Titolo: PRODI Inserito da: Admin - Agosto 08, 2007, 07:59:01 pm Il presidente del Consiglio apre dopo la mozione di maggioranza
"Che se ne discuta è un fatto positivo. Altri hanno fatto scelte diverse" Riserve auree, Prodi: "Sì al dibattito" La Cdl: "E' come capitan Uncino" CASTIGLIONE DELLA PESCAIA - "Il fatto che sia iniziato un dibattito serio sul tema dell' utilizzo delle riserve auree è certamente positivo". Romano Prodi commenta così il dibattito che si è aperto sull'uso delle riserve custodite dalla Banca d'Italia. Che, secondo alcuni, dovrebbero essere vendute sul mercato come hanno già fatto molti altri paesi. Secondo i dati forniti da Palazzo Koch, nei forzieri della Banca d'Italia ci sono riserve di valuta estera e oro per un valore di mercato di 59,821 miliardi di euro. Un intervento, quello del premier, che fa riferimento alla risoluzione di maggioranza presentata al Dpef alla Camera che impegna il governo a utilizzarne una parte per la riduzione del debito pubblico. "E' bene - dice il premier - che il dibattito vada avanti. In molti paesi ci sono state scelte diverse. Alcuni hanno venduto una parte dell'oro, altri non l'hanno fatto. Ma è comunque un dibattito positivo". Ma da Forza Italia arriva un secco altolà. "Prima il tesoretto, ora l'assalto ai Bot, ai cct e alle riserve d'oro. Prodi vuol fare il primo ministro oppure capitan Uncino? - attacca il portavoce di Silvio Berlusconi, Paolo Banaiuti - Il governo ora vuole aumentare le aliquote su Bot e Cct e, se non dovesse bastare, utilizzare anche le riserve auree". (8 agosto 2007) da repubblica.it Titolo: Prodi: "Hamas esiste, bisogna aiutarlo ad evolversi" Inserito da: Admin - Agosto 12, 2007, 06:54:59 pm 12/8/2007 (15:6)
Prodi: "Hamas esiste, bisogna aiutarlo ad evolversi" Il premier: "Stiamo aiutando fortemente, lealmente e con energia lo sforzo di Abu Mazen e Olmert per fare gesti di pace" CASTIGLIONE DELLA PESCAIA Il presidente del Consiglio Romano Prodi è convinto che per affrontare il problema mediorientale è importante che ci sia un dialogo «trasparente» con tutti, tenendo presente che «Hamas esiste» ma bisogna «aiutarlo ad evolversi». Il premier, che appena ieri aveva annunciato ai giornalisti la sua intenzione di mantenere a lungo il silenzio stampa, ha deciso di parlare, ma di parlare di questioni internazionali. In mattinata, infatti, è stato ospite di un incontro organizzato dalla« Opera per la gioventù Giorgio La Pira» che sta tenendo un campo scuola a Castiglione della Pescaia al quale partecipano un centinaio di ragazzi italiani, israeliani, palestinesi e russi sia cattolici che ortodossi. Romano Prodi parla, in parte in italiano e in parte in inglese, autotraducendosi, e risponde alle domande dei ragazzi. Tra tutte, ovviamente vista la composizione della platea, spicca la questione mediorientale. E a chi gli chiede come vada gestito il rapporto con Hamas, il presidente del Consiglio risponde: «Stiamo aiutando fortemente, lealmente e con energia lo sforzo di Abu Mazen e Olmert per fare gesti di pace, che sono difficilissimi. Ma sono convinto che non possiamo avere la pace se i palestinesi sono divisi, lo capiscono benissimo anche loro. C’è la chiara consapevolezza che non possiamo avere una pace di lungo periodo con due Palestine». Ed è a questo punto che il premier ha aggiunto: «Hamas esiste, ed è una struttura molto complessa, dobbiamo aiutarla ad evolversi. Ma questo deve essere fatto apertamente, con trasparenza, discutendone, come ho fatto, con Abu Mazen e Olmert nel mio ultimo viaggio». Prodi ha spiegato che l’obiettivo della politica italiana in questa zona è quello di avere «due popoli e due nazioni che vivono in pace come due paesi europei». «Ma chiaramente - ha osservato - bisogna spingere al dialogo perché questo avvenga. Non bisogna chiudersi al dialogo con nessuno». da lastampa.it Titolo: Romano Prodi. Può la Cina salvare davvero il mondo? Inserito da: Admin - Novembre 30, 2008, 11:01:20 pm Può la Cina salvare davvero il mondo?
di Romano Prodi ROMA (30 novembre) - La crisi economica fa paura anche in Cina. Il ritmo di crescita cala più del previsto, pur restando intorno a cifre che gli altri grandi paesi sognano di raggiungere anche nei periodi di vacche grasse. E che noi non abbiamo raggiunto nemmeno negli anni del miracolo economico. Il passaggio da una crescita del 12% ad una crescita del 7-8%, pone infatti problemi enormi ad un Paese in cui ogni anno decine di milioni di persone si presentano a cercare una occupazione. Il fiume di giovani che arrivano all'età del lavoro o di contadini che dalle campagne vanno verso le città non sembra infatti aver alcun limite. E le preoccupazioni crescono nelle regioni, come il Guandong, in cui si concentrano le imprese che producono i beni a più basso valore aggiunto per i mercati internazionali. Decine di migliaia di piccole imprese stanno infatti chiudendo i battenti e le stazioni ferroviarie sono piene di operai che, rimasti senza lavoro, tornano nei loro villaggi sperduti. I mercati internazionali in crisi assorbono infatti con crescente difficoltà i prodotti cinesi. I costi della mano d'opera sono inoltre aumentati anche in Cina, e passo per passo, la moneta nazionale si è rivalutata. Negli ultimi tre anni il suo valore è cresciuto di quasi il venti per centro nei confronti dell'euro e del dollaro. L'economia cinese sente quindi la crisi e ne ha paura, anche perché è la prima flessione dopo molti anni di crescita spettacolosa. Eppure il 2008 è stato l'anno della Cina. Prima la grande organizzazione delle olimpiadi ne ha esaltato l'immagine a livelli popolari, poi la riunione del G20 l'ha vista leader silenzioso, attorno al tavolo dei potenti del mondo. Da oggi la Cina non sarà perciò solo un protagonista nel campo della produzione e dei commerci, ma sarà uno dei grandi interpreti del nuovo ordine politico mondiale. Proprio la crisi economica globale, che genera tante paure al suo interno, ha consacrato la Cina come elemento determinante degli equilibri mondiali. Questa affermazione si basa su alcuni dati di fatto molto semplici e comprensibili. Il primo è che la Cina è il maggiore creditore degli Stati Uniti. Nell'ultimo mese ha superato il Giappone e possiede ora l'incredibile somma di quasi 600 miliardi di buoni del tesoro americani. Non userà mai questo punto di forza come arma di ricatto. Anzi, dai dati che possediamo, ha contribuito anche nelle ultime settimane a far fronte con i suoi risparmi ai consumi in eccesso dei cittadini americani. Tuttavia gli Stati Uniti non potranno non tener conto che questo squilibrio non può durare all'infinito, anche se in questi casi la debolezza non è tutta dalla parte del debitore. Accanto a questo credito la Cina ha silenziosamente messo sul tavolo dei G 20 le risorse valutarie che detiene nei suoi forzieri. Si tratta di riserve complessive dell'ordine di 2.000 miliardi di dollari, una cifra della cui grandezza è addirittura difficile rendersi conto. In terzo luogo, pur tenendo conto della difficoltà di valutare con precisione i dati della contabilità nazionale, il bilancio statale cinese appare sostanzialmente in ordine. Per mettere un argine alla crisi mondiale che sempre più si sta aggravando e per riequilibrare il sistema economico e finanziario internazionale bisogna quindi necessariamente passare per Pechino. Questi punti di forza, che si sono in questi mesi evidenziati, non sono il frutto di una casualità della storia. Essi sono il risultato di una politica di riforma del sistema economico cinese che risale esattamente a trent'anni fa. Si tratta quindi di una posizione di forza costruita con pazienza nel tempo, attraverso risparmi, sacrifici e decisioni che davvero non hanno precedenti. Adesso arrivano i risultati. Solo chi in passato ha osservato la Cina con superficialità, ne può oggi rimanere sorpreso. Come ha acutamente osservato l'Economist qualche settimana fa, nel 1978 il Presidente Deng fu costretto alle riforme perché "solo il capitalismo poteva salvare la Cina". Sono passati trent'anni e, dopo lo scoppio della crisi, il discorso si è rovesciato arrivando ad affermare che "solo la Cina può salvare il capitalismo". Quest'affermazione costituisce forse un paradosso, ma mette evidenza con efficacia come siano mutati i rapporti di forza nel mondo. Perché questi risultati raggiunti non vengano vanificati, il governo cinese deve però agire con misure di politica economica interna radicali ed urgenti. Se vuole evitare la caduta del suo ritmo di sviluppo deve infatti compiere una operazione paragonabile alla riforma di trent'anni fa. Un'operazione gigantesca per trasferire una parte della domanda dei suoi prodotti dai mercati internazionali al mercato interno. Un'operazione indispensabile per la Cina e, altrettanto, per gli altri Paesi del mondo. Due sono state le decisioni già prese. La prima, in fondo abbastanza scontata, è un deciso abbassamento dei tassi di interesse. La seconda ha invece una dimensione e una caratteristica tale da cambiare in modo profondo le caratteristiche e le dimensioni dello sviluppo cinese. Si tratta di un piano straordinario di 4.000 miliardi di Yuan (più di 580 miliardi di dollari) per sostenere lo sviluppo interno della Cina. Per dare una idea concreta della dimensione e dell'importanza di questa decisione basti dire che questo equivale a circa il 15% del Prodotto interno lordo di tutto il Paese. Queste enormi risorse saranno destinate per un terzo ad un gigantesco piano di infrastrutture e per due terzi alla riorganizzazione del sistema sanitario e scolastico e al sostegno dei redditi delle campagne e delle fasce più deboli della popolazione. Riguardo alle infrastrutture, si tratta soprattutto di un'estensione e di una accelerazione dei piani già in corso, con accento particolare sul sistema ferroviario che, nello spazio di tre anni, dovrebbe vedere la costruzione di oltre ventimila chilometri di linee completamente nuove. L'aspetto politicamente ed economicamente più interessante riguarda tuttavia i due terzi destinati al settore della protezione sociale. Questa ingente somma servirà prima di tutto a costruire ed estendere a tutto il Paese le reti di protezione che non erano mai nate o che si erano smagliate negli anni dello sviluppo tumultuoso. Negli ultimi anni i problemi sociali erano divenuti sempre più gravi e prioritari in un Paese in cui lo sviluppo economico non ha ancora portato le sue conseguenze positive ad una parte enorme del miliardo e trecento milioni di cittadini. Si potrà anche pensare che tutto ciò riguarda solo i problemi interni della Cina. Le cose non stanno affatto così. Uno spostamento così massiccio di risorse verso la domanda interna e una maggiore sicurezza per i cittadini non potranno che fare aumentare i consumi ed abbassare il tasso di risparmio che ora raggiunge quasi la metà del reddito cinese. Tra gli osservatori internazionali si discute molto se tutte le risorse dedicate a questo grande progetto siano risorse davvero aggiuntive. E si discute soprattutto se esso potrà essere messo in atto nel breve spazio di tempo previsto dai governanti cinesi. Questo lo vedremo nei prossimi mesi. È comunque certo che, se vedrà l'esecuzione nei tempi previsti, esso darà, attraverso l'enorme aumento della domanda cinese, un sostanziale contributo al riequilibrio dell'economia mondiale. Sarà quindi opportuno che gli imprenditori italiani osservino con molta attenzione quanto sta accadendo in Cina. da ilmessaggero.it Titolo: Romano Prodi presso il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese... Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2008, 03:26:20 pm "LA CRISI FINANZIARIA E LE CONSEGUENZE POLITICHE GLOBALI"
Intervento del Presidente Romano Prodi presso il dipartimento Internazionale del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. (Avvertenza per il lettore: durante il suo intervento il presidente Prodi non ha seguito questo testo). Pechino, 26 novembre 2008, ore 09.00 - Siamo quasi certamente di fronte alla più grave crisi economica del dopoguerra. Spesso si paragona ciò che sta succedendo oggi con quello che accadde in altri momenti di crisi e in particolare con la crisi del 1929 che causò un impoverimento globale che durò diversi anni. Ogni crisi in realtà ha caratteristiche proprie (così come le politiche per reagire ad essa) e questa non fa eccezione. Tuttavia, se non si analizzano profondamente le cause e le dimensioni specifiche di questa crisi, non si può trovare una soluzione. - La crisi del 1929 partì dal crollo azionario di Wall Street del mese di ottobre ma le cause reali scatenate da diversi fattori sia finanziari (un sistema bancario inefficiente, un eccessivo ricorso a prestiti "speculativi" e un corso delle azioni che non corrispondeva più ai valori reali e prospettici delle imprese) sia reali (eccesso di investimenti e di produzione in alcuni settori). Il crollo azionario fece diminuire il potere di acquisto della popolazione e spinse le banche a chiedere il rientro dei prestiti effettuati. Tutto questo acuì la crisi e la rese globale. La crisi durò molti anni anche perché le autorità nazionali ci misero molto tempo per capirne la portata, perché vi erano fortissime resistenze ad ogni forma d'intervento pubblico e perché non vi erano istituzioni internazionali in grado di gestire un fenomeno che forse per la prima volta era realmente globale. - Ma fu proprio dall'intervento pubblico che economie cominciarono a riprendersi. Le politiche che portarono le economie mondiali fuori dalla recessione furono improntate ad un forte intervento statale che si sostanziava in spesa in deficit (e crescita del debito pubblico), come accadde negli US sotto il presidente Roosevelt, ma anche nel sostegno all'industria pesante nazionale e militare come fece Hitler in Germania. Insomma in alcune delle politiche per uscire dalla crisi del '29 vi era sia lo strumento di uscita dalle crisi economiche sia il germe che porterà alla seconda guerra mondiale. - In sostanza la crisi del 1929 nasce sui mercati ed è una crisi prettamente "privata" nelle sue cause dove il pubblico ha un ruolo marginale ed il ruolo pubblico è importante non nell'entrata ma nell'uscita dalla crisi. - Oggi la situazione è almeno in parte diversa. Tutti i governi sono pienamente consapevoli di trovarsi in un momento di crisi anche se ancora oggi non sanno quanto la crisi dei mercati "costi" all'economia globale sia finanziaria sia reale legata ai mutui sub prime. E non sanno nemmeno se e quando entreranno in crisi altri "pezzi" del sistema finanziario, come ad esempio le Carte di credito e, più in generale, gli strumenti del credito al consumo. - La caratteristica di questa crisi non è infatti l'esistenza di differenti interpretazioni sulle sue cause, ma l'incertezza assoluto sulle sue dimensioni quantitative. Nessuno sa fin dove questa crisi si estende. Nessuno ne conosce gli aspetti quantitativi. - I mercati finanziari globalizzati hanno fatto si che la propagazione della crisi sia stata molto più veloce che nel 1929. Tuttavia la presenza di istituzioni internazionali (anche se meno forti di quanto sarebbe auspicabile) e di un maggiore coordinamento tra i diversi paesi rende meno automatica la messa in atto di quelle politiche nazionali di protezione che causarono l'aggravamento della crisi del 1929. - Ulteriori riflessioni sul passato e sul presente. - La crisi attuale ha paradossalmente una origine molto più "pubblica", legata alle scelte di politica economica del Governo degli Stati Uniti e della Federal Reserve che ha mantenuto i tassi d'interesse artificialmente troppo bassi per lungo tempo, al fine di sostenere l'economia dopo lo scoppio della bolla legata ad Internet, e dopo gli eventi dell'11 settembre 2001. In alcuni periodi di tempo i tassi reali sono stati addirittura negativi. Ad essi si è aggiunta la diminuzione dei controlli sul funzionamento dei mercati finanziari. Particolare importanza hanno avuto a questo proposito le nuove regole, tra cui segnaliamo quelle che hanno abbattuto il muro che opportunamente divideva le banche d'affari dalle banche di credito ordinario. - I tassi di interesse troppo bassi hanno creato un eccesso di liquidità che negli anni si è spostato la dove vi erano le possibilità di guadagno di breve periodo creando una serie continuativa di bolle speculative in vari settori (immobiliare, azionariato, materie prime, internet, ecc.). - Tassi d'interesse già molto bassi, deregolamentazione ed innovazione finanziaria rendono oggi particolarmente deboli gli strumenti di politica economica "classici" utilizzati nel passato. - In particolare alla prova dei fatti l'innovazione finanziaria che doveva servire a diminuire il rischio degli investimenti e quindi favorire la crescita ha causato la più grande crisi di fiducia degli ultimi decenni e ha fortemente aumentato la rischiosità dell'intera economia mondiale. - L'innovazione finanziaria ha infatti distribuito grande parte del rischio sulle masse degli investitori ignari. Come intervenire? - C'è bisogno d'interventi sia a livello del singolo paese sia a livello internazionale. C'è bisogno di politiche ma anche di più profonde riforme istituzionali. C'è in sostanza bisogno di interventi che modifichino le strutture e interventi che modifichino i comportamenti. C'è bisogno di interventi di breve periodo per evitare che la crisi peggiori e si diffonda sempre più il panico ma c'è soprattutto bisogno di visione di lungo periodo. - Bisogna resistere alle tentazioni di chiusura e protezionismo. Quest'aspetto sarà di grandissima importanza nei prossimi mesi, perché sempre di più i politici dei diversi paesi saranno spinti ad attribuire all'apertura dei mercati internazionali tutte le cause della crisi economica e finanziaria. A questa tendenza generale si aggiunge il fatto che Obama si era presentato di fronte agli elettori con una piattaforma sostanzialmente protezionista. È vero che, in questo campo anche i Presidenti precedenti si erano impegnati a proteggere l'industria nazionale, ma avevano poi operato in modo diverso, ma è anche vero che la crisi ha cambiato e sta cambiando l'opinione pubblica in modo profondo e generale. - La Globalizzazione è per me un valore, ma bisogna saperne contenere gli eccessi e proteggere chi si trova nelle posizioni più deboli, altrimenti sarà politicamente insostenibile. Le istituzioni internazionali - un mondo globalizzato ha bisogno di istituzioni internazionali forti sia per gli aspetti più legati alla politica sia per gli aspetti legati all'economia. In passato si è spinto più sull'economia e meno sulla politica ma questo squilibrio ha mostrato limiti evidenti. Mercati globali hanno bisogno di regole globali. Ovviamente i singoli paesi possono adottare provvedimenti specifici ma ci vuole una base comune. - In primo luogo è necessario regolare fortemente l'utilizzo di derivati. Essi non solo hanno prodotto l'alterazione dei mercati che ci ha portato alla crisi, ma hanno anche esaltato le dimensioni della speculazione sul petrolio e sulle materie prime. Non è possibile che i derivati sulle materie prime siano stati in alcuni giorni di cento volte superiori rispetto al valore reale del bene trattato. È chiaro che questo discorso non riguarda la Cina ma è anche chiaro che la Cina deve avere un ruolo attivo nella gestione dell'economia mondiale e deve quindi avere la consapevolezza di agire in un contesto fortemente deteriorato da questi comportamenti. - È ovvio che ogni economia ha bisogno di ricette specifiche (ad esempio è diverso il caso italiano dove è lo stato ad essere indebitato e quello spagnolo dove sono le famiglie) ma ci debbono essere alcuni progetti comuni. - Ma quali politiche comuni di lungo periodo? - In primo luogo l'energia e l'ambiente avranno una crescente importanza nel processo di riconversione e di ripresa dell'economia. Se si deve intervenire sostenendo l'offerta è necessario indirizzare la produzione verso prodotti maggiormente eco compatibili. C'è forse bisogno di simboli (auto elettrica, cellule fotovoltaiche, Biodiesel da colture che sfruttano terreni marginali) sapendo anche che questa riconversione può anche essere un'importante occasione di business. - Questo settore è comunque capace di mobilitare una quantità di risorse enorme e diffusa non solo in tutti i continenti ma in tutte le aree, anche le più sperdute del mondo. - In secondo luogo grandi progetti di ricerca e sviluppo soprattutto nei settori legati alla salute ed alla scienza della vita. Anche questi possono e debbono coinvolgere nel lungo periodo le energie diffuse non solo di alcuni grandi paesi, ma di tutto il mondo. - Come abbiamo già specificato in precedenza, i modi e gli aspetti particolari delle politiche debbono essere decise dai diversi paesi, ma vi sono alcune grandi direzioni che debbono guidare l'azione di tutti noi. - Non voglio tuttavia entrare negli aspetti particolare della politica di lungo periodo anche se questo è l'aspetto che più personalmente mi interessa, essendo io di professione Professore di Economia Industriale. Spero che troveremo in futuro qualche altra occasione per parlare di come agire nel lungo termine sull'economia reale per fare riprendere al mondo la via dello sviluppo. - Ora vorrei fare alcune riflessioni sul ruolo che la Cina può svolgere in questa situazione così particolare. - Voglio partire con l'affermazione che questa è forse la più grande occasione per l'Asia e la Cina in particolare per svolgere un ruolo centrale e positivo nell'economia globale. La Cina è ad oggi il più forte elemento di stabilità e crescita nell'economia mondiale anche perché è l'unico paese, insieme ai produttori di petrolio, che ha una importante liquidità disponibile per investimenti. Ma, a differenza di questi paesi, ha anche un grandissimo mercato interno. - Ma ancora di più perché la Cina ha la possibilità di operare da sola o in cooperazione con le istituzioni internazionali, nella maggior parte dei paesi del mondo, sia nei paesi industrializzati che in quelli più poveri come i paesi del continente africano. - Nell'intera storia economica mondiale la Cina di oggi è infatti l'unico caso di un paese che esporta contemporaneamente capitali, tecnologie e mano d'opera. Questa è una realtà senza precedenti, che attribuisce al Vostro paese grande potere ma anche grande responsabilità. In questo senso la responsabilità cinese è davvero unica e deve essere esercitata con un crescente livello di coinvolgimento in tutta la politica mondiale. Anche se l'autonomia della politica interna è un sacro principio della convivenza fra i popoli, i contatti sono ormai tali che diventa praticamente inevitabile una reciproca "interferenza" fra i diversi paesi. Ed è questa influenza che deve essere esercitata in modo consapevole. - È quindi necessario un ruolo attivo della Cina anche sui grandi temi che saranno fondamentali per il futuro del mondo. Bisogna definire un percorso che accompagni il protocollo di Kyoto , tenendo presente che esso prevede linee di azione ancora imperfette. - Nel dibattito sull'economia nelle ultime settimane, si parla sempre di più di "ritorno alla produzione" intendendo con questo un ritorno di importanza sia della produzione agricola che di quella industriale. - Il "ritorno alla produzione" non sarà privo di conseguenze politiche anche nei paesi occidentali, in primo luogo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e negli altri paesi ad elevato livello di sviluppo. - Parlo di "ritorno alla produzione" non solo per la diffidenza sempre più diffusa nei confronti della finanza. Ma anche perché il crollo della domanda sta spingendo i governi non solo in aiuto del sistema bancario e finanziario, ma anche del sistema produttivo. - Il dibattito non è ancora concluso ma l'aumento della disoccupazione, soprattutto in aree politicamente sensibili, sta spingendo i governi a spostare risorse verso il sistema industriale. È lecito pensare che queste forze si faranno sentire anche in una fase più avanzata della crisi o dopo la crisi e si faranno sentire sia negli Stati Uniti che in Europa. - In Europa questo sforzo di "ritorno all'industria" sarà diverso da paese a paese, perché estremamente diverso è già oggi il ruolo dell'industria nei differenti paesi europei. - Negli ultimi due decenni abbiamo infatti assistito ad una concentrazione dell'industria soprattutto in una parte dell'Europa che trova il suo centro nella Germania e nell'Italia del Nord, mentre la parte che si è dedicata con assoluta prevalenza ai servizi vede il suo centro in Gran Bretagna ed Irlanda. - Naturalmente sarà un'industria diversa molto attenta ai problemi dell'energia e dell'inquinamento (quindi diversa anche nelle automobili) e alla domanda in continuo aumento nei settori della salute e delle scienze della vita. - Questa "grande correzione" dovrà essere accompagnata da un sostanziale riequilibrio tra risparmi e consumi. La grande crisi dimostra che lo squilibrio esistente oggi soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in molti paesi europei, non può prolungarsi nel futuro perché è fonte di enormi squilibri. - Questo adattamento sarà perciò lungo e penoso e porterà conseguenza non solo di breve ma anche di lungo periodo riguardo alle importazioni di Stati Uniti ed Europa e quindi avrà notevole impatto anche sull'economia cinese. - La crisi finanziaria in corso sta mettendo infatti in discussione la sostenibilità di squilibri fra le grandi aree economiche come quelli che si sono creati in questi anni. - Le tentazioni protezionistiche non potranno che crescere con il ritorno di un ruolo centrale della produzione. Parlo di "tentazioni" perché una notevole parte dell'opinione pubblica di questi paesi è tuttora convinta che l'apertura dei mercati e il libero commercio internazionale portino alla fine più vantaggi che danni. - È tuttavia molto probabile che su temi specifici, sui temi soprattutto legati all'ambiente e alla protezione sociale "social dumping") si venga a creare una situazione politica diversa. - Per essere più espliciti mentre non vedo probabile (anche se ancora possibile) un'adozione diffusa e generale di dazi doganali, vedo più probabile l'adozione di difese commerciali che traggono spunto dall'esistenza di costi addizionali dovuti alla difesa dell'ambiente e ad alcuni aspetti delle politiche del lavoro. - È quindi utile (e forse necessaria) un'iniziativa da parte cinese su questi temi. Non tanto un impegno su obiettivi irraggiungibili, quanto un programma che in qualche modo accompagni il protocollo di Kyoto o le altre iniziative che verranno prese su questi temi. - Questa è solo un esempio di come, soprattutto dopo la crisi finanziaria, i temi di carattere ambientale e sociale avranno crescente influenza in ambito economico. - Vorrei ora terminare queste mie brevi riflessioni con alcune osservazioni specifiche nei rapporti fra la crisi economica e finanziaria in atto e il particolare ruolo che la Cina svolge o può svolgere. Prima di tutto occorre fare tesoro di un insegnamento riguardo al passato. Io credo profondamente nell'economia di mercato ma credo che il mercato funziona bene solo quando è oggetto di regole e di controlli severi e precisi. - Se attualmente siamo caduti in una crisi di cui ancora non conosciamo gli aspetti quantitativi né la durata, è proprio perché negli ultimi dieci anni (soprattutto a partire dagli Stati Uniti) sono state allentate le regole e i controlli. Si potrà obiettare che in molti paesi le autorità di controllo si sono moltiplicate (controllo sulle banche, sulle assicurazioni, sulle borse, sui mercati finanziari, ecc.). ma proprio queste moltiplicazioni hanno reso i controlli meno efficaci, isolando e dividendo i vari mercati. - Questi controlli, inoltre, hanno soprattutto mantenuto un carattere nazionale, mentre i mercati finanziari sono diventati mondiali. È quindi interesse di tutti operare per regole e sorveglianze più severe a livello internazionale. Non sarà una battaglia facile ma utile a tutta l'umanità. - Io conservo personalmente l'esperienza della difficoltà di questa battaglia: quando ero Presidente della Commissione Europea e abbiamo prospettato direttive severe in materia, queste sono state impedite dall'opposizione di alcuni governi nazionali e dalle lobby di gruppi finanziari e bancari. Una comune azione efficace non solo dovrà aumentare il potere delle autorità di regolamentazione a livello internazionale ma dovrà nello stesso tempo: - a) impostare un'azione comune di controllo e regolamentazione dei mercati, ora sottratti ad ogni controllo. - b) Impedire comportamenti speculativi alle banche di deposito ordinario. - c) Limitare, con un'organica serie di strumenti di trasparenza e fiscali, l'esplosione dei così detti "derivati". - d) Stabilire regole per il mercato delle ipoteche. - e) Imporre rigorosi criteri di comportamento alle agenzie di "rating" - Queste azioni si debbono aggiungere alle decisioni che la maggior parte dei governi ha preso per immettere risorse pubbliche nel sistema economico e vincere quindi la paura che ha colpito l'economia mondiale nelle scorse settimane. - Insisto sul fatto che le misure prese vanno nella giusta direzione, ma non sono certo sicuro che queste misure siano sufficienti perché non abbiamo ancora un quadro quantitativo preciso e credibile della dimensione della crisi. - Se sarà vinta la paura occorrerà molto tempo e molto spirito di collaborazione per guarire un sistema economico internazionale fondato sul debito cresciuto a dismisura e caratterizzato da un crollo del risparmio sia pubblico che privato. - In questo quadro il ruolo dell'Asia e della Cina appaiono determinanti e non solo perché l'Asia è uno dei pilastri della produzione manifatturiera di cui abbiamo parlato in precedenza. - L'aspetto più importante è infatti quello che l'Asia è ora il principale sottoscrittore del debito pubblico degli Stati Uniti. - Oltre il 40% dei 2600 Miliardi di debito degli Stati Uniti è stato infatti sottoscritto dai paesi asiatici. E di questo una cifra di circa 573 M$ da parte del Giappone e 585 M$ da parte della Cina. - E questo senza contare gli investimenti in altre società americane (es. Freddie Mac e Fannie Mae). È importante sottolineare come gli acquisti cinesi siano proseguiti anche nell'ultimo mese. Io interpreto questo atteggiamento consapevole e responsabile come un corretto modo del governo cinese per inserirsi tra i grandi decisori della governance mondiale. - Il mondo (occidentale e non solo occidentale) non può fare a meno, nell'attuale crisi economica della domanda cinese, degli investimenti cinesi e delle risorse finanziarie cinesi. - Capacità produttiva industriale e alto tasso di risparmio fanno della Cina uno dei pilastri fondamentali per uscire dalla crisi con un nuovo e duraturo equilibrio. Grande potere e grande responsabilità si sommano quindi nel futuro delle Vostre decisioni politiche. - Alla luce di questi dati e della necessità di perseguire un nuovo equilibrio mondiale, vanno valutate le recenti decisioni prese dal Governo Cinese di rilanciare l'economia interna alla vigilia del Vertice dei G20. - Di fronte alla diminuzione del tasso di sviluppo dell'economia (9% di crescita del PIL di fronte al 10,4% del trimestre precedente) è stato deciso un piano di rilancio di 580 Miliardi di dollari nei settori dell'edilizia residenziale, dei lavori pubblici, dell'energia, dei trasporti, della sanità, dell'istruzione e di rilancio delle attività produttive sia tramite incentivi alla ricerca e all'investimento che attraverso incentivi fiscali. - A questo si aggiungono gli aumenti ai sussidi agricoli, ai salari e alle pensioni. - Dato il basso debito pubblico e i 2000 miliardi di riserve valutarie questo piano di rafforzamento della domanda interna cinese appare realistico e sostenibile e sarà di grande utilità all'economia mondiale e all'economia cinese. Esso potrà infatti mantenere un elevato tasso di sviluppo all'industria manifatturiera che ha visto calare le proprie prospettive di esportazione per effetto della crisi dei mercati mondiali. - Una crisi che probabilmente avrà anche sulla Cina un'influenza maggiore rispetto a quanto fino ad ora ipotizzato. - Questo piano ha dimensioni davvero cospicue, è accompagnato da politiche monetarie espansive e avrà conseguenze positive nel breve e nel lungo periodo. Naturalmente come tutte le decisioni che segnano cambiamenti radicali, il suo effetto sarà tanto più efficace quanto più rapida sarà la sua realizzazione. - In ogni caso l'economia cinese sta cambiando gli equilibri mondiali con la stessa forza con cui gli Stati Uniti ci hanno cambiato nel secolo scorso. - Per questo motivo il mondo ha bisogno di una Cina stabile e cooperativa. - Un'ultima riflessione. - Noi ci incontriamo qui nel momento in cui la crisi ancora è in espansione e, ancora, i suoi confini non sono ancora ben chiari. - Di fronte a questi sconvolgimenti non possiamo non farci la domanda che i politici e gli economisti si facevano durante la grande crisi del 1929. - E la mia risposta, non si discosta da quella che diede Keynes in una conferenza tenuta a Madrid nel 1930 e che cioè, nonostante il pessimismo dei conservatori (che pensano che la crisi sia il preludio della fine) e il pessimismo dei rivoluzionari (che pensano che tutto debba finire perché il mondo è profondamente ingiusto) la nostra società abbia grandi risorse (scientifiche, tecnologiche e morali) per riprendersi e ricominciare a camminare in avanti. - Ritengo cioè che il mondo abbia ancora tante energie sane, per cui questa crisi (come diceva allora Keynes) non è una malattia di vecchiaia dell'umanità, ma solo un disturbo di crescita. Ricevuto da: _______________________________________________ RomanoProdi mailing list RomanoProdi@liste.fondazionepopoli.org http://liste.fondazionepopoli.org/mailman/listinfo/romanoprodi Titolo: PRODI Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 12:10:40 pm Sky, Prodi spiega: era ovvio dire sì all'allineamento delle aliquote
di Fabrizio Rizzi BOLOGNA (3 dicembe) - «Era ovvio che il governo dicesse sì all’allineamento delle aliquote, adempiere a questa obbligazione era ovvio». E dunque, era ovvio che dicesse sì a una richiesta della commissione Ue. Romano Prodi non intende entrare nella querelle su Sky, tantomeno rispondere a Giulio Tremonti secondo il quale non esistevano alternative all’aumento dell’Iva per gli abbonati della pay-tv. Puntualizza, però, il concetto: una volta richiesto, conformarsi a questa richiesta era ovvio. Nel merito non vuole entrare. Oltretutto, spiega il Professore, «non ricordo niente». Non è un vuoto di memoria, aggiungono i collaboratori, perchè il governo cadde il 27 gennaio ed il presidente, in quei giorni, era alle prese con rivendicazioni varie, risse tra alleati. Poi l’esecutivo, da allora, marciò con toni sincopati, o meglio in amministrazione controllata fino alle elezioni di aprile. Non poteva assumere nulla di importante, se non badare agli affari correnti. Inoltre, viene ripetuto, l’impegno all’allineamento delle aliquote non significa per nulla che il governo volesse alzare l’Iva. Avrebbe potuto anche riallineare al ribasso. In ogni caso si rimanda a Visco, che aveva in mano la questione. E si precisa che il governo Prodi non era mai entrato nel merito delle cifre da ritoccare. «Come farlo», aggiunge ora il Professore, «è un problema loro». Se il dossier Tremonti riporta la lettera con cui il direttore generale per il fisco, Robert Verrue, esprimeva «preoccupazioni per il diritto comunitario» dalla disparità di trattamenti sull’Iva, nel quartiere generale del Professore, a Bologna, non c’è né trambusto, né agitazione. Come se tutto fosse riconducibile a una polemica senza senso, né misura. Una delle tante sollevate per alzare un polverone che non lascerà alcuna traccia. D’altronde, l’ex premier appena rientrato da un viaggio in Cina, dove ha ricevuto tutti gli onori dal governo di Pechino, sembra essere pressato da ben altri problemi, come quelli dell’Africa, di cui,a giorni, dovrà redigere una relazione per il team dell’Onu di cui è a capo. E’ Sandra Zampa, deputato del Pd, ora portavoce del Professore, a chiarire i contorni della vicenda. Premette: «Se non fosse grottesco, sarebbe semplicemente ridicolo. Accusare il governo Prodi è diventato lo sport preferito dell’esecutivo in carica». Quindi spiega: « I documenti distribuiti dal ministro Tremonti a Bruxelles testimoniano semplicemente l’impegno del governo Prodi a eliminare le asimmetrie denunciate dalla Commissione europea nelle aliquote Iva. Questo non significa che il governo Prodi abbia preso l’impegno ad aumentare le aliquote Iva per le pay-tv». da ilmessaggero.it Titolo: PRODI (oggi). - Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2009, 12:03:17 am Per non passare da una crisi all’altra serve un leone non un gattino
Da Il Messaggero del 31 dicembre 2008 - Facendo un bilancio dell’economia mondiale del 2008, l’unica conclusione possibile è che prima finisce l’anno meglio è. Non c’è un indicatore che vada bene. Non la crescita, non il commercio internazionale, non l’occupazione. Solo il calo dell’inflazione è un elemento positivo, ma l’inflazione cala proprio perché tutto il resto va male. Si tratta di una crisi generalizzata e imprevista. Nessuno l’aveva immaginata così profonda e diffusa. Qualcuno aveva previsto tensioni nei mercati finanziari, altri lo scoppio della bolla immobiliare, ma nessuno pensava che l’intreccio di tutti questi fatti potesse portare ad una caduta così rapida e diffusa dell’economia mondiale. Non potendo quindi considerare buone le previsioni fatte in passato, non mi sento di avere un maggior grado di fiducia nemmeno nei confronti di coloro che oggi ci presentano raffinati e complicati grafici rispetto al futuro. Previsioni su quando comincerà la ripresa è meglio non farne. I ragionamenti sulla politica più opportuna da adottare sono invece d’obbligo. Per costruire questi ragionamenti partiamo naturalmente dalla constatazione (non è più una previsione) che, globalmente preso, il 2009 sarà un anno di recessione tanto per l’Europa che per gli Stati Uniti. L’Oriente (pur con una sensibile diminuzione dei precedenti tassi di crescita) conoscerà uno sviluppo positivo, ma non a sufficienza per bilanciare la crisi del resto del mondo. Se non conosciamo i tempi di uscita dalla crisi, conosciamo almeno gli errori da evitare e le decisioni da prendere perché se ne possa al più presto venir fuori più forti e soprattutto più puliti. Il primo errore è quello di sperare che una soluzione nazionale (di qualsiasi paese) posa risolvere una crisi che ha cause mondiali. Chi pensa di poterlo fare con il protezionismo, con i sussidi all’esportazione o con estemporanei aiuti alle imprese si sbaglia, perché gli altri Paesi non potranno che reagire con analoghe misure. La recessione si trasformerebbe fatalmente in grande depressione. Diverso è il caso del salvataggio delle banche (anche se non sono certo esenti da colpe) perché la certezza che il proprio denaro sia al sicuro è condizione del funzionamento stesso di ogni economia. Se si fosse intervenuti a salvare la Lehman Brothers, avremmo certamente evitato momenti di panico in tutto il mondo. Nell’anno che sta iniziando non vi sono solo errori da evitare, ma anche azioni da compiere. Tra queste non basta iniettare capacità di acquisto nei sistemi economici (come è stato già positivamente compiuto da moltissimi paesi negli ultimi mesi), ma soprattutto occorre stabilire nuove regole per i mercati e gli operatori finanziari. Regole valide per tutto il mondo. Mi limito a parlare di regole finanziarie perché stiamo riflettendo sull’economia, ma il mondo è ormai globale in tutti i sensi. Certo non si può vincere la sfida del terrorismo, dell’energia e dell’ambiente senza regole che coinvolgano tutti i grandi attori che agiscono sulla scena mondiale. Tornando all’economia, bisogna partire dalla constatazione che l’economia globale non è la somma delle economie di tutti i paesi, ma è qualche cosa di diverso, perché le diverse nazioni, se non agiscono in armonia, si distruggono reciprocamente. Un primo passo in questa direzione è stato compiuto con la sostituzione del G8 con il G20, un’assise in cu,i accanto all’Europa, all’America e al Giappone, sono presenti i nuovi protagonisti dell’economia mondiale, a partire dalla Cina e dall’India. Bisogna però che il G20 non sia solo una riunione di emergenza, ma il luogo in cui si propongano e si impongano le riforme dei mercati finanziari e monetari di cui il mondo ha urgente bisogno. Ci vorrà tempo, perché anche la riforma di Bretton Woods era stata preceduta da due anni di intenso lavoro tecnico e politico, ma non vi è altra strada per mettere lo sviluppo del mondo su un binario virtuoso. Se infatti rimarranno regole nebulose e frammentate, mercati grigi in cui tutto si ricicla, istituzioni finanziarie che non rendono conto a nessuno della propria attività, non potremo che passare da una crisi a un’ altra crisi. Non bisogna nascondere il fatto che questa riforma è un compito difficilissimo. Così difficile che, quando si è cercato di promuoverla nell’ambito dell’Unione Europea, gli interessi e i veti dei diversi Paesi hanno trasformato il progetto di un leone in un disegno di un gattino. Se questo avviene nell’ambito europeo, figuriamoci come sarà difficile riscrivere queste regole di comportamento e di trasparenza a livello mondiale! Concludendo con alcune telegrafiche riflessioni possiamo dire che i governi stanno generalmente agendo nella direzione giusta per uscire alla crisi, ma non sappiamo quando queste azioni daranno frutto, perché nessuno conosce ancora le dimensioni della crisi. Ma soprattutto dobbiamo riconoscere che, se non si riscrivono nuove regole comuni per il funzionamento dei mercati, la ripresa sarà soltanto la preparazione della prossima crisi. Romano Prodi http://www.romanoprodi.it/wordpress/?p=339 Titolo: PRODI OGGI. - Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 10:59:01 am "Quando la crisi si estende a tutta l'economia, il primo obiettivo e'
evitare il panico diffuso. Ci vogliono regole e l'autorità per farle rispettare. I debiti vanno pagati; e vanno pagati nel tempo dovuto." Intervento su Il Messaggero del 25 gennaio 2009 di Romano Prodi E’ opinione ormai scontata che i comportamenti del mondo finanziario e bancario (soprattutto nei paesi anglosassoni) siano all’origine dell’attuale grave crisi economica. L’incoraggiamento ai consumi oltre ogni ragionevolezza, la creazione di titoli di valore almeno dubbio, l’opposizione ad ogni controllo pubblico e la caduta del senso etico nei comportamenti dei responsabili del settore sono certamente alla base di una crisi finanziaria che con una rapidità davvero senza precedenti ha infettato tutta l’economia reale. Nonostante questo mi dichiaro senza alcuna esitazione a favore dei salvataggi bancari che con una varietà di strumenti vengono messi in atto in diversi paesi. Non vi è alcuna contraddizione tra la condanna dei comportamenti di molti protagonisti del sistema bancario e la politica dei salvataggi, perché quando la crisi si estende a tutto il sistema economico, il primo obiettivo deve essere quello di evitare che un panico diffuso nei confronti della solidità delle banche spinga i risparmiatori a ritirare i depositi e a portarli “sotto il materasso”, bloccando in questo modo tutta la vita economica. Un elemento che ha aggravato il precipitare della crisi è stato infatti il comportamento delle autorità americane che, dopo aver tenuto senza briglia e senza controllo le banche, ha poi fatto fallire la Lehman Brothers, lasciando con questo intendere che nessuna banca poteva ritenersi sicura. L’ondata di paura provocata da questo fallimento è stata solo parzialmente tamponata dalle decisioni di molti governi di dedicare cospicue risorse a sostegno del sistema bancario. Ed è inutile, a questo proposito, lamentare l’eccessiva ingerenza dello Stato nell’economia, perché essa è stata resa indispensabile da questi eventi. Dobbiamo invece chiederci perché tanti politici, tanti operatori economici e anche tanti economisti alla moda ci hanno raccontato per quasi un paio di decenni che il mercato doveva essere il solo perfetto regolatore di se stesso e non aveva bisogno di nessun controllo. Sappiamo invece tutti che, perché il mercato funzioni occorrono regole e comportamenti rigorosi. Occorre cioè che le regole siano rispettate e che ci sia una autorità che le faccia rispettare. Opportuni quindi gli aiuti a favore delle banche, ma nel rispetto di alcune precise condizioni. La prima è che anche i loro dirigenti diano il proprio contributo al risanamento del sistema. Non si può tollerare una situazione in cui essi sono premiati (a volte in modo indecente) se le cose vanno bene, non sono puniti se le cose vanno male e, addirittura ricevono benefici copiosi se vengono mandati via in conseguenza dei loro errori. In secondo luogo i “salvataggi” bancari hanno un senso se le banche provvedono con il massimo sforzo al finanziamento del sistema produttivo (soprattutto delle piccole e medie imprese) e delle famiglie. Se dobbiamo sostenere le banche perché sono le arterie del sistema economico, bisogna che il sangue lo portino davvero a tutti gli organi e quindi anche alle periferie del mondo economico. E, ripeto, soprattutto alle imprese di minori dimensioni che, anche quando sono sane, non hanno alternative al credito bancario. Invece non solo l’esperienza quotidiana di molti imprenditori e consumatori ci parla di forti restrizioni al flusso del credito, ma lo stesso messaggio è contenuto nelle indagini di Confindustria, della Confederazione Nazionale Artigiani e di altri autorevoli organismi. Ancora più incisivo è, a questo proposito, quanto scrive l’ultimo bollettino della Banca d’Italia, e cioè che le Banche italiane partecipanti all’indagine sul credito bancario (Bank Lending Review) hanno esse stesse ammesso di aver inasprito i criteri adottati per l’erogazione dei prestiti alle imprese. E sottolinea l’irrigidimento dei criteri di erogazione anche nei confronti del credito alle famiglie, sia nel settore del consumo, sia nei mutui per l’acquisto di abitazioni. Lo stesso bollettino sottolinea poi che “il rallentamento del credito è più intenso nei confronti delle piccole imprese”. E questa frase, purtroppo, non ha bisogno di commenti. Certo la crisi economica porta sempre con sé l’aumento delle sofferenze dei crediti ed è evidente che le banche debbano essere più prudenti nelle loro decisioni, ma il passaggio dalla prudenza all’adozione di criteri automaticamente più selettivi non si giustifica in alcun modo. Ancora più non si giustifica in quanto le banche italiane appaiono in generale meno colpite dalla tempesta che ha travolto le consorelle degli altri paesi. Quindi sì al sostegno alle banche ma solo se esse sostengono l’economia. Tuttavia non solo il sistema bancario, ma anche la pubblica amministrazione è chiamata con i propri comportamenti a dare un contributo positivo al sostegno dell’economia. Non mi riferisco in questo caso a comportamenti di carattere generale, ma al fatto specifico (che costituisce una patologia esclusivamente italiana) del ritardo dei pagamenti nel caso dell’acquisto di beni e servizi e del ritardo dei rimborsi fiscali nei confronti di imprese e privati cittadini. Si tratta di situazioni patologiche esistenti da tempo, situazioni patologiche che in molti settori e in molte regioni si vanno ulteriormente aggravando. Ciò deprime ancora di più il ciclo economico e rende allo stesso tempo più costoso l’acquisto di beni e servizi. Il primo aiuto dello Stato all’economia in crisi sta quindi nella vecchia ed elementare regola che i debiti vanno pagati e vanno pagati nel tempo dovuto. Titolo: Prodi Le divisioni del mondo arabo non aiutano la pace ... Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 04:03:55 pm Romano Prodi
Le divisioni del mondo arabo non aiutano la pace ma possono provocare un conflitto inarrestabile. Intervento su Il Messaggero del 17 gennaio 2009 di Romano Prodi SI PARLA di una imminente tregua a Gaza. Se ne parla con ottimismo e speranza ma la si invoca anche per necessità. L’Egitto, grande e infaticabile mediatore, si trova infatti in una posizione sempre più scomoda e difficile. Da un lato, soprattutto negli ultimi tempi, non nasconde il suo distacco e la sua irritazione nei confronti di Hamas e, dall’altro, non può nemmeno nascondere la grande preoccupazione per l’effetto che i bombardamenti a Gaza, producono sull’opinione pubblica, non solo egiziana ma di tutti i Paesi arabi. Nonostante il fermo controllo sui mass media esercitato dall’esercito israeliano, le reti televisive più seguite nel mondo arabo continuano infatti a mostrare all’opinione pubblica le tragiche scene delle scuole colpite, dei bambini uccisi e degli ospedali sempre meno in grado di curare i feriti. La preoccupazione e la fretta dell’Egitto sono aumentate ulteriormente dopo il vertice di Doha (in Qatar) nel quale la presenza del leader della parte più estremista di Hamas (quella che risiede a Damasco ed è capeggiata dallo sceicco Khaled Meshaal) ha spinto i Paesi presenti verso posizioni sempre più dure ed intransigenti. Il ragionato ottimismo che tre giorni fa il presidente egiziano mi esprimeva riguardo a una possibile tregua, doveva essere perciò tradotto in azione nel più breve tempo possibile. Questa è la ragione per cui è stato convocato con la massima urgenza il vertice di Sharm el Sheikh, vertice assolutamente necessario per porre termine alla tragedia di Gaza prima che tutto il vicino Oriente si infiammasse. Non nascondiamo però il rischio contenuto nella convocazione di questo vertice di cui non sappiamo ancora definitivamente quale sarà il livello di partecipazione, anche se ci auguriamo che sia più ampio ed elevato possibile, proprio per la grandezza dei problemi che deve affrontare. La nostra speranza per il successo di questo vertice non può né deve nasconderne i limiti e soprattutto i problemi che lascerà in ogni caso aperti. La necessità che tutti i partecipanti avranno di giungere ad un accordo il più rapidamente possibile renderà infatti difficile una decisione efficace riguardo alla costituzione di una “forza di interposizione” capace da un lato di controllare il traffico di armi fra l’Egitto e Gaza, ma capace anche di permettere il flusso di merci di cui la città assediata ha necessità, flusso che negli ultimi mesi è arrivato con sempre maggiore difficoltà, imponendo penosi sacrifici a tutta la popolazione. Ancora più complicato appare soprattutto il cammino verso una pace stabile e una “soluzione politica” del problema palestinese. La “guerra di Gaza” ha infatti radicalizzato ancora di più le posizioni, ha aumentato la spaccatura non solo fra Israele e la Palestina, ma anche all’interno dei palestinesi e, quello che è più grave, tra i diversi Paesi arabi. C’è chi pensa, seguendo il vecchio principio del “divide et impera” che una ulteriore divisione tra i Paesi arabi possa facilitare la pace definitiva in Medio Oriente. Nulla è più sbagliato di questa ipotesi. Stando in Medio Oriente si deve infatti convenire che, in tempi nei quali da un lato incombe la minaccia del terrorismo e dall’altro la diffusione dei media è capace di infiammare in un attimo l’opinione pubblica, le crescenti divisioni del mondo arabo non sono in alcun modo un aiuto alla pace ma, all’opposto, rendono sempre più facile lo scoppio di un conflitto inarrestabile. E l’esperienza ci dimostra che non sono certo le liti fra i Paesi arabi a garantire la sicurezza di Israele. É necessario perciò che le cosiddette grandi potenze tengano ben presente questo fatto e rifuggano dalla tentazione di ripetere il vecchio gioco che troppo volte ha innescato tensioni e guerre. Nel ribadire la calda ma non scontata speranza che l’incontro di oggi a Sharm el Sheikh ponga finalmente fine alla guerra di Gaza, non facciamoci illusioni sulla definitività e la stabilità di questa tregua. Le cose in ogni caso partiranno da una situazione peggiore di quella di un mese fa. Ci auguriamo perciò che il nuovo presidente degli Stati Uniti, con lo stesso realismo di cui ha dato prova nella formazione del suo governo, sia capace di dare concretezza e significato al concetto di “dialogo che ha ripetutamente posto alla base della sua futura politica estera. Dialogo e “divide et impera” non sembrano infatti essere concetti fra di loro compatibili. Anche se in politica tutto è possibile. Romano Prodi Titolo: Romano Prodi. Care amiche, cari amici, Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 11:48:14 am Romano Prodi
::::: dalla Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli ::::: Care amiche, cari amici, il racconto che vi proponiamo oggi rappresenta una sorta di 'diario di bordo' delle visite internazionali che Romano Prodi ha fatto dopo la conclusione della sua esperienza di governo. Al rientro da Palazzo Chigi, il Professore ha ritenuto di voler mettere la propria esperienza al servizio della Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli. Una Fondazione che affronta le problematiche sociali, culturali, economiche, politiche del mondo', che cerca nuove proposte di collaborazione nel contesto internazionale. Il racconto qui proposto, scritto di suo pugno da Romano Prodi, parla del lavoro per la pace in Africa su incarico delle Nazioni Unite. Ricorda gli incontri con i vertici di governi in Cina, in Europa, in America Latina. Sono i primi passi di un lavoro intenso e appassionante. C'e' il desiderio di rendere trasparente e condiviso il percorso intrapreso tappa per tappa, con chi ha manifestato interesse ad essere informato. E' uno scritto sintetico che consegna riflessioni rapide e vive. Dal primo viaggio di lavoro, in Spagna nel 2008, si arriva alla visita in Messico che ha avuto luogo poche settimane fa. Il testo e' corredato da foto e rinvii a documenti di approfondimento. Potete trovarlo a questo indirizzo: http://www.romanoprodi.it/wordpress/documenti/guardandosi-intorno_384.html Se lo desiderate, potete inviare le vostre impressioni ed i vostri commenti sul Forum che la Fondazione ha preparato per voi. Il Forum e' pronto per voi qui: http://www.mondogrande.it Potete iscrivervi e cominciare subito a dialogare. Buona lettura e buona partecipazione al Forum della Fondazione ! la Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli _______________________________________________ RomanoProdi mailing list RomanoProdi@liste.fondazionepopoli.org http://liste.fondazionepopoli.org/mailman/listinfo/romanoprodi Titolo: Prodi e il caso Mastella: «Questa non è politica» Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2009, 11:00:19 am GLI SCHIERAMENTI
Prodi e il caso Mastella: «Questa non è politica» Il Professore: «Andando nel Pdl continua la tradizione. Io? Ormai sono lontano mille miglia da queste cose» DAL NOSTRO INVIATO BOLOGNA — Neanche la notizia dell'ennesima migrazione di Clemente Mastella, passato con armi e ceppalonici bagagli alla corte berlusconiana, con vista sull'Europarlamento, riesce a strappare Romano Prodi dalla sua «second life», fatta di Africa, Onu e dotte conferenze. «Non considero questa politica» ha laconicamente commentato l'ex premier, intercettato al telefono da Radio Capital. Aggiungendo, poi, che la vicenda «è purtroppo un segnale di continuità con la tradizione » e che comunque lui «è lontano mille miglia da queste cose», compresa l'inevitabile scia di sospetti che accompagna il nuovo matrimonio politico dell'uomo che un anno fa fece cadere il governo dell'Unione. Inaccessibile a qualsiasi discorso che soltanto sfiori la politica italiana, l'ex premier ha fatto una piccolissima eccezione durante un recente viaggio in Messico, quando, incalzato sui motivi della caduta del suo governo, ha dovuto ammettere, come lui stesso scrive nel suo sito, «che non è stato sempre agevole spiegare perché l'Ulivo sia prematuramente appassito». Non è chiaro se, con il termine Ulivo, Prodi intendesse riferirsi all'insieme della sua esperienza di governo o piuttosto alla scarsa incidenza della filosofia ulivista nel Pd veltroniano. La sostanza comunque non cambia: «Io, per questa politica, non voglio esistere» ha più volte confidato l'ex premier ai suoi. Cosa che gli è riuscita perfettamente da quando, era il 21 gennaio di un anno fa, Mastella annunciò che l'Udeur sarebbe uscita dal governo. Molto si è scritto di quel giorno, a cominciare dalla lettera con la quale l'ex Guardasigilli annunciò a Prodi l'intenzione di ritirare l'appoggio all'esecutivo. «Mastella ha sempre detto — ricorda Sandra Zampa, allora capo ufficio stampa di Palazzo Chigi e ora deputato pd e portavoce del Professore — di aver avvertito per primo Prodi. Non è vero. Abbiamo saputo dalle agenzie che l'Udeur se ne andava. La lettera è arrivata dopo». Scritta di pugno da Mastella, finito in quei giorni nel mirino di De Magistris, la missiva così recitava: «Caro Romano, con il cuore trafitto, con lo sguardo alla mia splendida famiglia e pensando a quanto abbiamo fatto insieme in condizioni disperate. Con il grazie che ti debbo per la scelta di un dicastero prestigioso, drammaticamente prestigioso, oggi prendo atto che le condizioni politiche non ascrivibili né alla tua persona né a me, imputabili invece a chi questo ha provocato sul piano politico, sono venute meno. Abbiti tanta amicizia». Così finiva il secondo governo di Prodi: «Una manciata di righe, senza alcun costrutto politico, mah...» ricorda ora Zampa. Quel 21 gennaio, mentre il Professore era impegnato in un incontro internazionale, lei era davanti al computer: «A un certo punto — racconta — comparve l'agenzia che annunciava l'uscita dell'Udeur. Alzai la testa e dissi a Flavia (moglie di Prodi, ndr): Mastella se ne va. E lei, che stava scendendo le scale, si bloccò e disse: allora è davvero finita». Ora Mastella è di nuovo politicamente tra noi. Anche se qualcuno, come l'ex finiano Francesco Storace, fatica a crederci: «Mi pare un pessimo scherzo di Carnevale per gli elettori di An». Francesco Alberti 16 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Bilancio più forte e titoli europei per battere la paura Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2009, 09:09:55 am 26 Feb
13:45 Bilancio più forte e titoli europei per battere la paura- Pubblicato in Riflessioni sul Mondo Bilancio più forte e titoli europei per battere paura di Romano Prodi su Il Messaggero del 26 febbraio 2009 ROMA (26 febbraio) - Domenica scorsa a Berlino i più importanti paesi europei si sono trovati finalmente d’accordo per farsi promotori di una nuova trasparenza nei mercati finanziari internazionali. Una decisione estremamente importante per evitare in futuro altre crisi ed estremamente urgente perché bisognerà cominciare a tracciare le concrete linee di azione in materia fin dalla prossima riunione dei G 20 che si svolgerà a Londra nei primi giorni di Aprile. Non sarà facile portare in porto questo progetto perché, al momento opportuno, sorgeranno mille ostacoli, certamente costruiti da chi ha interesse che zone d’ombra e paradisi fiscali rendano difficile creare davvero trasparenza nel fiume di denaro che corre per il mondo. La recente tensione fra Stati Uniti e Svizzera sul segreto bancario è solo una pallida premessa dei conflitti che sorgeranno quando si vorrà davvero dare concretezza a questo difficile ma indispensabile progetto. Per questo motivo è grandemente opportuno che l’Europa abbia deciso una coraggiosa iniziativa in materia. Se è bene guardare alle grandi riforme di domani bisogna però evitare che la casa europea bruci oggi. Nelle scorse settimane, infatti, i singoli paesi, anche quelli che appartengono all’Euro, sono stati lasciati soli a difendere la propria economia e le proprie banche nella tempesta. La speculazione ha cominciato a saggiare il terreno e i tassi dei titoli pubblici di Irlanda, Grecia e Portogallo ( e in minore misura di Spagna e Italia ) si sono progressivamente allontanati da quelli tedeschi, mentre le difficoltà economiche e le conseguenti debolezze delle banche dei paesi membri non appartenenti all’Euro (soprattutto nei paesi nuovi) stanno pericolosamente mettendo in crisi tutto il sistema bancario e finanziario europeo. Se vogliamo evitare che i paesi vengano messi in ginocchio uno alla volta occorre perciò dotare l’Unione Europea di strumenti di difesa comune. In questo momento la solidarietà europea non è solo un fatto etico ma il nostro più efficace strumento di difesa contro l’allargarsi della crisi. Per essere ancora più chiari voglio dire che ogni Euro dedicato alla difesa dell’economia europea nel suo complesso vale molto di più di un Euro dedicato alla difesa di un singolo paese. Perché la speculazione ha paura di una Europa forte e unita e colpisce solo i paesi isolati. Se così stanno le cose è necessario, in sede europea, prendere urgentemente due decisioni. La prima riguarda un aumento del bilancio dell’Unione. Esso è oggi inferiore all’1% del PIL europeo e va portato subito, nell’ambito della Revisione di Bilanci 2008-2009 all’1,25, dedicando questo quarto di punto in più ad interventi straordinari volti ad alleviare le tensioni dei paesi dentro e fuori dall’Eurozona, aiutando in questo modo a stabilizzare i mercati finanziari europei. La seconda decisione è l’emissione di titoli del debito pubblico a livello europeo, che si affianchino e non sostituiscano i buoni del tesoro dei singoli paesi. La costituzione, il controllo e l’impiego di questi titoli dovrà naturalmente essere nelle mani dei ministri delle finanze dell’Eurozona. Questo sono gli strumenti per precedere e non semplicemente rincorrere le turbolenze dei singoli mercati. Attaccare l’Europa è infatti molto molto più difficile che attaccarne i singoli membri. Ed è anche utile aggiungere che, mentre l’Euro è già diventata una valuta di riferimento e di riserva nei mercati mondiali, non esiste ancora un titolo rappresentativo dell’Europa in cui si possa oggi investire. Capisco che queste proposte possano creare punti interrogativi e perplessità nei paesi che dovrebbero sopportarne il peso maggiore, soprattutto in Germania, dove tante sono state le discussioni negli anni e nei giorni passati. Capisco che con questo si tocca un punto cruciale nel patto sottostante la costruzione dell’Euro, patto per cui la moneta è comune ma i debiti degli stati debbono rimanere separati. Tuttavia siamo arrivati ad un punto in cui è interesse di tutti ( a partire dalla Germania) fare fronte comune per rispondere ad un pericolo comune. Lo stesso ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrùck ha recentemente ammesso la necessità di intervenire nel caso vi sia il rischio di default di un paese. Il modo migliore non solo per intervenire e per prevenire questi casi è proprio quello di costruire ed utilizzare un mercato per gli Eurobond emessi a livello europeo. E’ chiaro che di fronte a decisioni così importanti sarà necessario offrire alla Germania (come ha recentemente scritto Soros su queste pagine) e agli altri paesi più “virtuosi” garanzie di ferro per l’impiego di queste risorse comuni. Ritengo tuttavia che siamo arrivati al punto in cui la solidarietà non è solo l’aspetto essenziale dell’Unione Europea ma è uno strumento fondamentale per vincere la paura che sempre più alimenta la crisi mondiale. Titolo: Re: PRODI (oggi). - Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 03:40:36 pm L`industria: passato o futuro della nostra economia?
Charles Chaplin in Modern Times Lezione di Romano Prodi presso la Real Academia de Ciencias Economicas y Financieras de Espana Barcellona, 12 marzo 2009 Una certa attività politica svolta tra Roma e Bruxelles mi ha, per un notevole numero di anni, tenuto lontano dagli studi di economia industriale che per tanto tempo avevo con passione coltivato. Sono stati anni di grandi cambiamenti e di trasformazioni radicali nel sistema economico mondiale. Si sono aperti nuovi orizzonti nella ricerca e nella produzione. Nuovi paesi sono entrati imperiosamente nella grande arena dell’economia mondiale. Nuovi protagonisti hanno rubato la scena ai vecchi attori. Quando pochi mesi fa ho ripreso in mano, non con l’affrettato sguardo del politico (sempre protetto e spesso annebbiato dai suoi uffici studi), il quadro di riferimento dell’industria mondiale, mi sono trovato di fronte a una trama quasi irriconoscibile. Un quadro mutato negli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione e del commercio internazionale. Non volendo annoiarvi con una valanga di dati statistici, l’eccesso dei quali è lo strumento migliore per nascondere la necessaria riflessione, basti mettere in rilievo che, all’immediata vigilia della grande crisi che stiamo ora vivendo, ben il 40% delle esportazioni mondiali proveniva da paesi di recentissima industrializzazione, con tutte le implicazioni che questo semplice dato contiene. Soprattutto se teniamo conto del fatto che, vent’anni fa, questa quota era relativamente trascurabile. Oltre a questa osservazione sui mutamenti del commercio internazionale, mi limito a richiamare la vostra attenzione sul trasferimento di settori industriali verso l’Asia, sulle crisi di interi distretti produttivi negli Stati Uniti ed in Europa e sulle conseguenze politiche e sociali che questi cambiamenti hanno prodotto. Mutamenti epocali che hanno, per il bene e per il male, radicalmente cambiato il nostro modo di vivere. una antica fabbrica Mai per un attimo ho pensato che questi cambiamenti abbiano avuto effetti soltanto o prevalentemente negativi: essi sono stati il necessario strumento per un aumento generale del benessere del globo e per un passaggio verso condizioni di vita più umane di miliardi di persone, anche se è evidente che tutti i grandi cambiamenti lasciano vittime sulle loro strade e creano la necessità di interventi politici che non sempre sono all’altezza della situazione e che sono risultati particolarmente difficili in un periodo storico in cui il filone portante della scienza economica riteneva che il mercato fosse sempre in grado di trovare il proprio equilibrio senza interventi esterni. Un periodo storico in cui perfino il termine “politica industriale” suonava eretico nelle orecchie di gran parte degli economisti. Ciò che più mi ha colpito, e su cui vorrei riflettere insieme a voi, non è tanto la dimensione di questi cambiamenti, perché essa è nota a tutti voi e fa parte della nostra comune esperienza, quanto invece le reazioni dei politici e degli studiosi di fronte a questi eventi. Soprattutto vorrei esaminare come essi hanno interpretato il rapidissimo passaggio da un’economia dominata dall’industria ad un’economia di carattere prevalentemente terziario. Ebbene, il processo di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia è stato nella maggior parte dei casi interpretato come un passaggio naturale, identico nelle cause e nelle conseguenze a quello che si era manifestato con l’abbandono dell’agricoltura nelle generazioni precedenti. Gli indici del processo di terziarizzazione della società sono stati perciò considerati la misura e il segnale del progresso di tutti i paesi a elevato livello di reddito. Più elevato era il tasso di terziarizzazione dell’economia di un paese, più forte appariva il suo sistema economico. Vi è naturalmente una certa parte di verità in questa sapienza convenzionale perché l’industria stessa, se vuole progredire, ha bisogno di un supporto di servizi efficiente e moderno. Non vi è attività manifatturiera moderna capace di prosperare se non ha al suo fianco una sofisticata struttura finanziaria, una scuola per tutti, raffinati centri di ricerca, infrastrutture moderne ed una pubblica amministrazione capace di accompagnare, con la sua efficienza, il complicato funzionamento di una complessa organizzazione economica. Tutto ciò si riflette naturalmente in un mutamento dei dati statistici e censuari, la lettura dei quali ci spinge a concludere che inevitabilmente il progresso economico di un paese si accompagna al prevalere del settore terziario. Nemmeno io mi sottraggo completamente a questa conclusione, ma una più attenta riflessione sui comportamenti dei sistemi economici contemporanei mi porta a sostenere che in queste valutazioni ci si è spinti troppo avanti. Esse infatti trascurano il grande contributo che viene apportato al progresso e all’intelligenza di un paese da una forte e moderna industria manifatturiera, anche se, ovviamente, essa è sempre più spesso una manifattura in cui anche i colletti blu sono laureati o diplomati. Se è valida l’affermazione che non vi è un’industria efficiente se non è supportata da un moderno settore terziario, è infatti altrettanto valida l’affermazione opposta che, almeno in un grande paese, non vi può essere nel lungo periodo un terziario prospero se non è sorretto ed affiancato da una forte industria manifatturiera. una industria moderna Entrambe queste affermazioni sono compatibili con la continua diminuzione degli addetti all’industria, dato che nel comparto produttivo l’automazione gioca un ruolo ormai dominante. Il continuo aumento degli addetti al terziario, è inoltre in parte esaltato dal fatto che la moderna organizzazione aziendale tende a decentrare all’esterno dell’impresa una parte sempre crescente del processo produttivo. Non solo servizi di pulizia, ristorazione e manutenzione, ma funzioni aziendali essenziali come la progettazione o la stessa contabilità. L’attività industriale cambia i suoi connotati nel tempo, mentre la medesima flessibilità non può evidentemente esistere nelle regole dei censimenti. Questo aspetto tecnico tende naturalmente ad accentuare ulteriormente, dal punto di vista statistico, il processo di deindustrializzazione, attribuendo al terziario addetti e fatturati che, in precedenza, venivano invece attribuiti all’ industria. Anche tenendo conto di queste necessarie correzioni, si deve tuttavia convenire che il calo del peso dell’industria negli Stati Uniti e in alcuni grandi paesi europei ha superato ogni previsione e, a mio parere, anche molte logiche di convenienza economica. Per svolgere questo ragionamento prendo come esempio la Gran Bretagna, paese che è stato il protagonista e il simbolo della rivoluzione industriale. Non può non destare stupore constatare che oggi operano nell’industria britannica circa 3 milioni di addetti, mentre più di 6 milioni sono attivi nei servizi legati alla banca e alla finanza. Un dato quasi incredibile, se si pensa che all’inizio degli anni ‘80 il rapporto era esattamente inverso, con 3 milioni impiegati nel settore finanziario e 7 milioni nell’industria. In meno di una generazione e con un consenso quasi unanime si è compiuta una trasformazione che, per rapidità e ampiezza, non ha avuto confronti nemmeno ai tempi della prima rivoluzione industriale. Ancora più sorprendente, nel sottolineare la marginalità dell’industria nel sistema economico britannico, è constatare che il valore aggiunto dell’industria è pari al 12,6% del valore aggiunto dell’intera economia. Non dissimili sono i dati della Francia e degli Stati Uniti. Per questo rapido confronto mi voglio tuttavia limitare ai paesi europei, in modo da poter fare riflessioni e confronti su sistemi che sono fra di loro maggiormente omogenei. Ebbene i dati censuari ci offrono sufficienti elementi di meditazione perché le diversità nel processo di passaggio dall’industria al terziario vanno oltre le previsioni e le comuni opinioni in materia. Per accentuare l’attenzione sui problemi di nostro interesse ho messo soprattutto in rilievo i settori che riguardano l’economia reale. Nella tabella che segue (tratta dai dati Eurostat) ho voluto semplicemente isolare il diverso peso dell’industria (con uno sguardo anche all’agricoltura e alle costruzioni) nei cinque grandi paesi della “vecchia Europa”. Valore aggiunto lordo percentuale (a prezzi correnti) per diverse attività (anno 2007 – Dati Eurostat) Agricoltura Totale Industria (escluso le Costruzioni) Industria Manifatturiera Costruzioni Germania 0,9 26,7 23,9 4,0 Spagna 2,9 17,5 15,2 12,3 Francia 2,2 14,1 12,2 6,5 Italia 2,0 20,8 18,4 6,3 Gran Bretagna 0,7 16,7 12,6 6,4 Nell’economia di queste mie riflessioni non mi soffermo sui dati che riguardano il settore agricolo, limitandomi, a questo proposito, a mettere in rilievo il dato della Spagna, che si presenta come primo paese in termini di percentuale del valore aggiunto agricolo sul totale, superando (anche se ovviamente non in dati assoluti) la stessa Francia. La nostra attenzione, nel leggere la semplice tabella tratta da Eurostat, riguarda l’industria (e l’industria manifatturiera in particolare). In essa il dato che riguarda la Germania si distacca fortemente da tutti gli altri, soprattutto dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Non è una differenza di poco conto. È una differenza abissale in quanto il valore aggiunto dell’industria manifatturiera germanica è sostanzialmente il doppio in termini percentuali rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna. Singolare è il caso dell’Italia, che si trova in situazione intermedia ma che, se escludiamo le regioni del Mezzogiorno nelle quali il valore aggiunto industriale è a livelli minimi, raggiunge livelli di intensità del settore manifatturiero pari a quelli tedeschi. Esaminando l’industria europea si arriva al sorprendente risultato che essa si è sempre di più concentrata in una specie di cilindro che dal Nord Europa (ma soprattutto dalla Germania) scende fino a metà dell’Italia e lì si ferma. I grandi paesi a ovest di questo cilindro, segnatamente Francia e Regno Unito, pur possedendo campioni nazionali di grandissimo rilievo mondiale e di assoluta efficienza tecnologica, non hanno tuttavia una diffusione dell’industria paragonabile a quella di Germania e Italia. Germania e Italia, inoltre, presentano nel 2007 non solo il più alto valore aggiunto totale nel settore manifatturiero (rispettivamente 519 e 251 miliardi di euro) ma anche il più alto valore aggiunto pro-capite. Anche questo dato merita ampia riflessione e studi più approfonditi perché sembrerebbe dimostrare che una più diffusa presenza dell’industria garantisce più elevati livelli di produttività e che quindi può diventare pericoloso scendere al di sotto di certi limiti. Anche se non è certo facile definire quali siano questi limiti, credo che sia necessario disporre di studi preliminari per elaborare una seria politica industriale. Un’ulteriore riflessione su questi temi è suggerita dai dati elaborati dalla Fondazione Edison che ha esteso l’analisi dei dati Eurostat (riferiti al 2005) ad altri paesi di antica industrializzazione come Svezia, Olanda, Belgio e Irlanda. Nella tabella (n. 2) si evidenzia il rapporto fra il valore aggiunto dell’industria manifatturiera (più agricoltura e turismo) da un lato e il valore aggiunto di finanza e costruzioni dall’altro. Cioè i due settori che hanno più contribuito a creare la “bolla” che ha portato alla crisi in cui ora ci dibattiamo. Raffronto tra il peso dei principali settori di economia reale e dei settori oggi più in difficoltà a causa della “bolla” immobiliare e finanziaria in alcuni Paesi UE: valore aggiunto a prezzi correnti, dati di confronto per l’anno 20(valori in miliardi di euro) Agricoltura, caccia, pesca Industria manifatturiera Turismo (Alberghi, ristoranti) TOTALE PRINCIPALI ATTIVITA’ DI ECONOMIA REALE (A) Intermediazione finanziaria Costruzioni TOTALE SETTORI OGGI PIU’ ESPOSTI ALLA BOLLA IMMOBILIARE (B) RAPPORTO TRA IL VALORE AGGIUNTO DEI SETTORI DI ECONOMIA REALE E QUELLO DEI SETTORI OGGI PIU’ ESPOSTI ALLA BOLLA IMMOBILIARE E FINANZIARIA(A:B) Paesi più specializzati nell’economia reale (escluse costruzioni) Germania 17,3 459,3 33 509,6 100,8 80,2 181 2,8 Svezia 2,8 50,6 3,8 57,2 11,5 11,7 23,2 2,5 Italia 28,2 236,9 47,9 313 62,1 77,5 139,6 2,2 Paesi con specializzazione “mista” Belgio 2,2 46 4,3 52,5 15,9 13 28,9 1,8 Francia 33,8 204,9 36,7 275,4 75,3 87,5 162,8 1,7 Paesi più specializzati nella finanza e nelle costruzioni e oggi dunque più “esposti” alla crisi Spagna 26 128,8 61 215,8 37,7 93,8 131,5 1,6 Olanda 9,5 65,2 8,5 83,2 35,1 24,6 59,7 1,4 Irlanda 2,7 33,7 3,2 39,6 14,5 14,1 28,6 1,4 Regno Unito 10,9 217,3 47,9 276,1 137,4 99,5 236,9 1,2 Fonte: elaborazione Fondazione Edison su dati Eurostat Ebbene, anche prendendo in esame questi pur discutibili parametri, la differenza strutturale fra i diversi paesi europei appare degna della massima attenzione. Naturalmente ogni conclusione riguardo ai rapporti tra struttura produttiva e fragilità di fronte alla crisi economica appare oggi prematura e non provata. Mi auguro tuttavia che anche su questi particolari temi dei rapporti fra struttura produttiva e performance dell’economia si verifichino gli approfondimenti scientifici necessari per elaborare una politica industriale non solo a livello nazionale ma anche e soprattutto a livello europeo. Non credo che si possa arrivare a definire un livello ottimale e nemmeno un livello minimo dell’attività industriale in ogni paese, ma penso che una riflessione su questi temi non sia affatto fuori luogo. È evidente che, per arrivare a conclusioni meno affrettate, sarebbe necessaria un’analisi disaggregata per settori, per dimensione e tipologia di imprese, ma già le correlazioni messe in evidenza ci obbligano ancora una volta a mettere in discussione l’assioma da cui siamo partiti, cioè che i sistemi economici progrediscono sempre con il progredire del settore terziario. Tanto più che il livello di tecnologia e di innovazione iniettato nell’industria si traduce in un continuo aumento di produttività del settore. la crisi del 1929 Anche le proiezioni future fanno pensare ad un continuo e sostanzioso aumento del valore aggiunto per ora lavorata dell’industria, anche senza tenere in conto i potenziali progressi di settori ad alta intensità di ricerca come le scienze della vita e le nuove energie. Un altro elemento che aggiunge forza al dubbio sul parallelismo tra l’esodo dall’agricoltura e quello dall’industria è dato dal fatto che una serie di fattori, come l’aumento dei costi di produzione nei paesi di nuova industrializzazione, e le più raffinate e specifiche esigenze da parte dei consumatori, spingono a pensare che il grande processo di delocalizzazione che si è verificato negli ultimi due decenni abbia ormai raggiunto e superato il suo massimo sviluppo. Su questo punto non vi è ancora un segnale univoco, anche se l’ipotesi di un’attenuazione del fenomeno è confermata dal fatto che le migrazioni di settori a basso valore aggiunto e ad altrettanto basso contenuto tecnologico si sono in gran parte già concretizzate. Pensiamo allo spostamento verso l’Europa dell’Est e soprattutto verso l’Asia, di tessile, abbigliamento, giocattoli, mobili, arredi per la casa e componenti meccaniche ed elettroniche elementari. Trasferimenti ulteriori avverranno certamente ma ad un ritmo meno impetuoso e con possibilità di strategie di contenimento e di reazione assai più efficaci che in passato. Non parlo naturalmente di azioni di tipo protezionistico, che costituirebbero per tutti un tragico destino, ma di una capacità di risposta prima di tutto attraverso processi di innovazione e di automazione che rendono meno determinante la differenza del costo di mano d’opera che è stato ed è la causa principale del decentramento produttivo. Ed in secondo luogo, in conseguenza di un maggior grado di sofisticazione da parte del consumatore si nota, in un numero crescente di casi, un ritorno di competitività da parte delle imprese che, per consuetudine o vicinanza geografica, sono in grado di meglio interpretare questa maggiore sofisticazione del consumatore. Non è tuttavia questo il tema su cui voglio ora soffermarmi: mi preme infatti maggiormente ritornare a riflettere sulle diversità della presenza dell’industria in paesi europei con un livello simile di reddito e di sofisticazione della società. Parlo soprattutto del più alto tasso di presenza industriale della Germania, ma lo stesso discorso vale per l’Italia del centro-nord e per alcune aree ad esse vicine (e, al di fuori dell’Europa, per il Giappone). In Germania (ed in Giappone) l’importanza dell’industria manifatturiera si colloca in un ordine quantitativo non lontano dal doppio di quello britannico, francese o americano. Economisti, storici e sociologi si sono naturalmente affannati per spiegare queste differenze ed io stesso vi ho dedicato una certa attenzione, forse esagerando ma forse no, nell’attribuire importanza primaria all’istruzione tecnica. In questa sede voglio limitarmi a sottolineare alcune conseguenze non trascurabili sull’economia del paese (e soprattutto sulla bilancia commerciale) di una presenza industriale particolarmente intensa. Le conclusioni mi sembrano abbastanza evidenti: tutti i paesi con un alto indice di presenza industriale mostrano una bilancia commerciale molto più favorevole rispetto ai paesi che più velocemente hanno proceduto verso un processo di deindustrializzazione, qualsiasi sia la dimensione del mercato e del grado di specializzazione settoriale. la crisi finanziaria globale del 2009 Prendendo come campione gli ultimi dodici mesi (v. Economist, Economic and Financial Indicators 21 febbraio 2009) la bilancia commerciale degli Stati Uniti ha un passivo di 821 miliardi di dollari, la Gran Bretagna di 173 , la Francia di 80 miliardi, e la Spagna di 149. La Germania presenta invece un attivo di 264 miliardi e il Giappone di 36, mentre l’Italia presenta un modesto passivo di 17 miliardi, pur essendo importatrice della quasi totalità del proprio fabbisogno energetico. Si tratta naturalmente di un quadro limitato alla bilancia commerciale. Esso non tiene evidentemente conto dei movimenti dei capitali e di tutte le altre voci che formano il totale della bilancia dei pagamenti. Se ritorniamo per un attimo alla bilancia commerciale e la depuriamo dalla bolletta energetica, troviamo che nel 2008 l’Italia ha mostrato un surplus commerciale pari a 61,4 miliardi di euro. E non sto certo parlando di un paese privo di problemi, ma di un paese sul quale hanno fortemente pesato in passato ed ancora oggi pesano fattori particolarmente negativi che riguardano la pubblica amministrazione, le infrastrutture, l’energia, i servizi ed il secolare problema non ancora risolto del divario territoriale fra il Centro-Nord ed il Sud del paese. Ebbene, il fatto di avere conservato un apparato industriale di dimensioni ancora ragguardevoli, ha permesso all’Italia di fare fronte a tutte le debolezze precedentemente elencate e di mantenere un elevato livello di competitività nonostante il suo grado complessivo di “attrattività” sia così basso da essere costantemente in coda in tutti gli indici che riguardano l’ammontare degli investimenti esteri.(v. M. Fortis, L’Italia è seconda per competitività nel commercio mondiale, il Trade Performance Index UNCTAD/WTO 2006) . Per sottolineare l’importanza dell’industria nell’economia contemporanea ho messo in particolare rilievo il paradosso italiano anche perché mi trovo a rappresentare questo paese nel consesso di fronte al quale ho l’onore di parlare, ma conseguenze ancora più evidenti sarebbero emerse se avessi presentato di fronte a voi i dati riguardanti la Germania che, negli indicatori precedentemente presentati, risulta al primo posto mondiale nel surplus della bilancia commerciale. Ed è ancora più interessante esaminare ancora l’indice TPI (Trade Performance Index) elaborato da UNCTAD/WTO che prende in considerazione non solo il saldo commerciale, ma anche il livello di export pro-capite ed altre caratteristiche come la diversificazione dei mercati di sbocco. Ebbene in questo indice la Germania conquista nel 2006 ben 7 primi posti tra i 14 macrosettori esaminati e primeggia in settori che hanno tra di loro diverse caratteristiche tecnologiche ed un diverso contenuto di innovazione. L’industria tedesca prevale ad esempio nei mezzi di trasporto, nella chimica, nella meccanica elettrica, nelle macchine per l’industria, mentre l’Italia prevale ovviamente nei suoi settori più tradizionali come abbigliamento, calzature e mobili, ma tiene il secondo posto anche in comparti come la meccanica elettrica, la meccanica strumentale e i manufatti di base. Naturalmente tutte queste riflessioni fotografano situazioni precedenti la crisi economica mentre, allo stato attuale, non abbiamo indicazioni soddisfacenti né sulla durata né sulla profondità della crisi. E nemmeno sappiamo come i diversi paesi usciranno da questa crisi, anche se io penso che le evoluzioni ed i dibattiti in corso spingano a pensare che il “problema industriale” avrà una nuova centralità sia nelle discussioni accademiche che nelle politiche governative di tutti i paesi ad elevato livello di sviluppo. Un fatto è già acquisito, che cioè dopo vent’anni nei quali il termine era stato bandito, si ritorna a parlare di “politica industriale”, anche se ci auguriamo che questo indispensabile ritorno di saggezza e di buon senso non sia maldestramente usato per scopi protezionistici. Se le precedenti riflessioni mi spingono a pensare ad una nuova futura centralità del problema industriale, questo non significa che non si verificheranno grandissimi cambiamenti sia dal punto di vista di modelli organizzativi delle imprese, sia dal punto di vista settoriale. Abbiamo già accennato alla fondata ipotesi che due settori saranno particolarmente rinforzati, e cioè il settore della scienza della vita e il settore energetico-ambientale. A questi orientamenti corrispondo chiare indicazioni di politiche pubbliche di importanti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti dove sono previste ingenti risorse a favore dei così detti “green jobs”. Nella pubblicistica generale si è preferito mettere in rilievo i sussidi all’industria dell’automobile ma non si debbono dimenticare i 18,5 Miliardi $ per le energie rinnovabili, i 2 M$ per le nuove batterie, i 2M$ per il sequestro dell’anidride carbonica. Il tutto con un aumento particolarmente positivo dei “green jobs” nel settore manifatturiero. È probabile che la crescita di questi nuovi settori, per la loro particolarità, possa avvenire anche al di fuori di un diffuso contesto industriale ma credo che, proprio per la tecnologia di incrocio che essi richiedono, il loro sviluppo sia grandemente favorito da un ambiente industriale fortemente radicato e diversificato. Anche la presente crisi ed i suoi probabili sviluppi produttivi ci spingono a porci di nuovo la domanda che è stata il filo conduttore di queste brevi riflessioni e cioè quale è e quale sarà il ruolo dell’industria nei paesi più avanzati e se esiste un livello minimo di presenza dell’industria manifatturiera al di sotto del quale vengono grandemente ridotte le prospettive di efficienza e di sviluppo dell’intera economia. Sappiamo che non esistono leggi universali in materia, sappiamo che grandissime sono le diversità da paese a paese ma sappiamo anche che le argomentazioni svolte in precedenza e gli interrogativi da esse sollevate meritano un’attenzione molto superiore a quelle riservate a questi temi in passato. L’industria europea è troppo importante per non richiedere riflessioni e risorse dedicate a preparare per essa una nuova primavera. Romano Prodi P.S.: Può sembrare una scelta un po’ particolare quella di parlare di problemi strutturali di lungo periodo in presenza di una gravissima crisi economica mondiale. Credo invece che se anche negli anni scorsi avessimo affrontato questi problemi forse avremmo evitato qualche disastro e ancora di più credo che proprio quando la crisi è più grave bisogna pensare a come sistemare le cose per preparare un futuro un poco migliore. --- Dati dell'intervento Data Categoria Marzo 13, 2009 Interventi Tags Cina, crisi economica, Europa, industria, Italia, mercati, USA Trackback URI Titolo: PRODI. Crisi, dalla Lettonia all’America: Europa dell'Est, ecco perché si ... Inserito da: Admin - Marzo 15, 2009, 10:32:51 pm Crisi, dalla Lettonia all’America: Europa dell'Est, ecco perché si vuole creare un capro espiatorio
di Romano Prodi ROMA (15 marzo) - AVEVAMO tutti imparato che la crisi economica era partita dagli Stati Uniti, aveva infettato l’Europa e l’Asia, e si era poi diffusa in tutto il mondo, devastando anche i Paesi più poveri. Credo che le cose stiano proprio così. Per questo motivo sono stato molto colpito dal fatto che i giornali e le televisioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna abbiano, nelle ultime settimane, dedicato uno spazio smisurato alle difficoltà dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale. Il giudizio negativo nei confronti di questi Paesi è talmente forte da far pensare che essi, anche se non la causa della crisi, ne siano almeno attori principali, tanto da mettere a rischio l’economia dell’intera Unione Europea. È evidente che un’interpretazione di questo tipo può contribuire ad alleviare la tensione nell’opinione pubblica americana e, ancora di più, in alcuni Paesi europei come Gran Bretagna, Irlanda e Spagna, Paesi dove gli eccessi dei mercati immobiliari, uniti a spericolate operazioni finanziarie, avevano contribuito all’aggravamento della crisi. Mi sembra tuttavia opportuno chiarire come stiano davvero le cose, sottolineando il fatto che alcuni di questi Paesi sono messi davvero male (come la Lettonia e l’Ungheria), mentre altri, (come la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Polonia) navigano nella tempesta non certamente peggio dei Paesi della “vecchia Europa”. Ed è ancora più importante sottolineare che quello che possiamo definire (anche se con linguaggio non scientifico) il “buco finanziario” di questi Paesi presi tutti insieme, non raggiunge la dimensione quantitativa del “buco” di una sola impresa americana, come il colosso assicurativo Aig. Quando, con titoli cubitali, si parla della crisi della Lettonia come fattore di rischio per tutta l’Europa, non ci si vuole rendere conto che l’intera economia di questo Paese ha una dimensione pari a quella di una medio-grande provincia italiana. Un po’ diversa è la situazione dell’Ungheria ma, complessivamente, si tratta di cifre che possono essere messe in equilibrio con misure alla portata dell’Unione europea anche in questo periodo di grande difficoltà. Naturalmente questo intervento sarebbe più facile ed efficace se avessimo uno strumento a livello europeo come gli eurobonds o un altro strumento comune, capace di fare capire ai potenziali speculatori che non possono nemmeno pensare di assalire prima la Lettonia, poi l’Ungheria e (dopo aver creato un sufficiente panico) anche la Grecia e l’Irlanda, per arrivare magari fino alla Spagna e all’Italia. Allo stesso modo viene naturalmente ridimensionato anche il rischio delle banche svedesi, tedesche, italiane e francesi che hanno acquistato istituti bancari dell’Europa Centro-Orientale. L’impegno in questi Paesi costituisce infatti una parte non molto rilevante rispetto alla dimensione totale delle banche della “vecchia Europa”. Il discorso fatto prima riguardo all’economia dei Paesi può estendersi quindi, con un legittimo parallelismo, agli equilibri finanziari delle banche. A questo proposito, è opportuno sottolineare a titolo di esempio, che il credito totale delle banche di tutti i Paesi dell’Europa Centro-Orientale, rappresenta poco più dell’80% delle banche del Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo). Tali osservazioni non debbono spingerci a trascurare il problema, ma ci invitano semplicemente a valutarlo nella sua giusta dimensione quantitativa. E nel conto bisogna anche aggiungere il fatto che i Paesi dell’Europa Centro-Orientale hanno avuto negli scorsi anni un tasso di sviluppo molto forte e che , se non li abbandoniamo in questo periodo di crisi, manterranno probabilmente un forte ritmo di crescita anche per il futuro, una volta superata questa fase di emergenza. Nel prossimo fine settimana avremo di nuovo un vertice europeo. Mi auguro che questo problema venga affrontato con la consapevolezza di avere in mano tutti gli strumenti per risolverlo. Parlo naturalmente degli strumenti economici, perché sotto l’aspetto politico, l’Unione europea non sta certo offrendo l’esempio di sapere prendere le decisioni contro la crisi con la rapidità e la solidarietà che sono oggi necessarie. Il problema, allora, non è l’ipotesi di un crollo della Lettonia, ma solo la nostra incapacità di prendere decisioni. Se questo è lo stato delle cose, la crisi di un pur piccolo Paese non potrà che tradursi nel crollo della credibilità dell’intero sistema. Mi auguro perciò che i responsabili della politica europea siano coscienti della forza che insieme possono esercitare e mi auguro anche che la esercitino con la necessaria rapidità. In questo caso la solidarietà è anche conveniente. da ilmessaggero.it Titolo: Prodi da Fazio alcuni commenti (tutti sterili. ndr) Inserito da: Admin - Marzo 15, 2009, 10:39:58 pm Ospite da Fazio a «Che tempo che fa»
Prodi: «La linea Veltroni non era la mia Non sarò capolista alle Europee» L'aneddoto su Mastella: «Si affacciò nel mio ufficio e disse "se volete far fuori me, sono io che faccio fuori voi"» MILANO - «Io l'ho sempre sostenuto che il Pd non deve andare da solo», al contrario è nato per essere «il nucleo fondante della coalizione» e anzi «ritengo che sia compito della democrazia assorbire e portare nella cultura di governo anche le ali estreme». Romano Prodi, ospite di Che tempo che fa, boccia la scelta dell'ex segretario del Pd, Walter Veltroni, di correre da soli alle scorse elezioni politiche. Prodi si spinge oltre, e afferma: «certamente la linea politica adottata» da Veltroni «non era la mia e per questo mi sono fatto da parte». MASTELLA - Poi rivela che lo stesso giorno in cui l'allora segretario annunciò che il Pd sarebbe andato da solo alle elezioni, «io non ebbi bisogno di pensare, perchè si affacciò Mastella nel mio ufficio a palazzo Chigi e disse "se volete far fuori me, sono io che faccio fuori voi". Anzi, Mastella disse una frase un po' più colorita...». LA TESSERA PD - Il Pd è la speranza del paese per il futuro. Romano Prodi spiega così il motivo per cui ha rinnovato la tessera del partito, pur dicendosi meravigliato del clamore che questo gesto ha suscitato: «Forse si aspettavano che non la rinnovassi?», dice ironico. «Non possiamo che scommettere in questo - ha detto l’ex premier riferendosi al Pd -. Io sono entrato in politica in età avanzata, a 55 anni circa, con l’idea ben precisa di mettere insieme i diversi riformismi che erano stati divisi in guelfi e ghibellini dalla Guerra freddda, metterli insieme e cambiare le cose: è l’Ulivo. Evidentemente il Pd ha fondamento in quest’idea e deve andare avanti, questo è il significato della mia tessera». Secondo Prodi «e non teniamo assieme le forse riformiste l’Italia non si salva e il Pd è ultima speranza per il rinnovamento del paese». RITIRO DEFINITIVO - «Ho annunciato con serietà la scelta di uscire dalla politica. Confermo quella scelta e credo che ora c'è bisogno di gente che eserciti il proprio spirito critico. Spero di essere utile così». Così l'ex presidente del Consiglio conferma la volontà di tenersi fuori dalla politica attiva. «Mi hanno offerto di fare il capo lista alle Europee, pensi che me lo ha chiesto anche il Belgio e ciò mi ha fatto molto piacere. Tuttavia, - ha ribadito Prodi - con questo ho chiuso». 15 marzo 2009 da corriere.it ---------------------------- Prodi: «Pd ultima speranza per l'Italia» E svela un retroscena su Mastella «Mi disse: "Se volete far fuori me, io faccio prima fuori voi" Franceschini sulla crisi: «Ha ragione Confindustria» ROMA (15 marzo) - «Il Pd ha dentro di sè l'idea dell'Ulivo. Deve andare avanti. Bisogna scommetterci. Senza l'unità dei riformismi l'Italia non si salva. È l'ultima speranza che abbiamo». Romano Prodi parla del suo Pd dopo il rinnovo della tessera e sgombra ogni dubbio sulla possibilità di diventare presidente della coalizione. «Quando ho detto che uscivo dalla vita politica ero serio» ha detto l'ex premier alla trasmissione di Rai Tre Che tempo che fa ricordando che in passato il Belgio gli offrì «di fare il capo lista alle Europee». E poi svela un retroscena su Clemente Mastella, durante gli ultimi giorni del suo governo, all'indomani dell'annuncio di Walter Veltroni di lanciare il Pd in un'eventuale corsa elettorale da solo. «Non ebbi bisogno di pensare - ha affermato Romano Prodi, alla domanda di Fazio su quale fu la sua reazione alla decisione di Veltroni -. Si affacciò Mastella nel mio ufficio e mi disse: "Se volete far fuori me, sono io che faccio prima fuori voi"». Sorridente, l'ex Presidente del Consiglio ha quindi aggiunto: «Mastella per la verità usò una frase un po' più colorita». «Pd lavori su forma democratica interna». Il Pd, spiega Prodi, dovrà lavorare sulla ricerca di una forma di democrazia interna, riconoscendo che proprio questa carenza è stato uno dei problemi di tutta la politica italiana. «Di partiti democratici - ha affermato - non se ne vedono mica tanti. Io faccio critiche in casa mia perché è doveroso, ma se guardo da altre parti la forma partitica italiana è stata ridotta in uno stato miserabile. E senza partiti non si fa politica. Il partito è uno strumento per fare politica». Quattro i filoni di lavoro. Oltre alla ricerca di una forma democratica interna, la coagulazione dei riformismi italiani (superando definitivamente - ha detto - la logica di guelfi e ghibellini), l'interpretazione dei dolori del Paese in questa fase di crisi economica, rilanciare la giustizia sociale e il rilancio dei giovani. Ottimista su risoluzione crisi. Per arrivare alla ripresa dell'economia «ci vorranno ancora molti mesi» ma Prodi è «ottimista» considerando la reazione immediata di governi come Usa e Cina, reazione che differenza l'attuale crisi con quella del '29. quando «i governi tardarono tre anni per capire che cosa succedeva». L'ex presidente del Consiglio si è rallegrato che ora anche la Cina sia stata ammessa ai vertici internazionali. Franceschini: «Ha ragione Confindustria». Il leader del Pd dà ragione a Confindustria, servono soldi, ma il governo li ha buttati via con l'Ici e l'accordo sfumato con Air France. Dario Franceschini, oggi all'assemblea dei giovani del Pd a Rho-Pero torna sulle parole di ieri di Emma Marcegaglia. Inoltre ironizza sulle dichiarazioni del premier secondo il quale il PdL sarebbe al 43% dei consensi: «Non so perché Berlusconi sia così umile, io ho un sondaggio qua in tasca secondo il quale il suo partito è già al 51 per cento e alle Europee può arrivare al 92 per cento». E gli invia una cartolina chiedendogli di unificare il voto delle europee e del referendum. Il leader del Pd ha affermato che per varare misure adeguate di sostegno, tra cui quelle proposte nei giorni scorsi dal Pd, «erano sufficienti circa 5-6 miliardi di euro» ma il denaro «è stato buttato via dalla finestra con l'accordo sfumato con Air France e con l'Ici». «Berlusconi nasconde la crisi». «L'Italia - ha detto Franceschini - è l'unico Paese al mondo in cui il premier si preoccupa solo di nascondere la crisi o di negarla». «Come può reagire una persona che non ha i soldi per fare la spesa - si è chiesto Franceschini rivolgendosi ai circa 1.000 delegati under 30 eletti con le primarie dello scorso novembre - e che si sente dire consumate?». «Piano casa demagogico». «Dobbiamo contrastare senza ambiguità l'idea di devastare il paesaggio con una norma demagogica» ha detto Franceschini. «Siamo d'accordo sulla semplificazione delle procedure - ha proseguito - ed è vero che nelle città ci sono tanti edifici brutti che potrebbero essere demoliti e ricostruiti più belli e con criteri ecosostenibili, ma non possiamo accettare una norma demagogica che consente automaticamente a tutti gli edifici un ampliamento del 20%». Cartolina al premier. Franceschini prima di recarsi all'assemblea dei giovani del Pd ha imbucato una cartolina postale a Berlusconi. «Presidente, questa è un'emergenza! Aiuta gli italiani davvero, unifica la data del voto!» si legge. Votare in due giorni diversi per elezioni e referendum, si legge ancora nella cartolina «comporterà un costo in più di oltre 460 milioni di euro, perché buttare questi soldi dello Stato e dei cittadini?». «Il Pd - prosegue il testo - propone di utilizzarli per potenziare con uomini e mezzi le forze dell'ordine, acquistare il carburante alle volanti, riparare quelle ferme, perchè rotte, e pagare gli straordinari al personale». «Sono circa mille miliardi di vecchie lire buttate via - ha aggiunto il leader del Pd, circondato da un piccolo gruppo di sostenitori -: soldi sprecati che potrebbero essere usati per la sicurezza e per la crisi». da ilmessaggero.it ------------------------ Il Professore da Fazio: "Sono solo andato a ritirare la tessera del Pd non capisco il clamore" Poi addossa a Veltroni la responsabilità della caduta del suo governo Prodi ritorna in televisione "Non farò il capolista alle europee" Romano Prodi con Walter Veltroni e Dario Franceschini MILANO - "Mi hanno telefonato che era arrivata la tessera e sono andato a ritirarla, non capisco tutto questo clamore". Romano Prodi ritorna in televisione ospite di Fabio Fazio a "Che tempo che fa" rilancia la sua idea che la politica veltroniana del correre da soli segò il ramo sul quale era seduto il suo governo e, nonostante una distanza di linea politica dice: "Io non tornerò a fare politica ma il partito democratico e la speranza per l'Italia". Sereno, rilassato apparentemente contento del suo ritorno agli studi il Professore, che compilando il modulo della trasmissione alla voce professione ha scritto "pensionato", ha ribadito che per lui quella politica è una stagione finita. "Ho annunciato con serietà - ha detto l'ex premier - la scelta di uscire dalla politica. Confermo quella scelta e credo che ora c'è bisogno di gente che eserciti il proprio spirito critico. Spero di essere utile così". "Mi hanno offerto di fare il capo lista alle Europee - ha aggiunto - pensi che me lo ha chiesto anche il Belgio e ciò mi ha fatto molto piacere. Tuttavia con questo ho chiuso". Il Professore non rinnega il percorso che ha portato al Partito democratico, anzi non sembra preoccupato delle difficoltà attuali. "Non si rivoluzionano secoli storia in un anno solo - dice - è un processo in corso, ma è la cosa più importante della mia vita politica, Perché un paese è sempre un insieme di diversità e nel caso del Pd in parte si è riusciti ad unire le due culture, in parte no". Però non dimentica i problemi creati dalla scelta di Veltroni di rompere l'Unione. E rivela che lo stesso giorno in cui l'allora segretario annunciò che il Pd sarebbe andato da solo alle elezioni, "io non ebbi bisogno di pensare, perché si affacciò Mastella nel mio ufficio a palazzo Chigi e disse 'se volete far fuori me, sono io che faccio fuori voi'. Anzi, Mastella disse una frase un po' più colorita...". "Sono andato via perché il partito aveva una linea che non condividevo, ma il Pd è la speranza del Paese". da repubblica.it Titolo: Romano Prodi. Nei tempi di crisi pensare al dopo-crisi Inserito da: Admin - Aprile 01, 2009, 12:48:13 pm Nei tempi di crisi pensare al dopo-crisi/
di Romano Prodi ROMA (1 aprile) - Da ormai parecchi mesi i dati sulla crisi economica mondiale peggiorano costantemente. La caduta della produzione e del reddito non si limita agli Stati Uniti e alle aree maggiormente sviluppate del globo, ma si estende a tutti i continenti, devastando anche i paesi più poveri che, per l'arretratezza delle proprie strutture bancarie, erano stati risparmiati dalle bancarotte finanziarie. Le conseguenze del crollo dell'economia di carta hanno infettato le economie reali di tutti i Paesi del mondo. Per la prima volta dopo tanti anni avremo nel mondo un tasso di crescita negativo. La politica non è stata però inerte, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Cina che hanno preparato interventi che non hanno precedenti nella storia. I Paesi europei, invece, hanno posto l'accento anche sulla necessità del cambiamento delle regole che guidano la finanza mondiale. Vedremo se a Londra nel G 20 queste due diverse accentuazioni (che non sono certamente incompatibili fra di loro) potranno comporsi in una strategia d'azione concordata a livello mondiale. Un messaggio unitario in materia gioverebbe non poco a combattere la crisi. Comunque tra poche ore la nostra curiosità potrà essere soddisfatta. Intanto nel grande ronzio dei mercati e dei media è cominciata la ricerca esasperata di tutti segnali positivi della congiuntura economica internazionale. Qualche debole segnale c'è ed è bene non trascurare del tutto il fatto che i prezzi di alcune materie prime come il rame o i rottami di ferro o di alcuni noli marittimi si sono svegliati così come non è certo negativo constatare che alcuni mercati borsistici hanno smesso di scendere. Si tratta però di segnali deboli ancora non sufficienti per giustificare previsioni più ottimiste sui tempi di uscita dalla crisi. Tuttavia sappiamo in che direzione lavorare: andiamo quindi avanti senza creare né paure né illusioni. Se non siamo in grado di prevedere quando usciremo dalla crisi, abbiamo però la possibilità di influire sul come uscirne. Senza aspettare che dal cielo scenda la manna degli accordi globali, è opportuno che anche un Paese come l'Italia rifletta attentamente sulle strategie che possono garantire in futuro un ruolo economico più forte. Avendo in mente questi obiettivi mi limiterò in questa sede ad alcune osservazioni limitate all'industria, che sarà anche e sempre di più il pilastro della nostra economia. Nell'ultima generazione l'industria europea è stata soggetta a cambiamenti radicali e si è soprattutto localizzata in una specie di "cilindro" che dalla Germania arriva fino all'Italia Centrale, mentre la Gran Bretagna ed in parte la Francia hanno indebolito la rete di diffusione dell'industria, pur conservando campioni nazionali estremamente forti e punte di innovazione ugualmente degne di attenzione. Questo processo di diversificazione si è spinto così avanti che, mentre il valore aggiunto dell'industria in Francia e in Gran Bretagna è attorno al 12%, in Germania è esattamente il doppio. L'Italia è in situazione intermedia e, tenendo conto della permanente tragica situazione del Mezzogiorno, i dati del Centro-Nord sono sostanzialmente simili a quelli tedeschi. Non c'è che da essere soddisfatti, anche perché è ancora l'industria che salva la nostra bilancia commerciale, ponendo riparo anche al drammatico deficit energetico. Le nostre imprese industriali combattono quindi bene, ma guardando più dentro alle cose, ci si accorge che esse operano soprattutto in settori a media tecnologia e sono totalmente assenti dalle grandi innovazioni in corso. Se mettiamo sotto osservazione i prodotti nuovi più importanti entrati sul mercato nell'ultima generazione (dai cellulari agli i-pod, dalle celle solari ai generatori eolici) non solo non ne abbiamo inventato nessuno in Italia, ma non ne abbiamo nemmeno uno prodotto in Italia in larga scala. Dato che si può (e si deve) ricominciare a parlare di politica industriale e lo si deve fare tenendo presenti i cambiamenti provocati dalla crisi, credo che si debba operare con tutti i mezzi a disposizione verso due direzioni che condizioneranno tutto il nostro futuro e cioè il campo delle energie rinnovabili e quello delle scienze della vita, intendendo con questo termine il campo vastissimo che va dalla farmaceutica, agli strumenti medicali alle biotecnologie. Sono settori che non sempre richiedono aziende di grandi dimensioni o investimenti massicci. Sono campi in cui esistono nicchie che possono dare risultati alla portata della dimensione delle nostre imprese. La nuova sfida dell'Italia è quella di far crescere in questi due settori imprese e distretti con lo stesso dinamismo di quelli che ci hanno permesso di sopravvivere, pur in una situazione di grande difficoltà politica e sociale del nostro Paese. Anche se quindi non siamo in grado di prevedere quando finirà la crisi, abbiamo tuttavia l'obbligo di fare in modo di uscirne con idee e progetti adatti ad affrontare con successo il futuro. da ilmessaggero.it Titolo: L'Europa e i nostri figli: stando da soli si esce dalla storia Inserito da: Admin - Maggio 10, 2009, 11:44:27 pm L'Europa e i nostri figli: stando da soli si esce dalla storia
di Romano Prodi ROMA (10 maggio) - Fra meno di un mese saremo chiamati a votare per le elezioni europee. Voteremo per il parlamento dell’Unione che rappresenta 500 milioni di cittadini distribuiti in 27 Stati. L’Unione europea è una grande potenza economica: numero uno nel mondo in termini di Prodotto Interno Lordo, numero uno in termini di esportazioni, numero uno in termini di stabilità nei prezzi. Potremmo ancora continuare nell’elencare i punti di forza di questo grande protagonista del nuovo mondo globalizzato. Eppure dobbiamo fermarci perché, in questo mondo, l’Europa non è attore ma, nonostante le cifre della sua economia, un semplice spettatore. Le grandi decisioni internazionali ci vedono assenti o irrilevanti, anche quando si tratta di problemi che sono a noi vicini per geografia o per interessi, come è stato il caso del Kossovo. Per questo motivo, dopo infiniti dibattiti, è iniziato negli scorsi anni un processo di riforma delle istituzioni europee fondato sulla premessa fondamentale ed inconfutabile che l’Europa non può ottenere risultati ambiziosi se non passando attraverso riforme altrettanto ambiziose. Il processo è partito, ha dato vita ad una Costituzione, bocciata però dal referendum francese, e quindi al trattato di Lisbona, ora fermo a metà strada per il no dell’Irlanda. Eppure il trattato di Lisbona contiene alcune ovvie indispensabili proposte innovative, come la fine di una ridicola rotazione semestrale della presidenza dell’Unione, un inizio di coordinamento della politica estera, un presidente della Commissione eletto dal Parlamento e una pur minima riduzione delle decisioni da prendere all’unanimità. Si tratta di passi in avanti concreti ma ancora insufficienti per giocare un ruolo da protagonista perché in tutti i numerosi campi in cui è prevista l’unanimità, la paralisi europea è destinata a durare. Eppure il voto irlandese ci impedisce di compiere anche questi piccoli passi in avanti. Sarebbe tuttavia ingiusto addossare le colpe solo all’Irlanda: lo spirito europeo si è ovunque affievolito e perfino i tre grandi protagonisti della prima Europa, cioè Germania, Francia e Italia pensano più ai loro problemi interni che non ai grandi risultati che potrebbero ottenere lavorando insieme. Naturalmente non si tratta solo di mettersi d’accordo sulle nuove regole di decisione, ma di convenire su alcune priorità senza le quali l’Europa non può funzionare, come la dotazione di risorse adeguate per affrontare le sfide comuni quali la sufficienza energetica, i cambiamenti climatici e le disparità fra Paesi e Continenti. Per vincere queste sfide la dimensione nazionale è del tutto inadeguata. Per rendersi conto di tutto questo non occorre essere raffinati politologi o economisti: basta dare un’occhiata ad un mappamondo. Eppure stiamo andando a votare senza che si sia ancora aperto un minimo di dibattito sul ruolo che vogliamo dare all’Europa nel mondo. La preparazione elettorale è esclusivamente dedicata alla politica nazionale e all’influenza che i risultati delle urne avranno sui futuri equilibri politici interni. Continuiamo correttamente a ripetere che senza una politica continentale usciremo solo per ultimi dalla crisi economica ma, nello stesso tempo, non vogliamo dare alle istituzioni comunitarie la forza per prendere le necessarie decisioni. Ogni giorno assistiamo a gridi di allarme per lo strapotere europeo e non vogliamo ammettere che il costo di tutte le politiche dell’Unione (compresa la politica agricola, gli aiuti alle regioni più povere e il costo della burocrazia) è inferiore all’uno per cento del Prodotto Lordo Europeo. Invece di ragionare sui fatti e di discutere quanto e come si deve spendere e si deve decidere a livello europeo, si preferisce usare Bruxelles come caprio espiatorio per tutte le cose che non vanno nel nostro Paese. Queste contraddizioni non sono certo solo italiane: esse sono comuni a quasi tutti i Paesi europei. Questi Paesi, tuttavia hanno almeno l’astuzia di inviare al parlamento di Strasburgo persone che, per esperienza, padronanza linguistica e conoscenze specifiche, difendono con continuità ed efficacia i propri interessi. Un primo sguardo alle liste dei candidati ci dice invece che i nostri partiti si sono solo marginalmente posto questo problema. Per cui, se l’elettore non sarà abilissimo nelle sue scelte, non saremo nemmeno in grado di difendere i nostri elementari interessi nazionali. Abbiamo ancora quattro settimane di tempo per prepararci a scrivere la nostra preferenza nel modo che riterremo più adatto a raggiungere i nostri obiettivi. Mi permetto tuttavia di consigliare agli elettori, prima di recarsi in cabina, di dare ancora un’occhiata al mappamondo per vedere quanto siamo piccoli noi e quanto sono grandi gli altri. Un altro esercizio utile, che noiosamente ripeto in ogni occasione in cui parlo dell’Europa, è quello di ripensare per un attimo alla storia dell’Italia. Ai tempi del Rinascimento (cioè al tempo della prima globalizzazione) gli Stati italiani primeggiavano in ogni campo, dall’arte della guerra, alle scienze, dalla tecnologia all’architettura, dalla filosofia alla finanza. Non abbiamo avuto la capacità politica di metterci assieme e l’Italia è per sempre scomparsa dai grandi protagonisti della storia mondiale. Oggi per i singoli Paesi europei (Francia, Germania e Gran Bretagna compresi) la situazione è del tutto identica. Rimanendo soli si esce dalla storia. Prima di andare a votare è quindi bene pensare anche a quello che succederà ai nostri figli. da ilmessaggero.it Titolo: Prodi: «Berlusconi mina le basi della democrazia» Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 06:21:40 pm Prodi: «Berlusconi mina le basi della democrazia»
di Fabrizio Rizzi BOLOGNA (22 maggio) - Il primo messaggio che manda a Berlusconi è di un maggiore «rispetto per il Parlamento. Perché a forza di strappi si contribuisce a minare «le basi della democrazia». Gli strappi, per ora, sono soltanto verbali, ma con affermazioni sull’inutilità del lavoro, o sul numero eccessivo di deputati e senatori, non si riconosce quel ruolo fondamentale che hanno le Camere. E’ per questo che Romano Prodi invita a non «ironizzare» o a «discriminare gli aspetti negativi» del Parlamento. Dalla Johns Hopkins University, nel cuore di Bologna, l’ex premier, dialoga con gli studenti, assieme a Mario Monti, suo ex commissario quando era presidente della Commissione Ue. C’è identità di vedute, soprattutto sull’uscita dalla crisi. E sugli effetti futuri. Monti paventa un aumento delle tasse. Sarà difficile che gli Stati possano alleviare la morsa fiscale ed avviare politiche per aumenti salariali. Il presidente della Università Bocconi pensa che «nei prossimi anni, purtroppo, ma inevitabilmente, molti Paesi dovranno aumentare il carico fiscale per fare fronte al forte aumento dell’indebitamento pubblico che hanno messo in campo per cercare di reagire la crisi». A sua volta, Prodi concorda nella sostanza, ma puntualizza. «In ogni Paese - ribatte - è stato necessario reperire risorse per reagire ai danni della crisi, per il salvataggio di banche e imprese». Non si sa ancora se «questo processo sia finito». Perché «la ristrutturazione dell’economia implica anche un forte impegno finanziario». Dunque, tutto lascerebbe intendere che i denari siano finiti e non siano possibili politiche di rilancio. Tuttavia, avverte: «Bisogna fare attenzione, perchè nonostante tutto, la più grande entità economica del mondo, resta l’Europa che ha un Pil più grande di quello degli Stati Uniti». La conclusione è di estrema cautela. «Non parliamo dell’Europa come qualcosa di inesistente, ma come di un corpo in teoria fortissimo, che è invece fragile per la sua disunione». In ogni caso, per il Professore, «l’Europa ha tutte le armi per poter essere tra i grandi leader dell’economia mondiale, ma non esercita questo ruolo, perchè non ha l’unità e la forza comune che potrebbe avere». Distante ormai dalla politica attiva, Prodi è a suo agio tra studenti che lo interrogano sul futuro del mondo, sul terremoto, sull’Africa. E sembra non dar retta a Monti quando, elencando quel lungo curriculum del Professore, sottolinea l’espressione «former president», ovvero ex presidente. Il moderatore, Stefano Zamagni, ironizza: se il significato deriva dal greco è proprio quello di «ex», ma se deriva dal latino, allora ha la valenza vichiana di corsi e ricorsi storici. Insomma, potrebbe tornare sulla scena. Ed il Professore, non risponde, se la ride. Per ora, pensa alle elezioni europee, che sono ancora tutte e troppo nazionali, non solo in Italia. «Bisogna arrivare - dice - in futuro a una mescolanza di candidati di diversi Paesi ed anche ad una piattaforma comune in tutti gli Stati. Solo in questo modo avremo la forza politica per eleggere dal basso delle cariche». da ilmessaggero.it Titolo: PRODI Ecco perchè non tornerà il dominio dello Stato Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 06:08:27 pm Ecco perchè non tornerà il dominio dello Stato
di Romano Prodi ROMA (25 maggio) - La crisi economica non ha cambiato solo le cose ma ha cambiato anche le teste. A cominciare da quelle degli economisti e dei politici. Per anni ci era toccato di leggere che il mercato era un regolatore perfetto, capace sempre di ritornare in equilibrio e che lo Stato non solo doveva essere meno invasivo possibile (cosa che ho sempre condiviso) ma che dovesse anche regolare il meno possibile (cosa che ho sempre combattuto). Poi è successo quello che è successo e i governi, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, hanno dovuto gettare palate di soldi nelle banche e nelle imprese in difficoltà. Molto privato è perciò diventato pubblico e mi sono trovato in dibattiti e discussioni nelle quali serpeggia la paura di uno sbandamento in senso opposto, verso uno Stato onnipresente. A mio parere questo non avverrà perché non esiste nel mondo alcun Paese che abbia scelto in modo deliberato di ritornare verso un dominio dello Stato nell’economia. Persino nei sei o sette Paesi che ancora si definiscono comunisti il processo di affiancare alle imprese pubbliche un crescente numero di imprese private prosegue regolarmente, seppure rallentato dalla crisi economica. Anche in Cina e in Vietnam, dove il grande sviluppo economico si è fondato soprattutto su un allargamento del mercato, non appaiono all’orizzonte cambiamenti nella politica economica adottata negli ultimi anni. Siamo cioè di fronte a fenomeni di pubblicizzazione avvenuti per necessità e non per dottrina: nessuno mette in discussione il ruolo del mercato come fondamento del sistema economico. Lo Stato è stato costretto ad intervenire per avere mancato alla sua funzione di regolatore e di controllore, rendendo quindi possibile una continua e grave violazione dell’etica degli affari. Ed è proprio questa mancanza di etica che è alla base della profonda crisi economica in cui ci troviamo ora. Una mancanza di etica che è stata messa in rilievo soprattutto nei confronti di alcune banche internazionali senza scrupoli, che hanno inondato i mercati mondiali di titoli che esse sapevano essere senza valore, ma che è stata condivisa anche da chi aveva l’obbligo di sorvegliare il corretto funzionamento dei mercati. Le società di “rating”, che esistono solo per dare la garanzia che i titoli immessi nel mercato corrispondono a quanto viene dichiarato, hanno regolarmente dato la tripla A (che sarebbe il dieci e lode) anche alle banche che sono poi fallite poche settimane dopo. E la stessa mancanza di senso della propria missione l’hanno dimostrata alcune banche centrali, a cominciare da quella degli Stati Uniti. La prima condizione perché lo Stato possa ritirarsi dalla proprietà delle imprese è quindi quella che esso eserciti la funzione di arbitro e regolatore del mercato, impedendone le deviazioni e gli eccessi che sono alla base dell’attuale disastro. Serve poco consolarci per il fatto che nel nostro Paese queste deviazioni siano state meno intense che in altri: il mercato è ormai globale e le sue malattie si diffondono ancora più rapidamente della febbre suina. La seconda condizione per fare riprendere dignità al mercato è quindi quella di iniziare finalmente una stretta collaborazione fra le diverse autorità statuali aumentando in modo progressivo il ruolo e la forza degli organismi internazionali. La lotta contro gli Stati senza regole e i paradisi fiscali è la migliore difesa del mercato. Per fugare del tutto la paura di uno Stato onnipotente bisogna che si verifichi una terza condizione, che nascano nuovi e sani protagonisti della vita economica . Troppe volte le privatizzazioni sono state impedite, ritardate o sono state fatte male per la mancanza di sani ed efficienti protagonisti privati. Passare dalle mani di uno Stato eccessivamente influente nell’economia per cadere nelle mani di imprenditori fasulli o di fondi di investimento pronti solo a fuggire non appena si presenti l’occasione di profitto non è certo un grande guadagno per noi e per i nostri figli. Cominciamo quindi a preparare la ripresa con nuovi contenuti etici, con nuove iniziative e con una nuova politica economica, senza paura dei comunisti, perché ormai non ci sono più. da ilmessaggero.it Titolo: Appello per il Pd Prodi ritorna dopo sedici mesi Inserito da: Admin - Maggio 30, 2009, 10:03:04 am 30/5/2009 (7:35) - RETROSCENA
Appello per il Pd Prodi ritorna dopo sedici mesi Nei prossimi giorni l’ex premier contro l’astensionismo FABIO MARTINI ROMA Precisamente 13 anni fa. Era il 28 maggio del 1996, il fresco premier Romano Prodi era appena entrato nella Cancelleria tedesca a Bonn ed Helmut Kohl, abbracciandolo, gli disse: «Romano, hai vinto le elezioni perché sei l’unico italiano che parla a bassa voce!». Quelle parole scambiate in privato il Professore non le ha più dimenticate. Neanche nella cattiva sorte: dal giorno in cui è stato disarcionato per la seconda volta da palazzo Chigi - era il 28 gennaio 2008 - Prodi ha parlato raramente. E lo ha fatto sempre a voce bassissima, attento ad evitare qualsiasi intrusione nella politica domestica. Ma dopo sedici mesi di quasi ininterrotto mutismo, qualche giorno fa, Prodi ha deciso: «Ragazzi sia chiaro: io non torno a far politica, ma qualcosa sulle elezioni Europee voglio ben dirla». E proprio perché il “ritorno” del Professore in piena campagna elettorale rappresenta a suo modo un evento, neanche lui ha deciso fino a dove si spingerà. Ancora per due, tre giorni l’esternazione prodiana è destinata a restare un’araba fenice, ma quel che Prodi pensa, bene lo sanno la moglie Flavia, gli amici di una vita che hanno chiacchierato con lui negli ultimi giorni. Sotto i portici di Strada Maggiore e nel piccolo, accogliente salotto di via Gerusalemme, il Prof parla spesso di politica italiana e lui, uomo così poco incline alle tenerezze, ogni tanto arriva a dire: «L’Ulivo e il Pd sono le cose più importanti che ho fatto nella mia vita politica». Nonostante la nascita stentata e un presente che lo preoccupa, Prodi resta convinto che quella del Pd rimanga «l’unica, vera speranza per questo Paese» e dunque sarebbe «una sciagura» se un risultato negativo facesse nascere in qualcuno la tentazione di una scissione, per tornare «alle caselle di partenza». Con la ri-nascita di due partiti bonsai, uno di sinistra e uno cattolico-centrista. E’ anche per evitare questo scenario che Prodi intende lanciare nei prossimi giorni un appello ai potenziali elettori del Pd, perché escano dalla tentazione dell’astensionismo: «Il 6 e 7 giugno bisogna assolutamente andare a votare», «per l’Europa, ma non solo per l’Europa». Ma un “ritorno” di Prodi è più un incubo o una speranza per la maggioranza degli elettori di sinistra? Nei 16 mesi di quasi impenetrabile riserbo, il Professore ha finito per alimentare - seppur con minor pathos rispetto alla prima volta - il “mito” del leader tradito. Ne è una prova anche lo strepitoso sketch a lui dedicato da Corrado Guzzanti, un artista che come pochi altri sa cogliere l’aria che tira e l’”essenza” dei politici nostrani. Nei giorni scorsi su RaiTre - e ora su Youtube - si vede un Prodi alla stazione di Bologna che dice di sé: «Passa un treno, ne passa un altro, ma io resto fermo, dietro la riga gialla, con la mia coerenza... La gente mi trova sempre lì e dice: professore ma sta bene? I piccioni mi cagano in testa, ma io fermo, non faccio polemiche..., una notte son venuti dei ragazzi con delle taniche di benzina, mi hanno dato fuoco e hanno detto “ma questo non strilla, non ci dà gusto”». E poi il finale, con i notabili del centrosinistra che vanno alla stazione e lo implorano: «Romano, ti chiediamo perdono, ti abbiamo fregato già due volte, ma tu solo puoi battere Berlusconi, stavolta sarai un monarca assoluto. Sire ci inginocchiamo a te, perdonaci! Mica porterai rancore?». E Prodi-Guzzanti urla: «E allora zac...», col gesto di tagliare la testa ai Franceschini e ai D’Alema imploranti. Accantonando un passato di incomprensioni, Prodi ha stretto un buon rapporto con Dario Franceschini, migliore di quello con Walter Veltroni. All’inizio il Professore aveva consigliato ai suoi di «collaborare» con il segretario e una certa tendenza di Franceschini a fare «l’uomo solo al comando» ha leggermente raffreddato le simpatie iniziali. E Prodi lo ha confidato ai suoi: «Quel che dirò nei prossimi giorni, lo farò e lo dirò per il Partito democratico». Ieri sera, intervenendo a una manifestazione per sostenere la candidatura a sindaco di Bologna di Flavio Delbono, ha parlato a lungo di economia e tra l’altro, riferendosi ad alcuni aggiornamenti nelle posizioni di Giulio Tremonti su globalizzazione e Cina, ha scherzosamente chiosato: «Mi compiaccio per un “peccatore” redento». da lastampa.it Titolo: Romano Prodi Care amiche e cari amici, Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 06:01:50 pm Romano Prodi
Care amiche e cari amici, nel momento in cui ribadisco la mia già provata volontà di rimanere al di fuori della politica del nostro Paese, sento il dovere, come semplice cittadino, di sottolineare l'importanza del voto a cui noi italiani siamo chiamati. Anzitutto un voto per l'Europa . In questa linea richiamo la necessità di rafforzare il Partito democratico ricordando come esso abbia sempre con convinzione sostenuto le grandi scelte europee quali l'euro e l'allargamento che , come si è dimostrato in questa fase di durissima crisi , sono la principale difesa per l'Europa e l'Italia. La seconda ragione nasce dall'intensificarsi di numerosi segnali di allarme e di interrogativi da parte di tanti amici ed osservatori stranieri per la caduta di dignità e per la qualità democratica del nostro paese, segnali che ho colto con sofferenza nella mia attività internazionale. Di fronte a questo il Partito democratico, pur nel suo non facile cammino, è l'unica concreta risposta. Non è tempo né di astensioni né di sofisticate distinzioni. È il momento di dimostrare che l'Italia può essere diversa , che ha profonde radici etiche e che è ancora capace di contribuire alla crescita democratica di una nuova Europa. Con amicizia Romano Prodi Bologna 3 giugno 2009 Titolo: PRODI - «Caro Pd, ora hai l'ultima chance per rinnovarti davvero» Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:26:32 am «Caro Pd, ora hai l'ultima chance per rinnovarti davvero»
di Romano Prodi ROMA (9 giugno) - Due sono le lezioni che arrivano ai partiti di centrosinistra dalle recenti elezioni: una lezione per l’Europa ed una per l’Italia. Riguardo all’Europa la batosta complessiva dei socialisti è stata troppo ampia e diffusa per non obbligare a ripensare al semplice interrogativo se essi siano in grado di fare avanzare da soli il complesso compito del riformismo europeo. I dubbi nascono anche dal fatto che questa diffusa disfatta avviene in un momento di grave crisi economica con profondi disagi concentrati soprattutto nelle categorie tradizionalmente rappresentate dagli stessi partiti socialisti, a partire dai lavoratori di più basso livello e dai precari. Qualche anno fa l’idea di pensare ad una nuova alleanza fra i progressisti (chiamata forse troppo pomposamente ulivo mondiale) era stata scartata come una proposta fuori dalla storia. Ho paura che quest’idea nella storia ci debba ritornare, almeno per aiutare a rielaborare le proposte che i diversi partiti socialisti hanno presentato ai loro elettori. E ci debba ritornare con una forte e coraggiosa politica europea. Abbiamo infatti assistito ad elezioni europee nelle quali le tesi degli euroscettici erano chiarissime, mentre le voci dei filo-europei erano flebili e non si concretizzavano in proposte precise. La lezione per il centrosinistra italiano è altrettanto chiara, anche se maggiormente scontata in quanto i danni della frammentazione si erano già resi evidenti nelle precedenti contese elettorali. Per il Partito Democratico in particolare il risultato, soprattutto mettendolo a confronto con le cattive previsioni e con il relativo flop del Pdl,è stato abbastanza buono da garantire la durata del partito stesso. Ma è stato abbastanza cattivo per obbligare a quel grande dibattito ideologico e programmatico di cui un nuovo partito ha assolutamente bisogno. E che è finora mancato. Insomma la lezione europea e la lezione italiana si intrecciano fra di loro e rendono necessario un rinnovamento radicale. da ilmessaggero.it Titolo: PRODI L’ex premier coltiva amicizie e relazioni nel Paese guidato da Hu Jintao Inserito da: Admin - Luglio 14, 2009, 11:34:08 pm Diplomazie parallele
Un legame nato durante gli anni alla presidenza della Commissione europea. Il confronto sull’euro Prodi allarga la rete cinese L’ex premier coltiva amicizie e relazioni nel Paese guidato da Hu Jintao Ci sono viaggi che non si possono fare una volta sola, e la Cina di Romano Prodi è così. Dal primo luglio scorso, l’ex presidente del Consiglio ha trascorso una settimana a Pechino, dove l’invito a partecipare al primo Global Think Tank Summit ha fornito l’occasione per rilanciare antichi legami. La leadership di Pechino ha imparato a conoscere Prodi soprattutto durante la sua presidenza della Commissione europea, attenzione ricambiata. Visite a Pechino frequenti, dunque. Lo scorso novembre era stato invitato alla Scuola centrale del Partito comunista per un ciclo di conferenze, questo mese invece ha parlato alla Scuola di amministrazione pubblica. «Vogliono sapere, vogliono ascoltare», ha detto dell’attitudine dei suoi ascoltatori. Poi, al Global Think Tank Summit, Prodi ha ricevuto gli onori riservati a un ex presidente della Commissione di Bruxelles. Il quotidiano China Daily gli ha dedicato una grande fotografia di prima pagina, accanto al vicepremier Li Keqiang, in un contesto in cui il Think Thank sembrava, almeno sui temi della governance finanziaria, un contrappunto anticipato all’imminente G8. Prodi a Pechino ha una rete solida di conoscenze. L’ambasciatore della Ue, il francese Serge Abou, già stretto collaboratore durante gli anni di Bruxelles, è un amico, mentre alcuni dei diplomatici europei in Cina facevano parte del suo staff. Gli incontri col premier Wen Jiabao, poi, sono regolari. Il Professore non dimentica l’interesse del presidente Hu Jintao e dello stesso Wen sia per l’euro sia per l’ambizione europea (ora appannata) di contare con autorevolezza in un mondo multipolare. Dal canto loro, i cinesi ricordano la visita di Stato dell’allora presidente del Consiglio Prodi, settembre 2006, insieme con uno stuolo di ministri. Nell’ultimo viaggio, invece, Prodi si è fatto accompagnare dal figlio Giorgio, economista. Giorgio è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio Asia di Imola di cui è presidente Alberto Forchielli. Altro compagno di viaggio è stato Pietro Modiano, già vice di Corrado Passera nella banca Intesa Sanpaolo, che ha rappresentato anche nel fondo di private equity italo-cinese Mandarin Fund, nato nel 2006, con Prodi premier. da corriere.it Titolo: Giappone, Prodi telefona a Hatoyama Inserito da: Admin - Agosto 30, 2009, 10:29:05 pm «Il paese ha una situazioni particolare, si inserisce in una svolta come quella americana»
Giappone, Prodi telefona a Hatoyama «Ci lega una lunga amicizia. Mi fa estremamente piacere, ora però devono governare perché non basta vincere» MILANO- Si conoscono da tanti anni. Almeno dodici. Cioè da quando i vertici del Partito Democratico giapponese, che ha stravinto le elezioni, sono andati a lezione da Romano Prodi.Già si sono ispirati all'Ulivo per creare il loro nuovo partito. «Con lui c’è una lunga amicizia - ha detto Prodi a Skytg24 - mi ha fatto piacere congratularmi, anche se poi mi ha ricordato la frase che gli dissi allora: non basta vincere ma bisogna poi governare. È certo che avranno una solida maggioranza rispetto a quella che ebbi io. Ma mi fa estremamente piacere». LA SITUAZIONE- «Il Giappone ha una situazioni del tutto particolare, si inserisce in una svolta come quella americana. L’Europa è invece tardiva. Non ho però dubbi che problemi che si sono creati in passato faranno riflettere il governo del Giappone», ha spiegato l'ex presidente del Consiglio. Prodi ha poi sottolineato che il futuro premier giapponese ha ottimi rapporti con Obama e dunque la svolta giapponese si inserisce nel solco della svolta americana. 30 agosto 2009 da corriere.it Titolo: PRODI Debito pubblico del mondo, dobbiamo aprire gli occhi Inserito da: Admin - Settembre 06, 2009, 04:51:31 pm Debito pubblico del mondo, dobbiamo aprire gli occhi
di Romano Prodi ROMA (5 settembre) - Fra i sostegni all’economia, le risorse impiegate nei salvataggi bancari e l’aumento delle spese per fare fronte alla crisi, il debito pubblico sta crescendo in tutti i Paesi del mondo. Esso sarà nell’anno prossimo intorno al 77% del Prodotto interno lordo negli Stati Uniti, l’86% in Francia, l’81,7% in Gran Bretagna, l’83,8% nella zona Euro, per arrivare non lontano dal 120% in Italia e al 177% in Giappone. Non siamo ai livelli dell’immediato dopoguerra (in cui le finanze pubbliche erano in evidente dissesto), ma in qualche caso poco ci manca, se pensiamo che negli Stati Uniti nel 1946 il debito pubblico era intorno al 108% del Prodotto interno lordo, ed era più del doppio in Gran Bretagna e in altri Paesi europei. Anche se il paragone con le economie post belliche è almeno in parte forzato, è tuttavia utile ricordare gli strumenti e le misure adottate in passato dai vari Paesi per alleviare il peso del debito in eccesso, indipendentemente dal fatto che esso sia stato accumulato in un’economia di pace o in un’economia di guerra. Lasciando da parte il metodo brutale della bancarotta del Tesoro (che fece in passato fallire i banchieri genovesi che avevano prestato al regno d’Inghilterra poi divenuto inadempiente), possiamo ricordare come siano tre gli strumenti storicamente ricorrenti. Il primo è quello di provocare il riequilibrio della finanza pubblica attraverso una diminuzione delle spese e un aumento delle entrate fiscali o una combinazione di tutte e due. Il secondo è quello di adottare una politica di “inflazione guidata” in modo da aumentare il valore monetario del Prodotto interno lordo (cioè il denominatore) diminuendo così il peso relativo del debito (cioè il numeratore). Il terzo è l’aumento della crescita dell’economia fino a rendere il debito pubblico sostenibile nel lungo periodo. È vero che quest’ultimo è l’unico metodo sano per liberarsi del peso eccessivo del debito ma è altrettanto vero che non sarà facile per l’economia dei Paesi più industrializzati mantenere a lungo un elevato ritmo di sviluppo senza un aumento sostenuto della produttività. Il che implica rivoltare come un calzino le regole e i modelli di vita dell’intero Paese. Pur tentando di battere questa terza via i governi, una volta usciti dalla crisi, si divideranno tuttavia fra coloro che metteranno l’accento sul primo o sul secondo strumento, cioè si divideranno fra i sostenitori dell’equilibrio di bilancio e coloro che spingeranno invece sull’inflazione. Possiamo già da oggi immaginarci le future discussioni fra la Germania, campione dell’austerità di bilancio, e altri Paesi meno ostili di fronte ad una inflazione guidata, tale da portare in un periodo di dieci-quindici anni il debito pubblico verso dimensioni ragionevoli. In linea generale, almeno in Europa, l’indipendenza della banca centrale costituisce un baluardo molto robusto per evitare gli errori del passato. L’adozione di una politica non rigorosa nei confronti dell’inflazione è tuttavia una tentazione ancora assai forte nei paesi come gli Stati Uniti o l’Italia nei quali il debito pubblico è per molta parte in mano straniera. È evidente infatti che, mentre il peso delle imposte e i sacrifici derivanti dalla diminuzione della spesa pubblica cadono interamente sulle spalle dei cittadini, la perdita di valore del debito pubblico si scarica anche sugli stranieri che hanno acquistato i titoli del debito pubblico stesso. E nel caso dell’Italia si calcola che almeno la metà di questi titoli sia in mani straniere. La tentazione di liberarsi dal debito pubblico contando soprattutto sull’inflazione è inoltre ancora maggiore in un mondo in cui da un’intera generazione la lotta contro l’elevata fiscalità è diventata la priorità assoluta di ogni campagna elettorale. Pur consapevole del fascino potente dell’inflazione non credo che questo sia il modo corretto per rimettere in equilibrio i conti e per aiutare la ripresa. I danni dell’inflazione sono infatti molto superiori a quelli che derivano dall’adozione delle politiche alternative in precedenza elencate. Nel nuovo quadro della concorrenza mondiale, in cui la crescita salariale è diventata solo un’ipotesi, l’inflazione sarebbe infatti un’insopportabile tassa non solo per i pensionati ma per tutti i lavoratori. Essa produrrebbe un ulteriore intollerabile peggioramento nella già iniqua distribuzione dei redditi. Oltre a provocare distorsioni in tutta la vita economica (investimenti, ecc.) sarebbe insomma un aumento del peso fiscale riservato soprattutto alle categorie più povere. Non credo che sarebbe una bella via d’uscita dalle presenti difficoltà. Il fatto che, in piena crisi, nel momento in cui molte aziende rimangono chiuse anche dopo le ferie estive e la disoccupazione è in aumento sia negli Stati Uniti che in Europa, gli economisti stiano dibattendo su questi problemi può anche costituire una conferma della irrilevanza pratica della nostra categoria. Ritengo tuttavia che aprire un dibattito su questi temi oggi possa essere utile ai politici per prendere sagge decisioni domani. da ilmessaggero.it Titolo: La lezione di Prodi: «Ci rubano gli ingegneri, l’Italia non innova più» Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 05:43:08 pm La lezione di Prodi: «Ci rubano gli ingegneri, l’Italia non innova più»
di Bianca Di Giovanni Quando in Confindustria comincia a parlare Romano Prodi inizia un «film» sul mondo e sull’Italia radicalmente diverso da quello «proiettato» fino a un minuto prima da Maurizio Sacconi. Tutto cambia: analisi e prospettive. A cominciare da quelle ampie, che hanno per orizzonte gli equilibri geopolitici. Il ministro del lavoro parla di un «patto transpacifico» che gli Stati Uniti stanno imbastendo con la Cina. Per lui sarebbe la fine del patto Atlantico, e l’inizio per l’Europa di nuove alleanze. Quelle con Russia e arabi (leggi Libia). Il governo è «amico di Putin» (come il premier) e nemico degli «anglo-cinesi ». Per l’Italia è uno stravolgimento, un gioco pericoloso che isola la penisola del consesso occidentale. Per Prodi invece proprio il rapporto con la Cina è la formula per battere la crisi. «State attenti che la Cina è inarrestabile - avverte Prodi – Meglio averla come alleata e prendere i vantaggi». Per aver detto questo, l’ex premier si è preso «molte legnate» in passato. Ma oggi quel messaggio è più vero che mai. Perché nella storia «si è usciti dalle crisi o con le guerre, o con le grandi innovazioni (tipo elettricità o telefonia), o con l’inflazione – osserva prodi - Stavolta abbiamo un solo strumento: che il miliardo e 300 milioni di consumatori diventino cinque miliardi». Serve l’espansione dei Paesi in via di sviluppo, servono nuove opportunità per miliardi di persone (il contrario di quel che fa il governo con i respingimenti). Servono buone relazioni internazionali. La conclusione è opposta, perché opposta è l’analisi su priorità e percorsi. Il ministro invita i giovani ad «andare a lavorare, a fare anche lavori umili. Basta con la retorica della precarietà, basta con quelle lauree forzate che arrivano a 30 anni». Su questo la reazione di Prodi e secca. «Quale genitore direbbe a suo figlio: fai il mungitore. E poi bisogna mungere tutte le mattine». L’ex premier parla di giovani ingegneri che «la Germania ci ruba perché costano quasi la metà dei colleghi tedeschi,ma sono bravissimi». Cervelli sottopagati, merito non riconosciuto, mobilità ferma. Questa la condizioni dei giovani, che meriterebbero una scuola diversa. «La riforma della scuola è quella più importante - dice Prodi - vale il 90%». Visioni diverse anche sullo sviluppo del Paese. Per Sacconi è il terziario che avanza, per Prodi l’unico vero punto di forza dell’Italia è la struttura produttiva, la manifattura. Solo la Germania supera l’Italia in Europa quanto a peso della produzione industriale. per uscire dalla crisi non si può ignorare il tessuto produttivo,con le sue peculiarità di milioni di piccole imprese. Prodi lo sa, e decide di continuare a visitare, fabbrica per fabbrica, questo mondo del lavoro. Oggi è quasi una rarità per gli economisti, che producono più su modulistica astratta che su osservazione empirica. Studiare, analizzare, osservare. Un lavoro faticoso e «pericoloso». «Una volta - rivela il Professore - Cuccia mi disse: non vada tanto in giro per le industrie, perché ci si affeziona». «La manifattura è il sostegno dell’economia italiana - spiega - ed è l’unica voce che abbiamo ancora nel mondo». Per uscire dalla crisi serve una politica industriale che segua tutte le fasi: domanda, produzione e ricerca. Poi occorre puntare sui settori del futuro: le scienze della vita e l’ambiente. Su questi terreni c’è molta ricerca da fare, molto da investire, molto da creare. Il suo governo - ricorda - aveva iniziato creando la domanda nel settore dell’energia rinnovabile. Poi doveva seguire la produzione e la ricerca: ma il percorso è stato interrotto. Non si sta facendo molto, e l’Italia resta al palo: non ricerca più, non innova più, non inventa più. «Negli ultimi 20 anni non abbiamo creato neanche un prodotto innovativo - dichiara - eppure eravamo il Paese che con Olivetti ha fatto da battistrada sui computer». 10 settembre 2009 da unita.it Titolo: PRODI Il mio sogno? Che l'Italia recuperi ruolo. Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 04:58:13 pm Prodi: «Il mio sogno? Che l'Italia recuperi ruolo. Non torno in politica»
L'ex premier: «Se mi interessasse parteciperei a dibattito Pd, ma non lo faccio» MOSCA (16 settembre) - «Il mio sogno? Che l'Italia recuperi il ruolo che deve avere nel mondo». Lo ha detto l'ex premier Romano Prodi parlando con i giornalisti dopo aver ricevuto una laurea honoris causa alla Scuola superiore di economia Mirbis di Mosca. «Vorrei che tornasse la vecchia simpatia e fiducia che c'è sempre stata per il nostro Paese», ha aggiunto l'ex presidente della Commissione europea. Prodi torna a escludere un suo ritorno in politica. All'ex pre»sidente del Consiglio è stato chiesto se sia più facile un suo ritorno alla politica o alla maratona: «Entrambe mi sono impedite da una sciatica psicologica o reale», ha risposto il Professore. Prodi ha detto di non avere «alcuna ambizione: ho fatto tante cose, sono stato presidente della Commissione europea e due volte presidente del Consiglio, quando il gioco è finito bisogna considerarlo finito». L'ex premier si è detto soddisfatto della sua attività di conferenziere internazionale, del suo incarico Onu per l'Africa e delle sue docenze universitarie, una già in corso in America e l'altra alla Business School di Shangai dal prossimo febbraio. «Se uno fosse interessato alla politica italiana se ne starebbe in Italia e parteciperebbe al dibattito politico, in particolare a quello del Partito democratico, cosa che non faccio. Ho iniziato una nuova fase e spero che duri». Rapporti Ue-Russia, Africa, crisi, situazione economica russa: sono gli argomenti che Prodi ha detto di aver affrontato ieri, in un «lungo e disteso» incontro di circa un'ora, con il capo del governo russo Vladimir Putin. «Appena ci siamo visti abbiamo detto entrambi: "Non parliamo di Italia"», ha riferito Prodi. «Abbiamo parlato di Africa e dei problemi di politica internazionale ad essa connessi su mia richiesta. Poi - ha proseguito Prodi - abbiamo affrontato le relazioni Ue-Russia: è assurdo che questi rapporti siano un giorno buoni, un giorno cattivi, non è questo il modo di operare tra realtà politiche che hanno molto in comune e debbono pensare a strategie di ampio respiro, non solo sul piano energetico. Infine, abbiamo parlato della crisi e mi sono fatto spiegare da Putin la situazione economica russa e le strategie del governo in materia». da ilmessaggero.it Titolo: PRODI "Necessario parlare con tutti, la via è il dialogo" Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 06:36:00 pm 19/9/2009 (14:37) - ANALISI
Prodi: "Necessario parlare con tutti, la via è il dialogo" L'ex premier: «Siamo là per aiutare a ricostruire, sarebbe sbagliato andarsene in questo momento» FABIO MARTINI ROMA Non c’è verso, la politica italiana gli dà l’orticaria. Le ultime di Bossi? Berlusconi? Romano Prodi non ne vuol proprio parlare, ma invece la politica estera continua ad appassionarlo: si tiene aggiornato (tre giorni fa Vladimir Putin lo ha ricevuto per un’ora al Cremlino, quasi fosse un premier in carica) e dunque sulla questione afghana il Professore ha le idee chiare. Dice Prodi: «L’obiettivo della missione Isaf è quello di aiutare il nuovo Stato a stabilizzare le sue strutture, dando un futuro a quel popolo. E dunque all’indomani di un attentato ritirarsi - o dare anche soltanto l’impressione di allontanarsi - sarebbe un errore, oltretutto tatticamente anche pericoloso». Ma Prodi dice qualcosa in più: «Ho sempre pensato e continuo a pensare che, accanto alla presenza militare, la strada maestra sia quella della politica. Avendo la capacità di avviare contatti con tutti, anche là dove disperi di trovare ascolto. Bisogna parlare con tutte le forze in campo. Sapendo distinguere e isolare chi non è disposto a dialogare». Romano Prodi vuol dire che a questo punto non bisogna farsi scrupoli nel dialogare con l’ala meno oltranzista dei Taleban. In Italia posizioni di questo tipo, nel passato, sono state sommerse da un diluvio di anatemi e ne sa qualcosa l’ex leader dei Ds Piero Fassino, che osò dirlo due anni fa. Ma Prodi sa bene che questo è lo schema utilizzato con successo in Iraq dal generale Petraeus e sa bene che esattamente questa è la posizione del Presidente degli Stati Uniti. E tra l’altro, i vertici militari statunitensi e inglesi, in un incontro riservato svolto due giorni fa a Londra, avrebbero valutato che proprio questo è l’approccio da perseguire. Seppur consapevoli delle difficoltà derivanti dalla differenza tra la struttura più compatta dei clan iracheni e quella più parcellizzata, per villaggi, dell’Afghanistan. Sostiene Prodi: «L’Afghanistan è stato a lungo usato come territorio di guerra dai Paesi circostanti, è stato luogo di commercio di droga, ma ora né gli Stati Uniti né i Paesi che partecipano alla missione, intendono colonizzare l’Afghanistan». Sulla politica estera Romano Prodi si tiene in palla. A 70 anni ha ripreso a girare il mondo. Qualche mese fa, a Pechino, il primo ministro cinese Wen Jabao lo ha voluto a cena, tre ore di colloquio così informale che l’incontro si è svolto senza la presenza degli ambasciatori. Un anno fa, a Teheran, il Professore ha incontrato Ahmadinejad, tre giorni fa Prodi era al Cremlino con Putin, presto riprenderà le lezioni alla Brown University, una delle più prestigiose e selettive università americane. E fra qualche giorno il Professore inizierà una nuova, sorprendente attività: quella di commentatore alla televisione cinese. Eppure, anche in Italia fioccano gli inviti. La scorsa settimana l’Ufficio Studi di Confindustria lo ha invitato ad un convegno sulle prospettive dell’economia. E in quella circostanza, alla presenza della presidente Emma Marcegaglia, parlando della sua passione da economista per le imprese, Prodi ha raccontato un aneddoto davvero gustoso: «Si è sempre detto di un mio rapporto difficile con Enrico Cuccia. In realtà ebbi un unico contrasto con lui. Una volta l’incontrai e mi disse: “Professore, ho sentito che lei va a visitare le imprese: non lo faccia perché ci si affeziona...”». Lì parlava il pragmatismo del banchiere, ma Prodi tiene il punto: «E invece io mi appassiono!». da lastampa.it Titolo: PRODI "Che meraviglia questa voglia di politica" Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2009, 09:39:19 am Prodi: "Che meraviglia questa voglia di politica"
di Ninni Andriolo Chiunque vinca, il partito deve schierarsi con lui...». Ha votato on line, dagli Stati Uniti. «Ci sono riuscito, da solo, senza l’aiuto della Flavia», esulta il Professore, consapevole che «smanettare su internet» non è il suo mestiere. Da New York, adesso, alla vigilia dell’incontro in ambito Onu per discutere la sua proposta di riforma delle missioni di pace in Africa, Romano Prodi commenta il giorno delle primarie italiane. «Molto positivo - sottolinea l’ispiratore del Partito democratico - Tutta quella gente in fila davanti ai gazebo....una meraviglia, la dimostrazione di una grande voglia di politica». IL PD GRANDE ALTERNATIVA Inutile ricordare al Professore le sue primarie, quelle del 2005. Non è giorno di paragoni. «I voto di oggi (ieri, ndr.) - spiega - dimostra che quando si dà spazio alla gente, anche se ci sono tensioni e difficoltà, la gente sceglie». Per l’ex premier, però, «l’affluenza straordinaria che si è registrata in tutta Italia è la dimostrazione che il Pd può rappresentare veramente una grande alternativa. Per questo la gente si mobilita, per renderla tale» . LA NUOVA RIPARTENZA Alle 21.30 di ieri, da New York, «il Prof» non poteva conoscere ancora il responso delle urne democratiche. E manteneva assoluto riserbo sul suo voto dall’America. «Chi vincerà queste primarie, caratterizzata da tanta affluenza - spiegava - avrà la possibilità di agire con forza. Perché quella che serve al Partito democratico è una grande ripartenza. Diciamo, anzi, che bisogna partire davvero. Accidenti se non bisogna avviarsi, finalmente...» Prodi, in sostanza, è molto critico nei confronti della fase iniziale del Pd, nei confronti dei due anni che separano questo ottobre 2009 da quello che incoronò Veltroni. Non è un mistero, in sostanza, la freddezza del Professore nei confronti dell’ex segretario. A CHE SERVE IL BALLOTTAGGIO? Ma le riserve di Prodi investono anche lo Statuto del Pd. Finché è questo, ovviamente, «va rispettato» . Ma il Professore ritiene indispensabile eliminare il ballottaggio dal meccanismo. La premessa è quella che le primarie dovrebbero servire per «decidere chi sarà il candidato alla guida del governo». Per il Professore, tuttavia, «se un partito come il nostro ha il coraggio di utilizzare quello strumento per scegliere il segretario deve farlo fino in fondo, senza passaggi intermedi». PRESIDENTE? NON HO CAMBIATO IDEA Inevitabile, all’indomani di quella che il Professore definisce «la ripartenza del Partito democratico», chiedergli se le indiscrezioni che lo vorrebbero presidente di un Pd guidato - ad esempio - da Pierluigi Bersani hanno fondamento o meno. L’ex premier è categorico. «Mi dispiace - risponde il l’ex Presidente del Consiglio - Quando faccio una scelta la faccio fino in fondo. Non a caso rispondo da New York, dove mi trovo per le Nazioni Unite». Il Prof, vorrebbe dedicarsi soprattutto all’impegno per l’Africa che gli dovrebbe essere riconfermato in ambito Onu. «Ho dimostrato già che non sono uno che non tentenna quando prende una decisione - ricorda Prodi - Vale anche questa volta. Lo ripeto, però: chiunque vinca tutto il partito dovrà schierarsi con lui». 26 ottobre 2009 da unita.it Titolo: PRODI «L'Europa non può diventare un museo» Inserito da: Admin - Novembre 15, 2009, 10:43:08 pm «L'Europa non può diventare un museo»
di Romano Prodi Durante uno dei tanti convegni sulla crisi europea mi sono sentito improvvisamente domandare se l’Unione Europea è un museo o un laboratorio. Una domanda secca, intelligente alla quale cercherò di dare una risposta chiara e utile. Se guardiamo al passato l’Unione Europea è stato il più grande laboratorio politico della storia contemporanea: dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio al Mercato Comune, fino al suo allargamento e alla creazione dell’Euro l’Europa è stata all’avanguardia delle trasformazioni dello Stato moderno verso principi di cooperazione internazionale e verso il progressivo mutamento del concetto di sovranità. Tutto ciò non ha precedenti nella storia e ha permesso di godere di un periodo di pace e di prosperità anch’essi senza precedenti. Non per nulla l’Unione Europea è diventata la prima realtà al mondo in termini di reddito, e, ugualmente, il più grande esportatore del mondo. Insieme all’allargamento e all’Euro alcuni leader e la Commissione avevano pensato di costruire una vera e propria carta costituzionale per consolidare i rapporti di collaborazione fra i diversi Paesi e per rendere irreversibile il processo di unificazione del continente. A questo punto è cominciata la grande paura del nuovo. Timorosi dei cambiamenti e di fronte alle paure degli elettori per i fenomeni migratori e per i necessari mutamenti nei modelli di vita e in conseguenza dei risultati negativi dei referendum, i leader della maggior parte dei Paesi dell’Unione hanno cominciato a rallentare la marcia fino a frenarla del tutto. Hanno cioè chiuso il laboratorio. Come compromesso si è faticosamente arrivati alla firma del Trattato di Lisbona, anche questo ferito dal referendum irlandese e poi a fatica resuscitato dalla ripetizione del referendum stesso e dalla stentata firma del Presidente della Repubblica Ceca. Nessuna sorpresa quindi se nella gestione della crisi economica ogni Paese è andato per conto suo, chi aumentando a dismisura le spese pubbliche, chi attuando una severa politica di bilancio e tutti cercando di aiutare la propria industria nazionale a scapito delle altre. Quindi ancora nessuna sorpresa nel constatare che, mentre l’Asia è uscita dalla crisi e gli Stati Uniti danno qualche segno di vitalità, l’Europa si accontenta del fatto che la caduta non è più precipitosa come negli scorsi mesi e c’è un qualche incerto barlume di ripresa. In poche parole il laboratorio europeo a poco a poco è diventato un museo, con delle bellissime opere d’arte, ma tutte riguardanti il passato. Ci godiamo i frutti del grande mercato unificato, ci sentiamo protetti dal grande ombrello dell’Euro, ma non abbiamo il coraggio di riaprire il laboratorio con nuovi progetti di ricerca. Eppure sarebbe il momento di farlo, perché, di fronte a quanto avviene nel resto del mondo, il rischio di diventare irrilevanti nel futuro della politica e dell’economia mondiale è davvero elevatissimo. Cerchiamo perciò di evitare questo rischio, a cominciare dai prossimi giorni, utilizzando i pur limitati spazi che il Trattato di Lisbona ci offre. Pur essendo un compromesso al ribasso, esso prevede la nomina di un Presidente dell’Unione non più per sei mesi ma per un periodo di due anni e mezzo rinnovabili. E prevede anche, in parallelo, la figura di un ministro degli Esteri dell’Unione che è anche vice presidente della Commissione Europea e che può disporre di un vero e proprio servizio diplomatico. Anche se tutto ciò avviene senza radicali mutamenti di potere rispetto al passato, non possiamo negare che la nomina di persone autorevoli e fornite di reale spirito comunitario può aiutare perlomeno a fornire il museo di un piccolo laboratorio di ricerca. Ripeto però che non basta che siano chiamati a coprire questi ruoli persone autorevoli e note nello scenario mondiale. Non basta infatti che il nuovo presidente sia conosciuto da Obama o da Hu Juntau, ma bisogna che si presenti a loro con la volontà di riaprire il laboratorio, guardando al futuro. È incomprensibile come questa volontà possa essere espressa da chi ha mantenuto il proprio Paese fuori dall’Euro e che non ha voluto che nel Trattato di Lisbona si aprisse la porta né all’inno, né alla bandiera europea. E che, nello stesso tempo, lamenta la progressiva lontananza tra il popolo e le istituzioni europee. E nemmeno si può accettare, come si sussurra nei corridoi, che i grandi Paesi non gradiscano nominare uomini “forti e visibili”, per paura che il proprio paese entri in un cono d’ombra. Deve essere a tutti chiaro che i Paesi europei escono dal cono d’ombra solo tutti insieme e che, rallentando il cammino comune, rallentano anche la propria corsa. Nel complicato gioco europeo dei prossimi giorni, i leader dei ventisette Paesi debbono quindi tener presente sia il criterio dell’autorevolezza personale che quello della volontà di riprendere il rafforzamento della politica europea. E l’Italia ha certamente persone che rispondono a questi criteri. Anche per donne e uomini capaci non sarà tuttavia un cammino facile, perché il Trattato di Lisbona prevede ancora un’Europa obbligata a prendere le sue grandi decisioni all’unanimità. Ma donne e uomini capaci e forniti di spirito comunitario non si accontenteranno certo di fare i custodi di un museo, anche se pieno di capolavori. © RIPRODUZIONE RISERVATA da ilmessaggero.it Titolo: PRODI "E' un' illusione saltare il Parlamento" Inserito da: Admin - Novembre 28, 2009, 04:01:43 pm 28/11/2009 (7:32) - SCENARI
"E' un' illusione saltare il Parlamento" Romano Prodi L'ex premier Romano Prodi al governo: «Così si disgrega la politica» ANTONELLA RAMPINO INVIATA A PARMA Arriva mettendo le mani avanti, «non parlo dell'attualità italiana», finisce puntando il dito contro gli attacchi al Parlamento e l'incapacità del governo di avere una visione dell'Italia del futuro. C'è un prima e un dopo nella vita di Romano Prodi, economista, ex presidente europeo, ex premier italiano. «Non farò un programma di governo, non è più quel tempo, non ho più quell'età». Scherza il professore giunto a Parma per ricordare il Professor Andreatta, e Giovanni Goria, e Andrea Borri, che cercavano equilibrio tra bilancio e sviluppo, e proprio negli anni in cui esplodeva quantomeno il primo. Scherza, ma grondando bonomia da tutti gli artigli, come di lui scriveva ai tempi Edmondo Berselli: «Non c'è l'onestà intellettuale, la forza degli obiettivi e lo sforzo verso soluzioni di lungo periodo per il Paese, oggi la democrazia si sta indebolendo enormemente». Del resto, aggiunge, siamo «in un'epoca televisiva», non in un'era di orizzonti lunghi, e io - anzi, «noi» - «noi per anni ci siamo sentiti dire che certi obiettivi non potevano essere raggiunti senza il Parlamento, e oggi invece l'illusione di bypassarlo produce la disgregazione del sistema politico». Del presente non voglio assolutamente parlare, aveva detto Prodi ai cronisti cedendo solo al desiderio di commentare l'ultima crisi finanziaria, «quel che è successo a Dubai non credo avrà la forza di alimentare una nuova ondata di crisi, ma è come una tela che corre il rischio di strapparsi, perché fino a marzo-aprile il sistema era credibile, le reazioni sono state anche eticamente corrette, ma da allora in avanti la comunità internazionale è tornata al "business as usual"...». La politica, manca la politica mondiale, dice Mario Sarcinelli che gli è accanto. «Le risposte, le nuove regole devono essere globali, non nazionali» scuote la testa Prodi pensando anche «all'Europa che è ancora un'incompiuta». E poi «Cina e Stati Uniti cercano di correggere l'andamento, ma ogni giorno ce n'è una, ed è la turbolenza che mina il sistema economico». Non a Dubai: in Italia. «Dicono che c'è la ripresa... ma guardate che quello 0,2 o 0,8 in più è calcolato rispetto alla bufera, rispetto allo scoppio della crisi finanziaria di ottobre scorso, non è mica risanamento». Vale per il mondo, ma vale ancora di più per l'Italia. Intanto perché «quando i margini macroeconomici sono ristretti è la microeconomia che va in sofferenza, l'impresa piccola e media, tutto il mercato del lavoro». E poi perché «in tutto il mondo s'è aperto il dibattito sulla politica economica e sulla politica industriale, e in Italia invece no. Dobbiamo concentraci sul terziario, e la Cina fabbrica per tutti? Dobbiamo conservare o no l'industria? Questo ci si domanda, mentre in Italia nessuno riflette. Secondo me, se non conserviamo l'industria manifatturiera, l'Italia non avrà più nulla da dire nel mondo». L'Italia si accontenta di essere «leggermente» meno in ripresa di altri, «come se quel leggermente rendesse più sopportabile essere in coda a tutte le classifiche mondiali, quando invece siamo nel fondo di un catino». E non sappiamo nemmeno come uscirne. C'è urgenza, «un'assoluta necessità» di trovare una visione comune per il futuro, perché «l'Italia, con i suoi limiti di bilancio, non ritroverà il posto di un tempo», non recupererà automaticamente il livello di sviluppo e benessere. da lastampa.it Titolo: Prodi, la crisi e le riforme: «Non basta la pazienza, vincere la rassegnazione» Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2010, 11:52:19 am Prodi, la crisi e le riforme: «Non basta la pazienza, vincere la rassegnazione»
di Romano Prodi Pur cercando di accumulare elementi di speranza e segni positivi per il futuro, quando analizziamo i dati dell’economia di oggi, diventa difficile peccare di ottimismo. La crisi si nutre ancora di crude cifre, mentre la ripresa vive di indizi e di ipotesi. L’ultimo dato ci viene fornito dalla Banca d’Italia che, in uno studio sull’industria manifatturiera, scrive che la produzione del secondo trimestre di quest’anno è ritornata al livello di cento trimestri fa, cioè al livello del 1984. E nemmeno possiamo consolarci con il “mal comune mezzo gaudio”, perché il calo corrispondente della Germania è di 13 trimestri e quello della Francia di 12. Questo dato stupefacente trova la sua spiegazione in una minore crescita precedente della nostra industria ma, soprattutto, in un più forte crollo della produzione nella presente crisi. E trova un’ulteriore ragione nelle difficoltà dei mercati internazionali verso i quali siamo forti esportatori. È tuttavia difficile trovare spiegazioni esaurienti senza fare riferimento a una caduta del tasso di innovazione e della capacità di generare nuovi prodotti da parte delle nostre imprese. Se dalla manifattura passiamo agli altri campi dell’economia, gli elementi di preoccupazione e di disagio non sono minori. I precariati vari e i contratti a termine non riassorbono alla loro scadenza i lavoratori, che sono così tranquillamente espulsi dal mondo del lavoro. E si tratta di cifre davvero cospicue se solo nella scuola la diminuzione netta è di oltre centomila dipendenti. Questo cumulo di dati negativi avrebbe in altri tempi scatenato tensioni e rivolte. Oggi invece, con maggiore maturità e realismo, nessuno pensa che ribellioni violente possano porre rimedio alla presente pessima situazione. Questo è forse un segno di maturità, ma certo un grande segno di pazienza degli italiani. La pazienza è una virtù positiva ma è una virtù individuale, mentre questa crisi esige soluzioni capaci di cambiare e innovare l’intera società. Esige un disegno collettivo. Credo che questo sia l’unico motivo per cui si debba parlare di riforme. Riforme che soprattutto possano rompere la frammentazione della nostra società. Una frammentazione per cui né i sindacati, né le associazioni dei produttori, né il governo hanno più la capacità di affrontare gli interessi collettivi. Se andiamo in cerca di una pazienza finalizzata alle riforme , non possiamo più partire da problemi che interessano singole categorie o singole persone. Dobbiamo partire dalle grandi riforme di cui il Paese ha bisogno. E cioè dal mercato del lavoro ( e quindi ritornando sul grande problema della differenza fra il costo del lavoro e quanto il lavoratore percepisce). E poi dalla scuola, dall’università e dalla ricerca (riguardo alle quali le riforme in corso sembrano un oggettivo passo indietro) e, infine, dall’ambiente e dalla drammatica qualità della vita di molte delle nostre città, soprattutto nel Mezzogiorno. Il dibattito sulle riforme si sta dirigendo invece verso altre direzioni, verso cambiamenti istituzionali rivolti soprattutto a garantire un futuro ai partiti politici, anch’essi, come i sindacati, fortemente indeboliti dalla propria incapacità di affrontare i problemi collettivi della crisi. In una fase così delicata della nostra vita politica, se vogliamo passare da una pazienza rassegnata dei singoli ad una pazienza finalizzata a riforme utili a tutti, bisogna ridare al cittadino la capacità di contare non soltanto nella vita quotidiana dei partiti (che di vita quotidiana ne hanno sempre meno) quanto nel momento in cui più si esprime la sua forza e cioè il momento del voto. Ed è certo che la massima influenza si esprime con il sistema uninominale di collegio, in cui ognuno sa per chi vota, lo fa in modo diretto e senza mediazioni e obbliga i partiti che non vogliono perdere, a scegliere candidati che aggiungano forza alla loro debolezza. Uscire dalla lunga crisi dei cento trimestri significa quindi proporre ed approfondire il dibattito sulle riforme che interessano noi tutti, che sono capaci di dare ai giovani un nuova speranza e che sono in grado di rimettere l’Italia al passo di chi sta correndo. E, infine, di dare al cittadino la possibilità di scegliere i rappresentanti politici in grado di accettare e vincere questa sfida. Questa è il grande compito di fronte a cui si trova l’Italia all’inizio del 2010. Se lo si affronta in modo aperto e chiaro si può anche risalire la china. Se si continua a fare finta di vivere nel migliore dei mondi possibili la discesa non potrà che trasformarsi in un precipizio. Come dice un proverbio popolare anche la pazienza ha un limite. Fortunatamente al di là di questo limite non vi è oggi un rischio di ribellione violenta, ma solo la certezza di una rassegnazione collettiva. Dedichiamo quindi il prossimo anno ad evitare che la sempre più diffusa rassegnazione ci renda incapaci di produrre nella nostra società i cambiamenti di cui abbiamo bisogno. © RIPRODUZIONE RISERVATA da ilmessaggero.it Titolo: PRODI il ghetto che l'Italia non si può permettere Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2010, 10:49:32 pm Rosarno, Romano Prodi: il ghetto che l'Italia non si può permettere
ROMA (9 gennaio) - In un Paese in cui il tasso di natalità è tra i più bassi del mondo ed in cui nello spazio di una generazione un terzo degli italiani avrà più di 65 anni, il problema dell’immigrazione si presenta come prioritario e dominante. Un crescente numero di immigrati sarà infatti indispensabile per fare avanzare il sistema economico e per garantire i servizi essenziali e le necessarie cure agli anziani e agli ammalati. Già oggi senza il contributo degli oltre quattro milioni di immigrati che risiedono in Italia, il nostro Paese non sarebbe più in grado di funzionare. Sono infatti sempre meno gli italiani disposti a lavorare nel turno di notte delle fabbriche, a portare assistenza agli anziani o a servire nei i ristoranti o negli alberghi. E ben pochi sono disposti a fare questi mestieri anche in presenza dell’attuale difficile crisi occupazionale. Eppure di fronte a questa riconosciuta realtà e di fronte all’altrettanto riconosciuta evidenza che il problema sarà ancora più serio nel futuro, gli italiani reagiscono con crescente diffidenza, attribuendo agli immigrati la responsabilità di ogni disagio e insicurezza delle nostre città, anche se tutte le statistiche disponibili dimostrano che i livelli di criminalità degli immigrati regolarmente residenti nel nostro Paese non sono differenti da quelli dei cittadini italiani. Nessuno può naturalmente nascondere o sottovalutare le difficoltà e i problemi dell’integrazione, sia che si tratti di integrazione nel mondo del lavoro, nella scuola o nel quartiere, soprattutto quando il problema coinvolge un numero così grande di persone e origini ed etnie così diverse. Una difficoltà enorme anche senza tener conto delle tragiche patologie della Calabria di ieri. Eppure proprio questa grande varietà di origini ed etnie rende il processo di integrazione relativamente meno difficile rispetto a paesi come la Germania o la Francia dove la provenienza dominante degli immigrati da un solo paese (la Turchia) o da una sola area (il Magreb) rende più probabile la formazione di veri e propri ghetti che rendono più difficile il contatto coi cittadini del paese e più complesso il processo di avvicinamento e di assimilazione dei modelli e degli stili di vita dei cittadini. Eppure, invece di prepararsi concretamente al futuro di una inevitabile società multiculturale, si descrivono gli immigranti come una realtà impossibile da integrare nelle regole moderne della convivenza e della democrazia. Allo scopo di raggiungere quest’obiettivo si compie una doppia forzatura, prima di tutto facendo credere che la maggioranza dei nostri immigrati sia mussulmana e, in secondo luogo che, in quanto tali, essi non siano assimilabili alla vita democratica. Vorrei che si riflettesse sul fatto che oltre la metà di coloro che vengono a cercare lavoro in Italia sono cristiani, meno di un terzo mussulmani e il resto di altre religioni. E vorrei anche ricordare che le stesse presunte incompatibilità nei confronti della democrazia sono state usate in Italia contro i cattolici nel 1882 per bloccare la proposta l’introduzione del suffragio universale. E ancora negli anni trenta si insisteva sull’incompatibilità fra cattolicesimo e democrazia, data la presenza di dittature in paesi cattolici come la Spagna, il Portogallo e l’Italia. Perseguendo obiettivi politici di corto periodo si alimenta la paura e, data la riconosciuta impossibilità di fare senza immigrati, si tende a imporre un modello di immigrato che sta qui pochi mesi o pochi anni e ritorna poi al proprio Paese d’origine. E, per perseguire questo obiettivo, si pongono gli ostacoli più elevati possibili all’ottenimento del diritto di voto e della cittadinanza italiana. La cittadinanza è una cosa seria e bisogna davvero che essa sia meritata da un periodo sufficientemente prolungato di obbedienza alle nostre leggi e dalla dimostrazione di conoscere e rispettare le regole della nostra convivenza civile. Tuttavia quando si scrive , come nel recente progetto di legge approvato in Commissione Parlamentare nello scorso 18 dicembre, che è condizione per l’acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero nato in Italia che “abbia frequentato con profitto scuole riconosciute dallo stato italiano almeno sino all’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione”, bisogna ricordare che oltre il 20% dei ragazzi italiani non raggiunge quest’obiettivo. E quando si aggiunge che l’acquisizione della cittadinanza italiana è subordinata ad un “effettivo” e non definito “grado di integrazione sociale e al rispetto degli obblighi fiscali”, viene immediato pensare a quanti nostri cittadini dovrebbe essere tolta la cittadinanza stessa. La decisione definitiva sul tema della cittadinanza è stata prudentemente rinviata a dopo le elezioni regionali. Approfittiamo di questo tempo per riflettere a fondo su come vogliamo sia l’Italia del futuro. Se vogliamo cioè vivere in un paese in cui tutti debbano rispettare le stesse regole e avere gli stessi diritti per se stessi e per i propri figli o se invece preferiamo un Italia in cui gli stranieri rimangano tali, separati da tutti, che vivano magari fuori dalle nostre regole ma che possano essere sempre cacciati fuori dai nostri confini. Una scelta non solo impossibile e insostenibile sul piano etico, ma disastrosa per la nostra economia che ha bisogno di nuove braccia e di nuove menti che considerino il futuro del nostro paese come il futuro proprio e delle proprie famiglie. © RIPRODUZIONE RISERVATA da ilgazzettino.it Titolo: Prodi: "Gesto di grande sensibilità" - Il sindaco in Consiglio: "Mi dimetto" Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2010, 11:03:03 pm Il sindaco in Consiglio: "Mi dimetto"
Prodi: "Gesto di grande sensibilità" L'annuncio dopo l'attesa della mattina. "Ma tempi e modi saranno stabiliti con responsabilità": c'è il nodo bilancio. Il centrodestra paventa mesi di commissariamento, Delbono replica: "Se l'Esecutivo firma un decreto legge si va al voto già in autunno" di Micol Lavinia Lundari Alla fine si rimangia la parola e cede. Incontri in mattinata a Palazzo D'Accursio poi l'annuncio ufficiale: Delbono si dimette. Il primo a dirlo è il capogruppo del Pd in Consiglio comunale Sergio Lo Giudice (appena uscito dalla riunione), poi è lo stesso primo cittadino a dare le proprie dimissioni di fronte ai consiglieri comunali: "Mi dimetto, ma i tempi e i modi saranno stabiliti con responsabilità". Il sindaco di Bologna fa dietrofront rispetto a quanto dichiarato solo due giorni fa, all'uscita dalla Procura di piazza Trento e Trieste: "Non mi dimetterò - disse allora dopo cinque ore a colloquio con i pm - nemmeno se sarò rinviato a giudizio". Il fascicolo in questione è quello sul cosiddetto Cinzia-gate, sul presunto utilizzo di denaro della Regione a uso privato: viaggi e spese con l'allora compagna e segretaria Cinzia Cracchi. Le accuse formulate sono di peculato, abuso d'ufficio e in seguito si è aggiunta anche la truffa aggravata. Passano due giorni da quel lungo interrogatorio e il sindaco Delbono annuncia di aver preso la decisione di dimettersi "senza consultare Errani o Prodi". Il primo, presidente della Regione Emilia-Romagna, lo giudica "un gesto di rispetto verso la città". Per Romano Prodi, che di Delbono fu sponsor durante la campagna elettorale, "il suo è un gesto di grande sensibilità nei confronti di Bologna. Esse (le sue dimissioni, ndr) dimostrano un senso di responsabilità verso la comunità che va al di là dei propri obblighi e delle proprie convenienze. Delbono ha confermato, a differenza di altri, di saper mettere al primo posto il bene comune e non le sue ragioni personali". Per il presidente della Regione Vasco Errani è stato "un gesto di rispetto verso la città"; il segretario del Pd Andrea De Maria commenta: "Un atto di serietà e responsabilità". "Per me Bologna viene prima di tutto - ha spiegato Delbono in Consiglio comunale. E' per questo che siccome i tempi e i modi richiesti per difendermi eventualmente in sede giudiziaria rischiano di avere ripercussioni negative con la mia attività di sindaco, ho già deciso in piena coscienza che rassegnerò le dimissioni dalla mia carica". "Per senso di responsabilità - ha aggiunto Delbono- seguirò modi e tempi che dovranno tenere presenti il bene prioritario per la città, a partire dal fatto che nei prossimi giorni inizierà in aula l'esame per l'approvazione del bilancio 2010 di cui rivendico la bontà, così come sono orgoglioso delle cose fatte in questi mesi". Molti esponenti del centrodestra paventano il rischio di lunghi mesi di commissariamento amministrativo per la città di Bologna. Durante l'incontro con la stampa, a seguito del Consiglio comunale, Flavio Delbono ha risposto così: "Se il Governo vuole si può andare a votare già in autunno". Per fare ciò è necessario che l'Esecutivo firmi un decreto legge ad hoc. Nel frattempo Cinzia Cracchi, la donna al centro della bufera giudiziaria che coinvolge anche il sindaco (la donna è indagata per peculato e abuso d'ufficio) parla in esclusiva ai microfoni di Repubblica Tv: ""Penso che Delbono abbia fatto il meglio per la città dimettendosi. Questo non era un mio obiettivo, la mia intenzione era quella di riavere il mio lavoro. Delbono prova odio per me? Io non lo odio". (25 gennaio 2010) da bologna.repubblica.it Titolo: Prodi: "La gente mi chiede chi comanda nel Pd" Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2010, 09:47:46 am Il colloquio. Il padre nobile del Partito democratico osserva da lontano i tormenti della sua "creatura"
Prodi: "La gente mi chiede chi comanda nel Pd" di MASSIMO GIANNINI Bastonato in Puglia. Umiliato a Bologna. Spiazzato nel Lazio. Confuso ovunque. Romano Prodi, padre nobile del Partito democratico, osserva da lontano i tormenti della sua "creatura". "Tre settimane fa ero a Campolongo, a sciare. In fila per lo skilift la gente mi fermava e mi chiedeva solo questo: ma chi comanda, nel Pd?". Bella domanda. Il Professore non ha la risposta. E per la verità neanche la cerca: "Ormai sono fuori, e quando si è fuori si è fuori...", dice l'ex premier. Non si sogna nemmeno di "sparare sul quartier generale", una delle abitudini preferite della sinistra italiana di ieri e di oggi. Proprio lui, poi, l'unico che è riuscito a battere Berlusconi due volte, anche se poi non è riuscito a governare come avrebbe voluto. Ma la domanda resta, in tutta la sua drammatica semplicità. Chi comanda, nel Pd? Il buon Bersani, fresco segretario pragmatico e onesto, ieri ha messo la sua faccia sulla sconfitta pugliese e sul pasticcio bolognese. Ma il suo limite, in questa prima fase di gestione del partito, è stato un esercizio timido e intermittente della leadership. Quello che nella campagna elettorale delle primarie nazionali era stato il suo miglior pregio (la sana realpolitik emiliana, la forza operosa e tranquilla, la capacità di rassicurare gli elettori) nella campagna elettorale per le primarie è diventato il suo peggior difetto. Molte parole di buon senso, ma pochi messaggi che trascinano. Molte iniziative diffuse sul territorio, ma poca "gestione" delle partite locali complesse. Così, a tratti, ha alimentato il sospetto di lasciarsi "etero-dirigere": dalla "volpe del tavoliere" in Puglia, dalla Bonino nel Lazio, da Casini un po' ovunque. Ieri, in direzione, nessuno l'ha processato per questo. La minoranza veltroniana e franceschiniana non ha infierito, ed ha evitato di ricadere nel vizio tafazziano preferito dal centrosinistra: il regolamento dei conti. Ma in conferenza stampa Bersani era solo, a fronteggiare le domande dei cronisti. Dov'era Massimo D'Alema, che in Puglia ha tentato con l'Udc l'ennesimo esperimento di laboratorio, spazzato via con le provette neo-centriste e gli alambicchi neo-proporzionalisti dai 200 mila elettori che hanno tributato un plebiscito a Nichi Vendola? E dov'era Enrico Letta, che il 4 gennaio in un Largo del Nazareno ancora deserto per le vacanze di Capodanno annunciò il no alle primarie e la candidatura unica di Francesco Boccia? Non pervenuti. E così l'impressione, che è di Prodi ma non certo solo di Prodi, è che alla fine il partito sia in realtà "sgovernato", e un po' in balia di se stesso. Il Professore non lo dice, e "per correttezza" (come ripete in continuazione) si guarda bene dal dare giudizi sulle strategie politiche di questi ultimi mesi e sulle scelte del segretario. Lui, tra l'altro, Bersani l'ha anche sostenuto e votato alle primarie. Ma il Pd è pur sempre il "suo" partito. Lo ha sognato e alla fine fondato. Vederlo ridotto così, oggi, gli fa male. "Sa cosa mi dispiace, soprattutto? È vedere che ormai sembra sempre più debole la ragione dello stare insieme...". Come dire: quello che manca è il vecchio "spirito dell'Ulivo", quel mantra evocato ossessivamente fino a due anni fa, a volte quasi come un esorcismo, che spinse e convinse i vertici di Ds e Margherita ad uscire dalla casa dei padri, e a fondere i due riformismi, quello di matrice laico-socialista e quello di matrice democratico-cristiana. Non che nelle stagioni passate quello "spirito" abbia soffiato così impetuoso. Ma è vero che oggi appare impalpabile. Quasi svanito, come dimostrano le piccole e ingrate diaspore di queste settimane, dalla api rutelliane e agli altri "centrini" cattolici. Dov'è finito il progetto? Dov'è finita "l'unità" che gli elettori invocano da anni? Di nuovo: Prodi non ha la risposta. Si limita a riproporre le domande. E con lui se le ripropone l'eroico "popolo del centrosinistra", che si mette diligente in fila, con un euro in mano, in ogni fredda domenica in cui la pur esecrata "nomenklatura" chiama: quale autodafè deve ancora accadere, prima che le magnifiche sorti e progressive del grande "partito riformista di massa" si riducano in rovine fumanti? Per il Professore, stavolta, c'è un dolore nel dolore. La spina nel cuore si chiama Bologna. Nelle dimissioni di Delbono c'è anche un po' di debacle prodiana. Era stato l'ex premier, a lanciare "l'amico Flavio" verso la candidatura a sindaco. Per forza, oggi, la sua uscita di scena brucia due volte. Prodi prova a girarla in positivo: "Prima di tutto, analizziamo la dimensione del problema. Di cosa si sta parlando? Non si distrugge la vita di un uomo, come è accaduto in questi giorni, per una storia come quella, per una manciata di euro...". E se gli fai notare lo "scandaletto", i due bancomat e il "cha-cha-cha della segretaria", il Professore non arretra. "Certo, doveva essere più accorto. Ma in questi giorni nessuno si è limitato a dire questo: gli hanno dato del delinquente, invece. Hanno parlato di limite etico travolto. Eppure altrove, per altri amministratori locali di centrodestra che ne hanno combinate di tutti i colori, nessuno ha gridato allo scandalo, e si a' mai sognato di chiedere le dimissioni. Allora queste cose le vogliamo dire sì o no?". Appunto, le dimissioni. Proprio a Bologna, che già era uscita un po' malconcia dall'era Cofferati. "Ma anche le dimissioni, vede, confermano la differenza di stile di Delbono: ha compiuto un atto di responsabilità verso la città. Ora sarà più libero di dimostrare la sua innocenza, della quale sono non sicuro, ma sicurissimo. Non era obbligato a dimettersi, ma l'ha fatto. Ha messo il bene comune sopra a tutto, prima delle convenienze personali. Chi altri l'avrebbe fatto? La Moratti, forse?". E ora? Che ne sarà di Palazzo Accursio? Nei boatos, che riecheggiano sotto i portici del centro storico e nei conciliaboli del Bar Ciccio, c'è solo un nome che rimbalza, per la successione a Delbono. Ed è proprio il suo: Romano Prodi. Possibile? Il Professore ridacchia, e quasi sibila in uno slang emiliano che si fa più stretto: "Ma non ci pensi neanche un momento... Gliel'ho già detto: in politica o si sta dentro, o si sta fuori. E io dentro ci sono già stato anche troppo. Mi riposo, leggo, studio molto, faccio le mie lezioni qui in Italia e in Cina. E sono sereno così". Ma il Pd, Professore: che ne sarà del Pd? "Non lo so, speriamo bene...". Di più non gli si estorce, all'uomo che tuttora molti continuano a considerare un possibile "salvatore della patria", per Bologna e non solo. "Eh no - conclude lui - salvatore della patria no! Va bene una volta, va bene due volte, ma tre volte proprio non si può. Grazie tante, ma abbiamo già dato...". m.gianninirepubblica.it © Riproduzione riservata (26 gennaio 2010) da repubblica.it Titolo: Prodi:"Io candidato? Avrebbero fatto a pezzi la mia città" Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2010, 11:54:22 am Prodi:"Io candidato? Avrebbero fatto a pezzi la mia città"
di Ninni Andriolo Qualcuno a Roma potrebbe aver voglia di mettere nel tritacarne Bologna...». Non ha ceduto alle pressioni di chi lo avrebbe voluto sindaco. Romano Prodi, però, anche in queste ore è tutt’altro che indifferente alle vicende politiche che riguardano la sua città. «Se fossi sceso in campo si rischiava di fare del male a Bologna...», ripete ai suoi, spiegando che con lui a Palazzo D’Accursio «la destra si sarebbe accanita ancora di più contro la città». Più di quanto sta accadendo con il rischio di un commissariamento fino al 2011? «Quello», secondo Prodi, «è un segnale che la dice lunga...». Lontano dall’Italia e dall’Europa, insieme alla moglie, nel giorno in cui il governo rinvia a data da destinarsi il voto bolognese, il Professore ieri, ha avuto conferma di ciò che «annusavo già nei giorni scorsi». Aveva espresso «dubbi», Prodi, sulla «linearità del percorso» che avrebbe dovuto portare in tempi rapidi all’elezione del nuovo sindaco di Bologna. In via Gerusalemme, in sostanza, si ipotizzava «una trappola», con la quasi certezza che le mosse del centrodestra sarebbero state guidate più dalle convenienze elettorali del Pdl che dagli interessi di Bologna. Non che a far decidere il Professore siano stati i sospetti che si stesse armando un gioco al «logoramento» nei suoi confronti. Quel tarlo, tuttavia, ha fatto più di una volta capolino nei suoi ragionamenti. Sul «no» alla candidatura – e su quel brusco «non cambio parere» opposto alle indiscrezioni di stampa - non è stata estranea la preoccupazione che, per colpire lui, la destra potesse «mettere in naftalina la città», facendole scontare un lungo periodo di galleggiamento. La disponibilità del centrodestra a concordare, con l’opposizione, la data del 28 marzo? Un annuncio facile da fare, ma il Professore temeva già che i fatti sarebbero stati ben diversi. E la decisione del Consiglio dei ministri di ieri non smentisce quelle previsioni. Anche il «chiarimento avvenuto dentro il Partito democratico sul percorso da compiere ha influito sulle decisioni del governo», spiegano dall’entourage prodiano. La speranza, chiariscono, era quella «di coglierci impreparati e, magari, divisi». Ma «in questi giorni» simili speranze «sono state deluse». Un calcolato «accanimento» ai danni di Bologna, quindi. «Romano, non bisogna dimenticarlo, ha battuto Berlusconi per due volte – aggiungono i collaboratori del “Prof” - Loro, a destra, non lo dimenticano e si impegnano sempre al massimo per depotenziarlo. Ricordate i dossier che fioccavano all’improvviso prima del 2006 e durante la fase del governo? Ricordate Telecom Serbia?». Nemmeno questa volta, in poche parole, gli avversari fanno sconti e se «il Prof è coriaceo e capace di combattere, non può permettere d’altra parte che si metta nel mirino la sua Bologna». Il centrodestra che tenta «il colpaccio» per riconquistare la città delle Due Torri? «Non le sarà facile, i bolognesi non cadono nei trabocchetti, comprendono che si gioca sulla loro pelle». Con il Professore in campo non ci sarebbe partita, sostengono molti. Lucio Dalla spera ancora che «Romano» possa cambiare idea e don Giovanni Nicolini, già compagno di scuola di Prodi, rimarca che la città «vive una grande povertà di pensieri e progetti» e avrebbe bisogno, quindi, di un uomo «sopra le parti e la modesta dialettica locale». Il Professore potrebbe tornare sui suoi passi? «Non credo proprio», taglia corto la sua portavoce, la deputata Pd, Sandra Zampa. 05 febbraio 2010 da unita.it Titolo: PRODI I deficit di Inghilterra e Spagna nessuno può guardarci dall'alto in basso Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2010, 10:07:04 pm L'Italia e i deficit di Inghilterra e Spagna: nessuno può guardarci dall'alto in basso di Romano Prodi ROMA (21 febbraio) - Da quando è cominciata questa lunga crisi economica sono entrati in crisi anche coloro che per professione commentano, analizzano e fanno previsioni sull’economia. In primo luogo perché il crollo è giunto quasi totalmente imprevisto, anche se molti si sono affrettati a dire che già l’avevano messo in conto, semplicemente perché avevano scritto che gli squilibri esistenti non potevano durare all’infinito. E non era certo difficile dirlo. Le contraddizioni e le divergenze nel dibattito di oggi trovano tuttavia origine soprattutto nel fatto che la lunghezza e la profondità della crisi si accompagnano a cambiamenti del tutto imprevisti. Qualsiasi siano le caratteristiche, i tempi e le modalità della ripresa emerge infatti una perdita di peso e una netta diminuzione della libertà di movimento degli Stati Uniti. Il costo dello sforzo militare che da ormai molti anni è crescente in ogni parte del mondo sommato al costo del salvataggio del sistema finanziario e delle riforme promesse dal presidente Obama, hanno portato il deficit americano verso dimensioni insostenibili (superiori al 10%) anche da parte di un paese che possiede la moneta che è ancora il punto di riferimento dell’economia mondiale. Attraversando l’Atlantico si incontra un’Europa che complessivamente ha le carte più in ordine, con un deficit medio poco più della metà di quello degli Stati Uniti, ma con differenze enormi tra paese e paese. Si passa da un -3,6% della Germania, al -5,2% dell’Italia al -12,3 della Grecia e della Gran Bretagna, fino a oltre il -13% dell’Irlanda. Queste disparità hanno naturalmente attirato l’attenzione sul paese che unisce un deficit pesantissimo ad un debito pregresso altrettanto pesante, cioè la Grecia. Come succede in questi casi è partita la speculazione, sono partite le previsioni negative rispetto al futuro e, in modo assolutamente immotivato, si è arrivati a prevedere perfino una prematura fine dell’Euro. Nulla di tutto questo accadrà perché, nonostante la critica situazione delle istituzioni europee, alla fine si è trovato un principio di accordo per venire incontro alle emergenze della Grecia. L’Euro è infatti uno strumento troppo prezioso per abbandonarlo di fronte ai pur esecrabili errori dei governi dei paesi che ne fanno parte. Questa altalena di eventi ha tuttavia portato a variazioni nei cambi anch’esse impreviste e, apparentemente, del tutto irrazionali. Fino a pochissimi mesi fa non solo l’Euro quotava attorno a 1,50 dollari ma le analisi più raffinate concordavano nel prevederne un ulteriore ascesa. C’era perfino chi riteneva inevitabile arrivare al livello di due dollari per euro. A causa della diversità delle situazioni tra paese e paese e , soprattutto, a causa della debolezza dei poteri di intervento delle istituzioni europee, l’Euro ha invece perduto il 10% del suo valore nei confronti del dollaro. E la situazione è così incerta e confusa che, personalmente mi rifiuto di fare qualsiasi previsione sul futuro dei cambi, proprio perché manca ogni linea comune sulle grandi decisioni riguardo alla politica economica mondiale. In tale confusione l’unico punto fermo è che certamente non piango per l’indebolimento dell’Euro perché questo indebolimento costituisce oggi lo stimolo maggiore per le nostre esportazioni. Il che, per un paese come l’Italia, è l’aiuto più concreto ad una ripresa che ancora non si è seriamente materializzata. Ritornando un attimo all’Europa, è doveroso notare come paesi come la Gran Bretagna e la Spagna, che si presentavano come virtuosi e si permettevano di guardare dall’alto in basso l’Italia, presentano ora un bilancio pubblico con deficit fino a pochi anni fa inimmaginabili. Questi alti e bassi dovrebbero spingere a un maggiore equilibrio di giudizio ma, soprattutto, a collaborare maggiormente nella direzione di una più forte costruzione europea. Il quadro politico va tuttavia nella direzione opposta e gli attuali leader europei sono più spinti a seguire le paure dei propri cittadini che non a spiegare loro cosa ci aspetta nel futuro. E per vedere questo futuro materializzarsi ci dobbiamo perciò spostare ulteriormente verso est, dove la nuova Asia non solo ha già superato la crisi ma accumula le risorse materiali e umane per assumere un ruolo trainante nel futuro. Ci tocca perciò concludere che l’unica cosa certa è che, quando usciremo da questa crisi, il mondo non sarà più lo stesso. © RIPRODUZIONE RISERVATA da ilmessaggero.it Titolo: PRODI preoccupato chiede facce nuove "A 71 anni il più giovane sembro io" Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 07:54:02 am L'ex premier: "Ridare al cittadino la capacità di contare"
"Nei comuni, dove il rapporto è più diretto, teniamo" Prodi preoccupato chiede facce nuove "A 71 anni il più giovane sembro io" di MARCO MAROZZI BOLOGNA - "E' stata dura". Un nubifragio. Poi l'arcobaleno. Bologna accoglie così il ritorno di Romano Prodi. Professore, si sente Noè, votato ancora a salvare l'arca del centrosinistra? "Per l'amor di Dio. Sono arrivato che pioveva da matti. La mia esperienza politica è finita. Servono giovani. Ho 71 anni e ogni tanto rischiano di farmi sentire un ragazzo. Io al massimo ho cercato di dare una mano, mica sono quello che se ne va sull'Aventino. Certo è stata dura e adesso c'è tanto lavoro da fare". Non si riferisce alle durezze del cielo l'ex premier che due volte su due ha sconfitto Berlusconi alle urne. Guarda alle difficoltà terrene del centrosinistra, persino nella "sua" Emilia-Romagna, sempre meno rossa, meno di altre in Italia. Il Professore venerdì ha voluto chiudere la campagna elettorale a fianco di Vasco Errani, il governatore confermato per la terza volta, pur perdendo oltre il 10 per cento e che è riuscito a trascinare in Consiglio regionale un listino composto - escluso il bersaniano segretario del Pd - da funzionari di un centrosinistra sognato e ancor più pesantemente segnato. Quando a Bologna tutti gli uomini di partito sono stati bocciati. Ed è stata amarissima la festa di piazza di ieri sera con un pugno di fedelissimi travolti da un diluvio. Proprio mentre Prodi tornava in città dopo due giorni di vacanza a Roma con moglie, quattro nipoti, due figli, due nuore, una in attesa del Prodino n.5. Turista non per caso, via da tutto, attento a tutto. Preoccupatissimo per le regioni del Nord più vicino al resto d'Europa andate in blocco al centrodestra. Fino all'ultimo Prodi ha sperato in Mercedes Bresso. E nel miracolo Emma Bonino "che ha fatto tutto quel che poteva" in una Roma, in un Lazio in cui la Chiesa ha inciso fino all'ultimo. Il Professore non vuole fare dichiarazioni, teme che "qualsiasi cosa" alimenti tensioni. Sarà, come sempre, al fianco dell'amato Pierluigi Bersani. Rifiuta il ruolo che in strada continuano a chiudergli di presentarsi come il solito salvatore. Pensa a come muoversi, parteciperà con qualche uscita ponderata alla riflessione del Pd. "I partiti sono essenziali ma lo è anche il loro rinnovamento" è la sua linea. La preoccupazione è che il confronto continui tutto interno, senza coinvolgere un'opinione pubblica "che rifiuta sempre più i giochi chiusi dei partiti". "Anche se tirare sassi contro i partiti è diventato un esercizio largamente condiviso, non ho mai visto funzionare una democrazia senza un ruolo forte e attivo dei partiti politici". Il ragionamento va ben oltre il semplice rinnovamento. Riguarda una società cambiata, anche nella vecchia Emilia-Romagna in cui sono esplose la Lega e Grillo. I giovani, i ceti nuovi non votano Pd. Una riflessione su cui si giocano il futuro Errani (e lui è il primo a riconoscerlo) e il partito. Attentissimo ad ogni rapporto, ha telefonato all'ex premier anche Maurizio Cevenini, recordman della Regione, oltre 19 mila preferenze, bolognese sopportato dal suo Pd e che va a cercare voti allo stadio, nelle strade, alle feste, ai matrimoni, onnipresente in ogni angolo. "Bisogna ridare al cittadino la fiducia, la capacità di contare. Nella vita quotidiana di partiti che di vita quotidiana ne hanno sempre meno e nel momento del voto" dice Prodi. "Non è un caso che in ogni competizione elettorale si moltiplichino le lamentele sulle candidature a cui i cittadini sono chiamati a dare il proprio voto". "Dove il rapporto è più diretto, nei Comuni, teniamo, vinciamo" ragiona, guardando a Lecco, Lodi, Venezia. L'importante è capire che "le risposte non possono venire da questa destra". "La sfida è su riforme che interessano tutti, capaci di dare ai giovani una nuova speranza. La povertà che sta dilagando, la differenza fra il costo del lavoro e quanto il lavoratore prende davvero, la scuola, l'università, la ricerca, la drammatica qualità della vita di molte delle nostre città, soprattutto nel Sud". © Riproduzione riservata (31 marzo 2010) da repubblica.it Titolo: PRODI "Serve un Pd federale" Chiamparino: "E' l'unica via" Inserito da: Admin - Aprile 12, 2010, 11:33:44 pm L'ex premier rompe il silenzio, gelo fra i vertici del partito
"Va creato un esecutivo formato dai soli segretari regionali" Prodi: "Serve un Pd federale" Chiamparino: "E' l'unica via" di UMBERTO ROSSO ROMA - Prodi a sorpresa rompe il silenzio e sferza il Pd. Spara sul quartier generale e invoca per recuperare le radici un partito a federalismo spinto: i democratici vanno organizzati regione per regione. Tutto il potere ai venti segretari locali, ai quali sia affidato anche il compito di eleggere il capo del partito. L'unica ricetta, secondo il Professore, per lasciarsi alle spalle i "deludenti risultati elettorali" e un Pd "troppo autoreferenziale". La proposta piace, e molto, a Sergio Chiamparino. "Solo così - spiega il sindaco di Torino - possiamo competere con la Lega, o magari anche allearci in certe situazioni". Gelo invece dagli stati maggiori del Pd, sia dal fronte della maggioranza che da quello dell'opposizione. Gira un sospetto: l'uscita, improvvisa e molto dura dell'ex premier, sarebbe un siluro lanciato dritto a Pier Luigi Bersani. Dubbi apertamente sollevati dal deputato di area popolare Giorgio Merlo, "Prodi vorrebbe defenestrare il segretario". Una lettura che Ricky Levi, ex sottosegretario e grande amico del Professore, smentisce: "Bersani era l'unico informato del suo articolo, e anzi le parole di Prodi sono in realtà una palla alzata proprio a lui". Il che però non basta a spegnere le illazioni dentro il Pd, le voci che riferiscono anche di rapporti molto tesi a Bologna fra il segretario e l'ex premier dopo la vicenda Delbono e in vista di nuove nomination per il sindaco e il segretario cittadino del partito. In ogni caso, lo staff del segretario accoglie politicamente con freddezza il "ritorno" di Prodi, affidato ad un lungo intervento pubblicato ieri sul Messaggero. Un "utile contributo al radicamento del partito" lo definisce Maurizio Migliavacca, il capo dell'organizzazione, ma si tratta di "un disegno di lungo termine, in prospettiva". E il leader dei popolari del Pd, Beppe Fioroni, boccia tutto spiegando che "non possiamo oscillare dal partito del lavoro alla Lega di sinistra, fra chi vive di rimpianti e chi insegue Bossi". L'analisi di Prodi sul Pd è impietosa. Un partito che ha rapporti "troppo deboli" con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani. In balia di una linea politica messa continuamente in discussione "dalle dichiarazioni o le interviste dei notabili". Del tutto conseguente, in questo quadro, che il risultato delle regionali sia stato "inferiore alle aspettative". Per uscire dal guado, serve assolutamente un Pd delle regioni, federale. Recuperando una sua vecchia proposta lanciata ai tempi della crisi della Dc, come ricorda lo stesso Prodi, si tratterebbe ora di metter su un Pd lombardo, emiliano, laziale o siciliano. E il partito nazionale? Da consegnare nelle mani dei venti segretari regionali, eletti con le primarie, e chiamati a far parte di un esecutivo che dia la linea politica. L'unico e solo vertice centrale del Pd in salsa Prodi, "avendo il coraggio di cancellare organismi che si sono dimostrati inefficaci". Ai venti "uomini forti", come li definisce il Professore, il compito di scegliere il leader nazionale, senza passare in questo caso dalle primarie (oggi previste invece per il segretario). La risposta di Bersani arriverà oggi. La struttura federale del partito, spiegherà il capo del Pd, è già inscritta nello statuto del partito e deve andare di pari passo con la più generale riforma istituzionale. E insisterà sull'operazione di rinnovamento della classe dirigente interna, già avviata. Parole che probabilmente risulteranno troppo tiepide per chi ha accolto con entusiasmo la frustata di Prodi, l'ala degli amministratori del nord, Chiamparino e Cacciari in testa. "Il Pd federale - avverte il sindaco di Torino - è l'unico sistema per scegliere un nostro candidato premier davvero forte per il 2013. Speriamo di costruirlo in tempo". © Riproduzione riservata (12 aprile 2010) da repubblica.it Titolo: PRODI Conferenza di alto livello: “Africa: 53 Nazioni, Una Unione” Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 10:59:18 am Prodi
Conferenza di alto livello: “Africa: 53 Nazioni, Una Unione” PRESENTAZIONE La mia esperienza di presidente del Panel internazionale delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana sul peacekeeping in Africa mi ha portato a conclusioni che vanno al di là delle questioni strettamente relative alle operazioni di pace. È ormai infatti chiaro che solo superando la presente frammentazione politico-economica del continente africano, si potrà avere più pace, sviluppo e prosperità. Molti paesi sviluppati, avendo adottato politiche rigidamente bilaterali nei confronti dell’Africa, hanno una grande responsabilità delle condizioni attuali di questa regione del mondo. Da questo punto di vista i recenti sforzi delle Nazioni Unite di creare una partnership strategica con l’Unione Africana è un passo importante che merita di essere non solo continuato ma anche rafforzato. È in questa prospettiva che la Conferenza “Africa: 53 Countries, One Union” intende promuovere un dibatto sulle possibilità di maggiore integrazione tra gli stati e le economie africane come prerequisito per lo sviluppo politico e sociale di questa regione. In particolare, intendiamo discutere sulla possibile adozione di politiche comuni da parte di attori quali l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Cina e da parte di istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del commercio e la Banca mondiale. Al contempo ci pare fondamentale ascoltare le posizioni dell’Unione Africana stessa e dei leader degli stati di questo continente. L’obiettivo finale è quello di proporre una Road Map intesa a promuovere lo sviluppo e la pace dell’Africa in previsione di due conferenze future che si terranno nei prossimi anni a Washington (2011) e a Addis Abeba (2012). Romano Prodi Presidente della Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli Scarica la presentazione ed il programma Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli SAIS Johns Hopkins University Bologna Bologna (Italy), 21 maggio 2010 Conferenza di Alto Livello: “Africa: 53 Nazioni, Una Unione” (Programma preliminare del 23 aprile 2010) Sotto l’Alto Patronato di: Nazioni Unite, Unione Africana e Commissione Europea Partecipa alla Conferenza Friday May 21 2010 09.30am Greetings : * Italian Ministry of Foreign Affairs * Local Authorities 10.00am Session 1. The Political Framework * Secretary General UN: The prerequisite of Peace * President AU: AU contribution to overcome Continental fragmentation * African Leaders: The role of Leadership in Africa General discussion Coffee break * President European Commission: EU and European States, is a common policy toward Africa possible? * US Ass. Sec. of State for Africa: A new American Policy for Africa * China Ministry Foreign Affairs: Meanings and Goals of Chinese engagement in Africa General discussion 01.00pm Lunch * Presentation and Trailer of AFRICA NEWS 02.30pm Videoconference * US Secretary of State Session 2. The Economic Dimension * DG WTO: Free Trade as a key to African Development * President WB: Steps toward a Continental African Market, a prerequisite to growth * President ADB: A Continental Infrastructure Strategy for African Development * Panel discussion: Economic and Geopolitical effects of a Multilateral approach to Africa Chair: ‘Johns Hopkins’ * Conclusions Romano Prodi: A Road Map for Africa towards further Peace and Development Announcement of follow up conferences in Washington (2011) and Addis Abeba (2012) La lingua ufficiale della conferenza e’ l’Inglese. Sarà disponibile la traduzione simultanea. ======== Link: http://www.romanoprodi.it/ http://www.fondazionepopoli.org/ http://www.mondogrande.it/forum/viewtopic.php?f=2&p=4334 http://www.perlulivo.it/forum/viewtopic.php?f=6&t=2542 Titolo: PRODI «Manovra, il coraggio di essere impopolari» Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 05:19:59 pm Prodi: «Manovra, il coraggio di essere impopolari»
di Romano Prodi ROMA (23 maggio) - Una manovra correttiva è sempre un esercizio difficile. Lo è ancora di più quando si è incessantemente ripetuto che non vi è niente da correggere. Comunque, visto che le correzioni sono necessarie, è bene farle in fretta, in modo da renderci più tranquillamente a riparo dalle tempeste che in questi giorni impazzano in Europa. La fretta non può tuttavia esimerci dal tenere conto di alcuni principi fondamentali che riguardano le conseguenze della manovra stessa sulle condizioni di vita degli italiani, anche perché si parla di almeno 27 miliardi di euro, una somma cospicua, riguardo alla quale non è certo indifferente vedere dove questi soldi vengono presi. Partiamo dalla constatazione che in quasi tutti i paesi sviluppati il lavoro ha perso progressivamente terreno nella distribuzione del reddito ma che in Italia questa perdita è stata superiore a quella degli altri. Negli ultimi quindici anni la quota di Pil che va a remunerare il fattore lavoro (pensioni comprese) è calata di otto punti percentuali. Essa è passata dal 77 al 69% : un calo enorme che, in cifra assoluta,si colloca intorno ai 130 miliardi di euro. Questo calo ci ha portato in linea con gli altri Paesi avanzati ma con una grande differenza di fondo. La differenza sta nel fatto che, di fronte a una quota di Pil del 69%, il lavoro contribuisce all’insieme dell’entrate tributarie per oltre l’80%. Possiamo perciò ragionevolmente stimare che in Italia il lavoro paghi quasi 50 miliardi di tasse in più rispetto alla quota di reddito percepita. Si tratta di una redistribuzione rovesciata rispetto a paesi come la Francia e la Germania che, attraverso lo strumento fiscale, trasferiscono risorse nette al lavoro. Il tutto, naturalmente, senza tenere conto dell’evasione che, in via prudenziale, è stimata intorno ai 100 miliardi e che è generata dal lavoro per una quota nettamente inferiore al 69%. Anche in conseguenza dell’evasione la quota del lavoro si vede perciò sottrarre ulteriori margini di reddito. È chiaro che non è compito della così detta manovra aggiuntiva sanare questi squilibri, che sono anche la conseguenza della globalizzazione e di nuovi rapporti di forza nell’ambito internazionale. Penso tuttavia che il ministro dell’Economia, invece di rincorrere disperatamente tanti diversi addendi per arrivare all’agognata somma di 27 miliardi, farebbe bene a meditare su queste peculiarità e, sensatamente, a considerare l’opportunità di utilizzare questa contingenza per iniziare a restringere una divaricazione ormai insostenibile. Capisco che questo non è un obiettivo facile, soprattutto in un momento storico in cui il lavoro dipendente, pubblico o privato che sia, viene considerato come qualcosa di incidentale, da cui la storia si sta allontanando. Dobbiamo inoltre convenire che molte regole del lavoro debbono essere cambiate in modo da rendere i lavoratori stessi più responsabili e più produttivi, ma questo non può avvenire attraverso un processo di marginalizzazione anche economica del lavoro stesso. E dobbiamo pure convenire che i lavoratori privilegiati e protetti debbono dare un doveroso contributo per farci uscire dalle difficoltà in cui siamo, ma non possiamo illuderci che il necessario sacrificio di ventimila pubblici dipendenti possa essere decisivo per il risanamento delle finanze pubbliche. L’esempio è importante in una società democratica ed è quindi giusto che anche la classe politica dia il suo contributo, come in analoghe circostanze avevo deciso diminuendo, rapidamente ed in silenzio, le remunerazioni dei ministri di ben il 30%. Questi passi nobili e necessari hanno effetti quantitativi assai scarsi di fronte ai grandi mutamenti a cui stiamo assistendo e di fronte alle necessità del Paese. Non avendo oggi alcuna possibilità di sapere come questi 27 miliardi saranno raccolti ed avendo ragionati dubbi che la quasi totalità di essi possa venire da generici risparmi della spesa, mi sembra opportuno che il ministro dell’Economia si ponga almeno l’obiettivo di non squilibrare ulteriormente la distribuzione del reddito. Non è certo un compito facile soprattutto quando si è abolita l’Ici anche per le categorie di reddito più elevate e quando ogni suggerimento di usare le imposte a scopo almeno parzialmente redistributivo viene ritenuto un modo illegittimo di mettere le mani in tasca agli italiani. D’altra parte il mestiere del ministro dell’Economia non è mai stato un mestiere popolare. Tuttavia i peggiori ministri sono sempre stati quelli che hanno cercato la popolarità ad ogni costo. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=29487&sez=HOME_ECONOMIA&npl=&desc_sez= Titolo: PRODI La Tobin tax è un'idea giusta. Ma va applicata su scala planetaria Inserito da: Admin - Maggio 28, 2010, 10:51:10 pm Prodi: «La Tobin tax è un'idea giusta. Ma va applicata su scala planetaria»
di Vittorio Carlini 28 maggio 2010 «Da un lato i mercati finanziari sono di fatto globalizzati; dall'altro gli strumenti per regolarli hanno ancora una dimensione locale, nazionale. E' questa la contraddizione che ci ha portato alla crisi». Romano Prodi, raggiunto al telefono nella sua casa di Bologna, non fa troppi sconti. Il Professore non nasconde le sue preoccupazioni: il futuro, perlomeno nell'immediato, non è roseo. «Questa dicotomia – dice - non sarà risolta in tempi brevi. Non vedo uno slancio, uno scatto in avanti in favore di una regolamentazione a livello mondiale». Il problema della finanza è una conseguenza del più ampio fenomeno della globalizzazione… La globalizzazione, in generale, sta provocando il cambiamento della sovranità nazionale. I mercati finanziari sono una parte del discorso. Lo stato westfaliano, come noi lo conosciamo, è oggetto di profondi mutamenti: è perforato da continui vasi comunicanti, essenzialmente per una duplice causa. Vale a dire? In primis, c'è il forte aumento del peso di istituzioni sovranazionali, quali per esempio l'Unione europea. Poi ci sono strumenti non istituzionali, come appunto le Borse e i mercati finanziari. Questi ultimi, però, sono guidati da forze non regolate in maniera sufficiente. E qui sta il guaio: fino a quando non lo affrontiamo, assisteremo al succedersi di altre crisi, di altri periodi di difficoltà. Eppure, almeno a livello di dichiarazioni, c'è chi continua a richiamare il tema della riforma sistemica… Sì, ma manca la politica. Non vedo all'orizzonte un forte accordo per il cambiamento. Fino all'aprile dell'anno scorso, si spingeva per una regolamentazione di tipo globale. Pian piano, le ambizioni sono diminuite; si è preferito ripiegare su argomentazioni di carattere tecnico, sulla soluzione di singoli aspetti del problema. Per carità, proposte pur sempre importanti ma che non affrontano il "peccato originale", non risolvono alla radice la contraddizione. Basta vedere quello che è successo per la Tobin tax. Cosa intende dire? In sé è una buona idea. Ma se non viene condivisa da tutti, se non c'è uno scatto in avanti della politica che la impone a livello planetario non ha senso. Può essere aggirata sempre e comunque, passando per qualche isola del Caimano. Ma le regole sono veramente sufficienti a riportare nei giusti limiti un capitalismo finanziario che ha messo in atto la fuga in avanti? Le regole sono tutto. Io parlo di accordi tra istituzioni, governi, organi che devono farle rispettare. La speculazione è forte quando la politica è debole. Se nel caso della Grecia avessimo avuto una politica con legami precisi, accordi precisi, strumenti precisi gli speculatori avrebbero preso una bastonata tale da ricordarsela per molto tempo. Rimanendo sulla scala mondiale, molti auspicano una maggiore collaborazione tra Europa e Stati Uniti… Su questi temi sarebbe utile arrivare ad una grande alleanza tra le due sponde dell'oceano Atlantico. Tuttavia, non credo che il governo di Washington sia in grado di prendere una simile iniziativa e le capitali europee non mi sembrano unite tra loro. Perché pensa che il presidente Barack Obama non sia in grado di farsi promotore di un simile disegno? Il mondo politico americano è diviso. Nel recente passato, soprattutto sul tema della finanza, ci sono state molte grida ma non grandi passaggi concreti. Non vedo un'idea che possa portare, per esempio, a dar vita ad una nuova Bretton Woods: cioè ad un grande accordo a livello mondiale. La conferenza, avviata nel 1944, avvenne in un momento in cui gli Stati Uniti potevano esercitare una forte leadership. Fu preparata da due anni di dicussioni. E poi, allora, il mondo era più piccolo: adesso bisogna coinvolgere molti più stati. Oggi come oggi solo il G20 potrebbe convocare, per il medio termine, un simile consesso. Tuttavia non vedo una spinta reale in tal senso. Non vorrei sembrare troppo pessimista, ma bisogna leggere la realtà con molta serietà. Insomma, la politica non c'è. Per quale motivo? Perché siamo in una fase ancora arretrata di cooperazione internazionale. Ci sono troppi players che vogliono giocare le loro carte. Gli stati nazionali hanno le loro prerogative, le loro regole cui non vogliono rinunciare. A ben vedere, non esiste un colpevole preciso. E' la storia che va avanti: già nel passato abbiamo vissuto periodi di grande mutamento, e nel futuro ce ne saranno altri. Di certo, però, la soluzione non è tornare al protezionismo. I mercati dei beni e quelli finanziari devono restare aperti, collegati tra loro e permettere una vita economica dinamica. Chiuderli significherebbe solo peggiorare le cose: il mondo tornerebbe verso la miseria e la guerra. Passando a un piano più limitato, quello dell'Unione europea, dopo lo scoppio della crisi greca abbiamo assistito ad accenni di maggiore integrazione: nell'ipotesi di riforma del patto di stabilità è ipotizzato, per esempio, che i bilanci statali possano sottostare a una valutazione ex ante del Consiglio europeo. Un passo che condivide? Sì e mi auguro che, dopo la crisi, i provvedimenti adottati spingano ancora di più in questa direzione. La politica monetaria comune deve essere affiancata da una politica economica coordinata sui grandi temi. Altrimenti, la situazione non può più reggere a lungo. Quest'impostazione, giocoforza, conduce alla limitazione della sovranità nazionale nella politica fiscale… Credo che, sui grandi capitoli economici, sia un processo inevitabile. Poi, voglio essere chiaro. Se la domanda è: dev'esserci un sistema sanitario europeo? Bé, rispondo con forza di no. Il principio di sussidiarietà è una cosa seria e i servizi ospedalieri debbono rimanere vicino ai cittadini. Un discorso analogo può farsi, ad esempio, per lo stato sociale: seppure può immaginarsi un coordinamento tra gli stati, la sua organizzazione resta un tema di livello locale. E' compito della politica individuare e definire cosa è nazionale e cosa sovranazionale. In tal senso è stata fatta la proposta di un'agenzia di rating europea, un progetto sensato? Si tratta di un problema serio. Già parecchi anni fa non avevo una grande considerazione di queste società: vedevo come davano i voti. E, poi, se il loro giudizio dev'essere considerato oggettivo perché pubblicarlo a mercati aperti? Senza dimenticare, inoltre, il tema del conflitto d'interessi. Ciò detto, non sono favorevole ad un'agenzia europea che non potrebbe limitarsi a valutare non solo il debito sovrano ma anche i bond aziendali. Una soluzione potrebbe essere quella di rafforzare la Bce, attribuendogli un potere di valutazione sul merito di credito… E' un discorso serio. La Bce è indipendente e risponde, in definitiva, all'opininione pubblica europea. Il tema del rafforzamento degli organi comunitari è rilevante. Penso, per esempio, ad Eurostat: che senso ha poter verificare solamente la bottom line di un bilancio, quando non puoi analizzare se gli addendi da cui deriva sono falsi oppure no. Torniamo al tema della maggiore integrazione e coordinamento, sempre però su i grandi capitoli economici Insomma… Lei è un glocal Certo che sì. Da tutta una vita sono glocal; quando ero presidente della Commissione europea ho tenuto la mia famiglia e le mie radici ben salde a Bologna, la mia terra. ©RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-05-28/prodi-speculazione-forte-quando-104100.shtml?uuid=AYWxMvtB Titolo: Prodi: «La politica, una corsa a tappe. In giro, solo velocisti» Inserito da: Admin - Giugno 12, 2010, 05:42:12 pm Prodi: «La politica, una corsa a tappe. In giro, solo velocisti»
di Andrea Satta Quella che segue è la trascrizione fedele di una conversazione di bilancio sul Giro d’Italia tra Andrea Satta e Romano Prodi, ciclisti, con qualche cenno inevitabile alle rispettive altre passioni, occupazioni, mestieri, disillusioni e speranze. Ore 19.45 Driiin!!! Pronto presidente come stai? Ci possiamo sentire tra mezz’ora perché sai, noi padani, stiamo già mangiando … noi della Lega... Vedo che sei di buon umore, ti chiamo dopo Fra mezz’ora… Benissimo. Ore 20.15 Ri-Driiin!!!! Perché un padano va in bicicletta? Perché la pianura è piatta. E tu come l’hai visto questo Giro? Bene, è stato meno veloce di altri, e spero dipenda dai meno additivi usati. Un Giro intelligente, con bei giochi di squadra, tranne la tappa de L’Aquila magari... Basso che rinasce? Interessante. Alla fine ha fatto quattro anni di purgatorio. Rinascere vuol dire avere grinta. Un buon presagio per il Giro di Francia. Che effetto ti fa vedere in tv una corsa che passa sulle strade di casa? È una delle cose che ti fa appartenere al Giro d’Italia. Adesso Ivan deve confermarsi al Tour... Sì, perché c’è una sola corsa al mondo che muove tutto, stampa e immagine più di ogni altra, il Tour de France. Un lombardo e un siciliano che si aiutano e fanno squadra... Sono stati bravi i manager e bravi loro due a capire che era interesse comune aiutarsi. Non succede spesso, una cosa così. La salita della Raticosa, la tua salita, è una strada che attraversa la storia partigiana. Si può ancora dire? Lo possiamo dire, guardando quei luoghi. Buttando un occhio, col senso della compassione, al cimitero tedesco della Futa, dove ovunque c’è scritto unbekannt (sconosciuto). Ma i giovani di tutto questo non sanno quasi niente. Che ti viene in mente quando vedi un bambino in bicicletta? Che ce ne sono pochi. E uno che ha appena levato le rotelle? Che è la parabola della vita. E quando passa un vecchio col secchio della verdura ? Di quelli se ne vedono di più. E quando ci vedi su uno straniero nelle strade di campagna? Eh, lì se ne vedon tanti. Mi ci ritrovo sai, in questo che mi chiedi, è una domanda che ho dentro. La bici come primo gancio... Pensi davvero che Bartali abbia salvato l’Italia dalla guerra civile nel ’48? Credi che ora Nibali e Basso possano fare qualcosa di simile? No, allora eravamo come gli emigranti e la bici era il primo passo. Infatti la bici era così importante che c’era “Ladri di biciclette”. Veloce ora... La bicicletta è leggera e...? Fortissima È aria nei capelli e...? Non c’è più, l’aria nei capelli. C’è il casco. La bicicletta e l’Italia. Cominciamo da... Il telaio...? Le relazioni fra la gente. I pedali...? Quelli che tirano, quelli che si alzano tutte le mattine alla stessa ora. E la catena? Sono le istituzioni, che spesso vengono deragliate apposta. Il parafango italiano è...? L’Europa. Le luci? I ragazzi. La dinamo? Un tempo erano le banche, ora non so. I catarifrangenti? Quelli che avvisano di un pericolo: beh, i carabinieri. Le ruote? Le ruote? In questo momento? Non so proprio. Intravedi almeno un raggio? Di raggi ce ne sono tanti, ma manca chi li tira, come si chiama quello che sa regolare i raggi delle ruote? Ecco, lui, quello che le tira a dovere, e le ruote, vedi, le ruote, restano storte. Ma ci sono anche i freni... cosa rallenta un paese come il nostro? La mancanza di etica. Potrei chiederti «Per chi suona il campanello» invece ti domando... Siamo all’ultimo giro? Non c’è mai un ultimo giro, per fortuna. Vedi, dopo il Giro, c’è il Tour de France... Aldo Moser una volta m’ha detto che aveva così tanta sete in una Cuneo- Pinerolo che chiese acqua a Jaques Anquetil, che era pur un avversario, questo gliela porse (gliela aveva passata sua moglie …) ma aggiunse “occhio che dentro c’è champagne …” Dobbiamo solo aver paura noi di questa generazione, o potremmo anche trovare champagne dentro una borraccia per l’acqua? Eh, ma qui chi ce lo mette lo champagne nella borraccia? Seduto In cima ad un paracarro ad aspettare... tu ci sei mai stato? Mah... era il modo classico di... però, però, a proposito, che genio quello del Museo dei Paracarri di... Pergine Valsugana, (un museo di centocinquanta paracarri, ognuno dedicato ad un ciclista ed estratto dalle strade delle sue imprese e delle sue fatiche, ndr). Bravo sì, li della Valsugana, c’è la storia d’Italia là dentro! Eh... sì sono amici miei, il Pegoretti e l’Osler. Lui era un gregario, ha fatto il ciclista, ha vinto anche una tappa al Giro, sai? Chi aspettavi sul paracarro allora? Non aspettavo nessuno, mi sedevo perché ero morto, morto di fatica. Un flash sul Tour. Credi che Armstrong possa ancora vincerlo? Difficile, ma lui è un ragioniere, anzi uno scienziato del ragionare. Non mi sembra il favorito, ma se lo corre, vuol dire che ne ha le possibilità. Dammi i primi tre... Contador, Basso e Armstrong, non ci vuole mica un genio! Però negli ultimi anni gli ordini d’arrivo sono stati stravolti dal doping che è diventato il nemico della passione per il ciclismo. Cosa c’è dietro? Gli anni del doping sono stati una tragedia. Se questa è una fase chiusa, si riparte e si riparte in modo molto interessante. Le corse son diventate corse del mondo. Kazaki, australiani, americani. Il ciclismo ha delle potenzialità enormi. Se non è così, se non ne siamo usciti, è finita. Tu pensa che una squadra straniera, una delle più forti, si chiama Astana … Quanti italiani sanno che Astana è la capitale del Kazakistan? Ti rendi conto dove ci può portare il ciclismo? Che mondi può mettere in comunicazione? Tu mi hai detto che le piste ciclabili sono un rilevatore di civiltà. Be’ ne sono state fatte poche anche nelle giunte di centro sinistra. Perché? Perché le nostre città sono cresciute in modo incivile. O auto o bici, è difficile convivere. Le periferie dagli anni cinquanta alla metà degli anni settanta hanno vissuto una degenerazione continua che pagheremo per tantissimo tempo, dove il bulldozer ha sovrastato l’intelligenza. Ora è difficilissimo recuperare. Però si può inventare qualcosa. Lavorare sulle ferrovie dismesse, sugli argini dei fiumi... Quanto è lunga questa curva? È proprio molto lunga. È più un problema etico. C’è stato un cortocircuito fra etica e politica. La gente fa finta di volere politici migliori, invece è felice quando vede in un politico i propri difetti. Eppure anche oggi, da qualche parte, un bambino ha imparato ad andare in bici, il primo equilibrio dopo quello del camminare. Sarà più libero, da oggi. Il mondo davanti. Digli una parola... Attento! Anzi, attento, ma vai. Sulla Raticosa, passeresti una borraccia piena a Berlusconi? Perché no, certamente. Sulla Raticosa, in cima, lassù, qualche volta mi son detto... ecco ora vorrei vedere Berlusconi... però, dai... sono sicuro: il problema non si pone! E la prenderesti da lui? Certamente (e ride di gusto), anche se sono sicuro che … il problema non si pone! Perché ridi? Ascolta, a chi farebbe bene la bicicletta tra i politici di oggi? A tutti (e torna serio). Un velocista? Tutti troppo velocisti i politici. Uno scalatore? Andrea, ci vogliono i passisti in politica, quelli da corse a tappe. La politica è una corsa a tappe. Uno che credevi un campione e invece si è rilevato un bluff? Lascia perdere, è una lista molto lunga. Il problema più grave, la cosa più grave è che si pensa solo alla volata, alle elezioni, all’istante che brucia tutto in un momento e molto poco alle corse di domani, al divenire, a costruire un destino per le generazioni future. Ma ce la facciamo insieme questa “Raticosa”? 11 giugno 2010 http://www.unita.it/news/italia/99863/prodi_la_politica_una_corsa_a_tappe_in_giro_solo_velocisti Titolo: PRODI mercato e stato, la sfida del rilancio della Fiat si gioca in due Inserito da: Admin - Luglio 29, 2010, 10:52:56 pm Prodi: mercato e stato, la sfida del rilancio della Fiat si gioca in due
di Romano Prodi ROMA (29 luglio) - Anche negli ultimi giorni si continua a dibattere se siamo davvero usciti dalla crisi. E questa discussione andrà avanti ancora per un bel pezzo, perché quel poco di ripresa che c’è è ancora incerto, varia da settore a settore e non offre alcun segno di venire incontro alla caduta dell’occupazione, che è la conseguenza più seria e permanente della crisi economica. Per questo motivo vorrei sottrarmi al difficile ma affascinante esercizio di fare previsioni per il futuro e riflettere sulle cose certe, sugli inevitabili cambiamenti della nostra economia e sulle decisioni da prendere, sperando che nelle prossime ore si materializzi finalmente un ministro dello Sviluppo in grado, per capacità tecniche e per indipendenza di giudizio, di accompagnare e guidare la necessaria trasformazione delle nostre strutture produttive. La conseguenza (questa davvero indubitabile) della crisi è infatti la necessità di una trasformazione completa del nostro sistema produttivo, trasformazione che non può essere compiuta solo dal mercato o solo dallo Stato. Come è stato autorevolmente affermato in un recente dibattito, la crisi sta mettendo ancora più in rilievo che l’essenza dello sviluppo economico è la trasformazione strutturale, l’ascesa cioè di nuove industrie e di nuovi modi di produrre rispetto a quelli tradizionali e che questo non è un processo facile e non è un processo automatico. Esso richiede la convergenza di forze di mercato e di un robusto supporto governativo. Se il governo è troppo oppressivo, esso stronca l’imprenditorialità privata. Se esso è troppo distaccato, i mercati continuano a fare ciò che essi sanno fare al meglio, confinando il Paese alla sua specializzazione in prodotti tradizionali e settori a bassa produttività. Il nuovo ministro dello Sviluppo ha sul suo tavolo proprio questo grande compito, di aiutare le trasformazioni strutturali del nostro Paese, mobilitando imprese e governo. Lo dovrà fare in fretta, sapendo che dobbiamo contare principalmente sull’industria non solo perché siamo ancora il quinto Paese del mondo per produzione industriale assoluta e il secondo del mondo (dopo la Germania) per produzione industriale pro-capite, ma anche perché la nostra presenza nel terziario è molto più debole ed esige trasformazioni ancora più difficili. Il primo riferimento della politica industriale dovrà essere naturalmente il mondo delle Piccole e Medie Imprese, dominanti per importanza in Italia, sia all’interno che al di fuori dei distretti industriali. Le direzioni nelle quali agire e gettare ogni aiuto e ogni incentivo sono ormai molto chiare e cioè la Ricerca e lo Sviluppo, il trasferimento tecnologico, la presenza nei mercati esteri (soprattutto quelli nuovi) la crescita dimensionale e l’innalzamento della qualità del capitale umano. Le nostre imprese hanno infatti una percentuale di ricercatori e di laureati nettamente inferiore a quella dei Paesi direttamente a noi concorrenti e sono troppo piccole per innovare ed essere presenti nei mercati esteri. Vorrei perciò che il primo colloquio del nuovo ministro fosse con il suo collega responsabile dell’Istruzione per capire e fare capire come la moltiplicazione della conoscenza tecnica a tutti i livelli sia il requisito primario del nostro futuro sviluppo. La scuola tecnica non può più essere considerata marginale o residuale come avviene oggi. Anche se è certo che noi viviamo e vivremo al livello della nostra competenza tecnica, non mi sembra che questa realtà sia oggi una priorità né nel mondo politico, né in quello imprenditoriale o sindacale. Non mi sembra né giusto né utile che quando si parla di decisioni per il futuro delle nostre imprese il discorso si fermi sempre alle pur importantissime “condizioni di contesto”, come la Pubblica amministrazione, le infrastrutture e le banche. Una seria politica industriale deve lavorare non solo sul “contesto” ma sull’innalzamento delle risorse umane e del modo di operare delle imprese. Nell’ufficio ancora deserto del ministro vi è tuttavia qualcosa che riguarda una grande impresa, cioè il dossier Fiat. Finora tale dossier è stato trattato solo nei suoi pur importantissimi aspetti sociali ma esso cade in pieno nel capitolo delle trasformazioni strutturali come obiettivo essenziale della nostra economia. È, cioè, compito del governo (come lo hanno fatto negli Stati Uniti, in Francia e in Germania) mettere attorno allo stesso tavolo sindacati e imprese per raggiungere gli obiettivi di flessibilità e innovazione che sono oggi indispensabili per operare nel mercato automobilistico internazionale. Come hanno dimostrato le esperienze degli altri Paesi, questo è un compito estremamente difficile ma se, come è avvenuto fino ad ora, ci si sottrae ad esso, la partita è certamente perduta. Mi auguro quindi che il nuovo ministro arrivi in fretta e si metta subito al lavoro. E, soprattutto, gli auguro buon lavoro. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=31320&sez=HOME_ECONOMIA&npl=&desc_sez= Titolo: PRODI esulta per il Nuovo Ulivo. "Ma il Pd sia al centro del progetto" Inserito da: Admin - Agosto 27, 2010, 09:05:47 pm IL COLLOQUIO
Prodi esulta per il Nuovo Ulivo "Ma il Pd sia al centro del progetto" Il professore plaude alla proposta di Bersani, ma chiede ai democratici di non fare solo "gesti tattici": "Prima il partito era troppo autoreferenziale" di MARCO MAROZZI BOLOGNA - "Bravo Pierluigi. Ci voleva proprio. Ma adesso bisogna passare subito ai fatti. Nei rapporti con la nostra gente, con le altre forze politiche e soprattutto nella capacità di contrastare il declino dell'Italia. Il confronto è su chi sul serio sa rivitalizzare il sistema Paese. Non è solo il problema Berlusconi. Il futuro è di chi sa dipingere e subito dopo costruire un futuro per l'Italia". Romano Prodi ha molto apprezzato le parole scritte da Pierluigi Bersani su Repubblica 1. Soprattutto ha sospirato di fronte a quella "parola" che gli è tanto cara: "Ulivo". Ma l'ex premier non ha sottolineato solo le frasi del documento "bersaniano", anche il clima che è riuscito a creare. "Quanto tempo era che non succedeva", ha detto con una punta di amarezza il Professore. La lettura, racconta lo staff di Bersani, ha confermato un messaggio già mandato a Prodi prima della pubblicazione. "Gli abbiamo detto che gli sarebbe piaciuto". L'effetto, di fatti, si è subito sentito. Prodi nella sua vacanza in provincia di Reggio Emilia, in casa della suocera, è andato a prendere i giornali di prima mattina. Conferma di quello anticipato da Roma. I commenti con i suoi amici sono stati subito positivi. Commenti privati. "Io non esisto" ripete lui che si diverte a fare il Vecchio della Campagna, il Saggio della Bassa. L'ex premier, infatti, ripete come un mantra di non pensare a un ritorno "pubblico" di qualsiasi tipo. "Non sono Cincinnato. Un'epoca è comunque chiusa. Largo ai giovani. Io insegno". "Negli Usa e in Cina" aggiunge con vezzo critico verso l'Italia. Ma gode come un pazzo al fatto che la gente normale lo fermi per strada. "Professore, torna?". Lo rincuora che illustri sconosciuti gli chiedano di Flavia, la moglie operata. "Come sta la sua signora?". L'uscita di Bersani lo ha colto in questo momento, fra pubblico e privato, felici e preoccupati. Anche Prodi temeva un appannamento del segretario del Pd, l'amico ventennale su cui ha sempre puntato. Ha sempre vissuto malissimo la marginalizzazione di cui ha accusato il Pd di Walter Veltroni dopo il "corriamo da soli" che, ancora accusa, "ha messo in crisi" il suo governo. Con Dario Franceschini ci sono stati gli strascichi post-veltroniani, poi la discesa in campo dell'amato Bersani. Da cui però non è mai arrivato lo scatto che anche il Professore si aspettava. Mentre seguiva con attenzione preoccupata il grande attivismo di Giulio Tremonti, battezzato "Visc/onti" da qualche amico di Prodi per la nuova linea non più così contraria rispetto a quella del predecessore, Visco. Adesso Prodi è tornato al centro del campo, ultimo, antico vincitore di uno scudetto. Da cui imparare. Non parla, ma tanti lo cercano. Lui sta a guardare. Persino le possibili aperture di Bersani a Casini, Fini e Montezemolo. Gli ultimi due li conosce come pochi, ne sa le astuzie tattiche e strategiche. Non gli era piaciuto il "patto repubblicano" abbozzato mesi fa da Bersani e finito in nulla. "Non per l'idea in sé, ma per il rischio che venga preso per un gesto tattico. Serve sempre e ancora un grande progetto. Con il Pd al centro del confronto". Ha apprezzato le mosse dell'ex segretario di An, ma lo dipingeva come "un generale con attorno sergenti e non si sa se davvero ci sono delle truppe". Adesso la possibilità che Bersani abbia preso in mano il pallino rincuora molto il Professore. Come l'asse che pare crearsi con Dario Franceschini, allontanatosi da Veltroni. "Alla trasmissione tv di Fazio era stato bravissimo" era un ricordo-impianto ricorrente. E sul Pd: "L'interpretazione comune rischiava di essere quella di un partito diventato autoreferenziale, con rapporti troppo deboli con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani, messi in secondo piano dai ristretti obiettivi dei dirigenti e delle correnti e dai rapporti di vertice con le altre forze". Se è svolta, Prodi ci spera. Lui pubblicamente tace, le sue voci pubbliche sono entrate in funzione. "Il Pd deve essere il centro del centrosinistra. - dice l'ex ministro di un defunto Programma, Giulio Santagata - Su questa credibilità, su questa capacità si gioca la costruzione di qualsiasi coalizione e di qualsiasi possibilità di mandar via Berlusconi". Con una stoccata a Veltroni: "La nuova stagione ulivista può aprire le porte ai tanti delusi, lasciati per strada in questi anni". (27 agosto 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/08/27/news/prodi_esulta_per_il_nuovo_ulivo_ma_il_pd_sia_al_centro_del_progetto-6539925/?ref=HREC1-2 Titolo: PRODI «Crescita, guardiamo la realtà: siamo i più lenti tra i grandi Paesi» Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2010, 05:21:50 pm Prodi: «Crescita, guardiamo la realtà: siamo i più lenti tra i grandi Paesi»
di Romano Prodi ROMA (24 ottobre) - Nelle settimane che avevano preceduto le ferie estive si era creato un clima di crescente fiducia riguardo all’andamento dell’economia mondiale. Alcuni fragili segnali di ripresa erano stati ingranditi a dismisura fino a spingere non pochi affrettati (e forse interessati) osservatori ad affermare che ormai eravamo fuori dalla crisi. Tutte le ultime analisi, da quella del Fondo Monetario Internazionale alla Commissione europea, da Prometeia al Centro studi della Confindustria ci dicono invece che le cose si stanno aggiustando così lentamente che dovranno passare ancora molti anni prima che i nostri redditi ritornino ai livelli precedenti la crisi. Gli errori finanziari e monetari che hanno prodotto il crollo economico non sono ancora stati aggiustati nella quasi totalità dei Paesi avanzati, mentre le economie dei Paesi in via di sviluppo, anche se crescono bene, non hanno ancora il peso sufficiente per ridare vigore a tutta l’economia mondiale. Questo è il quadro generale, reso ancora più precario dalla mancanza di accordi a livello internazionale sia nei confronti delle politiche di bilancio, sia riguardo alle politiche monetarie. A questo proposito, infatti, se non siamo ancora arrivati ad aperte svalutazioni competitive, ci siamo molto vicini, La politica della moneta “facile” adottata dagli Stati Uniti è stata infatti così efficace da produrre in pochi mesi una svalutazione del dollaro nei confronti dell’Euro di quasi il 20%. Esportare per noi sarà più difficile, mentre proprio sulle esportazioni avevamo riposto le speranze più concrete per una ripresa della produzione. L’ottimismo che si era diffuso prima dell’estate era da attribuirsi in parte alla ricostruzione delle scorte delle imprese, che erano state ovviamente portate a zero dopo lo scoppio della crisi, ma soprattutto ad un breve sussulto delle esportazioni, aiutate dalla caduta del cambio dell’Euro nei confronti del dollaro. La convalescenza sarà quindi lunga per tutta l’Europa, ma la navigazione italiana, nonostante i messaggi che vengono continuamente forniti, è stata più tempestosa rispetto agli altri grandi Paesi europei nel momento della caduta e rimane la più lenta anche oggi in questo periodo di faticosissima ripresa. Messa a confronto con gli altri grandi Paesi europei l’Italia è arretrata più di Germania, Francia e Gran Bretagna nel 2009 e concluderà il 2010 rimanendo il fanalino di coda. Tutte le previsioni elencate in precedenza ci mettono infatti in ultima posizione anche per il prossimo anno, in cui non toccheremo nemmeno l’uno per cento di crescita. A partire dall’inizio della crisi il Pil italiano è caduto del 6,8%, a confronto di un calo del 5,3% della media della zona Euro. La produzione industriale (che è il punto di forza della nostra economia) è ancora oggi del 16% inferiore al livello massimo precedente. I consumi sono stagnanti per effetto della caduta del potere d’acquisto delle famiglie dovuto soprattutto alla crisi del mercato del lavoro. Come scrive il rapporto Confindustria, gli occupati nei mesi di luglio e agosto sono scesi di ben 31mila unità rispetto al secondo trimestre e, se il tasso di disoccupazione migliora leggermente, è solo perché diminuisce la domanda di lavoro. In parole più semplici perché le persone hanno perso ogni fiducia sulla possibilità di trovare un’occupazione e hanno perciò smesso di cercarla. Non ci dobbiamo perciò stupire che la disoccupazione di lungo periodo (cioè quella che dura oltre l’anno) sia al livello massimo tra i Paesi europei e la disoccupazione giovanile continui a crescere. Un certo stupore nasce invece dal fatto che, nonostante questi dati, si continui a ripetere che la situazione italiana è relativamente migliore di quella degli altri Paesi. Quest’ipotesi purtroppo irrealistica forse nasce dal fatto che, a differenza di altri, non abbiamo avuto rumorose crisi bancarie o, ancora più semplicemente, dal fatto che, finché la gente ci crede, è meglio distribuire ottimismo che pessimismo. È però doveroso ricordare che, senza un quadro realistico della situazione, è ben difficile adottare le misure di politica economica capaci di portarci almeno verso la crescita media dei nostri maggiori competitori europei. Dato però che anche nelle situazioni più compromesse conviene sempre trovare ragioni di consolazione, non ci resta che guardare alla Spagna che per oltre dieci anni ha costruito il suo sviluppo su una crescita sconsiderata dell’attività edilizia e che, su queste fragili basi, pensava di potere stabilmente superare l’economia italiana, mentre ora, pur procedendo a passo di lumaca, la possiamo guardare con lo specchio retrovisore. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=124029 Titolo: PRODI "Bersani candidato premier ma se serve si può anche cambiare" Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2010, 12:35:14 am CENTROSINISTRA
Prodi: "Bersani candidato premier ma se serve si può anche cambiare" Così risponde a Vespa nel libro "Il cuore e la spada". "Se spuntasse qualcuno con maggiori probabilità di vittoria...". "Le divisioni del Pd hanno tenuto in piedi un governo moribondo". "Per me nessun ritorno in campo, il mio Ulivo era un'altra cosa" ROMA - Bersani va bene. Ma "se ci fosse una personalità con più chance di vittoria", il segretario del Pd potrebbe non essere il candidato premier del centrosinistra. Romano Prodi, solitamente restio ad aprire bocca sulla situazione politica italiana, affida il suo pensiero all'ultimo libro di Bruno Vespa. Lui che ha battuto due volte Berlusconi, ragiona sulla questione (tormentata) della leadership del centrosinistra: "Quando un partito si chiede come conquistare il governo la prima persona a cui pensa è il segretario. Ma se ci fosse qualcun altro con maggiori possibilità, allora si può cambiare. Prendiamo la Francia. Martine Aubry è diventata segretario del partito socialista. Ma è possibile che Dominique Strauss-Kahn abbia maggiori probabilità di battere Nicolas Sarkozy. Il segretario, insomma, deve mettere insieme il suo ruolo e la possibilità di vincere. Bersani lo può fare". In effetti sull'attuale segretario democratico il giudizio è positivo. "Negli ultimi tempi -prosegue il professore - è andato molto meglio. Per troppo tempo ha però dovuto accettare che non ci fosse nel partito nessuna disciplina. Se non hai disciplina, non hai nemmeno forza. E lo dico per esperienza". Prodi segnala, poi, il paradosso di un governo "litigioso" che ovunque avrebbe fatto la fortuna dell'opposizione. Ovunque ma non in Italia: "Le vicende faticose della formazione del Pd e la sua difficoltà a trovare coesione hanno fatto camminare per mesi e mesi un moribondo come questo governo". Quanto alle prospettive del centrosinistra, Prodi boccia l'attuale legge elettorale ("è un pasticcio"). "E' difficile mettere insieme culture coerenti che abbiano possibilità di governare a lungo. La mia linea resta comunque quella della necessità di mettere insieme tutte le forze riformiste del Paese. Altrimenti non si risolvono i problemi italiani e, inoltre, si perde" . Ha senso, quindi, parlare di Nuovo Ulivo come fa Bersani?. Prodi è cauto. "Se metti la parola nuovo ha senso tutto. Il mio era un progetto molto preciso. Cambiare l'Italia mettendo insieme le quattro tradizioni politiche del Paese: cattolicesimo democratico, socialismo, liberalismo, ambientalismo. Fine della lotta secolare tra guelfi e ghibellini. Cattolici presenti nell'uno e nell'altro schieramento con la Chiesa forte nei principi ma fuori dalle battaglie quotidiane". Un disegno che per due volte ha avuto il sopravvento sul "sogno" berlusconiano. Ma che è caduto in entrambe le occasioni. "Con questo disegno ho vinto due volte. L'elettorato perciò l'ha capito, ma non i protagonisti, non i Poteri Forti. Eppure quel disegno è ancora caro agli italiani". Impensabile, però, pensare ad una replica: Le strutture politiche sono ormai molto diverse. E perchè se vinci per due volte e per due volte non riesci a portarlo a termine diventa più difficile presentarlo agli elettori". Qualsiasi sia il futuro, Prodi non ne farà parte. Nessun nuovo esecutivo con a capo il propfessore: "Per due ragioni: la prima, non c'è una situazione politica adatta, la seconda, mi sono dedicato alla mia riacculturazione, mi sto divertendo e mi piace moltissimo quello che faccio. E poi non è vero che non c'è due senza tre". Pressioni? "Uno ha sempre degli amici che magari gli dicono una bugia...". (29 ottobre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/10/29/news/prodi_bersani_candidato_premier-8546099/?ref=HREC1-3 Titolo: PRODI «Se al tavolo dei nuovi Grandi l'Europa non conta niente» Inserito da: Admin - Novembre 08, 2010, 12:31:17 pm Prodi: «Se al tavolo dei nuovi Grandi l'Europa non conta niente»
di Romano Prodi ROMA (7 novembre) - Che il mondo stia cambiando ad una velocità senza pari ce ne stiamo accorgendo tutti. Se ne accorgono i capi di Stato e di governo, se ne accorgono gli uomini d’affari e ce ne accorgiamo anche noi, quando vediamo i prezzi dei beni e i livelli dei salari dipendere pesantemente dai nuovi rapporti di potere fra i diversi Paesi. Su questi temi l’attenzione maggiore è stata naturalmente rivolta agli eventi più appariscenti, e cioè la fine dell’esercizio solitario del primato americano, l’ascesa dell’Asia e il tramonto dell’Europa. Si è invece rimasti molto più distratti su altre trasformazioni che sono state provocate, o almeno rese possibili, dal passaggio da un mondo monopolare (cioè comandato in maniera quasi solitaria dagli Stati Uniti) ad un mondo multipolare, nel quale gli Stati Uniti rimangono il Paese più potente dal punto di vista militare ma non sono più in grado di controllare con questo solo strumento la politica mondiale. Grande è infatti la debolezza americana che deriva dall’enorme debito pubblico, anch’esso in buona parte generato dal costo (sempre meno sostenibile) di mantenere più di mille basi militari e oltre quattrocentomila soldati in tutti gli angoli del mondo. Non è stato facile per Bush e non è facile per Obama sostenere oltre la metà delle spese militari del pianeta con un prodotto lordo intorno a un quinto del Pil mondiale. Tutti sappiamo come la Cina abbia potuto avvantaggiarsi di questa nuova realtà mettendo in atto una politica a livello globale praticamente senza costi. E conosciamo bene come l’India stia scalando le posizioni della gerarchia mondiale. Pochi si sono invece resi conto di come il Brasile e la Turchia abbiano approfittato di questo quadro molto più fluido per affermare un loro ruolo forte e autonomo nel mondo. Considero insieme questi due Paesi perché, pur nella loro diversità, essi hanno messo in atto una strategia assai simile fra di loro. Brasile e Turchia sono stati per decenni obbedienti ma indispensabili alleati degli Stati Uniti. Indispensabile il Brasile per impedire il dilagare di una deriva populistica di tipo cubano o venezuelano in tutta l’America Latina. Indispensabile in passato la Turchia come baluardo orientale della Nato nei confronti dell’Unione Sovietica e, nel presente, come elemento di stabilità dell’inquieto Medio Oriente. Forti di un prolungato periodo di sviluppo economico entrambi questi Paesi hanno fatto leva sulla loro indispensabilità per mettere in atto una politica di crescente indipendenza dagli Stati Uniti e diventare vere e proprie potenze regionali. Il Brasile ha esercitato con forza crescente una funzione di arbitro nelle controversie del Centro e del Sud America e Lula, nei suoi otto anni di presidenza, ha compiuto ben nove viaggi nel continente africano. Lula ha visitato oltre venti Paesi africani, rafforzando e moltiplicando ovunque le proprie rappresentanze diplomatiche, ormai per importanza quasi ovunque superiori a quelle europee. La Turchia, da baluardo dell’Occidente, è diventato un giocatore a tutto campo adottando la dottrina di non avere alcun nemico tra le nazioni vicine, indipendentemente dall’opinione del governo americano. Non ci si deve perciò stupire se Brasile e Turchia abbiano finito col mettersi assieme per attenuare l’isolamento dell’Iran nella delicata controversia nucleare. Con queste decisioni questi due Paesi non hanno abbandonato il campo occidentale per passare ad altre alleanze, come alcuni superficiali osservatori hanno ripetutamente osservato. Essi hanno semplicemente approfittato dei cambiamenti nei rapporti di forza per affermare un loro ruolo sempre più autonomo nella nuova politica e nella nuova economia mondiale. Nel caso della Turchia la coscienza della propria autonomia sta anche affievolendo la spinta e il desiderio dei cittadini e del governo turco di divenire membri dell’Unione Europea. Tutto questo potrà anche allentare le tensioni sorte all’interno di molti Paesi europei riguardo all’adesione della Turchia all’Unione ma, in mancanza di una qualsiasi nostra politica, non potrà che indebolire ulteriormente il ruolo dell’Europa nel Mediterraneo e in tutto il Medio Oriente. Nel caso del Brasile, ormai uno dei grandi detentori di prodotti agricoli e di materie prime, ci dobbiamo anche aspettare una politica sempre più autonoma nelle già difficili trattative sulle nuove regole del commercio internazionale. Turchia e Brasile non sono a mio parere casi isolati ma solo due esempi del grande terremoto nei rapporti di forza dell’economia e della politica mondiale. Dalla Turchia e dal Brasile questi movimenti tellurici si estenderanno ulteriormente, moltiplicando il numero degli attori presenti sul palcoscenico mondiale. Peccato che tra i nuovi attori difficilmente troveremo l’Europa, i cui i grandi Paesi sono tutti dedicati a marcarsi a vicenda senza capire che la loro paralisi reciproca li obbligherà a scendere definitivamente dal palcoscenico. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=125799&sez=HOME_ECONOMIA Titolo: PRODI Pd, Prodi torna in campo e pensa al Colle "Risveglio possibile ... Inserito da: Admin - Novembre 21, 2010, 11:36:42 am Il personaggio
Pd, Prodi torna in campo e pensa al Colle "Risveglio possibile, serve un nuovo impegno" Il Professore giovedì a un seminario dei deputati democratici in un monastero. Franceschini: da lui contributo unico di MARCO MAROZZI BOLOGNA - Tutto è cominciato con una messa solenne. E adesso si parla già di miracolo, "il ritorno di Prodi". Il luogo dove "l'ex premier tornerà ufficialmente in campo con il Pd" è un un monastero medioevale tra la val di Chiana e la val d'Orcia, l'abbazia di Spineto, a Sarteano, provincia di Siena. Giorno fissato, giovedì 25 novembre. Il Professore sarà relatore del seminario organizzato da Dario Franceschini per i deputati del Partito democratico. Raduno ufficialmente a porte chiuse, in realtà i confini sia dei partecipanti - attesi anche vari senatori - che dei temi, saranno fluidi. ''Le proposte del Pd e l'iniziativa parlamentare'' è il titolo onnicomprensivo scelto per un appuntamento che si dipana fino a venerdì 26. Romano Prodi il 25 novembre alle cinque del pomeriggio parlerà su ''La globalizzazione dopo la crisi''. Di nuovo tema professoralmente asettico. In realtà la freddezza dei toni cerca di coprire i fuochi di speranza che stanno dietro la chiamata di Prodi. Non a caso la notizia, parlando di "ritorno", è stata diffusa da Roma. Tutto parte da un viaggio di Prodi a Ferrara: 31 ottobre, domenica, si celebrano in Duomo i 50 anni di sacerdozio del vescovo Rabitti. Prima della lunga messa, Prodi fa un salto nello studio lì accanto di Franceschini. Chiacchiere molto amichevoli, ma molto decise sulla politica italiana. "Verresti..." lancia l'ex segretario Pd. L'altro ci pensa, poi qualche giorno dopo accetta. Lontani i tempi dell'ira anti Veltroni dopo la caduta, le divisioni delle primarie quando Prodi appoggiò Bersani contro Franceschini, stimato ma - ahilui - vice di Veltroni. Nuova fase. Anche se a Bologna ancora ieri a pranzo l'ex presidente del Consiglio di ritorno da un convegno milanese delle Acli rideva: "L'applauso più grande l'ho avuto quando ho detto che non avrei parlato di Italia". Prodi insiste: "Con la politica attiva ho chiuso. Ora giro per il mondo a insegnare, un lavoro bellissimo". La presenza del fondatore dell'Ulivo nel convento sarà comunque un messaggio forte. Di rilevanza politica. Anche se calibrato, dallo stesso Prodi e da chi l'ha invitato. "E' un'occasione fuori dai temi della cronaca. - dice Dario Franceschini - Si parlerà di politica, ma non della politica quotidiana. Si cercheranno di approfondire temi di alto respiro e Prodi porta un contributo unico ad un ragionamento sulla situazione europea e mondiale". "E di contributi così ne abbiamo molto bisogno, - chiosa David Sassoli, capogruppo Pd all'Europarlamento - oltre tutto in un passaggio storico che potrebbe segnare la fine del populismo berlusconiano". Nella due giorni del Pd ci saranno Giuliano Amato, professori, giornalisti. Chiuderà Pier Luigi Bersani. Non incontrerà Prodi, ma il fatto è di importanza relativa. L'ex presidente del Consiglio e della Commissione Ue, pur godendosela a fare il pensionato globe trotter, si muove ormai da grande battitore libero nel sistema politico italiano. Parla di "processo di transizione finito in un pantano". Di "crisi culturale, morale e politica". I suoi sognano una strada verso il Quirinale, se nel 2013 il quadro politico sarà meno sfavorevole. "L'obiettivo è unire e non dividere" dice lui, dipingendo in toni drammatici la crisi "politica ed istituzionale". Rilancia un concetto di Maritain e De Gasperi che da premier gli costò molti attacchi: "cristiano adulto". "Un cristiano sostenuto dalla fede religiosa e dalla passione per gli uomini". Invita a trovare "i punti di evoluzione, di cambiamento, di dialogo, a comprendere le ragioni del comportamento degli altri". Citando Benigno Zaccagnini ammonisce: "Se siamo dentro la società e siamo capaci di rinnovarci, allora sì, possiamo influire sul comportamento della gente". "C'è oggi bisogno di richiami forti, per un nuovo impegno, - dice - per rinnovate fedeltà alla nostra ispirazione cristiana, per nuove responsabilità storiche. Magari per sperimentare nuovamente la contraddizione tra il nostro essere testimoni e il nostro essere responsabili. C'è bisogno di un richiamo, che non sempre arriva da chi lo dovrebbe inviare, di una nuova attenzione sul piano dei valori, sul piano della coerenza personale". Chiama a ripartire: "Costruire una buona società è ancora possibile. Risvegliare la dignità in questo nostro paese è ancora possibile. Riportare l'Italia di fronte alle sue responsabilità morali e politiche è ancora possibile". (21 novembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/11/21/news/prodi-9334518/?ref=HREC1-5 Titolo: PRODI "Ora la missione dell'Europa è di guardare verso Sud" Inserito da: Admin - Marzo 01, 2011, 11:01:31 am Esteri
01/03/2011 - INTERVISTA Prodi: "Ora la missione dell'Europa è di guardare verso Sud" «Serve una partnership per far germogliare i semi della democrazia» FABIO MARTINI ROMA Da presidente del Consiglio e da incaricato dell’Onu, Romano Prodi è stato spesso in Maghreb e in Medio Oriente, conosce tutti i leader, continua a parlare con diversi potenti del mondo e in queste ore si è fatto un’idea: «L’Europa? In quest’area, in queste settimane, sta perdendo ulteriormente terreno. E invece si sta concretizzando una ripresa di influenza da parte degli Stati Uniti. Dopo aver a lungo sostenuto il governo-chiave di tutta l’area, l’Egitto, gli americani si sono schierati a favore del cambiamento e lo hanno fatto rapidamente. Non è privo di significato il fatto che in Tunisia la gente in piazza sventolasse la bandiera americana e bruciasse quella di un grande Paese europeo». Quando è scoppiato l’incendio in Tunisia, lei ha detto: attenti all’Egitto... «Sì, perché l’Egitto è la chiave di tutto. Lo è per dimensioni, numero di abitanti e per posizione strategica. Ma soprattutto - e questo viene spesso dimenticato - perché è il Paese delle grandi università, della profondità del pensiero islamico. E attraverso queste università l’Egitto influenza tutta la fascia subsahariana che arriva fino all’Oceano Atlantico. Le città costiere del Nord Africa oramai sono città di diplomati e laureati senza un futuro». Nell’Università del Cairo, nel giugno del 2009, Barack Obama - Presidente afroamericano dal nome islamico - disse che la democrazia non si esporta ma che gli Stati Uniti sono al fianco di chi la anela. Gli americani hanno una «dottrina» per quest’area. L’Europa? «Il discorso del Cairo era stato meraviglioso ma aveva lasciato un po’ di frustrazione perché non era stato seguito da azioni. L’Europa? L’opinione diffusa nel Medio Oriente che ti senti ripetere è questa: voi europei siete i numero uno per i rapporti commerciali e negli investimenti, ma politicamente non contate nulla». In un editoriale per «La Stampa», l’ex direttore dell’«Economist» Bill Emmott ha proposto che l’Ue, come nei suoi momenti migliori, dovrebbe saper cavalcare proposte anticipatrici, in questo caso l’espansione dell’Unione alla costa meridionale del Mediterraneo: che ne pensa? «Mi sembra un intervento interessante. E non soltanto perché riprende una proposta che nel 2003 avevo fatto come Presidente della Commissione Europea. Dopo il fulmineo allargamento verso Est, dicevo: la storia ci ha spinti verso il Nord, ora dobbiamo andare verso il Sud». Emmott suggerisce forme diverse di adesione... «Siamo d’accordo. La proposta della Commissione che confidenzialmente chiamammo allora “l’anello degli amici” e in modo strutturato “politica di vicinato”, sostanzialmente diceva questo: tutti i Paesi confinanti con l’Europa - la Bielorussia e l’Ucraina ma anche Israele, la Libia, l’Algeria, l’Egitto, la Siria e Libano - se vogliono, nei prossimi decenni potranno condividere tutte le regolamentazioni europee (mercato interno, politiche culturali e di ricerca) ma non le istituzioni. Un cammino previsto per tutti, ma che con realismo si proponeva di contrattare con ogni singolo Paese. Non se ne fece nulla. Il Nord Europa non ci voleva sentire». Oggi, davanti al terremoto in corso, quella proposta può riprendere forza? «Certo. L’idea più realistica sarebbe quella di evitare di mettere assieme tutti i Paesi in un colpo solo. Bisogna fare uno schema aperto che consenta a ciascuno di accostarsi adagio adagio». Sembra comunque una chimera... «Il vero problema è che oramai da diversi anni il bilancio europeo - lo 0,96% del prodotto lordo - viene tenuto su un livello inadatto per operazioni di questa portata. Ma c’è problema ancora più grande che impedisce di volare alto... Quale? «La politica nel Mediterraneo dovrebbe essere sentita come politica comune europea. Ma così non è, neppure davanti all’emergenza. Non c’è alcun richiamo a impegni di lungo periodo». Forse un terremoto ancora più grande di quello in corso potrebbe aprire gli occhi ai Paesi del Nord Europa? «Attenzione: il terremoto è già avvenuto! Qui abbiamo dei semi di democrazia e il momento della coltivazione è questo, perché se la democrazia va avanti aiutata solo dagli americani, ogni intervento nostro a posteriori sarebbe vano. Un intervento europeo è urgente. Il momento è adesso. Anche perché in situazioni come questa c’è sempre un grosso rischio». Quale? «Tutti quelli che hanno cominciato il cambiamento potrebbero venir messi in un angolo: vedete stiamo peggio di prima». L’allargamento dell’Ue all’Est fu un investimento rischioso: è servito a tamponare il sentimento verso lo “stavamo meglio quando stavamo peggio”? «Certo. Dopo il fulmineo allargamento ad Est, ricordo il rimprovero: perché con loro siete stati così rapidi? È vero, li aiutammo ad entrare. Ma è così che si aiuta la democrazia. Sono orgoglioso di quel che facemmo: l’allargamento è stato l’unico vero episodio di esportazione della democrazia nel mondo. L’unico. Ed ha funzionato». da - lastampa.it/esteri Titolo: PRODI La gente mi ferma in strada e mi dice torna Inserito da: Admin - Marzo 02, 2011, 12:33:48 pm In una intervista a Famiglia Cristiana
Prodi: «La gente mi ferma in strada e mi dice torna» L'ex presidente del Consiglio: «Devo andare a messa la mattina presto» MILANO - «Ormai non posso nemmeno scendere in strada. La gente mi riconosce e mi chiede: Torna, torna. Lunedì mattina ero a Mantova e sono andato alla messa del mattino, per evitare di essere avvicinato. Ma in quel caso un gruppo di fedeli anziani mi ha circondato e mi ha chiesto di tornare a guidare questo Paese». È quanto racconta Romano Prodi in una intervista a Famiglia Cristiana. PRIVATO È ANCHE PUBBLICO - Rispondendo poi alla domanda se è necessario che un politico tenga una condotta morale dignitosa, Prodi ha risposto: «L'uomo politico deve essere giudicato dai fatti. Ma tra i fatti c'è prima di tutto l'esempio. L'esempio di un politico incide sui comportamenti quotidiani di tutti. Profondamente. Ancora più oggi, anche in virtù dei mezzi di comunicazione, il comportamento personale è sempre più un comportamento pubblico». Prodi, pur senza nominarlo, ironizza con monsignor Rino Fisichella, che dopo la bestemmia da parte di Berlusconi aveva detto che andava «contestualizzata». «Fin da ragazzo, mi è stato insegnato da autorevoli uomini della Chiesa che non si può agire con la morale a seconda delle situazioni. Quando sento dire che certi atti dipendono dal contesto mi chiedo: cos'è cambiato dall'insegnamento che ho avuto a oggi? Conservo ancora gli appunti di quegli insegnamenti». È TEMPO DI UNA DONNA A PALAZZO CHIGI - È venuto «da tempo» il momento per vedere una donna salire a Palazzo Chigi. «Anzi - ha detto l'ex presidente del Consiglio - direi che è proprio strano che questo momento non sia ancora venuto. Abbiamo una presidente di Confindustria donna, il segretario della Cgil donna, abbiamo avuto più di un presidente della Camera donna. Prima o poi arriverà. Pensi a quanto era lontana la Germania dall'avere un cancelliere donna!». GHEDDAFI - Romano Prodi rivendica a sè il ruolo di aver «sdoganato» Gheddafi in Europa, ai tempi in cui presiedeva la Commissione Europea, ma ricorda di non aver voluto siglare da premier il Trattato di amicizia con la Libia perché troppo «oneroso» per l'Italia; e comunque non avrebbe accettato «le umiliazioni» che poi il Colonnello ci ha riservato. Prodi invita l'Italia e l'Europa a sostenere le classi democratiche che si stanno imponendo nel Nord Africa, anche per evitare il rischio di «esodi biblici»; al momento non ci sono avvisaglie, ma, esorta Prodi «è meglio prepararsi». Redazione online 01 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica Titolo: PRODI «La Costituzione non si modifica a convenienza». Inserito da: Admin - Aprile 25, 2011, 12:10:02 pm Prodi: «La Costituzione non si modifica a convenienza».
L'Idv: «No a rigurgiti fascisti» 25 aprile tra vandalismi e polemiche Ma Rotondi: «E' un patrimonio comune» Il ministro per l'Attuazione del programma: pregherei gli amici del centrodestra di rispettare la ricorrenza MILANO - Addobbi dati alle fiamme nel Milanese, manifesti con i fasci littori a Roma. E in provincia di Rieti, a Poggio Bustone, paese di origine di Lucio Battisti, è stata divelta la lapide che ricorda un eroe partigiano, Emo Battisti. La vigilia del 25 aprile, data in cui si celebra la Liberazione dell'Italia dall'occupazione nazista, quest'anno è carica di tensioni. Diversi esponenti del centrodestra sono intervenuti nelle ultime ore per prendere le distanze da una celebrazione considerata una festa di parte. Ma dal governo arriva l'invito del ministro per l'Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, a non cedere alla tentazione della polemica e a concentrarsi sul valore intrinseco della ricorrenza: «Pregherei alcuni amici del centro-destra di godersi la Santa Pasqua e di rispettare domani il 25 aprile, che è la festa di tutti gli italiani liberati dall'oppressione fascista». «NO A RIGURGITI FASCISTI» - Per il portavoce dell'Italia dei Valori, Leoluca Orlando, «bisogna ricordare il 25 aprile per sradicare gli allarmanti rigurgiti fascisti testimoniati anche dagli indegni manifesti apparsi a Roma. Il 25 aprile deve essere un patrimonio comune a tutte le forze politiche democratiche e ognuno deve condannare fermamente gli attacchi alla Costituzione che si sono pericolosamente ripetuti negli ultimi giorni. La vittoria sul nazifascismo dalla quale è scaturita la nostra Carta costituzionale è nel dna della nostra forza politica e i membri delle istituzioni devono far fronte comune per difendere questo bene prezioso ultimamente troppo spesso minacciato». «RISPETTARE LA COSTITUZIONE» - Del 25 aprile ha parlato anche Romano Prodi, in un'intervista al Messaggero: «Per avere un nuovo 25 Aprile dobbiamo riacquistare il senso di un destino comune. Il che significa rispettare lo spirito dell'Assemblea Costituente e ritrovare il valore delle regole, come esse sono scritte nella nostra Costituzione». Parlando della Carta fondamentale della Repubblica, l'ex premier ha sottolineato che le sue regole «non possono divenire uno strumento di sopraffazione e che non possono essere mutate a seconda della nostra convenienza. Non avere paura significa avere fiducia nella nostra capacità di trovare in questo momento di gravissima crisi la solidarietà necessaria per convincere tutti gli italiani che la ricostruzione civile ed economica dell'Italia sarà portata avanti dai sacrifici di tutti ma dagli sforzi proporzionati alle spalle di chi li deve compiere. Proprio come apparve possibile il 25 Aprile del 1945, in un'Italia pur ancora dilaniata dagli odii e dalle divisioni». LE CELEBRAZIONI - Intanto nelle principali città italiane si stanno preparando i palchi per le celebrazioni ufficiali della Liberazione. A Milano il corteo partirà da porta Venezia e si snoderà fino a piazza Duomo e vedrà tra i partecipanti il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso; il leader del Pd, Pier Luigi Bersani e il sindaco Letizia Moratti, che tuttavia non sfilerà ma sarà presente solo nella parte finale. A Roma invece l'appuntamento principale sarà quello del mattino, con la deposizione di una corona d'alloro all'Altare della Patria da parte del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Alla cerimonia parteciperanno anche il sindaco capitolino Gianni Alemanno e il presidenti di provincia e regione, Zingaretti e Polverini. Redazione Online 24 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica/11_aprile_24/ Titolo: PRODI «Paese offeso, servono sindaci coraggiosi» Inserito da: Admin - Maggio 15, 2011, 10:14:06 pm Prodi: «Paese offeso, servono sindaci coraggiosi»
di Claudio Visani Voleva esserci Romano Prodi venerdì sera su quel palco in Piazza Maggiore a Bologna. La piazza delle vittorie del centrosinistra. Lì festeggiò il 23 aprile 1996, arrivando in pullman da Roma tra l'entusiasmo dell'allora popolo dell'Ulivo. E lì tornò l'11 aprile 2006, la sera dopo la seconda vittoria su Berlusconi: vittoria “triste” quella volta alla guida dell’Unione, per appena 20mila voti e solo alla Camera. Voleva esserci per mandare un segnale all'Italia «offesa dalla volgarità di Berlusconi»; per la sua città che «pur avendo perso colpi, nel confronto con le altre se la cava ancora piuttosto bene»; per spazzare via i dubbi che qualcuno «interessato a dividere» aveva sparso sul suo presunto sostegno tiepido al candidato del centrosinistra, Virginio Merola. Così appena conclusa la “lectio magistralis” tenuta a La Spezia, nel tardo pomeriggio, ha salutato tutti e si è precipitato a Bologna. Quando è salito sul palco con Bersani, Errani e Merola, a metà comizio, la sorpresa è stata salutata da un'ovazione dai 15-20mila della piazza. Professore, cosa risponde a chi ha parlato di un Prodi freddo con Merola? «C'è sempre chi ha interesse a dividere, qualcuno che ci prova. Ma il sostegno a Merola è senza riserve. A Bologna bisogna vincere, e vincere già al primo turno. Il mio impegno è questo. Per Bologna e per il Paese. Soprattutto adesso che la campagna elettorale è diventata una sorta di referendum generale, con una valenza politica nazionale evidente». Una campagna elettorale avvelenata, col Premier impegnato al massimo a colpire i candidati del centrosinistra e a dispensare promesse improbabili.... «Gli ultimi giorni di Berlusconi sono stati una roba incredibile, offensivi della dignità dell’Italia. Dall'uscita su “quelli di sinistra che non si lavano”, al disprezzo per le persone fino all'annuncio sulle case abusive che non si devono abbattere. Ovunque è andato ha portato ulteriori punte di volgarità. La volgarità è diventata la sua bandiera, che ci fa vergognare nel mondo. Per questo dobbiamo impegnarci, votare. Dobbiamo vincere per salvare la dignità di questo Paese dalla volgarità del Premier». Quanto peserà il voto nelle città sulla tenuta di Governo e maggioranza? «È un voto che può incidere molto. Il braccio di ferro più simbolico è quello di Milano e Napoli. Ma anche Bologna avrà un peso: da qui può partire un segnale forte al Paese». C’è chi sostiene che è già cambiato il vento nel Paese. Lei ci crede? «Purtroppo non è ancora così, ma penso che l’aria non tarderà molto a cambiare. La crisi è pesante. Stanno aumentanto le iniquità. E cresce la distanza tra il Governo e il Paese. Le elezioni amministrative possono dare una mano a fare maturare in Italia la volontà di voltare pagina». Come giudica la campagna elettorale di Bologna? «Mi pare che qui sia stata meno indecente che altrove. Salvo le battute da piccolo trivio su Merola-Alì Babà (Tremonti per marcare le origini meridionali del candidato. E Bersani ha replicato: «Sempre meglio Alì Babà dei 40 ladroni», ndr) e sul governo della sinistra a Bologna equiparato alla mafia (Stefania Craxi, ndr), direi che è stata corretta. E la coalizione di centrosinistra è andata in crescendo, col tempo ha preso vigore». La macchina del fango però è in azione, a Milano come a Bologna. Qui i “grillini” hanno dipinto un Merola alticcio e psichicamente instabile, e il “Resto del Carlino” ha pubblicato l’intervista a uno psichiatra sulla stanchezza del candidato... «A Bologna più che la macchina del fango mi è sembrato di vedere squallore umano, di sentire qualche voce dal sen fuggita. A Milano è diverso: lì è chiaro che l'attacco della Moratti a Pisapia è stato pianificato dagli spin doctors». Nel Paese c'è disaffezione per la politica, anche nei confronti del Pd. A Bologna dopo Delbono il centrosinistra teme l'astensione e il voto a Grillo. Pensa che sia un timore fondato? «A vedere la piazza di venerdì sera non direi. Nel centrosinistra siamo abituati agli esami continui, ma non mi pare ci sia uno specifico bolognese. La disaffezione è un fenomeno generale, riguarda l'Italia, la crisi del Paese e della politica alimentata dagli anni di Berlusconi». Bologna però ha perso colpi... «E' vero, li ha persi. Ma se la paragoniamo ad altre città se la cava ancora bene. Certo, un tempo Bologna era un simbolo mondiale. Ora è una città più normale, costretta alla lotta dura per non arretrare, falcidiata in modo micidiale dai tagli, con poche risorse a disposizione per garantire i servizi e le innovazioni del passato». Cosa serve perché Bologna torni ad essere Bologna? «Il coraggio. La voglia di sfidare il mondo, di rimettersi in gioco. Senza avere paura della internazionalizzazione. Puntando sull'Università, i saperi, la ricerca, che restano i nostri “francobolli” nel mondo». Benigni ha detto che Bologna è sempre stata una buona fabbrica di sindaci. Report ha mostrato una città non più all'altezza, con candidati sindaco in grigio. Lei come lo vede Merola? «Prima facciamolo diventare sindaco. Poi vediamo se la fabbrica ha funzionato. Io penso che farà bene. Certo, lo aspetta un compito difficile, più difficile degli ultimi che l’hanno preceduto. Per questo, come ho detto sul palco, nei giorni feriali dovrà stare sul pezzo come un metalmeccanico e la domenica dovrà celebrare come un parroco». 15 maggio 2011 da - unita.it/italia/prodi-paese-offeso-servono-sindaci-coraggiosi-1.293343 Titolo: PRODI La nuova corsa di Prodi "Sono pronto ad aiutare" Inserito da: Admin - Maggio 15, 2011, 10:14:53 pm L'INTERVISTA La nuova corsa di Prodi "Sono pronto ad aiutare" Parla il "traghettatore": Gli eredi dell'Ulivo non possono continuare a litigare fra loro. O si crea un'alternativa responsabile o non si vince" di MARCO MAROZZI BOLOGNA - Ai suoi compagni di bicicletta spiega: "L'importante è non perdere il contatto con il gruppo. Guardando il gruppo di testa e non perdendo per strada gli ultimi. Nella prima gara della mia vita io sono arrivato dodicesimo. Ma primo è arrivato uno che si chiama Adorni. Dici poco. E da allora siamo sempre rimasti in contatto. Qualcuno più bravo in una cosa, qualcuno in un'altra. Io non vinco le volate, però non mollo mai e alla fine ci sono". Romano Prodi ama la bici e le metafore a pedali. È a cavallo di una bicicletta che si può spiegare quel che sta avvenendo con Prodi in politica. "Non perdere i contatti. Poi si vedrà". Non lo dice lui, lo raccontano quelli che lo cercano. Nessun ritorno alla politica del giorno per giorno. L'ex presidente del Consiglio e della Commissione Ue se la gode a fare il pensionato globe trotter, fra lezioni e incontri, dagli Usa alla Cina, dal Kazakistan a Parigi. Diventerà nonno per la sesta volta, terzo nipote maschio. Però soffre a ogni sgarbo, ogni dimenticanza italiana. Così ogni tanto ritorna. "L'obiettivo è unire e non dividere". Non pensa più a una "corsa", come quella del 1996 o del 2006. Ma a qualcosa che non lo "stacchi" dal gruppo che in questo momento comanda il giro. Sa che tra due anni può cambiare tutto. Tant'è che i "suoi" delineano una strategia verso il Quirinale, nel 2013. Si tratta di scenari politici che devono cambiare, di alleanze e preferenze da costruire. Ufficialmente lui si chiama fuori da tutto. Ma, appunto, si ritaglia il ruolo di "Grande Vecchio" in un'opposizione che non trova risposte al Berlusconi declinante. Vede Enrico Letta, vede Pier Ferdinando Casini. Sente Pier Luigi Bersani. Lo cercano. Lui sul suo sito web mette un programma Sky su "Mortadella batte Nano Pelato due a zero". Lo evoca Nichi Vendola, volto almeno in parte nuovo, che propone qualcosa che assomiglia alla sconfitta Unione prodiana: il Professore tiene le distanze anche per non creare problemi di leadership al Pd a cui è iscritto e che ama anche se diverso da come l'aveva concepito. Nostalgia, progetto, bisogno di un traghettatore o almeno di un grande consigliere per un blocco senza leader. "Io ci sono sempre per aiutare", va ripetendo. È su questa scia che si è presentato a fianco di Pier Luigi Bersani all'ultimo comizio della campagna bolognese. È su questa scia che bacchetta e insegna. "Gli eredi dell'Ulivo non possono continuare a litigare fra loro" dice alla sinistra. Usa le stesse parole di Giorgio Napolitano. "O si crea un'alternativa responsabile o non si vince". A Bologna, dopo essersi ignorato per mesi (ricambiato) con il candidato Virginio Merola, alla fine chiama a "una maggioranza forte e chiara". Il sostegno finale nella "mia città" è esploso dopo che alle primarie la moglie e la portavoce avevano sostenuto una antagonista all'uomo Pd. "Uniti o suicidi" dice Prodi ai sindacati divisi. "Serve una visione dell'economia diversa" insegna alle coop. Ride ai blog di Corrado Guzzanti che lo rappresentano "fermo come un semaforo", ripete di essere un diesel. Guarda ed aspetta. "E ogni tanto, quando è fuori da troppo tempo, dà una pedalata e raggiunge gli altri. Non è tanto difficile", sospirano i suoi. Lui tace. È una rete quella che Prodi periodicamente tenta di non perdere. Una rete che ancora una volta sembra cercarlo. Prodi ripete di venire da "una stagione finita". Sa benissimo che chi l'ha voluto e subito avversato, è ancora lì. A 72 anni, nonostante l'alta convinzione di sé, non si illude che il passato ritorni. "Tornerebbero ad attaccarmi" ha sospirato quando in una Bologna senza guida eppure sempre città-simbolo molti avevano insistito perché facesse il sindaco di progetto, passaggio e formazione di un nuovo gruppo dirigente. Ha detto no, con qualche magone. Adesso si muove nella stessa aspettativa rispetto al quadro italiano. "Serve un ricambio" ripete, pur non amando il fiorentino Renzi, definendosi "nonno e pensionato", osservando Montezemolo e Mario Monti. Non perdere i contatti, lontano-vicino, essere vissuto come traghettatore fra passato e futuro. Questo è il Prodi 2011. Con qualche vezzo. A Merola ha detto che "il sindaco deve stare nei giorni feriali al pezzo come un metalmeccanico, mentre nei festivi deve celebrare come un parroco". Al sindaco precedente, Flavio Del Bono, aveva detto di "avvitare e dipingere Bologna". Del Bono, prodiano di ferro, è durato qualche mese, poi si è dimesso per guai di donne. Ma come tutti quelli che non vogliono "perdere il contatto con il gruppo", è sempre pronto al rish finale. (15 maggio 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/politica/2011/05/15/news/ Titolo: PRODI Consigli a Berlusconi? No, sono troppo giovane per uno così Inserito da: Admin - Maggio 31, 2011, 03:43:30 pm Poi nega un suo possibile ritorno in politica: «Ho preso una decisione e la mantengo»
Prodi: «Consigli a Berlusconi? No, sono troppo giovane per uno così» L'ex premier in piazza a Roma con Bersani. «Mezz'ora per gioire, ma poi subito al lavoro per il Paese» MILANO - «Consigli a Berlusconi? Sono troppo giovane per dare consigli a un politico maturo come Berlusconi». Romano Prodi ha l'umore giusto per scherzare parlando con i giornalisti a margine di un evento di ItalianiEuropei a Roma. Invitato a commentare i risultati del voto, con l'esito negativo per il centrodestra, ha spiegato: «Hanno perso perchè non hanno capito come va il mondo. La vittoria va consolidata riflettendo, lavorando, mettendo in piedi le cose. Abbiamo perso dove eravamo divisi e quindi serve capire il mondo e andare uniti». E quanto ad un suo possibile ritorno sulle scene politiche: «Sono un sostenitore del centrosinistra, ma ho preso una decisione e la mantengo». Prodi in piazza per festeggiare Prodi in piazza per festeggiare Prodi in piazza per festeggiare Prodi in piazza per festeggiare Prodi in piazza per festeggiare «SUBITO AL LAVORO» - «Quando arrivano cambiamenti così grandi aumentano le responsabilità - ha poi aggiunto rivolgendosi al centrosinistra e al leader del Pd, Pier Luigi Bersani, che gli stava a fianco -. Quindi mezz'ora per gioire e poi cominciare subito un lavoro di organizzazione, di compattamento, di programmi per il cambiamento del Paese». «Il Paese va cambiato a fondo - ha detto ancora l'ex premier ai cronisti - va cambiato con una operazione di grande respiro che non può essere improvvisata in un giorno, altrimenti questo vento diventa tempesta». «Se fosse stata la vittoria in un'unica città - ha proseguito - poteva essere un momento di esitazione; invece un successo così generale, soprattutto al nord, è segno di una grande stanchezza ed insoddisfazione per quello che c'è. Questo non vuol dire che sia immediata la possibilità di cambiamento. Occorre un cambiamento robusto e su linee di azione ben precise, quindi è oggi il momento di cominciare a lavorare». «NON MI OCCUPO DI TATTICA» - I cronisti hanno domandato quale dovrebbe essere a suo giudizio l'assetto delle alleanze del Pd: «Di queste cose - ha replicato Prodi - non mi occupo. Più che alla tattica politica cerco di riflettere sul lungo periodo. Il problema nostro non è tattico, bensì capire quali sono le soluzioni per un paese che ormai ha paura del suo futuro, che non riesce a prendere decisioni sui fatti più elementari, in cui ognuno è capace di bloccare gli altri ma nessuno è capace di far correre gli altri. Quello che io voglio è che l'opposizione di oggi, che può essere al governo domani, si presenti con delle concrete soluzioni». 30 maggio 2011 da - corriere.it/politica/speciali/2011/elezioni-amministrative-ballottaggi/ Titolo: PRODI: GOVERNO DEBOLE, ITALIA BASTONATA! Inserito da: Admin - Luglio 11, 2011, 07:21:15 am Prodi: governo debole, Italia bastonata
di Francesco Cundari L'allarme per l’attacco della speculazione contro l’Italia si inserisce nel contesto della crisi dell’Europa, dice Romano Prodi, ma se in questo quadro l’Italia ha preso «la bastonata più forte» è perché «lo scossone europeo ha coinciso con un momento di grande debolezza e di fortissime tensioni interne al governo italiano». Negli ultimi anni Romano Prodi ha scritto molto e parlato poco. Ha partecipato al dibattito pubblico più attraverso articoli e interventi d’occasione che attraverso interviste. In questo caso, l’occasione è offerta dagli auguri che l’ex presidente del Consiglio e della Commissione europea ha voluto fare al nuovo direttore dell’Unità, «tanto più doverosi in un momento così difficile per la stampa quotidiana». Certo non è un momento facile nemmeno per l’Italia nel suo complesso. Qual è la sua impressione, all’indomani del tracollo della borsa e dei titoli di stato sui mercati? «Sono problemi che partono da lontano. Pesa, in particolare, l’incapacità della leadership europea di affrontare i problemi della moneta unica. Ormai è più di un anno che si continua a rinviare, lasciando così uno spazio indebito alla speculazione internazionale, che certo non ha bisogno di incoraggiamenti per farsi avanti. Ma se in questo quadro l’Italia ha ricevuto la bastonata più forte il motivo è che lo scossone europeo ha coinciso con un momento di grande debolezza e di fortissime tensioni interne al governo italiano: le polemiche fra ministri e fra partiti hanno dato un messaggio di sbandamento che è una vera manna per chi vuole giocare al ribasso. Certo, le debolezze strutturali dell’economia italiana costituiscono il problema di fondo, ma in questo caso i fattori politici sono stati determinanti». Non ritiene che nella fragilità di tanti paesi dell’Unione sottoposti agli attacchi della speculazione abbiano avuto un peso anche fattori politici europei? «Il problema è l’atteggiamento del tutto contraddittorio da parte dei governi e dei leader politici: sanno benissimo che è interesse dei loro Paesi, Germania compresa, che l’euro rimanga saldo, ma ognuno di loro insegue il populismo di casa propria, rendendo così il problema sempre più grave. Io penso che alla base vi sia una mancanza di leadership, perché leadership significa fare le scelte necessarie anche se sono sgradevoli. In Europa, invece, si tende a compiere scelte gradite all’elettorato oggi, anche se nefaste per il domani». Sembra di capire che il suo giudizio sulla gestione della crisi dei debiti pubblici e in particolare della vicenda greca non sia troppo positivo. «In fondo la dottrina dominante è consistita nel rinvio continuo, nel prendere anche minime decisioni sempre l’ultimo giorno utile, facendo così diventare enormi problemi che affrontati per tempo sarebbero risultati tutto sommato modesti. Alla base di questa dinamica, purtroppo, sta una fiducia molto fragile nell’Europa. Non si vuole comprendere che l’Europa non può essere costruita a metà. Fatta la moneta unica, manca la metà delle grandi decisioni politiche, a partire dalla politica estera. Soprattutto, non funziona il cosiddetto motore a due cilindri franco-tedesco. Non funziona assolutamente». Per quale ragione? «Da un lato non vi è armonia tra questi due grandi protagonisti della politica europea, Francia e Germania. Dall’altro, essi stessi non si fanno carico della responsabilità che hanno nei confronti degli altri Paesi dell’Unione. Nei consigli europei si è creato un clima quasi di estraneità, mentre la Commissione è stata privata della gran parte dei suoi poteri. Solo il Parlamento, lentamente e negli ancora ristretti limiti delle sue competenze, sta assumendo un ruolo più incisivo». È immaginabile, in questo quadro, che i partiti progressisti europei, a cominciare naturalmente dal Pd, possano elaborare una strategia o almeno definire i principi di fondo di un progetto comune? «Questo appartiene ai miei desideri, non certo alle mie previsioni». Pensa che le attuali difficoltà dipendano anche dal modo in cui l’Europa ha affrontato la grande crisi del 2008? «La crisi ha semplicemente fatto scoppiare problemi che in Europa erano già presenti. Dopo gli anni in cui abbiamo costruito con coraggio il mercato unico, l’allargamento, l’euro, negli ultimi anni siamo entrati nell’epoca della paura: paura dell’immigrazione, paura della Cina, paura del mondo. La crisi ha fatto semplicemente precipitare le conseguenze di questi atteggiamenti già ben presenti nei governi europei». Dal dibattito che si sta svolgendo in Europa, e anche dentro il governo italiano, sembra riproporsi l’antico dilemma tra crescita e risanamento. «Ma in Italia non abbiamo davanti nessun dilemma del genere. Qui il problema è spegnere l’incendio. Se non teniamo saldi i conti non possiamo neanche pensare alla crescita. Quando i nostri buoni del tesoro hanno tassi di due punti e mezzo superiori a quelli tedeschi, il peso del debito è insostenibile, e allora bisogna rimediare, restituire tranquillità ai mercati internazionali e riprendere il cammino verso i tassi tedeschi». Molti osservatori sostengono che accanto ai fattori politici, sulle difficoltà dell’Italia, pesino anche fattori istituzionali, l’eterna incompiutezza della transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. Condivide questo giudizio? «Sì, è quello che penso anch’io. L’Italia ha bisogno di recuperare un rapporto tra i cittadini, i loro rappresentanti e i loro governanti. Da questo punto di vista, considero centrale la questione della legge elettorale». È un problema che al momento sembra dividere lo stesso Partito Democratico. Qual è la sua posizione? «Non è un problema del Partito Democratico, ma dell'Italia. Abbiamo bisogno di governi stabili, legittimati dal voto dei cittadini, e di un Parlamento realmente legato ai territori e agli elettori. D’altra parte, io ho esordito in politica con questa semplice idea, che è il significato dell’Ulivo, e non l’ho mai cambiata. Pertanto, mentre si discute di come uscire da una legge elettorale che ha fatto tanti danni, non posso che esprimere un orientamento coerente con la mia posizione di sempre. E cioè che l’Italia, per risolvere i suoi problemi, ha bisogno del bipolarismo e del maggioritario». Parlando dell’Italia, presidente, non possiamo chiudere l’intervista senza chiederle un commento sulla notizia del giorno: la sentenza sul lodo Mondadori. Cosa ne pensa? «Non commento le sentenze, so solo che devono essere eseguite». da - http://www.unita.it/italia/prodi-governo-debole-italia-bastonata-1.312218 Titolo: PRODI Come reagire alle nuove turbolenze finanziarie Inserito da: Admin - Luglio 11, 2011, 09:22:47 am Come reagire alle nuove turbolenze finanziarie
di Romano Prodi ROMA - È stata proprio una brutta settimana per l’economia italiana. Non solo la Borsa è precipitata ma, soprattutto, la differenza tra i tassi di interesse del nostro debito pubblico e quelli tedeschi ha raggiunto i 248 punti base, arrivando quindi a livelli che, pochi mesi fa, erano propri dell’Irlanda e del Portogallo. Un aumento di questa portata, se prolungato nel tempo, rende quasi impossibile il risanamento del nostro bilancio. Con un debito intorno al 120% del Prodotto interno lordo ogni punto in più del tasso di interesse ci obbliga a sacrifici pesantissimi. Le incertezze e le divisioni tra i leader europei sono certo la ragione fondamentale di queste ripetute tensioni nei mercati finanziari. Tuttavia il precipitare degli eventi è la conseguenza prossima della speculazione internazionale, che ha potuto manifestarsi con una particolare violenza nella giornata di venerdì a seguito delle crescenti tensioni manifestatesi all’interno del governo italiano. Il tutto era partito da una delle ormai solite dichiarazioni di un’agenzia di rating (in questo caso la Moody’s) che ha declassato i titoli portoghesi a livello di spazzatura. In questo caso l’Italia non c’entrava per nulla ma, come spesso avviene in queste occasioni, è partito un attacco speculativo in tutte le direzioni. A causa delle nostre debolezze tale attacco si è accanito soprattutto contro i nostri titoli pubblici e i nostri titoli bancari, anche se non vi era alcun segnale di particolare novità per le nostre finanze e le banche italiane sono infinitamente meno indebitate con i Paesi a rischio rispetto alle banche tedesche e francesi. Si può anzi affermare che le nostre banche non sono per nulla indebitate con Grecia, Irlanda e Portogallo mentre Francia e Germania ci sono dentro fino al collo. Le banche italiane hanno soprattutto un problema: sono italiane. Il modo e il tempo (a mercati aperti) con cui sono stati resi noti i giudizi delle società di rating hanno riacceso la discussione sul ruolo politico che queste agenzie hanno ormai assunto. Appare infatti sempre più giustificato il sospetto che, data la loro origine americana, esse giudichino in modo diverso imprese e Stati europei rispetto al trattamento riservato agli Stati Uniti. In effetti i conti pubblici americani sono peggiori rispetto ai peggiori Paesi europei, tanto da fare dichiarare alla più recente missione del Fondo monetario internazionale che «la dinamica del debito pubblico americano è assolutamente insostenibile». L’aggiustamento necessario per raddrizzare il bilancio pubblico degli Stati Uniti è infatti infinitamente più gravoso di quello necessario per mettere ordine alle finanze italiane. Eppure nemmeno il più piccolo allarme viene sollevato sulla solvibilità del debito americano. Capisco che nella fattoria degli animali non tutti sono uguali ma l’opinione che si usino metri inappropriati è ormai diffusa sia a Bruxelles che in tutte le capitali europee. Non credo che la proposta di creare agenzie di rating sostenute dai diversi governi europei sia una cosa saggia, perché ne accentuerebbe ulteriormente la natura politica, ma è certo che se agissero nei mercati agenzie non americane (siano esse europee o cinesi o indiane) il metro di giudizio sarebbe certamente meno sospetto. Le tensioni all’interno del governo, poi, hanno purtroppo offerto ragioni corpose a chi intendeva speculare al ribasso sull’Italia. Una legge finanziaria che rinvia ad un futuro più lontano possibile gli interventi di risanamento dei conti dovrebbe infatti essere almeno garantita da un governo stabile e coeso. Le tensioni tra i diversi ministri, fra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e le divergenti linee politiche tra i partiti di governo sono state certamente la causa principale della seconda ondata di vendite al ribasso, che si è soprattutto manifestata nella giornata di venerdì. Urge quindi porre rimedio a errori e debolezze che, se prolungati nel tempo, renderanno non credibile (e quindi impossibile) la nostra azione di risanamento. Di questa mancanza di credibilità non è possibile attribuire la colpa né a Moody’s né agli speculatori internazionali. Un altro avvenimento importante della settimana economica è stato l’aumento del costo del denaro di 0,25% deciso dalla Banca centrale europea. Era una decisione scontata e prevista, che dimostra la lodevole attenzione della Bce a combattere ogni accenno di inflazione. Non vorrei però che questo lodevole comportamento diventasse troppo lodevole. La crescita dell’economia della zona euro non ha infatti mantenuto nel secondo trimestre dell’anno le buone prospettive che si erano manifestate nel primo trimestre, mentre l’inflazione rimane in limiti modesti e trova la sua origine soprattutto nei prezzi delle materie prime e dell’energia, rispetto ai quali l’aumento del costo del denaro non ha alcuna influenza positiva. Non capisco perciò perché si stia diffondendo l’opinione che quest’aumento debba essere seguito da altri aumenti. Per mettere a posto i bilanci pubblici c’è bisogno soprattutto di crescita, di occupazione e di un euro che non continui ad aumentare di valore nei confronti del dollaro. Questi obiettivi dovranno avere l’assoluta priorità da parte della Bce, almeno fino a quando continueremo ad essere tranquilli nei confronti dell’inflazione. Domenica 10 Luglio 2011 - 19:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=39853&sez=HOME_ECONOMIA&npl=&desc_sez= Titolo: Prodi: Governo, opposizione e Bankitalia insieme nell'emergenza Inserito da: Admin - Luglio 13, 2011, 08:26:13 am Prodi: «È l'ora di unire il Paese, serve uno sforzo comune contro la speculazione»
Carlo Marroni 12 luglio 2011 Prodi: Governo, opposizione e Bankitalia insieme nell'emergenza «Va lanciato immediatamente il messaggio che c'è un Paese unito, capace di fare sacrifici e di costruire compatto il proprio futuro». Nel giorno più nero per l'Italia sui mercati finanziari, Romano Prodi sollecita una prova di compattezza per superare questa crisi e respingere l'attacco speculativo internazionale a cui è sottoposta l'Italia. Per l'ex presidente del Consiglio «non ci sono alternative a questo approccio. Deve emergere subito un messaggio di stabilità, di compattezza, di fiducia, condiviso da maggioranza e opposizione, assieme a tutte le istituzioni. Questo fa un Paese che festeggia i 150 anni di unità e continua insieme a costruirsi il domani». Professor Prodi la situazione è davvero difficile. Sono fortemente preoccupato per quello che sta accadendo. E lo sono a maggior ragione alla luce di quanto avviene negli Stati Uniti, dove i conti pubblici sono peggiori dei nostri e la situazione politica interna non è certo più coesa della nostra. Eppure non si pensa altro che ad attaccare l'Europa. L'Italia è il Paese nel mirino più di altri? Dopo Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna adesso tocca a noi subire gli attacchi, anche se ora il fenomeno sta interessando pure la Francia, come dimostra lo scossone avuto dal loro spread. Ma questo non può certo consolarci. Che cosa sta innescando questo fortissimo e pare inarrestabile movimento speculativo? L'Italia non brilla per il proprio rigore, ma la nostra economia non è certo al collasso, anzi, le strutture produttive sono generalmente sane e le banche sono relativamente più solide che negli altri Paesi. Eppure assistiamo a un attacco feroce, sia in Borsa che sui titoli di Stato, con lo spread verso i titoli tedeschi tornato addirittura sopra 300 punti base. Parliamoci chiaro: se non si pone rimedio si va diritti verso un baratro. Occorre una risposta coesa, ripeto, coesa, di tutto il Paese. La manovra varata dal Governo pare sia passata inosservata.Serve una strategia di uscita. Da un lato vanno rafforzati i contenuti della legge finanziaria: è certamente un punto debole il rinvio del cuore dei provvedimenti al 2013-2014, e dall'altro va seguita una precisa strategia che possa influire sui mercati finanziari. Che guardano ai segnali, ai messaggi, alle aspettative… È anche e soprattutto per quello che ritengo sia necessario rendere la manovra accettabile all'opposizione. Sembra facile. Ma come si può fare, visto il contesto della politica italiana che lei conosce molto bene? Vista l'urgenza, è possibile attraverso l'intesa rapida su alcuni emendamenti. Così si può portare subito la manovra in Parlamento e approvarla in tempi stretti, come giustamente sollecitato anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Questo fa una politica seria. Che cosa dovrebbe cambiare l'impianto approvato dal Governo? La situazione è grave, lo sappiamo tutti. E quindi serve uno sforzo straordinario da parte delle classi a reddito più elevato. A cui si pensa di ridurre gradualmente l'aliquota massima… A me pare un follia. Su questo punto bisogna essere chiari. Concorderà che è difficile trovare risorse in questo momento.Certo. Proprio per questo va varata una vera lotta all'evasione fiscale, che è enorme. Eppoi bisogna agire sulla spesa pubblica. Anche questo sembra sia al centro dell'impianto della manovra, almeno in alcune sue parti. Io penso a un politica strutturale di spending review, un po' sulla falsariga di quello che fece la Commissione Giarda. La spesa pubblica nell'ultimo decennio è scappata di mano, e bisogna metterci sul serio rimedio. È noto a pochi che in dieci anni la spesa pubblica complessiva al netto degli interessi è cresciuta di oltre il 50%, passando da 479 miliardi del 2000 a 723 del 2010! La questione centrale è che i mercati finanziari internazionali devono avere la rassicurazione che questi fenomeni in futuro non accadano più. Una misura a lungo termine, tuttavia… Sì, ma con un messaggio che ha presa nell'immediato. E che avrebbe un forte impatto emotivo. Come lo avrebbe una seria riorganizzazione delle tasse locali dopo lo smantellamento dell'Ici. Ovunque il federalismo fiscale si basa sulla tassazione degli immobili. È chiaro che parte delle risorse liberate dovrebbero essere indirizzate alla riduzione dei costi indiretti delle ore lavorate, in modo da aiutare il rilancio dell'economia. Sempre manovre strutturali. Da attuare attraverso un'immediata riunione tra Governo, opposizione e Banca d'Italia in modo da dare la garanzia che tutto il Paese è pronto a fare sacrifici, affrettare il risanamento e sostenere l'economia. La forza del messaggio, come accaduto in passato, quando a metà degli anni 90 l'Italia subì attacchi per certi versi analoghi. Non mi stancherò di ripetere che in questo momento il messaggio di unità, sostanziale, è importantissimo, come è decisivo allontanare l'idea che si vogliano procrastinare le cure necessarie. Come facemmo in quel momento difficile del '96, quando il mio Governo varò la tassa per l'Europa. Lì c'era un obiettivo ben definito e decisamente "alto". Sì, certamente si trattava di una scelta grande e giusta. Ma il fattore vincente fu il metodo: mettemmo di fronte al Paese dei sacrifici a fronte di risultati chiari. E come sanno tutti, i soldi versati per entrare nell'euro furono restituiti. L'estate 2011 ricorda l'autunno di quindici anni fa? Questi problemi hanno tutti la stessa necessità, quella di essere affrontati con uno sforzo comune davvero condiviso. Se questo sarà fatto immediatamente, allora lo spread tra i nostri BTp e i Bund tedeschi si richiuderà velocemente. © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-07-12/prodi-governo-opposizione-bankitalia-064452.shtml?uuid=AarT3OnD&p=2 Titolo: PRODI «La scelta di DeutscheBank? Un suicidio» Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 05:34:14 pm Prodi commenta così la decisione dell'istituto di vendere 7mld di euro di titoli italiani
«La scelta di DeutscheBank? Un suicidio» L'ex premier: «Significa la fine di ogni legame di solidarietà. Sono assolutamente turbato» MILANO - Una decisione-shock? La scelta di affossare definitivamente la moneta unica? O semplicemente la presa di coscienza che il rischio insolvenza per l'Italia si fa concreto e continuare a investire in titoli di stato del nostro Paese (pur garantendo un rendimento sempre maggiore) è una scommessa tipica del gioco del lotto? Al netto delle opinioni la notizia riportata mercoledì dal Financial Times, secondo la quale nei primi sei mesi del 2011 Deutsche Bank avrebbe tagliato l'esposizione verso le obbligazioni italiane dell'88% (per un controvalore di circa 7 miliardi di euro) ha sconvolto Romano Prodi. IL COMMENTO - L'ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea indossa l'abito dell'economista e in un'intervista rilasciata a margine di un evento della regione Emilia Romagna dice la sua: «E' la dimostrazione di una mancanza di solidarietà che porta al suicidio anche per la Germania. Significa la fine di ogni legame di solidarietà e significa obbligare tutti a giocare in difesa. E quando questo viene dalla Germania, un Paese che ha avuto più saggezza nel capire gli altri fino a qualche anno fa, sono assolutamente turbato». Strali (che assumono peso specifico maggiore se commisurati alla sobrietà del personaggio) nei confronti della massima istituzione creditizia tedesca, invitata ad avere maggiore senso di responsabilità e di leadership. I MERCATI - Sono molti gli osservatori che attribuiscono alla decisione di Deutsche Bank l'aumento del differenziale tra BTp e Bund giovedì schizzato a 336 punti base. Unito anche al maggior rendimento dei credit default swaps collegati alle obbligazioni italiane, di cui sta facendo incetta proprio la banca centrale tedesca per tutelarsi dal rischio insolvenza. Fabio Savelli 28 luglio 2011 16:02© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_luglio_28/prodi-deutsche-bank_02a8aac8-b914-11e0-a8dd-ced22f738d7a.shtml Titolo: PRODI rispondere all'egoismo tedesco e ripristinare la credibilità ... Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:13:47 am Prodi: rispondere all'egoismo tedesco e ripristinare la credibilità dei governanti italiani
di Romano Prodi ROMA - La differenza del tasso di interesse tra i Buoni del tesoro italiani e i Buoni del tesoro tedeschi è da qualche giorno assai simile a quella che vi è fra i Buoni del tesoro spagnoli e quelli tedeschi. Non vi è alcuna ragione perché questo avvenga. La struttura economica della Spagna non può essere paragonata a quella italiana, il suo deficit di bilancio è molto superiore al nostro e così il livello della disoccupazione. E vi è un giudizio unanime sulla maggiore solidità del nostro sistema bancario rispetto a quello spagnolo. Eppure i mercati ci trattano al livello della Spagna di oggi e al livello della Grecia di un anno fa. Non sto a ripetere le conseguenze di tutto questo. Al lettore basterà riflettere sul fatto che quest’aumento del costo del debito pubblico, se rimarrà costante nel tempo, renderà del tutto vani gli effetti della Finanziaria appena votata. Nelle nostre analisi precedenti, riflettendo su questi problemi, avevo segnalato il ruolo fondamentale giocato dalla speculazione internazionale. Mai avrei tuttavia pensato che la più grande e più autorevole banca tedesca (la Deutsche Bank) si fosse disfatta della quasi totalità degli otto miliardi di titoli del debito pubblico italiano che aveva in portafoglio, dando così ai mercati un impressionante segnale di sfiducia nei confronti dell’Italia. Mi si può rispondere che la suddetta banca non aveva alcuno scopo recondito se non quello di fare i propri affari. Ed è così che, pur non condividendolo, ho interpretato il suo comportamento. Dopo di che mi sono dedicato a leggere un accurato rapporto scritto e reso pubblico dalla stessa Deutsche Bank il 20 luglio del 2011. In esso, pur suggerendo di tenere conto dell’elevato livello di debito, si scrive ogni bene delle prospettive di liquidità e di solvibilità italiane. Si sottolinea che il quadro del deficit appare migliore perfino di alcune delle nazioni europee virtuose (le c.d. core countries) e si mette in rilievo che la proprietà straniera del debito italiano è tra le più basse in Europa (44%) mentre la maggior parte dei titoli pubblici è nelle mani dei nostri risparmiatori e investitori. Lo stesso rapporto aggiunge che le banche italiane non hanno problemi di liquidità (a differenza delle banche irlandesi) e nemmeno un’eccessiva esposizione verso il settore immobiliare (a differenza di quelle spagnole). La conclusione del rapporto è che, pur dovendosi usare una certa prudenza per il breve termine, «le recenti vendite appaiono aggressive e non giustificabili sotto l’aspetto delle prospettive italiane». Parole davvero per noi lusinghiere se non fossero state scritte da chi aveva appena finito di disfarsi dei titoli italiani. Quest’importante avvenimento pone evidentemente un interrogativo politico sulla coerenza fra le dichiarazioni di principio dei governi europei e i comportamenti dei protagonisti finanziari che dovrebbero contribuire a mettere in atto queste stesse dichiarazioni e che invece, proprio per la forza della sede da cui provengono, mandano segnali che danneggiano terribilmente e in modo ingiustificato l’uno o l’altro Paese. Di fronte a questo e a tanti comportamenti simili ognuno di noi deve interrogarsi su come la solidarietà intraeuropea si vada indebolendo, e abbia rinunciato a cercare una alta mediazione politica nei confronti di queste decisioni così importanti. Il ruolo degli Stati e della politica cede sempre di più il passo ad altri protagonisti divenuti ormai ultrapotenti e quasi incontrollati, siano essi le società di rating o le grandi strutture finanziarie. Per il buon ordine del mondo è venuto il tempo di porre rimedio a queste anomalie. A questo punto mi pongo naturalmente l’interrogativo su chi, in queste situazioni così delicate, possa assumersi il compito di difendere gli interessi italiani. Come ha giustamente sottolineato Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di ieri non risulta infatti che il ministro Tremonti abbia protestato con il suo collega Schaüble o che Berlusconi abbia telefonato alla cancelliera Merkel. Questo non è certo avvenuto per la mancanza di linee telefoniche disponibili ma semplicemente perché le decisioni dei nostri governanti non hanno più la forza e la credibilità per arrivare a destinazione. È necessario perciò che tale forza e tale credibilità vengano ripristinate al più presto. Sabato 30 Luglio 2011 - 13:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=40259&sez=HOME_INITALIA&npl=&desc_sez= Titolo: PRODI Solo la lotta all'evasione fiscale può salvarci» Inserito da: Admin - Agosto 17, 2011, 04:25:53 pm Prodi: «Solo la lotta all'evasione fiscale può salvarci»
«La ricetta per salvare il Paese? Passa per la riduzione drastica dell'uso dei contanti e per l'incremento della tracciabilità». Romano Prodi lo ha sostenuto a 24 Mattino su Radio 24. «Se non mettiamo mano alla lotta all'evasione fiscale, nonostante la manovra, fra tre anni ci troviamo nella stessa situazione». Secondo l'ex premier contro l'evasione fiscale «utilizzare l'elettronico in modo feroce, è l'unica via per andare avanti. Ricordiamoci che la democrazia si difende con le ricevute e le ricevute moderne sono un sistema elettronico che controlla quanto si spende e quanto si ricava e lascia la tracciabilità. Se noi non abbiamo il coraggio di far questo, il paese sarà sempre un paese disastrato». Romano Prodi ha poi commentato il malcontento suscitato dal testo della manovra: «la manovra, per definizione, vuol dire pesare di più sulle tasche degli italiani e dare meno benefici. Però il problema è come lo si fa». A quanti avessero fatto un parallelo tra il sacrificio richiesto da Prodi a tutti gli italiani per entrare nell'area Euro e la manovra di questi giorni, l'ex capo della Commissione Europea, ha risposto: «Non ci sono punti di contatto tra il contributo di solidarietà di questa manovra e la tassa per l'Europa del Governo Prodi. C'è una profonda differenza. La nostra, allora era una gara per la promozione, noi per entrare nel club dell'euro dovevamo arrivare al 3% del deficit . Era un governo che lavorava insieme, in modo collettivo. Abbiamo fatto mille conti. E, se noi fossimo entrati subito, si sarebbero abbassati i tassi d'interesse. Mi ricordo benissimo - ha aggiunto - le lunghissime discussioni fatte con Ciampi, Andreatta, Napolitano prima di annunciare la manovra. C'era una squadra. Facevamo ore e ore di simulazioni con i funzionari». «Qui - ha spiegato Prodi - ognuno ha la sua tesi e ognuno ha un' opinione diversa in seno alla maggioranza. Ognuno mette un pezzo di veto e quello che ci rimane è un pezzettino di decisione che non può risanare un paese. Noi abbiamo deciso di introdurre immediatamente questa tassa perché l'avremmo potuta restituire. Così e' avvenuto, i tassi d'interesse si sono abbassati e in tre anni abbiamo restituito i due terzi dell'imposta com'era stato stabilito. In questa maggioranza invece ognuno ha la sua voce. Proprio questa divisione è stata l'elemento scatenante della speculazione contro l'Italia». «La speculazione - ha spiegato il professore sempre a Radio 24 - fa come gli Orazi e i Curiazi, prende quello più debole e lo infilza. In quel momento l'Italia si presentava come estremamente debole. Non c'era un politica economica, non si sapeva dove stesse andando». Infine alla domanda «Se venissimo a intervistarla l'anno prossimo, dove dovremmo andare a Roma, a Bruxelles, a New York?» Prodi ha concluso: «Sarò sempre qui nell'Appennino reggiano». 16 agosto 2011 da - http://www.unita.it/italia/prodi-solo-la-lotta-br-all-evasione-fiscale-puo-salvarci-1.323509 Titolo: PRODI «Le agenzie di rating sono come Qui Quo e Qua» Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 05:25:38 pm INTERVISTA A RADIO 24
Prodi interviene sulla crisi: «Le agenzie di rating sono come Qui Quo e Qua» L'ex premier: «La tassa di solidarietà è molto diversa dalla tassa per l'Europa. Il governo è diviso su tutto» MILANO - «Si parla tanto di concorrenza e poi le tre agenzie di rating mondiale sono come Qui Quo Qua, vanno d'accordo tra loro. Sono tutte americane. Si mettono d'accordo. Non c'è niente da fare, istintivamente rispondono a stimoli politici». È il parere di Romano Prodi che è intervenuto con una lunga intervista alla trasmissione «24 Mattino Estate» in onda su radio 24. L'ex premier ha proposto una soluzione: «Ci vogliono agenzie europee, cinesi, indiane. Questa soluzione avrebbe anche un altro vantaggio. Quello di rendere relativo il giudizio di queste agenzie che, comunque, ci vuole perchè ci vogliono dei controlli ma i loro giudizi andrebbero poi presi con una certa saggezza. Qualcuno propone agenzie in mano agli stati. Io ho delle perplessità - ha chiarito - perchè evidentemente perderebbero di credibilità . Per definizione ognuno metterebbe l'asino dove vuole il padrone. Nel mercato di oggi è meglio che ci siano tanti asini e tanti padroni». L'EURO - Romano Prodi si è inoltre soffermato sull'aumento dei prezzi dopo l'entrata in vigore dell'euro: «L`aumento c`è stato anche se non era alto come dice qualcuno. Ma la colpa non era di chi era a Bruxelles, come ero io quando è stato introdotto l'euro nella pratica quotidiana. La responsabilità è dei Governi nazionali. E in soli due paesi si è verificato questo fenomeno: la Grecia e l`Italia. C'erano due strumenti che Ciampi aveva elaborato: le commissioni provinciali di controllo che erano state istituite non sono state fatte lavorare, e il doppio prezzo in lire e in euro per sei mesi in modo che la gente si sarebbe potuta difendere da sola. Io non ho mai capito perchè questi due semplici provvedimenti che Ciampi aveva raccomandato, non siano stati usati dal Governo Berlusconi» . Sulla possibile fine dell'euro però Prodi non è pessimista: «Sono preoccupato, ma non credo ci sarà la fine dell'euro. È vero, siamo entrati nel periodo della paura : paura della Cina, degli emigranti. In un mondo grande come quello di oggi essere soli non va bene neanche per la Germania. Sanno benissimo che solo con l'euro possono avere la forza economica che hanno oggi. EUROTASSA - L'ex presidente del consiglio rifiuta il paragone tra la tassa di solidarietà e l'eurotassa decisa proprio dal governo Prodi. «C'è una profonda differenza - ha chiarito Prodi - e allora era una gara per la promozione, per entrare nel club dell'euro e il governo lavorava insieme in modo collettivo, qui invece ognuno ha la sua tesi e ognuno ha un'opinione diversa in seno alla maggioranza, ognuno mette un pezzo di veto e quel che ci rimane è un pezzettino di decisione che non può risanare un paese. E poi noi introducemmo l'eurotassa perchè l'avremmo potuta restituire, e così è avvenuto, i tassi di interesse si abbassarono e in tre anni furono restituiti i due terzi». Redazione online 16 agosto 2011 18:26© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/economia/11_agosto_16/prodi-agenzie-rating-crisi_d2e63812-c815-11e0-9dd1-bf930586114f.shtml Titolo: PRODI: 'Via Silvio subito' Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 04:42:53 pm Esclusivo
Prodi: 'Via Silvio subito' di Orazio Carabini Un premier senza credibilità. Che perde persino l'appoggio degli imprenditori. E intanto il referendum dimostra che la gente ha capito che qualcosa non va. Il prof rompe il silenzio e lancia il suo je accuse: "meglio qualsiasi altro governo di quello attuale" (06 ottobre 2011) «In luglio avevo detto che durante una tempesta così sarebbe stato meglio non cambiare nocchiero, ma dopo quello che è successo in agosto mi sono dovuto ricredere: meglio qualsiasi altro governo di quello attuale». In questa intervista Romano Prodi, impegnato nella preparazione di tre lezioni sul futuro, dal titolo 'Il mondo che verrà', che andranno in onda su La7 a partire da martedì 11 ottobre, parla a tutto campo della situazione italiana e internazionale. Non l'ha impressionata il tono perentorio della lettera inviata al governo italiano nel momento in cui sono cominciati gli acquisti di titoli di Stato? Sembra quasi che l'Italia sia stata commissariata. "Per la verità non mi ha sorpreso molto, anzi. Nelle circostanze attuali era quasi un doveroso gioco delle parti. Il fatto che fossimo commissariati era già evidente prima della lettera. Quella lettera la dovevano mandare, per le nostre debolezze, per costruirsi un'eventuale giustificazione per il futuro: "Gliel'avevamo detto, prima di comprare i loro bond, che cosa avrebbero dovuto fare". Si sono cautelati, si sono creati la motivazione politica. Una cosa che si fa solo quando uno è molto debole. Come dicevo, si spara sulla Croce rossa". Tra un inciampo e l'altro il governo una manovra che porta al pareggio di bilancio però l'ha fatta. Eppure lo spread non è sceso ai livelli pre-crisi. "Il mese di agosto ha cambiato totalmente la sensibilità internazionale. A luglio avevo detto che di fronte a una tempesta non era il caso di cambiare nocchiero. Poi però ho assistito alle liti tra ministri, alle proteste delle categorie colpite dai provvedimenti, ho letto le reazioni della stampa internazionale, ho viaggiato in Cina e negli Stati Uniti e ho constatato come tutto ciò veniva interpretato. Sono così arrivato a una conclusione: meglio qualsiasi altro governo di quello attuale. Perché un cambiamento di governo sarebbe visto come un fattore di stabilità. Sia le classi dirigenti sia la gente comune sono convinti che questo governo viva all'insegna dell'instabilità e della non credibilità. Ed è inconcepibile che il nostro spread sia maggiore di quello spagnolo, cioè di un paese in cui l'economia è più debole della nostra. Lo dico da economista e senza nessuna polemica. Ci può essere solo una spiegazione politica perché il nostro debito è identico a quando siamo entrati nell'euro. Il fatto è che la Spagna ha una linea politica, l'Italia no". Non toccherebbe al presidente Giorgio Napolitano staccare la spina? "Su questo tema non voglio dire nulla". Dal referendum può venire un cambiamento? "Certamente ha affrettato il processo di presa di coscienza. Se in un mese un milione e 200 mila persone sono andate a firmare, malgrado un'organizzazione debole, vuol dire che c'è qualcosa che non va e che la gente ne è cosciente". Non è singolare che in Italia facciano più baccano gli imprenditori che la piazza? Sono loro gli indignados made in Italy? "L'imprenditore indignado ha dei toni diversi dalla ragazza spagnola, israeliana o americana che va per strada. Ma non li definirei nemmeno indignados. L'imprenditore è per definizione filogovernativo ed è triplamente filogovernativo con un governo di destra. Nella storia italiana non ho mai visto gli imprenditori diventare antigovernativi con un governo di destra. Vuol dire che la politica economica proprio non va, non c'è altra spiegazione. Cito Dante: "Nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello"". Queste proteste porteranno alle elezioni? "Non lo so. Perché l'espressione stessa indignados non ha il significato di una forza politica con un programma. Indignados è un atteggiamento, è segno di sfiducia, non è un programma. Anzi, in teoria, tante indignazioni separate possono anche allungare la vita del governo. Mentre le indignazioni che si trasformano in un programma ne accelerano la sostituzione. Non è un caso che i commenti all'esito della campagna referendaria siano stati di segno opposto uno dall'altro. E' l'interpretazione di un'indignazione, non è un disegno". Sta segnalando la mancanza di compattezza dell'opposizione? "Il momento politico offre questo. Quanto alla compattezza, uno come me può solo dire che è un desiderio. Non sono mai riuscito ad averla. Non posso essere certo io, dopo quello che ho passato con il mio ultimo governo, a indignarmi per la mancanza di compattezza". L'EUROPA Prima il ministro del Tesoro americano Tim Geithner, poi i cinesi e i governi dei Bric. Tutti sono preoccupati per il futuro dell'Europa. E lo dicono in modo esplicito. Non la sorprende tanta attenzione? "No, l'euro è diventato importante per tutti e la crisi europea coinvolge il mondo intero. Gli americani temono che, data l'interconnessione dei sistemi bancari, un collasso in Europa si ripercuota sulle loro banche. Politicamente non hanno fatto nulla per evitare che si arrivasse a questa situazione: non hanno consentito alcun coordinamento delle politiche e dal fallimento di Lehman Brothers in poi hanno fatto come pareva a loro. In Cina la preoccupazione è anche politica: loro non vogliono essere l'unica controparte degli Usa in un G2 che domina il mondo. L'Europa gli è utile. Quando nacque l'euro, io ero presidente della Commissione. Ricordo che i cinesi erano molto favorevoli. All'epoca il presidente Jiang Zemin mi disse: «Vogliamo l'euro perché non vogliamo vivere in un mondo in cui uno solo comanda. Ed è meglio che ci sia anche l'euro, insieme al dollaro». Da allora sono stati coerenti e hanno accumulato tante riserve in euro. Adesso sanno che ancora per qualche tempo hanno bisogno di un sistema "multipolare" in cui l'euro bilanci la forza del dollaro in attesa di arrivare alla convertibilità del renmimbi. Per loro l'euro è una specie di assicurazione, una garanzia, un'ancora di salvezza. Detto tutto questo, la colpa della crisi è principalmente nostra: sparare sui paesi europei divisi o sull'Italia è come sparare sulla Croce rossa. E pensare che l'Unione europea nel suo complesso è più grande di tutte le altre potenze: come Pil, come produzione industriale, come esportazioni. Ma non avendo capacità decisionale... La Grecia dichiarerà bancarotta? Vorrei capire a chi conviene farla fallire mettendo a rischio la sopravvivenza dell'euro. Nemmeno la Germania ha interesse a far cadere una dopo l'altra le carte del castello. Poi credo che alla Grecia vada sì chiesto di mettere ordine nei propri conti pubblici e nell'economia ma allo stesso tempo alla popolazione va data una prospettiva, una speranza. Altrimenti questi tagli diventano una forma di sadismo. Non le sembra che la Commissione europea e la Banca centrale europea siano un po' ondivaghe nelle loro politiche? La Commissione ha predicato il rigore di bilancio ma si è riconvertuta alle politiche espansive quando ha capito che la crescita stentava. La Bce ha addirittura aumentato i tassi d'interesse fino a poche settimane fa e ora annuncia prossimi tagli. Direi che comunque il rigore prevale. Siamo dominati dalla paura anziché dalla solidarietà. Applicando la dottrina ortodossa, conservatrice, ci si mette sempre la coscienza a posto. Da quando la Bce ha cominciato ad aumentare i tassi mi sono chiesto: che logica c'è? E' giusto che la Bce sia severa ma siamo arrivati a un punto che è troppo severa. Fa la prima della classe. E infatti la crescita sta soffrendo. Ho fatto una proposta insieme all'economista Alberto Quadrio Curzio: emettiamo 3 mila miliardi di eurobond, di cui 2 mila dedicati al sostegno dei paesi deboli. Ma mille investiamoli nelle infrastrutture. Dalla crisi si esce con la disciplina ma anche con il rilancio. Nel 1929 il mondo si salvò con questa ricetta. Allora la spesa pubblica, purtroppo, era per le armi, adesso sarebbe per gli oleodotti e le ferrovie. Attenzione: Keynes è esistito e ci ha insegnato che, pur tenendo conto della necessità di avere i bilanci in ordine, bisogna investire. Negli ultimi 30 anni molti lo hanno esecrato, ma adesso va rivalutato. Non si lasciano morire le economie. E l'America si trova in un dilemma identico a quello dell'Europa. . Almeno la crisi ha messo in moto un rafforzamento del patto di stabilità e crescita: più controllo sui bilanci pubblici e sanzioni per chi sgarra. Come giudica la nuova governance europea? Quale governance? E' stato lanciato all'esterno un messaggio di disarmonia, non di armonia. I grandi paesi avrebbero potuto avviare una riorganizzazione del governo comune e invece è prevalso l'orientamento di togliere potere alle strutture di governance veramente europee come la Commissione. Ma la perdita di ruolo della Commissione ha segnalato un disimpegno di Francia e Germania e così all'esterno è passato un messaggio di disarmonia. E qui sono cominciate le preoccupazioni degli americani e dei cinesi per tornare alla domanda iniziale. Perché può esistere temporaneamente una moneta comune in attesa che venga costruita una politica economica comune, ma non ci può essere una moneta comune consolidata con una cacofonia di posizioni tra i diversi Paesi. La Bce è stata importante ma i suoi poteri sono limitati: supplisce, supplisce, ma fino a un certo punto. Abbiamo visto tutti quante difficoltà ha incontrato quando ha dovuto decidere di acquistare i bond dei paesi in difficoltà. . LE RIFORME DEL SISTEMA Intanto stiamo andando dritti verso una nuova recessione... "Direi di no. Probabilmente stiamo andando verso un forte rallentamento della ripresa. E' cominciato tutto all'inizio di giugno. Fino ad allora l'economia si stava lentamente aggiustando. Poi c'è stato un rallentamento e tutti hanno cominciato a rivedere al ribasso le previsioni. Penso che andiamo incontro a un periodo di stagnazione. Nel 2008 quando è cominciata la crisi i miei colleghi storici dell'economia mi dicevano che ci sarebbero voluti sette anni per riaggiustare tutto. Io replicavo che Usa e Cina avevano reagito mettendo sul piatto 800 e 585 miliardi di dollari: Keynes ci ha insegnato come fare, usciremo prima da questo inferno. Ma loro insistevano: bisogna "pulire" dalle scorie il sistema economico. E non avevano nemmeno previsto quanto rapidamente il contagio si sarebbe esteso ai titoli del debito pubblico provocando quindi la politica recessiva. Oggi la ripresa è lenta mentre i governi vanno avanti adagio con piccole correzioni ma non ci sono prospettive di grandi riforme del sistema finanziario ed economico. Negli Stati Uniti il potere politico è debolissimo verso la finanza: non ha avuto la forza di imporre il ritorno al Glass-Steagall Act, cioè la separazione delle banche commerciali da quelle di investimento. Le altre grandi riforme come la Tobin tax per essere efficaci richiedono un'adesione universale.". Perché non c'è unità d'intenti sulle grandi riforme? "La mia interpretazione è che nei momenti di grande cambiamento dei rapporti di forza le riforme non le vuole nessuno. Non gli Stati Uniti, che temono di dover rinunciare al privilegio della centralità del dollaro nel sistema finanziario internazionale. Non la Cina che non è pronta a fare il grande salto verso la convertibilità della sua moneta ed è consapevole di avere tutto da guadagnare ad aspettare: una riforma tra 4-5 anni li vedrà molto più forti di una riforma fatta oggi. E sarà più conveniente per loro. Chi potrebbe avanzare delle proposte è l'Unione europea, avrebbe interesse a far da arbitro, ma si è talmente indebolita che è riuscita nell'obiettivo di farsi portare la guerra in casa quando le sue condizioni finanziarie erano e sono migliori di quelle americane: il nostro rapporto deficit-Pil è inferiore di quattro punti a quello Usa e la California non è certo messa meglio della Grecia. Eppure il dollaro non ne viene toccato. Quindi è difficile pensare che sia l'Europa il leader delle grandi riforme internazionali". Intanto le diseguaglianze sono sempre più ampie. "Non è un fatto casuale ma il frutto di una filosofia precisa. Storicamente fino alla fine degli anni 80 le diseguaglianze nei paesi industrializzati si stavano riducendo, poi sono impazzite per motivi spiegabilissimi. Il primo è che c'è una nuova dottrina. Non c'è più un senso profondo dell'ingiustizia sociale. Mi ricordo che 30 anni un mio articolo sul Corriere della Sera in cui calcolavo che il manager numero uno di un'impresa sconfitto alle regionali del 2008 abbandonò all'improvviso la politica lasciando interdetti sostenitori, alleati, ed amici, per tornare a fare l'imprenditore nelle aziende di famigliaguadagnava 40 volte la media degli operai suscitò polemiche a non finire. Adesso nessuno dice nulla se quel rapporto è 400 volte. Si è fatta strada la filosofia calvinista o protestante per cui il ricco è benedetto da Dio. Punto e basta. E poi è cambiato il sistema fiscale: con Ronald Reagan e Margaret Thatcher l'aliquota massima, che negli Usa era al 70 per cento, si è dimezzata. E lì si è imboccata la strada che ha portato Warren Buffett, per sua stessa ammissione, a pagare meno tasse della sua segretaria. In aggiunta l'imposta sulle eredità è caduta dovunque, o quasi. Infine la globalizzazione ha indubbiamente colpito i salari più bassi: il lavoro standard è volato via. Senza contare che l'aumento di valore dei beni mobili e immobili ha aumentato la distanza tra chi li possiede e chi non li possiede". Qualche Paese ha saputo però contrastare la tendenza. "Certo. Però devi avere una cultura radicata come in Svezia o devi essere il Brasile di Lula. Altrimenti le diseguaglianze aumentano. E l'ingiustizia è cresciuta anche nei paesi in via di sviluppo dove tutti si sono spostati verso l'alto ma i ricchi sono saliti di più: cala la miseria ma aumentano le differenze. Ed è in questo senso che io vedo la possibilità di una riflessione mondiale che può esprimersi anche attraverso l'indignazione, o anche peggio. Vedere che negli Stati Uniti, in Israele e in Spagna manifestano allo stesso modo fa molto riflettere. Se ci sono tre paesi diversi sono questi. Eppure le modalità della protesta sono simili. In Israele, dove hanno tanti problemi politici che sovrastano qualsiasi altra questione (la primavera egiziana, la Turchia, lo stato palestinese), stupisce vedere 400 mila persone che protestano contro la disoccupazione e la difficoltà di trovare un alloggio. Come in Spagna. Può anche darsi che sia un campanello d'allarme, il segnale che un periodo storico è finito". Può nascere una rivolta violenta da questa situazione? "Non sono un sociologo e non so dire se ci sono i presupposti. Come economista mi impressiona che queste questioni siano sollevate simultaneamente e in modo pubblico in paesi e società così diversi". © Riproduzione riservata da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/prodi-via-silvio-subito/2163024//3 Titolo: PRODI Governo tecnico? Solo se sostenuto da tutti Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 05:36:27 pm Prodi: Governo tecnico? Solo se sostenuto da tutti
1 novembre 2011 Il Governo tecnico dev'essere sostenuto dai partiti altrimenti è un disastro. Parola di Romano Prodi, intervistato a Radio 24. «Farebbe molto bene se fosse sostenuto da tutti e in Italia abbiamo persone di altissimo livello: Mario Monti e altri». Mentre «Draghi ci aiuterà moltissimo a Francoforte». I mercati non hanno creduto a Berlusconi, sottolinea l'ex premier, e ora occorre riunirsi subito e mobilitare tutte le forze democratiche per «fare dei decreti legge urgenti che il Parlamento approvi» meglio se con un nuovo Governo guidato anche da un tecnico che dia fiducia all'Europa «se è sostenuto dai partiti». «Tremonti? Latitante» «Tremonti è latitante, in tre mesi ha rovinato la sua credibilità», ha poi sottolineato Prodi. «In una situazione così drammatica - ha detto - Tremonti deve intervenire subito e negli ultimi tre giorni è in giro per convegni. È anche brillante ma non si rende conto dell'urgenza e ha rovinato tutto. Aveva iniziato male poi si era accreditato per la sua serietà internazionale e acquisito una certa fiducia e negli ultimi tre mesi è latitante, non è mai a Roma ed è in giro per convegni». «Merkel e Sarkozy diabolici» «Merkel e Sarkozy sono stati diabolici rendendo l'Europa Comunitaria un'Europa intergovernativa, prendendosi il prevertice - continua Prodi -. Pazzesca abitudine, il prevertice, prevertice per modo di dire dove lei detta le regole e lui fa la conferenza stampa. Sarkozy vuole la blindatura perché le sue banche sono peggio delle nostre in quanto hanno titoli pubblici e cartacce, quelle che hanno creato la crisi. Le banche italiane - conclude l'ex premier - non hanno titoli tossici». Clicca per Condividere ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-01/prodi-governo-tecnico-solo-204018.shtml?uuid=AakV0tHE Titolo: PRODI «Non siamo da buttare, serve uno slancio» Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 10:59:10 am GLI INCONTRI DELLA FONDAZIONE CORRIERE DELLA SERA
Prodi: «Padoa Schioppa e io lasciammo nel 2008 con lo spread a quota 37» Il Professore: «Non siamo da buttare, serve uno slancio» Vegas (Consob): Ue, troppe Autorità vogliono comandare MILANO - Il 2008 non è un secolo fa, c'era già la crisi e a primavera inoltrata, quando si concluse la breve esperienza del secondo governo Prodi, già si vociferava del crac di una grande banca americana, che poi si rivelò essere la Lehman Brothers che andò gambe all'aria nel settembre successivo. L'8 maggio il Professore e il suo ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa facevano «i pacchi», come racconta Prodi, si preparavano a uscire da Palazzo Chigi con i loro scatoloni pieni di libri e di impegni ancora da terminare. «Ricordo quello che mi diceva Tommaso quell'8 maggio del 2008, lasciando il governo: "Romano lo spread tra Btp e Bund tedeschi a 37 punti base, lasciamo una eredità solida a chi viene dopo di noi, possiamo esserne orgogliosi"». Ecco, forse potrebbero bastare questo dato, uno differenziale a 37 contro i quasi 600 punti visti in questi giorni, e queste parole da ministro «per ricordare la statura di Padoa-Schioppa». Ma c'è molto ancora da dire sull'economista morto quasi un anno fa e al quale la Fondazione Corriere della Sera ha dedica venerdì sera questo colloquio sulle regole e la finanza tra Romano Prodi e il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, moderati dal presidente della Rcs, Piergaetano Marchetti. PRODI: LA CORSA DELLO SPREAD TUTTA DI ORIGINE POLITICA - «Non c'è ragione economica al mondo, se non la debolezza politica, che spiega la penalizzazione dell'Italia: noi non siamo un Paese da buttare, il debito è alto ma è cresciuto poco e molto meno che altrove. Ritroviamo il senso di uno slancio in avanti», esorta l'ex presidente del Consiglio e della Commissione europea che a margine dell'incontro riconosce che i mercati hanno visto subito in Mario Monti «un uomo fedele e coerenre» FINE DELL'EURO, NON LA VUOLE NESSUNO - L'idea che nell' Eurozona si possa andare ognuno per i fatti propri, mors tua vita mea, «è dir poco folle» per Prodi, «o si vive tutti assieme o si muore tutti assieme». Ma la caduta dell' euro non la vuole nessuno, spiega il Professore, «i tedeschi stanno benissimo e la Germania nell'ultimo anno ha avuto un surplus commerciale di 200 miliardi di euro. È solo demagogia politica, perchè in Germania sanno anche benissimo che noi non abbiamo disimparato a svalutare». VEGAS, VOGLIAMO INDIETRO L'EUROPA DELLA CASA COMUNE - E se per Prodi una «riforma internazionale del sistema della finanza oggi appare come un'impresa impossibile» Vegas vorrebbe un'Europa che rispolvera l'ideale delle «regole condivise». Gli europei si trovano in questo momento nelle «stesse condizioni degli ateniesi prima della guerra del Peloponneso» dice il presidente della Consob citando il quesito dello storico Tucidide che chiese agli ateniesi se si aspettassero di «cadere stando divisi». «Una riflessione di questo tipo - aggiunge - ci porta a parafrasare Margaret Thatcher quando disse "rivogliamo i nostri soldi" e a dire «we want our Europe back», vogliamo indietro la nostra Europa, la casa comune in cui la convivenza si basi su regole condivise da tutti». Paola Pica 11 novembre 2011 22:31© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_novembre_11/prodi-spread-vegas-marchetti_d6aebb9e-0c9f-11e1-bdbd-5a54de000101.shtml Titolo: PRODI, Politica tedesca irragionevole Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2011, 06:12:36 pm Prodi: "Politica tedesca irragionevole"
"Qui si sta giocando col fuoco. La crisi greca si doveva risolvere in fretta e in silenzio, ora è diventata una tragedia. L'ex governo ci ha danneggiato in Europa". 1 dicembre 2011 Sul tema della crisi dell'eurozona «la politica tedesca è spesso di una durezza e irragionevolezza straordinaria». Lo sostiene l'ex premier Romano Prodi che ha fortemente criticato la politica economica del Governo Merkel. «Si è rischiato di mettere in crisi l'euro - ha detto - ma farlo non è nemmeno nell'interesse tedesco visti i dati della sua bilancia commerciale. La Germania deve usare se non la propria saggezza, almeno la propria convenienza, perchè qui si sta veramente giocando col fuoco». Il problema dell'Europa, secondo Prodi, è che è «completamente divisa, non ha in sè la forza per agire, anche se rimane la più grande forza economica del mondo. La Merkel - ha rincarato Prodi - non cambia linea di una virgola, non vuole nessuna forma di collaborazione, non vuole rimedi che potrebbero risolvere i problemi, ha aderito al Fondo salvastati all'ultimo minuto e a stento. Sul fronte della crisi greca, ad esempio, si è perso tempo, si doveva risolvere in fretta e in silenzio, si poteva risolvere in cinque minuti ed invece è diventata una tragedia. Da allora si è continuato con provvedimenti inferiori alle necessità e presi in ritardo». La Bce deve diventare il prestatore di ultima istanza ed è necessario introdurre gli eurobond. Sono le due ricette che ipotizza Prodi per uscire dalla crisi dell'euro. «O chiudiamo bottega - ha detto il professore parlando a Bologna all'assemblea nazionale dell'Ancpl - o la Bce deve fare la Bce ovvero diventare prestatore di ultima istanza. La Francia è favorevole, ma la Germania irremovibile. Un altro tema è quello degli eurobond». Per sostenere l'emissione delle obbligazioni europee Prodi ha portato l'esempio americano. «La situazione della California è più grave di quella della Grecia - ha detto - ma nessuno pensa ad aggredirla perchè il debito degli Stati Uniti è difeso dalla massa critica. Il dollaro è un cane molto grosso. La Germania ha come bestia nera l'inflazione ma non aiuta per nulla il riequilibrio europeo». L'ex presidente della Commissione ha poi attaccato duramente il governo Berlusconi: "E' stato assente in tutte le decisioni europee importanti. È per questo che l'Italia è stata danneggiata fortemente e ora il sistema economico e bancario sono in difficoltà". «Il governo passato - ha detto Prodi - in Europa non c'era», eravamo «assenti in tutte le decisione importanti» dove «sono state prese decisioni che ci hanno fortemente danneggiato e sfavorito» per esempio nel campo della «regolamentazione delle banche, in quello agricolo e quello delle costruzioni». La critica principale, quindi, non è tanto sulle «decisioni prese» dai partner europei, ma dall'«assenza dell'Italia». Per questo, ora, il nuovo governo «dovrà fare un braccio di ferro» in particolare per superare l'eccessiva «restrizione di possibilità di azione delle nostre banche». «I parametri individuati - ha aggiunto - hanno sfavorito le nostre banche» che hanno chiuso i rubinetti anche con il mondo produttivo. da - http://www.unita.it/economia/prodi-attacca-merkel-br-politica-tedesca-irragionevole-1.358271?page=2 Titolo: PRODI "Francesi e tedeschi devono smetterla di fare i maestrini" Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 05:25:55 pm Economia
08/12/2011 - Prodi: "Francesi e tedeschi devono smetterla di fare i maestrini" "Non è nello spirito europeo dire agli altri: ubbidite" Fabio Martini Roma Romano Prodi i riti europei li conosce a memoria, ma non è soltanto la proverbiale vischiosità bruxellese a renderlo poco incline all'ottimismo alla vigilia di un vertice che si è caricato di grandi attese: «Intendiamoci, nell'ultimo periodo si sono determinate diverse novità politiche, il positivo discorso della Merkel al Bundestag; ma anche l'intervento delle Banche centrali guidate dalla Federal Reserve, prova indotta che la crisi dell'euro fa paura agli americani, anche perché renderebbe più difficile la rielezione del loro Presidente. Ma purtroppo non è ancora maturato quel cambiamento di metodo comunitario che potrebbe favorire una vera svolta: siamo ancora ai colloqui a due Germania-Francia, che aumentano il malumore dei 15 partner di area euro e degli altri 25 dell'Unione. Non è nello spirito europeo, ergersi a maestri e dire agli altri: ubbidite». Oltretutto l'esibito consolato Merkel-Sarkozy oramai è un effetto ottico, che malcela la perdita di potere della Francia: la parità tra i due è un ricordo? «Della debolezza della Francia si parla da qualche tempo nelle analisi dei circoli ristretti, ma quasi nessuno lo dice a viso aperto. Oramai quella a due è una costruzione artificiale. Lo dico avendo una alternativa nella testa. Mi attendevo che in questa situazione la Francia facesse la Francia, si rendesse conto della grande responsabilità verso altri Paesi, come l'Italia, la Spagna...» Per fare un fronte anti-tedesco? «Ma no, ci mancherebbe altro. La Francia avrebbe dovuto spingere per il ritorno ad una politica europea corale, ma questo non è nello spirito dell'attuale presidente francese». Qualcuno sussurra che a breve potrebbe realizzarsi una paradossale convergenza di interessi tra diversi, tra Germania e Italia: fantapolitica? «E su quale scambio si baserebbe questo nuovo asse? Noi, certo, ci siamo adeguati, perché nella vita ogni tanto capisci che se non vuoi morire, devi farti un'operazione. L'Italia si sta mettendo in sicurezza grazie ad un pacchetto pesante ma necessario. Ma la Germania è pronta a cambiare politica? In questo momento la Germania non mi sembra che voglia fare asse con nessuno». Nel vertice di Strasburgo la Merkel ha ripetuto a Monti che l'Italia deve fare i compiti a casa: la trova una metafora efficace? «Ripetere questa storia dei compiti a casa, lo trovo psicologicamente molto offensivo. Perché presume un maestro e un discepolo. Ma l'Europa non è nata con questo spirito: il vero maestro doveva diventare un'autorità politica europea, mentre oggi il potere politico lo esercitano a turno i vari Paesi e dunque il Paese più forte, la Germania. Che in questo momento pare intenzionata a tenere in mano pagella e registro». Nel 2003 fu proprio la maestra Germania a non rispettare le regole, che la commissione Prodi provò a far rispettare. Quel precedente ha pesato? «Certo che ha pesato. La Germania assieme alla Francia rifiutarono la richiesta della Commissione di mettersi in regola col Patto di stabilità. Allora la Germania fu un allievo disobbediente davanti ad un "maestro" riconosciuto da tutti, la Commissione» Ma proprio lei, un anno prima in una intervista a "Le Monde", aveva parlato di stupidità dei Trattati: non aprì la strada alle infrazioni? «Certo, avevo parlato di stupidità dei Trattati, nel senso che era ragionevole attenersi ai parametri aritmetici, ma tenendo sempre conto del contributo politico. Ebbi tutti contro, a cominciare dai tedeschi. Ma poco più di un anno dopo furono loro, tedeschi e francesi, che rifiutarono anche i parametri aritmetici». Di quella Commissione europea faceva parte anche Mario Monti, che fece con lei il suo "apprendistato" politico: come si sta muovendo? «Si sta muovendo bene. Come sempre. Sta facendo quel che aveva promesso di fare, ciò per cui è stato chiamato. C'è una catena del dovere che lega tutto e del dover essere». Ammesso che il vertice di domani non sia quello della svolta, lei crede che ci stiamo avvicinando ad una sorta di ultimo appello per l'Europa politica e per l'euro? «In crisi come questa non c'è mai un ultimo appello, salvo che non si commettano errori gravi che potrebbero portarci verso l'abisso. Sono sicuro che il vertice ci aiuterà ad uscire dalla tempesta ma che per ritrovare la via comunitaria dovremo passare attraverso diversi stop and go». Il suo appello, assieme a Giuliano Amato, per gli Stati Uniti d'Europa è a futura memoria? «Il nostro appello non è a futura memoria perché non abbiamo alternative. Punto». Punto? «Potrei ricordare i sorrisi, quando dieci anni fa parlavo del futuro bipolarismo Usa-Cina. I singoli Paesi europei, da soli, non hanno futuro. L'Europa può restare protagonista nel mondo solo se saprà unirsi». da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/433502/ Titolo: PRODI: l'euro ci ha protetto, ora facciamo l'Europa Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2011, 07:35:58 pm Prodi: l'euro ci ha protetto, ora facciamo l'Europa
ROMA - Dieci anni fa, allo scadere della mezzanotte tra il 31 dicembre del 2001 e il primo gennaio del 2002, ho compiuto, insieme al cancelliere austriaco, il primo acquisto in euro. In un chiosco di una Vienna in festa abbiamo comprato un beneaugurante mazzo di fiori per le nostre rispettive consorti. L’atmosfera gioiosa non era fuori luogo perché, con quel gesto simbolico, si celebrava un avvenimento di importanza storica: per la prima volta un folto gruppo di Paesi abbandonava la propria moneta per abbracciare una valuta comune. Con questa decisione essi rinunciavano a uno dei due fondamenti della sovranità, cioè la moneta, in attesa di condividere con i Paesi fratelli anche l’altro pilastro dello Stato moderno, e cioè l'esercito. Una decisione che voltava definitivamente le spalle al passato europeo di guerre e di sangue e che, nello stesso tempo, era in grado di inserire l’Europa tra i grandi protagonisti della politica e dell'economia mondiale. Con la moneta unica l’Unione Europea si candidava a entrare tra i costruttori della globalizzazione ormai in corso e non più arrestabile. Il traguardo dell’euro coronava un cammino lungo e difficile, durante il quale le politiche dei diversi Paesi avevano dovuto adattarsi alle regole comuni con l’adozione di cambiamenti radicali. A partire dall’Italia, che aveva accumulato ingenti debiti e aveva vissuto gli ultimi trent'anni in una devastante inflazione e una continua svalutazione. Fu quindi un cammino molto difficile e si arrivò al traguardo solo per la comunanza di obiettivi da parte dei leader dei principali Paesi europei: Germania, Francia, Italia e Spagna decidevano di mettere definitivamente in comune il proprio destino. Non ci nascondevamo le difficoltà di una simile decisione ed eravamo coscienti che a questa ne dovevano seguire altre, perché non è possibile avere una moneta comune senza condividere le linee di una comune politica economica. Ricordo quante volte sollevai questo problema, ammonendo che senza realizzare quest’obiettivo una crisi sarebbe stata prima o poi inevitabile. Ricordo le sagge risposte del cancelliere Kohl, che replicava dicendo che nemmeno Roma era stata edificata in un giorno e che le decisioni necessarie per fare convergere le politiche economiche sarebbero state prese in seguito, con il tempo e la ponderazione necessari. Una risposta saggia, che non poteva però tenere conto del progressivo cambiamento dello spirito pubblico e delle leadership politiche europee. Agli anni della speranza sarebbero infatti seguiti gli anni della paura: paura della globalizzazione, paura della disoccupazione, paura della Cina. Paure che si potevano vincere solo con un’Europa unita e che invece hanno finito con interrompere il suo cammino verso l’unità e favorire il dilagare del populismo. Eppure per otto anni l’euro ha funzionato come doveva, riducendo l’inflazione, obbligando i Paesi a una maggiore disciplina di bilancio e, attraverso la diminuzione dei tassi di interesse, rendendo possibile il mantenimento dell’equilibrio finanziario anche nei Paesi pesantemente indebitati, come l’Italia. Le divergenze nelle politiche economiche hanno tuttavia reso quest’equilibrio sempre più precario, fino a che la crisi greca non ha messo a nudo le differenze di efficienza e di produttività che si erano accumulate dopo la costruzione dell’euro. La crisi greca che, per le sue modeste dimensioni, avrebbe potuto essere l’occasione per costruire quella politica di coesione ritenuta necessaria fin dal momento della fondazione dell’euro, ha segnato invece l’inizio di una turbolenza che non ha ancora avuto termine. La zona euro, che globalmente gode di una situazione della finanza pubblica di gran lunga migliore di quella degli Stati Uniti, è ora vittima di una crisi che, per ironia della sorte, è proprio partita dagli Stati Uniti. La politica unitaria americana ha trasformato in forza la sua debolezza, mentre le divisioni europee hanno trasformato la forza europea in debolezza. Oggi il nostro dovere è quindi quello di perseguire una politica unitaria anche se non omogenea, perché ogni governo deve fare la sua parte ma al seguito di una guida generale e concordata. All’Italia spetta il duro compito di porre un freno agli squilibri fra spese ed entrate che, negli ultimi anni, hanno eroso i vantaggi accumulati dalla provvidenziale caduta dei tassi di interesse provocata dall’introduzione dell’euro. E questo lo sta facendo il governo Monti. Tuttavia i compiti a casa non basteranno mai se non si ritorna alle fondamenta dell’euro, per cui ogni Paese deve fare il suo dovere ma sotto un’autorità europea in grado di stabilire quali siano questi doveri e di farli rispettare sia quando la deviazione avviene in Italia sia quando, come è capitato nella prima fase della vita dell’euro, erano proprio la Germania e la Francia ad allontanarsi dalle regole comuni. Il direttorio a uno (cioè della sola Germania) non si è dimostrato capace di costruire l’unità indispensabile per difendere tutti noi europei dalla speculazione internazionale. È inutile girare attorno al problema. O noi costruiamo gli strumenti comuni ormai noti, e cioè un reale potere della Banca centrale europea e gli eurobond per una comune difesa della moneta, o la crisi continuerà a lungo, perché contrastata da azioni sempre deboli e ritardate. Nonostante tutto ciò, penso che l’euro non solo si salverà ma celebrerà molte altre decine di compleanni perché esso costituisce la forza della Germania e la sicurezza di tutti gli altri Paesi europei. La sua caduta non conviene a nessuno: le conseguenze di una sua dissoluzione sarebbero per tutti catastrofiche. Mentre la Germania perderebbe ogni vantaggio commerciale con una valuta in salita verso le stelle, l’Italia si ritroverebbe di nuovo nel gorgo dell’inflazione e dell’oppressione di insostenibili tassi di interesse. L'uscita dalla crisi dell’euro sarà quindi lenta e faticosa, perché deve percorrere una strada piena di paure e pregiudizi, ma non vi è alcuna alternativa. Forse non è questo il modo più gioioso di celebrare un compleanno ma è almeno consolante pensare che i prossimi compleanni sicuramente ci saranno e soprattutto saranno migliori. Sabato 31 Dicembre 2011 - 14:49 © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=43538&sez=HOME_INITALIA&npl=&desc_sez= Titolo: PRODI benedice le primarie "Oggi sono indispensabili" Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2012, 03:51:57 pm Prodi benedice le primarie "Oggi sono indispensabili"
L'ex premier si schiera, e propone di utilizzare le consultazioni anche per i parlamentari: "Una volta i partiti selezionavano la classe dirigente, oggi sono soltanto macchine elettorali. Quello strumento è sempre più importante" DI ELEONORA CAPELLI Bologna tira la volata alle primarie per i parlamentari, con la benedizione dell’ex premier Romano Prodi. "Se le primarie si potevano forse evitare quando c’era una seria struttura nei partiti - dice Prodi, che proprio dalle primarie fu incoronato candidato premier nel 2006 - oggi sono indispensabili". Primarie fondamentali anche per la scelta dei parlamentari, quindi, secondo il professore, in considerazione non solo dell’attuale legge elettorale, ma anche della debolezza dei partiti. "Negli Stati Uniti in vista delle elezioni si organizzavano solo le primarie, quindi quello strumento era il punto più forte e importante dell’attività politica - spiega Prodi -. In Europa invece i partiti avevano strutture, dinamiche interne, modelli di carriere, curriculum da costruire. Si cominciava facendo i consiglieri comunali, poi magari si diventava consigliere provinciale, se eri bravo venivi indicato come assessore e così via". Le cose però sono cambiate, anche nel vecchio continente e in Italia i partiti hanno perso il loro ruolo di selezione della classe dirigente. "I partiti sono diventati sempre di più solo macchine elettorali - constata amaramente l’ex premier - e quindi le primarie diventano sempre più indispensabili". I vertici del Pd bolognese sono molto sensibili al tema, già durante la due giorni di Pippo Civati e Debora Serracchiani in piazza Maggiore, a fine ottobre, era stata avanzata la proposta. Il deputato Pd Salvatore Vassallo, docente dell’Università di Bologna, oggi e domani all’assemblea nazionale di Roma proporrà un ordine del giorno che impegni la segreteria a fare le primarie per i parlamentari se non si cambia legge elettorale. (20 gennaio 2012) © Riproduzione riservata da - http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/01/20/news/prodi_benedice_le_primarie_oggi_sono_indispensabili-28443658/ Titolo: Sarà Prodi il «grande saggio» del forum sul piano strategico Inserito da: Admin - Marzo 12, 2012, 04:22:26 pm Merola: «dimezzeremo il nostro debito»
Sarà Prodi il «grande saggio» del forum sul piano strategico L'ex premier guiderà i tre appuntamenti pubblici che presenteranno alla città il progetto BOLOGNA - «Io e la presidente Draghetti abbiamo chiesto a Romano Prodi la sua disponibilità a presiedere il forum del piano strategico. Lui sua risposta positiva è una grande notizia per la città». Il sindaco Virginio Merola annuncia così l'investitura dell'ex premier a «grande saggio» del piano strategico di Bologna. L'ex presidente della Commissione europea guiderà i tre appuntamenti pubblici che presenteranno alla città il progetto. L'annuncio di Merola è avvenuto nel corso dell'assemblea di Confcooperative, durante la quale il primo cittadino ha anche fatto sapere che «entro fine mandato abbiamo l'obiettivo di dimezzare il nostro debito». A quanto pare, il deficit di Palazzo d'Accursio dovrebbe attestarsi su valori intorno ai 300 milioni di euro. Una cifra non particolarmente gravosa che comunque l'ammninistrazione è sicura di riuscire a dimezzare. Marco Madonia 02 marzo 2012© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/economia/2012/2-marzo-2012/sara-prodi-grande-saggio-forum-piano-strategico-2003517361837.shtml Titolo: Prodi: «Sfida da thriller sull'economia cinese» Inserito da: Admin - Marzo 12, 2012, 04:23:12 pm Il dibattito
Prodi: «Sfida da thriller sull'economia cinese» Vacchi: basta delocalizzare, attiriamo qui i loro soldi BOLOGNA - Non ha scomodato immagini che incutono timore, né metafore mitologiche. L’economia cinese per Romano Prodi è semplicemente un thriller. A questa fotografia è arrivato ieri dopo quasi due ore di cifre e citazioni storiche con l’ambasciatore cinese Ding Wei in Santa Lucia, un incontro promosso dall’Alma Mater nell’ambito di una serie di faccia a faccia con i protagonisti dei cambiamenti economico-politici di questi anni. Finita la corsa allo sviluppo degli ultimi vent’anni, ha spiegato l’ambasciatore, la Cina ha messo al centro del suo dodicesimo piano quinquennale di sviluppo una politica interna di bilanciamento. Un traguardo ambizioso che ha affascinato l’ex premier: «L’economia cinese ha obiettivi mai posti, è un thriller, non sapremo come andrà a finire, questo equilibrio a cui punta riguarderà la differenza tra campagne e città, i salari — ha continuato Prodi — con oltre un miliardo di persone che necessiteranno di energia, materie prime e cibo, la politica della Cina sarà a 360 gradi e lo sviluppo diventerà anche un problema di politica estera, considerando le decine di migliaia di cinesi che vivono in ogni Paese». L’attuale motore economico non è più sostenibile, ha confermato Ding Wei di fronte alle autorità cittadine e a 700 studenti assiepati nell’Aula magna. L’ex impero celeste nelle parole del suo diplomatico deve aumentare il terziario, investire ancor di più in tecnologia e ricerca e nella svolta ecologica (oltre a doversi confrontarsi sul tema dei diritti umani): «Dobbiamo essere creativi come voi italiani, la vostra economia di sostanza vi aiuterà a superare la crisi. Inoltre Bologna è uno dei luoghi più importanti per gli scambi tra l’Italia e la Cina». Lungo questo nuovo corso sottolineato da Ding Wei si è innestato il discorso tenuto al termine dell’incontro da Alberto Vacchi, presidente di Unindustria Bologna, dal 1995 presente con le sue aziende nella Repubblica popolare cinese. «La delocalizzazione produttiva non è più un elemento condizionante, è fondamentale invece investire sullo sviluppo della Cina, è impensabile affrontare il futuro senza un confronto con essa e noi possiamo contare su eccellenze di nicchia che là hanno possibilità di crescita». Vacchi ha poi fatto un invito ai rappresentanti istituzionali per superare quello che è considerato un vulnus, ovvero le ridotte dimensione delle aziende bolognesi, le cosiddette «multinazionali di tipo tascabile»: «Promuoverle con ogni mezzo e portarle a riuscire nel confronto con il mercato cinese». E ha fatto l’esempio del Polo di Budrio: «Credo che Bologna debba creare soluzione privilegiate e che non si debba avere paura degli investimenti cinesi, le forze finanziare che possono essere attratte possono dare forza». Andrea Rinaldi 24 febbraio 2012© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/economia/2012/24-febbraio-2012/prodi-sfida-thriller-economia-cinese-1903423382395.shtml Titolo: PRODI IL MONDO CHE VERRÀ Inserito da: Admin - Aprile 03, 2012, 05:25:59 pm “Il Mondo Che Verrà”: tre incontri televisivi con Romano Prodi su La7
IL MONDO CHE VERRÀ Tre incontri in esclusiva con ROMANO PRODI Su LA7, il martedì alle 23:00 dall’11 al 25 ottobre 2011 Dall’aula dello Stabat Mater dell’Università di Bologna, tre incontri con il Professor Romano Prodi sul presente e sul futuro dell’economia mondiale. La sfida dei continenti e le armi per combattere la crisi, cosa fare contro l’aumento della disuguaglianza, la paura del futuro e come vincerla. Tre appuntamenti per capire il mondo che c’è e Il Mondo Che Verrà. Il Professor Romano Prodi torna in cattedra. Lo fa per confrontarsi con una classe di studenti italiani e stranieri provenienti dalle diverse facoltà dell’Università di Bologna sulla situazione mondiale contemporanea e i possibili sviluppi futuri. A coadiuvare il dibattito, la giornalista e conduttrice Natascha Lusenti. Il primo appuntamento con Il Mondo Che Verrà – andato in onda l’11 ottobre 2011 – è stato dedicato alla cosiddetta “La Sfida dei continenti”, più precisamente quello europeo, quello asiatico e quello americano, e all’evoluzione dei rapporti socio-politici ed economici tra di essi. Partendo dall’ascesa dei grandi Paesi emergenti, il Professore analizza l’attuale instabilità del sistema economico occidentale, la crisi dei debiti sovrani e la strada che ha portato a questa situazione difficile. L’euro sopravviverà? Romano Prodi affronta così la questione: “L’Euro resisterà perché nessuno ha interesse a buttarlo a mare, non certo la Grecia, non certo l’Italia, ma soprattutto non la Germania. Perché oggi la Germania è di gran lunga il Paese più potente e più forte dell’Europa grazie all’euro”. E ancora: “Non si può avere una moneta comune senza avere anche un bilancio, un politica finanziaria ed economica comune. (…) O noi stiamo assieme, o la battaglia soli non la vinciamo. Neanche la Germania può farcela da sola. E’ grande per l’Europa, è piccola per il mondo”. Oltre alla situazione finanziaria, Prodi esamina infine la crisi alimentare, l’espansione demografica e il futuro delle risorse energetiche. Un’analisi del quadro presente e dei possibili scenari futuri. Il secondo appuntamento, intitolato “La Disuguaglianza”, ha avuto come fulcro la questione della sempre più grande divergenza tra classi ricche e classi povere ed è andato in onda il 18 ottobre 2011. Commentando la divergenza sempre più marcata tra la popolazione povera e quella più ricca del mondo, Romano Prodi analizza le cause che hanno portato a questa situazione: gli squilibri crescenti nella distribuzione dei redditi e nella pressione fiscale, la mancanza di crescita, il declino del welfare. Ed è proprio da tasse, welfare e istruzione che, secondo il Professore, bisogna partire per costruire una società più equa e più giusta. E ancora si percorre la storia del welfare state, per capire perché nel mondo occidentale stia oggi regredendo. Il Professor Prodi affronta così il tema e le sue conseguenze: “Un problema del welfare è la riduzione delle risorse, ed è frutto della crisi. É un problema molto serio che obbliga ad alcuni provvedimenti non piacevoli. Aumenta l’età media delle persone in Italia, il cambiamento dell’età pensionabile si esige, altrimenti non ci sono le risorse per tutti. Il problema esiste.” Infine il focus si sposta sulla situazione italiana: dal ruolo attuale dell’istruzione fino al livello di ricchezza e di equità presenti nel Paese. Romano Prodi lo commenta così: ‘C’è un problema di distribuzione, noi abbiamo un numero di famiglie poverissime. Una famiglia su cinque non arriva alla fine del mese. Abbiamo sì ricchezza, ma mal distribuita.” Il terzo appuntamento di questo ciclo di incontri è andato in onda il 25 ottobre 2011 con “La Paura”. Questo e’ il titolo scelto per descrivere tre grandi tematiche del mondo contemporaneo: l’immigrazione, la concorrenza internazionale e il futuro dei nostri figli. Partendo dalla situazione dei trentenni di oggi, che vivono in un Paese che mostra segni di sofferenza, il Professore approfondisce lo stato della crescita economica italiana, una crescita che non c’è. Prodi descrive lo stato di disoccupazione e di lavoro precario in Italia, analizzando così il fenomeno della “fuga dei cervelli” e dei giovani italiani che non studiano, non lavorano e non sono in un programma di formazione: “Quasi la metà dei giovani tra i 15 e i 24 anni sono precari. Questa è veramente una tragedia nella tragedia: la grande disoccupazione giovanile e il precariato che domina anche nella parte occupata. Allora qui bisogna veramente cambiare registro.” Da qui, partendo dal confronto con Cina e Stati Uniti e domandandosi se esistono le medesime paure, si arriva al problema del ricambio generazionale, che investe sia il mondo del lavoro sia quello della politica. Infine, il Romano Prodi si sofferma sul tema dell’immigrazione, esaminando i dati reali di questo fenomeno e la percezione di esso deformata dalla crisi e dalla politica dell’ultimo decennio. Il Professore la commenta così: “La percezione è che gli immigrati siano molti di più di quelli che sono. Innanzitutto per la velocità con cui sono arrivati. E’ vero che gli stranieri in Italia sono meno che in Francia e Germania, ma sono arrivati velocissimi negli ultimi anni perché la nostra società si è trasformata più recentemente ma più in fretta. Uno dei nostri problemi che dobbiamo curare è l’integrazione, è capire che riceviamo delle risorse potenzialmente straordinarie e, adagio adagio, devono essere integrate. La generazione successiva deve diventare una generazione di italiani. Questa è la grande sfida dell’immigrazione.” In chiusura di puntata, un question time con gli studenti: dal coordinamento delle politiche economiche dei paesi europei in risposta alla crisi a come e quando affrontare le riforme strutturali, dalla posizione attuale dei laureati in Italia al rapporto storico tra USA e Italia e alla sua evoluzione futura nel campo economico. (Ogni puntata è disponibile su www.la7.tv, la catch up tv di LA7). da - http://www.romanoprodi.it/documenti/%e2%80%9cil-mondo-che-verra%e2%80%9d-tre-incontri-televisivi-con-romano-prodi-su-la7_3981.html Titolo: PRODI L'intervista AL PADRE DEL PD Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2012, 12:16:02 pm L'intervista AL PADRE DEL PD
Prodi: «Ora il partito deve aprirsi Via al ricambio generazionale» L'ex premier: «Bello il discorso della sconfitta di Renzi, ha un futuro. Ho contribuito alla riuscita delle primarie» «Mi è piaciuto il modo in cui Matteo Renzi ha riconosciuto la sconfitta: la politica è fatta anche di questi momenti e bisogna saperli gestire». Presidente Romano Prodi, di questo passo qualcuno potrà pensare che lei ha votato per il sindaco di Firenze... «Non penso che nessuno sia autorizzato a pensare alcunché, dato che la mia scelta è e resta riservata. Ho ritenuto fosse mio dovere contribuire alla riuscita di queste primarie, di cui modestamente credo di essere uno dei principali sostenitori. L'ho fatto, andando a votare e dicendolo pubblicamente, ma mantenendo sempre un profilo da esterno. Credo che la politica sia una cosa seria, non da dilettanti o da irresponsabili. E che il mio ruolo passato, unito a quello attuale, imponga una certa sobrietà in questo senso». Ammetterà che Renzi non se l'è giocata male... «Ha fatto la sua partita nel modo e con gli argomenti che riteneva giusti. Il risultato dice che una parte significativa dell'elettorato l'ha ascoltato e ha capito le sue argomentazioni, anche se ho l'impressione che le polemiche dell'ultima settimana non siano state apprezzate dalla maggioranza degli elettori del centrosinistra». Il quasi 40 per cento ottenuto dal sindaco rischia di diventare un problema per il Partito democratico? «E perché mai? Quando dall'elettorato arriva una legittimazione diretta, com'è avvenuto in questo caso, non è mai un problema. Considerando l'età e l'impostazione che ha dato alla sua campagna, Renzi ha un futuro davanti a sé. Ha creato una squadra nel territorio, un serbatoio di energie che, se bene utilizzato, non potrà che dare vitalità al partito». Ha vinto Bersani, il suo pupillo ai tempi del governo del 2006... «Pier Luigi si è mosso molto bene e si è meritatamente ritagliato una posizione di grande forza. È stato capace di interpretare i tormenti e i nodi che assillano il Paese, dando alle primarie un profilo ricco di contenuti». Ma adesso, proprio in virtù di una vittoria così ampia, molti si aspettano da Bersani un rinnovamento ampio, a cominciare dalla classe dirigente: ne sarà capace? «Ora ha gli strumenti per farlo. Ha in mano il partito dopo una battaglia personale molto coraggiosa. Non dimentichiamo che non erano pochi nel Pd quelli che non volevano le primarie. E sono loro, a questo punto, i veri sconfitti». Riuscirà Bersani ad essere, almeno un po', rottamatore? «Preferisco il termine riformatore. Il ricambio generazionale è necessario. Ma deve partire dal basso. Non è il segretario che deve circondarsi di chissà quale schiera di eletti, ma vanno create le condizioni perché possa emergere una nuova classe dirigente». E quali sono gli strumenti necessari? «Penso alle primarie di collegio, a una riforma elettorale che restituisca voce ai cittadini, a un Pd inclusivo e aperto ai fermenti dal basso. È triste pensare che ci sono parlamentari di cui nessuno ha mai visto la faccia sul territorio». Quanto le sente sue queste primarie? «Ne sono orgoglioso soprattutto per il Pd, che ha dimostrato di sapere anticipare una voglia di cambiamento sempre più incalzante. Nel momento in cui i partiti hanno perso la capacità di fare selezione interna, tenendo agganciati settori della società civile, le primarie rappresentano un'importante evoluzione della democrazia. In questo senso, lasciando da parte gli Stati Uniti, che hanno una storia loro, l'Italia è all'avanguardia. La Francia ci sta seguendo e penso che anche la Germania, dove ancora la struttura-partito ha una sua efficacia, imboccherà presto questa strada». Le primarie alle quali partecipò lei nel 2005 superarono i 4 milioni di votanti: qualcuno, rispetto alle attuali, le ha però definite «celebrative»: è d'accordo? «La consultazione di allora non presentava un panorama concorrenziale, ma proprio per questo il dato dell'affluenza è stato ancora più spettacolare: fu la conferma che incrociavamo una fortissima esigenza che veniva dal basso. Ed è importante che quella lezione sia stata compresa negli anni successivi dal Pd». C'è chi dice che la vittoria di Bersani farà rispuntare in Berlusconi la voglia di riprovarci: lei crede? «Berlusconi non si è mai ritirato. Si è messo in un angolo e aspetta di vedere cosa più gli conviene fare. Non se n'è andato». Francesco Alberti 4 dicembre 2012 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_04/intervista-prodi-ex-premier_fcc586a0-3ddb-11e2-ab02-9e37f2f89044.shtml Titolo: Romano Prodi: «Perché spero che vinca il centro-sinistra» Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2013, 12:07:44 pm Intervista a Romano Prodi: «Perché spero che vinca il centro-sinistra»
di Riccardo Barlaam 17 febbraio 2013 «Spero che dal voto venga fuori una netta affermazione del Pd e della coalizione di centro-sinistra così da assicurargli la responsabilità di governo». Romano Prodi, 73 anni, è appena tornato nella sua Bologna dopo un tour de force di una settimana che lo ha portato in Senegal, Burkina Faso, Mauritania e Niger. Ogni giorno incontri con capi di stato, primi ministri, politici e società civile. Da quando, l'11 ottobre scorso, è stato nominato inviato speciale dell'Onu per il Mali e il Sahel, continua a girare come una trottola. Anche per superare l'emergenza in Mali, Prodi vuole lanciare un Fondo internazionale di aiuti per lo sviluppo del Sahel, la lunga fascia di sabbia che attraversa l'Africa, dalla Mauritania alla Somalia, area tra le più povere e instabili al mondo. «È una umanità dolente. Per questo bisogna girare il mondo a chiedere la carità». In queste settimane non è mai voluto entrare in quello che ha definito il "chiacchiericcio" della politica italiana. Ma stanco - come molti italiani - di ascoltare promesse che hanno preso a volare come gli asini ha deciso di rompere il suo silenzio con questa intervista al Sole 24 Ore. Professore, come giudica questa campagna elettorale? In conseguenza dei fuochi d'artificio di Berlusconi, la campagna elettorale è precipitata in una fase di promesse incredibili alle quali non potrà essere dato alcun seguito concreto. Rispetto alle ultime elezioni c'è qualcosa di diverso? La dose di aggressività e di vaghezza delle proposte attuali è superiore a quella delle elezioni precedenti. Tuttavia la campagna di Berlusconi sembra stia dando i suoi frutti stando agli ultimi sondaggi... Berlusconi ha posto sul tavolo mirabolanti e irrealistiche promesse di vantaggi a breve. Pure questa volta le sue promesse, pur esercitando una forte presa sugli elettori, si trasformerebbero in tragedie dopo qualche mese. Anche nelle elezioni politiche del 2006 aveva usato la molla del taglio dell'Ici per attirare gli indecisi. Il gioco è sempre lo stesso. Ripropone una misura fiscale - l'abolizione dell'imposta sugli immobili - che anche se nel 2006 non fu sufficiente a dargli la vittoria, gli fece guadagnare oltre cinque punti nell'ultima settimana. Questa volta, dato che il divario da recuperare è ancora maggiore, ha rincarato la dose promettendo non solo l'abolizione dell'Imu ma anche la restituzione di quanto pagato in precedenza. È possibile realisticamente adottare simili misure? Come sette anni fa, Berlusconi sa benissimo che l'Imu (Imposta municipale unica) è necessaria. I Comuni con questi soldi pagano la mensa dei bambini, lo scuola-bus, la pulizia delle strade. Insomma, finanziano le attività ordinarie dei servizi pubblici più vicini al cittadino. L'Imu - anche se doverosamente rimodulata, com'era nel mio governo - dovrebbe entrare totalmente nelle casse dei Comuni. Lei pensa che gli italiani crederanno a Berlusconi? I vantaggi a breve, ancorché necessariamente seguiti da conseguenze disastrose, sono molto attraenti per gli elettori, tentati dal preferire l'uovo di oggi alla gallina di domani. E questa volta è ancora più grave perché gli italiani sanno benissimo che il pollaio oggi è vuoto. Il Paese è esausto, con una progressiva, paurosa, caduta di reddito, di investimenti, consumi e occupazione. In questo momento l'Italia ha bisogno di altro. Di fatti, programmi, cose concrete. Non si può infatti negare che la sofferenza sia altissima e che sia ulteriormente aumentata nell'ultimo anno. Il declino degli anni precedenti è continuato, portando i numeri della nostra economia indietro di venti anni. Vuole dire che anche la cura di rigore del professor Monti non ha dato gli effetti sperati? Riflettendo su quanto è avvenuto lo scorso anno dobbiamo distinguere due fasi. La prima, in cui la necessità di riprendere velocemente la credibilità perduta con il governo Berlusconi era prioritaria rispetto a ogni altro obiettivo. Il giorno in cui cadde il mio governo entrò nella mia stanza Tommaso Padoa-Schioppa. Ricordo ancora che disse: «Sai quanto è oggi lo spread? È a 34, un sogno per l'Italia». Con Berlusconi al governo lo spread tra BTp e Bund è arrivato fino a 575 e, conseguentemente, gli interessi sul debito schizzati sopra al 7%. Come si fa a sostenere che lo spread non conta nulla? In quella situazione, era assolutamente prioritario imporre una politica di drastico aggiustamento dei conti. Monti ha fatto un lavoro eccellente per salvare l'Italia dal fallimento. Non è bastato. È mancata la fase due, pare di capire. A partire dall'estate la politica del governo tecnico avrebbe dovuto essere accompagnata da una politica di rilancio, dato che diveniva chiaramente inutile bloccare la crescita del deficit se continuava a calare fortemente il Prodotto interno lordo. Ne scrissi in luglio anche perché proprio in quel periodo cominciavano a uscire i risultati di accurate ricerche internazionali che dimostravano che un prolungato avvitamento verso il basso del Pil rendeva impossibile il risanamento del debito pubblico, qualsiasi fosse stato il livello di austerità applicato. In questo scenario ci si sarebbe aspettati una campagna elettorale incentrata sui temi dell'economia reale. Nessuno parla della competitività. È da sempre la mia grande preoccupazione. Partendo da questa situazione si doveva aprire una campagna elettorale attenta ai temi dello sviluppo e del lavoro in un quadro controllato delle spese che, almeno in buona parte, aveva già tranquillizzato i partner europei. Ricordiamo che quando si parla di lavoro non si può parlare solo di leggi sul lavoro ma di sviluppo per creare occupazione. E invece è partita la gara a chi la spara più grossa? È triste ammetterlo ma è partita una campagna che, ignorando strategie e impegni precedenti, si è interamente concentrata su impossibili riduzioni di imposte. La gara fra un rigorista a oltranza e un consumato scialacquatore non può non vedere quest'ultimo fortemente avvantaggiato. Nessuno dei due vincerà il campionato. Intanto però i mercati internazionali sono di nuovo entrati in fibrillazione. E i mercati hanno purtroppo una memoria più lunga di quella degli elettori. L'Italia non può permettersi un nuovo periodo di instabilità. Credo tuttavia che il centro-sinistra sia in grado di impostare una strategia di sviluppo di lungo periodo pur tenendo i conti in ordine. Insomma ci vorrebbe un Prodi-tris? Non scherziamo. Bersani sarà un ottimo primo ministro, nel solco tracciato dai precedenti governi di centro-sinistra. In passato avevo battezzato questa politica come la "politica della formica", che deve lavorare con pazienza, riorganizzando la pubblica amministrazione per contenerne le spese e aumentarne l'efficienza, ma investendo nello stesso tempo nelle risorse umane, dalla scuola alla ricerca, in una politica industriale vera, assente ora nel Paese. Ripartiamo dalla politica industriale. Mi spieghi meglio la sua visione… Non è solo mia. Ne parla Squinzi un giorno sì e un giorno sì. Ne parlano le forze sociali. Il presidente Napolitano in più occasioni, negli ultimi anni, ha insistito con forza sulla necessità di investire in ricerca e sviluppo. Parole inascoltate. Solo con un'innovazione applicata in tutti i campi in cui abbiamo ancora possibili vantaggi possiamo salvarci. Vi è ancora spazio per le "specialità italiane" nel mondo globalizzato ma queste specialità debbono essere mantenute e valorizzate da una incessante tensione a innovare. Ha in mente qualche modello in particolare a cui ispirarsi: la Silicon Valley californiana, la Germania, la Cina... Da tutte le storie di successo c'è qualcosa da imparare. Noi abbiamo ottime mani, ottimi cervelli. Dobbiamo ritrovare solo un po' di orgoglio. Il sistema deve sostenere chi cerca di fare e di fare bene. Non ostacolarlo. Tanti sono gli esempi a cui far riferimento. La Corea del Sud si avvicina molto all'Italia per dimensione e, come noi, non possiede materie prime. Ebbene, investendo ogni anno più del 3% del Pil in ricerca e sviluppo, è ora prima al mondo in 7 tra i grandi settori produttivi. Pensate che i tre colossi Samsung, Lg e Hyundai ogni anno investono dall'8 al 10% del fatturato in R&D. Il problema principale, anche per far ripartire il lavoro, è la produzione. È lì la chiave di tutto. In Italia manca da tempo una politica industriale credibile. Di questo ha bisogno il Paese. Di questo hanno bisogno le imprese e i lavoratori. È una strategia faticosa e a lungo termine, proprio l'opposto di quanto emerge dalla maggior parte delle tuonanti dichiarazioni di questa campagna elettorale. Lei è l'unico che è riuscito a battere Berlusconi due volte. Gli italiani le hanno dato credito ma i suoi governi non hanno tenuto. Non è riuscito a portare a termine il suo lavoro. Chi assicura che non succederà ancora? Mi auguro per l'Italia che le forze riformiste riescano dopo le elezioni a stringere attorno al Pd un patto di ferro che duri una legislatura. L'unità della coalizione è la priorità delle priorità. Come per un marinaio che naviga in mare aperto, in un mare in tempesta come è quello attuale, l'unità è la stella polare che deve guidare il cammino del governo. L'interesse del Paese deve prevalere. Io sono ottimista. Vendola non è Bertinotti: ha un forte senso delle istituzioni e in Puglia ha ben governato. Posso però dirle ancora una cosa? Dica... Volevo ricordare a proposito di chi afferma che il centro-sinistra non è una forza di governo ma il partito della spesa, che non è affatto così. Questo è dimostrato dai numeri dei due esecutivi dei quali ho avuto la responsabilità. In entrambi i governi la quota del debito pubblico è diminuita di oltre dieci punti senza rallentare il trend di crescita. Quali sono questi numeri? Alla conclusione del mio ultimo governo, a maggio 2008, il rapporto deficit/Pil era al 2,6%, il debito pubblico era di 1.654 miliardi di euro, il rapporto debito/Pil a 106,1. Il 16 novembre 2011 - quando Berlusconi ha lasciato il governo - il rapporto deficit/Pil era salito al 3,8%, il debito pubblico a 1.912 miliardi - ben 258 miliardi di euro in più in soli tre anni. Ora esso ruota attorno ai 2mila miliardi, con il rapporto debito/Pil salito al 120,7%. Gli italiani avranno anche la memoria corta ma i dati restano questi. Nel merito, che cosa ha fatto il suo governo per le famiglie e le imprese? Le nostre parole-guida erano tre: equità, sviluppo, risanamento. Dopo pochi mesi di governo abbiamo introdotto gli sgravi Ici sulla prima casa per le classi medie, lasciando la tassa intera solo alle case di lusso. Abbiamo aumentato le pensioni basse. Rilanciato i programmi di edilizia sovvenzionata. Introdotto la completa portabilità dei mutui, la liberalizzazione in diversi settori dell'economia, abbiamo introdotto la class action, le azioni collettive risarcitorie a favore dei cittadini. Introdotto i bonus per gli incapienti, le misure fiscali per le donne lavoratrici, il piano-nidi e i bonus per le famiglie numerose. E per le imprese? La Finanziaria 2008 prevedeva che l'extragettito della lotta all'evasione, 10 miliardi di euro, venisse utilizzato per ridurre le imposte alle imprese e la pressione fiscale sul lavoro dipendente. Il tutto cercando di costruire un delicato equilibrio fra le imposte e le spese. Una politica faticosa, poco "sexy" a livello mediatico ma che, se fosse proseguita, avrebbe visto l'Italia oggi con un rapporto debito-Pil al di sotto della media europea e con un livello di reddito pro-capite di certo superiore a quello attuale. Il contesto internazionale è molto cambiato dopo la crisi dei mutui Usa e quella dei debiti sovrani. Comunque vada, chi oggi è chiamato ad assumere una responsabilità di governo si trova a operare in un quadro molto complesso. Non siamo solo noi italiani i responsabili del triste stato delle cose. Non dobbiamo mai dimenticare il ruolo funesto giocato dalla finanza internazionale (soprattutto americana) e dalla dottrina economica che ha dominato dal 1980 in poi, producendo in tutto il mondo un progressivo aumento delle disuguaglianze. Gli americani continuano a sostenere la loro economia con il debito, con politiche espansive. Noi europei siamo obbligati dalle regole del pareggio di bilancio. Cosa vuole che le dica...Ci troviamo di fronte a un'Europa guidata dalla Germania che impone una politica recessiva anche in presenza di crescita zero, di un enorme attivo della sua bilancia commerciale e di una totale assenza di un qualsiasi pericolo di inflazione. Ci vorrebbe più Europa e meno Germania. L'accordo al ribasso appena raggiunto a Bruxelles sul bilancio europeo 2014-2020 sembra andare in un'altra direzione. Ha vinto Cameron. Vincono gli euro-egoismi. Non è una cosa buona. La riduzione del bilancio europeo messa in atto nei giorni scorsi contiene un messaggio preciso: ogni Paese dell'Ue deve solo curare i propri interessi. Ogni euro speso per lo sviluppo o la solidarietà europea è semplicemente buttato via. Verrebbe da dire che manca un autentico spirito europeista. I padri fondatori, che avevano vissuto il dramma della Guerra, avevano il coraggio di guardare lontano senza badare al consenso o agli interessi di bottega. Mi duole ammetterlo ma dall'adozione dell'euro l'Europa non è andata molto avanti. Sappiamo che il futuro del nostro Paese è strettamente legato all'Europa. Sappiamo che l'Unione europea non si dissolverà ma, anzi, proseguirà nel cammino della propria costruzione. Ma fino a quando non emergerà una vera leadership europea, nessun Paese, Italia compresa, potrà trovare un sostegno sostanziale da parte dei suoi partner. Che ruolo può avere l'Italia in questo scenario di euro-egoismi, come lei lo definisce? Per rilanciare l'Europa e avere un ruolo decisivo in questo processo, l'Italia deve riprendere per i prossimi anni un lungo cammino da "formichina", una "formichina" capace però di preparare il futuro. La strada è chiara. Non è facile spiegare tutto ciò in campagna elettorale ma è necessario fare capire agli italiani che questa è l'unica via d'uscita. ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-02-17/intervista-romano-prodi-perche-161448.shtml?uuid=AbM0yHVH&p=4 Titolo: E torna in pista Prodi, sostenuto pure dai renziani Inserito da: Admin - Aprile 12, 2013, 11:32:46 pm Bersani vede D'Alema, Veltroni, Bindi. Sul Quirinale preme l'unità del Pd.
E torna in pista Prodi, sostenuto pure dai renziani Pubblicato: 12/04/2013 20:50 CEST | Aggiornato: 12/04/2013 20:50 CEST Dal quinto piano di Montecitorio, dove è avvenuto lo storico incontro tra Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi, la trattativa sul Quirinale si è spostata in casa Pd. Il segretario ha ormai più incontri con interlocutori interni che con gli esterni al partito. Prima Massimo D’Alema, visto al Nazareno in mattinata. Poi Walter Veltroni e Rosi Bindi. Si è capito che per il Colle è centrale trovare la quadra tra i Democratici per evitare il rischio che implodano sotto il tiro dei franchi tiratori. Sarà per questo che da qualche giorno si è riattivato un certo fermento intorno al nome di Romano Prodi come candidato al Quirinale. Il professore viene ‘portato’ anche da un consistente vento renziano, oltre che dai bersaniani e mezza Sinistra e libertà (per il prof anche il sindaco di Genova Marco Doria, vendoliano). E’ tutto aperto, tanto che il segretario non sa nemmeno se annuncerà una proposta o una rosa di proposte alla vigilia del voto in Parlamento, al via giovedì prossimo. La trattativa con Silvio Berlusconi, che si dice disponibile a votare “un Pd al Quirinale”, a patto però di ottenere il “governissimo”, è bloccata, perché i bersaniani e il resto del Pd restano contrari a questa idea di esecutivo. Né il lavoro dei saggi nominati da Giorgio Napolitano ha cambiato questa impostazione di fondo. Anzi, al Nazareno ironizzano su alcuni risultati “stravaganti” consegnati dai facilitatori al capo dello Stato. Per esempio, la proposta di riduzione dei parlamentari: “Che bisogno c’è di suggerire delle cifre certe, come quella di 480 deputati e 120 senatori? Perché 480 e non 360?”. Insomma, i facilitatori non facilitano le cose in casa Dem, malgrado il vice segretario Enrico Letta spezzi una lancia in loro favore: “Tante idee condivise da concretizzare presto”. Bersani incontrerà di nuovo Berlusconi martedì o mercoledì, così come ci saranno incontri con i capigruppo grillini non appena terminano le loro 'Quirinarie' online. Ma sul governissimo non c'è partita. Potrebbe esserci su un governo di scopo che assista la riforma elettorale e riporti il paese alle urne. Potrebbe essere questo il compromesso che terrebbe unito il partito, dai renziani ai bersaniani, passando per le altre aree. In fondo, è l’idea cara a Massimo D’Alema, il più attivo in questi giorni per scongiurare pericoli di scissione. Dopo il colloquio di un’ora con Renzi a Palazzo Vecchio è stata sua premura vedere di buon mattino il segretario del Pd, proprio per sgomberare il campo dai dubbi di trame alle spalle. Bersani non ha abbandonato l’idea di un governo di minoranza, ma sa che potrebbe risultare sacrificata dalla realtà o dalle esigenze di unità interna. D’Alema, si sa, non l’ha mai ritenuta possibile, per via delle scadenze economiche (cassa integrazione, l’approvazione del Def a giugno) che cominciano ad addensarsi sul calendario italiano. E quindi: governo del presidente o di scopo, a tempo insomma, per tornare alle urne al massimo in autunno. Legato com'è alle dinamiche europee, D’Alema tiene in alta considerazione che a luglio del 2014 inizierà il semestre italiano di presidenza europea: sarebbe bene prepararsi per tempo, invece di programmare le politiche qualche settimana prima. Si vedrà. Ma mentre restano in sospeso i vari desiderata delle varie aree del Pd sul governo, una candidatura unitaria per il Colle potrebbe far bene al partito, soprattutto se l'idea prevalente è quella di fare le primarie e tornare al voto con Renzi candidato premier. L'unità innanzitutto, nonostante i mugugni degli ex Popolari che vedono svanire l’ipotesi Franco Marini (o Pierluigi Castagnetti). Non è un caso che da qualche giorno i renziani accarezzino l’idea di eleggere Romano Prodi, uno dei nomi più divisivi in circolazione, fumo negli occhi per Berlusconi che infatti ora teme la trappola. “Non capisco i veti sul professor Prodi, è una persona di garanzia…”, dice il presidente dell’Anci Graziano Delrio, uno dei più vicini a Matteo. Altri renziani ammettono la loro disponibilità a votare il professore: “Siamo figli dell’Ulivo, se sarà in campo, come potremmo non votarlo?”. Dall’Emilia Romagna parte un tam tam bersaniano per il prof: “E’ un candidato di altissimo profilo, che va molto al di là del perimetro del Pd…", dice Marco Monari, il capogruppo del Pd alla regione Emilia Romagna, arrabbiato con i Giovani Turchi contrari a Prodi. Naturalmente per Bersani, Prodi significherebbe lanciare un amo nel mare grillino, nella speranza di abboccamenti sul governo. Per i renziani potrebbe voler dire mandare all’aria le larghe intese, se non per un governo di scopo limitato nel tempo, e quindi tornare al voto. Del resto, i movimenti del neoiscritto ma ‘vecchio’ militante Fabrizio Barca fanno pensare che i tempi del congresso (previsto in autunno) stanno subendo un’accelerazione, indipendentemente da Bersani, tant’è vero che i bersaniani più convinti non apprezzano questa strana convergenza tra i fans di Matteo e quelli di Fabrizio (Giovani Turchi). Barca ha intanto dato la sua prima intervista alla tv del partito, Youdem, un modo per parlare direttamente ai circoli e per sfidare Renzi. E al sindaco di Firenze dice: “Si apra la discussione sul mio documento, vediamo se ci si ritrova”. Il riferimento è al suo lungo studio sul ‘partito nuovo per un buon governo’ che per ora ha aperto le disquisizioni su internet sulla opportunità di usare termini ostici come “catoblepismo”. “Il paese è cresciuto – risponde Barca – non dobbiamo insultare la casalinga di Voghera che molte volte è più intelligente di noi”. Dibattito aperto. Quanto al Pd, Barca, che nel 2008 ha votato la Sinistra Arcobaleno di Bertinotti, dice di aver “cambiato idea sul partito: vedo posizioni di sinistra. E mi auguro che Pd e Sel si siano avviati verso un processo di convergenza”. Proprio sabato 13 aprile il movimento di Nichi Vendola terrà una complessa assemblea nazionale sull’ipotesi di rimescolamento caldeggiata dal leader. DA - http://www.huffingtonpost.it/2013/04/12/bersani-dalema-veltroni-bindi-quirinale-preme-unita-pd-prodi-sostenuto-renziani_n_3071305.html?utm_hp_ref=italy Titolo: PRODI “E’ un fatto che io per questa Repubblica non esista” Inserito da: Admin - Maggio 10, 2013, 10:58:29 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Emilia Romagna >
Prodi a Parma: “E’ un fatto che io per questa Repubblica non esista” Arrivato all’Università per assistere alla cerimonia di consegna della laurea magistrale honoris causa al cardinale Maradiaga, l'ex presidente del Consiglio ha detto questa frase lasciando poi l’aula Magna subito dopo i saluti di rito e rimanendo in silenzio di fronte alle domande della stampa di Silvia Bia Parma | 10 maggio 2013 “Io non esisto. E’ un fatto che per questa Repubblica io non esisto”. Con questa frase, pronunciata con l’immancabile sorriso sulle labbra, Romano Prodi volta le spalle ai giornalisti, rifiutandosi di rispondere a qualsiasi domanda. Arrivato in mattinata all’Università di Parma per assistere alla cerimonia di consegna della laurea magistrale honoris causa in International Business and developement al cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, il professore ha lasciato l’aula Magna dell’Ateneo subito dopo i saluti di rito, rimanendo in silenzio di fronte alle domande della stampa e limitandosi a stringere la mano ai presenti. A Parma l’ex presidente del consiglio è arrivato in sordina, la sua presenza non era prevista fino all’ultimo. Poi la decisione di prendere parte come ospite insieme a una delegazione dell’Università di Bologna alla consegna del riconoscimento all’arcivescovo, che è uno dei maggiori esponenti dell’episcopato latino-americano ed è tra i cardinali più vicini a Papa Francesco. “Non voglio parlare di politica” ha detto Prodi ad alcuni cronisti appena varcata la soglia dell’Ateneo ducale, prima di rilasciare qualche dichiarazione sul cardinale Maradiaga e mettersi in prima fila al suo posto: “E’ una personalità per cui valeva la pena essere presente” ha commentato sul motivo della sua partecipazione alla cerimonia. Poi le foto con l’arcivescovo di Tegucigalpa (Honduras) e presidente della Caritas Internationalis dopo la consegna della laurea, i saluti con i docenti dell’Ateneo parmigiano e con le autorità. Al momento di scambiare qualche parola con i cronisti però, Prodi ha girato le spalle in una garbata fuga, alzando un muro di silenzio di fronte alle domande. Nessun commento sul Governo di Roma, nessuna parola sul Pd e sul futuro del partito, nemmeno sui Cinque Stelle o soltanto sulla città di Parma amministrata da Federico Pizzarotti. “Io non esisto” è stata l’unica risposta dell’ex presidente, ribadita subito dopo, di fronte a una nuova domanda: “Io non esisto. E’ un fatto che per questa Repubblica io non esisto”. Una battuta pronunciata con il sorriso, che però pesa come un macigno. Non è passato neanche un mese dalla sfumata elezione alla presidenza della Repubblica del professore, il Pd spaccato è alla vigilia dell’assemblea nazionale che dovrà stabilire una nuova guida per ricompattare il partito. E Prodi, che fino a un mese fa avrebbe dovuto essere la figura in grado di unire, il nome eccellente intorno a cui trovare un accordo, gira le spalle come se fosse estraneo a tutto, come se non fosse neanche un politico, spiegando il proprio silenzio con una semplice frase: “Io non esisto”. da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/10/prodi-a-parma-e-fatto-che-io-per-questa-repubblica-non-esista/589748/ Titolo: PRODI l’austerità è una trappola, fa crollare il reddito Inserito da: Admin - Maggio 28, 2013, 11:03:28 pm 28/05/2013 -
Prodi: l’austerità è una trappola, fa crollare il reddito Continuare a fare un’austerità che fa calare il reddito fa crescere il debito rispetto al reddito, anche se disciplini la spesa. Siamo in una trappola di questo tipo in Europa”.Romano Prodi e la politica economica europea e italiana: l’ex presidente del Consiglio affronta l’argomento a Bologna, alla presentazione del libro dell’ex sindaco Flavio Delbono. La spesa pubblica in Italia è un peso, ammette Prodi, ma non tutti i Paesi europei sono uguali.”Ci sono Paesi come quelli nordici che sono al massimo della spesa pubblica che hanno elevate imposte e spesa, e crescita fortissima e uguaglianza molto più forte degli altri. C’è spesa e spesa, comportamento e comportamento, Stato e Stato”. In Italia si sono viste le conseguenze di questo tipo di politiche.”Se noi con la severità facciamo crollare il reddito facciamo aumentare il debito, facciamo il cammino inverso, ed è quello che è successo in Italia”. da - http://lastampa.it/2013/05/28/multimedia/italia/prodi-l-austerita-e-una-trappola-fa-crollare-il-reddito-5H2KTa5t0tw5SbfEq1TCcL/pagina.html Titolo: PRODI La mia partita è finita. Ora lascino anche altri Inserito da: Admin - Giugno 24, 2013, 11:37:39 am La lettera di PRODI AL CORRIERE
La mia partita è finita. Ora lascino anche altri di ROMANO PRODI Caro direttore, vorrei rispondere ai tanti riferimenti che, anche sul vostro giornale, sono apparsi riguardo a mie presunte posizioni relative alla vita interna del Partito Democratico e al mio possibile sostegno a questo o quel protagonista. Ribadisco che ho definitivamente lasciato la vita politica italiana. Ad essa riconosco di avermi concesso esperienze fondamentali e non poche soddisfazioni personali, che spero abbiano offerto un positivo contributo al Paese. Ho affrontato due sfide importanti, battendo un opponente politico che ritenevo e ritengo non idoneo al governo del Paese. Da parte mia ho cercato di portare avanti una cultura politica moderna e solidale di cui l'Italia ha molto bisogno. Una battaglia non solo politica, ma etica e culturale. Credo che questi stessi obiettivi abbiano oggi bisogno di nuovi interpreti anche se, nel corso dei due periodi del governo da me presieduto, ci si è a essi avvicinati senza danneggiare, ma anzi migliorando sensibilmente il prestigio internazionale e la situazione debitoria del Paese. Le aggiungo che riguardo al Pd conservo non solo un senso di gratitudine, ma anche numerose e salde amicizie. Tuttavia in politica, come nello sport e forse in ogni attività, è preferibile scegliere il momento in cui finire il proprio lavoro, prima che questo momento venga deciso da altri o da eventi esterni. Questi sono anche i motivi per cui senza polemiche ho tralasciato di ritirare la tessera del Pd, il cui rinnovamento e rafforzamento sono tuttavia essenziali al futuro della nostra democrazia. Al vostro cortese giornalista che mi chiedeva se parteggiassi per l'uno o per l'altro dei potenziali candidati al congresso ho risposto semplicemente «my game is over» che, tradotto in italiano, significa che la mia gara è finita. Una gara riguardo alla quale posso elencare tante sfide vittoriose, tra le quali non mi fa certo dispiacere ricordare le due elezioni politiche nazionali del 1996 e del 2006. Riflettendo su tutto ciò voglio infine augurarmi che, anche chi è stato sconfitto nei due confronti diretti, possa meditare sul fatto che non dovrebbe essere solo la mia gara a una fine. Ora la saluto, perché sto partendo per New York dove dovrò discutere di fronte al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Uniti i progetti per lo sviluppo del Sahel. Perché, come Lei sa, gli esami non finiscono mai. 24 giugno 2013 | 9:44 da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_24/letteraprodi1_604badc2-dc87-11e2-98cd-c1e6834d0493.shtml Titolo: PRODI : «Mediobanca? Mediobanca ha legato i piedi all'industria italiana» Inserito da: Admin - Settembre 29, 2013, 11:12:15 am Prodi: «Mediobanca? Mediobanca ha legato i piedi all'industria italiana»
di Paolo Bricco 27 settembre 2013 Romano Prodi, all'Università Cattolica di Milano, alterna le valutazioni storiche sul capitalismo italiano, i giudizi sui nuovi equilibri geo-economici internazionali, le analisi sulle condizioni attuali del manifatturiero italiano. Lo fa con la libertà di chi è in mezzo a un gruppo di amici. Qui, fra venerdì e sabato, si svolge infatti l'incontro annuale della rivista L'Industria. La pubblicazione, da lui fondata nel 1975 ed edita dal Mulino, si è imposta nel dibattito pubblico nazionale con la sua miscela di saggi scientifici e di interventi più divulgativi. Intorno ad essa, si sono formate almeno due generazioni di economisti – più o meno "prodiani" in senso stretto – che, nella loro ricerca scientifica, hanno dato dignità alla realtà effettuale all'interno della modellistica più teorica e che, nella vita pratica, hanno formato il network a cui Prodi ha attinto nella sua attività di uomo di governo, italiano ed europeo. A portare la conversazione pubblica, venerdì mattina, sui binari più disparati è stato il metodo prescelto da Enzo Pontarollo, attuale direttore dell'Industria, per sondare il pensiero di Prodi: gli studenti e i neo-laureati della Cattolica a porre le domande, il Professore (per una volta) a rispondere. "Mediobanca? Mediobanca ha legato i piedi all'industria italiana". Cosi Prodi sul ruolo avuto dall'istituto fondato da Enrico Cuccia, baricentro del sistema industriale italiano per tutto il Secolo Breve. Una opinione netta, ma formulata con la prudenza di chi sa che i giudizi storici sono assai complessi e densi di criticità. "Oggi sono sparite le grandi imprese. Ne abbiamo meno dell'Olanda e del Belgio. Mi fa impressione pensare che imprese di livello come Mossi & Ghisolfi o la Techint dei Rocca, per citarne due fra le altre, siano tutte state fuori dal giro di Medioanca. Vorrei che gli storici ci aiutassero a capire meglio. C'è qualcosa su cui riflettere". Dunque, Prodi lascia agli storici il compito di andare negli archivi, di incrociare i numeri, di raccogliere le testimonianze. Ma, da protagonista della storia italiana che ha tutt'altro che subito l'egemonia di Via Filodrammatici, non rinuncia al suo pensiero. "Era un sistema – ricorda Prodi – gestito da persone con una rettitudine morale molto forte, ma per cui il futuro era il passato". Prodi parla di Mediobanca per parlare di tutta l'industria italiana, in cui per quasi tutto il Novecento l'asse Mediobanca-oligopoli-establishment politico ha impostato un modello di sviluppo divergendo dal quale si deviava da una sorta di verità incrollabile. Con un doppio effetto: di impenetrabilità storica dall'esterno e di riduzione delle capacità generative all'interno. "Quando trattavo la vendita dell'Alfa alla Ford – ricorda Prodi – preservai la mia credibilità perché chiarii, con la controparte americana, che se la Fiat avesse deciso di prendersela, non ci sarebbe stato nulla da fare. Quando successe così, gli americani mi dissero: "Lei è un galantuomo"". Quel modello ha avuto un secondo effetto: il sistema produttivo ha generato molte innovazioni, ma non è riuscito a produrre e "ingegnerizzare" sui mercati i prodotti finiti derivanti da quelle innovazioni. "Perché? E' legittimo chiedercelo", riflette Prodi. Il quale, poi, torna sull'attualità: "Io e Pier Angelo Rovati, per il piano di separazione della rete da Telecom, fummo attaccati. Se fosse stato fatto, sarebbe stata una operazione di buon senso". Quindi, al di là dell'analisi puntuale su Telecom, Prodi sceglie di considerare i punti di debolezza del nostro tessuto industriale e civico. Prima ancora che per il cuneo fiscale, "gli stranieri non compiono investimenti green-field nel nostro Paese, mentre acquisiscono i marchi, perché mancano la sicurezza e la certezza". La quotidianità del fare impresa, dunque, è minata soprattutto dall'ambiente giuridico-istituzionale. Un ambiente in cui uno degli elementi di maggiore debolezza è costituito dalla pubblica amministrazione. Un altro fattore su cui agire per modificare l'ambiente in cui fare impresa, rendendolo meno ostile, è rappresentato dalle policy. Niente soldi a pioggia. "Un pochino di grano a ogni gallina – dice Prodi – è una ricetta che non funziona proprio". Inoltre, bisogna andare al cuore – emotivo e materiale, culturale e economico – della nostra identità manifatturiera. Per rafforzare la nostra storica capacità di combinare diverse tecnologie complesse, la formazione tecnica e ingegneristica è fondamentale. "Perché non pensare – si chiede Prodi – a esentare dal pagamento delle tasse chi si iscrive alle facoltà di ingegneria? Oppure perché non dare degli incentivi alle scuole tecniche e ai ragazzi che le frequentano?" ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-27/prodi-convegno-industria-162850.shtml?uuid=AborXAdI Titolo: PRODI «Da una telefonata con D’Alema capii che non sarei salito al Colle» Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 12:16:39 am LA CRISI DI GOVERNO L’EX PREMIER
Prodi: «Da una telefonata con D’Alema capii che non sarei salito al Colle» L’ex premier: mi disse che avrebbero dovuto coinvolgere i dirigenti Ho detto a mia moglie: di sicuro non divento capo dello Stato È il giorno più lungo di Romano Prodi. Quel venerdì 19 aprile del 2013, il Professore si sveglia intorno alle 7 nella sua camera dell’hotel Laico L’Amitié a Bamako, capitale del Mali, e ancor prima di prendere un caffè legge un sms della sua portavoce, l’onorevole Sandra Zampa, che riporta un momento «commovente» al teatro Capranica di Roma, in cui si sono alzati in piedi quasi tutti per «una standing ovation» alla sua nomina per il Quirinale, appena lanciata da Pierluigi Bersani. È il giorno del quarto scrutinio nella tormentata votazione. Il giorno in cui il Pd si è spaccato, facendo perdere a Prodi la Presidenza della Repubblica per una mancanza di 101 voti. Ed è anche il giorno delle recriminazioni, delle dimissioni di Pierluigi Bersani e delle forti smentite da parte di Massimo D’Alema, accusato di aver ispirato i franchi tiratori all’interno del Pd ad affondare Prodi. D’Alema ha sempre smentito qualsiasi complotto. Ma stando alla testimonianza di Prodi, intervistato per un mio nuovo libro («Ammazziamo il Gattopardo», che uscirà con Rizzoli all’inizio del 2014) non c’è più bisogno di cercare i franchi tiratori, di interrogarsi su quanti dalemiani abbiano votato contro Prodi. Perché per Prodi la situazione era palese nel momento in cui ha parlato al telefono con Massimo D’Alema, da Bamako, intorno all’ora di pranzo di quel fatidico 19 aprile. A Roma, Bersani ha già annunciato verso le 9 di mattina la nomina di Prodi ai grandi elettori del Pd. A Bamako Prodi è in missione, nella veste di Inviato Speciale per il Sahel del Segretario-Generale dell’Onu, Ban Ki-moon. Quella mattina Prodi telefona ai suoi collaboratori storici, Arturo Parisi e Sandra Zampa, per capire cosa è successo. «Mi hanno confermato la standing ovation, poi però abbiamo riflettuto che era opportuno fare alcune telefonate», ricorda Prodi. La prima telefonata che Prodi fa da Bamako («Perché i rapporti personali») è a Stefano Rodotà. E poi chiama D’Alema. È l’intervallo del convegno a Bamako, e quindi Prodi si allontana dall’aula del Palazzo dei Congressi per parlare con Roma. E sente una sensazione quasi surreale, nell’oscillazione di temi e circostanze tra Bamako e Roma. A Bamako, ricorda Prodi «stavamo parlando proprio dei problemi molto forti che vi erano in quel momento, quindi per una ragione importante anzi molto importante. Tutto questo è avvenuto nell’intervallo, se ben ricordo erano le 11 e mezzo a Bamako quindi un paio d’ore prima, l’una e mezzo dell’Italia, insomma... ora di pranzo in Italia. Ho telefonato a Marini, mi ha detto “tutto bene, tutto tranquillo”». Marini fa gli auguri a Prodi. Poi c’è la telefonata con Massimo D’Alema. Prodi ricorda senza esitazione la telefonata: «Mi ha detto: “Benissimo, tuttavia queste decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti”. Cioè facendone, come si fa sempre in questi casi, una questione di metodo e non di merito. E quando ho ascoltato questo ho messo giù il telefono, ho chiamato mia moglie e le ho detto “Flavia vai pure alla tua riunione perché di sicuro Presidente della Repubblica non divento”». Da Bologna, al telefono con suo marito, Flavia Prodi capisce subito e accantona l’idea di partire per Roma. Invece va alla sua riunione scientifica alla Biblioteca dell’istituto linguistico di Bologna. Dopo la telefonata con D’Alema, Prodi non ha dubbi. Per lui tutto è chiaro nel momento in cui Massimo D’Alema ne fa un problema di metodo. D’Alema, anche lui intervistato per questo libro, conferma la sostanza della telefonata, anche se reagisce male quando gli si fa notare come sia stato accusato di aver ispirato un voto contro Prodi da parte dei suoi. In effetti D’Alema, quando viene interpellato su questo tema, reagisce con una faccia che mi ricorda la reazione sconvolta del Capitano Louis Renault nel film Casablanca, scioccato nello scoprire l’esistenza di giochi d’azzardo dentro il bar di Humphrey Bogart, il Rick’s Café Américain. Così, quando chiedo a Massimo D’Alema se ha fatto fallire Prodi nella corsa per il Quirinale, D’Alema mette le mani avanti. Taglia corto, con fermezza, e risponde: «Io non ho ispirato niente!». Poi aggiunge che forse era anche all’estero quel giorno, forse a Bruxelles, e racconta: «Lui mi ha telefonato, credo che fosse nel Mali, e ha detto “ma tu cosa pensi?” e io ho detto “io penso che il modo come ti hanno candidato è una follia». Prodi non ricorda che D’Alema abbia usato la parola «follia» e racconta una conversazione più formale, ma D’Alema lo racconta così. Chiedo a D’Alema perché in un momento drammatico per il Paese abbia voluto insistere così sul metodo e lui risponde che «il nostro gruppo esce dalla vicenda Marini, naturalmente con tutti i rancori, immagino che gli amici di Marini non saranno stati contenti del fatto che Marini è stato candidato e poi fucilato». Poi D’Alema ricorda di aver detto a Prodi che la sua nomina era «un’imprudenza» e che «questa vicenda rischia di finire male» e dice che ha dato a Prodi un suo consiglio. «Il mio consiglio è che tu puoi essere candidato, però adesso li farei votare scheda bianca e aprire un confronto per vedere se almeno Monti, Scelta Civica eccetera convergono sul tuo nome». Così ricorda D’Alema. Ma Prodi di una discussione sulla tattica di un voto con la scheda bianca non ricorda nemmeno una parola. Lui ricorda soltanto di aver capito che D’Alema fosse contrario, e di aver telefonato a Flavia. © RIPRODUZIONE RISERVATA 02 ottobre 2013 Da repubblica,it Titolo: Alitalia, Prodi sui capitani coraggiosi: Hanno fatto un disastro» Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2013, 05:07:12 pm PRODI SUL CASO ALITALIA
Alitalia, Prodi sui capitani coraggiosi: Hanno fatto un disastro» L’ex premier sull’operazione Cai: «Il disastro che hanno fatto mi sembra abbastanza chiaro ed evidente, è costato al Paese 5 miliardi» E alla fine si toglie più di un sassolino dalla scarpa. Lui è Romano Prodi, premier ai tempi della prima trattativa di Alitalia con Air France-Klm, poi bocciata in nome dell’italianità. «Sono arrivati i capitani coraggiosi e il disastro che hanno fatto mi sembra abbastanza chiaro ed evidente. È costato al Paese più di 5 miliardi di euro e il problema non è ancora risolto». Romano Prodi, interpellato sul dossier Alitalia a margine del Forum Euroasiatico a Verona, fa un affondo di quelli che non ci si aspetta da un personaggio dal temperamento mite e pacato come il suo. I capitani coraggiosi sono gli imprenditori che nel 2009 furono chiamati a raccolta da Silvio Berlusconi e decisero di partecipare al risanamento della compagnia aerea diventando azionisti di quella che poi divenne Cai, Compagnia aerea italiana. «Nel 2007 avevo cercato, vista la situazione dell’azienda, tutti gli accordi che avrebbero potuto renderla forte e che le avrebbero permesso di resistere sul mercato — ha spiegato Prodi —. Prima c’era stata una lunga trattativa con Lufthansa, abituata ad avere diversi hub: la cancelliera era favorevole, ma il consiglio di sorveglianza disse che non voleva avere a che fare coi sindacati Alitalia», ha raccontato. «Ci fu — ha rivelato ancora il professore - una trattativa molto interessante con Air China. Parlai con l’allora premier, spiegandogli che a noi interessava avere una porta verso l’Asia e ricevere i milioni di turisti cinesi mentre a loro poteva interessare avere una porta in Europa e un centro di riferimento per l’Africa fuori dall’Africa. Erano molto interessati ma non erano pronti, avevano bisogno di tre-quattro anni». Poi arrivò la trattativa francese: «Era andata avanti con condizioni buone per l’Italia: non era la soluzione ideale ma era la migliore fra quelle rimaste. Poi sono andato via dal governo e non so cosa sia successo — ha detto l’ex premier —. Sono arrivati i capitani coraggiosi e il disastro che hanno fatto mi sembra abbastanza chiaro ed evidente. È costato al Paese più di 5 miliardi di euro e il problema non è ancora risolto». Il professore ha evitato di commentare l’attuale operazione che prevede l’intervento di Poste Italiane, ma è stato molto chiaro nel giudizio della gestione della cordata di imprenditori italiani, tuttora presenti nell’azionariato dell’ex compagnia di bandiera che in questi giorni ha dato il via libera all’aumento di capitale da 300 milioni di euro. Un’operazione che ha ottenuto l’unanimità dei soci, che ora avranno un mese di tempo per aprire davvero il portafoglio. Intanto, sull’intervento delle Poste, la Commissione Ue si aspetta una notifica dall’Italia: «Quando ci sono dubbi sulla natura dell’operazione — ha fatto sapere il portavoce del commissario Ue alla concorrenza Joaquin Almunia — cioè se si tratti di aiuti di Stato o meno, gli Stati sarebbero saggi a notificarle a Bruxelles». Smentita invece, da parte della ex compagnia di bandiera, l’ipotesi che sia già stato presentato un nuovo piano con tagli del personale, messa a terra degli aerei e tagli di rotte. «Sono indiscrezioni destituite di ogni fondamento» ha fatto sapere il vettore in una nota ufficiale nei minuti in cui si torna a parlare delle linee di credito e della necessità di risorse per volare ancora. «Mi auguro che tutti i soci sottoscrivano l’aumento di capitale di Alitalia» ha fatto sapere il direttore generale di Intesa Sanpaolo, Gaetano Miccichè. La banca ha ufficializzato nei giorni scorsi la sua partecipazione all’aumento con un impegno di 76 milioni di euro. 17 ottobre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Corinna De Cesarecorinnadecesare Da - http://www.corriere.it/economia/13_ottobre_17/alitalia-prodi-capitani-coraggiosi-hanno-fatto-disastro-c41c1c8c-3728-11e3-ab57-6b6fcd48eb87.shtml Titolo: PRODI : bisogna cambiare i parametri di Maastricht immutati da 20 anni. Inserito da: Admin - Novembre 04, 2013, 05:30:14 pm Prodi: bisogna cambiare i parametri di Maastricht immutati da 20 anni.
I conti non si mettono a posto senza il Pil 04 novembre 2013 «Non è stupido che ci siano i parametri come punto di riferimento. È stupido che si lascino immutati 20 anni. Il 3% di deficit/Pil ha senso in certi momenti, in altri sarebbe giusto lo zero, in altri il 4 o il 5%. Un accordo presuppone una politica che lo gestisca e la politica non si fa con le tabelline». Romano Prodi, torna sui nodi europei e, in un'intervista alla Nazione, critica l'austerity tedesca: «Dovrebbero battere i pugni sul tavolo insieme Francia, Italia e Spagna, ma non lo fanno perché ciascuno si illude di cavarsela da solo». E sull'Italia osserva che in tre anni di austerità «il rapporto debito/Pil è sempre aumentato, é una politica sbagliata, ma se sforassimo i parametri i tassi andrebbero alle stelle. Bisogna escludere temporaneamente dal computo - propone - i 51 miliardi versati dall'Italia alla solidarietà europea e usare quelle risorse per investimenti pubblici straordinari. I conti non si mettono a posto senza crescita». ©RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-11-04/prodi-bisogna-cambiare-trattati-maastricht-conti-non-si-mettono-posto-senza-pil-100937.shtml?uuid=ABDwqIb Titolo: Prodi aiuterà Putin a organizzare il G8. "Russia tornata protagonista ... Inserito da: Admin - Novembre 26, 2013, 06:23:14 pm Prodi aiuterà Putin a organizzare il G8.
"Russia tornata protagonista con mediazione su Siria" L'ex premier conferma la sua disponibilità a collaborare con il Cremlino per la realizzazione dell'evento previsto a giugno nella città di Sochi. "Si parlerà di immigrazione, ho chiesto che sia data attenzione particolare al Mediterraneo". E sulla politica italiana: "Seguirò le primarie del Pd con molto interesse". ma ribadisce che non voterà. 26 novembre 2013 ROMA - "Putin assume un ex premier italiano!". E' il titolo a tutta pagina di Komsomolskaja Pravda, ma non si riferisce a Berlusconi. Secondo il quotidiano moscovita, il presidente russo Vladimir Putin avrebbe offerto a Romano Prodi di dirigere l'organizzazione sui temi politici ed economici del G8 previsto a giugno prossimo a Sochi. Nell'articolo si allude a una vera e propria collaborazione continuativa che Prodi avrebbe accettato di svolgere per conto della Russia. Aiuterò Putin nel G8. Collaborazione che viene confermata dall'ex premier in un'intervista concessa questa mattina a Radio Capital, in cui Prodi racconta i contenuti dei suoi 35 minuti di colloquio avuti con Putin ieri a Roma. "Il colloquio riguardava l'Africa, soprattutto quello che deve fare la Russia insieme agli altri paesi per il piano di sviluppo del Sahel, la zona sotto il Sahara, che è tra le più povere del mondo. Poi il presidente mi ha chiesto se sono disponibile ad aiutare la Russia nella preparazione del G8 sull'immigrazione. Ho risposto che non sono un esperto dell'argomento, ma sono disponibile a collaborare, soprattutto se verrà dato un occhio particolare al Mediterraneo". Alla domanda su che tipo di aiuto concreto potrà fornire a Putin, Prodi risponde: "La situazione è semplice. Prendiamo un paese qualsiasi sotto il Sahara, come il Niger, che raddoppierà la popolazione in 20 anni. Il risultato è che avremo una pressione di popolazione molto più forte di quella di oggi. Quindi o si collabora tutti insieme per una politica di sviluppo per l'Africa o siamo finiti". La Russia di nuovo protagonista. Prodi sottolinea anche come la Russia in poche settimane sia riuscita, grazie a Putin, a riconquistare il ruolo internazionale perso dopo la caduta dell'Unione Sovietica, grazie alla proposta di mediazione del caso siriano: "Sulla Siria - spiega a Radio Capital - Putin ha sbloccato la situazione, offrendo una via d'uscita diplomatica agli Stati Uniti. Putin ha quindi il merito di aver ricollocato il suo paese in una posizione centrale nel gioco della diplomazia internazionale". La questione Ucraina. Altro argomento di discussione è stato la questione Ucraina e la partita sull'energia, sulla quale Putin ha ingaggiato un braccio di ferro con l'Unione Europea: "Queste tensioni - dice ancora a Capital- non giovano a nessuno e l'Ucraina può invece essere un ponte su cui far correre i futuri rapporti tra Russia ed Europa. Nel colloquio con il presidente ho sottolineato che se è vero che l'Europa ha bisogno della Russia per l'energia, è altrettanto vero che la Russia non può diventare un paese interamente moderno se non ha un legame con l'Europa. Le politiche di distacco non portano da nessuna parte. E - continua - proprio perché si sono aperte tante speranze e vi sono ancora tanti problemi sul tavolo oggi l'incontro a Trieste tra Letta e Putin è molto importante. Non dimentichiamo che la Russia è uno dei paesi verso cui l'Italia sta aumentando le esportazioni, senza contare il turismo e gli acquisti dei turisti russi che vengono a visitare il nostro Paese". Non voterò alle primarie Pd. Nell'intervista a Radio Capital Prodi non ha voluto parlare di politica interna: "Vi prego, risparmiatemi", dice agli intervistatori. Ma poi chiarisce: "Mi sono messo in un angolo, mi dedico ad altre cose che credo siano utili, vorrei continuare così". Voterà alle primarie del Pd? "Non sono irritato (per quanto è successo durante l'elezione del presidente della Repubblica, ndr), ritengo che il Pd sia ancora l'unico punto di riferimento per lo schieramento riformista di cui abbiamo bisogno. Guarderò con molto interesse alle primarie, ma non vado a votare. Mi tiravano per la giacca e quindi ho preferito restarne fuori. Ragazzi, andate avanti voi". © Riproduzione riservata 26 novembre 2013 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/11/26/news/prodi_aiuter_la_russia_a_organizzare_il_g8-71980620/?ref=HREC1-3 Titolo: Prodi: ''Rehn, parole severe valgano anche per altri'' Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2013, 04:40:20 pm 3 dicembre 2013
Prodi: ''Rehn, parole severe valgano anche per altri'' Quella del commissario Olli Rehn "è una dichiarazione severa, vorrei che la usasse anche per altri che sono nella stessa situazione dell'Itala o stanno peggio. Ma ha dei fondamenti di verità. Non abbiamo fatto cose per cui ci eravamo impegnati", così Romano Prodi commenta le parole di Rehn, che ha espresso scetticismo sulla situazione economica italiana (VISTA Agenzia Televisiva Parlamentare - Alexander Jakhnagiev) Da - http://video.repubblica.it/economia-e-finanza/prodi-rehn-parole-severe-valgano-anche-per-altri/148826/147333?ref=HREA-1 Titolo: Prodi: Mediobanca ha messo l’Italia nel freezer Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2013, 11:46:03 pm L’ex presidente del consiglio alla presentazione del libro sulla Comit
Prodi: Mediobanca ha messo l’Italia nel freezer Critiche alla gestione Cuccia che avrebbe contribuito alla sparizione della grande industria italiana Se si vuole immaginare il rilancio del Paese e se si vuole tornare a essere competitivi è necessario sostenere il sistema delle banche. Viceversa, se si facesse come in passato, la crescita sarebbe compromessa. Ne è convinto l’ex presidente della Commissione Ue ed ex presidente del Consiglio, Romano Prodi che, a margine della presentazione del libro ‘La sfida internazionale della Comit’ a Milano, ricorda come un tempo «Mediobanca ha difeso il sistema mettendo le cose in freezer, ma le cose in freezer non si possono cucinare subito». Insomma, «per difendere il sistema» Mediobanca «ha reso il Paese immobile - spiega Prodi - proprio quando si preparavano le carte per il cambiamento futuro». In proposito, confessa l’ex premier, «non me la sento ancora di dare un giudizio definitivo», certo è che «la sparizione delle grandi industrie italiane deve molto a questo congelamento. ne sono convinto». Il congelamento è stato utile? si domanda: «a me pare di no». I PATTI DI SINDACATO - Ecco perché oggi Prodi vede con favore l’allentamento dei patti di sindacato. «è positivo» afferma, spiegando che non si può andare ancora «con il motore a scoppio quando c’è la macchina elettrica». «Un paese come l’Italia è sempre cresciuto con l’idea che siamo deboli e piccoli, che non siamo a livello. Io sono invece convinto che siamo a livello degli altri paesi, ma se non ci misuriamo con il mondo dove andremo a finire?» si chiede Prodi. «La nostra ossessione di mettere recinto ci ha impedito di fare quello che avremmo potuto fare». Dunque oggi, «o riteniamo che il sistema bancario sia strumento indispensabile, e allora dobbiamo fare una politica economica che glielo permetta, oppure non lo riconosciamo»: ecco il punto secondo il Professore. «Avevamo 9 delle prime 50 grandi imprese europee. Oggi ne abbiamo soltanto due. Un bel passo avanti», dice sarcastico. SOSTEGNO ALLE BANCHE - «E perché ci sentiamo inadatti alle grandi strutture, abbiamo un complesso di inferiorità o non abbiamo capito cosa succede nel mondo»? chiede ancora. «Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia», afferma l’ex premier citando un proverbio. «Se l’85%» del paese «dipende dal sistema bancario, significa che qui è più importante che altrove. Se è così il processo di ripresa passa attraverso le banche» conclude ricordando ancora che «le misure future non possono non tenere conto del ruolo delle banche, nel bene e nel male. Ci vuole una politica coerente. Bisogna dare alle banche energie e mezzi». 04 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Redazione Economia DA - http://www.corriere.it/economia/13_dicembre_04/prodi-mediobanca-ha-messo-l-italia-freezer-6205c76c-5ceb-11e3-a319-5493e7b80f59.shtml Titolo: La Francia concede la Legione d'onore a Prodi Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 06:11:08 pm La Francia concede la Legione d'onore a Prodi
Lo ha annunciato l'ex premier durante una conferenza a Bologna: "Sono molto onorato". La cerimonia a gennaio La Francia concede la Legione d'onore a Prodi (agf) BOLOGNA - L'ex presidente del consiglio, Romano Prodi, sarà insignito della Legione d'oro francese a gennaio 2014. Ad annunciarlo è stato lo stesso professore nel corso di un incontro alla "Alliance francaise" di Bologna: "Sono molto onorato", ha detto prima di iniziare la sua lezione sulle questioni socio-politiche in Mali e Sahel. La massima onorificenza della Repubblica francese - l'ordine cavalleresco istituito da Napoleone - sarà consegnato a Prodi per la sua "vicinanza con la Francia e per il suo impegno in Europa". Il titolo sarà ritirato soltanto a gennaio, presso l'ambasciata francese. Oggi a Bologna, in occasione della conferenza sulle questioni africane, il presidente della fondazione per la collaborazione tra i popoli e presidente del gruppo di lavoro Onu-Unione africana, ha ritirato la tessera del centro ufficiale di lingua e cultura francese "Alliance francaise" di Bologna. (10 dicembre 2013) © Riproduzione riservata Da - http://bologna.repubblica.it/cronaca/2013/12/10/news/la_francia_conferisce_la_legione_d_onore_a_prodi-73252370/?ref=HREC1-1 Titolo: Il Professore vede il rischio di una "sindrome Veltroni", ... Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2014, 06:13:02 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Politica & Palazzo >
Italicum, le paure di Prodi sulla linea Renzi: “Così rischia di vincere Berlusconi” Il Professore vede il rischio di una "sindrome Veltroni", il leader democratico che invocava l'autosufficienza e fu pesantemente sconfitto dal Cavaliere. A destra litigano, ma alla fine tutto fa pensare a una riunificazione. Mentre per il segretario Pd i rischi potrebbero arrivare quando la legge elettorale arriverà in Senato e i numeri della minoranza del partito sono più consistenti di Redazione Il Fatto Quotidiano | 4 febbraio 2014 Vince facile nella sfida dialettica Matteo Renzi: “Se per farci paura basta uno starnuto di Pier Ferdinando Casini, allora ‘Houston abbiamo un problema’”. E ancora: “Si vince con gli elettori, non con i leader di partito”. Vince facile nello scambio di dichiarazioni, ma un po’ meno nei sondaggi e nelle impressioni degli osservatori. Compreso Romano Prodi, l’unico dirigente del centrosinistra ad aver battuto Silvio Berlusconi alle elezioni e a essere uscito indenne da tentazioni di accordicchi e larghe intese. Tanto che a sorpresa finì nei primi posti nel referendum del Movimento Cinque Stelle per i candidati al Quirinale. “Rischiamo non solo di resuscitare Berlusconi, ma di farlo vincere, che è molto peggio” dice, secondo il racconto del Secolo XIX firmato da Marco Marozzi (cronista che da anni segue il Professore). All’ex presidente del Consiglio è piaciuto che Renzi abbia cercato e trovato un’intesa anche con l’opposizione, non ha disprezzato l’incontro tra il segretario democratico e il Cavaliere, ma ravvisa un “eccesso di fiducia”. Insomma il pericolo è quello della maledizione del partito principale del centrosinistra: la cosiddetta “vocazione maggioritaria” porta male. Detta più semplice, il pericolo è di finire come Veltroni: nel 2008 professava l’autosufficienza, poi all’ultimo tuffo scelse di imbarcare anche l’Italia dei Valori, ma non bastò. Il centrodestra stravinse come mai accaduto prima e l’allora leader democratico (che pareva destinato a una carriera da statista) fu costretto alle dimissioni di lì a meno di un anno. Dunque il tema non è solo della sinistra Pd (D’Attorre, Cuperlo, Zoggia). “Con Matteo candidato non ci saranno problemi – dice David Ermini, renziano, sempre al Secolo- Certo, Berlusconi riesce a mettere insieme la Lega e la destra. Noi abbiamo il problema di ciò che è a sinistra del Pd”. “Pd, Sel e poi? – rifletteva lo stesso Prodi – Bisogna che davvero Renzi sia in grado di portare via voti al centrodestra, ma così rischia di perderne a sinistra, da Rifondazione, Pdci, tutti quelli che comunque non raggiungerebbero il quorum e magari non votano il Pd”. Tanto che fanno di nuovo capolino le formazioni che sembravano perse nelle memoria: “Renzi attento – dichiara il segretario nazionale dei Comunisti Italiani, Cesare Procaccini – Vincere le primarie non vuol dire vincere le elezioni vere”. No, l’Unione per carità no, però il centrodestra mette insieme di tutto – dai quasi-nazionalisti a una specie di indipendentisti. Anche per questo l’Italicum potrebbe non avere proprio un’autostrada davanti. Al Senato, per dirne una, la commissione Affari costituzionali è presieduta da Anna Finocchiaro, esponente della sinistra del partito come altri 5 componenti Pd (Maurizio Migliavacca, Miguel Gotor, Francesco Russo, Luciano Pizzetti, Doris Lo Moro). Solo due senatori Pd in commissione sono renziani (Isabella De Monte e Giorgio Pagliari). L’ultimo componente è Corradino Mineo, sostenitore del Mattarellum e di Pippo Civati. Quello che tutti dimenticano è che Silvio Berlusconi è come se non esistesse, per la legge elettorale. Essendo stato condannato e sottoposto alla legge Severino il Cavaliere non ha diritti né di elettorato attivo né di elettorato passivo. E’ incandidabile, non se ne esce. Ma a ricordarlo non è il centrosinistra. Sono gli ex del Pdl: “Per metterci insieme e battere la sinistra le primarie sono il metodo migliore – dice Angelino Alfano – Nel momento in cui il presidente Berlusconi non è candidabile, possiamo fare una gara che ci metta nelle condizioni di scegliere il candidato voluto dalla base del centrodestra. In questo momento, per ragioni che non sono ascrivibili alla sua volontà e che abbiamo sempre considerate ingiuste, non è candidabile. La differenza non è da poco”. Oggi lo ribadisce Renato Schifani: “Silvio Berlusconi non è candidabile alle primarie del centrodestra, né è pensabile che si possa fare il premier per interposta persona”. Ma da quell’orecchio Renato Brunetta non ci sente: “Se si votasse oggi il centrodestra sarebbe vincente – dice al Tg2 – Berlusconi vincerebbe al primo turno grazie proprio al potere di coalizione di Forza Italia. Con l’Italicum vince chi ha più potere di coalizione, e Berlusconi ce l’ha”. Certo, Casini è stato riaccolto come il figliol prodigo da Berlusconi, ma non dal resto del centrodestra. Roberto Maroni, per dire, ha precisato più o meno: “O c’è un programma serio o stia dov’è”. Ma il centrodestra ci ha abituato a tutto in questi anni: dal “mafioso” gridato da Umberto Bossi al Cavaliere alle comiche finali pronunciate da Gianfranco Fini sempre all’indirizzo di Berlusconi, dalle responsabilità per le cose non fatte che l’ex presidente del Consiglio ha dato sempre ai leader degli alleati più piccoli (Casini, Fini), da separazioni e ricongiungimenti continui. Quindi l’operazione di ricompattamento della coalizione delle destre partirà probabilmente già in occasione delle Europee, visto che da più parti si ipotizza l’unione delle forze tra Alfano e Casini. Tutte alchimie, certo. Ma chi sia lo stregone è più che noto. Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/04/renzi-prodi-e-la-paura-della-sindrome-veltroni-cosi-facciamo-vincere-berlusconi/868318/ Titolo: Carlo Calore. Romano Prodi è intervenuto il 21 gennaio alla ... Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2014, 06:16:06 pm Carlo Calore Romano Prodi è intervenuto il 21 gennaio alla conferenza "Dove va l'Europa?" in occasione dei 180 anni dalla fondazione della Giovine Europa di Giuseppe Mazzini Romano Prodi non ama i tecnicismi. E gli basta un’ora e mezza spedita nell’Aula magna dell’università di Padova, per fare un’analisi (che non ha nulla di bonario) degli ultimi 30 anni di politica europea. Senza rinunciare alla semplicità e all’ironia, bacchetta tutti i medici riuniti al capezzale dell’Unione. A partire dal loro 'primario', l’onnipresente commissario finlandese agli affari economici e monetari Olli Rehn con il suo consueto “monito settimanale” sul rigore dei conti pubblici. “Le norme sul patto di stabilità – ricorda – sono sane, ma diventano stupide se non ci sono gli strumenti politici per farlo rispettare in modo sostenibile. I primi a trasgredirlo? Furono Francia e Germania”. Ovvero l’asse portante di un’Europa a due cilindri che non esiste più. “Oggi la Germania ha cambiato lo schema europeo ed è lei a dominare, da sola”. Per capirlo – invita il Professore – basterebbe guardare ai vertici del recente passato tra i due Paesi: una recita a soggetto, con “la Merkel che scriveva le conclusioni e Sarkozy che si occupava delle conferenze stampa”. Questo senza neppure contare la capacità tedesca di interpretare il ruolo di organizzatore della politica industriale europea (coinvolgendo ad esempio Polonia e Repubblica Ceca) e il suo attivismo in Cina. Dove ha ‘piazzato’ tra i 6.000 e i 7.000 funzionari pubblici, in ambasciate, camere di commercio e istituzioni. “L’Italia, per dare un’idea dell’impegno, ha lì circa 250 persone”. La fuga in solitario della Germania, insomma, è una realtà. L’arretramento delle istituzioni europee, con l’eccezione della Banca centrale (“la sola a dimostrarsi capace di impedire un disastro”) una semplice conseguenza. Eppure, nonostante siano queste difficoltà politiche a mettere in crisi l’euro, e non il contrario, “alle prossime elezioni per il Parlamento di Bruxelles c’è il rischio dell’affermazione di partiti che sfruttano il drammatico momento economico per schierarsi su posizioni antieuropeiste”, registra Prodi. Accadrà ovunque, tranne in Germania, dove il successo di certe formazioni non sembra possibile. “Lì – argomenta – sono la Merkel e il governo ad aver assunto i toni di durezza che tanto piacciono ai populisti”. E che impediscono l’avvio di politiche di ripresa viste con favore anche dagli uomini d’affari. Il paradosso tedesco è proprio questo: "un Paese con 240 miliardi di euro di surplus, con un’inflazione e uno sviluppo prossimi allo zero che rifiuta di dare benzina alla propria economia”. E rimane ‘estraneo’, schiavo di un’opinione pubblica ossessionata dallo spettro di un possibile ritorno dell’inflazione e indisponibile ad ogni misura che possa suonare come un favore ai pigri meridionali. Niente di più sbagliato, perché “nessuno chiede l’elemosina alla Germania” – afferma il Professore – “anzi, nelle politiche di salvataggio durante la crisi l’Italia ha contribuito per più di 50 miliardi di euro, con la Germania che ha superato i 70.” Ma l’impegno italiano appare anche superiore, fatte le proporzioni tra le due economie. “Serve allora un’alleanza politica di Francia, Spagna e Italia” per uscire dall’attuale stallo politico e fronteggiare la sopravvalutazione dell’euro, spinta dal surplus di Berlino. In fondo, ricorda, “quando incontravo il cancelliere tedesco Helmut Kohl [l’artefice della riunificazione tedesca, uno dei padri dell’euro e dell’allargamento dell’Unione, ndr] lui mi diceva che i tedeschi non volevano la moneta unica, ma che lui pensava a una Germania europea e non a un’Europa germanica”. In quel momento, anche se l’Italia aveva molti punti deboli (“Certo avrebbe fatto comodo qualche tempo in più per aggiustarci”, ammette), era necessario salire sul treno della storia, che passa una volta sola. E poi “cosa sarebbe stata l’Italia se non fossimo entrati nell’euro?" Infatti, quando fu presa la decisione sull’ingresso nella moneta, il rapporto tra lira e marco aveva ormai sfiorato quota 1.000 (un bel salto dal 144,24 dei primi anni Sessanta). Le difficoltà nascono dopo. In particolare per l’assenza di una politica economica e finanziaria coordinata (anche dal punto di vista fiscale) che doveva seguire l’entrata in vigore della moneta: un insieme di regole comuni per i momenti di crisi. A stopparle ci hanno pensato prima il cambio dei leader europei, che allora ne sostenevano la necessità, poi l’affacciarsi delle grandi paure. “Paura della Cina, della globalizzazione, della disoccupazione, dell’immigrazione, di tutti gli aspetti nuovi della politica europea”, paure che sono anche la causa dell’immobilismo attuale. Ai molti critici dell’allargamento dell’Unione europea, Prodi ricorda il vuoto che si era venuto a creare dopo la caduta della Cortina di Ferro, con la possibilità di nuove tragedie per l’intero Continente. Un’affermazione rivelatasi tempestiva: basta confrontare i progressi della Polonia di oggi con le tensioni in Ucraina, che dall’Unione è invece rimasta esclusa. “L’Italia stessa era il centro del mondo durante il Rinascimento, e per il fatto di non essersi unita è scomparsa dalla carta geografica, per più di tre secoli”, ammonisce Prodi. Una lezione da tener presente nel completamento del disegno europeo. Anche perché “aver succhiato col latte il concetto di nazione non basta più per confrontarsi con il mondo e con i cambiamenti di forza nei rapporti politici”. Quanto ha pesato infatti l’Europa in Iraq o in Libia? Quanto pesa oggi in Medio Oriente? Tempo dieci anni, al mondo ci sarà spazio per tre o quattro protagonisti. E con due posti già occupati da Cina e Stati Uniti, non c’è tempo da perdere. Inutile poi guardare al passato come a un rifugio sicuro. “Ci ha lasciato due guerre mondiali. Ancor oggi scrivere un libro di storia per gli studenti, che usi le stesse parole per francesi e tedeschi, risulta un dramma”, conclude. Eppure, messi di fronte al bivio tra ‘museo’ e ‘laboratorio’, gli europei sceglieranno davvero il futuro? Carlo Calore { Pubblicato il: 03.02.2014 } Da - http://www.criticaliberale.it/settimanale/199028 Titolo: PRODI: “Il mio governo tagliò cuneo fiscale come Renzi. Ma ci sputarono sopra” Inserito da: Admin - Marzo 16, 2014, 06:17:56 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Emilia Romagna >
Prodi: “Il mio governo tagliò cuneo fiscale come Renzi. Ma ci sputarono sopra” L'ex presidente del Consiglio a Bologna in un dibattito con Alan Friedman, considera positiva la scelta del premier Pd: "I tempi sono cambiati. Ora si è disposti al cambiamento" di David Marceddu | Bologna | 14 marzo 2014 Troppo facile far passare tutto come una rivoluzione quando c’è un Paese allo stremo e la gente che accetta tutto pur di smuovere la situazione asfittica dell’economia. Romano Prodi legge così dalla sua Bologna la ‘svolta buona’ di Matteo Renzi. “C’è un’atmosfera di attesa, con presupposti positivi, ben diversa da quella che c’era nel passato”, ha spiegato l’ex premier. “Quando il mio governo adottò la misura del cuneo fiscale di 7 miliardi e mezzo di euro, che non è molto distante dalle norme annunciate dal governo Renzi, il giorno dopo ci hanno sputato sopra. È stata un’esperienza scioccante”. A lui e ai suoi ministri – è il senso del discorso del professore in occasione della presentazione bolognese del libro di Alan Friedman ‘Ammazziamo il Gattopardo’ – l’opinione pubblica e le parti sociali non fecero passare nulla. Col suo secondo governo, condannato da una maggioranza risicata al Senato e con una situazione economica non da ultima spiaggia, far passare le riforme o fare apprezzare il calo del debito pubblico (“Lo abbassammo al 104% col mio governo, oggi è oltre il 130%”, non smette di ribadire il Professore ), tutti alzarono le barricate. Ma oltre l’amara constatazione che l’Italia è un Paese che si sveglia solo “un minuto prima di mezzanotte”, con l’acqua alla gola, Secondo Prodi, Renzi ha una chance enorme: “C’è il senso che il Paese sia all’ultima spiaggia e che una soluzione vada maturata in fretta. C’è una grandissima attesa, bisogna agire anche rischiando. C’è un presupposto positivo – ha concluso l’ex premier – le parti sociali sembrano più disposte ad accettare rischi, la Confindustria è più disposta a dialogare, il sindacato è più disponibile. Perfino il rigore tedesco oggi è più isolato di allora”. Poi il cattolico ‘di sinistra’ Prodi la butta lì: “Abbiamo una Chiesa molto diversa rispetto agli anni del mio ultimo governo”. E la memoria va alle crociate della Chiesa contro i Dico pensati dal suo governo, al Family day. Tutte cose che finirono per logorare ancora di più quell’esecutivo così debole. Oggi no: oggi Matteo Renzi al di là del Tevere ha papa Francesco. Troppo facile così, sembra dire. Tuttavia, è il ragionamento di Prodi, anche Renzi non ha poi tutto questo tempo: le elezioni europee sono alle porte. “Ci andiamo ancora con la mentalità che siano decisive per la situazione interna. Saranno un banco di prova pro o contro Renzi. Il giorno dopo la chiusura delle urne i parlamentari capiranno come dovranno comportarsi con il suo esecutivo”. Per Prodi infatti il nuovo presidente del Consiglio “sta facendo una scommessa molto alta, quindi ha necessità di fare in fretta, per incontrare le aspettative. La difficoltà è che Renzi sa che se non cambia le cose subito, viene corroso, e allora non avrà più tempo”. Poi, di fronte a centinaia di persone accorse a sentirlo, il premier racconta ancora la vicenda della sua ‘non-elezione’ al Quirinale. “A farmi male non furono i 101 che in segreto non mi votarono. Io quella mattina dopo che mi chiamò al telefono Pierluigi Bersani per dirmi della decisione unanime nel Partito democratico sul mio nome, capì che invece non sarebbe passato. Telefonai dall’Africa e dissi a mia moglie che non sarebbe successo nulla quel pomeriggio. Quello che mi fece male davvero accadde qualche giorno prima. Berlusconi disse che come Capo dello Stato loro avrebbero accettato qualunque nome del Partito democratico, tranne il mio. Ecco, nessuno si ribellò a queste parole. Quello mi ferì”. Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/14/prodi-il-mio-governo-taglio-cuneo-fiscale-come-renzi-ma-ci-sputarono-sopra/914612/ Titolo: PRODI Ucraina né russa né europea. Inserito da: Admin - Marzo 16, 2014, 07:24:15 pm Ucraina né russa né europea.
Romano Prodi Nel giorno del referendum in Crimea, un’analisi originale e forte dall’ex Presidente della Commissione europea e ex-premier, che parla a ruota libera della geopolitica dell’Ucraina. «Io condivido alla lettera quello che ha scritto Sergio Romano sul Corriere, quello che ha scritto Kissinger sul Washington Post, cioè: l’idea che l’Ucraina possa essere o dell’uno o dell’altro è un’idea assolutamente folle. L’ultimo atto del mio governo, insieme ai francesi e, credo, anche ai tedeschi, fu quello di votare contro l’entrata nella Nato dell’Ucraina con un discorso europeo che era estremamente serio, dicendo qui è cultura russa e cultura europea assieme, o noi dilaniamo il paese o dobbiamo avere un assoluto accordo fra Russia e Europa. Cioè: “Ucraina non come campo di battaglia ma come ponte”, sono le parole che io ho utilizzato nell’ultimo colloquio che ho avuto con Putin. Si è inserito qui un altro problema, incredibile, che l’Europa così divisa, così pasticciata, fa sì che adesso i protagonisti siano la Russia e l’America, e l’Europa è solo un protagonista secondario.» Prodi ha fatto questa analisi venerdì sera, 14 marzo, rispondendo a una domanda di Armando Nanni, Direttore del Corriere Bologna, durante la presentazione del libro di Alan Friedman alla Libreria Coop Ambasciatori. Da - http://video.corriere.it/prodi-l-ucraina-non-puo-essere-ne-russa-ne-europea/a99f71c8-ac5e-11e3-a415-108350ae7b5e Titolo: PRODI: "Il patto di stabilità? Lo dicevo 10 anni fa che è stupido" Inserito da: Admin - Marzo 26, 2014, 10:43:06 am Romano Prodi unione europea: "Il patto di stabilità? Lo dicevo 10 anni fa che è stupido"
Ansa | Pubblicato: 25/03/2014 08:45 CET | Aggiornato: 25/03/2014 08:45 CET "Quando io dicevo che il Patto di stabilità era stupido, allora mi davano tutti torto. Adesso dopo dieci anni tutti mi dicono 'avevi ragione'. La politica vuol dire tener conto della realtà delle cose. Si è voluto costruire invece un'Europa formale". Lo ha detto stamani Romano Prodi a Unomattina. Per l'ex presidente della Commissione europea ed ex premier italiano, "il problema dell'Europa non è una Unione europea spendacciona. Il bilancio dell'Ue è meno dell'1% del pil europeo. Il problema è che non c'è solidarietà europea. Il difetto non è delle istituzioni europee, ma è dei singoli stati, che adottano una politica nazionale e non una politica di interesse comune". "Credo che avremo delle elezioni europee difficili - ha concluso Prodi -. Ma so anche che quando si arriva vicini al burrone, c'è una saggezza dei popoli che fa tornare indietro. Arrivati al punto 'sì o no', tutti sanno che il nostro futuro senza l'Europa non esiste". DA - http://www.huffingtonpost.it/2014/03/25/romano-prodi-europa-patto-stabilita-stupido_n_5025629.html?utm_hp_ref=italy Titolo: Prodi: “D’Alema mente. Siamo in una gabbia di matti, e la chiave è persa” Inserito da: Admin - Marzo 26, 2014, 10:53:44 am Sei in: Il Fatto Quotidiano > Politica & Palazzo >
Romano Prodi: “D’Alema mente. Siamo in una gabbia di matti, e la chiave è persa” In una lettera al Corriere della Sera l'ex dirigente Pci nega di essere stato lui il regista del complotto. Il professore al Fatto: "Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano” di Emiliano Liuzzi 13 febbraio 2014 Al professor Romano Prodi, come sempre, bastano poche parole. “Le cose non andarono così e non capisco neppure perché lo abbia fatto”. Si riferisce alla lunghissima lettera al Corriere della Sera nella quale Massimo D’Alema ricostruisce gli ultimi giorni del primo governo Prodi, quando l’allora segretario dei Democratici di sinistra prese il posto a Palazzo Chigi dell’unico esponente del centrosinistra che sia mai riuscito a sconfiggere Silvio Berlusconi. Il governo guidato dal professore – ministro della Difesa Nino Andreatta, alla Giustizia Giovanni Maria Flick, al Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, non un governicchio, per intenderci – restò in carica per due anni, cinque mesi e quattro giorni, ma venne affossato da quello che sostanzialmente le cronache di allora ci raccontarono come un complotto dello stesso D’Alema, appoggiato nel suo disegno da Franco Marini. E D’Alema, ieri, forse richiamato in causa da molti che vedono quello tra Letta e Renzi come un remake di quelle trame, o forse spinto da altri giochi, ridisegna la storia di quei giorni. Ma lo fa spostando troppe pedine e persone. In sostanza dice che gli errori furono tutti di Prodi, che avrebbe voluto il voto, mentre il presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, non voleva e non aveva la minima intenzione di sciogliere le Camere. E così la scelta, dopo aver sondato Ciampi, ricadde su lui, Massimo D’Alema. Non solo: secondo l’ex premier diessino, fu determinante l’azione esclusiva di Francesco Cossiga che bocciò Prodi e affossò la possibilità di un governo Ciampi. Prodi, raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano, non solo dice che così le cose non andarono, ma spiega di far “molta fatica a capire perché sia stata scritta quella lettera”. E, aggiunge, disarmante, ma tutt’altro che disarmato: “Ormai siamo in una gabbia di matti e qualcuno ha buttato via la chiave. Ma non voglio andare oltre. Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano”. Cosa accadde, retroscena a parte, è noto. E che un complotto di D’Alema ai danni di Prodi ci fu, lo sappiamo anche grazie a una intervista che Franco Marini rilasciò nel maggio 2001 al Corriere della Sera. Sia Marini, sia D’Alema in quei giorni avevano l’interesse di affossare Prodi. C’era un patto tra i due per far saltare Prodi e con lui lo spirito ulivista della coalizione. Obiettivo dell’accordo, ricordava nel 2001 Marini, era esaltare piuttosto il potere dei due partiti, Ds e Ppi. Al primo, con D’Alema a Palazzo Chigi, sarebbe spettata la presidenza del Consiglio. Al secondo sarebbe spettato nel 1999 il Quirinale. Poi il patto saltò quando al Quirinale andò Ciampi e Marini non la prese bene, ma questa è un’altra storia. Quel 9 ottobre 1998 Prodi rimase stritolato e con lui il futuro del centrosinistra. In quell’autunno del 1998 a Marini spettò il compito di lavorare ai fianchi gli umori di Cossiga, decisivo in quell’equilibrio fragile (il governo Prodi non ottenne la fiducia per un voto) e D’Alema invece dovette ingraziarsi il Vaticano. Perché in quel momento un post comunista alla presidenza del Consiglio non era assolutamente gradito nella Chiesa. Ma c’è un passaggio chiave in tutto questo: il leader degli allora Ds, proprio in quei giorni, da presidente del Consiglio quasi incaricato, riesce a farsi ricevere pochi minuti da papa Giovanni Paolo II. Clemente Mastella definirà il colloquio “amorevole”. Sembra storia vecchia, archeologia, ma in realtà, da quel momento in poi, D’Alema aprirà la breccia per quelle che sono le larghe intese che – pur essendosi materializzate solo anni dopo – già erano nell’aria da tempo. L’epilogo lo conosciamo. D’Alema a Palazzo Chigi durò abbastanza poco. Il primo a voltargli le spalle fu proprio quel Marini che oggi il nostro ha dimenticato nella lettera al Corriere della Sera. Così come vengono dimenticati un’altra serie di particolari. A chi voglia rivolgersi D’Alema non lo sappiamo. Forse invita Renzi a darsi una calmata. Prodi non ne ha proprio idea. Più maliziosi, invece, sono i pensieri dei prodiani che non vedono altra lettura possibile: “Si tratta del seguito della guerra dei 101, secondo noi molti di più, e della mancata elezione di Prodi al Quirinale. Solo a questo gioca D’Alema”. Da Il Fatto Quotidiano del 13 febbraio 2014 Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/13/romano-prodi-dalema-mente-siamo-in-una-gabbia-di-matti-e-la-chiave-e-persa/879869/ Titolo: Romano Prodi: "Nuova corsa al Quirinale? È game over. Inserito da: Admin - Aprile 02, 2014, 10:25:19 pm Romano Prodi: "Nuova corsa al Quirinale? È game over.
Ho fiducia in Renzi, ma deve fare presto" L'Huffington Post | Pubblicato: 31/03/2014 08:26 CEST | Aggiornato: 31/03/2014 08:27 CEST È una promozione in piena regola dell'operato del governo Renzi, quella che l'ex premier Romano Prodi affida in una lunga intervista a Repubblica. "Il nuovo governo - spiega Prodi - ha obiettivamente aperto una speranza, e tutti dobbiamo crederci [...] Ha in effetti lanciato molte proposte interessanti". Non che la fiducia sia senza condizioni "il problema - aggiunge Prodi - è che ora servono norme e organizzazioni che le traducano rapidamente in atto. Renzi deve fare in fretta, ma deve soprattutto fare bene [...]. Se c'è tutto questo, siamo sulla strada giusta. Io sono in fiduciosa attesa". Riguardo alla vicenda dell'impallinamento nella corsa al Quirinale, l'ex premier giura che è acqua passata. "Con molta sincerità - dice - della vicenda dei 101, che poi erano 120, non mi ha bruciato nulla. Anzi, è stata persino una cosa divertente [...]. Non sono affatto amareggiato. Semmai, mi brucia ciò che accadde prima, quando da Bari Berlusconi disse "al Quirinale chiunque, ma non Prodi". Dal Pd, tranne Rosi Bindi, non replicò nessuno. Quelli sono i momenti in cui ti senti veramente solo". Sarà anche per questo che di pensare a una nuova scalata al Quirinale, per ora, non ne ha minima voglia. "Sono un uomo felice", spiega. "In fondo nella vita ci sono tante gare, e per quanto mi riguarda quella del Quirinale è finita: the game is over. I tempi poi sono cambiati: il prossimo presidente della Repubblica finirà per dover condensare il suo messaggio in un tweet". Con il partito non ci sono rancori, assicura ancora Prodi. "Può anche darsi che il Pd abbia ancora la febbre, ma è l'unico partito vivo che c'è in Italia. Tutti gli altri sono crollati, e non esistono più forme minime di democrazia e di rappresentanza". È sull'Europa che il professore ha voglia - eccome - di parlare. Si dice "preoccupato per il virus francese", che tuttavia non lo sorprende: "solo la Germania è immune - spiega - perché la Merkel ha difeso soprattutto gli interessi tedeschi ed è diventata la padrona dell'Europa". Secondo Prodi, "è chiaro che se oggi, per rispettare il "tetto magico" del 3%, ci preoccupiamo solo di comprimere i deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo. In periodi di crisi servono politiche espansive dal lato della domanda. Ed è proprio questo che l'Europa non fa". Ciò non significa - procede Prodi - che non dobbiamo onorare i nostri impegni, compreso il Fiscal Compact. Il punto è che "dobbiamo pretendere dall'Europa politiche che ci consentano di rispettarli facendo ripartire l'economia. Non possiamo accettare che ci si leghino le gambe, e poi ci si chieda anche di correre. Serve un lungo e paziente dialogo, con tutti i nostri partner". Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/03/31/romano-prodi-corsa-al-quirinale_n_5060975.html?1396247225&utm_hp_ref=italy Titolo: PRODI "Il Pd di Renzi è l'unico partito vivo, giusta la battaglia contro i no... Inserito da: Admin - Aprile 03, 2014, 06:36:43 pm Romano Prodi: "Il Pd di Renzi è l'unico partito vivo, giusta la battaglia contro i no tedeschi"
L'ex premier: "Positiva la scelta del governo di concentrare benefici sui lavoratori. Lavori troppo precari non giovano e il tema non è l'articolo 18. Le riforme istituzionali vanno fatte cercando il massimo consenso" di MASSIMO GIANNINI L'ex premier dice di sentirsi "un uomo felice", si chiama fuori dalla futura corsa per il Quirinale e promuove Matteo Renzi. "È la grande aspettativa di rinnovamento, ma non deve deluderla, de- ve fare in fretta ma deve soprattutto fare bene". A partire dalla battaglia che sta conducendo in Europa: "Noi dobbiamo onorare il fiscal compact, ma non possiamo accettare che ci leghino le gambe e poi ci chiedano di correre. Se oggi, per rispettare il tetto magico del 3 per cento, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo". Le colpe sono un po' di tutti: "Chi ha sentito più parlare della Commissione Ue?". Il virus antieuropeista però preoccupa: "Solo la Germania ne è immune perché la Merkel ha difeso gli interessi nazionali ed è diventata la padrona d'Europa" Presidente Prodi, in Europa i popoli voltano le spalle ai governi. Come dice Bauman, i palazzi della politica sono vuoti, perché il vero potere è altrove, dai mercati alle banche. Cosa sta succedendo? "Con una diagnosi semplicistica, si potrebbe dire che la ripresa mondiale è lenta, e in Europa è ancora più lenta. In realtà il male europeo è molto più complesso. Non c'è un solo cambiamento nella storia dell'umanità che veda l'Europa protagonista. Prenda la crisi ucraina: Putin chiama Obama, anche se gli Usa non c'entrano nulla. Ma vale la famosa domanda di Kissinger: qual è il numero di telefono dell'Europa? Nessuno lo sa. Nel frattempo, l'Europa è dominata dalla paura, dagli egoismi nazionali. Ogni leader europeo guarda alle prossime elezioni, non alle prossime generazioni". Risultato: vincono gli anti-europeisti, come nella Francia di Marine Le Pen. "Il virus francese mi preoccupa, ma non mi sorprende. Solo la Germania è immune, perché la Merkel ha difeso soprattutto gli interessi tedeschi ed è diventata la padrona d'Europa. Ma è assurdo che un Paese con un surplus commerciale di 280 miliardi, un'inflazione zero e un modesto tasso di crescita, si rifiuti di reflazionare la sua economia, e di consentire che l'Europa faccia altrettanto, solo perché questo verrebbe vissuto dai tedeschi come una 'elemosina a favore dei pigri meridionali". E non è così? "Ovviamente no. Ma qui sta anche la responsabilità di noi "latinos". Non siamo in grado di esprimere un progetto politico unitario e condiviso non "contro" la Germania, ma a favore dello sviluppo e del lavoro. Su questo non vedo proposte concrete, né in Italia né altrove. Il modello sono gli Usa, che hanno iniettato nel sistema 800 miliardi di dollari in un colpo solo. Ci vorrebbe un po' di sano keynesismo...". Dovremmo riscrivere i Trattati europei, smontando i famosi parametri che proprio lei una volta definì "stupidi"? "Non ho mai pensato che si debbano rivedere i parametri. Li ho definiti 'stupidi', nel senso che vanno sempre tarati sui cicli dell'economia. E' chiaro che se oggi, per rispettare il 'tetto magico del 3%, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo. In periodi di crisi servono politiche espansive dal lato della domanda. E' questo che l'Europa non fa. Dovrebbe mutualizzare i debiti pubblici e lanciare gli eurobond, ristabilire lo spirito solidaristico che a fine anni '90 ci consentì di azzerare gli spread, rafforzare le sue istituzioni rappresentative. La Bce, per quanto faccia, non potrà mai sostituirsi al Consiglio europeo. E mi dica, ha più sentito parlare della Commissione Ue?". Grillo urla: usciamo dall'euro. Che effetto le fa, da "padre fondatore" della moneta unica? "Questo è un Paese senza memoria. Usciamo dall'euro, facciamo come l'Argentina: follie. Dal giorno dopo avremmo Btp svalutati del 40%, tassi di interesse al 30%, Stato al collasso, banche fallite, dazi contro le nostre merci anche da parte dei paesi europei. Qualche anima bella obietta: avremmo le svalutazioni competitive! Altra follia. Una bilancia commerciale in attivo dello 0,6% del Pil è la prova che ai nostri imprenditori, non certo tutti pigri e poco competitivi, quello che oggi serve non sono le svalutazioni competitive, ma un rilancio della domanda e dei consumi interni, accompagnato da una drastica semplificazione delle regole e dalla ripresa della lotta all'evasione fiscale". Renzi e Padoan hanno ragione a chiedere all'Europa di "cambiare verso"? "Noi dobbiamo onorare i nostri impegni, compreso il Fiscal Compact. Ma dobbiamo pretendere dall'Europa politiche che ci consentano di rispettarli facendo ripartire l'economia. Non possiamo accettare che ci si leghino le gambe, e poi ci si chieda anche di correre. Serve un lungo e paziente dialogo, con tutti i nostri partner". Crescita e lavoro ormai sono un mantra. Ma precariato e disoccupazione sono la malattia mortale dell'Occidente. "Sono i temi che mi angosciano di più. A differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell'informazione distruggono posti di lavoro. Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto. A pagare il prezzo più alto è il ceto medio. Qualche giorno fa il Financial Times scriveva che l'Information Technology tra pochi anni farà sparire anche migliaia di analisti finanziari". In Italia serve davvero più flessibilità in entrata (come prevede il decreto del governo) e in uscita (con la fine dell'articolo 18)? "Posso dirle che lavori troppo precari non giovano all'economia, e che nelle aziende si assume e si licenzia come si vuole. Quando parli a tu per tu, gli imprenditori te lo dicono: il problema per loro non è l'articolo 18, ma semmai una contrattazione più legata alle aziende e ai territori, e una maggiore disponibilità su orari, turni, mansioni, gestione dei magazzini. Queste sono le vere riforme". Dal Jobs Act al Fisco e alla PA, Renzi ne sta promettendo persino troppe. Non c'è da temere un effetto boomerang? "Il nuovo governo ha obiettivamente aperto una speranza, e tutti dobbiamo crederci. Renzi ha un vantaggio: è la grande aspettativa di rinnovamento che c'è nella società italiana. Non deve deluderla. Ha in effetti lanciato molte proposte interessanti. Il problema è che ora servono norme e organizzazioni che le traducano rapidamente in atto. Se c'è tutto questo, va bene. Io sono in fiduciosa attesa". Lei magari sì, ma le parti sociali no. Non passa giorno che Confindustria e sindacati non facciano a sportellate col governo o con Bankitalia. Come lo spiega? "Un po' di dialettica è fisiologica. Ma nel complesso mi pare che nel Paese, se non altro perché siamo davvero all'ultima spiaggia, c'è un forte desiderio di ritrovare l'ottimismo e di cavalcare il cambiamento. Questa per Renzi è una grande fortuna. Può sfruttare quel misto di angosce e di speranze che attraversano l'Italia. Deve fare in fretta, ma deve soprattutto fare bene. Quanto alla concertazione, è una bella cosa. Ma richiede unità nei sindacati e negli imprenditori. E invece l'Italia è sempre più frammentata. Da ex premier, mi ricordo riunioni fiume con decine di sigle sedute al tavolo. All'una la prima sigla diceva una cosa, alle due una seconda sigla la scavalcava, alle tre ne spuntava un'altra che andava oltre, alle quattro si chiudeva con un comunicato generico. Questo tipo di concertazione, onestamente, non funziona più". Renzi taglia di 10 miliardi Il cuneo fiscale per i lavoratori. Lei lo fece già nel 2008, ma lo spartì anche alle imprese. E' giusto oggi privilegiare l'Irpef? "Noi distribuimmo, 60 alle imprese e 40 ai lavoratori. Nonostante questo, a sorpresa, il giorno dopo fu proprio Confindustria ad attaccarci. Stranezze della storia... Oggi, di fronte alla deflazione salariale, Renzi fa bene a concentrare tutti i benefici sui lavoratori. Un po' più di potere d'acquisto per le famiglie, alla fine, sarà un vantaggio anche per le imprese". La nuova legge elettorale e la riforma del Senato la convincono? "Non entro nel merito. In generale, più ci si avvicina al modello dei collegi uninominali e del doppio turno, più si va verso una democrazia efficiente e funzionante". Peccato che l'Italicum vada nella direzione opposta, per pagare un prezzo a Berlusconi. Lei che è l'unico ad averlo battuto due volte, come giudica questo patto col diavolo? "Le riforme di sistema, elettorali e istituzionali, vanno fatte cercando il massimo dei consensi tra gli schieramenti politici. Ma diciamo che non bisogna esagerare nei modi. Di mediazioni se ne possono fare, ma la priorità resta sempre il bene del Paese". E del Pd renziano cosa mi dice? "Le dico solo questo: può anche darsi che il Pd abbia ancora la febbre, ma è l'unico partito vivo che c'è in Italia. Tutti gli altri sono crollati, e non esistono più forme minime di democrazia e di rappresentanza". Quanto ancora le brucia, la vicenda dei 101 che l'hanno impallinata nella corsa al Quirinale? "Con molta sincerità, della vicenda dei 101, che poi erano 120, non mi ha bruciato nulla. Anzi, è stata persino una cosa divertente. Ero in Mali, con gli africani che mi facevano il pollice alzato, mentre io facevo 'pollice versò perché già prevedevo come sarebbe finita. Feci le mie telefonate, a Marini, D'Alema, Monti e Napolitano. Alla fine chiamai mia moglie e le dissi "vedrai, non succederà niente". E così è andata. Ma davvero, non sono affatto amareggiato. Semmai mi brucia ciò che accadde prima, quando da Bari Berlusconi disse "al Quirinale chiunque, ma non Prodi". Dal Pd, tranne Rosi Bindi, non replicò nessuno. Quelli sono i momenti in cui ti senti veramente solo". Napolitano potrebbe lasciare dopo la riforma elettorale. E di lei si sussurra: "Prodi si sta dando da fare per ritentare la scalata al Colle". Vero o falso? "Vorrei proprio sapere in cosa consisterebbe questo mio "darmi da fare"... Mi occupo di questioni internazionali, studio l'economia globale, giro il mondo. Sono un uomo felice. In fondo nella vita ci sono tante gare, e per quanto mi riguarda quella del Quirinale è finita. Mi creda: the game is over. I tempi poi sono cambiati: il prossimo presidente della Repubblica finirà per dover condensare il suo messaggio in un twitter". Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/romano_prodi_il_pd_di_renzi_l_unico_partito_vivo_giusta_la_battaglia_contro_i_no_tedeschi-82347739/?ref=HREC1-11 Titolo: Prodi, conclusa l’esperienza di inviato speciale per il Sahel Inserito da: Admin - Maggio 02, 2014, 11:22:45 am Politica
01/05/2014 Prodi, conclusa l’esperienza di inviato speciale per il Sahel Ban Ki-Moon ha nominato Hiroute Guebre Sellassie come successore Francesco Semprini Ban Ki-Moon ha nominato Hiroute Guebre Sellassie successore di Romano Prodi alla carica di inviato speciale per il Sahel, per conto del Segretario generale delle Nazioni Unite. Ban ha espresso forte gratitudine nei confronti di Prodi per la sua capacità di centrare l’obiettivo di realizzare una “strategia integrata per il Sahel” per conto dell’Onu, e ancor di più nel sensibilizzare e mobilitare la comunità internazionale a sostegno della regione. Romano Prodi, politico con al suo attivo esperienze molteplici sul piano internazionale, era stato scelto da Ban per l’incarico il 9 ottobre 2012, e ha svolto il suo ruolo in un momento assai complesso per la regione, specie nei primi mesi del 2013 con il ritorno di fiamma delle formazioni qaediste e jihadiste in quell’area, e la complicata guerra in Mali con la successiva missione Onu. “Non possiamo lasciare il Mali e il Sahel nelle mani di terroristi e trafficanti”, ha ribadito con forza più volte, anche nel corso di un’intervista a La Stampa nella quale non risparmiò una critica all’Italia per essere “troppo assente nella regione”. Sempre in ambito Onu, Prodi è stato nominato da Ban nel settembre 2008 per presiedere il comitato “African Union-Un peacekeeping”. Il suo mandato quale inviato per il Sahel terminava di fatto il 31 gennaio 2014, come spiega una nota del Palazzo di Vetro, ma di fatto la sostituzione al vertice è giunta solo oggi. Il successore, Guebre Sellassie, è una cittadina di nazionalità etiope, ed è stata direttore della divisione affari politici dell’ufficio Onu di Goma, nella Repubblica democratica del Congo, dal 2007 al 2014. Laureata in legge alla Sorbonne di Parigi, ha maturato esperienze come avvocato e politico nel governo di Addis Abeba, prima di dedicarsi alle attività internazionale, in particolare nell’ambito dell’Unione africana. E’ sposata ed ha tre figli. A lei l’onere e l’onore di proseguire il percorso iniziato da Prodi, che ha come obiettivo di “offrire un’occasione affinché il Sahel si agganci al resto del Continente”. Un progetto definito dallo stesso inviato uscente “basato sul realismo e non solo sul sogno”. Da - http://lastampa.it/2014/05/01/italia/politica/prodi-conclusa-lesperienza-di-inviato-speciale-per-il-sahel-650sUvasJR5RVrlmAfi0MM/pagina.html Titolo: PRODI Il miracolo-Mali dimostra che l’Africa può decollare” Inserito da: Admin - Maggio 02, 2014, 11:23:46 am Stiamo progettando un piano di ricostruzione rivoluzionario per rilanciare il Sahel
Il miracolo-Mali dimostra che l’Africa può decollare” Prodi: modello di ricostruzione rivoluzionario per rilanciare tutto il Sahel Intervista di Francesco Semprini a romano Prodi su La Stampa del 14 agosto 2013 «Non possiamo lasciare il Mali e il Sahel nelle mani di terroristi e trafficanti. L’Africa ha cominciato un cammino di sviluppo e il mio obiettivo è di permettere alla regione di agganciarsi al resto del continente». Parte con questo appello il colloquio con Romano Prodi, iniziato al forum dei Nobel di Astana, e proseguito sino ai recenti sviluppi in Mali. L’Inviato speciale per il Sahel spiega che, con Ban Ki-moon, hanno modulato un approccio rivoluzionario per la regione, sistemico e snello, che responsabilizza in solido i Paesi donatori. Mentre all’Italia chiede di farsi maggiormente carico dei propri doveri. Presidente Prodi, come nasce il suo mandato Onu per il Sahel? «Nasce dalla necessità di strutturare un progetto di sviluppo integrato per la zona più povera dell’Africa. Il ruolo che mi è stato affidato da Ban Ki-moon non è per un singolo Paese, ma per un’area intera, per affrontare i grandi aspetti dello sviluppo». Qual è l’obiettivo? «Fare in modo di avviare una fase di crescita sostenibile e integrata per i cinque Paesi centrali: Mali, Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad. Paesi enormi territorialmente ma fragili dal punto di vista economico e finora separati in ogni strategia di sviluppo. Ban Ki-Moon ha voluto provare a lanciare un progetto di coordinamento per delle realtà poverissime e incapaci, da sole, a inserirsi nelle nuove speranze di sviluppo del continente». Quale approccio prevede il piano che ha messo a punto? «Abbiamo mobilitato le università e gli esperti della regione, trovando risorse umane eccellenti e con una conoscenza molto più elevata di quella dei centri di ricerca collocati a migliaia di km di distanza e ai quali si faceva prima riferimento». Quali sono i punti fondamentali della nuova strategia? «Il primo è l’agricoltura, ovvero il nutrimento, l’irrigazione, le tecniche agricole e le vaccinazioni degli animali. Quindi le infrastrutture, visto che i Paesi non sono collegati fra loro da ferrovie o altro. Innovativo è il progetto di energia decentrata per portare l’elettricità in tutte le case, soprattutto con il solare, una rivoluzione come quella avvenuta con i cellulari. Infine, istruzione e salute, con scuole e ospedali». Sul lato dei finanziamenti? «Questa è l’altra novità. I fondi verranno ricercati a livello mondiale, facendo quasi una raccolta porta a porta. La vera innovazione è che il contributo può essere in denaro o in “natura”. Il donatore può versare fondi al Palazzo di vetro o agire direttamente, in coordinamento con l’Onu, senza strutture di passaggio che, per definizione, rendono tutto più macchinoso». Questo cosa comporta? «Se la Germania sceglie di realizzare un ospedale, lo costruisce direttamente ed è sua responsabilità di fronte al mondo se questo ospedale è ben fatto o no. È un modello di concorrenza virtuosa che evita le lentezze che oggi ritardano gli interventi internazionali a favore dello sviluppo». Che tempi richiede la sua rivoluzione per il Sahel? «Questo è il disegno generale su cui stiamo lavorando, poi il piano sarà portato in attuazione dalle istituzioni dell’Onu o a esse collegate come Banca Mondiale o Banca Africana di Sviluppo. L’incarico di Inviato speciale deve essere comunque a tempo determinato, non voglio che queste missioni straordinarie si procrastino all’infinito, si deve agire con rapidità». Gli italiani si sono dimostrati virtuosi sino ad ora? «Lo potrebbero essere di più dato che siamo piuttosto assenti in questa regione, nonostante l’attività di molte Ong. È ora di considerare maggiormente i nostri doveri ed i nostri interessi per un’area del mondo povera ma potenzialmente promettente e vicina. Non possiamo lasciare il Sahel nelle mani dei terroristi e dei trafficanti di droga. L’Africa ha realmente cominciato un cammino di sviluppo, e il mio obiettivo è di offrire un’occasione affinché il Sahel si agganci al resto del continente. C’è realismo non c’è solo sogno». Da - http://www.romanoprodi.it/interviste/stiamo-progettando-un-piano-di-ricostruzione-rivoluzionario-per-rilanciare-tutto-il-sahel_7088.html Titolo: PRODI: crisi creata da politica tedesca sbagliata Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 07:10:07 pm Prodi: crisi creata da politica tedesca sbagliata
Secondo l'ex presidente della Commissione Ue, il Cancelliere «se l'è cavata benissimo». 1 luglio 2014 «L'unico modo di uscire dall'attuale situazione, creata non per via dell'euro ma per una sbagliata politica tedesca, è quella di mettere assieme interessi di Francia, Spagna, Grecia e Portogallo per cambiare la politica europea»: lo ha dichiarato l'ex premier e presidente della Commissione Europea Romano Prodi, intervenuto al programma di Radiorai «Radio Anch'io» in occasione dell'inizio del semestre di presidenza italiana. «La Germania è divenuto il Paese dominante, il cui interesse politico interno è stato ben interpretato» dal Cancelliere tedesco Angela Merkel, ha spiegato Prodi: «La Germania, per la sua storia, è dominata dall'ossessione dell'inflazione e qualsiasi spinta all'economia - necessaria e utilissima anche alla stessa Germania - viene interpretata come aiuto ai Paesi 'pigri' fra cui siamo anche noi». Il Cancelliere «se l'è cavata benissimo in queste elezioni, e ha evitato la nascita dei partiti antieuropeisti in Germania, unico Paese in cui ciò è successo: dal punto di vista interno Merkel ha agito con grande coerenza, il problema è che ha danneggiato tutti gli altri», ha concluso Prodi. Da - http://www.unita.it/politica/prodi-ue-crisi-euro-germania-merkel-colpa-rigore-austerity-1.578169 Titolo: Prodi: regole chiare e una burocrazia che le faccia rispettare Inserito da: Admin - Luglio 13, 2014, 10:46:29 am Ammazziamo il gattopardo
Prodi: regole chiare e una burocrazia che le faccia rispettare «Ecco perché l’Italia non cresce» - di Alan Friedman 10 luglio 2014 «Hanno messo nella testa della nostra gente l’idea che in Italia non si può fare nulla». Così il Professore in un brano della lunga intervista concessa ad Alan Friedman che andrà in onda giovedì sera alle 23,20 nel corso della trasmissione “Ammazziamo il Gattopardo: Il Gioco del Potere”, lo show di La7 coprodotto da Corriere.it tratto dal libro best-seller del giornalista americano. Romano Prodi individua nella mancanza di regole chiare e di una burocrazia che le faccia rispettare uno dei problemi principali che impediscono all’Italia di crescere: «È molto più importante che non il costo del lavoro o altre cose che ci vengono imputate», afferma. Un altro grande limite, spiega il Professore, «è il costo dell’energia. Noi escludiamo dal nostro sistema tutti i settori produttivi che sono cosiddetti energivori». Ma cosa ha impedito una politica riformatrice seria in Italia? Prodi non ci pensa due volte: «Le divisioni del Paese». Da - http://video.corriere.it/prodi-regole-chiare-burocrazia-che-faccia-rispettare/96401f56-0771-11e4-99f4-bbf372cd3a67 Titolo: PRODI Citato per l’«operazione libertà» contro il suo governo Inserito da: Admin - Luglio 16, 2014, 05:38:53 pm L’ex premier ha parlato per un’ora
Compravendita dei senatori, Prodi testimone Il Professore in aula: «Non ne sapevo nulla» Citato per l’«operazione libertà» contro il suo governo NAPOLI - - L’ex premier Romano Prodi è giunto a Napoli per deporre come teste nel processo per la presunta compravendita di senatori che sarebbe stata all’origine della caduta del suo governo, nel 2008. L’udienza è in corso. L’«Operazione Libertà», ovvero il piano attuato da Silvio Berlusconi tra il 2007 e il 2008 per portare dalla propria parte parlamentari dello schieramento avversario e determinare così la caduta del governo Prodi che si reggeva a Palazzo Madama su una maggioranza assai precaria, è il cuore del processo che è ripreso davanti alla prima sezione del Tribunale di Napoli e che vede imputati per corruzione l’ex Cavaliere e il giornalista Valter Lavitola. L’ex premier Prodi viene indicato come la principale vittima di quella che i magistrati dell’accusa descrivono alla stregua di una macchinazione realizzata con metodi illeciti, come la compravendita al prezzo di milioni di euro di senatori che militavano nel centrosinistra. INFORMATO SUI FATTI - Prodi fu già ascoltato come persona informata dei fatti l’8 marzo dello scorso anno dalla Procura partenopea nel corso delle indagini preliminari, poco prima della chiusura dell’inchiesta. Il Professore è stato inserito nella lista dei testimoni depositata in occasione dell’apertura del dibattimento dai pm Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock, Fabrizio Vanorio e Alessandro Milita. L’argomento principale su cui Prodi sarà chiamato a deporre è il passaggio nelle file del Pdl di Sergio De Gregorio, eletto nel 2006 nelle liste dell’Italia dei Valori, e avvenuto, secondo le ammissioni dello stesso De Gregorio (che è uscito dal processo avendo deciso di patteggiare la pena) dietro compenso di tre milioni di euro, versati da Berlusconi attraverso l’intermediazione di Valter Lavitola. Soldi che sarebbero stati consegnati in buona parte sotto forma di finanziamento al movimento Italiani nel Mondo, che faceva capo al senatore napoletano. La corruzione di De Gregorio rappresenterebbe solo un episodio di un disegno più complessivo attuato attraverso analoghi tentativi nei confronti di altri parlamentari». 15 luglio 2014 (modifica il 16 luglio 2014) © RIPRODUZIONE RISERVATA Redazione online Da - http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2014/15-luglio-2014/compravendita-senatoriprodi-testimonia-aula-napoli--223576843705.shtml Titolo: Quegli incarichi mai arrivati a Prodi Inserito da: Admin - Novembre 11, 2014, 05:55:46 pm Il retroscena
Quegli incarichi mai arrivati a Prodi Il premier e il distacco dal Professore Palazzo Chigi non è andato avanti sull’ipotesi di farlo mediatore in Libia e Ucraina Di Paolo Valentino ROMA - Romano Prodi ha spiegato ieri alla nostra Monica Guerzoni di «non avere nessuna intenzione di fare il presidente della Repubblica» e di appassionarsi in questa fase soprattutto ai «cambiamenti di potere in Europa». Che si tratti di un rifiuto definitivo da parte dell’ex premier, è presto per dirlo. Ma che sul distacco vero o apparente di Prodi pesino i suoi attuali rapporti (o meglio, non rapporti) con Matteo Renzi, è un fatto che viene confermato da diverse fonti. Un Grande Freddo è calato negli ultimi mesi tra il presidente del Consiglio e il Professore, che solo a un cerchio ristretto di persone confessa il proprio disappunto. E a far abbassare la temperatura non è solo o tanto il sospetto, che uno dei corollari impliciti del patto del Nazareno sia proprio un virtuale segnale rosso a ogni eventuale ambizione collinare di Romano Prodi, osteggiato da Berlusconi e forse troppo ingombrante per Renzi. Due episodi in particolare hanno segnato irreparabilmente quella che, all’inizio dell’avventura di Renzi a Palazzo Chigi, era apparsa come una relazione molto promettente: il giovane premier aveva infatti diverse volte chiesto aiuto e consiglio al più anziano statista, trovandolo sempre molto disponibile. La prima increspatura, secondo le fonti, sarebbe venuta sulla crisi ucraina. Sarebbe stato il sottosegretario Graziano Delrio a contattare personalmente Romano Prodi, chiedendo la sua disponibilità di massima a tentare una mediazione nella difficile partita tra Mosca e Kiev. Ma dopo aver ricevuto il pieno accordo dell’ex presidente, Palazzo Chigi è sparito dal radar prodiano. Cosa abbia determinato il dietro front non è chiaro. Forse è stata la posizione di Prodi, totalmente contrario alle sanzioni europee nei confronti della Russia, che ancora pochi giorni fa ha definito «un suicidio collettivo». Un giudizio chiaramente non in linea con la posizione del governo italiano, che ha dovuto fugare l’iniziale sospetto tra i partner occidentali di essere troppo filo-russo. Qualunque sia stata la motivazione, a lasciar basito Prodi è stato il silenzio completo seguito alla prima richiesta, tanto più che le sue idee sulla questione ucraina erano ben note. Ma forse ancora più scottato, il Professore è rimasto dalla vicenda della Libia, uno dei Paesi che conosce meglio. Secondo la ricostruzione delle fonti, all’inizio dell’estate alcune delle fazioni libiche avrebbero contattato il governo di Roma, chiedendo esplicitamente che Prodi venisse indicato dall’Italia come eventuale mediatore delle Nazioni Unite nella crisi. Palazzo Chigi non avrebbe mai risposto, né in un senso né nell’altro, a questa sollecitazione. Com’è noto, in agosto, il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon ha poi nominato a sorpresa il diplomatico spagnolo Bernardino León, scelta ineccepibile, ma che è stata vista come uno sgarbo nei confronti dell’Italia, l’unico Paese ad aver mantenuto aperta l’ambasciata a Tripoli in una situazione esplosiva e pericolosissima. Sgarbo o meno, anche qui la delusione di Prodi viene dall’essere stato completamente ignorato da Matteo Renzi, nonostante l’indicazione che veniva dai libici fosse una specie di investitura. Del precipitare della crisi in Libia, ormai avvitata in una spirale di caos e violenza, si è parlato ancora ieri pomeriggio a Palazzo Chigi, in un vertice ad hoc, al quale hanno preso parte, con il presidente del Consiglio, i ministri degli Esteri e degli Interni, Paolo Gentiloni e Angelino Alfano, oltre al sottosegretario per i Servizi, Marco Minniti. Sulle nostre ricostruzioni a proposito dei rapporti tra Prodi e Renzi, abbiamo cercato ieri di contattare il sottosegretario Delrio, per sentirlo e poter rendere conto della sua versione, ma non siamo riusciti a raggiungerlo. 11 novembre 2014 | 07:50 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_11/quegli-incarichi-mai-arrivati-prodi-premier-distacco-professore-ab88b0e8-696a-11e4-96be-d4ee9121ff4d.shtml Titolo: Paolo Valentino Prodi: Isis, un tragico fattore unificante nella politica ... Inserito da: Admin - Marzo 09, 2015, 05:30:57 pm Intervista
Prodi: «Isis, un tragico fattore unificante nella politica mondiale» L’ex Presidente della Commissione europea ed ex presidente del Consiglio italiano torna a parlare delle sanzioni alla Russia e della visita di Renzi a Mosca Di Paolo Valentino, inviato a Bologna «Spero che in Libia la forza della disperazione faccia il miracolo: se sono andati tutti a Rabat è perché sono disperati. L’Isis è diventato un tragico fattore unificante nella politica mondiale. E’ la prima volta che tutte le grandi potenze hanno la stessa paura, anche se non la stessa politica, Cina, Russia, Europa, Stati Uniti. Mi auguro che a Rabat i grandi Paesi, quelli che hanno influenza, siano finalmente d’accordo nell’utilizzare ognuno le proprie leve e i propri canali. Certo molto dipende anche da Egitto e Algeria. E resta il punto interrogativo sulle politiche di Paesi come Qatar e Turchia, e le loro «politiche individualmente anomale». Ma se le grandi potenze agiscono in modo deciso e unito, le anomalie si possono ridurre e forse le tre stanze di Rabat potranno diventare una». L’ha vissuta sin dall’inizio, la crisi libica, Romano Prodi. Fu lui, da presidente della Commissione europea, a invitare a Bruxelles un Gheddafi «stanco di fare il trouble maker e di creare tensione nella regione sub-sahariana». Uno sdoganamento «all’inizio molto criticato nel mondo anglosassone», che poi fu il primo a correre verso il colonnello, annusando buoni affari. «Da allora - spiega l’ex presidente del Consiglio, ricevendoci a Bologna, nella sede della sua “Fondazione per la collaborazione fra i popoli” – la Libia ha assunto un ruolo molto particolare. Gheddafi ha cercato di riparare, pagando, per le vittime dei suoi atti di terrorismo, in tal modo ammettendo le proprie responsabilità. E’ diventato punto di riferimento per i Paesi vicini, ha sostenuto il peso più forte del bilancio dell’Unione africana (quasi un quarto) rimanendo però un dittatore durissimo all’interno, perché solo col pugno di ferro teneva a freno le diverse tribù. Altra particolarità, aveva un esercito formato in buona parte da uomini del deserto, ben pagati, che contribuivano a mantenere un equilibrio economico nel sub-Sahara. La guerra ha frantumato questi equilibri. Gheddafi è morto, i mercenari privi di paga si sono presi quello che c’era: una montagna di armi. In questo quadro caotico, è caduto l’intervento militare della Nato, privo però di ogni strategia politica, di ogni idea sul dopo, a parte la vaga ipotesi di elezioni. Da allora, ci sono state solo rotture progressive, fino ai due governi contrapposti di Tobruk e Tripoli, con la complicazione dell’Isis nell’ultimo anno, probabilmente non così forte numericamente, ma potentissimo quando si muove in un ambiente pieno di ambiguità. Ora ci sono continui rivolgimenti di fronte, un incessante bagno di sangue. Ma c’è per fortuna la convinzione generale che un intervento esterno sul terreno sia impossibile, per la natura frammentata dello scontro e per il semplice fatto che avrebbe l’effetto di unire tutti contro l’invasore». In questo scenario, la scorsa estate è partita la mediazione dell’Onu. Perché si è rivelata debole e insufficiente? Cosa avremmo potuto fare di diverso? «L’handicap della mediazione è stato in primo luogo il ritardo con cui è partita. Personalmente avevo detto da tempo ai vari ministri che si sono succeduti alla Farnesina che avremmo dovuto forzare le parti. Ci si è illusi che il governo legittimo, emerso dalle elezioni e che non voleva nessun altro interlocutore al tavolo, fosse sufficiente. Quando ci si è accorti che non era così, la situazione si era già troppo deteriorata». E l’Europa? «Non c’è stata. Non ha avuto una politica. Ma non solo rispetto alla Libia. E’ stata divisa, sempre. Sulla specifica vicenda libica hanno probabilmente pesato il ruolo particolare della Francia soprattutto di fronte all’opportuno smarcamento della Germania, che si è chiamata fuori dall’intervento. Le differenze erano evidenti. Devo aggiungere un’altra notazione: per esperienza personale, tutte le volte che era in ballo il Mediterraneo, era difficile attirare l’attenzione dei Paesi del Nord. Hanno sempre bocciato ogni mia proposta. Quando abbiamo fatto l’allargamento, l’unica vera esportazione di democrazia della Storia, mi sono sentito rimproverare da algerini, marocchini, tunisini, egiziani, libici: voi guardate solo a Nord e mai a noi. La mia risposta era: c’è un’emergenza storica, è caduta la Cortina di Ferro e noi abbiamo il dovere di una risposta, ma c’è un impegno di volgerla anche a Sud. Bene, quell’impegno non è mai stato onorato. Proposi la Banca del Mediterraneo, con consiglio d’amministrazione paritario tra Nord e Sud, mi dissero che avevamo già la Bei. Così per le Università miste: pensavo a sedi doppie, Catania e Tunisi per esempio.Oggi ne paghiamo il prezzo». L’ipotesi del suo ruolo come eventuale mediatore è ancora attuale? Se ne parla già dal 2011. «Mi fece molto piacere, nel 2011, la lettera di 25 capi di Stato e di governo africani, che indicavano il mio nome per la Libia e la positiva risposta di Ban Ki Moon, il quale promise di consultare i Paesi rilevanti. Il fatto che poi non se ne fece nulla significa che qualcuno di questi Paesi diede parere contrario. Mi è dispiaciuto, ma non mi ha sorpreso. Ricordo che Berlusconi era premier e Sarkozy presidente. Nell’estate del 2014 ci sono state nuove richieste libiche, queste dirette al governo italiano, per una mia mediazione. Ma anche in questo caso non c’è stato alcun riscontro. Ho incontrato il presidente Renzi a Palazzo Chigi lo scorso 15 dicembre, ma non si è fatto cenno a un mio personale ruolo nella vicenda libica. L’unico discorso personale ha riguardato l’ipotesi avanzata da Renzi di una mia candidatura a segretario generale dell’Onu. Io l’ho ringraziato per l’onore, ma gli ho spiegato che a 77 anni, quanti ne avrò alla scadenza di Ban Ki Moon, non è facile ricoprire quella carica. Inoltre, c’è un forte supporto politico di cui godono altri candidati». Si riferisce alla cancelliera Merkel? La voce corre molto in Germania. «L’ho raccolta anch’io negli stessi termini. Tornando alla sua domanda sulla mia mediazione, volevo concludere che mi sembra un’ipotesi superata dai fatti». Ma in Libia sarà comunque necessaria una presenza militare di garanzia? «Visto che lei usa il termine garanzia, cioè una presenza accettata da tutti, dico ovviamente di si. Come in Libano. Lo feci io, in due giorni. Ed è andata benissimo. Sono invece contrario all’azione militare, ma non perché sia pacifista. So benissimo che in certi momenti bisogna esser pronti anche a menare le mani. Ma in questo caso un’azione militare non avrebbe alcun senso. Rischieremmo un Iraq 2». Parliamo dell’Ucraina. E’ ottimista che i nuovi accordi di Minsk possano essere rispettati? «Mi sembra stia andando meglio del primo Minsk. Penso che siamo arrivati a un punto nel quale nessuno ha interesse a rompere il filo della diplomazia». Lei si è detto rattristato dall’assenza dell’Ue a Minsk. «Molto». Di chi è la responsabilità? «Dell’Europa, dei rapporti di forza esistenti nella Ue». Ma se l’Alto Rappresentante della politica estera si fosse chiamato Tony Blair, Joschka Fischer oppure Romano Prodi, sarebbe stato escluso dal vertice di Minsk? «E’ chiaro che qualcuno con forza politica e rapporto personale consolidato con chi sedeva a Minsk poteva avere più possibilità di sedere almeno su uno strapuntino. E’ ben noto che la politica si nutre di rapporti personali. Federica Mogherini ha tempo e possibilità di costruirli». Torniamo all’Ucraina, lei ha fatto alcune proposte interessanti sulla gestione comune del gas. «Ne ho parlato con Putin, Gentiloni, Mogherini e col ministro degli Esteri tedesco. Quando esistono tensioni così gravi, occorre individuare interessi comuni che le diminuiscano. Qual è l’interesse comune a Russia, Europa e Ucraina? La sicurezza delle forniture di gas. Ora che Mosca, per ovvie ragioni di convenienza, ha rinunciato al South Stream, ho proposto di fare una società con quote paritarie, tra Russia, Ue e Kiev. Servirà a gestire in comune trasporto e distribuzione del gas senza spendere nulla. Se Mosca e l’Europa sono d’accordo, l’Ucraina è obbligata a starci». Il gas come il carbone e l’acciaio della Ceca, che nel Dopoguerra chiuse la rivalità tra Francia e Germania? «Esattamente. I tubi sono lì. Ognuno consegue i propri obiettivi. Mi sembra che le prime reazioni siano positive». Lei ha definito le sanzioni un «suicidio collettivo» dell’Europa. Ma c’era una strada diversa dalle sanzioni dopo l’annessione della Crimea? «La Crimea è stata una decisione difficilmente digeribile, ma va inserita nella Storia. Dopo è stato tutto più difficile. La strada della pacificazione dipende dall’assoluta garanzia che la Russia rispetti integrità territoriale e sovranità dell’Ucraina. Io penso che la soluzione sia quella altoatesina, forte autonomia e decentramento per le regioni russofone». Trova opportuna la visita di Renzi a Mosca? «Certo. Quando qualcuno rimprovera all’Italia una posizione eccessivamente morbida sulle sanzioni alla Russia, occorre tener presente che ci vuole una regola generale sull’equa distribuzione dei sacrifici. Non è quanto sta succedendo. Le esportazioni americane verso la Russia sono aumentate. Certo, partono da parametri diversi, ma il danno subito dall’economia USA è pari a zero. Se un Paese agisce diversamente in base alla propria situazione oggettiva, non possiamo chiamarla viltà». Lei ha detto che dopo la fine della guerra fredda la Russia e l’Europa hanno sprecato la grande opportunità di costruire un ordine globale cooperativo. Di chi sono le responsabilità? «La questione è controversa. Era stato promesso, in modo ufficiale o ufficioso, che non si sarebbe portata la Nato ai confini della Russia. Diversa era stata la decisione riguardo ai Paesi Baltici. Ma nel 2008, ci fu la proposta di far entrare Georgia e Ucraina nell’Alleanza. Al vertice di Bucarest, insieme con Germania e Francia, io votai contro. Fu l’ultimo atto del mio governo. Era una questione di buon senso. Ma da quel momento, la Nato è ridiventata un’ossessione per i russi. Tutto era cominciato con la guerra in Iraq. Me lo disse Putin, proprio nell’immediata vigilia del conflitto: “Dobbiamo far di tutto per evitare la guerra in Iraq, perché dopo l’Iraq verrà la Georgia e l’Ucraina”. Ma perché lo dici a me, gli chiesi, io sono il presidente della Commissione europea, non ho competenze di politica estera. Proprio per questo, mi rispose, voglio un consiglio. Ma era troppo tardi. Forse sarebbe bastato che lui, Schroeder, Chirac e il presidente cinese facessero una foto insieme e dicessero che non bisognava invadere l’Iraq. Non ho mai capito perché i cinesi non si siano mossi allora. Forse non si fidavano del tutto degli europei. O forse erano ben contenti che alla fine gli Stati Uniti si infilassero nel pantano iracheno. Ma sono solo ipotesi. Ricordo però con chiarezza che Putin era sconvolto. Allora si aprì una ferita che non si è ancora richiusa. Ora però ci sono sufficienti interessi comuni per provare a farlo». Ma come trovare l’equilibrio tra la difesa degli interessi e la salvaguardia dei valori nei rapporti con Mosca? Possiamo sorvolare sull’autoritarismo e sulle violazioni del diritto internazionale da parte di Putin? «Ho sempre pensato che una politica di apertura aiuti la democrazia. Mercato aperto e scambi culturali sono il modo migliore per far avanzare valori democratici e diritti umani. E’ la paura che ci rende insegnanti e non dialoganti. Probabilmente la fragilità dei sistemi democratici giustifica le nostre paure. Ma credo che solo una democrazia dialogante possa contaminare positivamente i sistemi autoritari. Mentre una democrazia che si vuole maestra, con la bacchetta e magari con il fucile, rischia di essere controproducente. D’altra parte dialogare con San Francesco è facile. Il problema è parlare con il lupo». Lei crede che nonostante l’ondata di nazionalismo interno che domina la conversazione nazionale in Russia, siamo ancora in grado di recuperare un forte rapporto con Mosca? «I passi in avanti bisogna farli in due. Anche la Russia deve uscire dal buco, Per questo sono ottimista. Mosca è nell’angolo, l’Ucraina è nell’angolo, siamo tutti pieni di problemi. L’economia russa rischia di perdere 5 punti di Pil. Oggi il nazionalismo aiuta Putin, ma il digiuno colpisce nel lungo periodo». Ma questo ci costringerebbe a una forzatura nel rapporto con gli Stati Uniti? «Obama queste cose le capisce». Qual è il pericolo più forte che incombe oggi sull’Europa? «L’assenza di leadership che porta all’irrilevanza. Voglio dire, non è che i rapporti con Helmut Kohl fossero tutti rose e fiori. Non è che mi piacesse quando diceva continuamente che dovevamo fare i compiti a casa. Ma per fare quei compiti, mi lasciava almeno la penna e i fogli. Oggi non è così. Il problema europeo è che i rapporti di forza sono talmente cambiati, che si pensa sempre meno a mediazioni. Dieci anni fa, arrivai a Bruxelles convinto di trovare un mondo franco-tedesco. Certo erano potenti, ma mi accorsi subito che i funzionari più forti erano gli inglesi. Poi si è indebolita la Francia, anche per le liti interne. La Gran Bretagna ha avuto la stupida idea del referendum, condannandosi da sola all’irrilevanza. A quel punto tutti i Paesi si sono rifugiati sotto l’ombrello tedesco, quindi tutte le politiche economiche alternative hanno perso rilevanza. Arrivati qui o c’è una Germania in grado di capire che non c’è leadership senza responsabilità, oppure è difficile che l’Europa si possa alzare. Non è che gli americani nel dopoguerra abbiano fatto il piano Marshall perché fossero filantropi, ma perché avevano bisogno di alleati forti. Ci vuole un direttore d’orchestra che non abbiamo. Io ho paura che un domani i tedeschi pensino di potercela fare da soli, ma non è così. Certo oggi la loro economia va fortissima. Ma non ho cambiato idea: il mondo globalizzato ha bisogno di una forza più robusta». 8 marzo 2015 | 14:42 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_08/prodi-isis-tragico-fattore-unificante-politica-mondiale-e2e624a8-c595-11e4-a88d-7584e1199318.shtml Titolo: Aldo Cazzullo, - PRODI critica Renzi: meglio metodo Letta. Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:35:03 am IL FONDATORE DELL’ULIVO
Prodi critica Renzi: meglio metodo Letta. No al partito della nazione «I poteri forti sono indeboliti e il leader Pd può costituire quello dominante. Ma preferisco il cacciavite di Enrico al trapano di Matteo. Franchi tiratori? Furono 120» Di Aldo Cazzullo Romano Prodi si definisce «un inguaribile ottimista». Ma è un quadro preoccupante quello che esce dal libro-intervista con Marco Damilano, intitolato non a caso «Missione incompiuta» (Laterza). «Le politiche europee del governo tedesco meritano oggi ogni biasimo e, probabilmente, produrranno danni irreparabili» sostiene Prodi. «L’Italia non sarà la prima ad affondare, ma è solo questione di tempo: se non si cambia integralmente politica su scala europea saremo travolti tutti». Il libro contiene molti giudizi severi su molti temi, da Mani Pulite al «partito della nazione» renziano, passando per i 101 franchi tiratori del Pd «che furono in realtà 120». Ed è ricco di aneddoti e ritratti sulla vita pubblica degli ultimi decenni. Ruini «Lo conosco da sempre... fin da quando sarebbe stato certamente d’accordo sull’espressione “cattolico adulto”», con cui Prodi spiegò il suo dissenso dall’allora capo dei vescovi a proposito del referendum sulla fecondazione assistita. «Lo conosco almeno dal 1964. Avevamo animato insieme un circolo chiamato Leonardo, un’associazione molto avanzata, aperta alla città. Chiamammo a Reggio tutti i teologi del Concilio. Tra me e don Ruini c’era un rapporto personale molto forte. Ha parlato al matrimonio con Flavia, ha battezzato i nostri figli e tutti gli anni a Natale passava a salutare l’intera tribù». E la rottura? «Non c’è mai stata una lite. Nel 1995 andai a trovarlo in Laterano. Parlammo per oltre due ore. Alla fine ci lasciammo con le stesse differenze di opinione. Da allora non abbiamo più avuto ulteriori conversazioni». Maradona Prodi è in Cina da presidente dell’Iri. Sta firmando un contratto dell’Ansaldo per una centrale elettrica. Il presidente della società cinese lo avverte che deve portargli un messaggio di Deng Xiaoping. «Ero piuttosto timoroso. Ma qui c’è il colpo di scena. In Cina, mi viene detto, Maradona è una specie di idolo e Deng è pazzo di lui. Ci tiene tanto a vederlo giocare di persona. Avrebbero voluto due partite, a Shanghai e a Pechino, e perfino Deng sarebbe stato presente allo stadio. Tornato in Italia, parlo subito con l’allenatore del Napoli Ottavio Bianchi. Lui è entusiasta, ma dopo tre giorni mi richiama mortificato: Maradona chiede per sé 300 milioni di lire, che moltiplicato per il resto della squadra fa un miliardo. Bianchi era un uomo serio, mi spiegò come funzionava la testa di Maradona: in modo assai diverso dai suoi piedi. Io risposi che un’azienda pubblica come l’Iri non si poteva accollare una simile spesa. Da allora sono molto arrabbiato con Maradona». Craxi «Non risparmiava certo i suoi sarcastici giudizi nei miei confronti. Una volta, durante una cerimonia, mentre stavo parlando sbottò ad alta voce, per farsi sentire da tutti: “Questo qui non sa neppure leggere!”. Però alla fine c’era un rapporto di rispetto. Mi è stato raccontato che una volta due deputati socialisti in visita a Hammamet ridevano di me, chiamandomi Mortadella. Craxi era distratto, ma ascoltò, li guardò e disse: “Guardate che a voi due il Mortadella vi fa un ... così”». Cuccia L’uomo era di grandissima classe. Con lui ho a vuto molti scontri, ma l’ho sempre rispettato. Discutere con lui arricchiva. Era un destriero. Aveva una grande capacità di comprendere la politica. Con un disinteresse personale totale, ma con un obiettivo per cui ha combattuto tutta la vita: mantenere inalterati gli equilibri del capitalismo italiano. L’idea era che fuori dal ristretto gruppo delle famiglie tradizionali non esistesse nulla. Non era un cinico, ma di un pessimismo totale. Una volta mi disse: “So che lei da presidente dell’Iri va a visitare le imprese. Non lo faccia, perché poi ci si affeziona”». Bossi «All’inizio degli Anni Novanta, forse su suggerimento di Gianfranco Miglio con cui avevo mantenuto rapporti dai tempi della Cattolica, mi fece chiamare e mi offrì di entrare in politica con lui. Io dissi di no, ma fu un incontro molto divertente e istruttivo. Nei corridoi della modesta sede milanese i volontari della Lega mi chiedevano cosa dovevano fare con i loro risparmi, cosa sarebbe successo al prezzo delle case, ai titoli del debito pubblico... Quel giorno capii che la Lega attecchiva a radici popolari molto profonde. Non l’ho mai sottovalutata né demonizzata». Di Pietro «Fui ascoltato come testimone e tutto finì lì. Ma quello era il periodo in cui Di Pietro saliva velocemente gli scalini della politica. E diede all’incontro la massima risonanza possibile, al di là di ogni regola. Ogni tanto si alzava in piedi, si avvicinava alla porta e urlava: “E i soldi alla Democrazia cristiana?”. E tutti i giornalisti, di là dalla porta, lo potevano ascoltare». Mani Pulite «Questi metodi, pur inserendosi in una doverosa e lungamente attesa campagna di pulizia, segnarono anche l’inizio della stagione di un populismo senza freni». D’Alema «Da Gargonza», dove l’allora segretario del Pds criticò l’Ulivo, «venimmo via sfilacciati, con un segno di desolazione. Avevo ancora la speranza che fosse solo un momento tattico. In seguito si è dimostrata una strategia precisa. Era nata la paura che il governo potesse durare a lungo e permettere perciò la nascita del partito dell’Ulivo. D’Alema ha pensato che il gruppo che faceva riferimento a lui potesse perdere influenza sul governo e, forse, che si allontanasse la possibilità di avere alla presidenza del Consiglio una personalità proveniente dalla radice comunista. Se ci avesse lasciato governare per cinque anni penso che sarebbe stato proprio D’Alema il naturale e duraturo successore». Grillo Il primo contatto risale all’inizio degli Anni Novanta. Grillo venne a trovarmi e mi chiese di esaminare alcuni suoi copioni. Faceva bellissimi spettacoli sugli sprechi sui trasporti dell’acqua, sui consumi energetici, e voleva essere certo dell’esattezza dei dati. Poi non ci siamo incontrati più fino al 2006. Venne a Palazzo Chigi per consegnarmi il testo dei programmi usciti dai sondaggi, e mi fece una lunga intervista. Forse perché questa intervista non conteneva argomenti che potesse utilizzare politicamente, o semplicemente perché non l’aveva soddisfatto, dichiarò alla stampa che mi ero addormentato. Un comportamento davvero sconcertante». Renzi «Nel mese di agosto 2014 sono state inviate al presidente Renzi precise richieste per una mia possibile mediazione da parte di una pluralità di centri decisionali libici, ma non ho avuto alcun riscontro». Il 15 dicembre scorso Prodi va a Palazzo Chigi, ma Renzi non gli parla della Libia, né del Quirinale: «Ha gentilmente fatto cenno a una mia possibile candidatura per la prossima segreteria delle Nazioni Unite»; Prodi ringrazia ma non lo ritiene un obiettivo possibile. In altre pagine, l’autore sostiene che «i poteri forti si sono profondamente indeboliti», e oggi Renzi «ha certamente più probabilità di costituire il potere dominante del Paese». Ma Prodi sostiene di preferire «il cacciavite», metafora usata da Enrico Letta, al trapano di Renzi. «Questo è un Paese scalabile, ma la scala la devono fornire gli elettori». «I sindacati vanno ascoltati». «Il partito della nazione è una contraddizione in termini. Nelle democrazie mature non vi può essere un partito della nazione. È incompatibile con il bipolarismo». E ancora, partendo da Berlusconi: «Ci sono momenti in cui l’Italia ha bisogno di un’auto-illusione ed è disposta a non guardare dentro a se stessa pur di continuare a illudersi. Attraversiamo spesso questi momenti nella nostra storia nazionale...». Merkel «Sono preoccupato per il futuro dell’Europa, governata da una leadership che è sempre più forte ma ha perso il senso della solidarietà collettiva...Tutti i Paesi fanno a gara a ripararsi sotto l’ombrello tedesco, dove siede l’intelligente e severa maestra che, con la matita rossa e blu, ha sostanzialmente sostituito il ruolo delle società di rating, tra loro formalmente concorrenti ma, in pratica, ormai inascoltate sorelle gemelle». 16 aprile 2015 | 08:10 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_16/prodi-critica-renzi-meglio-metodo-letta-no-partito-nazione-467ab5b2-e3fd-11e4-868a-ccb3b14253dc.shtml Titolo: L’ex premier e il nuovo corso democratico: "Missione incompiuta" Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 04:15:06 pm Prodi, i 101 e il premier Matteo Renzi: “Io non sarei stato controllabile”
Politica Un'anticipazione dell'ultimo libro di Marco Damilano. L’ex premier e il nuovo corso democratico: "Missione incompiuta" Di F. Q. | 16 aprile 2015 Esce oggi l’ultimo libro di Marco Damilano “Romano Prodi Missione incompiuta. Intervista su politica e democrazia”. Eccone un’anticipazione. Dal 2011 stiamo vivendo una situazione di vuoto politico: il fallimento del governo Berlusconi, il governo Monti, la vittoria di Grillo, la rielezione di Napolitano, le larghe intese e ora il governo Renzi. Tre presidenti del Consiglio non eletti dal popolo sono certamente un intervallo troppo lungo del processo democratico. Ammetto che, a scuola, le cose più divertenti si facevano durante l’intervallo. Ma un sistema democratico è quello in cui la sera delle elezioni si sa chi ha vinto. Non è un problema da poco che questo in Italia non avvenga. Che non si avverta questo fatto come una grave anomalia di un sistema democratico, significa che il livello di instabilità dei governi è arrivato al di là del tollerabile. Nell’ultimo raduno della stazione Leopolda Renzi ha detto di aver capito nel 2011 che l’Italia era un paese scalabile. Come una società per azioni su cui lanciare un’Opa. Questo è un paese scalabile. Ma la scala la devono fornire gli elettori. (…) Lei si sente coinvolto nella rottamazione generazionale di Renzi? La rottamazione è un concetto che mi ha sempre affascinato fin da bambino perché molte delle nuove imprese del primo dopoguerra sono nate utilizzando la rottamazione dei residui militari americani. Per me, quindi, rottamare significa anche utilizzare vecchi e nuovi materiali per ricostruire. Si rottama se sai cosa costruire dopo. Ma qui forse denuncio la mia appartenenza a un’altra stagione. (…) Si può dire che il Pd è figlio dell’Ulivo? Senza l’Ulivo non ci sarebbe stato il Pd. In questo senso si può dire che il Pd ne è figlio. Un figlio che ne ha ereditato l’obiettivo di mettere insieme tutti i riformismi. Questa è l’eredità dell’Ulivo, ma il Pd la valorizza a giorni alterni. Nei giorni feriali sì, in quelli di festa no, o viceversa? Può essere un’interpretazione dell’Ulivo affermare che i sindacati non vanno ascoltati e che tutti i corpi intermedi, nessuno escluso, vadano distrutti o indeboliti? Spesso vanno doverosamente contrastati, ma ascoltati sempre. (…) Non si sente un estraneo nel Pd? Nessuna estraneità. È la fine di una missione. Missione incompiuta, potrei aggiungere in questo caso. (…) Il momento più difficile è stata l’elezione del presidente della Repubblica nel 2013. La settimana decisiva si aprì con un comizio di Berlusconi a Bari. Dichiarò che avrebbe cambiato Paese se Prodi fosse stato eletto al Quirinale. Per due giorni nessuno del Pd mi ha difeso ed è stato, per me, il momento di massima amarezza. Solo una dichiarazione personale da parte di Rosy Bindi. Più del voto dei 101 franchi tiratori che le hanno fatto perdere il Quirinale? Molto di più, perché l’esito del voto segreto lo avevo rigorosamente previsto, anche se con qualche voto negativo in meno. Inoltre il voto segreto è spesso uno scoppio di goliardia. Intervengono fattori personali, odi, rancori, delusioni, ambizioni insoddisfatte, paure per il futuro, come in un consiglio di facoltà. Non è una scelta razionale. Ma quando invece ho visto un capo-partito che faceva un comizio per dire “tutti meno che Prodi”, mi aspettavo che si alzasse un dirigente del mio partito per dire: “Decidiamo noi chi sono i nostri candidati”. Per il resto nessuno può notare alcun cambiamento nei miei comportamenti dopo il voto dei 101 che, in realtà, sono stati quasi 120. Perché ne è così sicuro. Li ha contati? Contati no, ma so di aver ricevuto un concreto numero di voti sparsi qua e là al di fuori del Pd, tra centristi, grillini e truppe sparse. (…) Cosa c’era in quel voto, in quel no a Prodi? Il non volere un presidente della Repubblica difficilmente controllabile. I 101 sarebbero perciò aumentati e non diminuiti nel caso in cui non mi fossi ritirato. E hanno mandato un messaggio per cui la mia elezione sarebbe impensabile anche in futuro. L’attuale situazione non permette al Pd di votarmi. Decida lei se questo è per le mie virtù o per le mie mancanze. Di Marco Damilano Da Il Fatto Quotidiano di giovedì 16 aprile Di F. Q. | 16 aprile 2015 Titolo: PRODI Prodi: «Dal caos greco al voto anti-Ue, Europa a rischio disgregazione» Inserito da: Admin - Giugno 08, 2015, 05:31:51 pm Prodi: «Dal caos greco al voto anti-Ue, Europa a rischio disgregazione»
«Renzi? Non c’è una politica alternativa a quella tedesca. Un errore isolare Putin» Di Aldo Cazzullo «È un lunedì nero per l’Europa». Romano Prodi, si riferisce al precipitare della crisi greca? «Mi riferisco alla Grecia, e non solo. In Spagna crollano i partiti. Francia e Inghilterra si sono chiamate fuori dall’accordo sugli immigrati. Ma la notizia peggiore è il voto polacco» . Ha vinto il candidato antieuropeo: Andrzej Duda. «Un voto straordinario: in negativo, s’intende. Nei sondaggi Duda era testa a testa con il candidato di Tusk, Bronislaw Komorowsky. Invece ha vinto a valanga, grazie ai voti della Polonia rurale. E questo è un segno inquietante. La Polonia è il Paese che ha performato meglio in questi anni, che ha ricevuto più aiuti dall’Europa. È la sesta economia dell’Unione. Ne esprime il presidente, Donald Tusk. Ma l’uomo di Tusk ha perso. E ha vinto l’uomo di Kaczynski. Con una linea portatrice di tensioni, perché fortemente antieuropea. Antitedesca. E antirussa». Lei è accusato di essere un po’ troppo morbido con i russi. In particolare con Putin. «Duro o morbido non sono concetti politici. Puoi essere duro se ti conviene, o morbido se ti conviene; non puoi fare il duro se te ne vengono solo danni. Isolare la Russia è un danno. Il problema è avere chiara l’idea di dove devi arrivare. Se vuoi che l’Ucraina non sia membro della Nato e dell’Ue, ma sia un Paese amico dell’Europa e un ponte con la Russia, devi avere una politica coerente con questo obiettivo. Se l’obiettivo è portare l’Ucraina nella Nato, allora crei tensioni irreversibili». In Spagna invece vincono movimenti civici. Non è detto sia un segno negativo. «È vero. Lì è in corso una rivoluzione politica, contro i vecchi partiti più che contro l’Europa. Il governo popolare è obbediente alla linea tedesca; e il popolo gli si rivolta contro, a cominciare dalla grandi metropoli, che danno il tono al Paese. Ma sono davvero troppi in Europa i segnali di disgregazione; non da ultimo il referendum britannico, lo spettro dell’uscita di Londra. E se si leva un vento di disgregazione, non lo ferma nessuno». Il vento soffia da Atene. «Tanto tuonò che piovve. È ormai chiaro che la Grecia tanti soldi da pagare non li ha. Lo sapevano tutti. Il 25% dei greci è disoccupato, il reddito è crollato molto più di quanto si attendessero i fautori dell’austerity. La Grecia non ha lo sfogo dell’export che ha l’Italia, la Grecia esporta meno della provincia di Reggio Emilia; vive di noli marittimi, un po’ di cemento, un po’ di turismo; se crolla il reddito interno, crolla tutto. È stato un braccio di ferro in cui ognuno ha pensato che l’altro cedesse; invece per salvarsi ognuno dovrebbe cedere qualcosa. Se la Germania fosse intervenuta all’inizio della crisi, ce la saremmo cavata con 30-40 miliardi; oggi i costi sono dieci volte di più». Tsipras e Varoufakis non hanno colpe? «I greci hanno mostrato una sbruffoneria che ha mal disposto i negoziatori. Ho notato un’irritazione progressiva nei loro confronti, man mano che usavano parole violente. Tirare fuori il nazismo non ha aiutato. Schaeuble non lo puoi prendere in giro. Purtroppo lui può prendere in giro te, perché è forte. Ma sentire i soliti pregiudizi sulla pigrizia mediterranea è un altro segno di disgregazione». Alla fine la Grecia uscirà dall’euro? «Siamo alla canna del gas. Ma c’è ancora lo spazio per un accordo. A due condizioni: che sia chiaro; e che sia subito. Non è più possibile un altro rinvio. Si può ancora arrivare a un mezzo default, con la Grecia che ottiene l’allungamento dei termini e la ristrutturazione del debito, che non potrà essere rimborsato per intero, ma in cambio accede ad alcune richieste: neppure le promesse elettorali di Tsipras potranno essere mantenute per intero» . Se salta la Grecia, si sente dire, la prossima è l’Italia. C’è un rischio contagio, come paventa ad esempio Luigi Zingales? «Non ci sono le condizioni oggettive per il contagio. Il bilancio italiano è sotto controllo, i tassi sono bassi, si intravede la ripresa, sia pure debole. Zingales ipotizza un panico, con i capitali che fuggono. E la miccia del panico è l’incertezza. La speculazione si nutre di incertezza. Nessuno specula su un Paese se sa già che non viene abbandonato dagli altri». Rispetto al 2011, abbiamo Draghi e il quantitative easing. «E’ vero: sul versante finanziario abbiamo eretto una difesa. Ma sul versante delle decisioni politiche siamo sguarniti come e peggio di prima». Nel libro scritto per Laterza con Marco Damilano, “Missione incompiuta”, lei sostiene che proseguendo su questa strada l’Europa andrà a pezzi. Nel frattempo abbiamo fatto altri passi sulla strada sbagliata? «Sì. L’Europa non ha più politica, né idee; ha solo regole, aritmetica. Quando definivo “stupido” il patto di stabilità, sapevo che si sarebbe arrivati a questo punto. Non si governa con l’aritmetica. Junker ha annunciato il suo piano di investimenti nove mesi fa. Il tempo in cui nasce un bambino. Ma non si è ancora visto nulla» . La Mogherini come si muove? «Conosce i dossier e si muove bene, ma può fare poco: perché il centro del potere si è spostato dalla Commissione agli Stati, in particolare alla Germania». Allora l’Europa è davvero alla canna del gas? «Ho fiducia in un fatto: ogni volta che l’Europa è arrivata sull’orlo del baratro, ha avuto un colpo di reni, uno scatto di nervi. Quando si capisce che è in gioco tutto, scatta un allarme collettivo». La Merkel ha la statura per imporre la svolta? «Questo lo vedremo. Di sicuro ne ha la forza. La Germania non può prendersi la responsabilità storica che l’Europa si slabbri». Renzi come si sta muovendo? «Di richiami alla solidarietà europea ne ha fatti, ma non si vede una politica alternativa a quella di Berlino. Eravamo un’Unione di minoranze; ora siamo un’Europa a una dimensione, quella tedesca. Ho sperato a lungo che Francia, Spagna e Italia trovassero una linea comune. Non ci sono riusciti, perché ogni Paese credeva di essere più bravo dell’altro; in particolare la Spagna e la Francia pensavano di essere più brave dell’Italia. Il voltafaccia di Parigi sugli immigrati è clamoroso: l’Europa ha annunciato un accordo, e l’ha disatteso sei giorni dopo. Almeno Cameron ci ha presi in giro fin da subito: ha offerto le sue navi per il salvataggio dei profughi, a patto che restassero tutti in Italia». Dobbiamo prepararci a un intervento contro l’Isis? «No, no, no. E’ proprio quello che l’Isis vuole: attirare soldati occidentali nella guerra civile islamica, per farne un bersaglio e rinfocolare la popolazione. Se poi sono soldati italiani, di un’ex potenza coloniale, meglio ancora per l’Isis, e peggio ancora per noi». Allora dobbiamo abbandonare la Libia ai tagliagole? «Il fatto che in Libia ci siano più governi dipende soprattutto dai governi stranieri che li appoggiano. Il governo di Tripoli si regge su Turchia e Qatar, quello di Tobruk su Arabia Saudita ed Egitto; che a loro volta dipendono dagli Stati Uniti, dalla Russia e indirettamente dalla Cina. Se le grandi potenze trovano un accordo, l’Isis finisce in un giorno. Se le grande potenze usano il Medio Oriente per il loro grande gioco, l’Isis prospererà» . 26 maggio 2015 | 08:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_26/prodi-europa-rischi-c572bc04-036d-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml Titolo: PRODI: ''IL DEBITO GRECO NON E' PAGABILE ... Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 11:12:38 am PRODI: ''IL DEBITO GRECO NON E' PAGABILE, MA QUANDO IO VOLEVO CONTROLLI, FRANCIA E GERMANIA MI IMPOSERO DI TACERE''
L'ex presidente della Commissione europea Romano Prodi non esclude l'uscita della Grecia dall'eurozona. In un'intervista al quotidiano tedesco "Tagesspiegel", l'ex Premier parla dei debiti di Atene e muove dure critiche alla Germania, poichè non prenderebbe sufficientemente sul serio la sua responsabilità all'interno dell'Unione Europea. Alla domanda se la Grecia dovrebbe ricevere altro denaro dai creditori internazionali senza un programma e senza vincoli, Prodi risponde: "No, ci dev'essere un controllo, ma le condizioni devono essere poste in un quadro realistico. Tutti sanno che la Grecia non ripagherà mai i suoi debiti". Ad Atene dovrebbe dunque essere concesso il taglio del debito? "So che politicamente non e' possibile - replica Prodi - ma la storia ci insegna che non ha senso porsi obiettivi irraggiungibili nell'abbattimento del debito". "E' più sensato concordare un obiettivo raggiungibile e controllare passo passo le varie tappe. Questo e' stato ad esempio il caso della Germania nel secondo dopoguerra. E' vero che non si può fare un paragone così diretto tra Germania e Grecia", ammette l'ex premier italiano, "ma in ogni caso, allora è stato saggio esentare la Germania dalla gran parte dei suoi debiti alla Conferenza di Londra del 1953: in questo modo la Germania è potuta tornare a crescere". Quindi anche per la Grecia dovrebbe tenersi un vertice internazionale per la liquidazione dei debiti come quello di Londra? "Quella volta la conferenza sui debiti tedeschi si è tenuto nell'interesse generale. Ora, nel caso della Grecia, dobbiamo stabilire dove si trova il nostro interesse collettivo: suppongo che la Grecia e i creditori riusciranno a trovare un compromesso che preveda ad esempio una proroga delle scadenze per i crediti o interessi ancora più bassi per i pagamenti. Ma questo non sarà altro che un piccolo cerotto su una grande ferita. Il mio più grande timore è che fra tre anni la Grecia si ritrovi nella stessa situazione di adesso: sarebbe meglio prendere una decisione definitiva", afferma l'ex presidente del Consiglio italiano. Prodi rifiuta anche di definire l'ingresso della Grecia nell'eurozona un errore: "Non parlerei di un errore: solamente e' stato fatale non avere alcun controllo sul budget, c'era prima ma non c’è stato dopo l'entrata nell'euro. Italia, Germania e Francia hanno voluto così quella volta. A quel tempo - quando ero presidente della Commissione nel 2003 - ho fatto di tutto per imporre severi controlli dei bilanci negli Stati membri subito dopo l'introduzione dell'euro. E non dimenticherò mai il momento in cui Schroeder e Chirac - e' stato durante la presidenza italiana del Consiglio Ue - hanno detto che dovevo tacere", conclude l'ex premier. Ci sarebbe stata una domanda, che l'intervistatore del quotidiano tedesco non ha posto a Prodi: se è vero quel che dice, signor Prodi, per quale motivo lei di fronte all'imposizione "di tacere" rivolta a Prodi Presidente della Commissione Ue, massimo organo decisionale dell'Unione Europea, dai capi dei governi di Francia e Germania, non si è ribellato in nome dell'Europa, della libertà, dell'onestà, della parità di trattamenti tra gli stati? Le hanno imposto di tacere? E perchè lei ha taciuto? L'ennesima dimostrazione di democrazia dell'UE... e l'ennesima dimostrazione di incapacità dei politici (servi) italiani... Da - http://www.nuovoilluminismo.com/2015/02/prodi-il-debito-greco-non-e-pagabile-ma.html Titolo: Prodi: “Tagliare il debito greco, come per la Germania nel ’53” Inserito da: Arlecchino - Luglio 20, 2015, 11:40:59 pm Unità.tv
@unitaonline · 16 luglio 2015 Prodi: “Tagliare il debito greco, come per la Germania nel ’53” L’Ex premier Romano Prodi all’East Forum 2015: “Abbiamo evitato il peggio, ma Europa rischia di finire male” Romano Prodi torna a parlare di Europa, intervenendo all’East Forum 2015. L’ex premier si sofferma sulla Grecia e in particolare sul suo debito pubblico affermando che l’Europa, e in particolar modo la Germania, dovrebbe mostrare “magnanimità e tagliare il debito del paese ellenico, come fu fatto nel 1953 per la Germania”. “Ho sempre pensato che la Grecia non sarebbe mai stata in grado di ripagare il debito” aggiunge l’ex presidente della Commissione Ue. “Nel 1953 fu un atto di saggezza tagliare il debito della Germania, che non era in grado di pagarlo, e tagliandolo abbiamo dato respiro alla Germania. Oggi ci vuole la stessa magnanimità”. “Per ora abbiamo evitato il peggio, ma non il male – continua Prodi – il peggio era che si rompesse tutto, il male è che si sono create tensioni e incomprensioni in Europa. O l’Europa è un luogo di coesione di interessi, oppure quello che abbiamo fatto in passato finisce male” L’ex premier boccia anche l’idea di coinvolgere il Fondo monetario: “Doveva essere lasciato fuori fin dall’inizio, perché se parliamo di grande Europa, di iniziative di grande portata, non possiamo aver bisogno del Fondo monetario su un problema del 2 per cento del Pil europeo. Questo vuol dire non aver fiducia nella forza dell’Europa”. Nel suo intervento, Romano Prodi si concentra anche sul ruolo dell’Europa, “nata come unione di minoranze dove ogni cittadino si sentiva a casa sua e diventata, oggi, un’Europa diversa, a leadership tedesca. La Germania si deve rendere conto della situazione”. Da - http://www.unita.tv/focus/prodi-tagliare-il-debito-greco-come-per-la-germania-nel-53/ Titolo: PRODI "Serve un accordo tra le potenze mondiali come Bretton Woods altrimenti... Inserito da: Admin - Agosto 26, 2015, 05:39:11 pm Crisi cinese, Romano Prodi: "Serve un accordo tra le potenze mondiali come Bretton Woods altrimenti il mondo rischia"
Il Messaggero, Il Sole 24 Ore Pubblicato: 26/08/2015 08:39 CEST Aggiornato: 17 minuti fa Per uscire dalla tempesta finanziaria che si è abbattuta su Pechino e, con un effetto domino, su tutti i mercati borsistici, bisogna sedersi intorno a un tavolo, un accordo tra le potenze mondiali. Altrimenti il mondo rischia. È questo in sintesi il pensiero di Romano Prodi che in un'intervista al Messaggero e con un intervento su Il Sole 24 Ore esprime il suo punto di vista sulla crisi finanziaria cinese, dopo che il Black Monday ha resuscitato i fantasmi della Lehman Brothers. Il problema della Cina sta nelle difficoltà di attuare "il passaggio da un'economia basata su export e investimenti ad una alimentata dai consumi interni", dice al Messaggero: "si sta rivelando più complicato del previsto". " Anche perché il contesto non aiuta. Sono in affanno i Paesi in cui la Cina esportava ed, all'interno, sono aumentati i costi: un saldatore che qualche anno fa a Shangai costava 150 dollari al mesi oggi ne costa 800. Poi c'è lo yuan che nel corso dell'anno si era rivalutato di oltre il 15% rispetto alla media delle valute dei paesi con cui la Cina commercia". Secondo l'ex presidente del Consiglio la crisi dell'export "è arrivata troppo presto, in un momento in cui non è ancora possibile rimpiazzare questa componente con la domanda interna, sia per la fase di bolla immobiliare sia per la mancata costruzione di sistemi sanitari e pensionistici, senza i quali è difficile convincere la gente a spendere". Pechino ha annunciato "una sorta di quantitative easing, che sembra aver tranquillizzato i mercati internazionali. Restano da fare tutte le grandi cose per le quali servirà però più tempo: risanare i bilanci delle imprese pubbliche e delle provincie, riformare il sistema bancario, regolare la bolla immobiliare". Prodi propone quindi una strada per tentare di uscire dalla crisi. "Io dico di fare attenzione perché se non c'è una risposta economica coordinata si rischia una deflazione globale. La crisi del 2008 è stata provocata dagli Stati Uniti, la prossima potrebbe venire dalla Cina. Il che paradossalmente vuol dire che Pechino è protagonista nel mondo. Noi europei non siamo nemmeno capaci di provocare le crisi. Ci limitiamo a subirle e a prolungarle facendoci del male da soli. Lo dico sul filo dell'ironia ma c'è del vero". Servirebbe "una conferenza mondiale, una nuova Bretton Woods o come ci pare. Sicuramente è desiderabile, ma non credo sia realistica, probabile. Non mi pare che l'Europa sia in grado di organizzarla, non so se gli Stati Uniti la vogliano davvero. Certo non aiutano le tensioni con la Russia e quelle che vi sono anche tra Usa e la stessa Cina. Però non si può lasciare fuori dal tavolo un giocatore così importante". La crisi cinese secondo Prodi danneggia tutti, principalmente l'export della Germania, meno l'Italia: "Ma se si esportano meno auto tedesche sono penalizzate anche le imprese del nostro Paese che fanno i componenti. Tutto è legato. E poi c'è la volatilità dei mercati finanziari che qualche problema in termini di spread lo può dare, anche se per ora fortunatamente non è successo Nel suo intervento sul Sole 24 Ore Prodi scrive che "il vero pericolo è che la crisi cinese, che è insieme crisi della sua economia reale e della sua finanza, non infetti tutta l'economia mondiale che è già debole di per sé stessa. Gli Stati Uniti crescono meno del dovuto, i Brics, ad eccezione dell'India, sono in fase calante l'Europa non riesce proprio ad uscire bene dalla crisi". Non illudiamoci: nessun problema sarà risolto (con gli idonei strumenti da inventare) la Cina non sarà stabilmente inserita nel sistema economico e finanziario mondiale. Date le tensioni politiche che montano ogni giorno vedo molto difficile questo percorso - ribadisce - perché questi grandi accordi internazionali si riescono ad attuare o quando domina un solo Paese o quando si riesce a creare una minima armonia tra i paesi dominanti. Oggi non vedo nessuna di queste due condizioni ma mi accontento di sperare che in futuro si possano realizzare. Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/08/26/romano-prodi-crisi-cina_n_8041188.html?utm_hp_ref=italy Titolo: PRODI Romano Prodi a In mezz'ora: "Il potere tedesco è arrogante. Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 11:39:24 am Romano Prodi a In mezz'ora: "Il potere tedesco è arrogante.
Da Corbyn segnale di cambiamento. L'Italia? Non ha un ruolo" Redazione, L'Huffington Post Pubblicato: 27/09/2015 14:34 CEST Aggiornato: 27/09/2015 15:35 CEST "Il potere tedesco è arrogante". L'ex presidente del Consiglio Romano Prodi è intervenuto a In mezz'ora, su Rai Tre. Il Professore ha parlato di questioni internazionali. Dal dialogo ripreso tra Stati Uniti e Russia alla guerra in Siria fino alla lotta al terrorismo. E ovviamente del caso di questi giorni sulle emissioni Volkswagen: "Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio". "In Germania - dice Prodi a proposito del 'sistema tedesco' e dello scandalo che ha riguardato la Volkswagen - non c'è contraddittorio" tra i vari attori sociali, "c'è un sistema molto compatto". Oggi il caso Dieselgate emerge "una crisi di un sistema, molto più complicata" di una crisi politica che interessa solo la Merkel. "Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un'autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea". "E' ricominciato, ed era ora, il dialogo tra Stati Uniti e Russia, contro l'Isis. E Fa francia non vuole stare fuori da questo gioco. Un pò come Cavour con la guerra di Crimea, ha detto Romano Prodi a proposito dei primi raid di Parigi in Siria. "Se il colloquio iniziale tra americani e russi va avanti il terrorismo è davvero finalmente in difficoltà". "Non capisco a tutt'oggi perchè l'Italia si sia fatta trascinare dalla Francia a fare una guerra contro se stessa", aggiunge Prodi sulla guerra in Libia. "Oggi dobbiamo fare in modo che tutte le fazioni si siedano attorno a un tavolo", aggiunge Prodi riferendosi alla situazione attuale. Tuttavia, dice l'ex presidente del Consiglio, oggi l'Italia non ha un ruolo in Ue. "La Siria è sempre stata una 'figlia' della Francia, Chirac era il papà, il confessore dei siriani. Un rapporto profondissimo. Il punto è che è ricominciato, ed era ora, il dialogo Usa-Russia contro l'Isis e la Francia non vuole stare dietro di questo gioco", ha sottolineato l'ex premier. "L'unico esercito che può contrastare l'Isis è l'esercito di Assad, amico di Putin ma non di Obama. Se il colloquio Usa-Russia va avanti il terrorismo va davvero in difficoltà -ha spiegato ancora Prodi-. Rinforzano Assad, non hanno alternativa, sono gli unici scarponi che sono sul terreno. Il nemico comune è l'Isis". A proposito del nuovo leader dei laburisti inglesi Jeremy Corbyn, Romano Prodi dichiara che dalla sua scalata al partito arriva un "segnale di novità, di cambiamento. Non so se sarà anche un segnale di rinascita, ma certamente un cambiamento lo porterà". Sulle questioni interne, Prodi afferma che la fiducia in Italia "è migliorata, c'è stata una certa ripresa" e "abbiamo tanti fattori favorevoli come il petrolio basso e dollaro alto. Ma il lavoro è la mia grande preoccupazione". "Tutte le nuove tecnologie spingono per una ripresa senza lavoro, con un lavoro scarso o con occupazioni di altissimo livello, c'è una espulsione della classe media", ha aggiunto l'ex premier: "Senza crescita il lavoro non aumenta. Dobbiamo spingere la crescita, c'è una situazione migliore della precedente, vedo che continua un andamento leggermente positivo, se questo prosegue per qualche altro mese il discorso occupazione può muoversi". DA - http://www.huffingtonpost.it/2015/09/27/prodi-in-mezzora_n_8202780.html?utm_hp_ref=italy Titolo: PRODI "Barack Obama rafforzi l'esercito di Assad contro l'Is. Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 11:59:23 am Romano Prodi: "Barack Obama rafforzi l'esercito di Assad contro l'Is.
Singolare la collera di Renzi contro la Commissione Ue" Repubblica Pubblicato: 02/10/2015 08:56 CEST Aggiornato: 2 ore fa Romano Prodi auspica un sostegno degli Stati Uniti direttamente al governo di Assad, rafforzando le sue truppe, per sconfiggere l'Is. Lo ha spiegato in una intervista a Eugenio Scalfari su Repubblica. "La mia sensazione è che Obama e Putin Vadano verso un accordo sulla Siria. All`assemblea dell`Onu hanno sostenuto tesi totalmente contrastanti tra loro, ma poi hanno avuto un colloquio a quattrocchi di un`ora e mezzo e qualche effetto si è già visto". "Putin - ha spiegato - è d`accordo di attaccare l`Is ma si tratta d`una guerra per procura, nessuna delle due potenze invierà truppe sul terreno. Aerei sì, truppe no. Quindi quel malandato esercito di Assad va rafforzato e ben armato perché quello soltanto dispone di truppe sul terreno. Putin appoggia Assad, Obama no, ma dovrà rassegnarsi perché con i soli bombardamenti aerei l`Is non sarà battuto. La cosa singolare è che la Russia versa in acque economiche molto tempestose ma nonostante ciò Putin dimostra una forza politica ancora determinante sullo scacchiere occidentale". Prodi ha parlato anche di Europa, sottolineando il ruolo di Mario Draghi. Secondo l'ex premier, l'unico che in questo momento sta spingendo per una ulteriore integrazione europea. "Draghi è uno dei pochissimi che vuole gli Stati Uniti d`Europa e che utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada"., ha detto. "La ripresa - ha aggiunto- comincia a manifestarsi anche da noi. È ancora poco percepibile ma segnali di miglioramento ci sono e Renzi è molto bravo nel trasformarli in consenso. Naturalmente è una ripresa economica che non dipende soltanto dalla politica del nostro governo, molto dipende ancora una volta da draghi. Renzi lo sa e sia pure a mezza bocca lo dice" Sul presidente del Consiglio, Prodi non risparmia anche qualche attacco. "La posizione di Renzi che non mi è chiara è il suo atteggiamento verso l`ipotesi di un’Europa federale. Quando parla delle emigrazioni sembra auspicarlo" ma "mi è sembrata molto singolare la collera di Renzi verso la Commissione europea quando, di fronte ad alcune osservazioni critiche sulla sua politica fiscale, ha respinto con irruenza che l’Europa non può comandare a casa nostra e non può incidere sulle nostre decisioni economiche. È strano che dica questo perché il 'Fiscal compact' è addirittura diventato una legge italiana dopo la ratifica del nostro Parlamento". Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/10/02/prodi-assad-obama_n_8231156.html Titolo: Maurizio Caprara L’INTERVISTA ROMANO PRODI Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2015, 03:07:54 pm L’INTERVISTA ROMANO PRODI
Siria, Prodi: «Vicini alla Francia senza ripetere l’errore della Libia» L’ex premier commenta la possibilità che l'Italia si impegni maggiormente sul fronte siriano: «Lasciamo a Parigi il compito che si è assunta» Di Maurizio Caprara «Da un anno sostengo che senza un grande accordo tra Stati Uniti e Russia non si può uscire dal buco. Sia dal buco siriano sia da quello libico. L’intesa tra Francois Hollande e Vladimir Putin può favorire questo, però va studiata, approfondita in tutti i particolari. È stato un cambiamento improvviso. Certo, se prepara un forte impegno russo e americano contro l’autoproclamato Califfato è l’ideale. È benedetto», dice Romano Prodi. Ma si capisce presto che su questo ha più di un dubbio. Il cattolico di centrosinistra ex presidente della Commissione europea ed ex presidente del Consiglio italiano ha girato in ruoli non defilati tra Washington, Mosca, Europa e Medio Oriente almeno da quando era ministro dell’Industria nel 1978 e ‘79. Per l’Onu si è occupato delle missioni di pace in Africa. Dopo il viaggio di giovedì del presidente francese Hollande al Cremlino da Putin, Prodi guarda ai movimenti in corso in campo internazionale come se molto si sia messo in movimento potendo dare alla fase successiva alle stragi del 13 novembre a Parigi sbocchi molteplici e diversi tra loro. Tali da suggerire all’Italia di non compiere mosse affrettate, soprattutto militari, pur di essere protagonista. E di tenersi in raccordo con un altro Paese assai prudente sul bombardare direttamente in Siria: la Germania. Il «cambiamento improvviso» in corso, professore, sarebbe la svolta della Francia da nemica a quasi alleata del presidente siriano Bashar el Assad, insidiato dai guerriglieri integralisti islamici? «È un mutamento a 180° gradi che rafforza la posizione russa, presente militarmente in Siria, e cambia lo scenario del Medio Oriente. Prima a raccomandare cautela sul cacciare subito Assad eravamo noi». Comprensibile che l’Italia non si affretti a bombardare l’autoproclamato Califfato se non vede progetti chiari su come poi stabilizzare Iraq e Siria. Ma basterà fornire appoggi ai francesi su altri versanti, compensare i loro trasferimenti di soldati dalla missione internazionale in Libano e fare da tramite con interlocutori difficili per l’Occidente? Uno era la Russia, adesso ci parla Hollande. «Noi siamo già impegnati con truppe in mantenimenti di pace. Trovo saggio il comportamento tedesco, simile al nostro. Noi abbiamo Tornado nello scacchiere del Califfato e siamo impegnati in altri nei quali i tedeschi non lo sono. Possiamo aiutare i francesi in Libano. Però siamo già lì, in Afghanistan, Iraq, Kosovo. E rispetto a Berlino abbiamo una priorità, scontri in Libia ai quali prestare attenzione». Quindi? «Dobbiamo essere vicini alla Francia, ma lasciando alla Francia il compito principale che si è assunta». Ossia bombardare in Siria e tirare le fila di una coalizione per questo. L’incandescenza della Libia e l’attesa di un accordo tra le fazioni in lotta suggerisce all’Italia di tener pronti altri militari oltre ai seimila già all’estero? «Per lo meno di tenere massima attenzione verso il fronte più vicino a noi e di favorire un accordo tra tutte le fazioni. Conosciamo quel Paese e la sua complessità meglio di altri». Non è difficile capire che pensa alla Francia, la prima ad attaccare Tripoli nel 2011. «La solidarietà alla Francia per le stragi subite va data, però non possiamo negare che c’è stato un suo cambiamento di fronte immediato: Assad, da nemico assoluto, è diventato alleato. Il nostro nemico, l’Isis o Daesh, è comune. Tuttavia su un’entrata in guerra non è che si possa aderire a cambiamenti neppure comunicati prima che avvengano con fatti compiuti. La strategia va meditata». Pesa tanto la scottatura libica, l’aver scardinato gli assetti dell’era Gheddafi senza prepararne di migliori? «La scottatura libica pesa tantissimo. Peserebbe forse anche di più se l’Italia non avesse aderito, benché dopo, alla linea francese. Chiaro che l’attuale governo, diverso da quello di allora, non si identifichi con la guerra del 2011». Sull’intesa Putin-Hollande come si comporteranno Stati Uniti e Turchia, diffidenti in modi diversi verso Mosca? «C’è chi dice che gli americani temano un’Europa che si mette d’accordo con Turchia e Russia. Perciò adesso c’è movimento. Gli americani saranno favorevoli a costruire la grande alleanza anti Isis tenendo conto anche dell’Ucraina?». Intende dire se appoggeranno intese con Mosca fino a chiudere un occhio sull’offensiva russa cominciata in Crimea? «Diciamo fino a essere più flessibili sulle sanzioni a Mosca. È da vedere. La Francia può ricevere gratitudine statunitense perché oggi obbedisce alla dottrina di Barack Obama, secondo la quale i Paesi interessati devono farsi carico dei problemi delle rispettive zone e gli Stati Uniti se ne devono alleggerire. Però l’alleanza di Europa e Russia non è nello schema strategico americano». C’è da sperare che non siano fatti traumatici a decidere l’orientamento degli eventi. «Appunto, occorre dialogare con la Turchia per abbassare le tensioni. Anche per evitare l’episodio drammatico». C’è stato già l’abbattimento turco dell’aereo russo. Ma per l’Unione Europea ha senso tenere aperta la porta alla Turchia mentre Recep Tayyip Erdogan resta così allergico ad appartenenze a famiglie diverse dalla sua? «Il negoziato con la Turchia è destinato a durare a lungo. Va tenuto aperto. Ma da presidente della Commissione favorevole ad aprirlo dissi ai turchi: “Ci vorranno 30 anni”. Mi chiesero: perché? Io: “Perché quando c’era qualcosa di spaventoso mia nonna diceva: ‘Mamma li turchi’“. Sentimenti cancellabili con la fiducia dovuta solo a lunga vicinanza». 28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 12:21) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_novembre_28/siria-prodi-vicini-francia-senza-ripetere-l-errore-libia-63e529a8-95bd-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml Titolo: PRODI: Siria, «Vicini alla Francia senza ripetere l’errore della Libia». Inserito da: Arlecchino - Dicembre 02, 2015, 07:44:19 pm L’INTERVISTA ROMANO PRODI
Siria, Prodi: «Vicini alla Francia senza ripetere l’errore della Libia» L’ex premier commenta la possibilità che l'Italia si impegni maggiormente sul fronte siriano: «Lasciamo a Parigi il compito che si è assunta» Di Maurizio Caprara «Da un anno sostengo che senza un grande accordo tra Stati Uniti e Russia non si può uscire dal buco. Sia dal buco siriano sia da quello libico. L’intesa tra Francois Hollande e Vladimir Putin può favorire questo, però va studiata, approfondita in tutti i particolari. È stato un cambiamento improvviso. Certo, se prepara un forte impegno russo e americano contro l’autoproclamato Califfato è l’ideale. È benedetto», dice Romano Prodi. Ma si capisce presto che su questo ha più di un dubbio. Il cattolico di centrosinistra ex presidente della Commissione europea ed ex presidente del Consiglio italiano ha girato in ruoli non defilati tra Washington, Mosca, Europa e Medio Oriente almeno da quando era ministro dell’Industria nel 1978 e ‘79. Per l’Onu si è occupato delle missioni di pace in Africa. Dopo il viaggio di giovedì del presidente francese Hollande al Cremlino da Putin, Prodi guarda ai movimenti in corso in campo internazionale come se molto si sia messo in movimento potendo dare alla fase successiva alle stragi del 13 novembre a Parigi sbocchi molteplici e diversi tra loro. Tali da suggerire all’Italia di non compiere mosse affrettate, soprattutto militari, pur di essere protagonista. E di tenersi in raccordo con un altro Paese assai prudente sul bombardare direttamente in Siria: la Germania. Il «cambiamento improvviso» in corso, professore, sarebbe la svolta della Francia da nemica a quasi alleata del presidente siriano Bashar el Assad, insidiato dai guerriglieri integralisti islamici? «È un mutamento a 180° gradi che rafforza la posizione russa, presente militarmente in Siria, e cambia lo scenario del Medio Oriente. Prima a raccomandare cautela sul cacciare subito Assad eravamo noi». Comprensibile che l’Italia non si affretti a bombardare l’autoproclamato Califfato se non vede progetti chiari su come poi stabilizzare Iraq e Siria. Ma basterà fornire appoggi ai francesi su altri versanti, compensare i loro trasferimenti di soldati dalla missione internazionale in Libano e fare da tramite con interlocutori difficili per l’Occidente? Uno era la Russia, adesso ci parla Hollande. «Noi siamo già impegnati con truppe in mantenimenti di pace. Trovo saggio il comportamento tedesco, simile al nostro. Noi abbiamo Tornado nello scacchiere del Califfato e siamo impegnati in altri nei quali i tedeschi non lo sono. Possiamo aiutare i francesi in Libano. Però siamo già lì, in Afghanistan, Iraq, Kosovo. E rispetto a Berlino abbiamo una priorità, scontri in Libia ai quali prestare attenzione». Quindi? «Dobbiamo essere vicini alla Francia, ma lasciando alla Francia il compito principale che si è assunta». Ossia bombardare in Siria e tirare le fila di una coalizione per questo. L’incandescenza della Libia e l’attesa di un accordo tra le fazioni in lotta suggerisce all’Italia di tener pronti altri militari oltre ai seimila già all’estero? «Per lo meno di tenere massima attenzione verso il fronte più vicino a noi e di favorire un accordo tra tutte le fazioni. Conosciamo quel Paese e la sua complessità meglio di altri». Non è difficile capire che pensa alla Francia, la prima ad attaccare Tripoli nel 2011. «La solidarietà alla Francia per le stragi subite va data, però non possiamo negare che c’è stato un suo cambiamento di fronte immediato: Assad, da nemico assoluto, è diventato alleato. Il nostro nemico, l’Isis o Daesh, è comune. Tuttavia su un’entrata in guerra non è che si possa aderire a cambiamenti neppure comunicati prima che avvengano con fatti compiuti. La strategia va meditata». Pesa tanto la scottatura libica, l’aver scardinato gli assetti dell’era Gheddafi senza prepararne di migliori? «La scottatura libica pesa tantissimo. Peserebbe forse anche di più se l’Italia non avesse aderito, benché dopo, alla linea francese. Chiaro che l’attuale governo, diverso da quello di allora, non si identifichi con la guerra del 2011». Sull’intesa Putin-Hollande come si comporteranno Stati Uniti e Turchia, diffidenti in modi diversi verso Mosca? «C’è chi dice che gli americani temano un’Europa che si mette d’accordo con Turchia e Russia. Perciò adesso c’è movimento. Gli americani saranno favorevoli a costruire la grande alleanza anti Isis tenendo conto anche dell’Ucraina?». Intende dire se appoggeranno intese con Mosca fino a chiudere un occhio sull’offensiva russa cominciata in Crimea? «Diciamo fino a essere più flessibili sulle sanzioni a Mosca. È da vedere. La Francia può ricevere gratitudine statunitense perché oggi obbedisce alla dottrina di Barack Obama, secondo la quale i Paesi interessati devono farsi carico dei problemi delle rispettive zone e gli Stati Uniti se ne devono alleggerire. Però l’alleanza di Europa e Russia non è nello schema strategico americano». C’è da sperare che non siano fatti traumatici a decidere l’orientamento degli eventi. «Appunto, occorre dialogare con la Turchia per abbassare le tensioni. Anche per evitare l’episodio drammatico». C’è stato già l’abbattimento turco dell’aereo russo. Ma per l’Unione Europea ha senso tenere aperta la porta alla Turchia mentre Recep Tayyip Erdogan resta così allergico ad appartenenze a famiglie diverse dalla sua? «Il negoziato con la Turchia è destinato a durare a lungo. Va tenuto aperto. Ma da presidente della Commissione favorevole ad aprirlo dissi ai turchi: “Ci vorranno 30 anni”. Mi chiesero: perché? Io: “Perché quando c’era qualcosa di spaventoso mia nonna diceva: ‘Mamma li turchi’“. Sentimenti cancellabili con la fiducia dovuta solo a lunga vicinanza». 28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 12:21) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_novembre_28/siria-prodi-vicini-francia-senza-ripetere-l-errore-libia-63e529a8-95bd-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml Titolo: Romano Prodi in Russia: il sottile lavorio del Professore per favorire il ... Inserito da: Arlecchino - Marzo 19, 2016, 04:23:10 pm Romano Prodi in Russia: il sottile lavorio del Professore per favorire il disgelo con l'Europa
L'Huffington Post | Di Andrea Carugati Pubblicato: 18/03/2016 18:05 CET Aggiornato: 18/03/2016 18:05 CET Non si ferma la diplomazia parallela di Romano Prodi per favorire il disgelo tra Russia e occidente, a partire da un programma per lo stop alle sanzioni europee contro Mosca. “Dobbiamo tornare alla cooperazione fra Russia e Ue, è una necessità e un elemento di convenienza per entrambe le parti”, ha insistito l’ex premier nel suo viaggio di due giorni a Mosca in cui ha incontrato Putin. "L’Europa e la Russia sono complementari come whisky e soda. L’Ue ha bisogno della Russia per l’energia, la Russia ha bisogno dell'Ue per la sua esigenza di modernizzazione, di trasformazione del paese. Questa cooperazione non è più un’opzione. Se non lo facciamo, sprechiamo il nostro futuro", ha aggiunto Prodi, ricordando le tappe di una partnership che si è deteriorata e poi trasformata in tensione con la crisi Ucraina. Giovedì pomeriggio il faccia a faccia con il capo del Cremlino, con cui il Prof coltiva da tempo buoni rapporti: una “visita riservata” in cui i due uomini politici hanno discusso di rapporti tra Russia e Ue, del complicato scenario mediorientale, a partire da Siria e Libia e di energia. Un “incontro di carattere privato” secondo fonti russe, durato 45 minuti, definito di “grandissima utilità” da Prodi che, da tempo, ritiene indispensabile il dialogo tra Usa, Russia, Ue e Cina per poter affrontare la lotta al terrorismo e le crisi in Libia e Siria. Prodi ha parlato un nesso “indiretto” tra lo scenario siriano e la crisi ucraina che "non può essere separata dalla politica mondiale". Dunque il parziale ritiro russo dalla Siria “puo’ essere d'aiuto anche per la soluzione del problema ucraino" e in modo “indiretto” portare alla fine delle sanzioni contro Mosca. "La creazione di un'atmosfera di comprensione e avvicinamento - ha spiegato - può essere d'aiuto anche per la soluzione del problema ucraino e può preparare l'annullamento delle sanzioni". Prodi e Putin hanno quindi registrato un “comune interesse perché le divergenze tra Russia e Ue diminuiscano progressivamente". "L'ultimo Consiglio europeo – ha detto - ha aperto un piccolo spiraglio, ma concreto, su un inizio di dialogo con la Russia, anche se rimangono divergenze profonde". Secondo l’ex premier, in questo contesto è centrale la posizione della Germania, per iniziare una mediazione che porti ad un “programma di rientro delle sanzioni” contro Mosca. La Russia, dal canto suo, secondo il Professore (che dopo l’incontro con Putin a una conferenza del think tank Vallai a Mosca), deve stare molto attenta a “non dividere l’Europa”, come nel caso di raddoppio del gasdotto Nord Stream che collega la Germania alla Russia passando dal Mar Baltico e che rischia di “dividere l'Europa in nord e sud nel lungo termine”, spingendo "i paesi meridionali un’alternativa al gas russo”. Una “pericolosa tentazione”, quella di dividere l’Europa, a cui Mosca secondo Prodi “non deve cedere”. L’Europa, a sua volta, deve stare attenta perché con la politica delle sanzioni corre il rischio di “demonizzare la Russia". "Se la tendenza continua - ha avvertito l’ex premier - vi è un pericolo di incomprensione e di sentimento anti-russo". Nel corso della sua visita in Russia, Prodi ha parlato anche del Consiglio europeo sui migranti, tema a suo avviso molto più pericoloso per la tenuta della Ue rispetto al Brexit. Sul tema dei migranti, ha avvertito che il “prezzo da pagare sarà alto” ma l’obiettivo deve essere perseguito perché “davanti a una tale tragedia umanitaria si è obbligati a trovare un accordo per alleviare le sofferenze dei migranti”. Finora - ha spiegato a margine della conferenza al Club Valdai - i problemi dell'Europa, come la crisi greca, "hanno riguardato principalmente i governi, mentre la questione migranti ora tocca l’identità dei popoli, ne sta cambiando la sensibilità e riguarda il futuro dell'Europa più che il referendum della Gran Bretagna”. L’ex presidente Ue ha detto di augurarsi che Londra non esca dall’Unione, “ma anche se vincesse il No le cose non cambieranno moltissimo”. Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/03/18/romano-prodi_n_9499440.html Titolo: Prodi: “La governance dell’Europa è in crisi. I partiti tradizionali non... Inserito da: Arlecchino - Aprile 06, 2016, 11:27:42 pm Prodi: “La governance dell’Europa è in crisi. I partiti tradizionali non danno risposte”
L’ex presidente della Commissione Ue: gli anti-sistema hanno creato una rottura ANSA Romano Prodi, classe 1939, ha guidato l’Iri dal 1982 al 1989. Nel 1995 ha fondato l’Ulivo. È stato premier e presidente della Commissione europea 05/04/2016 Alberto Simoni Torino Per capire quanto siano oggi farraginosi gli ingranaggi europei, si può anche scegliere un punto di osservazione lontano, quello di Pechino e parlare con un interlocutore che conosce bene sia le dinamiche cinesi sia quelle europee. Il professore Romano Prodi, già leader della Commissione europea, ieri a Torino ha partecipato al convegno sulla nuova «Via della Seta cinese» che per mare e terra approda nel Mediterraneo e nel cuore del Vecchio Continente. Al suo fianco c’è l’ambasciatore della Repubblica popolare di Cina Li Ruiyu, che continua a etichettare il suo Paese come «in via di sviluppo», nonostante parametri e cifre dicano che ben metà dei cinesi vive con standard europei. Professor Prodi, almeno con Pechino l’Europa riesce a parlare con una sola voce? «No, i Paesi europei si muovono come singoli. Il flusso commerciale sulla rotta Europa e Cina è il più grande del mondo, eppure se lo dividiamo a fette abbiamo comportamenti diversi. I tedeschi hanno un equilibrio commerciale con Pechino. La cancelliera Merkel ha mostrato leadership e compiuto almeno sette missioni in Cina con importanti delegazioni imprenditoriali. Gli altri no». Che conclusioni ne trae? «Preoccupazione per il futuro dell’Europa». Perché? «Perché questo squilibrio mette la Germania in una condizione psicologica di “felicità” per non usare un termine aggressivo. Uno squilibrio che si riflette su tutta l’Europa». I tedeschi e Angela Merkel saranno anche, prendiamo a prestito la sua espressione, «felici», eppure c’è qualche dossier in cui i problemi sono evidenti. Come sui migranti. Merkel era partita con un «ce la facciamo» e ora siamo quasi al «non ce la facciamo più»... «Vero, la Germania ora si trova ad avere problemi europei. Mi sono sempre chiesto come mai in Germania non ci fosse un partito populista, e la spiegazione era abbastanza banale: la leadership tedesca soddisfaceva il suo elettore con la sua identità germano-europea. Ma una volta che questa è andata in crisi con i migranti ecco è arrivata la paura e, con essa, la crescita dei populisti. Oggi la Germania da questo punto di vista è entrata in una fase politica nuova. Anche se il governo Merkel non è andato in crisi c’è la possibilità che con l’ascesa populista la Grande Alleanza non basti». Populisti o partiti anti-sistema? «Forse è più giusto definirli anti-sistema Per contrastarli non basta più l’appello dei partiti tradizionali, questo è il fatto nuovo per l’Europa. Le grandi coalizioni restano una grande riserva della tradizione europea, ma adesso sono messe a rischio». Perché? Qual è la debolezza di partiti tradizionali? «È una domanda da cento milioni. La verità è che la risposta varia da Paese a Paese. In genere, e questo vale per tutti, i partiti non riescono più a dare soluzioni ai problemi e alle domande dei giovani e questo ha accelerato la crisi». I giovani inglesi sono filo-europei in maggioranza, ma i sondaggi ci dicono che uno su due non voterà lasciando campo libero alla Brexit, eppure sono loro che hanno portato Jeremy Corbyn alla guida del Labour: non vede contraddizioni? «No, e proprio perché Corbyn è una forma di rottura con il partito tradizionale. I giovani, quel tipo di marxismo di cui Corbyn parla, non l’hanno mai vissuto, quindi Corbyn per loro è una rottura, è un anti-sistema. Come Ciudadanos in Spagna». Professore, la lista dei guai dell’Europa è piuttosto lunga: i migranti, la Brexit che si profila, crisi di politica estera. Non crede che l’attuale forma di governance sia parte del problema? «Assolutamente sì. Non c’è un problema di politica estera sul quale ci siamo trovati d’accordo. Pensavo che la crisi economica degli ultimi anni avrebbe generato uno spirito di solidarietà. E invece non ha creato nulla». Cameron ha chiesto riforme per evitare che Londra uscisse dalla Ue. Oggi il referendum è appeso a un filo e i pro-Brexit sono in testa nei sondaggi. Non poteva essere l’occasione per l’Europa di riformarsi indipendente dalla sfida interna dei britannici? «Gli inglesi, e me lo ricordo da quando ero io a guidare la Commissione, sono sempre stati qualcosa a sé». L’Europa non ha una politica estera comune sui dossier internazionali, ma la Cina che partita sta giocando? Clinton nel 1997 disse che avrebbe voluto portare Pechino nella stanza dei bottoni del mondo coinvolgendola di più. Missione compiuta? «Come ha detto poco fa l’ambasciatore cinese, la Cina continua a riferirsi a sé come un Paese in via di sviluppo. E continua ad astenersi dai grandi conflitti internazionali. Siano la Libia oggi, o come in passato l’Afghanistan e l’Iraq. Credo che continuerà ancora per il prevedibile futuro ad astenersi dal recitare un ruolo di rilievo». E le azioni aggressive per il controllo delle isole nel Mar Meridionale Cinese come le giudica? «Possiamo, almeno per ora, dire che si tratta di una difesa del territorio. Anche se questi giochi sono sempre rischiosi». Da - http://www.lastampa.it/2016/04/05/esteri/prodi-la-governance-delleuropa-in-crisi-i-partiti-tradizionali-non-danno-risposte-EREEiynLPhRJVrz4BHm5KM/pagina.html Titolo: PRODI "Proposta Italia? Per i tedeschi eurobond sono una specie di demonio" Inserito da: Arlecchino - Aprile 21, 2016, 05:44:15 pm 19 aprile 2016
Migranti, Prodi: "Proposta Italia? Per i tedeschi eurobond sono una specie di demonio" Così l'ex presidente del Consiglio Romano Prodi in merito alla proposta italiana all'Unione Europea di finanziare le politiche sull'immigrazione attraverso l'emissione di eurobond. "La proposta degli eurobond rende isterici i tedeschi. Si deve insistere, anche se sono poco speranzoso che si riesca a vincere - ha detto Prodi al margine della presentazione del rapporto sui migranti del Centro Astalli - In Germania ogni azione di solidarietà economica viene sopportata a mala pena. Ma è chiaro che prima o poi si debba arrivare agli eurobond". Il Migration Compact avanzato dall'Italia è una "prova di lungimiranza strategica del nostro Paese e auspico che le istituzioni e i Paesi membri dell'Unione sappiano cogliere l'urgenza che è imposta dalla situazione", ha aggiunto il presidente del Senato Pietro Grasso Da - http://video.repubblica.it/politica/migranti-prodi-proposta-italia-per-i-tedeschi-eurobond-sono-una-specie-di-demonio/236305/236031?ref=tbl Titolo: Romano Prodi al Corriere della Sera: "La Germania sbaglia ma Draghi ha finito... Inserito da: Arlecchino - Aprile 23, 2016, 12:03:31 pm Romano Prodi al Corriere della Sera: "La Germania sbaglia ma Draghi ha finito le munizioni"
Corriere della Sera Pubblicato: 22/04/2016 08:35 CEST Aggiornato: 22/04/2016 08:35 CEST "La Bce ha evitato il disastro ma ora ha finito le munizioni". Questa l'analisi dello scenario politico-economico disegnato da Romano Prodi. In un'intervista al Corriere della Sera, a firma di Marco Ascione, l'ex presidente del Consiglio nota che nonostante la parziale ripresa dell'Europa, "noi (l'Italia, ndr) rimaniamo tuttavia ancora nel gruppo di coda, dopo avere perso quasi il 20% della nostra capacità produttiva". E con questo trend - sottolinea Prodi - "non è possibile risolvere il problema dell'occupazione". Nell'intervista, Prodi riconosce il lavoro di Mario Draghi, presidente della Bce. La Banca centrale ha capito il pericolo di una stagnazione prolungata e fa di tutto per evitarla. Ha evitato il disastro, ma ha esaurito le sue munizioni. Il pericolo della stagnazione è ancora di fronte a noi: se continuiamo con la distruzione della classe media e l’accumulazione della ricchezza nella classe più elevata, che non consuma, costruiamo la stagnazione secolare Prodi sottolinea la necessità di una "politica europea diversa". Che, per adesso, non esiste. Ma "non è colpa dei trattati ma di una politica sbagliata". La Germania ormai da molti anni applica e fa applicare una politica di austerità che non è adatta alla situazione di depressione in cui ci troviamo. Cresce poco lei e fa crescere ancor meno noi. Francia, Italia, Spagna che hanno interessi comuni per una politica diversa non riescono a mettersi d’accordo tra loro. Tant’è vero che l’unica struttura europea che funziona come tale, la Banca centrale europea, sta facendo una politica alternativa. In relazione all'intenzione dell'Austria di alzare le barriere al Brennero, Prodi non si dice stupito perché "su questi temi tutti i governi inseguono le punte estreme dei propri Paesi". L'Italia, invece, ha scelto la strada dell'immigration compact. È la via giusta. Inoltre l’Italia ha tutto l’interesse a europeizzare il problema. Interesse nazionale e dovere etico coincidono L'Europa valuta gli eurobond per il piano immigrazione. Ma la Germania continua a fare opposizione. Per i tedeschi gli eurobond sono ancora il simbolo del demonio. Sono state proposte mille diverse soluzioni in proposito ma un minimo di solidarietà nella gestione del debito pubblico viene ugualmente ritenuto un fatto demoniaco. Vi sono periodi storici nei quali bisogna mettere una nuova energia nel motore. Perché gli americani hanno superato la crisi più velocemente di noi? Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/04/22/prodi-draghi-intervista_n_9755534.html?utm_hp_ref=italy Titolo: PRODI : “Due anni bastano per logorarsi, necessario cambiare politiche” Inserito da: Arlecchino - Giugno 22, 2016, 06:35:06 pm Prodi, messaggio al governo: “Due anni bastano per logorarsi, necessario cambiare politiche”
L'ex premier e il terremoto elettorale: "I populisti crescono perché c'è troppa ingiustizia. L'ascensore sociale è bloccato e dentro si soffoca" Di MICHELE SMARGIASSI 22 giugno 2016 BOLOGNA. “Cambiare politiche, non solo politici. Se non cambiano le politiche, il politico cambiato si logora anche in due anni". Quasi uno scioglilingua, ma condito con un sorriso ammiccante. Dal suo ufficio di Bologna Romano Prodi, padre fondatore del Pd in ritiro politico, osserva le elezioni di domenica, le maggiori città del paese governate da partiti che non esistevano fino a pochi anni fa, e manda un messaggio a Palazzo Chigi. Esplode il mappamondo politico. Cosa sta succedendo? "Non basta guardare il voto di questa o di quella città. C'è un'ondata mondiale, partita in Francia, ora in America. Lo chiamano populismo perché pur nell'indecifrabilità delle soluzioni interpreta un problema centrale della gente nel mondo contemporaneo: l'insicurezza economica, la paura sociale e identitaria". I populismi sono figli solamente di una crisi di paura? "La paura di non farcela è tremenda ma non immaginaria. La chiami iniqua distribuzione del reddito, ma per capirci è ingiustizia crescente. Quando chiedo ai direttori di banca: quanti dipendenti avrete fra dieci anni? mi rispondono: meno della metà. L'iniquità post-Thatcher e post-Reagan si è sommata alla dissoluzione della classe media, terribile tendenza di tutte le economie sviluppate e di mercato, e sotto tutti i regimi". Cos'è classe media? "Nel senso più ampio possibile, chiunque avesse una sicurezza anche modesta sulla propria vecchiaia e sul futuro dei figli. Ma il pensionato che diceva orgoglioso "io non ce l'ho fatta, ma mio figlio è laureato", ora non lo dice più. L'ascensore sociale si è bloccato a metà piano e dentro si soffoca". I Cinquestelle gridano "onestà- onestà", sembra soprattutto una rivolta morale... "La disonestà pubblica peggiora le cose, ma la radice è la diseguaglianza. Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga... Ma alla fine la mancanza di tutela nel bisogno scatena un fortissimo senso di ingiustizia e paura che porta verso forze capaci di predicare un generico cambiamento radicale". La rabbia poteva avere altri sbocchi politici, non crede? "Quando il socialismo era all'opposizione appariva come la grande alternativa. Ma cos'è successo poi? Una fortissima omologazione delle politiche, da Clinton alle grandi coalizioni tedesche all'Italia... Non mi faccia dire del "partito della nazione", ma è chiaro che qualcosa del genere è accaduto anche qui". Una politica uniformata fa nascere i populismi? "No, lo fa una politica uniformata quando occupa tutto il campo, ma non sa dare soluzioni. Allora la rabbia della gente crea un altro campo. Se il voto diventa liquido, è per questo. Quando tu vedi che solo il centro storico delle città è rimasto ai partiti della sinistra... Vogliamo chiederci perché Trump è odiato a Wall Street e osannato dai metalmeccanici del Michigan? È un leader più europeo di quel che pensiamo, non è semplicemente reazionario ma tocca, certo in modo sbagliato, le paure reali del ceto medo". Ma anche quando la politica tradizionale dà soluzioni, perde. Piero Fassino amareggiato dice che non basta più governare bene. "Fassino ha governato bene, nessuno ne dubita, ma chiunque governi oggi viene identificato col potere costituito, ed è un bersaglio. Il gioco è molto più grande di un municipio, il problema è che alle grandi forze politiche nazionali manca un'interpretazione della storia e del presente". Un problema di questa classe politica di governo? "Non si tratta di cambiare i politici ma di cambiare politiche. Cambiare i politici è condizione necessaria ma non sufficiente". Be', i politici di governo li abbiamo cambiati da poco. "Se non cambi le politiche, il politico cambiato invecchia anche in un paio d'anni... C'è sempre un'usura, e corre veloce. La mancanza di risposte efficaci logora. E al momento si sente la mancanza di risposte che affrontino il problema delle paure e delle cause reali delle paure". È un Pd de-ideologizzato che non ha queste risposte? "Rifiutare le strettoie delle ideologie è diverso dal non avere radici e risposte fortemente orientate. Non abbiamo un Keynes, un progetto per uscire in modo collettivo dalla crisi. Quando governi, devi dare operativamente il messaggio che sai affrontare i problemi, e questo non lo puoi fare senza il coinvolgimento di una forte base popolare nel cambiamento delle politiche. Devi dimostrare di capire e di andare incontro ai problemi. Il rinnovamento per il rinnovamento non è una risposta sufficiente". C'entra anche la personalizzazione della politica? Paradossalmente, quando Grillo si eclissa i Cinquestelle vincono, mentre il Pd, dove Renzi "pone la fiducia", soffre... "Di fronte alla crisi la prima risposta è sempre quella della forte personalizzazione, sia da parte dei governi che dei populismi. Ma dura poco, perché la realtà la mette alla prova dei fatti. La gente vota i politici perché spera che cambino le cose, la personalizzazione è un riflesso. Infatti in queste elezioni hanno vinto dei volti sconosciuti. La personalizzazione non regge se non cambia le cose, o non dà almeno la speranza concreta di poterle cambiare". I trionfatori di queste elezioni vincono perché danno questa speranza? "Hanno risposte emotive e confuse, semplici motti specifici su angosce specifiche, via gli immigrati, punire le banche, ma neanche una riga che spieghi come potrebbero fare. Ma il loro vantaggio è un altro: sanno adattarsi alle paure. Questi movimenti nascono in genere molto di parte, orientati, partigiani. Hanno un certo successo poi si fermano, perché le loro soluzioni mostrano un limite ideologico. E allora si allargano da destra a sinistra e da sinistra a destra. Marine Le Pen è stata la prima a capire i limiti di un populismo di parte, e ha "ucciso il padre". In quel momento è diventata una potenziale presidente della Repubblica francese. In Italia sta succedendo la stessa cosa". È il limite che ha cercato di superare Salvini? "Ma prima di lui è arrivato il Movimento Cinquestelle. Hanno capito per primi che bisogna cavalcare la protesta, non una protesta. Guardi il loro atteggiamento sull'immigrazione: prese di posizione così inafferrabili da poter essere interpretate sia in senso di destra che di sinistra. E dalle analisi che leggo, ha funzionato: prendono voti anche fra gli anziani delle periferie metropolitane, i ceti deboli tra i quali la paura dell'immigrato è più forte". Professore, lei si tiene lontano dalla politica italiana, ma qui c'è una morale, no? "Progetto e radicamento popolare. Il cambiamento possibile, fatto entrare nel cuore della gente. Il solo ad averlo capito è papa Francesco". © Riproduzione riservata 22 giugno 2016 Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/22/news/prodi_messaggio_al_governo_due_anni_bastano_per_logorarsi_necessario_cambiare_politiche_-142541909/?ref=HREA-1 Titolo: Prodi: “Decisivo il vertice di Berlino l’Ue può rinascere o fallire” Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 11:54:13 am Prodi: “Decisivo il vertice di Berlino l’Ue può rinascere o fallire”
L’ex presidente della Commissione: i cittadini odiano l’Europa “burocratizzata” 25/06/2016 Fabio Martini Bologna Al primo piano di via Gerusalemme 7, nella casa bolognese di Romano Prodi, telefoni e telefonini squillano senza sosta, politici, accademici e media di mezzo mondo cercano il Professore, l’ultimo presidente di Commissione di un’Europa «felice», o quantomeno proiettata sul futuro. Prodi lasciò Bruxelles alla fine del 2005, in una stagione nella quale l’Europa era in crisi di crescita, mentre oggi c’è una crisi di identità: cosa è accaduto in questi 10 anni? «Da allora ad oggi all’Europa della speranza è succeduta l’Europa della paura. Ed è intervenuto un processo di ri-nazionalizzazione. Con l’uscita di Kohl, si sono l’avvicendati leader per i quali il prevalere degli interessi nazionali non si è accompagnato con una forte visione europeista». Ma oramai le alchimie dei leader non lasciano più il segno: come spiega queste folate di opinione pubblica sempre più incontrollabili? «I cittadini non odiano l’Europa, odiano questa Europa, la gestione di questi anni: una politica che non capiscono, che li danneggia. Una politica che ha distrutto il ceto medio». Ma ora la palla torna ai leader: il futuro dell’Europa si decide più nel vertice a quattro di Berlino o nei giorni successivi al Consiglio europeo di tutti i capi di governo? «Non ci sono dubbi: nell’incontro di Berlino». Lei ci crede? «Lo spero. Confido che la nuova Europa possa nascere lunedì a Berlino. Sennò l’Europa finisce». Gli altri Paesi seguiranno? «Di solito, nei grandi passaggi politici, funziona così: l’accordo lo fanno i Paesi “guida”. L’ultima volta accadde con l’euro. Furono decisivi, anche nella fase finale, i contatti diretti tra Germania e Francia, tra Germania e Italia. Se c’è una forte regia, il Consiglio segue. Al massimo può bloccare, ma le decisioni le prendono i Paesi più forti» In queste ore i mercati ballano e lo spread sale: sarà escalation? «No. Tutto questo mi preoccupa fino a un certo punto, credo che le turbolenze finanziarie dureranno poco, perché non c’è una forte sostanza che possa alimentarle. Anche se lo spread in queste ore è salito non poco». Ma l’anello debole delle banche? Gli italiani potrebbero mettersi molta paura, non pensa? «Gli italiani - e non solo loro - è naturale che siano angosciati, ma rischiano di mettersi paura più per il tambureggiare dell’allarmismo che per motivazioni reali. Ma occorre dire a tutti quel che è vero: che esiste un piano “B”, governo e Banca d’Italia faranno bene a ripeterlo. Naturalmente occorre vigilare onde evitare che il sistema bancario entri in crisi, a quel punto rischiando di andare in pezzi». Ma se la crisi finanziaria sui mercati dovesse perdurare, non pensa che la spinta a rompere il patto di Stabilità diventerebbe una tentazione per Paesi come l’Italia? E a quel punto non si rischierebbe la rottura con la Germania? «In questi giorni nessuno può rischiare di rompere il patto di Stabilità. Bisogna cambiare politica, ma attenzione, io non toccherei i Trattati. Non è quella la strada. Perché occorre evitare di tornare a politiche di bilancio senza controllo. Al tempo stesso però urge una svolta. Avviando una politica economica di espansione, che cambi la direzione e la quantità della spesa». Serve una svolta anche nella governance dell’Europa? «E’ vero che la Commissione fa spesso cose del tutto inutili, ma sono le sole cose che le lasciano fare. È ovvio che non potendosi occupare del futuro dell’Europa, perché è passato in mano agli Stati, finisca per occuparsi anche del rosmarino». Finora la Germania ha resistito alle richieste di cambiare dottrina economica e oltretutto la Merkel ha l’appuntamento elettorale del 2017: un circolo vizioso? «Fino a due sere fa pensavo che quella scadenza potesse essere condizionante e dunque che nessuna decisione potesse essere presa prima di quella data. Ma a questo punto è diventato troppo rischioso aspettare. Anche per la Germania». Cameron? «Alla base di tutto c’è stata una sua scelta sbagliata. Il referendum ha indebolito la posizione della Gran Bretagna a Bruxelles, ha confuso gli elettori, è stato impostato da Cameron solo per interessi personali. E in questo senso, si potrebbe dire: ben gli sta». Nel 2005 Tony Blair mise il veto alla sua conferma a Bruxelles: c’erano già preannunci di un marcato euroscetticismo inglese? «Tra me e Blair c’erano state divergenze sulla guerra in Iraq, ma nel suo atteggiamento c’erano anche tracce euroscettiche nel senso che una Commissione forte e indipendente non piaceva a nessuno!». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/06/25/esteri/prodi-decisivo-il-vertice-di-berlino-lue-pu-rinascere-o-fallire-N2lKuvVZtGOC6KK87vHaWL/pagina.html Titolo: Brexit, Romano Prodi: "Austerità tedesca sta rovinando l'Ue". Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 12:23:09 pm Brexit, Romano Prodi: "Austerità tedesca sta rovinando l'Ue".
Napolitano e Monti danno la colpa a Cameron L'Huffington Post | Di Redazione Pubblicato: 24/06/2016 11:27 CEST Aggiornato: 24/06/2016 11:32 CEST “La politica europea dell’austerità tedesca sta rovinando l’Ue”. È il giudizio di Romano Prodi sui ‘responsabili’ della Brexit, espresso durante un’intervista a Voci del mattino, su Radio1 Rai. Per l’ex presidente del Consiglio, “alla base di tutto c'è stata una scelta sbagliata” del premier britannico David Cameron, che ha impostato il referendum “solo per interessi personali”. Per l’ex presidente della Commissione Ue, i cittadini del Regno Unito hanno respinto l’idea di “un’Europa ferma, che rinvia le decisioni e non si occupa di capire le tensioni e i problemi delle popolazioni dei singoli stati”. "L'esito del referendum britannico – afferma Prodi – è indubbiamente clamoroso ma io oggi dico: calma e gesso. La riflessione importante da fare è che le classi abbienti hanno votato per il Remain e le classi povere invece per il Leave. Nel mondo, non solo in Inghilterra, le proteste si stanno condensando nei ceti che soffrono per la globalizzazione e l'Europa è vista come una parte di questo processo". "Stiamo attuando una politica economica non inclusiva e questo dà linfa ai partiti populisti, che infatti stanno facendo proseliti in Italia, Francia, Spagna e nella stessa Germania. Nel caso inglese, tale malcontento si è espresso nella rabbia verso l'Europa. Certo, alla base di tutto c'è stata una scelta sbagliata di Cameron, anche se avesse prevalso il Remain. Indire un referendum ha indebolito la posizione della Gran Bretagna a Bruxelles, ha confuso gli elettori, ha mostrato chiaramente come fosse soltanto una mossa strategica per restare al comando del governo britannico. E l'insieme di questi elementi ha fatto sì che quello di ieri fosse un voto anti Europa ma anche anti Cameron. Il referendum è stato impostato da Cameron solo per interessi personali. E in questo senso, si potrebbe dire: ben gli sta". Prodi aggiunge di essere personalmente "rimasto sdegnato dalle trattative svoltesi fra l'Europa e la Gran Bretagna per scongiurare la Brexit. Il governo britannico veniva autorizzato a stare fuori da ogni progresso che l'Unione avrebbe compiuto, configurando pertanto una Europa a due velocità, cambiando la stessa natura dell'Unione. D'altronde – prosegue l’ex presidente del Consiglio - i referendum spesso hanno valenze politiche ben diverse da quelle che si evincerebbero dai quesiti posti agli elettori. In Francia, quando venne bocciata la costituzione europea, in realtà incise molto l'atteggiamento anti Chirac, che all'epoca era al governo del Paese. Ma quella britannica se vogliamo è anche una bocciatura dell'idea stessa di Europa così com'è, perché la gente se vede un'Europa ferma, che rinvia le decisioni, che non si occupa di capire le tensioni e i problemi delle popolazioni dei singoli stati, inevitabilmente, si allontana. Da anni ormai diciamo che questa politica europea dell'austerità tedesca non ci piace e sta rovinando l'Unione". Prodi conclude: "la bocciatura britannica dimostra come questo malessere sia radicato non nei centri delle città, ma nelle periferie, dove appunto si soffre questa paralisi europea. La decisione britannica – spiega l’ex premier - potrebbe avere anche forti conseguenze interne, visto che in Scozia e Irlanda del Nord la vittoria del sì all'Europa ha assunto dimensioni cosi elevate da far pensare che possa fungere da trampolino per rivendicazioni autonomiste. Rivendicazioni che potrebbero coinvolgere anche altre realtà europee, come la Catalogna in Spagna". Mario Monti, intervistato da Radio anch'io su Radiorai, accusa Cameron di “abuso di democrazia”: "Cameron ha compiuto un abuso di democrazia. Il referendum è stato convocato non per l'interesse generale dell'Ue o del Regno Unito o anche del Partito Conservatore, ma nell'interesse proprio all'interno del Partito Conservatore. Un uso egoistico dello strumento democratico che gli è esploso in mano, gli ha fatto perdere tutto, come è giusto". "Ci vuole più serietà - prosegue Monti - tra le autorità nazionali e quelle europee. Cameron ha fatto in massimo grado ciò che fanno altri capi di governo: stanno in Europa pensando ai sondaggi e alle questioni interne, ma così l'Europa si spacca". "Io da presidente del Consiglio - ricorda Monti - quando ho preso delle decisioni come quella sulle pensioni, non ho mai detto 'lo dobbiamo fare perché l'Europa ce lo chiede’. Oggi nessun Parlamento nazionale - conclude - è in grado di decidere per il bene del proprio Paese su questioni che richiedono la cooperazione internazionale. Su questo ci sono anche dei miti". Un’analisi su cui concorda anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, secondo cui “promuovere il referendum è stato incauto”: "È stato incauto promuovere questo referendum e affidare a un no o a un sì problemi tanto complessi. Hanno quindi prevalso elementi emotivi" come le preoccupazioni legate al problema dell'immigrazione. "È un colpo molto duro - aggiunge Napolitano - con elementi di destabilizzazione economica e politica". L’ex presidente della Repubblica contesta la tesi che il referendum rappresenti di per sé un momento di democrazia: "La democrazia, innanzitutto, e la Gran Bretagna ce lo ha insegnato già da secoli, è il popolo che si esprime anche affidando ai rappresentanti le scelte e le decisioni. Sono i Parlamenti eletti che lavorano sotto il controllo dell'opinione pubblica. I referendum sono strumenti e nella nostra Costituzione non possono essere convocati sui trattati internazionali, perché temi così complessi non possono essere affidati a un voto superficiale e impulsivo". L’ex premier Enrico Letta invita tutti ad “allacciare le cinture di sicurezza”: "I britannici hanno scelto e va accettata la decisione. Ma le conseguenze saranno pensanti. Si apre una fase di incertezza giuridica, perché l'applicazione dell'articolo 50 del trattato di Lisbona è inedita e complicata". Secondo Letta, “si apre anche una fase di instabilità politica e di difficoltà economiche. Bisogna allacciare le cinture di sicurezza. Ora è il momento per le leadership dei Paesi dell'Europa continentale di reagire all'altezza della sfida. La reazione deve essere politica e alta". Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/06/24/brexit-romano-prodi_n_10651234.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001 Titolo: PRODI Ricostruire la rete sociale per battere il terrorismo Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2016, 11:53:35 am La forza della libertà
Ricostruire la rete sociale per battere il terrorismo Di Romano Prodi La strage di Nizza ci ha colpito non solo per la sua tragica crudeltà, che le doverose ma impietose immagini ci hanno mostrato, ma anche per lo strumento con cui questa strage è stata provocata e per il luogo in cui è avvenuto. Niente fucili kalashnikov, niente cinture esplosive, niente granate, ma un semplice autocarro costruito per portare gelati: uno strumento quotidiano e naturale per venire incontro alle richieste di tanta gente che si stava godendo serenamente la conclusione della festa nazionale. Non ho potuto evitare di pensare che per provocare una tragedia di questo tipo non vi è nemmeno bisogno di molto denaro e nemmeno di un’organizzazione complessa: basta una persona ed un camion. Ed è proprio questa terribile normalità dello strumento (e quanti altri simili ne possiamo immaginare?) che mi fa sentire inutili tutte le future indagini sulle possibili negligenze del controllo della polizia e degli altri organi preposti a garantire che la festa nazionale francese potesse concludersi in tutta serenità. Da molti decenni siamo infatti abituati a vivere senza tenere conto della possibilità di questi eventi e nulla sfugge ai controlli come la normalità. Quando il terrorismo ha cominciato a colpire abbiamo iniziato giustamente a proteggere i luoghi più vulnerabili, a partire dagli aeroporti. Tuttavia ciascuno di noi, mentre pazientemente si toglieva le scarpe di fronte ai controlli dei cancelli di partenza, rifletteva su altri aspetti. Ad esempio sul fatto che nessuno ti avrebbe poi protetto quando prendevi il treno o entravi in un supermercato. Col progredire del pericolo si sono naturalmente moltiplicati anche gli apparati di sicurezza, che comprendono ora alcune stazioni ferroviarie e centri commerciali. E quindi gli stadi dei campionati di calcio e le più grandi manifestazioni religiose. Ma li possiamo estendere a tutte le scuole, a tutte le strade, a tutti i teatri e a tutte le chiese? Tra i Paesi minacciati dal terrorismo lo ha fatto soltanto Israele che tuttavia, pur pagando un elevatissimo prezzo in termini di normalità della vita quotidiana (saremmo in grado di farlo anche noi?) è riuscito a ridurre ma non certo ad eliminare gli attentati sanguinosi contro la propria popolazione. Con queste osservazioni non voglio certo invitare a limitare gli sforzi specifici per proteggere la nostra sicurezza, anche perché essi sono uno strumento indispensabile per diminuire i pericoli e per garantire lo svolgimento della vita normale dei cittadini. Dobbiamo tuttavia avere coscienza che tutto ciò è una condizione necessaria ma non sufficiente, soprattutto da quando gli attentati e gli attentatori si vestono con gli abiti delle persone normali e fanno uso degli strumenti normali e indispensabili della nostra vita quotidiana. È la nostra società intera che deve difendersi, con tutti gli strumenti di prevenzione che essa possiede. Cominciando dall’alto, è inammissibile che strutture statali o parastatali di Paesi a noi amici continuino a finanziare in modo diretto o indiretto (acquistando ad esempio il petrolio) le reti del terrorismo internazionale. Gli interessi di qualcuno non possono mettere a rischio la sicurezza dell’intera società. Non è nemmeno ammissibile che i predicatori dell’odio religioso siano liberi di esprimerlo in modo sistematico. È vero che molti degli ultimi attentatori non frequentavano le moschee radicali e nemmeno avevano stretti legami religiosi ma è tuttavia altrettanto vero che da essi ne erano e ne sono indirettamente e profondamente influenzati. Non può essere inoltre permesso che le nuove reti di informazione vengano utilizzate come strumento di incitazione alla violenza. È chiaro che con questo entriamo nel delicato campo della libertà di espressione ma anche questa libertà deve essere riportata sotto la maestà della legge. Questo tuttavia non basta se non si mette in atto una paziente opera di ricostruzione dei fili della nostra società che sono stati troppo spesso spezzati dalla caduta dei rapporti di vicinato e dall’isolamento prodotto da strutture urbane e da modelli di vita che allentano quel minimo controllo sociale che è il più importante elemento di prevenzione degli atti criminali. Oggi tutta la nostra comunità è a rischio: all’azione repressiva deve essere affiancata un’azione preventiva capace di coinvolgere tutta la comunità, dalle amministrazioni locali alle scuole, dalle associazioni sportive alle parrocchie, ma soprattutto i rapporti di vicinato che diventano forzatamente inesistenti negli immensi quartieri periferici. Contro un terrorismo che diventa ancora più pericoloso, proprio perché usa gli strumenti “normali”, dobbiamo affiancare agli strumenti straordinari gli strumenti “normali” della nostra vita sociale. Sarà una guerra lunga e ci saranno altre inaspettate tragedie ma, se lavoreremo insieme all’interno dei nostri Paesi e collaborando fra i diversi Paesi, riusciremo a vincere anche questa guerra. La libertà e la democrazia riescono a prevalere solo se si usano anche quegli strumenti che hanno reso forte sia la libertà che la democrazia. Domenica 17 Luglio 2016 - Ultimo aggiornamento: 10:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/strage_nizza_battere_terrorismo-1859877.html Titolo: PRODI L'Ulivo è forte, resistente, ben radicato nella sua terra. Inserito da: Arlecchino - Agosto 23, 2016, 11:28:24 pm L'Ulivo è forte, resistente, ben radicato nella sua terra.
È l'albero di un'Europa mediterranea, che conosce il mare e la montagna, la pianura, i laghi e le colline. Ama il sole e... resiste all'inverno. (Romano Prodi - 6 marzo 1995) Titolo: Prodi: “Noi due assieme al governo con un solo obiettivo: l’Europa” Inserito da: Arlecchino - Settembre 17, 2016, 10:56:35 am Prodi: “Noi due assieme al governo con un solo obiettivo: l’Europa”
L’ex premier: “Mi aiutò tanto in un momento difficile. Non imponeva mai la sua autorità, lui persuadeva” Era il primo gennaio 2002 quando la nuova moneta dell’Unione Europea fece il suo esordio. In qualità di presidente della Repubblica, ma anche da ministro del governo Prodi, Ciampi fu uno dei principali fautori di questo storico cambiamento 17/09/2016 Stefano Lepri Roma Presidente Prodi, Carlo Azeglio Ciampi era il suo ministro del Tesoro quando avete deciso di imporre agli italiani una tassa speciale per entrare nell’euro. Ci racconti come andò. «Fu Ciampi a definire la quantità di risorse che occorreva raccogliere se volevamo farcela. Mettergli il nome “eurotassa” fu una idea mia, lui era meno propenso a usare termini così esplicativi. Il contenuto della misura ovviamente fu condiviso: c’era allora, autunno 1996, il sentire che l’Europa fosse il nostro comune destino». Oggi, a vent’anni di distanza, quel clima pare lontanissimo. Il 60% dell’eurotassa fu restituito negli anni successivi, ma su Internet circola indisturbata la bufala che non lo fu. «Eh già, oggi non è più cosa… Mentre allora c’era una concordia nazionale, la avvertivamo, su quell’obiettivo di entrare nell’euro, di far parte dell’Europa a pieno titolo. Anche le opposizioni di allora lo condividevano». Ciampi aveva fatto fare sondaggi di opinione riservati: favorevoli anche a un sacrificio aggiuntivo come quello dell’eurotassa. «L’euro era la ragion d’essere di quel governo. Anzi, la forza del nostro governo stava proprio nell’avere quell’obiettivo». In più sostenuto da un ministro del Tesoro eccezionalmente autorevole, come Ciampi. «Ricordo appunto un certo mio imbarazzo quando gli telefonai per chiedergli di far parte del governo. C’erano già affetto e stima reciproca, ma lui era assai più anziano di me ed era già stato presidente del Consiglio. Dovevo chiedergli di scendere un gradino, di fare un sacrificio. Fu subito disponibile, e poi conquistò tutti con la sua carica umana. Non lo potrò mai dimenticare. Anche per questo mi pesa tanto la sua perdita. Ci aiutò tantissimo, in quel momento difficile». Come era nei consigli dei ministri? «Mai che cercasse di imporre la sua autorità: lui persuadeva. Discuteva a fondo con tutti, senza stancarsi, ragionando. Erano riunioni anche molto lunghe. Ovviamente le preparavamo prima, a fondo, noi due con i nostri collaboratori, mettendo a posto le cifre; un modo di lavorare credo assai diverso da quello di oggi. Non ricordo mai riunioni drammatiche, neanche più tardi, quando Rifondazione comunista voleva che il governo cadesse». Però nei primi mesi, secondo una versione diffusa, non foste completamente d’accordo. Nell’estate del 1996 Ciampi voleva l’ingresso immediato nell’euro, lei esplorava se fosse possibile un percorso più graduale. Poi la svolta, dopo il vertice di settembre con la Spagna a Valencia. «No, è falso. La voce di uno sfasamento tra noi nacque dalla furbata dell’allora primo ministro spagnolo, José Maria Aznar, che per farsi bello, per fare l’“hidalgo”, disse che io esitavo. Ma ci sono i documenti. Fin dalla prima riunione del nostro governo, dal primo giorno, l’obiettivo dell’ingresso immediato nell’euro era centrale, irrinunciabile. E ci entrammo, in modo trionfale». Alla condizione di sottoscrivere un patto severo sul graduale azzeramento dei deficit pubblici che poi lei stesso, qualche anno più tardi, da presidente della Commissione europea, definì «stupido». «Certo. Era troppo rigido, non adattabile alle variabili esigenze del ciclo economico. Ma Ciampi ed io l’avevamo accettato sperando che si trattasse solo di un primo passo. Allora il nostro interlocutore in Germania era il cancelliere Helmut Kohl. Ricordo che ci disse: “I tedeschi non vogliono l’euro, preferirebbero tenersi il marco, ma il mio governo lo farà, perché pensiamo che sia giusto”. Gli avevo posto il problema dei limiti del Patto di stabilità, sostenendo che occorreva aggiungergli una politica economica comune». Altrimenti l’euro resta zoppo, per usare le parole di Ciampi. «Sì, appunto. Kohl mi aveva risposto “vedrai che la faremo”. Poi non è andata così, sono venuti governi con altre priorità». Il «decadimento morale» deprecato da Ciampi. E così siamo oggi a questo poco esaltante vertice di Bratislava. «Ciampi aveva ragione, l’Europa resta il futuro, perché gli Stati nazionali sono troppo piccoli per reggere alla globalizzazione. Sono ancora ottimista: spero che sull’orlo del baratro si riuscirà a recuperare. Altrimenti, noi europei ci ridurremo a dire, invece di “o Francia o Spagna purché se magna”, “o Stati Uniti o Cina…». LEGGI ANCHE - Quelle lacrime alla coniazione del primo euro (di STEFANO LEPRI) LEGGI ANCHE - L’orgoglio di essere italiani: l’eredità di Ciampi (di ANTONELLA RAMPINO) ARCHIVIO - L’ultima intervista a La Stampa: “In Europa decadimento morale” Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/09/17/italia/politica/prodi-noi-due-assieme-al-governo-con-un-solo-obiettivo-leuropa-0lZhe5bRkovwiTqewLkbnL/pagina.html Titolo: Romano Prodi: "Al Sud non si può parlare di industria 4.0, lì serve quella 1.0" Inserito da: Arlecchino - Ottobre 03, 2016, 10:03:24 am Romano Prodi: "Al Sud non si può parlare di industria 4.0, lì serve quella 1.0"
L'Huffington Post | Di Redazione Pubblicato: 30/09/2016 11:36 CEST Aggiornato: 30/09/2016 11:36 CEST PRODI "Il nodo del Mezzogiorno è la situazione di necessaria e assoluta ripartenza. Nella mia testa serve un quadro politico che dica cosa fare, ma il Mezzogiorno non ha più partiti politici; il riferimento sono solo le persone, come Emiliano, l'ex sindaco di Salerno e perfino il sindaco di Napoli. Che obiettivi quindi? Possono fare sistema?". Lo ha detto Romano Prodi, nel corso della presentazione del libro 'Lezioni sul meridionalismo', a cura di Sabino Cassese, nella sede di Nomisma a Bologna. Per l'ex premier non si può "parlare di rivoluzione industriale 4.0 nel Mezzogiorno, serve la 1.0 - ha aggiunto - Occorre qualche vittoria per dare anima ad una zona così grande, occorre un progetto di successo". Sul tema è intervenuto anche il giurista Cassese, secondo il quale "la causa di questa stasi nel Mezzogiorno deriva dal fatto che la questione era diventata nazionale negli anni '50, ma è passata poi nelle mani delle Regioni e questo ha prodotto una diminuzione dell'interesse nazionale - ha spiegato - Bisogna quindi che la questione meridionale ridiventi nazionale e non stia solo nelle mani delle Regioni, nei confronti di cui abbiamo avuto troppa fiducia". Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/09/30/romano-prodi-industria_n_12261192.html Titolo: Eugenio Scalfari intervista Romano Prodi: "La mia Europa non c'è più" Inserito da: Arlecchino - Ottobre 10, 2016, 11:43:12 am "La mia Europa non c'è più"
Eugenio Scalfari intervista Romano Prodi L’emergenza profughi. Gli egoismi nazionali. La crisi dell’Unione. E poi il terrorismo, la Libia, lo sviluppo dell’Africa, la Cina. La storia, il presente e le prospettive future nell’intervista all'ex presidente del Consiglio Di Eugenio Scalfari 17 giugno 2015 Romano Prodi. Una famiglia cattolica nella quale però ciascuno pensa come gli pare, una quantità di fratelli nati tra Bologna e Reggio, adesso tra figli, mogli, nipoti, cugini, famiglie delle mogli, pronipoti, sono diventati centinaia. Un giorno all’anno, Natale o Capodanno non me lo ricordo più, si riuniscono tutti insieme. Festeggiano. Che cosa? La fratellanza credo. Sì, festeggiamo la fratellanza (mi dice Romano) forse il più bello dei sentimenti perché quelli buoni li contiene tutti, l’amore, l’amicizia, la parità dei generi, l’amore del prossimo, l’alleanza, la pace, la gentilezza, la bontà. Tutto ciò detto, non si creda che i Prodi siano stinchi di santi. Romano in particolare. Ha i suoi avversari, i suoi concorrenti, i suoi nemici. I torti che subisce li perdona ma non li dimentica e prima o poi pareggia il conto. Insomma è un uomo con le virtù e i difetti degli uomini, ma averlo come amico è una fortuna e io l’ho avuta. Ci fu un periodo in cui ci vedevamo e ci telefonavamo almeno una volta alla settimana, poi il passare degli anni e degli affanni ha diradato gli incontri ma io ho sempre letto i suoi scritti e seguito le sue azioni nella vita pubblica italiana ed europea e lui ha fatto altrettanto con me. Abbiamo pochi ma fedeli amici comuni e parecchi comuni nemici. Soprattutto detestiamo gli ipocriti, i vanitosi, gli egoisti e i voltagabbana. Un paio di mesi fa c’eravamo incontrati a pranzo in casa di Fabiano Fabiani e io avevo espresso il desiderio di intervistarlo. Gliene ho fatte molte di interviste nel corso degli anni, ma ora è gran tempo che non ne facciamo più: chiacchierate, incontri, analisi di problemi. Ed anche ora, per fare il punto in una fase dove fare il punto è la cosa più difficile. Sono le undici e mezza del 12 giugno. Ci abbracciamo in una saletta dell’“Espresso”. Ci sono con noi il direttore Luigi Vicinanza, Marco Damilano, Gigi Riva, Marco Pratellesi e Leopoldo Fabiani, anch’essi dirigenti del settimanale che compirà il 2 ottobre prossimo sessant’anni di storia. Prodi si è svegliato alle 5 e mezzo di questa mattina e ha corso per due ore. Lo fa sempre, ovunque si trovi. Una volta alla settimana percorre un centinaio di chilometri in bicicletta: un ragazzo, anche se non ha affatto l’aspetto di un atleta. Però è fatto così. Cominciamo e la prima domanda è questa: «Dimmi per favore qual è il problema che ti tocca e ti colpisce più di tutti». Risponde: «Ci sono nel mondo 250 milioni di persone che vivono in Paesi ed anzi in continenti diversi da quelli dove sono nati. Duecentocinquanta milioni di emigrati. Questo è il problema. Non è affatto detto che sia un male, anzi, il fatto che gli abitanti del pianeta si mescolino tra loro è un bene, biologico, economico, sociale, culturale. Ma suscita problemi a volte gravi e addirittura gravissimi: rivolte, guerre, terrorismo, mafia. Insomma il peggio del peggio invece del meglio del meglio come potrebbe e dovrebbe accadere». Da qui siamo partiti per discutere insieme nientemeno che i problemi del mondo. Chiedo scusa ai lettori ma Romano ed io, quando ci incontriamo, facciamo così. *** Tu sei uno che ha fatto carriera. Spero non ti dispiaccia se te lo dico. «Perché dovrebbe dispiacermi? Sì, ho fatto carriera nel senso che ho ricoperto molti incarichi ma assai diversi uno dall’altro, quindi non è una carriera vera e propria. Molti incarichi». Vuoi dirli, possibilmente in ordine cronologico? «Il primo fu quello di ministro dell’Industria, ma durò solo pochi mesi. Quando non ci fu più bisogno di alcune mie competenze mi scaricarono». Eri iscritto a qualche partito? Eri democristiano? «No. Avevo molti buoni amici tra i democristiani, ma non ero un Dc in cerca di prebende. Sono stato di rado iscritto ad un partito. Qualcuno l’ho fondato, per esempio il Pd, nato dall’unione tra i Ds e la Margherita. Comunque non era quello il mio genere». Che cosa facesti al ministero dell’Industria? «Dovevo risolvere due problemi: la crisi della siderurgia di altoforno che era ormai dislocata in Paesi dove il costo di produzione era molto più basso che in Italia e la crisi della chimica petrolifera dove operavano Nino Rovelli della Sir e Raffaele Ursini della Liquichimica, in rotta di collisione con l’Eni e con la Montedison. Non fu un’impresa facile ma qualche risultato lo ottenni». Quella crisi veniva da una lunga storia: cominciata dopo la morte di Enrico Mattei. Il suo successore alla guida dell’Eni, Eugenio Cefis, aveva conquistato la Montedison. «Quella conquista cambiò le cose. Tu scrivesti allora col tuo amico Peppino Turani il libro intitolato “Razza padrona”, fu un classico dell’epoca, un attacco in grande stile contro Cefis». Sì. Un attacco che si risolse positivamente, sia pure a distanza di anni. Si era formato un fronte: Cefis con Fanfani da un lato e dall’altro Rovelli, l’Anic del gruppo Eni e il presidente dell’ente petrolifero Raffaele Girotti dall’altro, con l’appoggio dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. «Ricordo benissimo. Ci fu anche lo scontro per la conquista della Bastogi che fu bloccato da Guido Carli, governatore della Banca d’Italia». Qualche anno dopo tu diventasti presidente dell’Iri e ci restasti per parecchi anni. Ti ricordi come avvenne quell’incarico? «Certo. Mi era stato offerto varie volte dalla Dc e anche da Craxi che era allora presidente del Consiglio, ma io avevo sempre rifiutato. Poi mi telefonasti tu, un amico giornalista ma non un politico. Fu una lunga telefonata e tu mi dicesti per quali ragioni solo io in quella fase potevo e anzi dovevo accettare quell’incarico nell’interesse del Paese. Ti risposi che ci avrei pensato e ci pensai. Infatti il giorno dopo accettai l’incarico. Il mio programma fu quello di trasformare l’Iri in un ente preposto agli investimenti pubblici capaci di rilanciare l’Italia industriale e soprattutto il Mezzogiorno, vendendo invece ai privati le aziende alimentari che non aveva nessun senso detenere in un ente pubblico. Infatti cominciai col vendere la Sme. Ma Craxi era contrario e così Berlusconi presentò un’offerta che ebbe l’effetto di bloccare quella vendita». Però, dopo l’Iri, tu hai presieduto il governo dell’Ulivo dal 1996 al ’98 e fu uno dei migliori governi del dopoguerra. «Ora esageri. Fu un buon governo, sì, buttato giù dagli stessi personaggi che ne avevano patrocinato la nascita». In Italia capita spesso. Tu comunque, con Ciampi tuo ministro del Tesoro, hai portato l’Italia nell’euro. L’Italia, per merito di Ciampi e tuo, è stata tra i fondatori dell’euro. Ne parleremo tra poco. Tu facesti poi un secondo governo, ma prima fosti nominato presidente della Commissione europea. «Sì. Ci rimasi sette anni e portai i membri dell’Ue da 15 a 25. E' stato molto discusso questo spostamento a Est delle frontiere europee. Io ho sempre pensato che fosse necessario e inevitabile». Fu l’Italia a patrocinare la tua nomina a Bruxelles? «Dicono che l’Italia ne fu soddisfatta ma chi volle realmente la mia nomina fu la Gran Bretagna di Tony Blair». Questa è una notizia. «Sì, ma è la verità anche perché il Paese di rilievo nell’Ue non era la Germania ma l’Inghilterra, punto di riferimento europeo degli Stati Uniti d’America». *** Lo guardo fisso mentre ricorda la situazione di allora e penso quanto siano cambiate le cose: nuove alleanze, nuovi equilibri e nuove prospettive. A quell’epoca, che non è poi così remota, il modo corrente di chiamare quel paese era Inghilterra, adesso non sai più quale sia il suo vero nome: Regno Unito? Non è mai stato così diviso. «A che cosa stai pensando?» domanda Romano. Glielo dico e lui sorride con quello sguardo e quel sorriso da parroco di campagna. Ricordi il discorso di Winston Churchill a Zurigo nel 1946? Un anno prima aveva perso le elezioni dopo aver vinto la guerra. Sempre nel ’46 aveva pronunciato a Fulton il famoso discorso sulla “cortina di ferro” che divideva l’Europa in due. Quello di Zurigo fu una vera sorpresa. «Infatti. Disse che il suo Paese non poteva più coltivare la sua indipendenza, la sua storia, considerarsi come l’ago della bilancia mondiale. Non c’era più quel ruolo, perciò doveva scegliere: diventare la cinquantesima stella della bandiera americana oppure partecipare alla costruzione di un’Europa unita di cui Londra sarebbe stata la vera capitale, la sterlina la sua moneta, l’inglese la sua lingua franca e l’America il partner che avrebbe tenuto unito tutto l’Occidente». Allora la società globale non era ancora nata. «Per certi aspetti sì: la Cina di Mao stava emergendo. L’Urss era addirittura a Berlino e aveva occupato mezza Germania, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, i Paesi Baltici, la Polonia. Insomma due imperi contrapposti e uno emergente. Questo Churchill l’aveva capito ma i suoi conservatori no e i laburisti nemmeno». Però non l’aveva capito nessuna delle nazioni europee. Solo alcuni visionari in Italia e in Francia. Mosche bianche. Purtroppo siamo ancora allo stesso punto. Puoi dirmi perché? «Tu l’hai scritto varie volte: l’Europa è un continente di Nazioni. Ai popoli non interessa l’Europa, ma quello che accade nei loro Comuni. La classe dirigente economica è ancora protezionista e non parliamo di quella politica: vuole sì un’Unione europea, confederata non federata. Ogni Stato ha un potere di veto e la sua voce autonoma, la sua lingua, la sua cultura. I partiti e i loro capi non vogliono essere declassati. Perciò gli Stati Uniti d’Europa, che tu e anche io vorremmo, non si faranno». L’Italia però fu tra i fondatori della Comunità, tra i fondatori dell’euro, avrebbe tutto l’interesse alla federazione del continente. «Invece è quella che non lo vuole, come e più degli altri». Renzi? «Non faccio nomi e non voglio personalizzare una così evidente assenza di visione politica. Del resto la Francia è ostile alla federazione come l’Italia e non parliamo della Gran Bretagna». Ma la Germania? «Qui il discorso è più complicato». Hai ragione. Perciò direi di farlo. *** «Abbiamo cominciato con l’immigrazione. Vorrei ripartire da lì. Un anno fa per un incarico avuto dall’Onu mi incontrai con il presidente del Niger, uno dei Paesi più popolati dell’Africa. Esordì con una cifra: il Niger, mi disse, raddoppia ogni dieci anni la sua popolazione ma la vita media scende drammaticamente. Era di 28 anni, adesso è di 15. Lei si rende conto di che cosa significa? Se continua così, tra dieci anni saremo un paese con milioni e milioni di abitanti bambini, un paese di bambini. Una catastrofe immensa. E temo che non sia solo il Niger in queste condizioni». E' spaventoso quanto mi dici. Però da quello che risulta, negli altri Paesi africani le cose demograficamente non stanno così. «E' vero, nel senso che l’età media non diminuisce ma la popolazione comunque aumenta in mezzo ad epidemie, guerre civili, terrorismo». Insomma mi vuoi dire che l’Africa nel bene e nel male è il continente del futuro. «Sì, ma del futuro povero non di quello emergente. Comunque, Africa e Asia: quella è la società globale e noi non possiamo affrontare quel bene e quel male con i nostri Stati nazionali. Saremo barconi affidati alle onde, come quelli che oggi affrontano il mare per venire da noi. C’è un trasferimento d’interi popoli in atto e noi dobbiamo essere uniti per affrontarli». Dovremo imporre a tutti gli europei di ripassarsi la storia della guerra di secessione americana e di Abramo Lincoln. Seicentomila morti costò quella guerra e con la sconfitta della Confederazione nacque la vera Federazione. E fu soltanto il primo passo. L’Europa ha vissuto in mezzo alle guerre per un millennio, quindi abbiamo già dato. Ma non vogliamo essere uniti. Ne parliamo, sta scritto perfino nel Trattato di Lisbona, ma giace ineseguito. Forse la Germania, forse la Merkel. Tu la conosci. Conosci anche Putin e gli africani e i cinesi. Dovrebbero affidare a te di dipanare questa matassa aggrovigliata. «A volte ti scordi di essere un osservatore e prevale l’amicizia, ma io non sono la persona adatta come tu pensi. Non sono un protagonista e neppure mi va di esserlo. Posso dare qualche consiglio ma niente di più». Allora, la Germania. La vedo in continua oscillazione, eppure Kohl non era così, Schröder neppure e tantomeno, prima di lui, Adenauer e Schmidt. Democristiani e socialdemocratici. E la Merkel? «Vuoi conoscere il mio pensiero? Eccolo. La Merkel, di fatto, rappresenta la potenza egemone dell’Europa e questa sua funzione la esercita quando si tratta di far fronte alle emergenze. Ma il popolo tedesco è molto autoreferenziale. Vuole il proprio benessere; il muro di Berlino è caduto, i tedeschi hanno fatto ammenda del nazismo, ma i giovani non sanno neppure che cosa è stato quell’orribile partito. La memoria è stata rimossa, ma dal popolo non dai capi. In alto c’è ancora un complesso di colpa, infatti non c’è riarmo in Germania e non si partecipa a guerre guerreggiate. Ma, lo ripeto, il popolo è autoreferenziale, pensa al suo Paese ed è convinto che anche in una società globale la Germania avrà un ruolo, tanto più che è ormai il vero punto di riferimento in Europa da parte degli americani». Io non credo che la Germania abbia un suo ruolo nella società globale. «Forse hai ragione, ma loro la pensano così». I movimenti antieuropei in Germania sono di modesta entità. «Proprio perché la Germania c’è, ma l’Europa no». Insomma tu non credi che la federazione europea ci sarà. «Io lo spero. Vedo che una delle teste più lucide in materia è Mario Draghi. Lui sta lavorando in quella direzione». E la Merkel lo incoraggia. «Diciamo che lo utilizza. Ma lui va oltre, per nostra fortuna. Però arriverà un momento in cui la Merkel dovrà varcare il suo Rubicone. Speriamo che avvenga». E la Francia? C’è ancora il direttorio franco-tedesco che dovrebbe guidare l’Europa? «Non c’è più da un pezzo. C’era ancora con Mitterrand, poi è svanito anche se la Merkel fa finta che ci sia per pura gentilezza». Infine: Draghi prepara ma Merkel deve concludere. «E' così. Del resto una Banca centrale deve sempre avere un interlocutore politico e sempre è stato così». Concludiamo con il problema libico, se sei d’accordo, che comprende le questioni del Califfato e del terrorismo islamico. «Bisogna distinguere tra l’emergenza e il problema africano, ma di quello abbiamo già parlato. Dunque resta l’emergenza». Qualche tempo fa tu parlasti d’un intervento di alcune potenze musulmane che agendo insieme avrebbero potuto ricostruire moralità e legalità in Libia e affrontare e battere il Califfato. Pensavi alla Turchia, all’Egitto, al Qatar e all’Arabia Saudita. Pensi ancora così? «No. In questi ultimi due anni e in particolare negli ultimi mesi tutto è cambiato. Queste potenze sono ormai contrapposte. Gli interessi sono cambiati. L’Iraq è in totale disfacimento, altrettanto la Siria; l’Iran torna ad affacciarsi sulla scena. La Cina compra petrolio e si inserisce nell’Africa mediterranea, sunniti e sciiti si combattono ovunque. Affidarsi ad un eventuale accordo di queste potenze è diventato impossibile». E allora? «L’emergenza richiede che dopo Gheddafi torni la legalità politica in Libia e il Califfato venga sconfitto militarmente. Il terrorismo resterà più a lungo ma non aspirerà più ad essere anche una potenza politica e militare. A questo punto ci vuole dunque un intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, cioè dei suoi cinque membri permanenti: Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia. Gli ultimi due contano poco. I primi tre moltissimo. Un loro intervento, con l’appoggio locale di Tunisia, Algeria e Marocco, sarebbe decisivo. Se questo accordo ci sarà, un solo governo libico e la sua Banca centrale potrebbero ricostruire il Paese e predisporre un’accoglienza degli africani in cerca di imbarcarsi per l’Europa, via Italia. E spetterebbe all’Europa distribuire l’accoglienza con l’appoggio dell’Onu e delle Autorità europee. Naturalmente un coinvolgimento di Putin comporta una soluzione, che sia pacifica ed equa, della crisi ucraina». Mi pare molto difficile che tutto questo avvenga. «È difficile ma altra soluzione non c’è. Non ti sfugge che questo comporta anche un passo avanti dell’Europa verso una sua Federazione. Le cose si tengono». Ci alziamo e ci stringiamo la mano. Abbiamo parlato per due ore e adesso sono un po’ stanco. Ma Prodi probabilmente si farà un altro giro in bicicletta. © Riproduzione riservata 17 giugno 2015 Da - http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/06/17/news/la-mia-europa-non-c-e-piu-eugenio-scalfari-intervista-romano-prodi-1.217523 Titolo: PRODI e Brexit: "L'incertezza sta sputtanando l'Europa in tutto il mondo" Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2016, 12:38:27 pm Prodi e Brexit: "L'incertezza sta sputtanando l'Europa in tutto il mondo"
L'ex premier a ruota libera al convegno delle Reti di carità: "La politica italiana ha abbandonato il Sud a se stesso. La Germania sbaglia marcia, nessuna reazione all'uscita della Gran Bretagna dall'Ue" Di EMILIO MARRESE 17 ottobre 2016 BOLOGNA - "L'incertezza dell'Unione Europea ci sta sputtanando in tutto il mondo". Così, testuale, si è espresso Romano Prodi rispondendo alle domande della platea del primo convegno nazionale delle Reti della carità in un cinema bolognese. Interrogato sugli effetti della Brexit l'ex premier è stato netto: "Durante la mia presidenza della Commissione Europea (1999-2004 ndr) siamo passati da 15 a 25 stati membri, e ne sono orgoglioso: pensate se adesso la Polonia fosse fuori, sarebbe un'altra Ucraina. Bene, su 25 stati il problema era sempre la Gran Bretagna: bisogna fare un'eccezione su tutto, sulle politiche sociali, sulla mobilità della manodopera eccetera. Si son sempre sentiti americani... Potrei quindi essere tentato anche io di dire che la Brexit non sia poi un male assoluto, ma il punto è che mezzo mondo ci guarda con occhiali britannici, dagli Stati Uniti all'India al Canada. E nemmeno dobbiamo dimenticare che la Gran Bretagna ha il miglior esercito d'Europa. Quindi per me la Brexit è stata una grande sconfitta e se si poteva sperare che almeno servisse a dare la sveglia all'Unione europea, mi sono disilluso anche su questo punto vedendo la lentezza della reazione. A marzo iniziano i negoziati, che dureranno due anni e mezzo, e nessuno ancora reagisce. L'incertezza ci sputtana in giro per il mondo, la frammentazione e il populismo fanno progressi e la Germania rinvia e non decide. I tedeschi hanno sempre una marcia in più, ma stavolta è quella sbagliata". Prodi è stato sollecitato anche su altri temi di politica nazionale e internazionale. Sulla paura della guerra, per esempio: "Non credo che ci sarà una guerra mondiale perché gli americani non hanno più voglia di morti, la Russia non è così potente e la mancanza di intesa tra Russia e Stati Uniti è riuscita nel capolavoro di avvicinare i nemici Russia e Cina. In questa situazione una guerra non interessa a nessuno, ma nemmeno si riusciranno a fermare quelle in corso nel Medio Oriente senza un'intesa tra russi e americani". E a proposito dell'Italia ha detto: "Il nostro sud è stato abbandonato a se stesso, spiace dirlo ma è uscito dall'agenda politica, si è rassegnato. L'immigrazione verso il Nord Italia è ricominciata, basta entrate in un ospedale e sentire che tutti gli infermieri parlano meridionale. Le poche industrie che ci sono, nel barese e nel napoletano, vanno anche bene, ma l'economia del Mezzogiorno è rimasta a macchia di leopardo e io capisco che nessun manager se la sente di rischiare in una macchia di leopardo, piuttosto che investire in Serbia o Montenegro, per poi rischiare il licenziamento. Ovviamente grande parte di responsabilità ce l'ha la criminalità organizzata". © Riproduzione riservata 17 ottobre 2016 Titolo: Prodi: “No alla logica di un sistema di voto anti Grillo” Inserito da: Arlecchino - Dicembre 31, 2016, 02:43:01 pm Unità.tv
@unitaonline · 29 dicembre 2016 Prodi: “No alla logica di un sistema di voto anti Grillo” In una intervista al Corriere della Sera, Romano Prodi mette in guardia di fronte all’ipotesi di fare una legge elettorale per fermare Grillo Negli ultimi anni il Movimento 5 Stelle “si è rafforzato senza dubbio, come tutti i populismi del mondo occidentale. D’altronde, quando si sente dire che occorre fare una legge elettorale perchè tutti hanno paura di favorire Grillo, significa che il suo movimento va avanti; e che gli strumenti usati finora per fermarlo si sono rivelati inadeguati”. E’ quanto afferma in una intervista a Il Corriere della Sera, Romano Prodi, che mette in guardia di fronte all’ipotesi di fare una legge elettorale per fermare Grillo. “Guai a muoversi in questa logica. Le leggi elettorali – aggiunge – debbono essere per sempre, comunque per un lungo periodo. La mia esperienza mi dice che approvarne una dettata da un interesse a breve termine di solito finisce per ritorcersi contro chi la fa”. E a proposito di una legge elettorale, si dice “favorevole a una rivisitazione del cosiddetto Mattarellum. Credo sia l’unica maniera per ricreare un minimo di rapporto tra elettori e eletti”. Quanto alle possibili alleanze politiche, secondo Prodi “Ci può essere magari un’alleanza strumentale col Carroccio, ma il M5S per avere vera forza elettorale deve interpretare l’insoddisfazione in modo generale e esclusivo. Direi onnicomprensivo. E dunque andando al di là di categorie tradizionali come destra, sinistra e centro. La Lega è rimasta ancorata a una rappresentanza parziale, non ha capito il nuovo populismo. Esprime una forza specifica, certo con un’appartenenza forte; ma limitata. Al contrario, il nuovo populismo europeo e statunitense allargano sempre di più l’orizzonte degli interlocutori, e incidono su una gamma sempre più vasta di sensibilità”. Quanto alle vicende del Monte Paschi di Siena e al loro potere di influire sulle inquietudini “La vicenda del Monte dei Paschi di Siena – aggiunge Prodi – è l’esempio tipico di quello che è successo e che sta accadendo. Sono fatti che alimentano la grande paura. Si tratti di Mps o di Banca Etruria, danno corpo a un’ansia nuova. Dieci anni fa chi temeva che mettendo i soldi in banca poteva perderli? Nessuno prima mi veniva a chiedere: professore, rischio se lascio i soldi in banca? Non è solo questione se si guadagna un po’ di più o di meno. La gente teme di perdere tutto quello che ha. In un momento di stagnazione economica domina la paura di vedere volar via i risparmi di una vita”. Da - http://www.unita.tv/focus/prodi-no-alla-logica-di-un-sistema-di-voto-anti-grillo/ Focus Titolo: Prodi rilancia il modello Ulivo: “Un centrosinistra unito non è irripetibile” Inserito da: Arlecchino - Gennaio 24, 2017, 05:50:40 pm Prodi rilancia il modello Ulivo: “Un centrosinistra unito non è irripetibile”
L’ex premier: «C’è un naturale bisogno di stare insieme». Bersani: «Parole sacrosante» Pubblicato il 21/01/2017 - Ultima modifica il 21/01/2017 alle ore 16:06 Quella del centrosinistra unito «non penso sia un’esperienza irripetibile. Non penso sia irripetibile, soprattutto dopo quello che sta succedendo. Io vedo che la gente ha bisogno di sentirsi unita in questo mondo che si disgrega, con Trump, con la Brexit, con le crepe che arrivano dappertutto. Io vedo che c’è un naturale desiderio di riunirsi ma è uno sforzo che non mi sembra impossibile». L’ha detto Romano Prodi, a Bologna rispondendo a una domanda sul dibattito interno al Pd sulla necessità di `un nuovo Prodi´? Per Prodi, è però necessario «riunirsi su delle idee, su un rinnovamento. Perché riunirsi per riunirsi non serve e niente. Il grande problema è ricominciare a parlare di politica. Di problemi veri come la distribuzione del reddito, l’occupazione, la scuola, pensare nel lungo periodo e non nello scontro quotidiano per riformare una società che è diventata profondamente ingiusta. Perché le basi di queste tensioni - ha concluso - sono date dall’ingiustizia». Per Bersani quelle di Prodi sono «parole sacrosante». Il Professore ha parlato di «centrosinistra unito» come esperienza «non irripetibile» e sulla necessità di ricominciare a ragionare su politica e riformismo di sinistra. «Penso che siano parole sacrosante e che sia l’ora, per chiunque la pensi così, di metterci impegno e generosità», sottolinea Bersani. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/01/21/italia/politica/prodi-rilancia-il-modello-ulivo-un-centrosinistra-unito-non-irripetibile-c4YBDqX4ScUazBHCKZbUpK/pagina.html Titolo: Prodi e l'elogio della Dc: «Quei giorni non tornano più» Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2017, 09:05:21 am Prodi e l'elogio della Dc: «Quei giorni non tornano più»
Sala piena in ogni ordine di posti alla Società Dante Alighieri. Platea navigata e segnata dall'universo Dc. E al banco dei relatori, oltre all'ex ministro montiano Andrea Riccardi, c'è Romano Prodi. Da tempo il Professore non era al centro della scena politica come nei giorni che hanno segnato la fine dell'Italicum. Apparizioni, interviste, incursioni nell'attualità caratterizzano questo scorcio di gennaio dell'ex premier. E Prodi non si ritrae. Indicando in un sistema dai collegi uninominali inglesi quello più adeguato alla stabilità e dispensando pillole di saggezza per esortare a «ricomporre, con il cacciavite», una società «frammentata» dove neppure il sistema proporzionale uscito dalla Consulta potrà far tornare «la Prima Repubblica» di cui «non è rimasto più niente». A quella fase è dedicata la prima parte del volume La repubblica degli italianì, di Agostino Giovagnoli, fulcro del rendez vous della sinistra Dc che va in scena a due passi da Montecitorio nel pomeriggio. Una Dc verso la quale Prodi non lesina elogi. «Non era affatto un partito conservatore, era quello della sanità per tutti, della scuola obbligatoria», ricorda il Professore mettendo più volte a confronto gli anni pre-Ulivo con l'attuale situazione politica e sociale. Una società dove alla gente «della storia non gliene importa nulla» dove magistratura, presidenti della Repubblica e Consulta hanno «sostituito» governo e Parlamento riempiendo «il vuoto della frammentazione». Ad ascoltarlo ci sono esponenti della balena bianca come Angelo Sanza e Alessandro Forlani, membri di Sant'Egidio, deputati come Lorenzo Dellai ed ex ministri dell'ultimo governo Prodi come Alessandro Bianchi. Oltre ad una folla di cronisti. E Prodi non risparmia aneddoti, come quando, per esemplificare i drammatici cambi della politica italiana, racconta di un incontro con Helmut Kohl, che, nel «riaccompagnarmi verso l'elicottero mi disse: è stato un bell'incontro, chi viene la prossima volta?». Anche per questo, è il suo invito, «una legge elettorale deve essere forever». Ma, oggi, non basta. «Il nostro compito è quello di ricomporre queste tessere così frammentate in un momento in cui si sta demolendo l'Ue, arriva Trump, crescono i populismi. Ai tempi della Dc, c'era un dibattito politico d'elite ma diffuso e una struttura di partito. La democrazia deve venire da un lavoro collettivo», è l'amara constatazione del Professore. © RIPRODUZIONE RISERVATA Venerdì 27 Gennaio 2017, 10:38 Da - http://www.ilgazzettino.it/italia/politica/romano_prodi_dc-2221632.html Titolo: Prodi: "Trump e Le Pen sono una minaccia. l’Europa a doppia velocità può dare... Inserito da: Arlecchino - Febbraio 07, 2017, 04:09:44 pm Prodi: "Trump e Le Pen sono una minaccia. l’Europa a doppia velocità può dare finalmente la risposta"
L'ex presidente della Commissione sostiene Merkel su un'Unione dal duplice volto: "Prima reazione al populismo" Di ANDREA BONANNI 06 febbraio 2017 "Dico solo una cosa: era ora". Forse Romano Prodi credeva di aver fatto il callo alle molte delusioni che gli sono arrivate dalla "sua" Europa. Ma il tono di voce con cui commenta le ultime dichiarazioni di Angela Merkel sulla necessità di formalizzare una Ue a due velocità, proprio quando l'Europa è sotto l'attacco concentrico di Trump e di Le Pen, lascia trasparire qualche bagliore del vecchio entusiasmo europeista. Ha ragione la Merkel, allora? "Sono due anni che lo ripeto: questa, in mancanza di una condivisa politica europea, è l'unica strada percorribile. Tutti insieme non si riesce a portare avanti il progetto europeo. La mossa della Cancelliera è benvenuta anche perché mi sembra che finalmente dia una prima risposta a Trump e a Le Pen". In che senso? "Ma come? Trump fa la rivoluzione, annuncia scompigli, attacca la Germania e cerca di dividerla dal resto d'Europa, mina la difesa europea. Le Pen predica la morte della Ue e perfino della Nato. Siamo di fronte ad un doppio attacco coordinato: dall'estero e dall'interno. Trump e Le Pen sono i due volti dello stesso pericolo: non capisco come mai non si siano ancora sposati. E finora non era arrivata nessuna reazione. Questa è la risposta che aspettavo, anche se avrei preferito che nascesse da un più ampio dibattito politico. Finalmente la Germania sembra cominciare ad assumersi quel ruolo di leadership che non aveva mai voluto esercitare. Va bene così". Va sicuramente bene per l'Europa. E per l'Italia? Il nostro governo è entusiasta della svolta. Ma siamo sicuri di poter restare nel nocciolo duro? Non è che a Berlino qualcuno pensa di lasciarci fuori? "Il pericolo esiste. Il fatto che la proposta venga dalla sola Germania e arrivi proprio adesso, lascia adito a qualche timore. L'Europa a due velocità non è e non deve diventare un'Europa di prima e di seconda classe. Soprattutto non un'Europa in cui i passeggeri della prima classe decidono chi deve stare in seconda. Sarà il caso che il governo italiano si prepari bene, perché il vertice di Roma, a marzo, escluda questa eventualità ". Quello delle due velocità è un metodo. I contenuti verranno definiti dai nuovi governi che usciranno dalle elezioni in Francia e Germania. A questo punto non sarebbe meglio anticipare il voto anche in Italia per avere un governo forte quando la vera discussione si aprirà? "Ho sempre considerato l'ipotesi di elezioni anticipate una prospettiva poco probabile e, in questa fase, politicamente sbagliata. A maggior ragione, ora, credo che il governo italiano debba avere la tranquillità necessaria per affrontare questi temi. La sfida delle due velocità interpella tutto il Paese e l'Italia deve tornare a diventare un protagonista attivo della politica europea" Come? "Il problema dell'Italia è la demoralizzazione della società, che non crede più in se stessa. Per aggiustare queste cose, ci vuole il cacciavite. E una politica di lungo periodo, che abbia una sua continuità" Che Europa uscirà dal voto francese e tedesco? "Escludendo l'ipotesi di una catastrofe, come la vittoria di Le Pen in Francia, mi sembra che sarà un'Europa comunque non peggiore di questa. La Merkel, che finora era passiva e immobile, si è lanciata in questa proposta. E il suo avversario, Martin Schulz, è sicuramente più europeista di lei. Quanto alla Francia, mi sembra che tutti e tre i candidati dell'area democratica siano più vicini all'Europa del presidente attuale. Fino a qualche tempo fa, come sono andato scrivendo su Il Messaggero, pensavo che questo anno elettorale non avrebbe portato novità sostanziali. Ora vedo possibilità di qualche progresso per l'Europa. E questo anche grazie all'effetto Trump". In che senso? "Lo scossone dato da Trump sta diventando un acceleratore della politica mondiale. Prima, l'America era il fratello maggiore e la Germania era il più grande dei fratelli minori che ubbidivano al primogenito. Con l'arrivo di Trump, l'America non è più un fratello maggiore, ma un cugino dispettoso. E i fratelli europei adesso si trovano a dover reagire". In un'Europa a più velocità non tutti saranno insieme nei vagoni di testa. C'è chi condividerà la moneta e non la difesa, chi parteciperà allo spazio unico di sicurezza ma non all'Europa sociale. Come definire questo nuovo perimetro? "È chiaro che un'Europa a più velocità avrà partecipanti diversi a seconda degli specifici obiettivi. C'è chi è più pronto a mettere in comune la difesa, chi lo spazio unico di sicurezza e chi l'Europa sociale. È tuttavia essenziale che tutti però abbiano l'obiettivo di una integrazione sempre più forte. Chi non lo condivide, chi vuole restare all'Europa delle nazioni, si pone automaticamente al di fuori. Certo io avrei voluto un'Europa che si realizzasse in modo veloce e lineare, una specie di discesa libera mentre adesso dovremo andare avanti con un complicato slalom. L'importante però è che il traguardo sia lo stesso per tutti e che si vada finalmente avanti con valori condivisi ". Lei parla di valori, e intanto Le Pen li fa a pezzi uno per uno... "Proprio per questo è ancora più urgente ricostruire dei valori politici comuni. Tranne forse che in Germania, nel resto d'Europa il vecchio sistema dei partiti si sta slabbrando. La politica appare in stato confusionale. Senza partiti non si riesce certo a tenere saldi i nostri principi fondamentali, a meno che non si riesca a creare un rapporto di collaborazione tra i movimenti che stanno ovunque nascendo dal disfacimento dei partiti tradizionali, siano essi progressisti o conservatori. Senza questo rinnovamento della politica l'Europa non riuscirà a salvaguardare i valori da cui è nata e per cui deve continuare a vivere". © Riproduzione riservata 06 febbraio 2017 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/06/news/prodi_trump_e_le_pen_sono_una_minaccia_l_europa_a_doppia_velocita_puo_dare_finalmente_la_risposta_-157666611/?ref=HREC1-5 Titolo: Scissione Pd, Prodi: “E’ un suicidio” Inserito da: Arlecchino - Febbraio 26, 2017, 12:20:02 am Focus
Unità.tv @unitaonline · 21 febbraio 2017 Scissione Pd, Prodi: “E’ un suicidio” “La crisi di sistema va affrontata, combattuta, sconfitta. Io non mi rassegno affatto”. “Faccio decine di telefonate, certo non sono indifferente alla scissione. Colloqui privati, tali rimangono”. E’ angosciato Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo e del Partito democratico, che in un colloquio pubblicato su La Repubblica racconta: “Nella patologia umana c’è anche il suicidio”. E il riferimento è al progetto del Pd, ma aggiunge “la crisi di sistema va affrontata, combattuta, sconfitta. Io non mi rassegno affatto”. Per questo Prodi ha fatto una serie di telefonate parlando con Matteo Renzi, Pier Luigi Bersani, Paolo Gentiloni, Enrico Letta. E forse anche con Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Ma il contenuto dei colloqui “deve restare privato” dice il professore e la sua opinione su chi e come dovrebbe fare un passo indietro la confida solo agli interlocutori. Adesso il punto è salvare il Partito democratico. E non rassegnarsi al morbo della divisione: “La soluzione, per poi rimettersi insieme, non può certo essere la frammentazione”. Da - http://www.unita.tv/focus/scissione-pd-prodi-e-un-suicidio/ Titolo: PRODI Care Amiche, Cari Amici, Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2017, 11:12:52 pm Care Amiche, Cari Amici,
dopo la conclusione della mia attività politica, ho pensato fosse utile far tesoro delle esperienze internazionali che ho avuto la possibilità e la fortuna di accumulare, come Presidente del Consiglio italiano e come Presidente della Commissione Europea, per continuare ad occuparmi di alcuni problemi che direttamente o indirettamente avranno influenza sulla politica e sull’economia internazionale. Ho già avuto richieste, da alcune organizzazioni, di impegnarmi sul grande tema della pace e su quelli ad essa collegati dell’energia, della fame e su una, quella dell’ONU sul ‘Peace Keeping’ in Africa, sto già lavorando. Per questo motivo e con questi obiettivi è nata nei mesi scorsi la “Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli”. Lo scopo specifico della Fondazione, come recita lo Statuto, è perciò quello di “affrontare le problematiche sociali, culturali, economiche, politiche del mondo, al fine di favorirne la soluzione grazie alle elaborazioni di nuove proposte di collaborazione nel contesto internazionale” (cfr. Statuto). A partire dall’Europa come protagonista di un futuro mondo effettivamente multipolare in cui i nuovi protagonisti come la Cina, l’India, ecc. dovranno condividere più ampie responsabilità. Una Europa che dovrà essere interlocutore privilegiato dei Paesi che la circondano (l’anello degli amici) e che dovrà svolgere azioni positive perché il Mediterraneo diventi sempre più porta per l’Oriente. Una Europa che è vicinissima all’Africa e che, in interazione con l’Onu, non può che occuparsene. Le iniziative della Fondazione, si svilupperanno intorno a questi e ad altri temi e vorrà poterne far partecipi tutti coloro che ad essi sono interessati, promuovendo una rete di conoscenze e di idee utili a far maturare un clima culturale e politico coerente con le sfide che sono in campo. Per rendere possibile questo impegno, anche se con una struttura organizzativa estremamente leggera, ritengo sia utile stabilire un rapporto diretto con tutti quelli che desiderano essere partecipi di questo lavoro. Con loro manterremo un contatto continuo, iscrivendoli ad un nostro Forum per uno scambio di idee ed opinioni sui temi di interesse della Fondazione e tenendoli al corrente delle nostre attività. Spero che tramite questa ‘partecipazione’ la Fondazione potrà essere aiutata a raggiungere i suoi obiettivi. Se siete interessati a essere parte di questa rete vi preghiamo di comunicarcelo registrandovi presso il Forum della Fondazione. Lo trovate qui. Potrete così partecipare alle discussioni in corso sul Forum e ricevere informazioni, comunicati e notizie tramite la Newsletter della Fondazione (avremo cura di non inviarvi piu’ di un messaggio alla settimana). Troverete sul sito della Fondazione il nostro Statuto e una prima serie di indicazioni sulle attività che intendiamo svolgere. Con molta amicizia. Romano Prodi Da - http://www.fondazionepopoli.org/?p=79 Titolo: Romano Prodi contro l'abolizione dei voucher: "Il lavoro va sempre regolamentato Inserito da: Arlecchino - Marzo 23, 2017, 11:15:49 am Romano Prodi contro l'abolizione dei voucher: "Il lavoro va sempre regolamentato"
Il Mattino Pubblicato: 17/03/2017 08:24 CET Aggiornato: 1 ora fa ROMANO PRODI Romano Prodi bolla come un errore l'abolizione dei voucher sui cui la maggioranza di governo ha trovato un accordo. Una mossa, quella dell'esecutivo, che farebbe saltare il referendum abrogativo del 28 maggio prossimo. L'ex premier, il cui governo proprio nel 2008 introdusse i voucher, parla in un'intervista al quotidiano il Mattino. E ricorda che vennero creati per garantire una copertura assicurativa a chi raccoglieva l'uva una ventina di giorni all'anno. All'intervistatore che gli fa notare come l'utilizzo dei voucher nel corso del tempo sia cambiato, Prodi risponde: Purtroppo è così. L'istituto era nato per ridurre il lavoro-nero e, appunto, assicurare una maggiore copertura assicurativa per occupazioni temporanee o saltuarie, ma è stato applicato molto oltre i suoi obiettivi. Al punto che spesso ha finito per raggiungere il risultato opposto, sostituendosi ai regolari contratti di lavoro. Sull'eliminazione totale, chiesta dalla Cgil e ora anche nelle intenzioni del Governo. Un'elementare saggezza avrebbe consigliato di mettersi attorno a un tavolo per cercare la soluzione concreta. Lo strumento resta certamente utile se condotto e regolato in linea con gli obiettivi che si proponeva quando fu introdotto. E sui quali, ricordo, vi era un accordo assai diffuso. Sbagliato dunque abolirli, chiede l'intervistatore? Io penso che i voucher non bisogna farli diventare uno strumento di politica del lavoro generale, ma abolirli completamente non mi sembra saggio: basta farli tornare, lo ripeto, al loro percorso originario, né più né meno. Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/03/17/romano-prodi-voucher-abolizione_n_15420116.html?utm_hp_ref=italy Titolo: Romano Prodi: Le parlamentarie M5S distruggono la democrazia Inserito da: Arlecchino - Maggio 17, 2017, 06:32:20 pm Romano Prodi: Le parlamentarie M5S distruggono la democrazia
Intervistato dal Corriere della Sera, il Professore dice la sua su Grillo, Pd, legge elettorale, banche e molto altro ancora 17/05/2017 08:52 CEST | Aggiornato 1 ora fa "Adesso si diventa parlamentare a 25 anni con 4 preferenze sul web o per la decisione del capo. Questa è la distruzione della democrazia. Quindi come si ricostruisce? Un po' con le primarie ma soprattutto con un sistema elettorale che obblighi il candidato a essere attivo sul territorio". Così, in un'intervista al Corriere della Sera, l'ex premier Romano Prodi punta il dito contro le parlamentarie M5S, ree di "distruggere la democrazia". Nell'intervista Prodi ribadisce la sua proposta per la legge elettorale: un maggioritario puro. Quanto alla proposta di Renzi – 50% proporzionale e 50% maggioritario – risponde così: "Dico la stessa cosa che dissi per il mio sì al referendum: meglio succhiare un osso che un bastone". L'ex premier boccia completamente l'idea di una grande coalizione: "Non capisco come si possa parlare di grande coalizione. I numeri indicano solo che si finirebbe in una grande confusione. Lo scenario sarebbe quello spagnolo: ripetere le elezioni e ripeterle ancora, ma, a differenza della Spagna, sotto l'assedio delle speculazioni internazionali". Tornando ai Cinque Stelle, Prodi commenta così le affermazioni di Beppe Grillo sui cattolici che si riconoscono nel movimento: "Non ho dubbi sul fatto che alcuni cattolici si riconoscano nelle critiche che questi movimenti avanzano, ma ben pochi poi si riconoscono nei rimedi che in modo incongruente vengono proposti. Come fa il mondo cattolico a non condividere la necessità di lottare contro l'ingiustizia su cui si fonda lo stesso Vangelo? Il problema è che quando poi arriva la proposta populista è indefinita, quindi inapplicabile perché sfocia nel qualunquismo". Quanto al Pd, "non sono più iscritto da anni, simpatizzo per le idee su cui si è fondato. Diciamo che sono un senza casa ma vivo in una tenda vicina al Pd". Sul capitolo banche – e Banca Etruria in particolare - il Professore afferma: "Le banche italiane forniscono l'85 per cento delle necessità finanziarie delle nostre imprese. Negli altri Paesi siamo a meno della metà. È quindi chiaro che le nostre banche sono state travolte dalla crisi più che altrove. In Italia non ci sono altri potenti prestatori di denaro. E abbiamo una Borsa molto più debole. Se poi vi è un rischio sistemico e non esiste una alternativa possibile nel mercato, lo Stato deve intervenire [...]. Ho letto attentamente i giornali. L'ex ministro Boschi ha ribadito quanto aveva detto in Parlamento. Finché non si pronuncia Ghizzoni non si arriva a nessuna conclusione". Infine, un passaggio sulla nuova leadership franco-tedesca inaugurata dal neopresidente francese Emmanuel Macron durante il suo viaggio a Berlino. L'Italia finirà nella tenaglia franco tedesca? "A giudicare dalle dichiarazioni del presidente francese, no. Ha sempre richiamato un ruolo italiano pur in un quadro in cui la leadership è quella franco-tedesca. Comunque meglio che tedesca-tedesca. La Francia ha infatti bisogno di una politica simile a quella dell'Italia. Noi dobbiamo inserirci in questa cornice non con lamentele ma con proposte vantaggiose per Italia e Francia". Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/05/17/romano-prodi-le-parlamentarie-m5s-distruggono-la-democrazia_a_22094757/?utm_hp_ref=it-homepage Titolo: PRODI Unione sempre più debole e divisa. Ora l’obbligo è quello di reagire Inserito da: Arlecchino - Settembre 01, 2017, 05:36:04 pm Romano Prodi.
Unione sempre più debole e divisa. Ora l’obbligo è quello di reagire Romano Prodi Economista, accademico e politico, è stato Presidente del Consiglio per due volte (1996-1998 e 2006-2008) Pubblicato il 23/03/2017 L’Europa è senza dubbio il laboratorio che ha prodotto i più grandi e concreti progressi politici: in quest’ormai lungo dopoguerra ha costruito pace, prosperità e sviluppo. Dare tutto ciò come scontato e garantito anche per il futuro è un errore. La storia ce lo insegna. Ben vengano quindi le celebrazioni dei Trattati di Roma se ci servono a ricordare che queste conquiste si difendono soprattutto con la volontà di far progredire un progetto futuro di un’Europa unita e forte. Un progetto che, dalla bocciatura francese e olandese del referendum costituzionale nel 2005, si è interrotto e, con esso, si è interrotto il processo di creazione di una federazione fra Stati uguali. L’entusiasmo genuino e popolare che aveva accompagnato ogni traguardo raggiunto, si è spento e si è trasformato in diffidenza e paura. La solidarietà che era il fondamento della casa comune europea, che ci ha consentito di vivere in pace per tre generazioni, che ha fatto dell’Europa la «casa delle minoranze», oggi arretra e abdica di fronte agli egoismi nazionali e alla paura che mina le fondamenta stesse della nostra Unione. Forti e isolati Siamo sempre più deboli e divisi: di fronte all’arretramento francese, alla recente uscita della Gran Bretagna, l’unica nazione alla quale tutti fanno oggi riferimento è la Germania. Forte per le sue virtù e per i suoi meriti, la Germania sta tuttavia esercitando la sua leadership senza quello sforzo di condivisione con gli altri Paesi membri che è necessario perché la leadership sia accettata in modo coesivo. Si pensi alle tensioni che si sono accumulate intorno al problema greco per il fatto che esso è stato affrontato non in un dialogo tra Bruxelles e Atene ma, sostanzialmente, tra Berlino e Atene. In conseguenza di questa nazionalizzazione dell’Unione, la Commissione Europea ha perduto progressivamente di potere. Ne è prova il fatto che, nel recente Libro bianco che prepara l’incontro di Roma, il presidente Juncker avanza ben 5 proposte di possibili scenari futuri ma non ne sceglie nemmeno una, manifestando così la grande difficoltà politica nella quale oggi si trova la Commissione. La sfida da oltreoceano Allo sfregio della Brexit, ai nazionalismi che corrodono l’idea stessa di Unione, al dilagare dei populismi che sanno solo distruggere, si aggiunge ora la sfida che Trump lancia da oltre oceano. Il Presidente americano rassicura la Cina riconoscendola come «una sola realtà politica», mentre sul fronte europeo plaude alla Brexit, auspica nuovi abbandoni, ridicolizza la nostra Unione definendola una gabbia che rinchiude i Paesi membri e accusa la Germania di abusare del proprio ruolo. Abbiamo bisogno di altre umiliazioni, di essere emarginati ancora di più per reagire? Eppure sappiamo tutti che nessuna nazione da sola, non la grande Germania, non la Francia, non l’Italia o la Spagna, potrà tenere il passo che gli Stati Uniti e la Cina stanno imprimendo al mondo in tutti i campi, da quello militare a quello economico fino a quello scientifico e tecnologico. Credo che queste celebrazioni coincidano con un punto molto basso della storia dell’Europa ma resto convinto che gli avvenimenti indicati in precedenza ci offrano nuovi stimoli e quasi l’obbligo di reagire. Gli avvenimenti recenti ci mostrano con ancora maggiore evidenza che l’Europa è l’unica nostra possibilità di sopravvivenza. L’Europa a due velocità, che da anni sostengo, corrisponde ad una prima necessaria reazione e ci offre la possibilità di rimettere in moto energie e volontà: ci saranno Paesi pronti a mettere in comune la difesa o uno spazio unico di sicurezza, le politiche energetiche o l’Europa sociale. L’obiettivo necessario Ciò che deve restare essenziale è l’obiettivo di una integrazione sempre più forte. Non Paesi di serie A e Paesi di serie B e nessun divieto ai Paesi di aderire, quando si sentiranno pronti per farlo, ai progetti comuni. Certo non è l’Europa che avevo sognato, ma questa soluzione corrisponde ad una possibilità concreta per il futuro della nostra Unione, anche perché sono convinto che in Francia e in Germania, così come accaduto in Olanda, prevarranno i partiti europeisti. Accingiamoci quindi a celebrare senza riserve e senza reticenze le conquiste del passato, riflettiamo a fondo sulle difficoltà presenti e cerchiamo di ripartire, anche se non tutti alla stessa velocità. Verrà poi il tempo in cui ci rimetteremo a camminare tutti insieme: da soli siamo destinati a scomparire. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2017/03/23/esteri/europa/unione-sempre-pi-debole-e-divisa-ora-lobbligo-quello-di-reagire-urMBrTgNRi6HBCjiFn3J6I/pagina.html Titolo: Il Paese del cammello, la metafora di Prodi per descrivere l'incertezza ... Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2017, 06:12:36 pm POLITICA
Il Paese del cammello, la metafora di Prodi per descrivere l'incertezza decisionale in Italia L'ex premier al Cammino di Francesco di Assisi difende lo ius soli: "Fermarsi è stato un errore" 15/09/2017 08:55 CEST | Aggiornato 2 ore fa Maria Antonietta Calabrò Giornalista Dallo ius soli alla ricostruzione post terremoto, quello che preoccupa Romano Prodi è che l'Italia sempre più si è trasformata nel Paese del cammello. Un cammello – racconta scherzando appena arrivato al Cammino di Francesco, l'evento che per quattro giorni organizzato dai frati di Assisi - è un cavallo disegnato da un comitato, da una commissione. Per non sbagliare, anche legittimamente per la paura di sbagliare. Per la paura della reazione dell'opinione pubblica o dell'indeterminatezza delle leggi e quindi dei possibili interventi della magistratura, l'Italia è sprofondata nell'incertezza decisionale. E allora quando ci si mette tutti intorno a un tavolo a disegnare un cavallo, alla fine sul foglio rimane la sagoma di un cammello. Prodi ne parla come di una vera e propria "tragedia, la tragedia della democrazia" in salsa italiana. La politica invece dovrebbe avere coraggio e visione, pensare non solo all'oggi, ma al domani e al dopo domani. Imboccando una strada precisa. Avendo coraggio. La Chiesa superiore della Basilica di Assisi è strapiena e si è dovuto allestire un maxischermo nel piazzale inferiore. Gente attenta, che dopo un 'ora e mezza di intervento di Prodi (sollecitato dalle domande di Gerardo Greco), uscendo si "lamenta" che il pubblico non abbia avuto la possibilità di farle anch'esso le sue domande. Nessun lamento invece per i controlli, stringenti, antiterrorismo, all'ingresso della Basilica, e agli accessi sulla piazza. Un doppio cerchio con i militari con i mitra spianati intorno alla Basilica del Poverello e sotto la lapide che ricorda il pellegrinaggio di Papa Giovanni XIII all'inizio del Concilio Vaticano II (Papa che del resto da pochi giorni è diventato il santo patrono dell'Esercito). Sotto il cielo di Giotto, ridotto in poltiglie dal sisma di vent'anni fa (settembre 1997) e che risplende invece integro di bellezza, Prodi fa di quella ricostruzione l'emblema di un Paese che decide. "Grazie ad un aspetto corale di difesa della Basilica di San Francesco, un Santo caro a tutti, è stato possibile ricostruire così in fretta, in due anni: si potrebbe fare così in tutta l'Italia, perché San Francesco è protettore di tutta l'Italia". Prima dell'incontro l'ex presidente del Consiglio si è inginocchiato, insieme alla moglie Flavia, in preghiera di fronte alla tomba del Santo. "Venti anni fa ricostruire è stato possibile perché il responsabile era una persona autorevolissima, l'allora Commissario straordinario Antonio Paolucci. Ricordo che quando visitai il cantiere, complessivamente lo visitai quattro volte, c'erano dappertutto pezzettini di macerie. Quando ripenso a cosa è stato fatto poi, ritengo che con grandi obiettivi si fanno i miracoli. Paolucci aveva il coraggio di decidere con senso di responsabilità. Così potemmo fare tutto in fretta". "Ma oggi, di fronte alla incertezza della legge e della giustizia - ha osservato ancora - noi abbiamo trasformato il Paese in una struttura di protezione reciproca. Tutti hanno paura, comprensibilmente, di prendere una decisione. E invece, per l'incertezza della legge, abbiamo moltiplicato i controlli e deresponsabilizzato coloro che prendono decisioni complesse". CRESCITA DEL 5 PER CENTO ABOLENDO I TAR E IL CONSIGLIO DI STATO. "Noi siamo bloccati dalla paura di decidere – ha ripetuto - Se abolissimo il Tar o il Consiglio di Stato, cosa che non si può fare, noi cresceremmo subito del 5%. Lo dico con dolore, ma voglio far capire che non si può continuare così. L'incertezza della legge obbliga a non decidere». Le sue parole nel corso del suo intervento al 'Cortile di Francesco' ad Assisi, sul futuro dell'Europa, suonano come una provocazione per esortare le istituzioni italiane ad avere la "forza di volontà" per uscire dal guado e provare a entrare di nuovo "tra i primi della classe in Europa". Perché la ripresa economica c'è ma non è abbastanza. "Siamo sempre nell'ultimo quarto dei Paesi europei. La marea si è alzata dappertutto e anche noi ci stiamo alzando, ma l'incapacità decisionale e l'incertezza delle nostre leggi fanno in modo che a tutte le strutture sia quasi impedito decidere". IUS SOLI. Indecisione e paura anche per la discussione accantonata in Senato sullo ius soli, "ma capisco che la si possa discutere per opportunità dopo la legge finanziaria". Una legge che va fatta, una legge che protegge il futuro del Paese a cominciare dalle pensioni, ancorando i giovani stranieri nati in Italia a stare da noi, dopo aver ricevuto istruzione ("negli istituti tecnici sono i migliori"). Non solo parlano l'italiano, "ma se cambiano "lingua", da me, parlano in dialetto reggiano". Avere troppo paura della reazione dell'opinione pubblica, sterzando a destra, peraltro rischia di essere inefficace ("perché semmai gli italiani votano l'originale"). IL REFERENDUM DI RENZI. A semplificare il sistema istituzionale italiano, Renzi ci aveva provato con i referendum del 2016, o no? Qui Prodi se la cava tirando fuori un esempio d'Oltralpe, quando la Francia bocciò il referendum sull'Europa, semplicemente per indebolire Chirac. "L'Europa non c'entrava nulla, furono i nemici di Chirac a bocciarlo, per colpire il presidente francese. Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/09/15/il-paese-del-cammello-la-metafora-di-prodi-per-descrivere-lincertezza-decisionale-in-italia_a_23210096/?utm_hp_ref=it-homepage Titolo: Prodi su Pisapia: "Non tutte le frittate riescono bene" Inserito da: Arlecchino - Dicembre 07, 2017, 06:29:27 pm Prodi su Pisapia: "Non tutte le frittate riescono bene"
L'ex premier commenta la situazione del centrosinistra dopo l'annuncio del leader di Campo progressista di ritirarsi dalla competizione elettorale 07 dicembre 2017 ROMA - "Non tutte le frittate finiscono con il venir bene...". Lo dice Romano Prodi, alla manifestazione Più libri più liberi a Roma, riferendosi alla situazione del centrosinistra dopo l'annuncio di Giuliano Pisapia, fondatore di Campo progressista, di ritirarsi dalle elezioni. A chi gli chiede se l'ex sindaco di Milano abbia fatto bene, il fondatore dell'Ulivo risponde "non lo so". Poi aggiunge: "Non è stata una defezione, perché Pisapia non aveva deciso. Aveva studiato il campo e poi ha concluso che non era cosa", comparando la situazione del leader di Cp con quella avvenuta tra lui e Matteo Renzi a giugno scorso, quando "la colla non ha funzionato". Tuttavia per l'ex premier, che questa mattina ha incontrato il "pontiere" dem Piero Fassino, "il processo (di ricostruzione del centrosinistra, ndr.) va avanti. Si tenterà di nuovo perché è importante ed utile al Paese. Pisapia ha esplorato e non ha trovato in se stesso o nel gruppo di riferimento motivazioni per andare avanti. E questo mi dispiace", conclude. "D'altra parte - afferma ancora Prodi - la stessa crisi c'è anche a destra. Il problema è che bisognerebbe ricominciare da capo. Io a suo tempo non ho inventato un granché ma c'era un disegno preciso di mettere insieme forze e contenuti. Mi criticarono per il programma di 400 pagine, ma quello di 140 lettere non è molto più soddisfacente. Un programma politico può anche essere di sei volumi... Ma con una coalizione ampia si deve scrivere. È senso di realismo. Perché i tedeschi ci mettono sei mesi a fare il programma di governo? Pensate non sappiano né leggere né scrivere?", conclude. Per Prodi, dunque, non è detta l'ultima parola sul futuro della coalizione di centrosinistra: "I cambiamenti sono troppo recenti per dare un giudizio definitivo. Aspettiamo". © Riproduzione riservata 07 dicembre 2017 Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/12/07/news/prodi_su_pisapia_frittate-183364250/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1 Titolo: Prodi: “Che degrado nel nostro dibattito politico. Senza Europa l’Italia è ... Inserito da: Arlecchino - Dicembre 23, 2017, 08:58:30 pm Prodi: “Che degrado nel nostro dibattito politico. Senza Europa l’Italia è destinata a sparire”
Parla l’ex presidente della Commissione: «I populisti sono la rovina. Il nuovo piano è una prova d’amore per tutti i cittadini dell'Unione» In un primo momento Prodi ha declinato l’offerta di guidare la «task force europea di alto livello». Poi il progetto l’ha convinto «per il grande significato politico» Pubblicato il 23/12/2017 Giuseppe Salvaggiulo Inviato a Bologna Clima natalizio nell’ufficio bolognese di Romano Prodi. Il telefono squilla a ripetizione con l’inno alla gioia di Beethoven. Il Professore cerca di sottrarsi all’intervista: «Il documento è ancora sotto embargo», protesta. Cede alle insistenze solo quando gli mostriamo il testo integrale sul tablet. Allora accetta di discuterlo con La Stampa, in attesa della presentazione ufficiale del rapporto a Bruxelles, a fine gennaio. Che cosa ha risposto quando le hanno proposto questo incarico? «All’inizio, no grazie. Non sono uno specialista nelle tecniche delle politiche sociali. Mi hanno poi convinto spiegandomi che si trattava di elaborare una proposta con un grande significato politico». Quali input ha dato alla task force? «L’input è stato per una proposta di altissimo livello e di grande impatto su tutta la società europea. Abbiamo convenuto su un obiettivo preciso e concreto: concentriamoci su salute, istruzione, edilizia. Scriviamo in modo chiaro, preciso e sintetico, massimo 80 pagine. Altrimenti ci diranno che costruiamo l’ennesima montagna di carta». Alla fine le pagine saranno un centinaio. «Eh, li ho perdonati solo perché ci hanno messo dentro molti grafici e figure». Come spiegare agli Stati che l’Ue si occuperà anche delle infrastrutture sociali? «Secondo la nostra proposta, l’Ue interviene per reperire le risorse finanziarie necessarie per questo grande piano ma i progetti li scelgono gli Stati e gli enti locali, secondo il principio di sussidiarietà. Non c’è un Leviatano europeo, ma un aiuto». Un’altra possibile obiezione: si fa un piano europeo con l’obiettivo surrettizio di aiutare solo alcuni Paesi, per giunta i più spreconi. «Il deficit di infrastrutture sociali riguarda tutti i Paesi, e ciascuno al suo interno ha aree arretrate. Anche la Germania ha un grosso problema nel settore scolastico, e non solo nell’Est». Come avete scelto gli esperti della task force? «Con la libertà che consente di capirsi e di fare le cose bene. Molte nazionalità, molte competenze, molto desiderio di cimentarsi». Quali sono stati gli interlocutori a livello istituzionale? «Il lavoro dei nostri esperti con i loro omologhi nella Commissione è stato eccellente, l’interlocuzione persino sorprendente». E a livello politico? «Il fatto che la presentazione avverrà con il vicepresidente della Commissione, che tra l’altro non è un mediterraneo, significa molto». Poi che cosa accadrà? «Il piano deve essere fatto proprio dalle istituzioni europee. E deve partire subito. Altrimenti diventa uno dei tanti piani inattuati». Come può incidere lo scenario politico? «Il principale punto interrogativo è lo stallo post elettorale in Germania. Tuttavia dal governo che si formerà mi aspetto un pregiudizio favorevole nei confronti di questo piano. E così anche dai governi più scettici, come quello ungherese e quello polacco». Come mai ha questa aspettativa? «La principale critica che si fa all’Ue è di essere l’Europa dei banchieri e dei tecnocrati. Questo piano rappresenta il volto di un’altra Europa, che viene incontro ai bisogni della gente non a chiacchiere, ma con realismo, serietà e solidità finanziaria». Che cosa vuol dire per l’Italia? «Siamo così arretrati in questi settori che da soli potremmo assorbire tutte le risorse disponibili. La differenza la faranno la qualità dei progetti e l’efficienza della spesa». Quali sono oggi le principali minacce per l’Europa? «Migrazioni, destabilizzazione sociale causata dalla globalizzazione e disuguaglianze alimentano il populismo. Questo piano è una prova d’amore tangibile per tutti i cittadini. Il messaggio è che insieme questi problemi si affrontano meglio». Gli ultimi dati di Eurobarometro segnalano uno spostamento dell’opinione pubblica italiana in direzione euroscettica. Che cosa ne pensa? «Ne penso male, molto male. Ma non sono stupito». Perché? «Da un lato è la conseguenza degli errori compiuti nella gestione della crisi da parte europea e dall’altro è la conseguenza di una corsa di una grande parte della classe politica nazionale a cavalcare l’antieuropeismo più demagogico. L’obiettivo di ricavarne benefici elettorali nel breve periodo viene scambiato irresponsabilmente con la certezza di rovinarci nel lungo». E il ritorno di fiamma dell’ipotesi di referendum per uscire dall’euro? «È la misura più allucinante del degrado del dibattito politico italiano. Forse non è chiaro che senza un aggancio all’Europa noi scompariamo dalla faccia della terra». Che cosa intende con un’espressione così radicale? «L’euro è il nostro futuro, nonostante gli orrendi errori fatti negli anni della crisi, che l’hanno trasformato in fonte di nuove divisioni e disuguaglianze. Con questa proposta lavoriamo per riportare l’Europa sulla strada giusta». L’Europa è la prima causa dell’euroscetticismo? «L’accelerazione degli ultimi mesi si innesta su un problema di fondo di cui Bruxelles porta grandi responsabilità. È impossibile farsi amare se non si ama. Vale anche tra istituzioni e popoli». A proposito di amori: che effetto le fa ascoltare discorsi euroscettici anche dalla parte politica di cui lei è stato un fondatore? «È meglio per tutti che lei non mi faccia questa domanda». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/12/23/esteri/prodi-che-degrado-nel-nostro-dibattito-politico-senza-europa-litalia-destinata-a-sparire-4GZWsrCxEjjCGm8KMUB0hL/pagina.html Titolo: Prodi Voterò il centrosinistra chi è fuori dalla coalizione non è per l'unità... Inserito da: Arlecchino - Gennaio 31, 2018, 01:49:21 pm Prodi: "Voterò per il centrosinistra, chi è fuori dalla coalizione non è per l'unità"
Grasso: "Centrosinistra diviso per volontà di Renzi". Fratoianni: "Il Pd ha realizzato i migliori sogni della destra". Bersani: "Nel Pd liquidati tutti quelli che parlavano di centrosinistra". Dai dem, il plauso del coordinatore Guerini: "Riconoscimento del lavoro fatto in direzione di un'azione unitaria contro l'avanzata delle destre". Martina: "Sempre grati al Professore" 30 gennaio 2018 ROMA - Romano Prodi ha ribadito "che certamente andrà a votare, che voterà per l'affermazione del centrosinistra e che le forze fuori dalla coalizione non stanno lavorando per l'unità". Una dichiarazione che arriva dopo che Affaritaliani.it aveva diffuso il testo di un colloquio telefonico con l'ex presidente del Consiglio attribuendogli valutazioni secondo cui Liberi e uguali non è per l'unità del centrosinistra, al contrario del Pd. L'ufficio stampa di Prodi in seguito ha precisato che l'ex premier "non ha rilasciato alcuna intervista" e ne ha chiarito il pensiero: "Il Presidente non ha rilasciato alcuna intervista. Ha solo ribadito che certamente andrà a votare e che voterà per l'affermazione del centrosinistra e che le forze fuori dalla coalizione non stanno lavorando per l'unità. Niente altro". Quindi, anche se non si è trattato di un'intervista, l'ufficio stampa di Prodi non smentisce ma riafferma il pensiero attribuito al Professore: chi è fuori della coalizione non lavora all'unità del centrosinistra. E, tra chi è fuori, figura evidentemente Liberi e Uguali. Da cui partono immediatamente altre precisazioni, tra cui spicca quella rilasciata all'Ansa dal leader Pietro Grasso. "È sotto gli occhi di tutti - dichiara il presidente del Senato ed ex magistrato ora alla guida di LeU - che il centrosinistra non si è potuto ricomporre per volontà di Renzi. La composizione delle liste e le otto fiducie sulle legge elettorale sono segnali inconfutabili della volontà del Pd e di Renzi di fare altro". Poi Grasso porge l'interrogativo: "Prodi ritiene la finta coalizione che ha messo in piedi Renzi, che lo costringerà a votare Casini a Bologna anziché Errani, un centrosinistra unito? Noi in quel tipo di coalizione non ci possiamo stare". Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana, confluita come Mdp in Liberi e Uguali, aggiunge su Twitter: "Vorrei direi con grande rispetto a Prodi che Renzi, il gruppo che gli sta attorno e il Pd, più che l'unità del centrosinistra, hanno in realtà realizzato i migliori sogni della destra...". Per Mdp, la parola a Pier Luigi Bersani: "Che il Pd sia per l'unità del centrosinistra è abbastanza curioso - dichiara da Giovanni Floris a DiMartedì su La7 -. Non la faccio lunga: stiamo andando a votare con una legge che il Pd ha fatto con la destra, non l'ha mica fatta con noi. Nel Pd - aggiunge Bersani, facendo riferimento non alla scissione dai dem che lo coinvolse personalmente ma alla composizione delle liste della coalizione - è stata liquidata buona parte di quelli che parlavano di centrosinistra. Quando candidi in Sicilia sodali di Cuffaro o di Lombardo, in Lombardia il braccio destro di Formigoni, nel cuore dell'Emilia Casini e Lorenzin... È tutta gente che quando pensa al centrosinistra pensa di farlo con Berlusconi". Plaude, invece, al Professore il coordinatore della segreteria dem Lorenzo Guerini: "Il Partito Democratico è impegnato a costruire una coalizione forte e credibile, in grado di rispondere all'avanzata delle destre e delle forze estremiste. Accogliamo quindi con piacere le parole di Romano Prodi, che riconoscono la validità del lavoro fatto in direzione di un'azione unitaria delle forze di centrosinistra (...). Spero che le parole di Prodi siano uno stimolo per lavorare verso un comune obiettivo". Il vice segretario del Pd, Maurizio Martina: "Dobbiamo essere sempre grati a Romano Prodi per il suo contributo all'unità del centrosinistra. Oggi la coalizione guidata dal Pd con Insieme, Civica Popolare e +Europa è l'alternativa plurale e unitaria alla destra e ai cinque stelle". Sul sito Affaritaliani.it il colloquio con Prodi viene riportato in questo modo. Lei il 4 marzo farà il suo dovere, tra virgolette, e andrà a votare? "Certo che voto. Certo che vado a votare". Le liste del Partito democratico e del centrosinistra in generale sono competitive? "Mi auguro che lo siano. Mi auguro che questi lo siano". Però ci sono state tante polemiche dopo la presentazione delle liste e, come lei sa bene, le polemiche non fanno mai bene... "Lasci stare. Sapete benissimo che ho sempre lavorato per la unità del centrosinistra. E quindi io solo questo posso ripetere". Però Liberi e Uguali di Pietro Grasso si presenta alle elezioni politiche contro il Pd in tutta Italia... "Liberi e Uguali non è per l'unità del centrosinistra. Punto". E invece Renzi sì? "Renzi, il gruppo che gli sta attorno, il Pd e chi ha fatto gli accordi con il Pd sono per l'unità del centrosinistra". Invece Grasso, D'Alema e Bersani no? "In questo momento non sono per l'unità del centrosinistra. Punto". Infine alla domanda sull'ipotesi larghe intese modello Germania, Prodi non si sbilancia: "Non rispondo più. Grazie". © Riproduzione riservata 30 gennaio 2018 Da - http://www.repubblica.it/politica/2018/01/30/news/pd_leu_prodi-187658917/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S2.5-T1 Titolo: ROMANO PRODI - CINA AFRICA UE MIGRANTI Inserito da: Arlecchino - Luglio 10, 2018, 11:07:13 am Per gestire i migranti dall'Africa bisogna parlare con Pechino, dice Romano Prodi
La Cina è il primo partner commerciale dell’Africa: il volume di scambi è pari a 180 miliardi di dollari annui. Gli investimenti cinesi si concentrano in Etiopia, Algeria, e Nigeria. Intervista alla Stampa 09 luglio 2018, 15:30 ROMANO PRODI CINA AFRICA UE MIGRANTI Un accordo Ue-Cina per il governo dei flussi migratori dall'Africa: "Capisco che può sembrare un'utopia, ma ci farebbe fare un enorme salto avanti". Ne è convinto Romano Prodi che indica questa strada intervistato da La Stampa. Si tratta di un disegno "complesso, ma so che è importante farlo. Europa e Cina hanno interessi convergenti. "La Cina - ricorda - ha interessi molto forti in Africa per un motivo molto semplice. Ha il 7% delle terre arate del pianeta e il 20% della popolazione mondiale. Finché le persone erano rassegnate a soffrire la fame il problema non si poneva. Quando sono aumentati i consumi e le aspettative individuali e collettive, il governo cinese è andato a cercare cibo, energia e materie prime là dove poteva trovarle: in altri paesi dell'Asia, America Latina e in Africa". Quindi la Cina è un soggetto molto importante nel quadrante africano e per Prodi "basta un minimo di intelligenza politica per capire che uno sviluppo ordinato dell'Africa garantirebbe flussi migratori ordinati". Si tratta innanzitutto di superare le resistenze francesi e "di tutti coloro che conservano interessi specifici sui singoli Stati". Certo sarebbe utile coinvolgere anche Russia e Stati Uniti, ma non è così fondamentale: gli Usa "non hanno bisogno dell'Africa. Sono autosufficienti dal punto di vista energetico, alimentare e delle materie prime. E sostanzialmente la stessa cosa vale per la Russia. Partire con Europa e Cina sarebbe già una gran cosa". Mappa della presenza cinese in Africa La Cina è il primo partner commerciale dell’Africa: il volume di scambi è pari a 180 miliardi di dollari annui. Gli investimenti cinesi si concentrano in Etiopia, Algeria, e Nigeria. È soprattutto l’Etiopia il Paese africano dove Pechino ha riversato negli ultimi dieci anni il maggior numero di investimenti: 330 miliardi in totale a partire dal 2005, di cui 280 in Africa Sub-Sahariana e 50 in Nord Africa. Alta concentrazione nel settore delle infrastrutture: trasporti ed energia. Di recente Yapi Merkezi, il colosso edile turco, ha soffiato ai colossi cinesi l’appalto per la costruzione della linea ferroviaria: un’opera da quasi 2 miliardi di dollari che collegherà Awash con Hara Gebeya, 4 mila chilometri di binari che uniranno il Nord proprio con il Centro dell’Etiopia. Erdogan incalza Washington e infastidisce Pechino, anche se è troppo presto per dire che la Turchia (l’ultima potenza a entrare in Africa, dopo Europa, Stati Uniti, India e Cina) possa inquietare la consolidata presenza cinese. Treni Africa Mauritania La ferrovia garantirà allo Stato africano uno sbocco strategico sul Mar Rosso: i vagoni arriveranno fino a Gibuti. Qui la Cina ha aperto la prima base navale all’estero. La partnership strategica con il piccolo Stato è di importanza strategica per Pechino nel continente, e all'interno del suo progetto di connessione infrastrutturale tra Asia, Europa e Africa: Belt and Road, lanciato nel 2013 dal presidente cinese, Xi Jinping. “Gli Stati Uniti – ha detto Prodi - hanno alcune centinaia di basi militari all’estero e molte migliaia di soldati solo nelle basi militari in Italia. Così gli inglesi, i francesi e i russi: tutti hanno basi militari all’estero. E’ una questione strategica fondamentale. I cinesi ne hanno una e l’hanno messa lì dove passa il petrolio per la Cina”. Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it Da - https://www.agi.it/estero/migranti_africa_libia_cina_intervista_prodi-4130904/news/2018-07-09/ |