'illusione romantica Inserito da: Admin - Agosto 22, 2012, 10:06:36 pm 22/8/2012
Decrescita, un'illusione romantica IRENE TINAGLI Molti governi europei oggi cercano ricette per stimolare la crescita: ma è davvero necessario tornare a crescere? Secondo alcuni no. Le teorie anti-crescita, che affondano le loro radici nei movimenti anti-industriali dell’Ottocento e che sono state riportate in auge dall’economista francese Serge Latouche, stanno ispirando molte persone ad invocare una sana decrescita. I sostenitori di queste tesi affermano che ripensando il nostro sistema dei consumi sia possibile vivere felici senza che aumenti il Pil. Quello che dovremmo fare, come ci ricorda anche Guido Ceronetti nel suo articolo su La Stampa di domenica scorsa, è separare i bisogni essenziali da quelli che non lo sono e i beni prodotti per soddisfare bisogni reali da quelli fatti solo per generare profitto, ovvero i «commerci». Se le persone, per esempio, anziché produrre beni inutili volti al commercio e al profitto fine a se stesso, producessero semplicemente quello che serve loro per sostentarsi, sarebbero meno dipendenti dai cicli economici, dai debiti e dall’ansia di accumulare ricchezza. E i Paesi starebbero in piedi senza bisogno di far crescere il Pil a tutti i costi. Questa prospettiva è molto affascinante e per certi versi romantica, se non fosse che la distinzione tra beni volti alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali non è così netta come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è). A meno di ridurre i beni essenziali al mero consumo alimentare, molti bisogni fondamentali non si soddisfano solo con l’autosussistenza. Se per beni essenziali si considerano infatti anche l’istruzione, le scuole e la sanità pubblica, i vaccini e le medicine, i trasporti e così via, allora tutto cambia. Perché tutti questi beni e servizi non si mantengono con l’economia di sussistenza, soprattutto in Paesi, come l’Italia, che non hanno materie prime da esportare. Si costruiscono invece con i proventi delle attività commerciali e industriali e le relative entrate fiscali; risorse che consentono, appunto, di finanziare servizi pubblici e di supportare ricerca scientifica, innovazione e progresso. Deve essere chiaro, quindi, che decrescere non significa solo diminuire le ricchezze individuali e fare a meno di qualche accessorio come il cellulare o l’iPad, ma significa allo stesso tempo diminuire le risorse che lo Stato ha a disposizione per tutte le azioni di redistribuzione, assistenza e investimento per il futuro. E’ chiaro: la decrescita non danneggia tutti nello stesso modo e quindi non spaventa tutti nello stesso modo. La scarsa crescita non è mai stata un gran danno per l’aristocrazia terriera o quelle classi che possono contare su rendite fisse e sostituire i servizi pubblici con servizi privati, ma è un disastro per gli operai, i commercianti e la classe media, che più delle altre hanno bisogno di servizi pubblici. Certo: possiamo dire a tutte queste persone che tornino a coltivare la terra e a badare da soli ai propri figli, insegnandogli a leggere a casa e curando le loro malattie con le erbe del giardino. In fondo era così fino a non molto tempo fa, prima dell’industrializzazione e delle rivoluzioni tecnologiche dell’ultimo secolo e mezzo. Ma erano altri tempi, difficilmente invidiabili: tempi in cui davvero c’era poco altro a cui ambire al di là della sussistenza, in cui il bisogno di crescere, studiare e viaggiare era privilegio di pochi, e in cui i progressi della medicina e della scienza erano scarsi e lenti. Basta pensare che l’aspettativa di vita è rimasta quasi invariata dai tempi dei Romani fino agli inizi del Novecento. E’ stato con l’aumento dei commerci, dei grandi progressi economici, industriali e scientifici dell’ultimo secolo, che si è più che raddoppiata. Anche la storia recente ci offre numerosi esempi del ruolo della crescita. E’ stato grazie all’apertura e alla crescita economica che la Cina ha potuto, nei soli vent’anni tra il 1981 e il 2001, dimezzare la povertà nel Paese. E’ stato con la crescita economica che il Brasile si è potuto permettere programmi sociali che hanno strappato all’emarginazione milioni di famiglie. E persino nel miracolo cubano degli Anni Sessanta l’alfabetizzazione e le infrastrutture sanitarie furono sostenute da alti tassi di crescita. Una crescita fittizia, pompata dagli aiuti della Russia, e che infatti crollò miseramente alla fine degli Anni Ottanta. Tra il 1989 e il 1993 il Pil subì una contrazione del 35%. Ma la decrescita non fu affatto felice. La crisi di fame e povertà che colpì la popolazione cubana fu atroce. Solo con l’apertura al turismo, ai capitali esteri e ad alcune forme di commercio e di piccole iniziative imprenditoriali (e con una forte repressione del dissenso che nel frattempo andava aumentando), Cuba è riuscita a resistere finché non è arrivata la cooperazione con il Venezuela di Chavez e poi con la Cina. Perché pure i Paesi d’ispirazione socialista, forse anche più degli altri, si sono accorti dell’importanza della crescita economica. Come disse Deng Xiaoping: «La povertà non è socialismo». Quello su cui molti Paesi dovrebbero riflettere oggi, e la vera sfida che hanno davanti, non è tanto come eliminare o ridurre la crescita, ma su quali basi costruirla e con quali criteri utilizzarla e ridistribuirla. Perché non tutte le crescite sono egualmente sostenibili nel tempo, e non tutte sono gestite e distribuite nello stesso modo. Questo è il vero nodo attorno al quale si gioca il nostro futuro. Pagine... da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10446 Titolo: IRENE TINAGLI Dalla seconda Italia una domanda di fiducia Inserito da: Admin - Settembre 06, 2012, 04:16:02 pm 5/9/2012
Dalla seconda Italia una domanda di fiducia IRENE TINAGLI Piccoli grandi focolai di protesta che con la ripresa autunnale cominciano a farsi sentire ci dicono che siamo sempre più di fronte a due Italie distinte. C’è l’Italia della ritrovata autorevolezza internazionale, dei colloqui con Obama, Merkel, e della fiducia riconquistata del Fondo Monetario Internazionale o della Bce. Quell’Italia, insomma, che sta cercando di affrontare temi spinosi come il debito pubblico, lo spread, e la fiducia dei mercati. Ma c’è anche l’Italia delle migliaia di ragazzi che si stanno cimentando con i test universitari senza capire se e a cosa serviranno in futuro, di altrettante migliaia che la laurea l’hanno presa ma che stanno ancora aspettando un concorso o una qualsiasi altra opportunità per progettare qualcosa che vada oltre i tre mesi. Per non parlare del milione e mezzo di giovani che hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi, o di quelli che il lavoro ancora ce l’hanno, ma le cui aziende appaiono intrappolate in un tunnel senza via d’uscita. Per questa seconda Italia parole come riduzione dello spread e del debito o spending review non bastano a recuperare fiducia e speranza nel futuro. Per queste persone le aperture di credito sul fronte internazionale sbiadiscono di fronte alle chiusure dei negozi che vedono ogni giorno, alla riduzione degli orari e delle risorse per asili, scuole e università, o alla crisi delle stesse aziende in cui lavorano. L’economia sempre più risicata del quotidiano sta sfibrando anche i cittadini più fiduciosi e pazienti, soprattutto tra le fasce più giovani, perché fa affievolire la loro fiducia nel futuro, la capacità di immaginare cosa potranno fare e costruire di qui a due, tre, cinque anni. Progetti di vita che sfumano non solo per le condizioni individuali, ma anche perché c’è la sensazione che a mancare sia un progetto veramente nuovo di Paese, che non può reggersi solo su obbligazioni e tassi d’interesse, ma su scuola, ricerca, servizi, cultura. Un Paese che ambisce a migliorarsi ha bisogno di farlo su tutti i fronti: economico, sociale, culturale, perché solo così è in grado di coinvolgere e motivare tutti i cittadini lungo il percorso di cambiamento e crescita. E invece per il momento la svolta sociale e culturale del Paese, il ridisegno profondo del suo futuro, stentano a vedersi. Non perché in questo governo non ci siano personalità in grado di delineare le linee guida e le azioni necessarie per un tale ridisegno, anzi. Ma perché alla fine l’orizzonte temporale e la forza politica di questo governo sono troppo limitati per poter dare solidità e sbocchi a tali buone intenzioni. E’ evidente ormai che questo governo riesce a compattare i partiti che lo sostengono solo sulle emergenze macroeconomiche ed internazionali più impellenti, quelle che i partiti non erano e non sono in grado di affrontare da soli. Ma su tutto il resto – scuola, università, merito, accesso al mondo lavoro, liberalizzazione delle professioni e di altri settori dell’economia - ogni tentativo del governo ha subito il fuoco amico e nemico di quasi tutti i partiti politici, lasciando sul campo brandelli di annunci e retromarce che altro non fanno che aumentare la confusione dei cittadini. Ma quello che forse scoraggia più di ogni altra cosa non è tanto la consapevolezza dei limiti dell’attuale governo, da cui in fondo molti non si aspettavano più di una gestione dell’emergenza nei pochi mesi disponibili, ma la totale assenza di un progetto organico ed innovativo nelle proposte dei partiti politici in campo. Mancano pochi mesi alle elezioni e tutto quello che il dibattito politico è stato in grado di offrirci sono insulti, litigi e schermaglie, lotte più o meno velate per poltrone, leadership e candidature. Non una traccia di piattaforma economica e sociale, non un progetto credibile, coerente e realizzabile che possa ridare speranza soprattutto alle generazioni più giovani. Solo qualche rivendicazione per assecondare le esplosioni di disagio contingente, puntando il dito contro questo o quel nemico, invocando improbabili aiuti e sussidi statali - gli stessi che ci hanno portato alla situazione attuale. Ma nessun partito che abbia ammesso gli errori passati ed elaborato proposte nuove. Questa situazione non fa che aumentare la distanza tra le due Italie, ed è uno scollamento molto pericoloso perché rischia di sminuire e far rimettere in discussione anche i risultati ottenuti in questi mesi sul fronte macroeconomico ed internazionale. E’ quindi urgente riallineare al più presto il programma di risanamento economico con un progetto di profondo rinnovamento sociale, culturale e politico che torni a far sentire i cittadini protagonisti e non vittime impotenti di un passaggio difficile ma cruciale per la crescita del Paese. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10491 Titolo: IRENE TINAGLI Le nuove tecnologie disegnano un futuro migliore Inserito da: Admin - Novembre 15, 2012, 04:43:59 pm Editoriali
15/11/2012 Le nuove tecnologie disegnano un futuro migliore Irene Tinagli Siamo ormai abituati a pensare alle nostre aziende che portano le loro fabbriche in Asia, rassegnandoci all’idea che la nostra manifattura sia destinata a morire. Ma che significa se il più grande produttore asiatico di prodotti elettronici comincia ad aprire stabilimenti in Occidente? E’ questo quello che sta accadendo. Foxconn, l’azienda cinese con base a Taiwan che per conto di numerose aziende «occidentali» produce milioni di prodotti elettronici venduti in tutto il mondo, già da qualche tempo sta rivolgendo il suo sguardo ad Occidente. Ha già stabilimenti in Messico, in Brasile, e persino in Europa, in Ungheria, Slovacchia e nella Repubblica Ceca. Ma qualche giorno fa ha fatto scalpore la notizia, non ancora ufficiale, che Foxconn stia valutando alcune città americane per la creazione di un nuovo stabilimento produttivo negli Stati Uniti. E questo ha destato sorpresa, visto che gli Stati Uniti sono pur sempre uno dei Paesi con il reddito procapite e con i salari medi tra i più alti del mondo. I primi commentatori hanno ipotizzato che questo potrebbe essere un modo per essere più vicini ad Apple, che con la produzione dell’iPhone è diventato uno dei loro clienti più rilevanti, riducendo costi di trasporto e velocizzando il ciclo degli ordini, oppure un modo per aggirare le polemiche sul lavoro minorile che ha spinto Apple ad avviare ispezioni nelle fabbriche asiatiche di Foxconn. Eppure dalle prime indiscrezioni pare che lo stabilimento americano della Foxconn non produrrà nessun iPhone. Troppo complessa la loro produzione per ricostruire tutta la catena di assemblaggio in nuovi stabilimenti. Sembra invece che si tratti della produzione di tv a schermo piatto, in stabilimenti altamente automatizzati. Quindi i motivi di questo interesse verso gli Stati Uniti potrebbero essere legati a ciò che numerose analisi e commentatori americani sostengono gia da mesi: l’accelerazione della ricerca tecnologica degli ultimi anni, che ha portato sviluppi straordinari nella robotica, nell’automazione e nell’unione tra scienze computazionali e ingegneristiche, tra software e meccanica, tra informazioni digitali e prodotti materiali, che potrebbe portare a produzioni più efficienti e altamente innovative. Un esempio degli sviluppi di questa ricerca e delle sue implicazioni per la manifattura sono le cosiddette stampanti tridimensionali («3d»), macchine che ricevono «istruzioni» direttamente da un computer sulla base di un modello digitale disegnato dal progettista e che costruiscono l’oggetto disegnato, dall’inizio alla fine, senza passaggi di mano o assemblaggi, senza interferenza umana, semplicemente modellando e “stratificando” il materiale con cui viene costruito l’oggetto. Si chiama «manifattura additiva», e per la verità non è un’invenzione di adesso. Macchine di questo genere esistono da oltre due decenni, ma è solo negli ultimi anni che sono riuscite a raggiungere dimensioni, semplicità di funzionamento e costi accessibili a chiunque. Ed è questo il progresso che sta alimentando tanto entusiasmo ed ottimismo negli analisti, sia per il potenziale impatto che questa evoluzione può avere sulla produzione artigianale e sui tassi di imprenditorialità e di innovazione (chiunque potrà diventare un produttore, con costi fissi quasi nulli), sia, in prospettiva futura, sull’organizzazione di tutta la produzione industriale su scala globale. L’Economist pochi mesi fa l’ha definita la terza rivoluzione industriale, dedicandogli un intero numero speciale. E moltissime altre riviste, da Forbes a Businessweek, ormai da oltre un anno dedicano articoli su articoli al fenomeno delle stampanti «3d», non solo ai suoi aspetti «tecnici», ma, soprattutto, alla sua più affascinante possibile implicazione economica: la rinascita e il ritorno della manifattura industrializzata negli Stati Uniti. Infatti, grazie al forte abbattimento di costi collegati a queste nuove tecnologie, molte produzioni potrebbero tornare nel Paese che per decenni è stato leader indiscusso della manifattura industrializzata e che oggi ha un chiaro vantaggio competitivo sul fronte della manifattura additiva e sulle nuove frontiere dell’automazione. Ma il potenziale impatto di queste tecnologie e la possibilità di trarne vantaggio non riguarda solo gli Stati Uniti, ma molti altri Paesi, inclusi quelli emergenti, come il Brasile - dove nella primavera scorsa ha aperto la prima catena franchising di stampanti tridimensionali - e quelli in cui la manifattura ha vissuto in anni recenti le maggiori difficoltà. L’Italia per esempio potrebbe trarre grandi vantaggi da queste nuove tecnologie, mettendo a frutto alcuni dei suoi tradizionali punti forti: il design, la capacità di progettazione, la piccola imprenditorialità diffusa ed artigiana. Eppure, nonostante l’elevato potenziale di rinnovamento che queste nuove tecnologie potrebbero avere per il nostro sistema produttivo, sono ancora poche le persone che, nel nostro Paese, vi stanno prestando la dovuta attenzione. I nostri dibattiti pubblici e politici sono ancora monopolizzati dalle discussioni su vecchie modalità produttive, sulle catene di montaggio, le miniere, gli altiforni. Argomenti più che legittimi, ma che impediscono di vedere come certe nuove tecnologie potrebbero aprire un nuovo futuro per il Paese e per i suoi lavoratori e ci condannano a guardare sempre al passato. Dovremmo imparare a scrollarci di dosso questo senso di smarrimento, impotenza e ineluttabilità che ci paralizza quando pensiamo al domani, e capire che il futuro, alla fine, è di chi comincia a costruirlo oggi. da - http://lastampa.it/2012/11/15/cultura/opinioni/editoriali/le-nuove-tecnologie-disegnano-un-futuro-migliore-XqgjZ9AA8nL33FIyhNbxbI/pagina.html |