Titolo: La Lega fa la festa all’Unità d’Italia Inserito da: Admin - Agosto 06, 2009, 04:03:25 pm 5/8/2009 (8:26) - IL GIORNALE DEL MOVIMENTO PUBBLICIZZA L'EVENTO TELEVISIVO
La Lega fa la festa all’Unità d’Italia Una serie in onda su Telepadania per ricordare la «faccia violenta» del Risorgimento italiano FRANCESCO SPINI MILANO La Lega si prepara a fargli la festa, a quest’Italia che compie 150 anni tra due. Memori delle parole di Umberto Bossi - che liquida la questione con un «c’è il rischio che qualcuno se ne approfitti per esaltare i Savoia. Qui non sarebbe accettato» - i suoi uomini preparano «culturalmente» i padani su Risorgimento e dintorni. Indisponibile, per ora, un film alla «Barbarossa», c’è però la tv di casa, Telepadania, che terrà incollati i popoli del Nord sul tema con una trasmissione ad hoc: «Fratelli nel sangue, la faccia violenta dell’Unità d’Italia». La Padania, nel darne conto ai lettori, spiega che da sabato 8 a sabato 29 agosto la trasmissione racconterà «la mano violenta e illiberale dello stato unitario al tempo delle cosiddette guerre di Indipendenza». Tra gli ospiti, il direttore del Centro regionale di cultura lombarda, Andrea Rognoni: «Ora che nella Lega il secessionismo è scomparso a favore del federalismo - dice questo professore di lettere in un liceo di Monza -, si può parlare serenamente della storia, contestando le falsità scritte sui libri». Certo, ammette, «l’Unità d’Italia non è tutta da buttare via. Ad esempio, come è emerso negli ultimi carteggi, Cavour voleva arrivare all’Umbria nel processo di unificazione e non oltre». E Cavour, dunque, può entrare nel Pantheon dove già sedeva Carlo Cattaneo, il proto-federalista. Anche perché, come sottolinea Stefano Galli, professore di Storia delle Dottrine Politiche alla Statale di Milano, pure lui tra gli ospiti della trasmissione, «lo statista piemontese si diceva favorevole già allora “al più ampio discentramento” dello Stato» pensando alle regioni «ben prima che fossero istituite», nel 1970. I moti, le guerre d’indipendenza con in mezzo i ”Mille”, furono invece - aggiunge Rognoni - «espressioni di elite che non rappresentavano i popoli italiani». E i padani che parteciparono - e morirono - in queste guerre? «E’ frutto dell’ignoranza di molti combattenti che non sapevano neppure cosa fosse l’Italia, montati da pseudo-eroi come Garibaldi che prese i più sprovveduti». La trasmissione racconterà delle stragi compiute, dei soprusi, dei «plebisciti-truffa». Perché «se non ci fossero stati gli inglesi e la massoneria a spalleggiare tutto - dice Rognoni -, il velleitarismo dei Savoia si sarebbe arenato». Così pure l’impresa dei mille, iniziata con «mille poveri ignorantotti» e finita con «la miseranda alleanza di Teano». Anche le cinque giornate di Milano c’entrano poco col sogno italiano: «Era un moto federalista non unitario, nello spirito di Cattaneo». Dunque, secondo il pensatoio leghista, il festeggiamento «rischia di essere un flop - conferma Galli, tra i consulenti del ministro Roberto Calderoli - perché anche gli organizzatori si rendono conto di essere di fronte a una scatola vuota: l’anima del Paese è diversa, non è quella della nazione inizialmente immaginata. E’ fatta di tante culture, tradizioni che solo un impianto federalista può rappresentare». Altro che Garibaldi. da lastampa.it Titolo: Agosto, e la Lega riscopre la voglia delle barricate Inserito da: Admin - Agosto 07, 2009, 11:57:27 am 7/8/2009 (7:29) - RETROSCENA
Agosto, e la Lega riscopre la voglia delle barricate Dietro gli strappi la necessità di smarcarsi: sparate estive non destinate ai giornali ma fatte per un eterno bisogno di riaffermarsi MATTIA FELTRI ROMA Più che i consueti furori agostani della Lega, stupiscono le reazioni meccaniche, comprese fra lo sdegno e lo sbuffo, dei corsivisti e dei politici. Da un ventennio le rivendicazioni sono identiche e da un ventennio sono identiche le repliche, con gran giovamento dei leghisti - dirigenti e popolo - che si sentono nel giusto solo quando sono isolati. Alla proposta di accostare le bandiere e gli inni regionali a quello di Mameli e al Tricolore, hanno risposto ancora ieri dall’opposizione e dalla maggioranza, dai movimenti extraparlamentari, dalle massaie organizzate, sui giornali e con proteste sovrapponibili: il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha parlato di «folklore»; il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, ha parlato di «disegno secessionista» come il responsabile delle politiche meridionali del Pdci, Pino Sgobio. Dario Franceschini e la Federcasalinghe hanno invitato il governo a lasciar perdere le panzane e a occuparsi di crisi. Il Secolo d’Italia, quotidiano del Pdl di tendenza finiana, ci ha aperto la prima pagina («Ogni giorno ce n’è una») intravedendo scopi elettorali e di competizione interna: le amministrative torneranno a primavera. Era difficile fare alla Lega un regalo migliore. E infatti, ieri, Umberto Bossi è andato all’Aquila per controllare lo stato della ricostruzione e ha commentato: «Han fatto un buon lavoro». Si noti: hanno, non abbiamo. La ciccia è tutta qui. La Lega è al governo, non ce l’ha col governo e non è organica al governo. I messaggi sono seriali, sono chiari. Chi sostiene che la Lega impegni agosto come un campo di battaglia, profittando della carenza di notizie e della sete di titoli buoni da stampare, non ha ancora colto in pieno il gioco di Bossi sin dai tempi dei trecentomila bergamaschi in armi. Non a caso dodici mesi fa la Lega si limitò a ridire sullo schiavismo incitato dall’inno di Mameli, e per il resto s’impegnò a dibattere di federalismo con Roberto Calderoli nei panni del saggio: «Non vogliamo spaccare il Paese». Se la Lega affonda, insomma, non è soltanto per occupare i giornali. In genere ha bisogno di riaffermarsi, di smarcarsi, di riprendere la propria faccia, di scaldare i cuori dei prataioli di Pontida. Da qualche giorno si succedono suggerimenti classici: test di cultura locale per gli insegnanti, canzoni in dialetto a Sanremo, le gabbie salariali, smentite da Calderoli ma contenute nella titolazione della Padania. Sembra il modo per venire fuori da mesi di politica magari tosta, specie sull’immigrazione, ma dal sapore burocratico e romano; il modo di restituire ai commensali della Berghemfest vecchie palpitazioni e dimostrargli che la Lega non è cambiata: continua a proporre una politica che fa scandalo fra gli arnesi della partitocrazia. Tutto tornerà buono anche alle elezioni, ma sarebbe sciocco trascurare i riflessi della mignotteria barese, della crisi economica, soprattutto delle rivendicazioni meridionalistiche che al Nord hanno sempre il retrogusto dell’assistenzialismo. La Lega si è dovuta piegare alle dazioni, ma ha promesso che terrà aperti gli occhi e - guarda un po’ - all’Aquila «han fatto un buon lavoro». Le insegne volano alte. Dal Carroccio lombardo rifiutano la logica della rifusione del danno al detenuto bosniaco: dovrebbe essere lui a risarcire noi, ché è venuto in Italia a delinquere. E tutto questo armamentario delle piccole patrie, sui palchi della canzone italiana, nell’araldica regionale da nobilitare in Costituzione, sulla pronuncia e sull’etimologia della «cadrega», ci si faccia caso, stavolta non possiede un risvolto antimeridionalista. Tanto è vero che Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, è quello che se l’è presa meno di tutti, e da dichiarato autonomista ha sottoscritto qualche idea. E dunque Bossi e i suoi lanciano razzi di posizione: siamo sempre i guardiani del Nord, non siamo in guerra col Sud ma verifichiamo che non ci siano sperperi, non abbandoniamo un governo di cui facciamo parte per raggiungere l’obiettivo che ci sta per essere consegnato: un compiuto federalismo. La baraonda sulle gabbie salariali - che Calderoli si riferisse proprio a quelle o a qualcosa di modernizzato - aveva un significato: il federalismo si fa contando i danée. E questa infinita ansia di lotta e di governo dovrebbe ricordare a tutti che la Lega, alla terza esperienza di governo nel medesimo schieramento, continua ad avere alleati per impulsi esplicitamente strategici: la Lega non ha partiti amici, si considera per statuto diversa da chiunque. Semmai è amica di Giulio Tremonti. E semmai Bossi è amico di Berlusconi. Ma tutto finisce lì. E un domani, scossa, ribaltone, chiamatelo come volete, la Lega sarà di nuovo libera di andare per la sua strada. da lastampa.it |