Titolo: Muhammad Yunus. Microcredito: ora i poveri si ribellano... Inserito da: Admin - Luglio 04, 2009, 12:31:31 pm «Non è sostegno alle classi deboli, ma un business».
La replica: «Tutto corretto» Microcredito: ora i poveri si ribellano Sotto accusa i metodi e i tassi di interesse in crescita della Grameen Bank creata da Muhammad Yunus DHAKA — Tre anni fa, anche chi non aveva mai sentito prima il suo nome iniziò a ammirare Muhammad Yunus come una sorta di icona globale. Nella motivazione del Premio Nobel per la pace che ricevette nel 2006 con Grameen Bank, venivano sottolineati gli «sforzi per creare sviluppo sociale ed economico dal basso » e l’abilità nel «tradurre una visione in azioni concrete a beneficio di milioni di persone, non solo in Bangladesh». Fu l’apoteosi del microcredito, diffuso a quel punto in oltre cento Paesi. Da allora Yunus, il figlio di un orafo di Chittagong che si fece professore di economia e poi «banchiere dei poveri», per molti occidentali è diventato qualcosa di simile a un santo contemporaneo. Lui ci convive, nel suo studio al quarto piano del grattacielo di proprietà di Grameen Bank a Dhaka: non lo disturba neanche il sospetto che questa venerazione sia un ingranaggio inconscio attraverso cui nei Paesi ricchi ci si autoassolve del dramma della povertà. «I sentimenti nei miei confronti sono genuini — osserva — poi però le persone si sentono impotenti a cambiare il mondo». Nelle sue stanze, Yunus dà un’impressione di profondità semplice e priva di fanatismo. La saletta d’angolo dove lavora sembra più la biblioteca di uno studioso che l’ufficio di un banchiere. Agli altri venti piani dell’edificio, uno dei più belli in città, operano molte delle società da lui fondate con il marchio Grameen — dalla sanità, all’energia, all’informatica, alle telecomunicazioni, al tessile, al settore alimentare — in cui Yunus figura regolarmente presidente del consiglio d’amministrazione. Per la dimensione del Bangladesh, alcuni di questi gruppi sono colossi industriali e leader di mercato ( vedi sotto) ma il quartier generale di Grameen Bank ha un’aria decisamente austera: luci al neon, mobilio spaiato e di risulta, computer di quasi 20 anni fa, faldoni accatastati come in una banca di metà ’800. Una signora velata dorme profondamente sulla scrivania delle segretarie, poi di colpo si sveglia e prende una chiamata. Nella sua lezione alla cerimonia del Nobel nel 2006, Yunus disse che la banca «di routine è in utile» (pari a 13,5 milioni di euro nel 2008) e certo i risultati sono impressionanti: quasi otto milioni di clienti in 85 mila villaggi del Bangladesh prendono il microcredito di Grameen. L’azionariato è composto al 96% dalle donne mutuatarie (il resto è dello Stato), Yunus è «un dipendente» e sui benefici del microcredito esiste ormai una letteratura vasta e seria. Ora la banca deve fare i conti con sfide nuove. Per aiutare i villaggi colpiti dai cicloni sempre più frequenti per l’effetto- serra, dice Yunus, «diamo nuovi prestiti anche se non cancelliamo quelli precedenti: semmai estendiamo le scadenze », ampliando il portafoglio crediti. Fonti ufficiali di Grameen precisano che dopo Aila, l’uragano che un mese fa ha distrutto i raccolti per 5 milioni di persone e le case di centinaia di migliaia, Grameen ha cessato di incassare le rate e dato cibo, acqua, aiuti sanitari. Visto da Kalapara, 300 chilometri più a Sud sul Golfo del Bengala, il quadro appare però alquanto diverso. Qui Aila ha devastato i campi, ucciso il bestiame, contaminato i pozzi. E la filiale di Tiakhali Kalapara di Grameen Bank è passata a riscuotere la sua rata settimanale il giorno dopo il ciclone, racconta la 35enne Taposi (il cognome non lo dà), portavoce di un gruppo di dieci donne clienti. Aiuti non se ne sono visti, mentre a novembre 2007 con il ciclone Sidr (10mila morti) la banca concesse l’equivalente di quasi cinque euro per cliente, pari a due giorni di guadagno di un guidatore di risciò, e un’estensione di sei mesi delle scadenze. «Stavolta non hanno atteso neanche poche ore per riscuotere», dice Taposi. Vista dai villaggi del Bangladesh, Grameen Bank sembra un’istituzione detestata e temuta. Quasi impossibile trovare qualcuno disposto a parlarne bene. Jamal Matubbar, 51 anni, consigliere comunale indipendente di Kalaparouri, un centro a 20 chilometri dal Golfo del Bengala, è drastico: «Quella banca sta creando enormi problemi alla nostra comunità, succhia il sangue alla gente come le formiche rosse». Taposi e il suo gruppo di co-mutuatarie parlano, e a tratti piangono, come si sentissero prigioniere di Grameen. Fra le dieci nessuna ritiene di aver mai avuto un beneficio dai suoi prestiti. Il primo problema è la celebrata (in Occidente) obbligazione di gruppo nel caso di insolvenza individuale: gli altri clienti devono ripianare. Secondo la banca è un modo per responsabilizzare le comunità. Ma Taposi e le sue amiche devono autotassarsi quando una sola manca un pagamento, andando a loro volta in difficoltà: ciò mette Grameen Bank più al riparo dalle perdite ma crea liti e denunce nei villaggi. La banca sostiene che non punisce mai gli insolventi («Non usiamo strumenti legali»), ma non può ignorare che nei gruppi di clienti si litiga, ci si denuncia, ci si pignora a vicenda e si entra in cause che a volte finiscono con la prigione del debitore. A Kalapara, molti credono che questo sistema sia volto a scaricare su altri, cioè sugli stessi clienti, il costo dei ricorsi e delle sofferenze. «Se ho un reddito di un dollaro — si chiede Taposi — perché devo pagare più di un dollaro per un mutuo non mio?». Un ulteriore problema è il nuovo credito preso per sostenere il vecchio, specie quando i prestiti di Grameen vengono usati per comprare da mangiare e non per un’attività. È quanto accade spesso in villaggi colpiti da cicloni o inondazioni, a maggior ragione perché Grameen inizia a riscuotere le sue rate settimanali già una settimana dopo aver concesso il credito. I casi in cui manca il tempo di far fruttare una nuova attività sono frequenti, quindi gli oneri da interessi si accumulano: secondo Sheikh Hasina, primo ministro del Bangladesh, possono arrivare al 36%. Renu Hawlader, 25 anni, racconta di aver chiesto un prestito da 20 mila taka (205 euro) per ristrutturare il negozio di riso del marito, ma ne ha avuti solo 10 mila («Anche se in otto anni non ho mai mancato una rata»). Dalla prima settimana e per 50 in totale, come mostra il suo libretto di banca, Renu ripaga ora 200 taka di capitale, 30 di interessi e 20 di «deposito»: fa un onere del 12,5%. Proprio il «deposito» è la voce più contestata dalle donne di Kalapara: non figura come interesse passivo, ma viene richiesto dalla banca e va su un conto di risparmio che, accusano Renu, Taposi e le altre, la filiale blocca per dieci anni. Ossia, fino a 9 anni dopo l’estinzione del debito. Grameen Bank non si impegna ex ante sul rendimento del deposito, ma chi riscatta i risparmi prima dei dieci anni non riceve interessi: solo il capitale, eroso dall’inflazione. Kanan Bala, 43 anni, racconta: «Mio marito è falegname, dopo sette anni abbiamo dovuto ritirare il deposito per la bottega e la banca si è tenuta gli interessi. Sono con Grameen da 25 anni, ma per me non c’è sviluppo: ho provato a lasciare la banca e per tre volte mi hanno offerto nuovi fondi». Il «deposito» ha così un doppio effetto: vincola le clienti (Taposi dice che cambierebbe istituto, se potesse riavere i suoi soldi) e finanzia Grameen Bank. L’attività dell’istituto è infatti alimentata per intero dai depositi, a un costo del capitale dichiarato dell’8,56%. Grameen Bank contesta la versione di queste donne. Sostiene che pratica un interesse fisso del 10%, non richiede garanzie né depositi, prende impegni preventivi sui rendimenti dei risparmi e versa in ogni caso gli interessi. Quanto alle rate reclamate subito dopo i cicloni, afferma, «questa non è la politica della banca». Seduto nel suo studio di Dhaka, Yunus propone anche un sistema a colori per qualunque prodotto in vendita: «Rosso se nuoce al prossimo, giallo se c’è un dubbio in proposito, verde se non fa alcun male». Le filiali di Grameen nelle campagne del Bangladesh tendono al verde: spesso, sono gli edifici più imponenti del villaggio. Federico Fubini 04 luglio 2009 da corriere.it |